Patto di Varsavia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Oct 2025 23:01:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un capitalismo totale? https://www.carmillaonline.com/2022/08/17/un-capitalismo-totale/ Wed, 17 Aug 2022 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72271 di Sandro Moiso

[Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022]

Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)

Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso. All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe [...]]]> di Sandro Moiso

[Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022]

Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)

Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso.
All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe rappresentato l’epoca del dominio formale del capitale in quanto il prodotto delle svariate attività produttive umane (artigianali, singole, collettive e proto-industriali, se non ancora collegate a forme di conduzione della terra comunitarie o semi-comunitarie) era destinato ormai ad alimentare principalmente lo scambio di merci in un mercato in via di mondializzazione. Merci la cui funzione era quasi esclusivamente rivolta allo scambio monetario, destinato poi a far circolare altre merci secondo lo schema riassuntivo Merce (M) – Denaro (D) – Merce (M), con una crescita continua della circolazione sia delle merci che del denaro come equivalente universale.

Nella stessa epoca, corrispondente pressapoco a quella della grande espansione coloniale europea, la borghesia però non aveva ancora il pieno dominio politico della società e dello Stato, ma era ancora costretta a sottostare ad accordi, anche questi formali, con la nobiltà e l’aristocrazia terriera di cui le monarchie, nazionali o imperiali che fossero, erano espressione ed emanazione diretta.
Soltanto le rivoluzioni borghesi, o atlantiche come alcuni ebbero a definirle, avrebbero successivamente liberato, tra la seconda metà del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, tutta le potenzialità sociali del capitale attraverso uno sconvolgimento del modo di produzione che avrebbe preso il nome di Rivoluzione industriale.

Con la trasformazione industriale di ogni singolo prodotto e il ruolo svolto dall’investimento capitalistico in ogni settore della produzione si sarebbe dunque passati alla prima forma di dominio reale del capitale, inteso come dominio sia sull’intero processo produttivo che sul potere politico e l’organizzazione della società. In tale contesto il produttore industriale, il lavoratore divenuto salariato, era destinato a perdere qualsiasi autonomia nei confronti dell’organizzazione del processo lavorativo e ad essere sottomesso ai tempi e ai ritmi dettati dal capitale costante rappresentato dalle macchine. In tale contesto generale anche le altre forme di organizzazione del lavoro e della produzione erano destinate a perdere la loro precedente relativa autonomia.

Soltanto alla luce di tale ipotesi è infatti possibile comprendere a fondo, a titolo di esempio, il giudizio dato da Marx stesso sull’economia schiavistica moderna applicata nelle colonie, soprattutto in quelle americane, separata nettamente dalla funzione di quella antica. Il problema infatti non era quello della durezza delle condizioni di vita oppure della negazione della libertà dei popoli resi schiavi, ma, piuttosto, quello della destinazione ultima del prodotto di tale forma di lavoro coatto.
Il capitalismo e la sua classe dirigente, giunti all’apice della scala sociale, potevano tranquillamente integrare nel processo di valorizzazione anche forme arcaiche della stessa, non più soltanto approfittando del basso costo del prodotto grezzo o semilavorato che ne derivava, ma anche indirizzandone le scelte e i tempi di produzione.

Il cotone americano, ad esempio, fu dunque indispensabile alla crescita industriale ed economica inglese e proprio per questo i socialisti come Marx ed Engels appoggiarono il repubblicano Lincoln, e chiesero alla classe operaia del Nord degli Stati Uniti di fare altrettanto, nella Guerra Civile proprio al fine di spezzare, tranciare e interrompere definitivamente il flusso di materie prime indispensabili alla crescita dell’imperialismo britannico. In tal senso, pertanto, anche la questione della liberazione degli schiavi e dei “neri” costituiva soltanto un corollario di tale scelta, ma non il primum movens della stessa.

Quella tattica, applicata all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, avrebbe rappresentato il primo tentativo di inserire l’azione del movimento operaio e proletario all’interno dei giochi per il dominio del pianeta o del loro rovesciamento in chiave rivoluzionaria.
Oggi sappiamo che quella guerra poco modificò la condizione sociale degli afro-americani in vaste aree del Nord America, ma che, invece, ampiamente contribuì allo sviluppo della potenza imperiale che avrebbe sopravanzato quella britannica definitivamente soltanto dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Questo trionfo del “secolo americano”, come lo ha ben definito Geminello Alvi1, non avrebbe soltanto rappresentato un cambio di segno ai vertici del potere geo-politico e militare occidentale, ma anche uno spostamento dei limiti del domino reale del capitale.

