Raffaele Sciortino – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 30 Oct 2025 21:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 No, non è l’egemonia. Cosa c’è in ballo nello scontro tra Cina e Stati Uniti https://www.carmillaonline.com/2023/03/29/no-non-e-legemonia-cosa-ce-in-ballo-nello-scontro-tra-cina-e-stati-uniti/ Wed, 29 Mar 2023 03:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76500 di Fabio Ciabatti

Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios Editore, Trieste 2022, pp. 352, € 29,00

Lo scontro tra Cina è Stati Uniti è solo all’inizio. Si tratta di una complessa e inevitabile sfida sistemica dagli esiti quanto mai incerti. La Cina, per quanto rapidamente ascesa al rango di potenza mondiale, è ben consapevole di essere più debole del suo avversario e per questo non può e non vuole sfidare l’egemonia americana a livello planetario, per quanto essa risulti indebolita. E questo sia detto con [...]]]> di Fabio Ciabatti

Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios Editore, Trieste 2022, pp. 352, € 29,00

Lo scontro tra Cina è Stati Uniti è solo all’inizio. Si tratta di una complessa e inevitabile sfida sistemica dagli esiti quanto mai incerti. La Cina, per quanto rapidamente ascesa al rango di potenza mondiale, è ben consapevole di essere più debole del suo avversario e per questo non può e non vuole sfidare l’egemonia americana a livello planetario, per quanto essa risulti indebolita. E questo sia detto con buona pace degli antimperialisti d’antan, quelli che mai hanno elaborato fino in fondo il lutto per la scomparsa della vecchia Unione Sovietica e per questo immaginano un mondo multipolare in cui possa risplendere la stella del nuovo stato guida socialista. Ciò detto l’imperialismo è una questione quanto mai seria e gli esiti dello scontro tra Cina e America saranno fondamentali per le sorti dell’umanità intera. Con buona pace, questa volta, dei puristi della lotta di classe per i quali l’unica cosa importante è lo scontro diretto tra borghesia e proletariato, concepito in una sorta di vuoto geopolitico generalmente privo di riferimenti alla dimensione bellica.
Questo è solo un piccolo assaggio, con l’aggiunta da parte nostra di un pizzico di pepe polemico, dal ricco ed elaborato piatto rappresentato dall’ultimo libro di Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Si tratta di un testo in cui la geopolitica non è considerata come mero scontro tra potenze statuali ma è concepita come “economia e politica concentrate allo stadio dell’imperialismo”, capace di tenere insieme contraddizioni inter-borghesi e di classe, competizione inter-capitalistica e crisi socio-politica. Strutture, strategie, contingenze è il sottotitolo del libro che esprime il tentativo di dare conto sia degli ineludibili meccanismi oggettivi che governano il nostro mondo a livello planetario sia delle istanze progettuali collettive che cercano di modificare il contesto di riferimento. Il tutto nell’ambito di un processo che rimane aperto a differenti esiti, benché essi non risultino certamente infiniti e indefiniti. 

Partiamo dalle strutture. 

Il sistema dollaro-centrico è in prima istanza una struttura costituitasi e consolidata nei decenni tra dinamiche concorrenziali inter-capitalistiche e lotte di classe nel quadro dell’egemonia mondiale statunitense. Serve a oliare e a “chiudere” il circuito internazionale della produzione di valore; non è dunque una pura escrescenza monetaria e finanziaria così come l’economia statunitense non è “vuota” di attività produttive detenendo ancora la leadership in molti settori a tecnologia avanzata, intrecciati alla ricerca e produzione di guerra, dall’informatica alle tecnologie della comunicazione, dall’industria della salute all’agro-industriale, ai brevetti e ai diritti di proprietà intellettuale. Siamo, piuttosto, di fronte alla forma assunta dalla riproduzione del capitale sociale complessivo nel quadro del passaggio alla sussunzione reale del lavoro1.

La centralità degli Stati Uniti assicura oggi la tenuta della riproduzione del sistema capitalistico a livello mondiale. La loro funzione è nel breve-medio periodo insostituibile secondo Sciortino. La cosiddetta globalizzazione, di cui gli Stati Uniti sono il perno, è la configurazione raggiunta dal mercato mondiale che rappresenta l’arena cruciale per l’estrazione e la realizzazione del plusvalore. Non si tratta di una semplice politica che si possa impunemente dismettere, con buona pace delle illusioni “sovraniste” di restaurare mercati autosufficienti a livello nazionale o regionale.
Il problema nasce dal fatto che l’attuale configurazione del sistema capitalistico non può prescindere neanche dalla Cina che negli anni si è ritagliata il ruolo di fabbrica del mondo con un bacino di forza-lavoro enorme e a basso prezzo. Le catene globali del valore, vera novità della globalizzazione di fine Novecento, passavano per la Cina, importatrice di semilavorati e assemblatrice di prodotti finali da rivendere sui mercati mondiali, principalmente nord-occidentali. 
Questa struttura è in primo luogo minata da un’accumulazione sempre più asfittica su scala mondiale con la crisi storica della profittabilità nel ruolo di “variabile indipendente”. La globalizzazione è al palo con gli investimenti diretti esteri che da un decennio mostrano un trend discendente. Le catene globali del valore, dopo anni di tumultuosa crescita, sono in fase stagnazione e di riorganizzazione, con la tendenza a regionalizzarsi intorno ai tre hub statunitense, tedesco e cinese.
In questo contesto cresce l’insofferenza di attori rilevanti del sistema internazionale verso il prelievo operato dagli Stati Uniti sulle catene del valore globale. Prelievo sempre più oneroso e destabilizzante per il capitale nel suo insieme e per quello cinese in particolare. Tutto ciò acuisce la contraddizione tra l’ascesa dell’economia cinese, che ha fatto emergere una spinta in loco alla crescita dei salari e al reinvestimento dei profitti, e la dinamica della profittabilità nell’Occidente imperialista.

Come reagiscono Stati Uniti e Cina di fronte a questa impasse strutturale? E siamo così giunti alle strategie. In estrema sintesi la Cina si propone di risalire le catene del valore, posizionandosi su produzioni tecnologicamente più avanzate e più profittevoli, gli USA cercano di impedirglielo. Per gli Stati Uniti l’obiettivo è quello di 

affrontare la Cina ma da posizioni di forza, giocando contestualmente su almeno tre piani: tecnologico (dalla guerra prevalentemente commerciale alla guerra tecnologica), strategico-militare (quadrante dell’Indo-Pacifico), diplomatico (nuove alleanze in funzione del contenimento anti-cinese)2.

Da un punto di vista economico non si tratta di rinunciare alla globalizzazione in nome di un rimpatrio massiccio di produzione in precedenza internazionalizzate. Strategia strombazzata dal presidente Donald Trump e sostanzialmente fallita nella sua versione massimalista, ma ancora perseguita nella sua forma limitata con riferimento a settori strategici come quello dei semiconduttori. Si tratta in sostanza di perseguire un decoupling selettivo della Cina e cioè “un disaccoppiamento relativo all’innovazione tecnologica, in particolare digitale, agli standard, all’accesso a dati e conoscenze, all’afflusso di capitali nei settori sensibili”3 con l’obiettivo di bloccare la rincorsa cinese e cristallizzare la vigente divisione internazionale del lavoro, ribadendo la dipendenza cinese contro ogni tentativo di sganciamento dal dollaro e dalla finanza statunitense.
La strategia cinese, come anticipato, mira a una risalita nelle catene del valore.

