potere – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Oct 2025 20:14:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il corpo agonico e agonistico nel rape and revenge movie https://www.carmillaonline.com/2025/10/09/il-corpo-agonico-e-agonistico-nel-rape-and-revenge-movie/ Thu, 09 Oct 2025 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90227 di Gioacchino Toni

Tra i saggi che compongono il volume curato da Anna Chiara Corradino e Serena Guarracino, L’estasi del martirio. Metamorfosi del piacere e del dolore nell’esperienza estetica (Mimesis, 2025), dedicato alla rappresentazione moderna delle pratiche BDSM e delle dinamiche di potere ad esse correlate, il contributo di Mirko Lino, Il corpo agonico e agonistico nel rape and revenge movie. I Spit on Your Grave (1978) e Revenge (2017), affronta la rappresentazione del corpo della final girl nel genere rape-revenge.

Associato ai film di exploitation che hanno conosciuto un certo successo negli anni Settanta del secolo scorso, tale [...]]]> di Gioacchino Toni

Tra i saggi che compongono il volume curato da Anna Chiara Corradino e Serena Guarracino, L’estasi del martirio. Metamorfosi del piacere e del dolore nell’esperienza estetica (Mimesis, 2025), dedicato alla rappresentazione moderna delle pratiche BDSM e delle dinamiche di potere ad esse correlate, il contributo di Mirko Lino, Il corpo agonico e agonistico nel rape and revenge movie. I Spit on Your Grave (1978) e Revenge (2017), affronta la rappresentazione del corpo della final girl nel genere rape-revenge.

Associato ai film di exploitation che hanno conosciuto un certo successo negli anni Settanta del secolo scorso, tale genere è solitamente caratterizzato da prodotti di scarsa qualità, da scene di cruda e insistita violenza e dal ricorso a uno schema narrativo di causa-effetto piuttosto semplice: al violento stupro subito da una donna nella parte centrale del film fa seguito un’altrettanto violenta vendetta condotta dalla donna stessa o da una persona ad essa legata.

Last House on the Left (L’ultima casa a sinistra, 1972) di Wes Craven e I Spit on Your Grave (Non violentate Jennifer, 1978) di Meir Zarchi, secondo lo studioso, rappresentano il modello formale su cui si è consolidato il genere rape-revenge. In tali film la visione e la condotta moderna-progressista delle giovani donne entra in collisione con un retrogrado conservatorismo maschilista che giunge a manifestarsi attraverso la violenza sessuale a cui, in alcuni casi, segue l’omicidio. Maggiori sono le violenze e le umiliazioni subite dalla vittima, maggiore sarà agli occhi degli spettatori la legittimazione della violenza a cui potrà ricorrere la sua vendetta.

Se, come nel caso di I Spit on Your Grave, la vendetta è consumata direttamente dalla vittima, così come se fosse attuata da un’altra donna, si può parlare di “rivendicazione femminista”, mentre nel caso, come in Last House on the Left, spetti a un uomo il ruolo di vendicatore, allora si dovrebbe parlare di un’istanza di “riaffermazione maschile/patriarcale”.

A partire da tali modelli, il binomio “stupro-vendetta” è stato costantemente riarticolato nel corso del tempo, come dimostrano i remake delle pellicole degli anni Settanta di Craven e Zarchi, realizzati rispettivamente da Dennis Iliadis nel 2009 e da Steven R. Monroe nel 2010, che hanno proposto attualizzazioni in linea con il torure porn del nuovo millennio che, almeno nel cinema più convenzionale, in linea con l’immaginario statunitense post 11 settembre, tende a proporre una violenza vendicativa amplificata.

Nuove modalità di sviluppo del rape and revenge caratterizzano invece alcuni film associabili al Feminist New Wave Cinema, come Revenge (2017) di Coralie Fargeat e Promising Young Woman (Una donna promettente, 2020) di Emeral Fennel, opere che decostruiscono il modello del genere a partire dai suoi meccanismi voyeuristici. In questi casi, infatti, la rappresentazione violenta dello stupro, spesso sfumata, tende a farsi metafora di una più generale e diffusa propensione allo sfruttamento maschile del corpo e dell’identità femminile oltre l’atto dello stupro.

Al fine di comprendere l’evoluzione narrativa ed estetica del rape and revenge movie, lo studioso indaga la «costruzione del mito cinematografico della vendicatrice femminista» approfondendo la «rappresentazione del corpo agonico della vittima e del suo riscatto agonistico attraverso la vendetta», guardando dunque come l’estetica del martirio nel rape and revenge movie rappresenti «una condizione necessaria per la re-iscrizione sul corpo femminile dei discorsi politici sui generi sessuali» (p. 161).

L’autore propone dunque un’analisi comparata tra I Spit on Your Grave (1978) di Meir Zarchi, come esempio di cruda rappresentazione della violenza carnale anni Settanta, e Revenge (2017) di Coralie Fargeat, primo rape and revenge movie girato da una donna regista collocabile nell’ambito della recente Feminist New Wave Cinema in cui la vendetta prende di mira, oltre gli uomini che hanno materialmente commesso il crimine, la rape culture propria della società patriarcale.

Nonostante i due film appartengano a periodi storici così distanti, entrambi mostrano i corpi delle protagoniste ricoperti di sangue, lividi, ferite e posture che richiamano la simbologia cristologica della passione che però sviluppa una rigenerazione corporea e identitaria della vittima in carnefice.

Il film di Zarchi, nella parte centrale, mette gli spettatori di fronte a una cruda e prolungata sequenza che mostra lo stupro inflitto in un paesaggio agreste a una giovane ed emancipata ragazza proveniente dalla città ad opera di un gruppo di retrogradi abitanti di una comunità rurale, mostrando così come la contrapposizione uomo/donna si carichi, qui, anche dell’opposizione rurale/cittadino, leggibile come scontro tra un immaginario progressista emancipato e uno retrogrado e conservatore.

In generale le scelte stilistiche adottate da Zarchi ribadiscono la crudeltà della violenza esibita piuttosto che indurre a un’identificazione del pubblico con la vittima. «Nonostante le scene di sesso siano caratterizzate dalle pose e dai movimenti innaturali dei violentatori, che non nascondono affatto la simulazione, tutta la sequenza è impregnata di un disturbante eccesso di realismo, dato dall’assenza di artifici filmici» (p. 164). L’assenza di stilizzazione «mostra lo stupro nella sua radicale essenza punitiva, il cui fine è quello di riportare la donna alla più totale passività, di mantenere il potere sessuale attraverso l’umiliazione fisica e zittire la minaccia della sua insubordinazione sociale e culturale» (p. 165).

Una volta subita violenza, in I Spit on Your Grave, la protagonista si trova a dover ricomporre il corpo martoriato per potersi trasformare in vendicatrice: il corpo agonico, messo in scena senza artifici filmici, si trasforma dunque in corpo agonistico votato a una vendetta che invece ricorre ad artifici filmici. «L’esplosione di violenza finale segna dunque il percorso di trasformazione, dalla passività della vittima femminile all’azione castratrice della vendicatrice femminista. La ragazza diventa un’icona modellata sulle aspirazioni e sui discorsi del femminismo della seconda ondata applicati al cinema di exploitation» (pp. 167-168).

Per quanto Revenge riprenda il modello della vendicatrice del film di Zarchi, ne rovescia l’impianto narrativo concedendo maggiore attenzione alla vendetta piuttosto che allo stupro. Quest’ultimo viene decisamente diluito attraverso artifici formali e simbolici sottraendolo all’osservazione voyeuristica dello spettatore conferendo così maggiore importanza alla rinascita corpo-identitaria della vittima.

Tramite una stilizzazione gore del martirio, nel film di Coralie Fargeat la figura della donna «si trasforma radicalmente, assumendo la morfologia di una guerriera femminista, di cui viene esibita tutta l’inesauribile resistenza del corpo» (169). Non più oggetto ipersessualizzato ma soggetto guerriero femminista e così lo schema proposto dalla regista converte lo schema stupro-vendetta in morte-resurrezione.

A riprova di come in Revenge la vendetta della donna, oltre a scatenarsi contro chi ha materialmente commesso lo stupro, prenda di mira più in generale la mentalità maschilista, oltre alla denuncia della complicità tra uomini dei personaggi maschili del film, provvedono simbolicamente la sequenza in cui la protagonista cava letteralmente gli occhi a uno degli aguzzini, come atto di ribellione allo sguardo voyeuristico maschile, e la scena in cui la donna fa saltare le cervella di un altro uomo, che allude evidentemente alla necessità di distruggere l’immaginario con cui gli uomini guardano alle donne.

La protagonista del film, sottolinea lo studioso, non subisce un processo di mascolinizzazione, bensì accetta lo scontro sul territorio della mascolinità per smantellarne il mito. «Ai corpi ipertrofici degli action heroes del passato, alle gonfie geometrie muscolari dei vari ‘Rambo’ e ‘Commando’, Revenge contrappone l’ipersessualizzazione dell’eroina e la sua irriducibile tenacia vendicativa» (p. 171). Non a caso alla reincarnazione della violentata corrisponde la progressiva de-virilizzazione del violentatore.

Mentre in I Spit on Your Grave la vendetta della protagonista «poggia sulla lascivia dell’incontro tra eros e thanatos e insiste su un’iconografia prossima ad alcuni mitologemi classici del femminile», la protagonista del rape-revenge movie del nuovo millennio «infiamma la rivincita del genere femminile portando allo stremo l’inesauribilità dei corpi, ed esibisce con la lente dell’eccesso del gore lo smembramento del machismo intrinseco al cinema action. Questa fantasia sanguinolenta si fa allora portavoce del desiderio di giustizia sociale rispetto allo stupro e a ogni forma di sfruttamento psicologico della vittima femminile» (p. 172).

Appropriandosi dei miti del cinema pop, il film di Coralie Fargeat «riflette una visione critica al modello di empowering postfemminista tipico di quella che Ariel Levy ha definito raunch culture [Female Chauvinist Pigs, Free Press 2005]: la tendenza alla condivisione di atteggiamenti che incentivano l’ipersessualizzazione come strategia di autoaffermazione femminile» (pp. 173-174).

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BDSM e dinamiche di potere. La necrodomme del fumetto Necron (1981) https://www.carmillaonline.com/2025/09/22/bdsm-e-dinamiche-di-potere-la-necrodomme-del-fumetto-necron-1981/ Mon, 22 Sep 2025 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90218 di Gioacchino Toni

Anna Chiara Corradino, Serena Guarracino, L’estasi del martirio. Metamorfosi del piacere e del dolore nell’esperienza estetica, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 204, ed. cartacea € 22,00, ed. digitale € 14,99

La letteratura, la pittura, la scultura, ma soprattutto la fotografia e il cinema rappresentano ambiti privilegiati per indagare le fantasie e gli immaginari che danno forma all’universo BDSM. È a questi ambiti che guarda il volume L’estasi del martirio  (Mimesis, 2025) al fine di «indagare come le pratiche BDSM e le dinamiche di potere ad esse correlate vengano elaborate e rappresentate in varie forme espressive della cultura moderna» (p. 18).

Gli autori [...]]]> di Gioacchino Toni

Anna Chiara Corradino, Serena Guarracino, L’estasi del martirio. Metamorfosi del piacere e del dolore nell’esperienza estetica, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 204, ed. cartacea € 22,00, ed. digitale € 14,99

La letteratura, la pittura, la scultura, ma soprattutto la fotografia e il cinema rappresentano ambiti privilegiati per indagare le fantasie e gli immaginari che danno forma all’universo BDSM. È a questi ambiti che guarda il volume L’estasi del martirio  (Mimesis, 2025) al fine di «indagare come le pratiche BDSM e le dinamiche di potere ad esse correlate vengano elaborate e rappresentate in varie forme espressive della cultura moderna» (p. 18).

Gli autori e le autrici dei nove saggi presenti nel libro sviluppano i loro scritti partendo dall’assunto che il BDSM «possa riprodurre e/o rovesciare le relazioni di potere esistenti» e che «le interazioni sadomasochistiche possano riconfigurare i processi normativi di soggettivazione, mettendo in primo piano il ruolo che il dolore e la cura giocano nella relazione tra persona sadica e persona masochista» (p. 10).

Massimo Fusillo riflette sui significati che trascendono la dimensione strettamente religiosa della rappresentazione iconografica del corpo martoriato di San Sebastiano, Virginia Gg Niri indaga le interconnessioni tra pratiche BDSM e movimenti di liberazione soprattutto di carattere femminista, mentre Eleonora Fisco guarda alla dimensione performativa della relazione sadomasochista nella slam poetry contemporanea. Serena Guarracino, Chiara Corradino e Sofia Torre espongono invece riflessioni sulla sessualità femminile e sui rapporti di potere proponendo rispettivamente una rilettura femminista dell’opera del Marchese de Sade, un’indagine sul fumetto erotico italiano e un approfondimento circa l’eros e la rappresentazione del corpo femminile dominante e martoriato nelle pratiche di spanking. All’ambito cinematografico guardano poi i contributi di Mattia Petricola, Mirko Lino e Luca Zenobi incentrati rispettivamente sulle connessioni tra pratiche religiose e pratiche sessuali non normative in The baby of Mâcon di Peter Greenaway, sull’evoluzione del genere rape-revenge e sul masochismo e sulla critica sociale nel cinema di Rainer Werner Fassbinder.

Di seguito ci si soffermerà sul saggio“Ti piacerà, vedrai…” La “necrodomme” del fumetto Necron di Anna Chiara Corradino, in cui la studiosa, dopo aver tratteggiato la storia del fumetto erotico italiano degli anni Ottanta e descritto le fattezze della “necro-domme”, si focalizza sulla serie di fumetti Necron comparsa nel panorama italiano nel 1981 con 13 numeri, di cui due speciali.

Nato come genere di nicchia, il fumetto erotico italiano ha raggiunto una certa diffusione negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso prestandosi a condurre fuori dalla marginalità letteraria tematiche ancora considerate tabù in una società italiana impregnata di morale cattolica. Il fumetto erotico e il coevo fumetto nero, con il quale si danno collegamenti, hanno di fatto rappresentato provocatorie modalità di sottrazione dal perbenismo dilagante nel paese.

Se Valentina (dal 1965) di Guido Crepax, introducendo un erotismo sofisticato e psicologicamente complesso, segna un importante punto di svolta nella messa in scena della sessualità nei fumetti, di pari passo nell’ambito del fumetto nero, con Diabolik (dal 1962), Kriminal (1964-1974) e Satanik (1964-1974) prende piede un’inedita figura di eroe negativo, solitamente caratterizzato da una forte personalità e da una notevole intelligenza, che non si riconosce nell’ordine sociale esistente, tanto da contrapporvisi radicalmente in maniera individuale.

Se l’aspetto esteriore di diversi anti-eroi e anti-eroine dei fumetti, con i loro mascheramenti e i corpi inguainati in tute attillate, rimanda all’immaginario sadomasochistico, è però con Necron che si palesano i riferimenti alla sottocultura BDSM.

Disegnato da Magnus – che anziché ricorrere allo splatter in auge all’epoca, adotta una pulizia stilistica di tradizione franco-belga – con il contributo di Ilaria Volpe alla sceneggiatura (mentre le copertine di Oliviero Berni adottano uno stile differente), Necron è un fumetto di difficile catalogazione, tra l’erotico e il pornografico, con venature horror, noir e comico-grottesche, nessuna delle quali risulta sufficiente a permetterne un incasellamento in un genere preciso.

Le vicende ruotano attorno alla figura della dottoressa Frieda Boher, una necrofila disillusa dalle relazioni umane che trova eccitazione nei corpi privi di vita. È proprio dall’assemblaggio di parti di cadaveri che ricava Necron, il suo partner ideale: una creatura dalla forza sovrumana, dotata di un membro possente, dall’appetito sessuale smisurato e dalla scarsa intelligenza.

Se è pur vero che, accoppiandosi con questa sua creatura, Frieda ha rapporti sessuali con un essere vivo, a cui lei stessa ha dato la luce – suggerendo un rapporto, per certi versi, incestuoso –, nel fare sesso con Nercon la protagonista giace con parti di corpi derivate da uomini che ha ucciso e smembrato. Tale espediente narrativo, sottolinea Corradini, fa sì che la necrofilia di Frieda possa «essere esplicitata come relazione di dominanza femminile consensuale e al contempo ella può mostrarsi in tutte le sue vesti come necro-domme» (p. 118).

La femminilità dominante di Frieda, connotata sia da una superiorità erotico-sessuale che socio-culturale, è del tutto particolare, priva com’è di diversi stereotipi presenti in altre eroine del fumetto nero.

La dominanza femminile e la consenziente sottomissione e reificazione del corpo maschile (reificazione che d’altro canto inizia con una serie di atti a loro volta necrosadici nella costruzione stessa del personaggio di Necron) scardinano la narrazione, proponendo modi alternativi di guardare alle tematiche che vuole parodiare. In altri termini, il gioco parodico che Magnus e Ilaria Volpe operano sui vari livelli della narrazione del fumetto attraverso le relazioni SM e al contempo attraverso la necrofilia come culmine ultimo della perversione sessuale permettono di esprimere degli equilibri diversi tra dominanza femminile e reificazione maschile (p. 113).

Osservando con attenzione il rapporto tra Frieda e Necron, sottolinea Corradini, si nota come tra i due si instauri una dinamica di scambio di potere più complessa di quel che appare in superficie. La donna impone sulla sua creatura una forma di schiavitù da questa accettata con piacere.