Il capitalismo sorto dalla prima rivoluzione industriale dominava la produzione, ma non poteva ancora integrare del tutto la società, e in particolare i lavoratori salariati, nella sua visione del mondo, se non attraverso strategie di carattere ideologico e politico messe in atto negli anni Venti e Trenta del XX secolo che erano destinate comunque a mostrare i propri limiti attraverso successivi tracolli militari ed economici. Infatti, anche se i regimi “fascisti” avevano contribuito a sottomettere l’intera politica statale alle necessità del capitale (rappresentando in tal modo un superamento della democrazia liberale e un ammodernamento dell’organizzazione socio-politica in chiave capitalistica), il capitalismo made in USA uscito vincitore dal secondo conflitto mondiale avrebbe saputo coinvolgere nella propria visione “consumistica” milioni di cittadini appartenenti ad ogni classe sociale soltanto attraverso l’offerta illimitata di beni disponibili, sia materiali che non e sia nel caso che questa promessa di benessere fosse concreta o illusoria.

Non a caso, in uno studio del 2005, la storica statunitense Victoria De Grazia definisce “impero irresistibile” la capacità statunitense di conquistare il mondo non solo attraverso l’uso delle forze militari di terra, di cielo e di mare oppure della forza del dollaro e della sua spregiudicata finanza, ma anche per mezzo della diffusione di nuovi e sempre più estesi consumi2 o, almeno, di una promessa in tal senso.
Al di là della diffusione dello star system cinematografico, della vendite rateali, delle catene di negozi associati nel nome e nel prezzo, che già erano stati protagonisti anche in Europa della promozione dei consumi dopo la prima guerra mondiale, nel Vecchio Continente fu il Piano Marshall a costituire il grimaldello definitivo per proporre a tutto l’Occidente lo stile di vita e di consumo americano. Come scrive infatti la storica americana:

Se lo si considera il fulcro della travagliata trasformazione dell’Europa in società dei consumi, il Piano Marshall va valutato non tanto per il contributo finanziario che seppe dare alla ricostruzione europea quanto piuttosto per le condizioni che impose all’elargizione degli aiuti. Nel complesso, le somme che vennero effettivamente spese in Europa sotto forma di crediti, sussidi e forniture sono oggi considerate irrisorie rispetto agli investimenti interni dei singoli paesi, pari forse al 5 per cento del capitale totale maturato negli anni della ripresa fino al 1950. Operando in stretta collaborazione con chi in Europa Occidentale condivideva le loro vedute, i pianificatori statunitensi, i responsabili degli aiuti e i grandi imprenditori mirarono ad impedire che i politici, ancora memori della Depressione, e della pianificazione di guerra, ripiegassero sull’intervento statale e sul protezionismo economico […] Ciò a cui si mirava era costruire un’Europa industrializzata capace di autosostentarsi, un’Europa compatta, unificata dalla spinta del commercio interregionale, eppure pienamente integrata nell’economia mondiale dominata dagli Americani3.

Se dal punto di vista economico e politico gli Stati Uniti avevano avviato quel processo di collaborazioni locali e di apertura delle frontiere di alcune aree un tempo del tutto o parzialmente ostili, che avrebbe finito col favorire la penetrazione dell’influenza politica, dei capitali e delle merci americane, dal punto di vista dell’immaginario politico e sociale la medesima azione ebbe come scopo quello di superare le resistenze sia di uomini d’affari ancora ispirati da obsolete vedute di carattere nazionalistico che quelle di una forza lavoro spaventata di fronte a ciò che il rinnovo dei sistemi di produzione avrebbe richiesto: disoccupazione, intensificazione dei ritmi di lavoro, cronometraggio, pagamento a cottimo senza un corrispondente aumento dei salari.

Fu così che oltre all’uso propagandistico della figura di «Joe Smith, il lavoratore medio americano», il cui alto tenore di vita, una casa linda e ordinata e l’auto in garage avrebbero dovuto convincere i lavoratori europei a lavorare più sodo e accettare la “momentanea” disoccupazione in nome dei miglioramenti futuri, l’obiettivo finale del piano di aiuti americano divenne non soltanto quello di promuovere un’alleanza transatlantica che attraversasse tutta l’Europa, ma anche quello di contribuire all’incremento dei livelli di consumo anziché ridare vigore alle coalizioni anticonsumo dell’era prebellica.

L’ostilità verso norme di consumo più elevate doveva durare poco. Nel 1951, quando con il calo dell’inflazione, il decollo delle industrie di base, la ripresa del commercio nell’Europa occidentale esplosero le proteste operaie, i funzionari americani dell’Eca (European Cooperation Agency) ricordarono ai loro alleati che in origine il Piano Marshall era stato concepito allo scopo di combattere i comunisti. Occorreva pertanto aumentare le concessioni dei fondi destinati ad alloggi, ospedali, scuole, strutture turistiche e simili; anche i datori di lavoro, se non volevano passare per industriali reazionari, borghesi ed economicamente retrogradi, ancora legati all’infelice passato del Vecchio Continente, avrebbero dovuto condividere i proventi della produttività con la «gente comune d’Europa»4.