Quindi, in prospettiva, non più solo merci cinesi esportate, per lo più a contenuto tecnologico medio-basso, ma penetrazione lungo le reti commerciali (accordi regionali di libero scambio, in primis in Asia orientale), infrastrutturali (Nuove Vie della Seta), tecnologiche (reti 5G, Via della Seta Digitale), finanziarie e monetarie (internazionalizzazione del renminbi yuan, moneta digitale, futures sulle materie prime), nonché politiche e militari4.

Il governo cinese, valutando i rapporti di forza, non punta in questa fase a un decoupling di marca cinese, ma a ricavare, fino a quando sarà possibile, margini maggiori di azione su tutti i piani perché la sua strategia prioritaria finalizzata al recupero del ritardo tecnologico impone di non farsi escludere dal mercato mondiale. La Cina, insomma, è ancora in mezzo al guado, perché deve sciogliere dei nodi tutt’altro che secondari come la produttività calante, l’indebitamento crescente, la bolla immobiliare e il difficile accesso alle tecnologie più avanzate. Si pensi, solo per prendere uno dei tanti esempi contenuti nel libro di Sciortino, al già citato settore dei semiconduttori, comparto al centro dell’innovazione digitale nell’hardware e cuore della produzione odierna sia dei mezzi di produzione sia dei beni di consumo, rispetto al quale la Cina soffre un ritardo calcolato in una decina di anni.

Il quadro sommariamente descritto deve tener conto di un’altra variabile fondamentale e cioè la tenuta del fronte interno di entrambi i contendenti. Bisogna, in altri termini, considerare la lotta di classe, latente o esplicita che sia. Sciortino sostiene che la Cina dell’ultimo decennio si è riproposta come la patria della lotta di classe in una fase storica in cui questa è quasi scomparsa nella sua forma manifesta nel resto del mondo e in particolare in Occidente.
La Cina post-rivoluzionaria era un paese prevalentemente contadino che, a partire dalle riforme di Deng Xiao Ping, ha registrato un massiccio afflusso di manodopera nelle città industriali. Ciò si è dato in un primo momento nella forma della semi-proletarizzazione dei contadini, caratterizzata da una divisione di genere e generazionale all’interno delle famiglie dei piccoli coltivatori, con donne non sposate e giovani a lavorare nelle fabbriche e genitori di mezza età impegnati nelle coltivazioni. Questo ha determinato un sorta di ammortizzatore sociale per il nuovo proletariato e al tempo stesso ha contribuito a mantenere basso il costo del lavoro. Un meccanismo sempre meno efficace con il passare delle generazioni. La conflittualità operaia (e non solo) è alla fine esplosa. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, dal 2006 al 2017 la Cina è il paese che ha avuto il più rapido incremento salariale al mondo.
Ma non è tutto. Abbiamo assistito alla classica dialettica tra lotte operaie e sviluppo capitalistico, oramai scomparsa nel mondo nord-occidentale. Insomma, il conflitto di classe è stato uno degli elementi determinanti che ha spinto la dirigenza cinese a perseguire una sorta di compromesso socialdemocratico che, per essere sostenibile, necessita di quella risalita nelle catene del valore di cui abbiamo già parlato. Si tratta dell’unica strategia in grado di catturare una quota maggiore di plusvalore prodotto, da sottrarre alle corporation economico-finanziarie imperialistiche e da redistribuire almeno parzialmente, per esempio creando forme di moderno welfare state, senza bloccare l’accumulazione del capitale cinese. Se questa strategia fallisce è la stessa tenuta sociale della società cinese a essere messa in serio pericolo. Per questo il paese asiatico sta affrontando una sfida esistenziale da cui non si può sottrarre.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti siamo lontani anni luce

dalla coesione sociale alla base del consenso pro Guerra Fredda, incrinato ma non rotto dalla vicenda Vietnam e dai conflitti sociali di quegli anni e poi ricostituitosi in nuove forme nel decennio reaganiano. Essendo il cuore di quel consenso, pur percorso da forti conflitti, la prospettiva di ascesa sociale delle classi lavoratrici e medie. Proprio il fattore oggi latitante negli States – scossi da una polarizzazione sociale non facilmente ricomponibile5.

Negli Stati Uniti negli ultimi anni la lotta di classe è stata surrogata dalla mobilitazione neopopulista in cui i ceti medi in declino hanno preso parola al posto del proletariato, ma con una significativa partecipazione di quest’ultimo. Con una nuova crisi economica che si affaccia le due classi potranno tornare a divaricarsi e i temi più squisitamente sociali verranno in primo piano. Le dinamiche che si annunciano saranno tutt’altro che lineari, ma di certo stanno venendo meno due condizioni che hanno fatto da calmiere sociale rispetto al giro di vite sul salario causato dalle delocalizzazioni avviate alla fine degli anni Settanta: il minor costo delle merci di largo consumo prodotte in Cina e il denaro facile che, grazie alla finanziarizzazione, ha consentito di aggirare momentaneamente la caduta degli stipendi. Insomma, anche negli Stati Uniti la tenuta sociale non può essere data per scontata, soprattutto se venisse meno il prelievo forzoso di valore che il sistema dollaro-centrico della globalizzazione gli assicura.

Per tutti i motivi qui brevemente riassunti, ma esposti con dovizia di particolari nel testo di Sciortino, la conflittualità tra Cina e Stati Uniti è destinata ad acuirsi e può portare fino a uno scontro bellico. La guerra in Ucraina può essere considerata già una prima fase di questa escalation per altro già evidente nel caos geopolitico ingenerato dagli Stati Uniti ovunque si estendono le Vie della Seta. Ma la vera linea rossa è rappresentata da Taiwan cui la Cina non può rinunciare sia per ragioni ideologiche sia per motivi strettamente materiali: 

dal Mar Cinese Orientale a quello Meridionale, in mezzo Taiwan – Washington di fatto circonda l’avversario con un dispositivo militare variegato e potente, da un lato, e con un consolidato sistema di alleanze che risale al secondo dopoguerra, dall’altro … [I]l punto critico per Pechino è il rischio di un blocco dei colli di bottiglia nel Mar Cinese Meridionale – ricco di risorse energetiche e del 10% del pescato mondiale – dove transitano un terzo del commercio marittimo mondiale, due terzi degli scambi Cina-mondo e un terzo delle forniture di greggio alla Cina6.

L’eventuale proclamazione dell’indipendenza di Taiwan, fomentata dagli Stati Uniti, porterebbe inevitabilmente ad un intervento cinese. Si tratterebbe di una replica della provocazione ucraina nei confronti della Russia, con conseguenze davvero imprevedibili.