La figura di Frieda Boher, la necrodomme protagonista di Necron di Magnus, rappresenta un’eroina complessa e sfaccettata del fumetto erotico italiano. Attraverso la sua sessualità deviante e la sua femminilità dominante, Frieda sovverte gli stereotipi di genere e mette in discussione le nozioni di piacere e dolore. La necrofilia di Frieda, lungi dall’essere una semplice perversione, si inserisce in un contesto più ampio di relazioni di potere e dominazione. La sua attitudine dominante non si limita all’ambito sessuale, ma si estende a una più generale presa di controllo sulla realtà che la circonda. Frieda è una figura di potere, che non si sottomette ai desideri maschili ma li plasma secondo i propri scopi e la potenziale identificazione di chi legge ridefinisce il ruolo attivo come unicamente maschile (p. 118).

L’ambivalenza del rapporto tra Frieda e Necron, che vede quest’ultimo al contempo schiavo e complice della necrodomme, vittima e carnefice, struttura un intreccio dinamico di ruoli nella pratica BDSM, in cui dominanza e sottomissione possono essere ridefinite senza adeguarsi a regole precostituite.


Un successivo scritto sarà dedicato ad un altro saggio contenuto in L’estasi del martirio: Mirko Lino, Il corpo agonico e agonistico nel rape and revenge movie. I Spit on Your Grave (1978) e Revenge (2017).

 

 

 

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Ideologia, mascheramento e resistenza nella società agraria https://www.carmillaonline.com/2024/10/29/ideologia-mascheramento-e-resistenza-nella-societa-agraria/ Tue, 29 Oct 2024 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85064 di James C. Scott

[Di seguito si riporta l’Introduzione al volume di James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, traduzione di Elena Cantoni, elèuthera, Milano 2024, pp. 336, € 20,00. Si ringrazia la casa editrice per la gentile concessione – gh]

La struttura di questo volume ripercorre almeno tre traiettorie delle mie ricerche, forse simili a quelle di molti colleghi, scienziati sociali ed etnografi che si sono impegnati nello studio della società agraria.

La prima traiettoria è segnata dalla delusione e dalle speranze infrante nel cambiamento rivoluzionario. Si tratta di un’esperienza piuttosto comune per gli americani arrivati alla coscienza politica negli [...]]]> di James C. Scott

[Di seguito si riporta l’Introduzione al volume di James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, traduzione di Elena Cantoni, elèuthera, Milano 2024, pp. 336, € 20,00. Si ringrazia la casa editrice per la gentile concessione – gh]

La struttura di questo volume ripercorre almeno tre traiettorie delle mie ricerche, forse simili a quelle di molti colleghi, scienziati sociali ed etnografi che si sono impegnati nello studio della società agraria.

La prima traiettoria è segnata dalla delusione e dalle speranze infrante nel cambiamento rivoluzionario. Si tratta di un’esperienza piuttosto comune per gli americani arrivati alla coscienza politica negli anni Sessanta. Per me e per molti altri, quel decennio rappresentò il culmine di quella che potremmo chiamare una storia d’amore con le modalità contadine di liberazione nazionale. Posto che l’ultimo mezzo secolo è stato un cimitero di speranze infrante anche per quanto riguarda la democrazia, un’autentica autodeterminazione nazionale e la giustizia economica in gran parte degli Stati agrari, non è facile evocare l’ottimismo inebriante che molti nutrivano allora. La morsa delle principali potenze coloniali sui loro imperi d’oltremare era stata spezzata dalle devastazioni della seconda guerra mondiale; alla Conferenza di Bandung, le potenze non allineate avevano proclamato un futuro wilsoniano di nuove nazioni sovrane che avrebbero trattato in regime di parità le une con le altre; e i movimenti rivoluzionari ovunque nel mondo sembravano determinati a cancellare una volta per tutte le schiaccianti ineguaglianze di terre, ricchezza e potere (e dunque opportunità di vita) che avevano segnato l’esistenza di tanta parte della popolazione mondiale. Anche in Occidente, il movimento per i diritti civili degli anni Sessanta negli Stati Uniti, oltre alle rivoluzioni sociali e culturali in Francia e Germania, sembravano parte integrante di una nuova apertura politica e di nuove potenzialità di emancipazione.

Per qualche tempo, io fui totalmente trascinato da questa flusso di possibilità utopiche. Seguii con trepidazione – e, in retrospettiva, con una buona dose di ingenuità – il referendum per l’indipendenza nella Guinea di Sékou Touré, le iniziative panafricane di Kwame Nkrumah, le prime elezioni indonesiane, l’indipendenza e le prime elezioni in Birmania, paese in cui avevo vissuto un anno, e naturalmente le riforme agrarie nella Cina rivoluzionaria e le elezioni nazionali in India.

Il contesto intellettuale e politico del successivo disincanto merita un breve riassunto. Alla fine degli anni Sessanta insegnavo alla University of Wisconsin. Madison era teatro di continue manifestazioni studentesche contro la guerra in Vietnam, a partire dall’impegno teso a impedire alla Dow Chemical, produttrice del napalm, di reclutare nel campus. Con il mio collega e mentore Edward Friedman, tenevo un affollato corso di lezioni sulle «rivoluzioni contadine». L’aula era stipata di quasi quattrocento studenti, per i quali la posta in gioco non era affatto irrilevante dato che nel 1965 c’era la leva obbligatoria. Per gran parte di loro, la nostra impostazione non era abbastanza progressista. Alla fine di ogni lezione gli studenti sgomitavano per impadronirsi dei microfoni e contestarci, e a decine si riunivano a preparare quattro o cinque pagine di contro-argomentazioni da distribuire ai compagni alla lezione successiva. La politica era importante, e tenere una lezione in quelle condizioni era al tempo stesso esaltante e (così sembrava allora) scoraggiante. Fu, tanto per i docenti quanto per gli studenti, un apprendistato d’urto sulla rivoluzione – con l’enfasi sull’urto.

Il disincanto assunse due forme: l’indagine storica e gli eventi contemporanei. Mi resi conto – e avrei dovuto arrivarci prima – che virtualmente ogni grande rivoluzione vittoriosa finiva per creare uno Stato più potente di quello che aveva abbattuto, uno Stato capace a quel punto di estrarre più risorse dalla stessa popolazione al cui servizio si sarebbe dovuto mettere. La Rivoluzione francese aveva portato al Termidoro e poi al precoce e bellicoso Stato napoleonico. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia portò alla dittatura leninista del partito d’avanguardia e poi alla repressione degli scioperi dei marinai e operai di Kronštadt, alla collettivizzazione forzata e ai gulag. Se l’Ancien Régime si era retto su brutali disuguaglianze feudali, gli effetti delle rivoluzioni apparivano altrettanto scoraggianti. Non soltanto lo Stato rivoluzionario riusciva a imporsi con una presa sulla società che governava ancora più ferma del predecessore, ma le aspirazioni popolari che avevano fornito l’energia e il coraggio per la vittoria della rivoluzione venivano, in ogni lettura di lungo termine, quasi inevitabilmente tradite. La Rivoluzione messicana fu una significativa eccezione, nel senso che i contadini riuscirono perlomeno a tenersi le terre che avevano strappato alle haciendas.

Gli eventi allora in corso non erano meno inquietanti sul fronte di ciò che le rivoluzioni contemporanee significavano per la classe più vasta nella storia mondiale: i contadini. I Viet Minh, saliti al potere nel Vietnam del Nord dopo la Conferenza di Ginevra del 1954, avevano spietatamente represso una rivolta popolare di piccoli proprietari e agricoltori indipendenti nelle stesse regioni che erano state i focolai storici delle sollevazioni contadine. In Cina diventò evidente che il Grande Balzo in Avanti – nel corso del quale, messa a tacere l’opposizione, Mao costrinse milioni di contadini in vaste comuni agrarie e mense collettive – stava avendo risultati catastrofici. Gli studiosi e gli esperti di statistica discutono ancora dei costi umani inflitti tra il 1958 e il 1962, ma è improbabile che le vittime siano state meno di trentacinque milioni (grosso modo la popolazione attuale del Canada). E proprio nel momento in cui si riconoscevano i costi umani del Grande Balzo in Avanti, le notizie spaventose di carestie ed esecuzioni nella Cambogia dei Khmer rossi completavano un quadro di rivoluzioni contadine degenerate in repressioni letali.

Dunque la delusione non era tanto rispetto ai contadini ma rispetto a coloro che si erano impadroniti del potere, spesso a loro nome e con il loro sostegno, per poi imporre con la forza forme utopiche di collettivizzazione su quella medesima classe. È possibile che sia i contadini sia le élite rivoluzionarie nutrissero delle aspettative utopiche di un nuovo ordine, ma era evidente che le rispettive visioni dell’utopia divergevano in modo radicale.

Chi ha familiarità con quel periodo ricorderà che si assistette anche al primo boom degli studi sullo sviluppo e dell’inedita economia dello sviluppo. Se le élite rivoluzionarie avevano immaginato vasti progetti di ingegneria sociale nella vena collettivistica, gli specialisti dello sviluppo confidavano con pari certezza nella propria capacità di creare crescita economica con l’ingegneria delle forme di proprietà, la promozione della salute pubblica, gli investimenti nell’infrastruttura dei mercati, l’offerta di credito e, quando necessario per competere con i rivoluzionari di sinistra, persino (modeste) ridistribuzioni delle terre. I praticanti dell’arte dello sviluppo, sebbene spesso animati da un personale desiderio di espandere il benessere umano, durante la Guerra Fredda furono di fatto reclutati in uno sforzo controrivoluzionario di portata mondiale il cui scopo era frenare l’avanzata del comunismo. Di solito la ridistribuzione delle terre – la chiave per la sussistenza nei paesi poveri – è anatema per le economie liberali, e non a caso venne attuata solo come extrema ratio durante la Guerra Fredda. Ed è un dato diagnostico che, una volta caduto il Muro di Berlino e crollato il blocco sovietico, la riforma agraria scomparve del tutto dalle agende di USAID e della Banca Mondiale. Avendo nutrito fin dall’inizio scarse illusioni sugli scopi e i limiti dell’economia dello sviluppo, non posso dire di essere rimasto deluso.

 

Che cosa vogliono i contadini?

Essendomi gettato nello studio delle guerre contadine di liberazione nazionale, mi trovai sempre più a leggere di vita contadina, organizzazione dei villaggi, credenze popolari, feudalesimo, pratiche agricole dei piccoli proprietari, strutture familiari, mezzadria e bracciantato, religioni agrarie. In un certo senso, fu allora che trassi la logica conclusione indicata dalla mia traiettoria intellettuale. Posta la mia scarsa fede nelle capacità dello Stato rivoluzionario o dell’establishment dello sviluppo di servire gli interessi e le aspirazioni dei contadini, decisi di dedicarmi a uno studio approfondito dei ceti agrari nel Sudest asiatico e altrove.

L’obiettivo sembrava meritevole: una carriera accademica incentrata sulla comprensione di contadini e agricoltori. Non soltanto rappresentavano, allora, la maggioranza dell’umanità, ma sono a tutt’oggi la classe più numerosa in pressoché tutti i paesi poveri: a dispetto di tassi senza precedenti di urbanizzazione, esistono più contadini oggi che mezzo secolo fa. Si riteneva inoltre che la classe contadina – anche quando indicata dai rivoluzionari come «massa» contadina, quasi che contasse solo il suo peso numerico – rappresentasse l’anima di una nazione, ne incarnasse la cultura, lo spirito e il futuro. Retorica a parte, se le rivoluzioni non erano in grado di soddisfarne le aspirazioni e le esigenze, allora non c’era altro da dire. Il benessere e la dignità della classe contadina – era questo il mio ragionamento – dovevano essere il basilare metro di giudizio per la valutazione di qualsiasi ordine economico e politico. Partendo da questa premessa, mi impegnai a indagare rivolte e rivoluzioni attenendomi il più strettamente possibile alla prospettiva dei contadini. Per mia fortuna potevo contare sull’aiuto di molti grandi studiosi di vita agraria e movimenti contadini ai cui piedi continuo a sedere. Tra questi, Marc Bloch, Aleksandr V. Cajanov, Barrington Moore Jr., E.P. Thompson, Eric Wolf, Fei Hsiao-tung, Eric Hobsbawm, Clifford Geertz, Carl Landé, R.H. Tawney e Charles Tilly. Il mio lavoro dipende in larga parte dalle loro intuizioni e dalle domande che posero.

È impossibile immergersi in questa letteratura senza concluderne che esiste un enorme divario tra le politiche delle élite urbane da una parte e i coltivatori rurali dall’altra. Anche quando condividono una lingua e una cultura in senso lato, è come se parlassero dialetti reciprocamente inintelligibili. Persino quando in teoria partecipano allo stesso movimento nazionalista, alla stessa fede religiosa, allo stesso partito politico o alla stessa rivoluzione, è probabile che le rispettive poste in gioco, i rispettivi interessi e intenti, divergano in misura significativa. Gli storici e i giornalisti scrivono la storia perlopiù dai grandi centri urbani e dalla prospettiva delle élite alfabetizzate. In genere la popolazione rurale viene vista come il destinatario più o meno passivo di progetti concepiti e implementati dall’alto. Se vengono alla ribalta, è solo quando sfondano la patina sottile di presunta placidità con rivolte, movimenti millenaristi, occupazioni di terre, incendi, e così via. Negli ultimi vent’anni circa, la massiccia migrazione della forza lavoro nazionale e internazionale ha determinato un notevole restringimento del «gap cosmopolita» urbano/rurale. Quando questo nuovo cosmopolitismo rurale viene apertamente mobilitato come forza politica, per esempio nella vittoria dell’opposizione a base rurale del luglio 2011 in Thailandia, il risultato non fa che mettere in luce le tensioni tra le classi popolari rurali e urbane da un lato e le élite della capitale dall’altro.

La seconda traiettoria delle mie ricerche era di provare a evidenziare con precisione le effettive differenze di stile, pratiche, valori e interessi tra la sfera delle politiche di villaggio e quella delle élite urbane. Proprio come nessuna cultura equivale a un’altra, così non esistono due luoghi tra loro identici; perciò tracciare i contorni esatti delle politiche rurali, viste nel loro insieme, richiede un’attenta etnografia. Esistono, tuttavia, alcune differenze generali tra le comunità agrarie e di villaggio e gli agglomerati urbani. Precisare alcune di queste differenze di massima ci permette di coglierne la grana, e di capire il motivo per cui molti degli strumenti concettuali dell’analisi sociale che risultano adeguati alle società industrializzate rischiano di portarci fuori strada se applicati ai villaggi rurali.

I villaggi sono comunità del faccia-a-faccia e, in quanto tali, respingono le astrazioni. I rapporti di classe, la cui concretezza è così dolorosamente tangibile in quasi tutti i contesti rurali, sono percepiti non tanto come categorie – per esempio, proprietari terrieri e contadini – quanto come persone concrete, con storie, famiglie, valori, idiosincrasie e caratteristiche individuali. I contadini sanno bene che esistono proprietari terrieri con interessi di classe in comune, ma questo specifico proprietario è unico, e il suo rapporto con fittavoli e braccianti sarà altrettanto particolare. Conoscono la sua famiglia, genitori e nonni compresi, che con ogni probabilità avrà una reputazione condivisa nel villaggio; sono al corrente dei suoi fatti e misfatti passati; sanno come lui li considera. Quel proprietario è più una personalità specifica (apprezzata o detestata) che un rappresentante della sua classe. È a lui che affibbieranno un nomignolo ed è di lui che rideranno alle spalle. E naturalmente anche il proprietario terriero conosce i suoi locatari «a tutto tondo» e non come astrazioni. L’uno e gli altri hanno una conoscenza reciproca ben più dettagliata di quella che intercorre tra il padrone e gli operai di una fabbrica. Come gli abitanti del villaggio francese protagonisti del romanzo La Terra di Zola, è probabile che siano al corrente degli averi di ciascuno fino all’ultimo articolo di biancheria da letto. Non si può parlare di rapporti e conflitti di classe in questo tipo di comunità senza tener conto del loro profondo radicamento nelle storie personali che li hanno plasmati.

In buona parte del Sud globale, gli agricoltori vivono in modo precario, al limite della sussistenza. Hanno poco o nulla in termini di riserve o risparmi che possano servire da garanzia in un periodo nero. La morte di un animale da tiro, una malattia invalidante durante la stagione di lavoro nei campi, la perdita di un raccolto o un crollo nei prezzi di ciò che coltivano, può spingerli oltre quel limite. Nella peggiore delle ipotesi, questo significava tradizionalmente denutrizione o addirittura morte per fame; nella migliore, la perdita delle terre e la susseguente dipendenza a vita da un parente, un proprietario terriero o un patrono per la sussistenza e la protezione. Un rovescio, allora come oggi, poteva anche determinare la frammentazione, temporanea o permanente, della famiglia. Oggi significa spesso la migrazione in un altro continente.

Gli esiti potenzialmente catastrofici di una cattiva annata fanno sì che la situazione di gran parte della popolazione rurale sia, nella frase memorabile di Tawney, quella «di un uomo che sta sempre con l’acqua alla gola, così che basta la minima increspatura sulla superficie ad annegarlo»1. Questo significa, in breve, che i contadini in una tale situazione sono caratterizzati da una netta avversione al rischio: si impegnano a minimizzare le probabilità di un qualunque fallimento economico, potenzialmente letale. Le conseguenze sul loro comportamento sociale ed economico sono pervasive. È probabile che seminino colture diverse in campi distinti, affinché la perdita di un raccolto sia meno devastante; sceglieranno colture con una resa costante, anche se modesta, invece che colture le cui rese sono in media più alte ma che hanno una tenuta più fragile; tipicamente punteranno su prodotti commestibili oltre che commerciabili. Preferiscono essere proprietari di un piccolo appezzamento piuttosto che fittavoli e, in modo analogo, fittavoli piuttosto che braccianti, poiché ogni gradino in discesa su quella scala rappresenta una perdita di sicurezza nella sussistenza, anche se, nelle annate buone, potrebbe fruttare di più. In ambito sociale, questa etica di sussistenza significa cercare di tenersi buoni parenti, vicini, proprietari terrieri e amici che, in caso di necessità, possono accorrere in tuo aiuto. Specularmente, significa anche estendere la medesima assistenza agli altri, quando possibile, nella consapevolezza che la prossima volta potresti esserci tu nei loro panni.