Quali sono, in conclusione, i possibili esiti dello scontro sino-americano? Il libro recensito ne elenca tre. O forse sarebbe il caso di dire due, perché il primo menzionato da Sciortino, il multipolarismo, può rappresentare a suo giudizio al massimo una fase transitoria, come storicamente è sempre stato nel modo di produzione capitalistico, annuncio di un’aspra competizione inter-capitalistica. Una seconda possibilità è quella di un crollo della Cina che potrebbe anche portare, come esito estremo, al suo smantellamento come stato unitario. Si tratterebbe per Sciortino dello scenario peggiore perché darebbe fiato ad ulteriori decenni di dominio imperialista.
Su questo punto occorre essere chiari e ribadire quanto già accennato nell’apertura di questa recensione. A partire dalla valutazione appena riportata, infatti, qualcuno potrebbe avere la tentazione di utilizzare alcune delle analisi contenute nel testo di Sciortino per sostenere una sorta di frontismo filocinese. Ma non è questa la posizione dell’autore che non crede né alla via cinese al socialismo né alla sua possibile vittoria. La Cina altro non è che un capitalismo più debole nei confronti del suo antagonista statunitense, costretto a lottare per non soccombere. Dati i rapporti di forza, è questo il punto dirimente, 
il gigante asiatico “non può vincere, ma può resistendo contribuire all’approfondimento delle contraddizioni sistemiche (il che peraltro non è certo nelle intenzioni di Pechino, a scanso di fraintendimenti filocinesi)”7.

E così arriviamo al terzo scenario.

Quello di un lungo processo di disarticolazione sistemica che condurrebbe o verso una situazione di caos e “barbarie” dai contorni oggi difficilmente immaginabili, ma potrebbe altresì porre le basi per una fase di transizione a un’organizzazione sociale non capitalistica tra crisi, guerre, rivoluzioni, nella quale si giocheranno le alternative di fondo, a questo tornante della storia, non tanto per questa o quella comunità nazionale (del capitale) quanto per la presenza della comunità umana nel mondo8.

A tal fine l’approfondimento della crisi globale è una condizione necessaria ma non sufficiente perché occorrerebbe mettere in campo forze collettive con adeguate volontà e strategie. Ma qui è la contingenza, apparentemente poco propizia, a farla da padrona.

Qui l’impasse della soggettività è tutta da rielaborare. E richiederebbe .. un bilancio del movimento storico del lavoro salariato nei suoi tentativi di emanciparsi dall’abbraccio del capitale, e dunque da sé stesso, che riallacciando il filo del tempo all’altezza degli attuali nodi possa aiutare a chiarire la posta in palio delle lotte a venire (forse meno lontane di quanto si creda)9.

La questione su quale sia il tipo di soggettività all’altezza dei tempi è appena accennata in queste righe conclusive del volume. Emerge comunque l’esigenza di uno scarto significativo rispetto ai soggetti collettivi che si sono affacciati fin qui sul proscenio della storia, ancora troppo legati al proprio ruolo nell’ambito della produzione e riproduzione capitalistica, quasi che il comunismo potesse essere concepito come una generalizzazione democratica ed egualitaria del lavoro salariato. Mentre, verrebbe da dire utilizzando un linguaggio alquanto enfatico, avremmo forse bisogno di soggettività apocalittiche, in grado di negare sé stesse e nascere a nuova vita attraversando le rovine del nostro mondo. Tornando a toni più prosaici, si può affermare che non sarà il Partito Comunista Cinese a salvarci dalla catastrofe perché esso, nelle condizioni date, ha tutto sommato il ruolo di garantire un esito progressivo alla dialettica tra capitale e lavoro. Un tipo di dialettica che, se sono corrette le analisi di Sciortino, risulta oramai sfiancata a livelle planetario. E che, anche in Cina, inizia ad avere il fiato corto.


  1. Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios Editore, Trieste 2022, p. 29. 

  2. Ivi, p. 88. 

  3. Ivi, p. 90. 

  4. Ivi, 224. 

  5. Ivi, p. 80. 

  6. Ivi, p. 318. 

  7. Ivi, p. 441. 

  8. Ivi, p. 348. 

  9. Ivi, p. 350. 

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Ancora su i dieci anni che sconvolsero il mondo https://www.carmillaonline.com/2019/10/20/ancora-su-i-dieci-anni-che-sconvolsero-il-mondo/ Sat, 19 Oct 2019 22:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55211 di Piero Pagliani

Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, euro 25,00

I libri che permettono di orientarsi tra quanto sta succedendo, non sono poi molti. Sono invariabilmente scritti da autori che non si concentrano su un solo punto – tipicamente l’economia – ma prendono in considerazione la complessità delle società umane e della loro storia. A parte il II e III libro del Capitale di Marx, che io consiglio sempre di ripassare, per quanto riguarda la letteratura contemporanea [...]]]> di Piero Pagliani

Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, euro 25,00

I libri che permettono di orientarsi tra quanto sta succedendo, non sono poi molti. Sono invariabilmente scritti da autori che non si concentrano su un solo punto – tipicamente l’economia – ma prendono in considerazione la complessità delle società umane e della loro storia.
A parte il II e III libro del Capitale di Marx, che io consiglio sempre di ripassare, per quanto riguarda la letteratura contemporanea non italiana suggerirei per iniziare coi lavori di Giovanni Arrighi, Karl Polanyi, Samir Amin, David Harvey e Michael Hudson (non specifico le opere perché si trovano facilmente con una ricerca sul web).
Per quanto riguarda l’Italia la scelta ricade su pochi autori che condividono una particolare caratteristica “esogena”: non essere noti al pubblico che si forma sulle pagine culturali, economiche o politiche dei media mainstream.
Ma l’Italia è un Paese dove si stanno ancora a sentire due economisti che quando la Lehman Brothers fallì scrissero su un prestigioso quotidiano che non ci sarebbe stato alcun contagio, che la crisi dei subprime sarebbe stata passeggera ed era dovuta sostanzialmente al fatto che il pubblico statunitense non sapeva calcolare il montante quando chiedeva un prestito.

Non sapendo nulla di economia, ma conoscendo quasi a memoria i lavori degli autori sopra citati, io affermai invece (assieme a pochi altri) che c’era da aspettarsi una crisi almeno decennale. Non ci voleva in realtà un grande sforzo d’immaginazione e fui persino troppo ottimista.
Bastava aver studiato un autore come Giovanni Arrighi, che nella prima metà degli anni Novanta, mentre i nostri intellettuali ed economisti per la quasi totalità non avevano ancora smaltito la sbornia da Belle Époque reaganiano-clintoniana della “Milano da bere”, avvertiva che si sarebbe andati incontro a una successione di crisi, a partire da quelle finanziarie, e che la globalizzazione avrebbe lasciato il posto a guerre di carattere mondiale (come era successo dopo la Belle Époque edoardiana). Ma un autore così non poteva essere capito e quando era capito doveva essere silenziato, perché andava contro la narrativa ufficiale che – e questo è un punto da non sottovalutare perché ci tocca da vicino – veniva spesso (e viene ancora) reinterpretata e riproposta en marxiste, cosa che nel tempo ha prodotto un conformismo che con variazioni di stile spazia da destra fino a sinistra.

E’ quindi una ventata d’aria pura l’uscita recente di lavori che seguono linee di indagine che possiamo definire di “irriverente rigore”, dove l’irriverenza riguarda il rosario di formule che la sinistra è solita sgranare mentre tutto gli sta sfuggendo di mano. Con alcuni di questi studiosi mantengo rapporti regolari, diretti, come con Pierluigi Fagan, o epistolari come, per l’appunto, Raffaele Sciortino, che incontrai diversi anni fa ad una conferenza, accorgendomi subito che aveva un’attrezzatura teorica e una sensibilità politica di notevole caratura.
Se mi si domanda se suggerisco I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, la mia risposta è: Sì! Leggetelo. Vi farà capire – con chiarezza – molte cose e vi permetterà di interpretare con più libertà e cognizione di causa ciò che è successo e ciò che sta succedendo.