Quando si tratta di capire le politiche di una popolazione rurale che vive costantemente in bilico, sul filo del rasoio, va sempre tenuto presente che questa etica della sussistenza porta a giudicare gli accomodamenti sociali ed economici più per la loro capacità di proteggere da esiti catastrofici che per le loro caratteristiche di sfruttamento quantitativo (per esempio quanta parte del raccolto esige il proprietario terriero). Di conseguenza, un sistema di regime fondiario magari più oneroso che però, in un anno sfavorevole, riduce gli affitti ed estende il credito sarà più stabile di un sistema meno oneroso negli anni favorevoli ma implacabile in caso di perdita del raccolto. Similmente, un sistema fiscale che calibri i tributi in base alle fluttuazioni nella resa dei raccolti, e dunque nel reddito della popolazione, sarà meno detestato di un sistema, come l’imposta capitaria a somma fissa, che non tiene conto delle cattive annate. A parità di altre condizioni, ogni forma di riscossione che violi l’etica di sussistenza sarà politicamente più esplosiva delle forme di estrazione che, per quanto esose, moderano le proprie pretese nelle stagioni negative e dunque evitano le conseguenze sociali più disastrose. Uno dei motivi per cui gli Stati coloniali si trovarono spesso alle prese con rivolte contadine era proprio il fatto che promuovevano rapporti capitalistici di produzione e politiche di prelievo fiscale fisso sul reddito, soppiantando un sistema di estrazione certamente predatoria, ma necessariamente più flessibile (data la debolezza degli Stati precoloniali), con un altro che non lasciava margine alle esigenze di sussistenza.

L’importanza dell’etica di sussistenza nei contesti agrari poveri è un tema che ho sviluppato in modo piuttosto dettagliato nel mio The Moral Economy of the Peasant. Rebellion and Subsistence in South East Asia. Ma sarebbe fuorviante lasciare il lettore con l’impressione che si possano capire le implicazioni politiche della miseria semplicemente in termini di calorie, contanti o calcolo del rischio. Non credo sia possibile comprendere davvero le politiche delle classi subalterne di questo tipo se non le consideriamo anche come istanze locali di dignità e rispetto2.

Così come non si dà un’esperienza puramente astratta in una piccola comunità del faccia-a-faccia, parimenti non c’è esperienza di povertà che non sia socialmente e culturalmente incarnata. Ogni comunità presenta rituali che contrassegnano la posizione dell’individuo e della sua famiglia. Ci sono infatti standard minimi di condotta culturalmente accettabile per le feste di nozze, i funerali, i riti di passaggio e le celebrazioni religiose annuali. Non essere all’altezza di quei minimi equivale non soltanto a rivelare la propria indigenza, ma a scendere culturalmente sotto la soglia minima della cittadinanza e della posizione sociale. A suo modo, significa perdere la faccia e la piena appartenenza alla comunità. Nella comunità malese di coltivatori di riso in cui ho vissuto, la festività collettiva più importante era la fine del mese di digiuno islamico, celebrata dalle famiglie agiate con grandi banchetti cui venivano invitati tutti i parenti e i vicini. L’umiliazione più cocente per gli abitanti poveri del villaggio era la mancanza di mezzi per poter offrire quel genere di banchetti, ovvero il fatto di essere sempre gli ospiti, mai gli anfitrioni, di non poter contraccambiare. Molti di loro preferivano restare a casa piuttosto che subire la mortificazione di accettare cibo a quelle condizioni. Le nozze e soprattutto i funerali, data la loro imprevedibilità, potevano essere occasioni per accrescere il proprio status o per abbatterlo. Esisteva un livello minimo, condiviso da tutti, perché un matrimonio o un funerale, una bara o un banchetto, potessero essere considerati decorosi. Non disporre di quel minimo significava esporsi all’onta pubblica o al dileggio privato – oppure soccombere alla necessità di chiedere un prestito rovinoso o di vendere la terra per dimostrarsi all’altezza delle aspettative. Si capisce così anche come mai, nei contesti cristiani in cui i regali di Natale sono un simbolo di status sociale, le famiglie povere si indebitino fino al collo per procurare ai figli doni che attestino la propria posizione socioculturale nonostante siano economicamente disastrosi. In senso più lato, il possesso della terra, l’indipendenza economica o l’offerta di banchetti culturalmente accettabili non sono soltanto un indice del proprio reddito ma anche della propria reputazione sociale, del proprio status non servile. L’obiettivo dell’agire economico per gran parte dei poveri è il raggiungimento di una quota minima di agio e, soprattutto, di dignità culturale e rispetto di sé, non la massimizzazione della resa di ogni transazione.

Lo scopo del capitolo successivo è di esaminare le peculiarità legate alla classe, alla cultura e all’economia nei contesti agrari poveri. E come cercherò di dimostrare, comprendere le differenze essenziali tra le politiche rurali dei subalterni e le politiche urbane delle élite ci aiuterà anche a comprendere ciò che accade quando élite e classi contadine entrano in contatto, come alleate o avversarie, nei movimenti politici.


James C. Scott (Mount Holly 1936 – Durham 2024) è stato docente di Scienze politiche e di Antropologia nell’Università di Yale, ha fatto ricerca sul campo soprattutto nel Sud-est asiatico (non a caso parla anche birmano e indo-malese). Tra i principali esponenti della perestroika accademica, che nelle Scienze politiche ha portato a un riequilibrio tra gli studi di tipo quantitativo, preponderanti, e quelli di tipo qualitativo, ha pubblicato numerosi libri tradotti in tutto il mondo. In italiano sono usciti Le origini della civiltà. Una controstoria (2018) e L’arte di non essere governati. Storia anarchica degli altopiani del Sudest asiatico (2020) per Einaudi e Il dominio e l’arte della resistenza (2021 n.e.), Lo sguardo dello Stato (2019), Elogio dell’anarchismo (2022 n.e.) e L’infrapolitica dei senza potere (2024) per elèuthera. Nel 2005 la rivista «American Anthropologist» gli ha dedicato un numero speciale intitolato Moral Economies, State Spaces, and Categorical Violence e nel 2020 ha ricevuto l’Albert O. Hirschman Prize per il suo importante contributo interdisciplinare in antropologia, economia e storia. Tra una lezione e l’altra allevava pecore nella sua casa in Connecticut.


  1. R.H. Tawney, Land and Labour in China, Beacon Press, Boston 1966, p. 77. 

  2. I due capitoli che seguono uscirono in forma di saggio due anni dopo la pubblicazione di The Moral Economy of the Peasant e in particolare dopo la pubblicazione di The Rational Peasant, volume in cui Samuel Popkin contestava quel mio primo saggio. Credo che, allo scopo di creare un uomo di paglia, Popkin avesse intenzionalmente frainteso la mia argomentazione, dando a intendere che io vedessi i contadini come degli ingenui altruisti. Niente potrebbe essere più lontano dal vero. In quel saggio descrivevo i comportamenti razionali che un contadino, all’incombere di una possibile crisi di sussistenza, potrebbe adottare per minimizzare le perdite. Di fatto, il tipo di condotta descritto era perfettamente coerente con quello che un fautore della scelta razionale avrebbe potuto ipotizzare nella situazione esistenziale propria di un contadino. Anzi, tempo dopo, alcuni commentatori descrissero la mia argomentazione come una tesi di scelta razionale avant la lettre. In ogni caso i due libri venivano spesso accoppiati nei corsi universitari dedicati alla questione, perché sembravano partire dagli stessi dati, ma li interpretavano attraverso lenti analitiche diverse. La tesi che sostenevo in quei saggi era che gli accorgimenti sociali pensati per prevenire gli esiti peggiori acquisiscono, con l’andare del tempo, un valore normativo tale da essere assunti come diritti morali. Credo che le prove documentarie di questa dinamica siano schiaccianti. A dispetto della tentazione di rispondere al libro di Popkin con una puntuale critica della teoria della scelta razionale – un compito poi svolto da innumerevoli altri – decisi piuttosto di concentrarmi su un aspetto del mio The Moral Economy che a posteriori reputai carente, o quantomeno incompleto: l’aver trascurato gli aspetti religiosi e ideativi dei movimenti contadini. In altre parole, quel saggio presentava il ceto contadino come troppo freddo e lucido, e soprattutto avulso da quei valori religiosi che sono invece ben radicati nella cultura popolare. Dopotutto è stato solo dopo la Rivoluzione francese che in Occidente l’idea di rivoluzione ha cominciato a distaccarsi, e anche allora solo in modo tenue, dal pensiero religioso. Viceversa, per una gran parte del Sud globale mi sembrava che rivolta e religione popolare fossero inseparabili. Perciò, invece di rispondere alla critica di Popkin, decisi di occuparmi di quelle che io stesso ritenevo essere le lacune del mio scritto. Insomma, i due capitoli successivi sono stati la mia piccola forma di penitenza intellettuale per rispondere alle critiche che ritenevo il mio libro dovesse ricevere e che invece non aveva ricevuto! 

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Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa https://www.carmillaonline.com/2024/04/10/mai-tornare-indietro-nemmeno-per-prendere-la-rincorsa/ Wed, 10 Apr 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81795 di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero. Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa [...]]]> di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero.
Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa recensione, ripreso da Andrea Pazienza, serve a rendere bene l’idea del contenuto del testo appena pubblicato dalle Edizioni Colibrì e della necessaria e irrinunciabile radicalità dell’opposizione di classe al capitalismo, alle sue guerre e ai suoi sgherri fascisti, in divisa o meno che questi siano. Ma anche a ricordare, a un mese dalla sua scomparsa, Stefano Milanesi, militante NoTav e rivoluzionario, al quale questo libro sarebbe probabilmente piaciuto.

In un’epoca di ritornante e ammorbante dibattito politico e mediatico sul pericolo rappresentato dal fascismo per l’ordine democratico e il buon vivere civile, in entrambi i casi “borghesi”, la lettura dei testi contenuti nella raccolta curata dalla Calusca City Lights e dal Collettivo Adespota si rivela assolutamente necessaria, se non indispensabile ed essenziale.

Accompagnati da un lungo saggio, interessante quanto appassionato, di Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), i diciassette testi che compongono l’appendice documentaria del volume spaziano dalle posizioni espresse da Amadeo Bordiga e dal Partito Comunista d’Italia a quelle di Errico Malatesta, dalla rivista «Bilan» a Otto Rühle, dalla critica radicale italiana ai militanti della Sinistra Comunista, in un mosaico di bilanci e riflessioni che vertono tutte su quanto sia dannoso per i movimenti di classe e il proletariato riporre qualsiasi fiducia nell’illusione di una possibile scelta tra democrazia borghese e autoritarismo fascista.

Soprattutto oggi, mentre si è lontani da una reale ripresa di lotte di classe allargate sia in Italia che in Occidente, ma è ancora dato il tempo per riflettere ed evitare il ripetersi di tanti errori passati, questi testi, niente affatto superati o inadeguati alla presente stagione, possono contribuire, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani, a smascherare le trappole e a rivelare le menzogne con cui una sinistra “borghese”, ed oggi “liberale”, ha contribuito alla vittoria dei regimi più autoritari in nome della controrivoluzione e della difesa dell’ordine capitalistico nelle sue forme apparentemente “democratiche” e parlamentari”.

Se l’affermazione di Amadeo Bordiga che «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», pur rivelandosi ancora un ottimo punto di partenza, è, forse, fin troppo nota, abusata e, sicuramente, mai del tutto compresa fino in fondo da coloro che l’hanno usata o denunciata, altre considerazioni e ricostruzioni contenute nel testo possono davvero rivelarsi sorprendenti, illuminanti e utili non soltanto per comprendere dinamiche risvolti di avvenimenti, battaglia e insurrezioni vecchie di un secolo, ma anche per tracciare una linea di confine invalicabile tra ciò che le lotte a venire potranno considerare come utile o dannoso per le tattiche e le strategie che dovranno, comunque, sforzarsi ancora di elaborare.

Per aprire, per così dire, le danze, è bene iniziare dal saggio di Gilles Dauvé1 che delimita immediatamente la cornice in cui inscrivere l’essenza del problema affrontato:

È un luogo comune quello di vedere nel fascismo lo scatenamento della repressione statale al servizio delle classi dominanti. Secondo la formula resa celebre da Daniel Guérin a partire dagli anni Trenta, fascismo = grande capitale. Logicamente, la sola maniera di sbarazzarsene è di mettere fine al capitale.
Fin qui, nulla da ridire. Ahimè, nel 99% dei casi, la logica porta immediatamente fuori strada: se il fascismo incarna il peggio prodotto dal capitalismo, bisogna evitare questo peggio, cioè si dovrebbe fare di tutto per favorire un capitalismo non fascista. Poiché il fascismo è reazione, cerchiamo allora di promuovere il capitalismo sotto forme non reazionarie, non autoritarie, non xenofobe, non militariste, non razziste, in altre parole un capitalismo più moderno, più… capitalista.
Pur ripetendo che il fascismo serve gli interessi del «grande capitale», l’antifascismo si affretta a precisare che, malgrado tutto, nel 1922 o nel 1933, la soluzione fascista avrebbe potuto essere evitata, se solo il movimento operaio e/o i democratici avessero esercitato una pressione tale da impedire ai fascisti di prendere il potere. Se, nel 1921, il Partito Socialista Italiano e il giovane Partito Comunista d’Italia si fossero alleati coi repubblicani per sbarrare la strada a Mussolini; se, all’inizio degli anni Trenta, la KPD non avesse ingaggiato con la SPD una lotta fratricida…l’Europa si sarebbe risparmiata una delle dittature più feroci della storia, la Seconda Guerra mondiale, il dominio nazista su pressoché tutto il continente, i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei.
Al di là delle giuste considerazioni sulle classi, lo Stato e il legame tra fascismo e grande industria, questa visione ignora che il fascismo s’inscrive nel quadro di un duplice fallimento: quello dei rivoluzionari, schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare, all’indomani della Prima Guerra mondiale; e, nel corso degli anni Venti, quello della gestione del capitale da parte dei partiti democratici e socialdemocratici. L’ascesa del fascismo – come ancor più la sua natura – risulta incomprensibile se viene isolata dal periodo che l’ha preceduta, dalle lotte di classe che hanno caratterizzato tale periodo e dai loro limiti […] Cosa c’è alla base del fascismo, se non la tendenza all’unificazione economica e politica del capitale, generalizzatasi dopo la guerra del ’14-1817? Il fascismo non fu che un modo particolare di realizzarla, peculiare di quei Paesi (Italia e Germania) in cui, benché la rivoluzione fosse stata soffocata, lo Stato era incapace d’imporre il proprio ordine, perfino in seno alla stessa borghesia.2.

Un protagonista delle lotte e dei partiti rivoluzionari e di classe dell’epoca, Amadeo Bordiga, avrebbe rafforzato queste ipotesi ancora in un’ultima intervista rilasciata nel 19703 contenuta nella presente antologia:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.
[…]Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale.
Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nel – l’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che [il] fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici4.

Certo, il proletariato italiano, tedesco e spagnolo aveva combattuto, armi alla mano e senza esitazione, contro la reazione borghese e i suoi cani da guardia. In Italia e in Germani i soldati si erano rivoltati durante il primo conflitto mondiale e, nel secondo caso, avevano nettamente contribuito a fermarlo. Ad esitare erano stati i partiti socialisti e socialdemocratici che pur di scongiurare il conflitto di classe che, come aveva scritto in una lettera Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, se si fosse radicalizzato avrebbe travolto anche loro, avevano scelto di sostenere il conflitto mondiale nel caso tedesco oppure avevano optato, nel caso italiano, per un «né aderire né sabotare» che, nei fatti, aveva tradito le aspettative di un proletariato decisamente contrario alla guerra e, successivamente, di sostenere la Patria nell’ora del bisogno dopo Caporetto.

La difesa dell’ordine liberal-borghese aveva così finito col giustificare la repressione dei soldati in rivolta o, addirittura, di sporcarsi le amni cola sangue dei rivoltosi con la repressione dei moti berlinesi del 1919 e l’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ma ancor peggio sarebbe stato in Spagna dove a sconfiggere i moti rivoluzionari sarebbe stato il doppio apporto degli anarchici entrati nel governo repubblicano e l’opera di eliminazione delle frange intransigentemente rivoluzionarie portata avanti dai rappresentanti di Mosca e di Stalin in seno allo schieramento anti-franchista.

In Italia, in Germania e in Spagna l’avvento dei regimi fascisti non era dunque avvenuto soltanto a seguito di una sconfitta di uno schieramento rivoluzionario e proletario diviso al suo interno dall’azione delle formazioni più radicali quanto piuttosto dal freno che alla rivoluzione fu posto proprio dal non aver abbandonato del tutto le posizioni e le formazioni di carattere democratico e socialdemocratico in tempo utile.

Non a caso, però, i testi raccolti nell’antologia, mettono anche a fuoco il ruolo svolto dall’autoritarismo bolscevico-staliniano negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre e, anche, al ruolo che in tutto ciò giocarono anche certe posizioni di Trotsky sulla militarizzazione del lavoro in patria e del gioco delle alleanze sui fronti internazionali e, forse soprattutto, in Spagna.

Riassumere qui, in poche righe e in poche pagine, le battaglie di allora e i dibattiti teorico-politici che le accompagnarono e ne discussero le sconfitte e le successive conseguenze è quasi impossibile, ma può ancora essere utile trarre qualche elemento dai testi contenuti in Quando muoiono le insurrezioni. Ad esempio un testo prodotto dai militanti della Frazione italiana della Sinistra Comunista e pubblicato sul periodico internazionalista «Bilan»5, in occasione della repressione dei rivoluzionari nelle strade di Barcellona nel maggio del 1937.

Il 19 luglio6 i proletari di Barcellona, a mani nude, schiacciarono l’attacco dei battaglioni di Franco, armati fino ai denti.
Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, muniti di armi, lasciano sul selciato molti più morti che non a luglio, quando dovettero respingere Franco. Oggi a scatenare la marmaglia delle forze repressive contro gli operai è il governo antifascista, che include gli anarchici e gode dell’indiretto sostegno da parte del POUM.
Il 19 luglio, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, sciolta dai legami con lo Stato borghese, si ripercuote all’interno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia l’istinto di classe dei soldati: è lo sciopero a bloccare i fucili e i cannoni di Franco, spezzandone l’offensiva.
[…] La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La «milizia proletaria» della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. Per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la Borghesia può fare appello ai Centristi, ai Socialisti, alla CNT, alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo Stato cambi natura quando i suoi funzionari mutano di colore. Dissimulato fra le pieghe della bandiera rossa, il Capitalismo affila pazientemente la spada per la repressione del 4 maggio [1937], preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale classista del proletariato.
Il figlio di Noske e della Costituzione di Weimar è Hitler; il figlio di Giolitti e del «controllo della produzione» è Mussolini; il figlio del fronte antifascista spagnolo, delle «socializzazioni», delle «milizie proletarie» è il massacro di Barcellona del 4 maggio 1937.
[…] È al riparo di un governo di Frente Popular che Franco ha potuto preparare il suo attacco. È sulla via della conciliazione che Barrio ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che fosse in grado di realizzare l’insieme del programma del Capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra fraternamente unite. Ma la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid e delle Asturie obbliga il Capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a ripartirne le funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare, legati da un’indissolubile solidarietà di classe.
Laddove Franco non è riuscito a vincere subito, il Capitalismo chiama a sé gli operai per «sconfiggere il fascismo». Sanguinoso tranello pagato con migliaia di cadaveri di operai per aver creduto di potere, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del Capitalismo: il fascismo. E sono partiti per le colline di Aragona, per la Sierra de Guadarrama, per le montagne delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.
Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile contrapposizione tra Borghesia e Proletariato.
I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del Capitalismo per accerchiare gli operai e annientarli! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato avrebbe dovuto combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del Capitalismo contro il Proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio
dei loro fratelli russi del 1917 – potevano rispondere solo sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della Borghesia – sia repubblicano che «fascista» – e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione dello Stato borghese7.

Ora non potendo citare tutta l’enorme mole di documenti riportati nell’Appendice, vale la pena di citare ancora un testo prodotto negli anni Settanta su «Puzz» nel 19758.

Con l’enorme slancio produttivo ricevuto dalla Prima Guerra mondiale, la società capitalistica si avviava a sostituire in maniera definitiva i propri presupposti (verso la realizzazione del dominio reale del capitale): passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo; trasformazione della legge del valore nella legge dei prezzi di produzione; concentrazione e centralizzazione dei capitali delle aziende; sviluppo del capitale monetario e fittizio, e generalizzazione del sistema del credito; predominio del lavoro morto sul lavoro vivo in tutti gli aspetti della vita associata e all’interno dell’individuo stesso; antropomorfosi del capitale; mistificazione del proletariato nelle classi medie; distruzione delle antiche classi medie e produzione delle nuove; evoluzione dello Stato da semplice «comitato d’affari della classe dominante» a impresa capitalistica
[…] A questo punto, la prima forma di democrazia rappresentativa, modo specifico di gestione nel periodo di dominio formale, e la sua politica, che mediava il conflitto costitutivo della società borghese tra interessi individuali e interessi generali, diventano inadeguate. Ora è il capitale stesso che direttamente unifica gli uomini per sottoporli al suo dominio; la politica, da suo strumento per affermarsi contro il modo di produzione precedente (e proprio in questa lotta, era ancora possibile, nel quadro della democrazia, un qualche intervento autonomo della classe oppressa), diviene suo prodotto immediato per la mistificazione e l’oppressione diretta. La comunità popolare nazi-fascista, orrendo sostituto della Gemeinwesen, realizzò, attraverso il corporativismo e l’apologia del lavoro, in quanto accessorio del capitale (unità armonica capitale-lavoro), la mistificazione democratica (democrazia = potere del popolo). Se nel fascismo il principio democratico sembra annullarsi, è perché in realtà esso si invera.
[…] Il potere al fascismo implicava però l’assorbimento totalitario di tutte le rappresentazioni politiche nello specchio deformante del capitale, ed escluse quindi i politicanti borghesi, liberali, cattolici e socialdemocratici. Dopo il conflitto del ’39-45, l’araba fenice della «nuova democrazia» saprà a sua volta far proprie le tecniche dell’organizzazione, propaganda e pubblicità fasciste, dello spettacolo sociale e politico, ma alla fragile rigidità dell’unico specchio (o con me o contro di me), riuscirà a sostituire un «libero» sistema labirintico di identificazioni prestabilite (o con me o «contro di me», ma sempre con me)9.

E questo è solo un assaggio di un testo antologico ricco, stimolante e, davvero, imperdibile per chiunque voglia iniziare a riorientarsi in mezzo alle chimere mediatiche e politiche che oggi tentano ancora, purtroppo riuscendoci troppo spesso, di irretire le coscienze e il desiderio di lotta e ribellione che anima le giovani generazioni e i lavoratori e le lavoratrici disorientati davanti ad un modo di produzione spietato, il cui unico destino non è quello di esser migliorato e, allo stesso tempo, salvaguardato nelle sue forme più moderne, ma soltanto quello di essere distrutto dall’insurrezione proletaria che non farà sconti a nessuno dei suoi funzionari e portavoce.
Né di destra né, tanto meno, di sinistra.


  1. Titolo originale: Quand meurent les insurrections (1999), La Petite Bibliothèque PDF de la Matérielle, ADEL c/o Échanges, BP 2475866 Paris Cedex 18, 2005. Si tratta di una versione interamente riveduta della “Présentation” a «Bilan». Contre-révolution en Espagne. 1936-1939, UGE 10/18, Paris, 1979.  

  2. G. Dauvé, Quando muoiono le insurrezioni, ora in Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 13-14.  

  3. Una intervista ad Amadeo Bordiga, Raccolta da Edek Osser, giugno 1970, in «Rivista di storia contemporanea», n. 3, settembre 1973.  

  4. Un intervista ad Amadeo Bordiga (1970) ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 112-113.  

  5. Plomb, Mitraille, Prison: Ainsi répond le Front Populaire aux ouvriers de Barcelone osant résister à l’attaque capitaliste, in «Bilan», Bulletin théorique mensuel de la Fraction italienne de la Gauche communiste, Paris, n. 41, maggio-giugno 1937, pp. 1333-1337.  

  6. Si tratta del luglio 1936, data di inizio del golpe franchista e della massiccia e inequivocabile risposta allo stesso da parte del proletariato barcellonese.  

  7. Piombo, mitraglia, prigione: così risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all’attacco capitalista, ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 213-215.  

  8. Francesco Santini – Joe Fallisi, La controrivoluzione «antifascista»…, in «Puzz», n. 19 – «Gatti selvaggi», n. 3, Edizione speciale, aprile-maggio 1975, pp. 17-20.  

  9. F. Santini – J. Fallisi, La controrivoluzione «antifascista», ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 335- 339.  

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Cronache marsigliesi / 6: È la lotta che crea l’organizzazione. https://www.carmillaonline.com/2023/06/29/cronache-marsigliesi-6-e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione/ Thu, 29 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77971 di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità [...]]]> di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità di sorta, sul terreno del potere. L’anomalia di massa di queste mobilitazioni sono stati i netturbini di Parigi, non per caso a maggioranza di “pelle scura”, i quali sono stati puntualmente messi all’angolo sia dalle organizzazioni sindacali sia da gran parte di quella “aristocrazia operaia” che non ha mai fatto mistero di trovarsi a proprio agio intorno alla “linea del colore” che governa la società francese oltre a percepirsi come “ceto medio”.

La questione della “bianchità”, costantemente eluso dagli irriducibili socialdemocratici e dagli improvvisati estremisti, è riemersa in tutto il suo portato strategico anzi, se la “frattura coloniale” è stato il leitmotiv della società francese del secondo dopo guerra, oggi questa frattura si fa “forma stato” a tutto tondo poiché è proprio intorno alla “linea del colore” che si è riorganizzato il comando. Tuttavia non sempre tutto il male viene per nuocere poiché il “movimento francese” ha sicuramente insegnato qualcosa di importante, l’epopea della mediazione è al tramonto e il rapporto tra proletari e stato non può che darsi sul terreno della “guerra” e del “potere”. “Guerra” perché per il comando le masse subalterne vanno e devono essere annichilite e private di qualunque legittimità politica e sociale per poter essere tranquillamente perimetrate negli impolitici ambiti della marginalità e dell’esclusione; “potere” perché ogni lotta diventa un corpo a corpo tra le classi e il dominio. In questo modo saltano per intero le divisioni tra “lotte economiche” e “lotte politiche” e ogni “lotta economica”, come l’operaismo italiano aveva abbondantemente anticipato, diventa immediatamente “lotta politica”.

Ciò che Macron e il suo governo, attraverso una intransigenza e una determinazione non proprio irrilevanti, hanno voluto esplicitare eludendo ogni dubbio di sorta è stata proprio una affermazione di potere. Di fronte a ciò quel movimento non poteva che naufragare ma, come si è detto, non tutti i mali vengono per nuocere. La sconfitta ha semplicemente ratificato l’archiviazione di una fase storica e di un segmento di classe che la ha ampiamente incarnata, non certo il tramonto del conflitto di classe, piuttosto il contrario. Il comando può, e lo sta facendo, porre in soffitta l’aristocrazia operaia ma non per questo può illudersi di inibire il lavorio della vecchia talpa.

Il comando è sicuramente in grado di esercitare il dominio ma non di porre rimedio alle contraddizioni che il suo sistema si porta appresso anzi, a un occhio minimamente attento, diventa evidente come l’esercizio del dominio sia direttamente proporzionale alla progressione geometrica delle contraddizioni. A fronte di ciò asserire che il “testamento” di Rosa, ero, sono, sarò, potrebbe rivelarsi più che un semplice augurio frutto dell’ottimismo della volontà ma la realistica constatazione della concretezza della ragione ha una sua sensatezza. Tutto questo all’interno di un contesto di guerra che non è più una semplice tendenza bensì il qui e ora dello scenario internazionale.

Certo, a ben vedere, l’Europa non è mai stata in pace tanto che, la stessa espressione “secondo dopoguerra”, fotografa appieno quella “bianchità” propria delle nostre società. L’Europa, e con lei l’insieme dell’Occidente è stata costantemente in guerra con le popolazioni non bianche ed è sulle sue baionette che hanno marciato le politiche imperialiste un aspetto che la fine del bipolarismo e l’affermarsi dell’era globale ha ampiamente enfatizzato. Oggi, però, siamo di fronte a qualcosa di diverso a un vero e proprio salto di qualità della guerra, oggi l’Europa è coinvolta nella guerra in prima persona e la conduzione della guerra interna contro le proprie masse subalterne assume i tratti della complementarietà rispetto alla guerra nel suo insieme.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce attraverso le quali il comando esercita il suo dominio, questa la “porta stretta” attraverso la quale ogni conflitto sarà obbligato a passare. Un compito che realisticamente non poteva e non può essere retto dalla aristocrazia operaia ma solo da un proletariato in grado di assumere la guerra come “cuore del politico”. Se tutto ciò avverrà è impossibile dirlo ma sapersi muovere dentro questa strettoia è il compito di ogni comunista, del resto, per dirla con Blanqui, il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione.
Chiusa questa breve premessa entriamo nel merito della questione.

Se, nell’articolo precedente abbiamo provato, in maniera sicuramente tutt’altro che esaustiva, a delineare l’attuale “piano del capitale” oggi, sulla scia delle informazioni che l’inchiesta ci ha fornito cercheremo di dire qualcosa intorno alla soggettività della classe. Con non poche acume Marx, già nel Manifesto, avvertiva come il capitalismo sovvertisse in continuazione non semplicemente la produzione ma tutti gli ambiti e le sfere della vita sociale. Per molti versi il capitale è sin da subito “capitale totale” e il suo divenire non può che darsi sotto le spoglie di una “rivoluzione permanente”. Una rivoluzione che è figlia non solo di quelle che possiamo chiamare le tendenze oggettive del capitale ma, e soprattutto, del conflitto di classe che è il motore stesso dello sviluppo capitalista.

Tutto ciò, ovviamente, non può che andare a intaccare per prima cosa la “composizione di classe” il che ha delle ricadute non proprio irrilevanti. Ciò che abbiamo provato a descrivere e raccontare nelle puntate precedenti ne ha fornito più di una traccia. Queste tracce sono importanti poiché è proprio da queste che è possibile sovvertire un vecchio vizio dell’ortodossia marxista ovvero leggere il divenire storico a partire dal punto di vista del capitale il quale diventa tanto il punto di partenza quanto di arrivo del processo storico. Su ciò si basa l’oggettivismo e il coevo scientismo che ha fatto da sfondo allo storicismo marxista. In tutto ciò il punto di vista della classe diventa un fattore tanto inutile quanto superfluo tanto da renderla una realtà sempre uguale a se stessa. Ciò che per Marx (la classe), in fondo, è assunto come modello ideal–tipico, per l’ortodossia comunista diventa elemento empirico a tutto tondo. La soggettività della classe, a conti fatti, diventa del tutto inessenziale poiché solo attraverso la soggettività politica (il partito) sarebbe in grado di animarsi. Un fare che va oltre l’autismo e si mostra palesemente contro fattuale rispetto al mondo reale e la riduzione a qualcosa di non distante dalla setta talmudica degli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste odierne ne rappresentano il tragicomico approdo.

Vestali di una ortodossia, comicamente declinata in una quantità di chiese da far invidia al burlesco mondo religioso statunitense, passano mestamente il tempo, oltre che nella reiterazione delle liturgie, andando alla ricerca della “vera” interpretazione dei testi. Così come la Bibbia, il Corano, la Torah e il Talmud, a seconda dei gusti, hanno già detto tutto anche i “sacri testi marxisti” sono, in sé, esaustivi si tratta solo di saperli interpretare. Un fare dottrinario il quale, grottesco a parte, dimentica che tutta la storia del movimento comunista è storia di eresie e, sotto questo aspetto, il leninismo è stata l’eresia per eccellenza.

Ogni fase storica non può che rompere con il passato e porre in atto la “sua ortodossia” che risulta, e non potrebbe essere altrimenti, blasfema nei confronti di ciò che l’ha preceduta, ma non solo. Ogni composizione di classe elabora un “punto di vista” che è il frutto di molteplici fattori i quali nulla hanno più a che fare con le retoriche che hanno fatto da sfondo alle epoche passate. Come ricorda Marx è la borghesia rivoluzionaria che, per glorificare se stessa, attinge dalle epoche eroiche del passato tanto che, la Grande rivoluzione, si specchiò nella Roma repubblicana, ma ciò non vale per il proletariato. Le rivoluzioni proletarie stanno sempre sul filo del tempo e benché se con le spalle sono sempre rivolte al futuro, è sul presente che focalizzano sguardi e desideri. A ben vedere, infatti, il famoso vogliamo tutto (e lo vogliamo adesso) degli operai Fiat non era poi così innovativo poiché non era altro, sicuramente sotto altra forma, del sogno comunardo che sparando agli orologi liberava, qui e ora, il tempo e la vita dagli imperativi del capitale o dell’Ottobre che poneva fine alla guerra e consegnava, qui e ora, il potere ai Soviet.

La classe è sempre “immediatista” e non potrebbe essere altrimenti, il che la rende poco prona alle retoriche del “sol dell’avvenir”. La sua “Teologia” è sempre una teologia del presente poiché se “lo stato di eccezione” è la condizione di vita normale degli operai la lotta per la sua abolizione non può che avvenire adesso. Per la classe il “paradiso” non può attendere e per questo non può che elaborare in continuazione una “eresia” in grado di farsi programma di potere del e per il comunismo. In questo senso, allora, si può parlare a ragione di “invarianza” della “linea di condotta” operaia e proletaria ma, una volta riconosciuto ciò, quella che va colta è la dimensione concreto all’interno della quale la “invarianza proletaria” prende forma.

Se pensiamo all’Italia, il paese dove tra gli anni ’60 e ’70 il conflitto di classe ha raggiunto la massima tensione all’interno di un contesto imperialista, è abbastanza facile notare quanto solo le realtà “eretiche” siano state le sole a incarnare le necessità della nuova composizione di classe. Lotta continua e Potere operaio prima, L’Autonomia operaia (con tutte le sue anime), le Brigate rosse e Prima linea dopo sono state le organizzazioni che, alla scala della storia, possono dire di aver rappresentato l’espressione concreta della classe e della sua soggettività mentre la miriade di partiti, partitini e organizzazioni sorte ideologicamente e non materialisticamente sull’onda della lotta operaia e proletaria hanno conosciuto un’esistenza effimera della quale il mondo si è velocemente dimenticato.

Le organizzazioni sopra ricordate, invece, sono state in grado di segnare un’epoca proprio in virtù delle rotture che hanno esercitato nei confronti dell’ortodossia terzinternazionalista verso la quale, invece, tutti gli altri cercavano di farne risorgere i fasti. Un po’ come oggi le varie sette si interrogano su quale sia il modo giusto e corretto di interpretare le scritture in quel periodo gruppi e gruppetti, all’ombra della salma di Lenin ma non della sua teoria politica, si arrovellavano il cervello per rimettere in vita il cadavere della Terza internazionale e più si intestardivano in ciò, più precipitavano nel tragicomico.