Il titolo stesso è già una sfida cognitiva e politica, perché se la prima parte riecheggia il famoso Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, rivelando così che per Raffaele Sciortino il movimento comunista è un riferimento (cosa che l’Unione Europea ha deciso che d’ora in poi si dovrà sanzionare), la seconda parte tira in ballo un concetto tabù per la sinistra, cioè “geopolitica” e un altro, quello di “populismo”, che per la sinistra in realtà è un insulto, rimanda a una realtà che non deve essere analizzata ma solo, per l’appunto, insultata ed esorcizzata, così come Hillary Clinton fece col basket of deplorables che avrebbe votato Trump (e lo avrebbe fatto vincere!).

Ma se devo individuare un filo conduttore nel lavoro di Sciortino io direi che, a dispetto del sottotitolo, è proprio l’analisi delle relazioni di classe e della loro rilevanza per gli eventi nazionali e globali in un periodo storico in cui gli eventi globali e di conseguenza quelli nazionali sono invece visibilmente dominati da scontri tra nazioni derivanti da strategie geopolitiche mentre gli scontri di classe rimangono – in apparenza – solo di sottofondo.
Malgrado ciò, far riemergere l’importanza, la natura e gli effetti della lotta di classe in questo quadro di scontri tra specifici raggruppamenti nazionali, è un compito essenziale. Non ripeterò mai abbastanza, ad esempio, che la morbosa difesa statunitense (da Bush jr a Trump passando per Obama) del proprio “stile di vita” nasconde il terrore di dover affrontare un enorme scontro sociale qualora i privilegi imperiali degli Usa dovessero venir meno. Ancora, la famosa “strategia del caos” statunitense ha come componente (e speranza) essenziale il deterioramento della situazione interna dei grandi competitor strategici, come la Russia e la Cina, a causa di gravi contraddizioni sociali, prima che il contenimento degli sfidanti l’egemonia mondiale Usa diventi impossibile. E riguardo a questo punto sono tentato di suggerire di imparare a memoria il capitolo intitolato Cina a un bivio?.

Infine, ed è un punto decisivo, la sinistra antimperialista sperimenta notevoli difficoltà a coniugare assieme la questione sociale e la lotta all’aggressività americana, difficoltà speculari a quelle dei puristi del conflitto di classe.
Insomma, quello che si è posto Raffaele Sciortino non è un compito facile, ma è necessario. Se le linee di scontro geopolitiche sono un corollario della natura della crisi sistemica, gli effetti sulla “classe” (un termine che userò come segnaposto dell’ambito politico e sociale di intervento di un ipotetico soggetto anticapitalistico di impostazione marxista), gli effetti sulla classe, dicevamo, di questi scontri geopolitici e i vincoli che la reazione della classe alla crisi pone agli spazi e alle direzioni di manovra di ogni nazione, sono un terreno largamente da scoprire e il lavoro di Sciortino è una sorta di rompighiaccio, non dico solitario ma quasi.

Il problema è che gli studiosi di sinistra e/o di derivazione marxista quasi sempre fanno riferimento a una lotta di classe paradossalmente immateriale, cioè fanno riferimento a uno scontro tra il Basso e l’Alto che avverrebbe in vuoti interstellari, dove divisioni geografiche, localizzazione delle potenze, localizzazione delle risorse, formazioni sociali particolari, insomma tutto quanto costituisce la “fisicità” delle società umane è considerato solo uno schermo di una territorialità che offusca la perfetta geometria di un conflitto che si svolgerebbe nello spazio etereo di un Empireo immaginario.
Raffaele Sciortino, al contrario, immerge la lotta di classe nella materialità del mondo storico e della crisi sistemica che stiamo attraversando. Non è un compito agevole per due ordini di motivi. Il primo è che questa materialità è molto complessa e bisogna passare attraverso una selva di rovi: le comunità, le “organizzazioni territorialiste” (Arrighi) cioè le nazioni, le culture, e la conseguente frantumazione e separazione degli interessi, delle motivazioni e degli obiettivi. Il secondo è che chi prova a districarsi tra questi rovi cercando di comprenderne le radici, gli sviluppi e gli inviluppi, rischia costantemente di essere impallinato con astio da chi pensa che quel groviglio debba essere semplicemente dato alle fiamme, o ignorato con disdegno, o da chi pensa che non esista nemmeno e sia tutta opera della “reazione” per confondere “la classe”.

Ma la crisi sistemica è frutto di un carattere ineliminabile del capitalismo: la sua intrinseca conflittualità che è dovuta alla sua impossibilità di esistere in uno spazio che sia omogeneo, non diviso da differenziali di ogni tipo (sociali, economici, finanziari, militari, organizzativi) da riprodurre in continuazione.
Come ribadiva Fernand Braudel, non esiste capitalismo senza Stato. E infatti Sciortino fin dalle prime pagine fa entrare nel suo quadro la componente statale, che è una componente territoriale e quindi geopolitica: Stato e mercato, uniti nella lotta alla crisi, si tengono per mano …. Che il liberismo sia a-statale e mosso esclusivamente da una logica economica intrinseca dichiarata unica e matematizzabile, è un mito.

E’ in questo quadro che bisogna interpretare la storia della crisi e di quei suoi due esiti coniugati tra loro, la globalizzazione e la finanziarizzazione, che hanno dominato il mondo negli ultimi decenni e che ora sono essi stessi in crisi. La descrizione, nella Parte Prima del libro, dei meccanismi finanziari, delle cause materiali della finanziarizzazione e degli effetti di questa sull’economia materiale (o reale) è precisa. Così come è precisa la descrizione di quella che viene chiamata la “genealogia” della crisi: Nixon shock del 1971 (dichiarazione dell’inconvertibilità del Dollaro in oro), il “lungo ’68” (le lotte studentesche, proletarie e afroamericane, le lotte di liberazione nazionale e la guerra del Vietnam) e infine il Volcker shock del 1979 (aumento improvviso e drammatico dei tassi d’interesse). Qui penso di dover fare solo un paio di appunti. La finanziarizzazione privata che prenderà piede con la Reaganomics e il Thatcherismo è stata resa possibile da quella che possiamo chiamare “finanziarizzazione di stato” che prende l’avvio col Nixon shock, ovvero con la presa d’atto che la grande espansione materiale occidentale del dopoguerra era in fase conclusiva e che la parte economica del sistema mondiale stabilito a Bretton Woods non funzionava più (mentre la parte politico-militare rimaneva in piedi nonostante l’imminente tracollo geopolitico della guerra del Vietnam). In secondo luogo, il Volcker shock era frutto della pace stabilita tra il potere politico e il potere economico, perché la finanziarizzazione, che prese l’avvio già alla fine degli anni ’60, fu per diversi anni contrastata da Washington con le politiche espansive di Lyndon (boia) Johnson e poi di Richard (boia) Nixon (che dichiarò “Adesso siamo tutti keynesiani”) fino all’ultimo anno dell’amministrazione Carter, il 1979 per l’appunto, quando Washington firmò la pace con Wall Street.