Lotta continua e Potere operaio per prime e successivamente le organizzazioni sorte dalle ceneri di queste si caratterizzarono proprio per la rottura con la pur eroica storia della Terza internazionale. L’operaismo constatò, e fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la fine della separazione tra lotta economica e lotta politica mentre, le Brigate rosse, decretarono la fine della divisione tra politico e militare. Due passaggi che rompevano radicalmente con tutta una tradizione ma che, alla prova dei fatti, risultarono essere decisivi per ciò che una determinata composizione di classe e coeva soggettività aveva imposto al treno della storia. Con non poca ironia rimane da rilevare come nei confronti di tutte queste esperienze gli ortodossi dell’epoca riversarono tutte le accuse che i leader della Seconda internazionale rovesciarono su Lenin. Le accuse di blanquismo, anarchismo, terrorismo, spontaneismo ecc., andarono a ruba ma il tempo è galantuomo e dei censori dell’epoca non è rimasto traccia mentre quelle organizzazioni fanno parlare di sé ancora oggi.

A partire da questa premessa proveremo a dire qualcosa sulla classe tenendo conto di ciò che i materiali empirici raccolti sembrano raccontarci. Se nell’articolo precedente abbiamo parlato del “punto di vista” del capitale, poiché l’omogeneità del suo progetto sembra uniformare l’intero fronte borghese con buona pace dei “tardo comunisti” alla ricerca di frazioni di borghesia da cooptare in un novello “fronte nazionale sovranista” al fine di ridare fiato al mostro dello stato–nazione, adesso siamo obbligati a parlare dei “punti di vista” della classe.

Già, “punti di vista” poiché ciò che empiricamente ci racconta la classe è una pluralità che solo i ciechi e gli ottusi, o entrambi, non sono in grado di cogliere ma non solo. Se per molti versi ciò è sempre stato vero poiché la classe non è mai stata un tutto omogeneo, oggi a venir meno è l’esistenza di un settore di classe in grado di riunificare sotto la sua direzione l’intero corpo di classe. Oggi nessuna frazione della classe può assolvere a questo compito poiché alcun luogo di lavoro può vantare quella centralità che, per esempio, è stato in grado di esercitare, nel corso degli anni ’60 e ’70 italiani, il proletariato concentrato nella grande fabbrica fordista . La frantumazione del lavoro e il suo essere flessibile e precario ha posto in essere un proletariato la cui esistenza ben poco ha a che spartire con il passato, ma non solo.

Il mondo globale ha fatto saltare, o lo sta facendo, tutte le retoriche europee del “novecento” dando forma e corpo a una tipologia proletaria affine a ciò che possiamo in qualche modo definire proletariato internazionale. Una figura che ha perso, o tende a farlo, la “particolarità europea” per allinearsi, sicuramente con gradazioni assai diverse, a quella massa operaia, proletaria e subalterna attraverso la quale il comando dell’era globale pone in atto i suoi cicli di accumulazione su scala planetaria. Ma questo, andando al sodo, cosa comporta? Partiamo da ciò che la nostra modesta inchiesta è in grado di raccontarci.

Il primo aspetto che pare sensato evidenziare riguarda le piccole rotture che si sono verificate all’interno del corpo sociale che ha dato vita al movimento contro la legge sulle pensioni. Abbiamo visto come, se pur in maniera estremamente ridotta, piccoli gruppi di aristocrazia operaia abbiano rotto gli argini, posizionandosi in maniera del tutto anomala rispetto al grosso del movimento. Blocchi selvaggi e azioni di sabotaggio hanno caratterizzato questa rottura. Non siamo certo in grado, a partire da queste scarne notizie, di ipotizzare cosa e dove porterà tutto ciò, quello che possiamo fare, però, è tentare un ragionamento su questa tendenza. Sicuramente, almeno per ora, la stragrande maggioranza del mondo dei garantiti sembra ben distante dal cogliere il vero senso della posta in palio di ciò che ha rappresentato lo scontro sulle pensioni e continua a coltivare l’illusione che, in fondo, tutto finirà con l’aggiustarsi ma questa convinzione non può che andare in frantumi a fronte di ciò che il “piano del capitale” si è posto come obiettivo strategico. A quel punto i garantiti dovranno prendere atto che o accettano di lottare sui livelli di scontro imposti dal comando o devono rassegnarsi a soccombere.

Sicuramente la parte di garantiti più avanti negli anni, non senza sensatezza, proverà a tirare a campare e a gestirsi una vecchiaia senza troppi scossoni, ma in Francia tra i garantiti vi sono moltissime persone giovani per le quali le trasformazioni in atto avranno conseguenze non proprio irrilevanti e per le quali tirare a campare non sarà possibile poiché, un passo dopo l’altro, la loro condizione sarà sempre più assimilata a quella massa sterminata di “proletariato senza volto” i cui numeri, anche in Francia, sono già maggioranza. Certo questo settore di classe, per condizione e tradizione, non ha grande dimestichezza con determinate forme di lotta ed è sicuramente più moderato del “proletariato senza volto” ma, dalla sua, ha una non secondaria attitudine all’organizzazione e alla disciplina aspetti che, palesemente, sembrano assenti al resto della classe.

Nei probabili scollamenti del prossimo futuro queste attitudini non verranno sicuramente meno e potrebbero essere riversate, sicuramente in maniera non meccanica, sull’intero corpo di classe offrendo loro una base intorno alla quale costruire processi organizzativi il che sarebbe tanta manna per un proletariato più prossimo al riot che alla strutturazione di una lotta di lunga durata. Il tutto senza dimenticare che, questa classe operaia e questo proletariato, trova la sua base di forza dentro i luoghi di lavoro i quali, una volta depurati dalle retoriche prone alla concertazione, potrebbero trasformarsi in luoghi del potere operaio a tutto tondo.

Stiamo sognando? Forse, ma in fondo non è da oggi che ci muoviamo dicendo: “Bisogna sognare!” e siamo pericolosi e realisti proprio perché sogniamo si ma “a occhi aperti”. Quanto appena esposto è sicuramente solo un’ipotesi e una possibile tendenza le cui basi, però, hanno ben poco del fare ingenuo degli eterni acchiappa nuvole, ma affondano le loro radici all’interno dei processi materiali posti in atto dal comando stesso perciò: chi vivrà, vedrà!

Detto ciò proviamo a dire qualcosa intorno al caos che fa da sfondo alla stragrande maggioranza della classe. Abbiamo visto come le vite di questo proletariato siano ben poco stabili per cui lo scavo della “vecchia talpa” non può avere un cammino lineare. Rispetto all’epoca che ci siamo lasciati alle spalle una prima cosa sembra centrale: il territorio più che il luogo di lavoro può essere il punto di forza della classe. Siamo cresciuti in epoche in cui il “potere operaio” di fabbrica si irradiava sul territorio dando forza a tutte le componenti del proletariato metropolitano oggi, con ogni probabilità è necessario praticare l’inverso. Se, per tutta una fase, era stato possibile fare della fabbrica un Vietnam oggi quella logica va riversata sul territorio il che non vuol dire abbandonare i posti di lavoro come luoghi del conflitto ma, più realisticamente, prendere atto dei rapporti di forza in atto; del resto, anche nel corso dell’epopea del potere operaio di fabbrica, in determinati contesti era l’esterno a fare da supporto all’interno, il territorio all’officina,

Accanto alla grande fabbrica fordista o alle consorelle di media dimensione erano pur sempre presenti un pullulare di piccole aziende e officine dove i rapporti di forza padroni – classe operaia non potevano certo vantare quelli messi in campo dentro le grosse concentrazioni operaie e che, per molti versi, vivevano una condizione non dissimile da quella che riscontriamo oggi tra gran parte della classe. In quei contesti, per poter vincere, la lotta operaia necessitava di un supporto, tutta la storia delle ronde e delle squadre operaie racconta esattamente questa storia. Per alcuni versi, quindi, molti aspetti del passato sembrano doverosamente convivere con alcuni tratti del presente.

L’organizzazione all’interno dei posti di lavoro rimane sicuramente essenziale, e fortunatamente abbiamo non secondarie avvisaglie di settori precari che si muovono in quella direzione, ma resta pur sempre il fatto che se lasciate a se stesse queste lotte possono essere facilmente isolate prima, annichilite dopo. Perché queste lotte non rimangano invisibili occorre che vengano fatte proprie in maniera militante da ampi spezzoni di classe e questo ci porta a affrontare uno dei temi costantemente emersi nel corso della ricerca: la militarizzazione del territorio.

Abbiamo visto come sia intorno all’industria del turismo che la forza lavoro precaria trova occupazione e come questi luoghi, per assolvere appieno alla loro funzione produttiva, debbano essere forzatamente pacificati. In questi luoghi del conflitto non si deve avere neppure il più lontano sentore. Ciò comporta che, anche una normale lotta “sindacale”, non possa essere tollerata ma non solo perché andrebbe a incrinare quel frame che è l’inizio e la fine della “città turistica”. Qua ogni lotta deve essere rimossa e rimossa deve essere tutta quella parte di popolazione mobilitatasi intorno alla lotta. Tutto ciò, per forza di cose, impone un salto politico e organizzativo, il “diritto alla lotta” può essere esercitato solo attraverso la messa in campo di determinati rapporti di forza e questi rapporti, senza girarci troppo attorno, comportano anche la strutturazione di una “forza operaia” in grado di arginare e incrinare le logiche e pratiche di militarizzazione intorno alle quali è costruita la “città turistica”.

Abbiamo fatto solo un piccolo esempio che, però, è in grado di evidenziare la complessità che l’organizzazione del nuovo proletariato si porta appresso. La questione della militarizzazione non si ferma a ciò. Abbiamo visto come è dentro il quartiere proletario che si raggiungono i massimi livelli repressivi e militari, ma abbiamo visto anche come, proprio dentro il quartiere, forme di organizzazione più o meno formali prendano corpo. Il quartiere proletario è un concentrato di tensioni e conflitti che la “forma–stato” attuale può solo contenere e reprimere non certo mediare. Lì diventa possibile costruire “forme di potere proletario” che facciano del territorio una sorta di “zona liberata” all’interno della quale lo stato ha sempre più difficoltà a intervenire. Certo, come alcune interviste hanno ben evidenziato, dentro i territori non esiste una sola narrazione piuttosto una molteplicità di “punti di vista” che non possono essere unificati per decreto ma solo attraverso la sperimentazione e la prassi, la sfida è esattamente qua.

Abbiamo visto, e non è un esempio secondario, come le donne e le loro lotte assumano un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei e, per molti versi, si può anche asserire che le donne rappresentino uno dei punti più alti dello scontro in atto. La loro critica al patriarcato è immediatamente critica al mostro statuale il che non è proprio un passaggio privo di ricadute. Le donne chiudono a ogni illusione sulla “forma–stato” delle cui nefandezze, semmai ve ne fosse ancora bisogno, il “socialismo reale” ha dato ampia testimonianza. Nella pratica e nelle lotte delle donne si afferma un “potere costituente dal basso” che, per alcuni versi, fa riecheggiare quel: Tutto il potere ai Soviet! su cui si era irradiato l’Ottobre ma lo fa in maniera decisamente più radicale poiché, alle spalle, ha una storia e una pratica che ha posto in evidenza come sia impossibile fuoriuscire dai rapporti sociali capitalisti se non si intaccano a fondo le strutture, la famiglia e tutti i suoi derivati normativi in primis, che di questi rapporti ne sono i capi saldi. La lotta contro il sessismo e l’omofobia ne rappresentano un tratto per nulla secondario, infine sono le donne che, quasi all’unisono, pongono la questione della autodifesa e dell’esercizio della forza e non è proprio una cosa da poco.

Un altro aspetto emerso riguarda il retaggio della memoria coloniale e l’assunzione in termini “culturali”, l’ostentazione del “velo” ne è la migliore esemplificazione, di questa storia. Si tratta di qualcosa, almeno per noi, di spiazzante ma che non può e non deve essere liquidato come qualcosa di irrisorio. Abbiamo visto come queste retoriche, significative le interviste che hanno affrontato il tema della prigione, siano in grado di ottenere una certa presa, poiché in grado di fornire una identità forte, tra gli strati più bassi della popolazione postcoloniale e per questo non possono essere liquidate in quattro battute.

In fondo queste retoriche ci dicono quanta “fame di politica” abbiano le masse e questa “fame”, se non trova una sponda comunista, finisce facilmente con l’essere saziata dai vari “fondamentalismi”. Sulla “fame di politica” delle masse si era consumata, e mai come in questo frangente sembra il caso di ricordarlo, una drastica rottura tra Lenin e ciò che passerà alla storia come menscevismo poiché, mentre i menscevichi consideravano l’operaio incapace di andare oltre alla “lotta per il copeco”, Lenin coglieva il bisogno di politica, che per lui era il bisogno dell’insurrezione, che, anche se in maniera spesso confusa si agitava tra le masse.

Il “gemito degli oppressi” di queste masse, allora, non è altro, pur se in forma alienata , che la richiesta di una prospettiva politica che lo porti fuori dallo “stato di eccezione”. La cooperazione di alcuni di questi dentro le lotte per la casa nei quartieri è di per sé indicativo. Siamo di fronte a un proletariato frantumato che solo dentro la lotta può ipotizzare di ricomporsi e costruire organizzazione, per questo l’inchiesta militante è un momento essenziale della relazione tra soggettività della classe e soggettività politica.

Sulla scia di ciò, senza cullare eccessive aspettative, pare sensato asserire che nonostante tutto la Vecchia talpa sia viva e vegeta. L’autunno prossimo si profila particolarmente caldo poiché l’attacco del comando alle condizioni di vita del proletariato francese conoscerà un nuovo “grande balzo”, la sanità e i suoi costi sono già stati posti nel mirino di Macron. Per quelle date ci auguriamo di riprendere le nostre “cronache marsigliesi” con narrazioni maggiormente entusiaste.

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Attitudine hacker e tecnologie conviviali https://www.carmillaonline.com/2023/04/13/attitudine-hacker-e-tecnologie-conviviali/ Thu, 13 Apr 2023 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76634 di Gioacchino Toni

Carlo Milani, Tecnologie conviviali, elèuthera, Milano, 2022, pp. 248, € 17,00

«Come possiamo affidare le nostre relazioni a sistemi di cui non sappiamo praticamente nulla, sui quali non esercitiamo alcun potere reale? Non abbiamo contribuito alla produzione delle norme che regolano le interazioni tecniche, e non abbiamo alcun potere. Ma il potere è proprio quello che ci serve per cambiare le cose». «Questo libro parla esattamente del potere, di come gli strumenti in generale siano fonte di potere, e in particolare gli strumenti elettronici che nel XXI secolo vanno sotto [...]]]> di Gioacchino Toni

Carlo Milani, Tecnologie conviviali, elèuthera, Milano, 2022, pp. 248, € 17,00

«Come possiamo affidare le nostre relazioni a sistemi di cui non sappiamo praticamente nulla, sui quali non esercitiamo alcun potere reale? Non abbiamo contribuito alla produzione delle norme che regolano le interazioni tecniche, e non abbiamo alcun potere. Ma il potere è proprio quello che ci serve per cambiare le cose». «Questo libro parla esattamente del potere, di come gli strumenti in generale siano fonte di potere, e in particolare gli strumenti elettronici che nel XXI secolo vanno sotto il nome collettivo di “tecnologie digitali”, anche se si tratta di apparecchi molto diversi fra loro. Parla di come possiamo non solo immaginare, ma anche concretamente operare in modo che il potere possa essere esercitato in maniera diversa. Per fare ricreazione, costruire spazi dove può fiorire il mutuo appoggio». Così Milani riassume l’intento che si pone con il suo volume dedicato alle “tecnologie conviviali” e all’“attitudine hacker”.

L’autore inviata a concepire gli strumenti elettronici come «potenziali alleati per costruire relazioni di mutuo appoggio»; se questi non si rivelano utili a «diffondere il loro potere per realizzare autogestione e abolire il principio del governo a tutti i livelli», allora non sono che «strumenti di oppressione, individuale e collettiva». Il potere deve essere distribuito affinché non si accumuli strutturando gerarchie di dominio; soltanto attraverso la sua distribuzione si può ambire ad incrementare la libertà e l’uguaglianza di tutti e tutte.

Milani delinea la pedagogia hacker derivandola da una rielaborazione/intersezione dell’apprendimento esperienziale di David Boud, Ruth Cohen e David Walker, dei metodi d’azione di Jacob Levi Moreno della pedagogia critica di Paulo Freire. L’attitudine hacker prospettata dall’autore si fonda dunque su un particolare atteggiamento nei confronti delle tecnologie presupponendo «un essere umano che, nelle sue azioni concrete, mir[i] a ridurre l’alienazione tecnica, cioè il baratro che nel corso dell’evoluzione è stato scavato nei confronti degli esseri tecnici».

Intendendo con tecnologie «l’incarnazione concreta, materiale, tangibile di teorie e procedure che sono dei modi di fare, modi di costruire, ovvero tecniche», nell’analizzare l’articolazione delle tecnologie contemporanee in reti di “esseri tecnici”, Milani attinge all’idea di situated knowledges sviluppata da Donna Haraway. Indicando con “esseri tecnici” quelli che solitamente vengono rubricati come “oggetti tecnologici” o “strumenti tecnologici” l’autore sostiene che poiché questi «coabitano con altri esseri viventi e non sul pianeta Terra, e sono frutto delle loro interazioni tecniche, ne condividono le dinamiche evolutive di base, ossia adattamento (dalla funzione all’organo) ed esattamento (dall’organo alla funzione)».

Riprendendo Murray Bookchin, Milani distingue tra retaggio della libertà e retaggio del dominio sottolineando come l’accesso al potere rappresenti la «precondizione chiave di ogni possibile libertà. Senza potere, cioè senza possibilità di intervenire nella produzione e nell’applicazione di norme, non esiste libertà», dunque, nella consapevolezza della mutevolezza della “natura umana” e della “natura tecnica”, l’autore prospetta alcune linee guida utili a sviluppare “tecnologie conviviali” di liberazione reciproca.

Un primo passo in tale direzione presuppone l’inversione di quella tendenza a delegare la relazione con gli “esseri tecnici” agli “esperti” ed il rifiuto della «comodità della situazione di obbedienza quotidiana, obbedienza all’impulso di consultare il nostro cellulare, obbedienza alla coazione di ripetere ancora e ancora gesti studiati per provocare un piacere tanto effimero quanto tossico».

Limitarsi a guardare con superiorità agli esserei umani che cercano di ricavare dagli “esseri tecnici” «scariche di neurotrasmettitori, significa ignorare i meccanismi basilari delle interazioni effettive». Alle macchine opache e incomprensibili si possono contrapporre «macchine aperte, di cui si vede e capisce il funzionamento». Alla tecnocrazia imperante si devono saper contrapporre «metodi di collaborazione conviviale, concreti e semplici da mettere in atto», imparando a «selezionare le caratteristiche adeguate a sviluppare convivialità sia negli esseri umani, sia negli esseri tecnici». «A partire dalla propria prospettiva situata, chiunque può acquisire potere e diffonderlo, per aiutare a ridefinire in senso libertario le norme che regolano la vita sociale, di cui la tecnica è parte integrante».

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Arte pubblica. Le relazioni oltre le immagini https://www.carmillaonline.com/2022/12/15/arte-pubblica-le-relazioni-oltre-le-immagini/ Thu, 15 Dec 2022 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75158 Gioacchino Toni

Con arte pubblica si è soliti far riferimento a un eterogeneo insieme di forme estetiche e sperimentazioni artistiche che hanno luogo negli spazi pubblici e che, spesso, pur tra diverse contraddizioni, intendono dar voce alla comunità che vive quei luoghi o rivolgersi a essa e a chi attraversa quegli spazi. Di ciò si occupa il volume curato da Cecilia Guida e Roberto Pinto, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books, 2022) in cui sono raccolti saggi in italiano e inglese di artisti, curatori, sociologi [...]]]>

  • di Gioacchino Toni
  • Con arte pubblica si è soliti far riferimento a un eterogeneo insieme di forme estetiche e sperimentazioni artistiche che hanno luogo negli spazi pubblici e che, spesso, pur tra diverse contraddizioni, intendono dar voce alla comunità che vive quei luoghi o rivolgersi a essa e a chi attraversa quegli spazi. Di ciò si occupa il volume curato da Cecilia Guida e Roberto Pinto, Le relazioni oltre le immagini. Approcci teorici e pratiche dell’arte pubblica (postmedia books, 2022) in cui sono raccolti saggi in italiano e inglese di artisti, curatori, sociologi e storici dell’arte che riflettono sulle più diverse modalità di intervento negli spazi pubblici oltre che sul significato che i termini “arte” e “spazio pubblico” possono assumere nella contemporaneità, soprattutto se intesi nella loro funzione politica e partecipativa, di creazione di esperienze condivise con le comunità che vivono quegli spazi e con chi, più semplicemente, li attraversa.

    Scrive Cecilia Guida che quando si parla di arte pubblica ci si riferisce «a tutti quegli interventi oggettuali, immateriali e performativi che reimmaginano esteticamente uno spazio pubblico specifico, mettono al centro le comunità che lo abitano e sono in grado di innescare relazioni e connessioni tra istituzioni, sia pubbliche che private, la storia, le memorie e il tessuto sociale del luogo» (p. 19). Tale ambito assume maggior rilievo alla luce del moltiplicarsi delle riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme in uno spazio non confinato esclusivamente all’universo digitale che, complice la recente pandemia, sembrerebbe aver quasi monopolizzato le modalità e l’immaginario di vita comunitaria.

    Nello specifico, il volume, riccamente illustrato, riporta quanto emerso nel corso delle giornate di studio tenutesi tra giugno 2019 e ottobre 2020, nell’ambito del programma pubblico ArtLine, collezione a cielo aperto di interventi artistici permanenti nel parco idi City Life del Comune di Milano, dedicate alle diverse tendenze dell’arte pubblica e alle loro implicazioni sullo spazio sociale contemporaneo1.

    Nell’impossibilità di dar conto della mole di questioni poste dai diversi contributi, in questo scritto ci si limiterà a riportare alcune importanti riflessioni utili a mostrare come le questioni inerenti all’arte pubblica debbano necessariamente coinvolgere le comunità e non possano essere delegate alle istituzioni culturali urbane, ai finanziatori delle opere e nemmeno ai soli artisti che rischiano altrimenti di intervenire, nonostante i migliori propositi, in maniera impositiva su reali abitanti di quei territori. Questo vale tanto per gli artisti manstream chiamati e finanziati dagli amministratori e da privati che scambiano spesso e volentieri la riqualificazione urbana con la gentrificazione dei quartieri popolari, quanto per gli artisti underground che operano a colpi di spray legati magari a scenari alternativi a volte “importati” sui territori senza creare alcun dialogo con i suoi reali abitanti [su Carmilla 1 2 3].

    Antoni Muntadas, a partire da una riflessione sul termine “pubblico”, sul suo significare sia “spazio comune” che “spettatori”, sottolinea come sia importante distinguere tra “Arte nello spazio pubblico” e “Arte Pubblica”. Se nel primo caso si tratta di «opere installate e fruite nello spazio urbano ma [non] necessariamente correlate al contesto», nel secondo caso si tratta di «una condizione nella quale l’artista interviene in un determinato contesto urbano e sociale con un’opera specificatamente progettata per la comunità che la ospita» (p. 138).

    Muntadas, dopo aver evidenziato come sia difficile che l’artista contemporaneo riesca davvero a convivere all’interno di una comunità, prendendo parte alla sua quotidianità coinvolgendola nell’ideazione e realizzazione dell’intervento artistico sul territorio, si sofferma sul rapporto tra “monumento” e “permanenza”. Negli ultimi due secoli, sostiene, vi è stata una certa predisposizione all’edificazione di monumenti celebranti figure illustri o potenti, non a caso solitamente collocati su piedistallo, di tipo permanente. Ed è proprio in quella volontà di permanenza che Muntadas individua una forma di imposizione nei confronti della comunità. «Un committente, che può essere un’istituzione o una corporation, chiama un artista e sostiene i costi di produzione, senza prevedere un confronto con il contesto e la collettività. Il pubblico deve tollerare la presenza dell’opera permanente senza esprimersi» (p. 140).

    Lo spazio pubblico oggi è essenzialmente un “luogo di sorveglianza” (si pensi alla quantità di videocamere presenti) motivata da un’illusione di sicurezza, e già questo non lo rende uno spazio di libertà. Allo stesso tempo lo spazio pubblico contemporaneo è uno “spazio corporativo” che vincola il pubblico agli interessi economici. Chiedendosi come possa operare un artista all’interno di uno spazio di sorveglianza e corporativo, in un contesto sottoposto a un processo di gentrificazione ove il “valore culturale” di un territorio viene strettamente legato al suo “valore economico”, Muntadas risponde proponendo il ricorso ad un Intervento”, cioè alla collocazione nello spazio pubblico di un’opera di interesse artistico e culturale temporanea che resti instalalta per un periodo – breve o lungo che sia – rigorosamente prefissato. Il dialogo tra artista e comunità diviene dunque fondamentale anche nel decidere insieme se prolungare o meno la presenza nel luogo dell’Intervento a fronte dei cambiamenti intervenuti sul territorio o del deterioramento dell’opera stessa.

    Andrea Pinotti avvia invece la sua riflessione a partire dalla serie di attacchi iconoclasti legati al movimento Black Lives Matter che hanno preso di mira statue e monumenti associabili al razzismo, allo schiavismo e al colonialismo e che, fatte salve le motivazioni specifiche caso per caso, si inseriscono all’interno di una lunga tradizione. Pinotti sottolinea un paradosso che, a suo avviso, contraddistingue tali recenti atti distruttivi:

    nel momento in cui si accaniscono nei confronti di un’immagine memoriale, distruggendola, vengono immortalati […] nell’atto di annientarla, salvando per così dire nella rappresentazione della distruzione l’oggetto stesso la cui memoria andava appunto dannata. […] Uccidere un’immagine significa riconoscerla come viva, perché solo ciò che è vivo può venire ucciso. Dovremmo dunque trarre da questa affermazione la reciproca, e cioè sostenere che se uccidere un’immagine significa riconoscerla come vivente, conservarla in esistenza significa riconoscerla come morta? (pp. 323-324).

    A distruggere la carica mnesica del monumento sembra piuttosto provvedere la disattenzione; nel non prestare interesse al monumento non ci si cura nemmeno di ciò che rappresenta.

    Il monumento, qualsiasi esso sia, nato in un contesto specifico, nel suo essere testimonianza innanzitutto di tale contesto, deve per forza di cose essere preservato o può essere lasciato in balia delle mutevoli sorti della storia, dei rivolgimenti politici e sociali, sino ad accettarne la distruttibilità? Da parte sua Pinotti invita a «ripensare a un concetto di monumento che prenda congedo dalla statica rappresentazione di un partito preso ideologico, per aprirsi a quella che con Walter Benjamin potremmo chiamare “immagine dialettica”: un’immagine capace di incorporare dinamicamente istanze differenti persino configgenti, persino contraddittorie» (p. 326). A ciò. Continua Pinotti, possono concorrere le nove tecnologie digitale in Realtà Aumentata.

    Il 18 ottobre 2020 il centro sociale “Cantiere” e il comitato “Abba vive” installano nei Giardini Montanelli senza autorizzazione una statua in ferro realizzata dallo scultore senegalese Mor Talla Seck e dedicata a Thomas Sankara, il carismatico leader rivoluzionario del Burkina Faso assassinato nel 1987. Il monumento viene prontamente rimosso dalla polizia locale il giorno successivo. Reagendo contro la rimozione, il Collettivo del Cantiere ha inaugurato il 24 ottobre “la statua non c ’ è”: “La statua di Sankara è sostituita da un punto di domanda. Il punto di onda è un maker che inquartato con la app Artivive consente di vedere la statua, in attesa che chi la ha sequestrata la restituisca. Ma il punto di domanda rappresenta anche le tante domande scomode che si vogliono rimuovere insieme alla memoria e al presente dell’oppressione coloniale” (p. 327).

    Nelle tecnologie digitali Pinotti vede una possibilità per andare oltre il “contro-monumento” o l’“anti-monumento” consentendo di guardare allo spazio pubblico e ai suoi monumenti per come il potere li propone e, allo stesso tempo, per come li si può vedere altrimenti, senza bisogno di distruggere l’esistente e senza cancellare il dissenso nei confronti di esso. Insomma, nell’arena di conflitti che sono gli spazi urbani, anche i monumenti svolgono la loro parte.


    1. Sono presenti contributi di: Kasper König, Mary Jane Jacob, Irit Rogoff, Charles Esche, James Lingwood, Pascal Gielen, Akiko Miki, Antoni Muntadas, Olu Oguibe, Edi Muka, Anton Vidokle, Jeanne van Heeswijk, Alberto Garutti, Cesare Pietroiusti, Marco Scotini, Luca Vitone, Iolanda Ratti con Liliana Moro e Riccardo Benassi, Iida Shihoko, Diego Sileo, Fiamma Montezemolo, Basak Senova, Anna Detheridge, Leone Contini, Andrea Pinotti, Emanuela De Cecco, Gabi Scardi, Francesca Comisso (a.titolo), Micaela Martegani, Federico Rahola, Katia Anguelova, Orietta Brombin. 

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    Estetiche inquiete. L’ordine infranto da un astuto criminale e il caos portato da una sguaiata banda di agenti segreti (1/2) https://www.carmillaonline.com/2022/09/15/estetiche-inquiete-lordine-infranto-da-un-astuto-criminale-e-il-caos-portato-da-una-sguaiata-banda-di-agenti-segreti-1-2/ Thu, 15 Sep 2022 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73840 di Gioacchino Toni

    Il volume di Davide Steccanella, La filosofia di Diabolik e Alan Ford. Un criminale e una banda di agenti segreti squattrinati all’assalto della generazione ribelle (Mimesis, 2022), ricostruisce le caratteristiche principali di due fumetti italiani di grande successo che, facendo capolino rispettivamente in apertura e in chiusura degli anni Sessanta, hanno saputo far breccia all’interno dell’immaginario inquieto del momento.

    Il 1° novembre del 1962 fa la sua comparsa nelle edicole italiane un giornalino in formato tascabile, di centoventotto pagine in bianco e nero, con una copertina in buona parte occupata [...]]]> di Gioacchino Toni

    Il volume di Davide Steccanella, La filosofia di Diabolik e Alan Ford. Un criminale e una banda di agenti segreti squattrinati all’assalto della generazione ribelle (Mimesis, 2022), ricostruisce le caratteristiche principali di due fumetti italiani di grande successo che, facendo capolino rispettivamente in apertura e in chiusura degli anni Sessanta, hanno saputo far breccia all’interno dell’immaginario inquieto del momento.

    Il 1° novembre del 1962 fa la sua comparsa nelle edicole italiane un giornalino in formato tascabile, di centoventotto pagine in bianco e nero, con una copertina in buona parte occupata da un volto maschile mascherato da un’aderente tessuto nero da cui sbuca uno sguardo spietato al cospetto di una figura femminile terrorizzata in primo piano.

    Quel giornalino, stampato e distribuito in un numero ridotto di copie e venduto a 150 lire, si presenta ai lettori come Diabolik, suggerendo loro che si tratta di un “fumetto del brivido”. Pur trattandosi di un “romanzo completo”, come si evidenzia in copertina, intitolato Il re del terrore, dalla costina color azzurro si comprende di essere di fronte al primo albo di una nuova serie.

    La scelta del nome Diabolik, con la “k” finale, si deve a una felice intuizione di Angela Giussani – vera e propria creatrice del fumetto, poi affiancata, dopo una dozzina di albi, dalla sorella Luciana –, che vede nel ricorso alla durezza di quella lettera un espediente utile a rafforzare l’idea di “potenza” del personaggio e con esso delle vicende narrate. Ad accrescere il senso di “diabolica inquietudine” è anche l’efficace font di colore rosso utilizzato per il nome della testata.

    Se a tutto ciò si aggiunge un’immagine di copertina di forte impatto per i primi anni Sessanta, anche soltanto osservando l’albo in edicola, si comprende come l’ambizione della pubblicazione sia quella si incontrare anche lettori adulti. Non a caso la scelta del formato tascabile a storia completa viene ritenuta dalle sorelle Giussani particolarmente adatta ad intercettare i pendolari offrendo loro una rapida lettura di intrattenimento durante i brevi viaggi quotidiani in treno.

    Se l’idea del personaggio e la trama di quel primo episodio si devono all’inventiva di Angela Giussani, curiosamente del disegnatore delle prime storie si sono, sin da subito, perse le tracce. Circa le fonti di ispirazione, la creatrice di Diabolik ha più volte affermato di aver attinto tanto da un particolare episodio di cronaca nera accaduto a Torino qualche anno prima – in cui l’autore di un brutale omicidio, incline a sfidare la polizia, si era firmato “Diabolich” –, quanto dal personaggio di Fantomas creato da Marcel Allain e Pierre Souvestre, capace di farsi beffe delle forze dell’ordine attraverso abili travestimenti. Altri riferimenti, suggerisce Steccanella, possono essere individuati persino in un personaggio lontano dall’efferatezza del “re del terrore” come Arsenio Lupin di Maurice Leblanc; quest’ultimo, Fantomas e Diabolik hanno infatti in comune il fatto di farla franca grazie ad un’astuzia non comune.

    I primi anni di vita del fumetto, ricorda Steccanella, sono segnati anche da guai giudiziari. La diffusione di copie omaggio dell’albo L’arresto di Diabolik (1963) a studenti delle scuole medie, riserva ad Angela Giussani un’accusa di incitamento alla corruzione minorile, da cui si salva anche grazie al fatto – come attesta la sentenza di assoluzione – che in copertina Diabolik viene mostrato in maniera rassicurante con le catene ai polsi. Altri guai giudiziari arrivano per l’episodio Il tesoro sommerso (1967) nella cui copertina compare “indecentemente” una donna in bichini.

    Al di là dei tribunali, accuse e critiche nei confronti del fumetto giungono da più parti; se tra i bempensanti turba, ad esempio, la convivenza di una coppia non sposata, anche in ambito femminista si muovono critiche alla pubblicazione. Divenuto presto un fenomeno di successo, il fumetto che ha reso popolare uno spietato assassino viene osservato con attenzione tanto dagli ambienti più tradizionalisti, che temono possa esercitare una cattivo influsso soprattutto sui più giovani, quanto da quelli più progressisti, messi in allarme dalle note individualiste e violente del protagonista e dal rapporto di potere che esercita sulla sua compagna.

    Ad affrontare Diabolik è anche Umberto Eco che, in un suo scritto di inizio anni Settanta intitolato Fascio e fumetto1, individua nei fumetti neri italiani dell’epoca alcune caratteristiche proprie del superuomo del romanzo di appendice tardottocentesco: pur trattandosi di personaggi negativi che agiscono al di fuori dei valori sociali condivisi, giustificati esclusivamente dal proprio tornaconto, ispirano simpatia nei lettori. Tale tipo di fumetti italiani, sostiene Eco, contribuisce alla diffusione dell’eroe cattivo.

    Nel tratteggiare le caratteristiche di fondo del fumetto delle sorelle Giussani, Steccanella sottolinea come il protagonista si riveli leale nei confronti della compagna con cui condivide una vita da eterni fuggiaschi, sia mosso dal fascino della sfida e non dalla ricerca della ricchezza, manifesti doti di grande intelligenza e cultura, si mostri maniacale nella cura dei dettagli e risoluto nel trovare a tutti i costi soluzione ai problemi che incontra.