Questo è importante perché illustra come le strategie del potere politico e quelle del potere economico non sempre coincidono. E’ nel 1979 che, per dirla con Sciortino, Geoeconomia, geopolitica e lotta di classe (qui dei padroni) si ricongiungono.
Per conoscere questa “genealogia” (e se non la si conosce non si capisce nulla) e ciò che essa ha prodotto, il libro di Sciortino è quanto di meglio si possa trovare. E’ impossibile farne un riassunto ma voglio sottolineare qualche punto specifico. Il primo, che potrebbe sfuggire a una lettura poco attenta, riguarda l’annotazione che Washington oltre ad essere il “massimo predatore e l’unico [soggetto] dotato di rendita sistemica è anche caratterizzato di attitudine revisionista, anti-status quo” (p. 31).

Può sembrare paradossale o bizzarro, ma di questa propensione “rivoluzionaria” del capitale ci si dimentica spesso. Eppure l’aveva sottolineata con chiarezza già Marx. Quel che qui importa però è che essa negli ultimi decenni, grazie proprio alla finanziarizzazione e alla conseguente “liquefazione” della società, per dirla con Zygmunt Bauman, ha fagocitato e preso quando serviva l’aspetto di ribellioni popolari, ha mimato agevolmente movimenti dal basso (come già metteva in guardia Gramsci), e ha suscitato movimenti “popolari” al proprio servizio. Non si tratta solo delle cosiddette “rivoluzioni colorate” ma di qualcosa che in Occidente, cioè qui da noi, ha indotto il fenomeno delle ribellioni contro quegli aspetti macroscopici della “reazione seconda”, ovvero secondaria e residuale, lasciati lì “temporaneamente” dalla “reazione prima”, cioè quella perseguita dalle élite al comando, perché vi si “smaltiscano, accademicamente, i vecchi sentimenti” così che il vero potere possa prosegue nei suoi piani “al riparo della lotta diretta di classe”, come aveva avvertito Pier Paolo Pasolini.

La lotta di classe, quindi. Se c’è un punto che distingue l’analisi di Sciortino dalle altre è proprio questo continuo volere e dovere far riferimento alla lotta di classe.
“Ma non c’è più!” dirà qualcuno. Non è vero, perché la società c’è. Il capitale vorrebbe abolirla, ma non può, perché ne ha bisogno sia in quanto terreno per la produzione di plusvalore, sia in quanto terreno sul quale si erge lo Stato. E dove c’è la società c’è anche, in una forma o in un’altra, la lotta di classe. La crisi stessa c’è perché il capitalismo è un rapporto sociale di classe, non per altro.
Sciortino non fa però riferimento a una lotta di classe che si svolge in spazi eterei, bensì in uno spazio storico. Questo lo porta tra l’altro a criticare l’idea di “capitalismo immateriale” (o cognitivo), visto come “fase” del capitalismo e non come effetto della combinazione finanziarizzazione-globalizzazione che l’autore, giustamente, sceglie di analizzare attraverso il concetto marxiano di “capitale fittizio”.

Sciortino sottolinea la storia e la storicità delle vicende capitalistiche globali (il capitalismo coincide con la sua storia, diceva Samir Amin) e questo gli permette di comprendere in modo profondo i problemi oggi dibattuti. Ad esempio quello del cosiddetto “sovranismo”. Ha senso in ottica storica un ritorno alla “lira keynesiana” (è un termine che uso io, non l’autore, ma credo che mi scuserà)? Ha senso, cioè, il ritorno a un sistema che diede i suoi frutti in una precisa e limitatissima fase della storia capitalistica? Certo, se si esclude la Storia ha un senso, direi un senso accademico, ma se non la si esclude, no (anche perché la crisi è proprio il risultato dell’impetuoso sviluppo “keynesiano” del dopoguerra). Questo è quel che penso io ed è quello che, a quanto ho capito, pensa anche Raffaele Sciortino. Ma se è così non c’è formula capitalistica per superare la crisi senza che essa si ripresenti più aggressiva in tempi non distanti. E se è così, quali sono le gambe materiali su cui far reggere la sovranità democratica di cui le élite fanno strame e che è necessaria all’agibilità politica?
Non solo, ma come si supera la fase populista della lotta di classe senza ricorrere a inutili esorcismi e a richiami a una composizione di classe che non esiste più? Per iniziare ad avere gli strumenti per rispondere io suggerisco di leggere e rileggere almeno il capitoletto intitolato No Tav.
Come è possibile, insomma, districarsi nel complesso dinamico nazione-classe-società?
Sono problemi che Raffaele Sciortino non evita ma, al contrario, getta con forza sul tavolo.
I dieci anni che sconvolsero il mondo è quindi un libro scomodo. Non offre soluzioni né semplici, né elaborate e soprattutto mette in guardia dalle soluzioni astratte. Offre però le coordinate necessarie per impostare correttamente i problemi. Non è poco.

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Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi https://www.carmillaonline.com/2019/04/11/crisi-globale-e-geopolitica-dei-neopopulismi/ Wed, 10 Apr 2019 22:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51888 Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, [...]]]> Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, ha pubblicato precedentemente due testi per lo stesso editore oltre ad aver curato per le edizioni Colibrì, insieme ad Emiliana Armano, un testo di Loren Goldner sul lungo ’68, Revolution in our lifetime, recensito poco tempo fa proprio su Carmilla (qui)1.

Nel corso delle 300 e più pagine che compongono il testo l’autore non si accontenta di esaminare le cause della nuova Grande crisi e le sue conseguenze sull’ordine geopolitico, economico e finanziario internazionale ma anche, e forse soprattutto, gli smottamenti che essa ha suscitato all’interno del sistema socio-politico e di classe che, soprattutto in Occidente, si era andato apparentemente stabilizzando nel corso della seconda metà del ‘900. Oltre a ciò il testo si rivela estremamente stimolante nelle sue riflessioni sull’ascesa della Cina come potenza egemone e delle conseguenze che ciò ha comportato per le politiche commerciali e militari per gli Stati Uniti da Obama a Trump.

Anche in questo caso, però, l’autore non si accontenta di uno sguardo macroeconomico e geopolitico sui fatti trattati, ma collega questi allo sviluppo della lotta di classe sia nel paese asiatico che nel declinante occidente. Occidente in cui la rinascita dei populismi può portare con sé sia un semplice ritorno al nazionalismo di stampo fascista (sovranismo), sia ad imprevedibili ed inaspettati sviluppi per una futura affermazione di una società basata sulla comunità umana e sulla negazione dello sfruttamento generalizzato della specie, dell’ambiente e delle sue risorse a vantaggio di pochi singoli o di una singola classe.

Proprio per questo motivo abbiamo scelto di riportare qui alcuni estratti particolarmente interessanti tratti dalle conclusioni dell’autore (pp. 302-305). [S.M.]