    Dopo aver definito i tratti tipicamente delinquenziali del protagonista, con il passare degli anni si sono aggiunte altre caratteristiche che ne attenuano decisamente l’efferatezza, «come la nobiltà d’animo nel rapporto con Eva e un certo idealismo unito a fermezza nell’adesione a principi immutabili» utili a renderlo «sempre meno criminale e sempre più eroe romantico» (p. 51).

    A differenza di altri fumetti simili, Diabolik ha evitato di indugiare sugli aspetti morbosi e feroci, preferendo concentrarsi piuttosto sull’intrigo, le trovate e i colpi d’astuzia. Se i tratti iniziali del personaggio lo contrappongono al perbenismo dei primi anni Sessanta, man mano vira verso atteggiamenti di benevolenza verso i deboli e di rispetto nei confronti di quanti considera corretti.

    Il primo numero presenta i due nemici destinati a confrontarsi: Diabolik, astuto quanto spietato criminale, abile nell’assumere le sembianze altrui grazie a particolari maschere facciali che ne replicano perfettamente i volti, e l’altrettanto intelligente ispettore Ginko, degno avversario del protagonista, unico in grado di “dargli la caccia”. Quella che si gioca tra i due è una vera e propria partita a scacchi in cui il confronto avviene soprattutto sul piano dell’astuzia e dell’abilità di giocare d’anticipo rispetto all’avversario o di trarlo in inganno.

    All’uscita le vendite de Il re del terrore non sono entusiasmanti e soltanto dopo che il fumetto inizia ad ottenere un certo successo questo primo numero viene in qualche modo “recuperato” attraverso diverse ristampe. Una prima volta viene ripubblicato nel 1963 con alcune modifiche anche in copertina, l’anno successivo l’albo viene interamente ridisegnato da Luigi Marchesi ed esce in due versioni leggermente diverse, dunque viene nuovamente ristampato nel 1973.

    Il secondo numero del fumetto esce il 1° febbraio del 1963 con il titolo L’inafferrabile criminale, anche in questo caso poi ridisegnato da Marchesi nella ristampa del 1964. È però con il terzo albo L’arresto di Diabolik (1963) che si assestano le linee guida della serie: il fumetto viene disegnato da Luigi Marchesi e, soprattutto, compare Eva Kant, dapprima derubata da Diabolik, poi sua inaspettata complice nel momento in cui il criminale rischia la ghigliottina, dunque sua compagna di vita e di avventure per tutti gli albi a venire. «L’arrivo di Eva cambia completamente il protagonista, che da lugubre animale notturno che agisce in solitaria diventa una sorta di arguto fenomeno in tutte le arti possibili, che parla più lingue, conosce ogni branca di scienza e letteratura e pratica tutti gli sport; ma, soprattutto, l’entrata in scena della donna riduce la spietata tendenza omicida di Diabolik» (p. 66).

    Data una compagna al “re del terrore”, il fumetto ne assegna una anche al suo acerrimo nemico: nell’albo Il grande ricatto (1964) Ginko trova in Altea, un’aristocratica vedova, la sua donna, destinata, di tanto in tanto, a comparire nelle avventure successive. Con il passare del tempo tutti i personaggi del fumetto divengono più complessi e si evolvono in base ai mutamenti del costume, il rapporto tra Diabolik ed Eva, ad esempio, tende via via a divenire più egualitario.

    Curiosamente, nel corso dell’intera prima serie, che si conclude con L’assassino dai mille volti (1965), non viene ancora menzionata la città immaginaria di Clerville, capitale dell’omonimo Stato, destinata ad ospitare buona parte delle storie raccontate.

    Occorre invece attendere ben sei anni e 107 numeri prima di conoscere il passato del criminale. È in Diabolik chi sei? (1968) che, rispondendo alla curiosità di Ginko, mentre i due si trovano compagni di prigionia, Diabolik racconta la sua infanzia. Si scopre dunque che il protagonista è stato cresciuto su un’isola da una banda di criminali agli ordini di King; è in tale contesto che ha imparato i mille trucchi del mestiere ed ha trovato il modo di creare quelle maschere che si riveleranno la sua futura arma vincente. Dal racconto si scopre anche che il suo nome deriva da quello dato ad una temibile pantera nera presente nella giungla dell’isola. Nel momento in cui il protagonista si vendica dell’uccisione senza motivo dell’animale da parte del capo della banda, è proprio quest’ultimo a trasmettergli il nome della feroce pantera.

    Il successo ottenuto in Italia da Diabolik si è presto tramutato in un successo internazionale tanto da essere tradotto e diffuso in svariati paesi. Anche il cinema non ha mancato di derivare opere dal fumetto: dalla parodia Dorellik (1967) di Steno al film Diabolik (1967) di Mario Bava, dal documentario Diabolik sono io (2019) di Giancarlo Soldi al recente film Diabolik (2021) dei Manetti Bros.

    La creatura dalle sorelle Giussani si è rivela capace di aggiornarsi in base all’evoluzione della società italiana e ciò ha sicuramente influito sulla durata del suo successo. Diabolik ha saputo/voluto intercettare e solleticare l’interesse di un pubblico decisamente vasto. A motivare il successo di fumetto che in apertura degli anni Sessanta ha la sfacciataggine di narrare le gesta di uno spietato assassino, potrebbe concorrere anche il tutto sommato rassicurante ricorso ad un’estetica controllata del tutto in linea con la narrazione di sfide giocate sul piano di un dominio razionale degli eventi.

    La scelta di un antagonista come Ginko, intelligente, colto e risoluto nel dare la caccia al criminale, si rivela per certi versi rassicurate sia perché con la sua presenza si mostrano gli anticorpi al male di cui dispone la società, che perché il manifestarsi nel tutore dell’ordine di alcune caratteristiche comuni al criminale (caparbietà, lealtà, coraggio, amore per la sfida, riconoscimento del valore dell’altro ecc…), finisce per attenuare “l’impresentabilità del cattivo” rendendo più semplice simpatizzare per lui.

    Attraverso un’estetica rigorosamente controllata, tanto da arrivare a fa ricorso ad una “retinatura da studio tecnico”, il fumetto delle sorelle Giussani presenta un’ambientazione geometrizzata, silenziosa, tendenzialmente asettica anche ove sfarzosa, abitata da personaggi che sembrano condurre un’esistenza volta meramente ad eternare riti e convenzioni. Ad infrangere tale “geometrica routine” provvede Diabolik: pur perfettamente inserito all’interno del contesto appena delineato, in lui sembra permanere qualcosa di incompatibile a quell’ordine.

    Proveniente, come detto, da un’isola lontana, ove è stato cresciuto all’interno da una comunità criminale in cui, come sottolinea Steccanella, non viene dato valore alla legalità ma alla capacità di raggiungere l’obbiettivo, anche l’uccisione a sangue freddo viene contemplata da Diabolik come mezzo a cui ricorrere per eliminare gli ostacoli che si frappongono al conseguimento del fine, che, nel suo caso, significa soprattutto vincere la sua personale sfida nei confronti del sonnolento status quo sottoposto a vigilanza e controllo. Diabolik si rivela dunque come colui che, dall’esterno, porta l’attacco all’ordine esistente.

    Scrive a tal proposito Paolo Lago riferendosi alla trasposizione cinematografica del fumetto operata dai Manetti Bros nel 2021 [su Carmilla]: «Diabolik giunge dal ‘fuori’ di quegli interni borghesi, dediti al potere e ai suoi fasti, trama e agisce nella notte e nell’oscurità, da un limite oscuro difficilmente raggiungibile se non si è trasgressori totali. Egli si muove in quello spazio ‘tunnellizzato’, inscatolato, segnato dalla greve materia architettonica del potere solamente per distruggerlo ed annientarlo».

    Non a caso, quando si trova ad avere la polizia alle calcagna, in diverse occasioni il criminale individua la sua via di fuga nell’abbandono della regolarità cittadina, preferendovi le tortuose strade di montagna o le ambientazioni periferiche meno sottoposte al geometrico controllo urbano. E ancora, nota Paolo Lago, «Diabolik è abitatore del ‘fuori’ anche nel senso che appartiene alla terra, sbuca misteriosamente da cunicoli nel giardino dell’elegante villa che usa come copertura. Con la sua Jaguar nera si insinua in reconditi cunicoli scavati nella roccia, lungo un’anonima strada di periferia, per mezzo di marchingegni che mirano ad inceppare l’onnipresente, lugubre marchingegno del potere».

    Nonostante abiti in ville signorili, dotate di ogni comfort ed arredate con gusto, si tratta pur sempre di “rifugi” (avendo scelto una vita che rifugge la stanzialità dei personaggi che deruba), la cui parte più importante si rivela spesso quella interrata, nascosta alla luce del sole e ad occhi indiscreti.

    Sebbene Diabolik sia abilissimo nello sfruttare tutto ciò che la tecnologia consente, è in lui presente, come negli incubi che sfuggono al controllo, qualcosa di arcaico, di “non civilizzato”, di “non irregimentato”: l’abitare rifugi/covi ed il ricorrre alla forza delle nude mani o ad armi arcaiche, denota in lui il permanere di qualcosa di “selvaggio” – non a caso deriva il nome da una feroce patera nera – e di notturno, come la sua veste.

    Su Diabolik si sono accumulate numerose interpretazioni critiche, il personaggio ha generato ammirazioni e ostilità in maniera trasversale tra le diverse sensibilità politiche. In Diabolik possono essere individuati i tratti dell’individualismo asociale più cinico e competitivo, di chi è mosso dal mero interesse a soddisfare la propria brama di possesso materiale e per ciò disposto a ricorrere ad ogni mezzo necessario, incurante di tutto e di tutti. Oppure, al contrario, è possibile cogliere nella sua condotta un sostanziale disinteresse nei confronti della ricchezza alla luce del fatto che i furti sembrano rispondere esclusivamente al desiderio di sfidare e rompere gli equilibri di una realtà costruita sul potere economico. Pur non scalfendo, nei fatti, la società che sfida individualmente, nell’appropriarsi dei preziosi dell’élite che la governa, almeno simbolicamente, priva quest’ultima dei privilegi più luccicanti di cui gode.

    Potrebbe risiedere nel suo prestarsi a letture così diverse, nel permettere identificazioni a sensibilità e immaginari tanto differenti, il motivo principale del diffuso e duraturo successo di un fumetto che si presenta puntualmente in edicola dall’inizio degli anni Sessanta.

    continua 


    Estetiche inquiete serie completa su Carmilla


    1. Umberto Eco, Fascio e fumetto. La filosofia dell’estrema destra nelle storie e nei personaggi degli album d’avventure, in «Guida al fumetto – Allegato a l’Espresso», n. 13, 28 marzo 1971. 

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    Sport e dintorni – Curve pericolose https://www.carmillaonline.com/2022/04/15/sport-e-dintorni-curve-pericolose/ Fri, 15 Apr 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71365 di Gioacchino Toni

    Giuseppe Ranieri, Matthias Moretti, Curve pericolose. Antagonisti, sovversivi, antifa: quando le gradinate minacciano il potere, Il Galeone editore, Roma 2021, pp.

    “Fuori la politica dalle curve” è un adagio spacciato come espressione di semplice buon senso che risuona, online come offline, tutte le volte che qualcuno, forse non sapendo cosa altro dire, tenta/spera di spostare un discorso che rischia di infrangere la bolla in cui il giocattolo calcio “dovrebbe” essere mantenuto, come si trattasse di un videogioco destinato ad essere separato dal mondo fuori-schermo. Ma se nemmeno l’universo videoludico è [...]]]> di Gioacchino Toni

    Giuseppe Ranieri, Matthias Moretti, Curve pericolose. Antagonisti, sovversivi, antifa: quando le gradinate minacciano il potere, Il Galeone editore, Roma 2021, pp.

    “Fuori la politica dalle curve” è un adagio spacciato come espressione di semplice buon senso che risuona, online come offline, tutte le volte che qualcuno, forse non sapendo cosa altro dire, tenta/spera di spostare un discorso che rischia di infrangere la bolla in cui il giocattolo calcio “dovrebbe” essere mantenuto, come si trattasse di un videogioco destinato ad essere separato dal mondo fuori-schermo. Ma se nemmeno l’universo videoludico è davvero una realtà a sé stante rispetto a quella che lo ha progettato, prodotto, immesso sul mercato e che lo utilizza, figurarsi se può esserlo quel carnaio umano che sfoga, nel bene e nel male, le sue passioni e le sue frustrazioni sugli spalti di uno stadio.

    Certo, se si intende con il termine “politica” quella sorta di show televisivo propinato quotidianamente a reti unificate – nei confronti del quale persino i dibattiti sul nulla messi in scena, anticipando i tempi, dal Processo del lunedì di Biscardi sembravano più seri –, allora che questa politica resti davvero lontana dalle curve, ma se – scrivono Giuseppe Ranieri e Matthias Moretti nel loro Curve pericolose – si intende per “politica” «la voce collettiva che si alza da una comunità di persone, su un qualsiasi argomento che riguarda quella collettività», allora occorre accettare il fatto che «una curva è senza dubbio una comunità di persone, oltretutto molto coesa per via di un’appartenenza profondamente vissuta e molto semplice da intraprendere», dunque diventa chiaro che «non esiste, e non può esistere, una curva “totalmente apolitica”, per quanto ce ne siano molte che si professano tali».

    Non mancano di certo tifoserie che esprimono precisi orientamenti politici e, quando ciò avviene, in linea con una propensione ultras votata ad esasperare tutto, si tratta facilmente di posizionamenti attorno ad immaginari politici estremi. Così come vi sono casi di convivenza di sensibilità politiche anche molto diverse all’interno della stessa curva e, a volte, persino dello stesso gruppo. «C’è poi da considerare il senso del branco, fortissimo nelle dinamiche di stadio e influente anche sugli aspetti “politici”: spesso basta che avanguardie riconosciute all’interno della curva siano nettamente schierate, per fare in modo che la massa le segua nell’intonazione di certi cori e nell’esposizione di certi simboli, cosicché sembra che ci sia una forte consapevolezza politica che pervade tutti; in realtà spesso non è così, ed è una “militanza della domenica” che poi non trova seguito nella vita quotidiana, e questo vale tanto a destra quanto a sinistra».

    Se, come detto, l’adagio “fuori la politica dalle curve” non ha molto senso, qualche riflessione merita anche lo slogan “fuori i fascisti dalle curve”: non solo, come affermano gli autori del libro, occorrerebbe chiarirsi circa chi dovrebbe farsi carico dell’incombenza, ma, si può aggiungere che, sotto alla pur apprezzabile intenzione, pare aleggiare, nuovamente, l’idea dello sport come luogo al riparo dal resto della società. Cacciare dalle curve i fascisti è di certo lodevole ma rischia di tradursi in un relegare il problema là fuori, lontanto dal sacro agone sportivo-campanilistico, nella società, tra le brutture quotidiane dei suoi quartieri.

    Curve pericolose racconta storie di “aggregazioni da stadio” che hanno saputo interpretare i sentimenti e le pulsioni di rottura propri di comunità urbane, quando non addirittura nazionali, che in alcuni momenti e in determinate circostanze hanno voluto e saputo opporsi al potere. Le tifoserie a cui viene fatto riferimento nel volume non sono state selezionate in base ad una semplicistica “conta” dei vessilli con l’effige del Che o delle stelle rosse riprodotte sugli striscioni, quanto piuttosto per l’essere state nei fatti “curve pericolose” per l’ordine costituito, per il protagonismo dispiegato al fine di migliorare la propria situazione di esistenza insieme a quella della comunità di appartenenza.

    Per scendere nel concreto, gli esempi delle rivolte in Turchia contro il regime di Erdogan, guidate nelle piazze dagli ultras delle varie squadre uniti nella causa comune, così come l’azione di varie tifoserie nordafricane nell’epoca alle cosiddette “primavere arabe” e in quella successiva, rappresentano esempi interessantissimi di sfida aperta al potere costituito, pur non potendosi inserire comodamente nei nostri schemi ideologici […] Ci saranno quindi, senza dubbio, le storie inserite in modo più chiaro nella tradizione politica della sinistra rivoluzionaria, ma anche qui, spaziando in giro per il mondo, vediamo che le sfaccettature sono tantissime, perché nei diversi angoli della terra e nelle diverse epoche cambiano i rivoluzionari così come cambiano i nemici da combattere. Ci saranno vicende che affondano le radici nella storia lontana, nella fondazione stessa dei club e nelle lotte contro le potenze coloniali, per affermare la propria indipendenza, come nel caso del Celtic Glasgow, baluardo irlandese, cattolico e proletario nel cuore del Regno Unito, che per forza di cose non poteva che avere una storia di totale antagonismo; o come nel caso dei Paesi Baschi e della Catalogna e delle loro espressioni sportive all’interno di una lotta irriducibile per l’indipendenza e l’autodeterminazione politica; o ancora, come quella dell’Omonia Nicosia, baluardo internazionalista in un paese in cui il cancro del nazionalismo su base etnica ha portato grandi tragedie. D’altro canto ci saranno storie di contrapposizioni nate al contrario in epoche del tutto recenti, come accade in paesi come Israele e Stati Uniti, che spesso consideriamo (a ragione) avamposti del peggiore oscurantismo imperialista, ma dove allo stesso tempo fioriscono anche gli antagonismi, e negli ultimi anni fioriscono anche e soprattutto sulle gradinate. Attraverseremo, come detto, le piazze bollenti della Turchia e del Nordafrica, ma anche le altrettanto roventi città dell’America Latina che si rivoltano contro i governi della destra neoliberista e nostalgica delle dittature fasciste del Novecento. Perché in quelle città c’è anche un inestimabile ed enorme patrimonio di lotte e movimenti sociali, e quindi, manco a dirlo, ne sono piene anche le curve. Non mancheremo poi di soffermarci, grazie anche a preziosi contributi di cari amici, su piazze europee coerentemente presenti nelle lotte anticapitaliste degli ultimi decenni, come quelle greche e quella del Sankt Pauli, o come quelle delle torride e tragiche giornate di Genova 2001, così strettamente connesse ai movimenti politici e sociali che si battono senza sosta contro lo stato di cose presente.

    Nell’affrontare in questo volume il fenomeno ultras, rifacendosi alle categorie dei banditi, dei ribelli e dei rivoluzionari proposte da Eric Hobsbawm, secondo gli autori la categroria a cui possono essere associati gli ultras è quella dei banditi, in particolare gli aiduchi, che lo storico inglese «indicava come la forma più alta di banditismo primitivo: un uomo libero che non si considera da meno dei signori, che vive nell’anonimato ai margini della società dotandosi di strutture sociali, combatte contro gli oppressori, ma non è legato ad approvazioni morali che siano differenti dalla propria, in una dimensione prepolitica e potenzialmente in perenne rivolta».

    Ranieri e Moretti individuano in questo

    un ritratto chiaro di chi si ritrova idealizzato suo malgrado, proprio come gli ultras quando si sono ritrovati a scendere in piazza dando anima all’adagio “ci togliete dagli stadi, ci ritroverete nelle strade”, ma spesso senza quell’intenzionalità che gli è stata affibbiata a posteriori per romanticizzarne i tratti. Molto più prosaicamente, la gentrificazione del calcio e la normalizzazione delle curve a un certo punto sono diventate tasselli fondamentali della ristrutturazione sociale che impone il nuovo corso neoliberista, e coloro che avrebbero dovuto tradurre in pratica questo nuovo paradigma facendolo rispettare alla “plebe” sarebbero stati i medesimi attori di sempre: i presidenti oligarchi a raccogliere i frutti più maturi e le forze dell’ordine a fare rispettare il nuovo ordine. Proprio la commistione tra la capacità – propria degli ultras – di fronteggiare queste ultime senza paura e l’allergia a ogni forma di autorità e alle gerarchie sociale imposte dall’esterno sono i motivi per cui è nato questo libro, in cui si è cercato di rintracciare analogie e differenze tra i vari casi [evidenziando] come certi gruppi, a prescindere dal reale attivismo propriamente politico, costituiscano quasi una subcultura nazionale capace di coagulare generazioni di ribelli, reietti e sognatori che spesso la prima volta che sono scesi in piazza non avevano altra bandiera per cui battersi se non quella della propria squadra del cuore.

    Soprattutto di questi tempi è difficile non pensare a quanto alcuni settori dell’universo ultras abbiano, nei fatti, finito per fare da manovalanza al potere in diverse sue sfaccettature, dalla criminalità organizzata ai gruppi militari. Di certo le curve rappresentano una palestra di violenza e autoritarismo che hanno trovato sbocchi persino nel più infame e sanguinario nazionalismo in mimetica – basti pensare ai conflitti nei Balcani e in Ucraina –, il volume di Ranieri e Moretti ha il merito di ricordare e raccontare come le curve siano però anche spazi d’intervento e di vita per antagonisti, sovversivi e antifascisti ostili al potere in tutte le sue forme.

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    Il nuovo disordine mondiale / 11: dispositivi digitali di secessione individuale generalizzata https://www.carmillaonline.com/2022/04/03/il-nuovo-disordine-mondiale-11-dispositivi-digitali-di-secessione-individuale-generalizzata/ Sun, 03 Apr 2022 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71227 di Gioacchino Toni

    Con la svolta neoliberista, la caduta muro di Berlino – simbolo per eccellenza di un ordine mondiale che sembrava divenuto immutabile –, il dilagare dei processi di globalizzazione e l’avvento delle tecnologie digitali, può dirsi iniziata una nuova storia caratterizzata da un disordine mondiale che per la velocità con cui muta e per il suo aspetto globale, tende a risultare pressoché incomprensibile, tanto da generare visioni oscillanti tra l’apocalittico e il trionfalistico. Tra queste due visioni, accomunate dal non derivare alcuna lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, trova posto quell’ideologia dell’eterno presente che conduce ad [...]]]> di Gioacchino Toni

    Con la svolta neoliberista, la caduta muro di Berlino – simbolo per eccellenza di un ordine mondiale che sembrava divenuto immutabile –, il dilagare dei processi di globalizzazione e l’avvento delle tecnologie digitali, può dirsi iniziata una nuova storia caratterizzata da un disordine mondiale che per la velocità con cui muta e per il suo aspetto globale, tende a risultare pressoché incomprensibile, tanto da generare visioni oscillanti tra l’apocalittico e il trionfalistico. Tra queste due visioni, accomunate dal non derivare alcuna lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, trova posto quell’ideologia dell’eterno presente che conduce ad arrendersi/abituarsi all’incomprensibilità e all’evitare di mettere davvero in discussione l’esistente al punto tale da allarmarsi di fronte ad ogni evento che sembrerebbe contraddirlo, persino quando si tratta di un upgrade del sistema (che nei fatti non viene messo in discussione) che si trascina generando un incredibile repertorio di guerre civili claniche.

    A distanza di tempo, la celebre affermazione di Margaret Thatcher “There is no such thing as society”, piuttosto che come una perentoria asserzione volta a negare l’esistenza della società, potrebbe essere letta come una compiaciuta rivendicazione di un’attentato commesso ai danni di questa, dalla cui detonazione si sarebbero liberati individui tenuti, sostanzialmente, ad arrangiarsi con ogni mezzo necessario. Insomma, un’orgogliosa affermazione di “missione compiuta”: la società è stata minata alle fondamenta, inutile ormai anche solo nominarla.

    Era la fine degli anni Ottanta quando l’Iron Lady, residente a Downing Street da ormai un decennio, scandiva una delle affermazioni più violente mai pronunciate, anche alla luce del fatto che, effettivamente, si era prodigata con impegno per attuare ciò che in quel momento poteva affermare a testa alta davanti ai microfoni.

    Pur inserendosi all’interno di una lunga tradizione che può essere fatta risalire all’individualismo liberale diffusosi sul volgere del XVIII secolo, non c’è dubbio che le politiche neoliberiste – non solo thatcheriane – dispiegate nel corso degli anni Ottanta del Novecento, rappresentino un punto di svolta capace di generare una reazione a catena che, strada facendo, ha trovato nell’universo digitale ciò che serviva per portare a termine quell’operazione di scollamento degli individui dall’insieme comune perseguita con tanta determinazione. È all’epilogo digitale di tale fenomeno, rivelatosi a tutti gli effetti un processo di secessione individuale generalizzata, che è dedicato il libro di Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune (Luiss University Press, 2022).

    È con i primi anni Novanta del Novecento che, secondo lo studioso, si afferma il primato sistematico di sé sull’ordine comune. A trionfare è il mito dell’autoimprenditore capace, da solo, di accedere a forme di autonomia che gli consentono di gestire il proprio destino senza doversi rapportare con altri. Si diffonde così un’iconografia popolare che eleva gli individui ad esseri dotati di poteri quasi sovraumani in un’apoteosi di eroicizzazione del singolo. Insomma, il progetto politico dell’individualismo liberale si incanala verso «una ricerca sfrenata della singolarizzazione di sé all’unico scopo di differenziarsi» (p. 17).

    Da parte sua il mondo dei media, nel corso degli anni Novanta, inizia a concedere sempre più spazio all’individuo, indipendentemente se famoso di suo o meno; si pensi non solo alla stagione televisiva dei talk-show e dei reality, ma anche all’affermarsi dell’autofiction narrativa e allo spazio che alcuni giornali dedicano a individui, conosciuti o no. È come se, in ossequio alla dottrina thatcheriana, l’ordine collettivo si ritirasse per lasciare la ribalta alle individualità.

    Secondo Sadin la pretesa di indipendenza e sovranità che serpeggiava in un individuo deluso e tradito dalle promesse a cui ha a lungo desiderato ardentemente credere ha conosciuto una brusca impennata con l’avvento di Internet e del telefono cellulare che sembravano promettere un affrancamento dai legami localizzati stimolando una quotidianità votata all’autonomia.

    Si stavano ponendo le basi per un nuovo rapporto con il mondo costruito sull’oggettiva facilitazione di svariati compiti e sulla conoscenza immediata di un enorme quantità di notizie. Con l’avvento del Web 2.0, poi, l’individuo si sarebbe trasformato da spettatore di flussi di informazioni ad attore attraverso la possibilità di esprimersi direttamente condividendo momenti della propria vita ottenendo gratificanti feedback.

    La trasformazione del telefono cellulare in smartphone ha accresciuto la sensazione di autonomia e di “alleggerimento dell’esistenza” grazie anche all’interfaccia tattile e alle tante applicazioni che hanno contribuito ad incrementare la sensazione di beneficiare di un inaspettato aumento di potere mentre, nei fatti, ci si avviava ad essere sottoposti a sistemi valutativi ed a procedimenti disciplinari attraverso la cessione alle grandi corporation del Web di dati comportamentali. Insomma, mentre da una parte la svolta digitale generava un miraggio di sovranità, dall’altra assoggettava l’individuo a regole eteronome che ne incrinavano l’autostima.

    Come fosse perfettamente stato messo in atto il processo di “accumulazione per spossessamento” descritto dal geografo David Harvey, senza però avervi aggiunto un terzo termine nell’ambito di una dialettica inedita: l’asservimento delle persone dovuto all’accumulazione del capitale che genera al contempo la sensazione inquietante di un aumento di controllo con conseguenti oscillazioni, nel corso del quotidiano, tra stati di insoddisfazione e soddisfazione, rancore e autoesaltazione (p. 20).

    Nel corso degli anni Dieci del nuovo millennio la crescente diffidenza nei confronti degli organi di potere anziché guardare ai tradizionali ambiti politici antagonisti si è incanalata all’interno di fenomeni di populismo costruiti attorno a leader più o meno improvvisati che, facendosi portavoce del rifiuto delle democrazie rappresentative, promettevano futuri migliori, sebbene scarsamente delineati.

    In molti, la sensazione di essere stati a lungo ingannati, l’aver assistito allo sgretolarsi di quel patto sociale che si voleva votato al solidarismo, l’incrementarsi dello scarto tra edulcorata “narrazione ufficiale” ed amara realtà delle cose, hanno generato l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “doppia realtà” parallela e incomunicante. Alla narrazione manistream si sono andate a contrapporre narrazioni di soggettività costruite soprattutto su particolarismi che trovano nei social i canali privilegiati in cui incanalare il rancore accumulato spesso accontentandosi di ricorrere a visioni semplicemente altre rispetto a quella ufficiale esponendosi così, non di rado, a complottismi di ogni risma.

    È in tale contesto che si è andato a costruire un nuovo regime dell’opinione, dell’esserzione infondata, in un proliferare di teorie complottiste che hanno saputo proporsi come risposte ad accadimenti inattesi e spiazzanti. «Persone o gruppi quotidianamente fomentati dalla consultazione di siti falsamente “alternativi” e dalla visone di video della stessa risma, immaginano ormai di conoscere la verità dei fatti e i relativi ingranaggi, contrariamente a tutti i discorsi “ufficiali” che collaborano a mantenimento di “logiche di dominio”» (p. 12).

    Solitamente, di fronte allo smarrimento, ricorda Sadin, si producono parole ed ecco allora che si sottolinea il fallimento del neoliberismo, si palesa la sfiducia nei confronti dei responsabili politici che hanno tradito la loro missione di operare per il bene comune e ci si cimenta in analogie storiche frettolose e superficiali. Tutte queste parole, però, si rivelano incapaci di cogliere l’essenza degli accadimenti che sembrano manifestarsi all’improvviso.

    Forse, scrive l’autore del volume, sarebbe meglio evitare di fare constatazioni su ciò che accade pensandolo come a qualcosa di “altro da noi” e iniziare a prendere atto che «ciò che ha preso forma nel corso degli anni 2010 – e che modifica al contempo la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e il nostro regime storico di esistenza comune – è una nuova condizione dell’individuo contemporaneo» (p. 14).

    Nel corso del primo decennio del nuovo millennio si delinea un’esperienza soggettiva inedita: «uno spossessamento di sé unito alla sensazione di un maggiore potere in certi ambiti della propria vita» (p. 20). Si percepisce con angoscia di non appartenersi più, di essere deprivati sempre più di una rete sociale su cui fare affidamento per affrontare le difficoltà della vita, e al tempo stesso si vive la gratificazione di sentirsi incredibilmente autonomi grazie alla disponibilità di tecnologie che facilitano l’esistenza, l’accesso alle informazioni e la possibilità di esprimersi direttamente e pubblicamente.

    Il Web stava gettando le basi «di una nuova rappresentazione degli individui, che si sentivano provvisti di nuovi attributi superiori, meno dipendenti da alcuni vincoli e perfettamente equipaggiati per far sentire la propria voce ed esistere agli occhi degli altri» (p. 73).

    Non a caso “Time magazine” nomina “YOU” come Person of the Year 2006 mentre l’anno prima lo slogan che accompagnava l’avvento di YouTube recitava “Broadcast Yourself” invitando gli utenti a divenire i programmatori di se stessi e a darsi visibilità. «Quando l’i decide di beneficiare a proprio vantaggio dei dispositivi messi a sua disposizione, diventa un You agente che può conoscere una popolarità più o meno estesa grazie alla messa in scena, sotto varie forme, della sua persona» (p. 77).

    Nel 2004 faceva la sua comparsa Facebook con la sua promessa agli utenti di godere di una sensazione di improvvisa centralità rafforzata dai post pubblici mentre la console Wii di Nintendo del 2006 permetteva un’inedita esperienza immersiva. Le tecnologie personali contemporanee si riveleranno sempre più abili nel catalizzare l’attenzione e nel dare l’impressione di offrire una ricchezza tale da rendere privo di interesse il mondo circostante.

    L’individuo contemporaneo, sostiene Sadin, ha la sensazione di poter sopperire autonomamente alle proprie carenze grazie alle tecnologie digitali che sembrano poter piegare la realtà ai suoi desideri e, sopratutto, permettergli espressività, ossia di raccontarsi agli altri ricevendo feedback di consenso, gratificandosi così dell’eccezionalità della sua esistenza.

    La sensazione provata è quella di non essere vittima impotente; alle quotidiane umiliazioni è possibile rispondere grazie alle possibilità di narrazione compensatoria offerte dall’universo digitale che consentono un’illusoria magnificazione della propria esistenza e/o la possibilità di scaricare l’ira accumulata prendendosela con qualcuno o qualcosa a distanza di sicurezza.

    Secondo Sadin nella contemporaneità l’espressività ha finito per occupare uno spazio sempre più importante; gli individui tentano insistentemente di dare prova della propria singolarità attraverso pratiche di esposizione pubblica di sé. «Oggi l’esperienza non basta più a sé stessa. Deve essere quasi sistematicamente accompagnata – e nel preciso istante in cui avviene – dal suo racconto, senza il quale viene giudicata troppo povera. Soltanto allora, attraverso al sua pubblicizzazione, sembra acquisire pieno valore, e la sua importanza, nonché la sensazione di rivincita sulle incognite della vita, prendono corpo» (p. 22).

    Il ricorso a queste nuove tecnologie che permettono di costruire e trasmettere agli altri una diversa immagine di sé non sarebbe, secondo l’autore, riconducibile al narcisismo, quanto piuttosto al tentativo di liberarsi da tutte le frustrazioni subite. A caratterizzare l’attualità, secondo Sadin, è il fatto che per molte persone l’“io” rappresenta la fonte primaria, spesso definitiva, della verità. «La soggettività diventa una sorta di continente che tratta gli avvenimenti sulla base del prisma prioritario delle proprie logiche, risultato tanto della sfiducia diffusasi, su vasta scala, nei confronti del patto sociale, quanto della volontà rivendicata di non farsi abbindolare» (p. 23).

    Pare di essere giunti al punto di arrivo di un processo che da diversi decenni induce gli individui a fare affidamento esclusivamente su loro stessi generando forme di isolamento sempre maggiori; un vero e proprio inedito scollamento degli individui dall’insieme comune. Ciò ha comportato anche la nascita di nuovi gruppi costruiti su interessi specifici ricalcanti strutture claniche [su Carmilla] che si contrappongono ad un ordine generale considerato iniquo.

    Ad un tipo di risentimento nei confronti dell’attualità sociale e politica di natura collettiva, che può dar luogo a mobilitazioni capaci di unire le esistenze disilluse, si è recentemente aggiunto un risentimento di natura strettamente individuale, intima e solitaria, provato da singoli soggetti sia sulla base delle loro disillusioni e sofferenze, che derivato da un momento storico in cui si sono accumulate talmente tante delusioni da generare nella gente un livello tale di acredine ed amarezza da non essere più disposte a credere in nessuna prospettiva comune.

    È questa “l’era dell’individuo tiranno”: l’avvento di una condizione civilizzazionale inedita, che vede l’abolizione progressiva di qualsiasi base comune e la comparsa di una moltitudine di individui sparsi, convinti di rappresentare l’unica fonte normativa di riferimento e di occupare una posizione preponderante che gli spetta di diritto. È come se in una ventina d’anni, l’intreccio tra la presunta orizzontalizzazione delle reti e l’esplosione delle logiche liberali, sostenitrici della “responsabilizzazione” individuale, fosse approdato a un’atomizzazione dei soggetti, incapaci di instaurare legami costruttivi e duraturi e intenzionati a far prevalere rivendicazioni basate principalmente sulle loro biografie e sulle loro condizioni (pp. 26-27).

    Si assiste così all’emergere di una nuova categoria apolitica fondata sostanzialmente su una forma di isolamento degli individui che lo studioso definisce “totalitarismo della moltitudine”. Diviene pertanto indispensabile, secondo Sadin, indagare l’impatto delle tecnologie digitali sulla psicologia individuale e collettiva sopratutto alla luce della rappresentazione ingigantita del sé che caratterizza la contemporaneità.

     

     

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