Interviene qui il secondo grande fattore, la spinta dei neopopulismi come forma attuale della lotta di classe in Occidente. Se per il proletariato cinese e, a seguire, per quella parte delle masse espropriate del Sud del mondo costrette a migrare, la prospettiva pare ancora potersi porre nei termini di un miglioramento sociale pur in cambio di duri sacrifici – nell’Occidente in profonda crisi la questione va già oltre. Qui il declassamento e il depauperamento, seppur ancora relativi più che assoluti, alludono a un domani precarissimo in cui l’ascesa sociale è finita né è in vista un nuovo compromesso sociale. E’ la confusa percezione di ciò che sta oggi diventando esperienza di massa. E’ anche il segno della crisi definitiva – per molti difficile da accettare – del movimento operaio e della sinistra, dell’ipotesi di un compromesso riformista via via trasformatosi nella cetomedizzazione dell’operaio. […] Ciò spazza via ogni prospettiva di progresso, linfa vitale di ogni sinistra possibile. Rientrano in questo quadro lo scollamento vertiginoso delle masse ripetto alle cosiddette élite, la sfiducia montante veso ogni ceto politico, la diffidenza crescente verso il tradimento delle classi ricche che, sempre più isolate in mondi dorati, lasciano andare alla deriva il resto. Per ragioni evidenti, e discusse in questo lavoro, tutto ciò non può darsi all’immediato con la ripresa di una qualche prospettiva anticapitalista, ma deve attingere a confuse, contraddittorie, spurie idee e pratiche democratiche – solo, di un democraticismo plebeo tendente al sanculottismo, terrore di ogni liberale degno di questo nome – con le quali cercare di porre rimedio, con una rabbia sorda e spesso disperata, a quella che è oramai una vera e propria disconnessione tra la riproduzione sistemica capitalistica basata sul capitale fittizio e la riproduzione sociale e di una natura sempre più devastate. La mobilitazione dei gilets jaunes – per richiamare quella che si è rivelata finora in Occidente la più combattiva e significativa mobilitazione dalle caratteristiche neopopuliste – è eloquente al riguardo.

La complicazione è che non siamo alla ricomposizione di un nuovo soggetto sociale unitario e trainante, o ai primi confusi segnali di una ricomposizione a venire. Siano alla s/composizione definitiva del soggetto proletario già frantumato dai processi di ristrutturazione capitalistica seguiti al lungo Sessantotto, e atomizzato dalla successiva globalizzazione finanziaria. L’ambivalenza caratteristica dei neopopulismi dal basso sta così nel loro essere espressione d’istanze di classe, ma di una classe iperproletaria liquida, sciolta nella completa subordinazione al rapporto di capitale, di cui pure sente il peso sempre maggiore. L’umanità che rimane – comunque la si voglia definire – deve in qualche modo reagire, non può più vivere come prima, e in alcuni, ancora isolati, casi di mobilitazione che vanno oltre l’urna elettorale, inizia a non voler più vivere come prima. La direzione che assumono queste spinte è per un verso molto al di sotto di quanto abbiamo conosciuto in passato come antagonismo di classe. Potremmo anche tranquillamente dire: infinitamente al di sotto. Ma proprio perché, con un passaggio al limite, è il terreno stesso del confronto che si è dislocato in avanti: non più classe contro classe, già espressione del rapporto contraddittorio e però inscindibile tra capitale e lavoro per soluzioni di compromesso sul terreno comune dello sviluppo, ma in nuce ricerca a tentoni di soluzioni comuni per una comunità senza classi da costituire di fronte al disastro che avanza. Il terreno della contrapposizione è dunque potenzialmente molto più avanzato, più vicino ai nodi profondi della riproduzione di una società sottratta ai meccanismi della competizione e dell’isolamento atomizzante. […]

La dialettica reazione-progresso in Occidente si è definitivamente rotta, come quella ad essa sottesa lotte proletarie-sviluppo capitalistico.
Non siamo di fronte a spinte e tendenze contingenti. Di qui bisogna passare, piaccia o non piaccia. Cittadinismo e sovranismo sono le due matrici, per lo più intrecciate tra di loro, confluite finora nelle variegate spinte neopopuliste. Oggi si può avanzare l’ipotesi che un primo tempo di questa dinamica sta volgendo alla conclusione: da un alto la mobilitazione prevalentemente elettorale ha dato quello che poteva dare e formare nuovi, stabili blocchi sociali si rivela oltremodo difficile; dall’altro, la reazione dei poteri forti globalisti porta los contro sul terreno più duro, mentre la crisi va avanti e con essa le tensioni geopolitiche dentro l’Occidente e tra esso e il resto del mondo. Ci aspetta allora con ogni probabilità un secondo tempo, più declinato verso un nazionalismo più crudo con basi sociali anche proletarie, indice di un inasprimento sia dello scontro sociale interno ai paesi occidentali sia di quello esterno tra gli interessi divergenti dei diversi Stati. I segnali ci sono tutti. Del resto, si dimentica spesso e volentieri che la deriva nazionalista è sempre stata un rischio, e più che solo un rischio, interno allo stesso movimento operaio. Financo nelle forme democratiche del compromesso sociale salariale e welfaristico che, fino a prova contraria, hanno nazionalizzato le masse lavoratrici in un modo più stabile di quanto non avessero conseguito i fascismi. Oggi, siamo però in una fase diversissima: non è in gioco l’integrazione delle masse ma, causa la crisi della globalizzazione, la disintegrazione del tessuto sociale che le ha fin qui tenute avvinte al mercato relativamente regolato dei paesi imperialisti. Il punto è che questa deriva si pone, attenzione, sulla medesima direttrice della ripresa possibile di una più forte mobilitazione sociale, di una massificazione del disagio e della ricerca di vie d’uscita, dagli esiti apertissimi, con varchi che si apriranno anche per soluzioni oggi impensabili.

Siamo, cioè, in una situazione che, a voler scomodare paragoni storici, ricorda un po’ più la Prima Guerra Mondiale -tra conflitti inter-imperialistici, nazionalizzazione del proletariato e però anche possibilità rivoluzionarie – che non la Seconda, chiusa fin dall’inizio a ogni possibile ribaltamento dell’ordine capitalistico nonostante fosse il prodotto di una sua profondissima crisi.
Le forme concrete, politiche e geopolitiche, che questo processo assumerà sono tutte da vedere.


  1. R. Sciortino, Obama nella crisi globale (Asterios 2010) e Eurocrisi, Eurobond e lotta sul debito (Asterios 2011)  

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La rivoluzione nella nostra vita https://www.carmillaonline.com/2019/02/03/la-rivoluzione-nella-nostra-vita/ Sat, 02 Feb 2019 23:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50733 di Matteo Montaguti

Emiliana Armano e Raffaele Sciortino (a cura di), Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, Colibrì 2018, pp. 112, € 14,00.

«Il problema per me è sempre stato quello di usare la scrittura come arma» Loren Goldner

Nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto, caduto nell’anno appena passato, sono state numerose le pubblicazioni, accademiche e non, che ne hanno tentato un bilancio, perlopiù di tipo storiografico, memorialistico o sociologico, oppure di basso taglio giornalistico. Ben poche, invece, quelle che hanno provato a farne un bilancio politico nitido, di [...]]]> di Matteo Montaguti

Emiliana Armano e Raffaele Sciortino (a cura di), Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, Colibrì 2018, pp. 112, € 14,00.

«Il problema per me è sempre stato quello di usare la scrittura come arma»
Loren Goldner

Nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto, caduto nell’anno appena passato, sono state numerose le pubblicazioni, accademiche e non, che ne hanno tentato un bilancio, perlopiù di tipo storiografico, memorialistico o sociologico, oppure di basso taglio giornalistico. Ben poche, invece, quelle che hanno provato a farne un bilancio politico nitido, di lungo corso e soprattutto di parte. Tra queste va sicuramente segnalato, anche rispetto alla ricorrenza del mezzo secolo che ci separa dalla rivolta operaia del 1969, Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, curata da Emiliana Armano e Raffaele Sciortino per i tipi di Edizioni Colibrì.
Loren Goldner, settantenne militante marxista e atipico intellettuale statunitense, è una figura poco conosciuta in Italia ma di spessore internazionale: ha al suo attivo un’infaticabile attività teorica e di pubblicista, con numerosi saggi di critica dell’economia politica, filosofici, letterari (alcuni dei quali tradotti anche in italiano, come L’avanguardia della regressione. Pensiero dialettico e parodie post-moderne nell’era del capitale fittizio e, in concomitanza con la crisi dei subprime in America, il volume Capitale fittizio e crisi del capitalismo, entrambi delle edizioni PonSinMor) e conduce da diversi decenni un recupero critico della storia di classe e una rigorosa analisi sulle trasformazioni del capitale, in particolare per quanto riguarda la sua finanziarizzazione, rileggendo la nozione marxiana di “capitale fittizio” alla luce della lunga crisi del dollaro iniziata dopo la rottura degli accordi di Bretton Woods.

Il volume curato da Armano e Sciortino è un denso ma agile strumento utile per la difficile operazione di definire un punto di vista militante e un metodo di pensiero autonomo che sappiano confrontarsi, oggi, con i tempi, le espressioni e le forme globali della lotta di classe – e quindi di un agire politico di parte – senza cedere alla rassegnazione dello sguardo contingente, alla vana nostalgia per il passato («la nostalgia non è un’emozione da marxisti […] cerchiamo di guardare al futuro a partire da una valutazione lucida e realistica del presente», p.72), alle facili narrazioni egemoni e alle difficili impasse della propria fase. Lo fa ripercorrendo un’esperienza soggettiva – ma anche collettiva – che non ha mai smesso, con coerenza e determinazione, di «rielaborare la teoria comunista come chiave interpretativa per leggere il presente» (p. 11), anche a costo di scontare la propria irriducibile risolutezza in solitudine politica e marginalità culturale, destino comune a ogni pensiero di rottura. Proprio perché è così difficile sciogliere la forma di vita dall’analisi radicale e dalla prassi politica di Loren Goldner, per tutto il volume la testimonianza autobiografica, la storia militante e il saggio si intrecciano ibridandosi in un discorso sfaccettato e solo apparentemente disomogeneo, diviso in quattro conversazioni (Marx a Berkeley nel ’68; Il lungo Sessantotto in prospettiva storica: un assalto al cielo; Per allargare lo sguardo: Asia oggi e ieri; Ritorno alla teoria e prospettive) accomunate dal seguire «sul filo del tempo» i tortuosi movimenti autonomi dei subalterni nel loro processo di costituzione in classe, precedute da una preziosa introduzione degli autori e da una lettera dove si ripercorre in sommi capi la biografia dell’intervistato.

Nella prima conversazione Loren Goldner, originario di una famiglia proletaria della Bay Area, ripercorre il processo di politicizzazione e soggettivazione di un giovane studente-lavoratore nel contesto degli anni Sessanta americani, caratterizzati dall’ascesa di un movimento eterogeno e dalle diverse componenti di classe, black, di genere, controculturali e generazionali, a partire da uno degli epicentri più importanti della contestazione studentesca, l’Università di Berkeley. È qui che incontra, dopo l’apprendistato nelle manifestazioni per i diritti dei neri e contro la guerra in Vietnam, Marx e la militanza dentro alcuni gruppi radicali della New Left, un impegno politico che si caratterizzerà – a dispetto delle pose maoiste e terzomondiste, o delle derive liberal e hippie diffuse del movimento – per un’eclettica ricerca della teoria marxista rivoluzionaria europea, attraverso un’originale commistione di influenze luxemburghiane, trotskiste e bordighiste, di critica antistalinista e suggestioni consiliariste. Qualche decennio prima, negli anni Quaranta, un mix in qualche modo analogo del milieu eretico trotzkista con la classe operaia black aveva generato, sempre negli Stati Uniti, la Johnson-Forest Tendency (CLR James, Raya Dunajevskaya, Grace Lee Boggs, Martin Glaberman) e le successive esperienze proto-operaiste di Detroit (Corrispondance e Facing Reality), da cui negli anni Cinquanta per il tramite del francese Socialisme ou Barbarie il cremonese Danilo Montaldi sarebbe stato influenzato, e a sua volta avrebbe influenzato le conricerche di Romano Alquati durante l’esperienza dei «Quaderni Rossi».
Goldner, che all’inizio degli anni Settanta abbandona i gruppi della New Left rimanendo però militante indipendente attivo nelle più diverse lotte, esplicita fin da subito una critica agli afflati controculturali, edonistici e di liberazione individuale del movimento statunitense, finiti poi per essere sussunti – una volta disgiunti da una critica sistemica complessiva e da una prospettiva di superamento del capitalismo con al centro il concetto di classe – dalla controrivoluzione neoliberista e dall’ideologia del postmoderno, e appare lucido nel vedere la distanza siderale tra i partitini della Nuova Sinistra e le manifestazioni di autonomia – al tempo sempre più radicale e in ascesa – della classe operaia, in particolare di quella composizione egemonizzata dall’operaio-massa dequalificato e – negli Stati Uniti – razzializzato che vedrà nel 1973 il suo apice di conflittualità internazionale.

Nella seconda conversazione, in cui viene esplicitato il perché Loren Goldner possa essere collocato oltre l’ambito ristretto e settario delle sinistre comuniste, vengono appunto approfonditi i motivi della dimensione globale e i limiti intrinseci del “lungo Sessantotto”, considerato al contempo un processo di ampio e lungo respiro preparatosi negli anni Sessanta ed esploso poi per tutti gli anni Settanta e una parentesi rispetto ai cicli lotte-ristrutturazione precedenti e al più lungo periodo di sviluppo del capitalismo. Una parentesi che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento come un punto nodale e un vero spartiacque, le cui radici soggettive affondano nelle potenzialità di rottura dell’iniziativa autonoma di una precisa composizione di classe, e

nella ripresa generalizzata, ancorché breve, dell’“utopia concreta”, quella faccia nascosta del triste mondo della misurabilità cui la vita quotidiana nel capitalismo è sottoposta, utopia scomparsa dagli anni Venti in poi. […] La classe operaia francese con il più lungo sciopero generale della storia, il lungo Sessantotto in Italia, le lotte a gatto selvaggio nell’industria britannica che costrinsero un’inchiesta parlamentare a parlare di “malattia britannica”, i successi del movimento operaio clandestino nella Spagna di Franco, la perdita di controllo da parte del management nelle fabbriche fin dentro gli Stati Uniti: ecco i tanti momenti di rottura in cui le persone, in massa, videro, seppur per poco, la possibilità di un altro tipo di vita prodotta dalla loro stessa autoattivazione (pp. 60-61).

Dalla narrazione emergono le impasse di quest’ultima offensiva autonoma proletaria, «rivolta su scala mondiale contro il sistema della catena di montaggio in fabbrica» (p. 61), e l’inadeguatezza delle teorie autogestionarie del «controllo operaio», concretizzatasi nel mancato passaggio politico «dalla critica pratica della produzione, e circolazione, immediata a quella della riproduzione sociale complessiva» (p. 12), ovvero dalla mancata – e forse oggettivamente indeterminabile in quel frangente – fuoriuscita dei rapporti di potere operaio accumulati in fabbrica nel potere operaio – politico, ma non solo – dentro e sulla società intera: il vero enigma che il lungo Sessantotto ha posto e continua a porre oggi. Proprio qua si nota come il punto di vista di Goldner prenda le mosse nel porre soggettivamente la potenza della classe prima del potere del capitale: prima le lotte, poi lo sviluppo capitalistico, prima il movimento conflittuale degli operai, poi la ristrutturazione del modello di accumulazione e comando capitalista. Un posizionamento che ricalca quel pensiero della rottura elaborato dall’operaismo italiano, non a caso, proprio durante gli anni Sessanta e Settanta.

Nella terza conversazione, sul filo della ristrutturazione capitalista globalizzata in risposta al ciclo di lotte del lungo Sessantotto, la narrazione di Loren Goldner passa ad analizzare il ruolo dell’Asia orientale quale contemporanea fabbrica globale ed epicentro di una rinnovata conflittualità operaia di massa, attraverso le sue esperienze militanti tra anni Novanta e anni Duemila in Corea del Sud, Giappone e Cina. L’analisi ha il pregio di mantenere come suo soggetto le espressioni e le tendenze di autonomia di classe manifestatesi nelle lotte dei lavoratori dei diversi paesi, senza disgiungerle dall’analisi del contesto storico e del rapporto sociale di capitale determinati per ognuna. Emerge uno scenario dove, a fronte di ogni equivoco e nostalgia per alcune similarità tecniche, emerge chiaramente come la dinamica della composizione di classe asiatica non possa essere assimilabile al percorso dell’operaio-massa occidentale e fordista degli anni Sessanta e Settanta, per via delle nuove forme flessibili di accumulazione, del contesto di crisi capitalistica mondiale e del “recupero accelerato del ritardo” in cui va collocata: «le classi lavoratrici europee e americane sono venute su e poi sono declinate in un lasso di tempo ampio, oltre cento anni di sviluppo capitalistico caratterizzato da effervescenza sociale, scioperi e sindacalizzazione di massa. Lo sviluppo asiatico si è concentrato tutto in pochi decenni» (p. 80). Appare interessante soprattutto per quanto riguarda il gigante cinese, ultima potenza mondiale ancora governata saldamente da un Partito comunista che, almeno formalmente, dice di rifarsi al marxismo ma teme sopra ogni altra cosa una rivoluzione operaia. Nell’ultimo decennio la Cina, a dispetto di ogni ipotesi di “società armoniosa”, ha visto crescere esponenzialmente scioperi, scontri e lotte radicali dei lavoratori dei suoi immensi stabilimenti produttivi, e «contenere questo crescente attivismo operaio e più in generale popolare è la massima priorità dell’élite del Partito comunista cinese» (p. 79.), in particolar modo «dopo la crisi di piazza Tien An Men del 1989 […] il tacito contratto tra il Pcc e la popolazione è stato: noi provvediamo a creare standard di vita crescenti e voi vi tenete lontani dalla politica» (p. 83). Goldner è capace così – discostandosi in modo anche brusco dall’approccio di Arrighi e Silver – di delineare alcune profonde contraddizioni e tendenze esplosive dello sviluppo e della proiezione geopolitica cinese, soprattutto successive la grande crisi del 2008 e a fronte della decadenza non solo statunitense, ma della stessa capacità di valorizzazione e riproduzione sociale del capitalismo contemporaneo.

Proprio questo punto viene inserito nella quarta e ultima conversazione, in cui si tirano le fila della periodizzazione di lungo periodo dello sviluppo – e decadenza – capitalista rielaborata da Goldner attraverso anche la centralità della categoria di capitale fittizio, e si provano a tracciare prospettive e linee di tendenza delle forme del conflitto e della ricomposizione di classe da un punto di vista globale e non eurocentrico, anche in vista dei segni sempre meno aleatori, a distanza di un decennio dalla crisi del 2008, dell’approssimarsi di una tempesta finanziaria peggiore di quella provocata dall’esplosione della bolla dei subprime, che ha già portato una volta l’economia mondiale sull’orlo del collasso e i cui effetti sociali, politici, geopolitici e ambientali sono sotto gli occhi di tutti.
Basti pensare, infatti, che nel 2018 si è stimato vi fossero 1,64 quadrilioni (milioni di miliardi) di dollari investiti in derivati, un oceano magmatico di capitale fittizio, titoli speculativi e liquidità tossica quiescente – solo nelle banche tedesche ve ne sarebbero più di 54.700 miliardi – pronto a eruttare. Una bomba a orologeria di debito privato e pubblico, il cui costo di gestione sta diventando insostenibile per gli apprendisti stregoni della borghesia, e di cui di recente si sono segnalate preoccupanti avvisaglie di scosse sui mercati finanziari mondiali. Per esorcizzare la paura di vedere il mondo precipitare in un secondo e più devastante 2008 si è preferito «così continuare ad alimentare all’infinito la piramide del debito attraverso le banche centrali, il sistema finanziario e il credito al consumo. In questo consiste il Quantitative Easing praticato dalla Federal Reserve, dalla Banca Centrale Europea e dalla Banca del Giappone dopo il crollo del 2008; il che ha permesso di guadagnare tempo e allontanare il collasso, al prezzo però di una crescita reale anemica» (p.93), ma non di evitare che le contraddizioni di un capitalismo in crisi di valorizzazione e sorretto da uno schema Ponzi di capitale fittizio vengano, prima o poi, al pettine. Occorre tenersi lucidamente pronti a questa possibilità e agli effetti sulla composizione di classe che essa può dischiudere, sembra suggerire Goldner, senza «essere eccessivamente pessimisti sulla situazione attuale», e senza «nulla da rimpiangere nella scomparsa della socialdemocrazia, dello stalinismo, del terzomondismo e dello statalismo welfarista, false utopie che hanno nascosto la cruda realtà del capitalismo» (pp. 95-96). Insomma, mai come oggi, in una fase di accelerazione dei processi di frammentazione di classe in corso e al contempo di ripresa di una conflittualità di certo confusa e spuria ma sempre più di massa e radicale, appare necessario ritornare criticamente alla sconfitta dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta per bilanciarne la portata e distillarne gli strumenti per superarla, in vista di un domani che rimane ancora tutto da scrivere.

«Sono ovviamente passati cinquant’anni da allora. E può sembrare assurdo leggerlo come l’apertura di una fase nuova della lotta di classe. Ma effettivamente in tutti i paesi toccati dal Sessantotto nulla è stato più come prima, la crisi che si è aperta allora non è mai finita» (p.63). Il “lungo Sessantotto”, quindi, non solo come crisi – e quindi trasformazione – irreversibile dei modelli di accumulazione vigenti nei contesti a capitalismo avanzato e crisi non riformabile della continuità storica del movimento operaio, ma anche come crisi irrisolta dei processi di soggettivazione e controsoggettivazione all’altezza del passaggio alla piena sussunzione reale; un processo-evento che ha rappresentato contemporaneamente chiusura e anticipazione di una determinata fase storica, che tuttora interroga i nodi aperti e contraddizioni vive del nostro presente.

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