Ora, aldilà della sorpresa per alcuni nello scoprire come il “superiore” sistema di welfare europeo in realtà sia stato indirettamente originato dalla pianificazione economico-politica statunitense post-bellica, è interessante vedere come le ragioni della lotta contro “il pericolo comunista” di stampo sovietico o filo-sovietico affondassero le loro radici sia nella necessità americana di non rallentare, ma anzi di ampliare il flusso delle merci su scala globale, sia nella capacità di affrontare il nemico con armi nuove e impari: ovvero con la capacità di offrire, almeno virtualmente piuttosto che di negare realmente, l’accesso a quegli stessi beni.

Da lì a poco, infatti, le immagini della famiglie americane soddisfatte intorno ai loro frigoriferi stracolmi e ai televisori e agli altri elettrodomestici, destinati a liberare il lavoro casalingo femminile ben più di qualsiasi altra formulazione ideale, avrebbero facilmente contrastato le immagini ideologiche del “socialismo reale”, accompagnate però da quelle dei banchi delle merci semivuoti, code per il pane lunghe e beni di lusso relegati a negozi e grandi magazzini destinati soltanto agli stranieri benestanti e ben paganti.

Sul piano della rappresentazione ideale il capitalismo americano seppe così, a partire da quegli anni, imporre un’immagine di sé estremamente efficace, tendente a contrastare nei fatti una promessa di un “radioso” e “più giusto” futuro di cui, però, da oltre cortina non arrivavano immagini altrettanto convincenti. Alle fotografie dei leader bolscevichi d’antan e sovietici del momento, il capitale americano poteva contrapporre non solo quella di auto ed elettrodomestici luccicanti e famigliole felici davanti all’abbondanza di cibo grazie ad uno sforzo lavorativo che offriva, a differenza di quello sovietico, risultati immediati, ma anche quella dei volti giovani e belli delle star di Hollywood, cui di lì a poco, con la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, anche la politica americana avrebbe dovuto adeguarsi ai suoi vertici.

Si può così considerare estremamente simbolico il fatto che mentre il 14 maggio 1955 era nato il Patto di Varsavia, con sei anni di ritardo rispetto alla nascita del Patto Atlantico (NATO) e soltanto dopo aver schiacciato la rivolta operaia di Berlino Est e giusto un anno prima di quella più vasta e complessa degli operai ungheresi, il 17 luglio dello stesso anno ad Anaheim, nella periferia di Los Angeles, avvenisse l’inaugurazione della prima Disneyland. Prima autentica cittadella del divertimento di massa e della riproduzione concreta del sogno americano, destinata sicuramente ad un pubblico infantile, non solo per età, affamato di beni sia materiali che immateriali. Spostando definitivamente il conflitto per il controllo dell’immaginario su un piano che i partiti derivati dall’esperienza bolscevica e del Comintern o Cominform non erano assolutamente pronti ad affrontare se non denunciando, ancora una volta, gli intrighi statunitensi e i maneggi della CIA5.

Impegnati com’erano, gli stessi partiti, a contestare l’espansione economica americana ed occidentale presentando i lusinghieri, ma artefatti risultati dei piani quinquennali sovietici6, ignorarono del tutto il fatto che il dominio reale del capitale, sempre guidato dalla necessità di espandere la vendita delle merci per realizzare il valore di scambio in esse contenuto, si estendeva oltre le strutture produttive, economiche, politiche, giuridiche e amministrative, di cui già aveva assunto il controllo, a quelle psichiche di quella stessa classe che avrebbe dovuto, secondo le interpretazioni più ortodosse, rappresentarne la negazione storica e politica.

Victoria De Grazia afferma infatti che:

il Piano Marshall non fu affatto concepito allo scopo di creare un’Europa di consumatori. In prima istanza fu ideato per far fronte alla penuria di dollari, che impediva ai fornitori europei di acquistare prodotti statunitensi e minacciavano di bloccare la ripresa. Tale penuria fu attribuita al divario commerciale tra le due aree, che a sua volta era dovuto alla perenne fiacchezza della produttività dell’economia europea. Di conseguenza, la priorità assoluta del Piano fu quella di incentivare la produttività mediante gli investimenti nella riorganizzazione industriale e nelle infrastrutture […]. Quindi, non si poteva concedere alcun aiuto destinato a riempire i guardaroba vuoti, ristrutturare le case, pagare le pensioni e tanto meno aumentare i salari. Anche gli aiuti alimentari erano distribuiti con parsimonia – solo nel caso in cui era strettamente necessario per motivi politici – come nella Germania occidentale nel 1948, allo scopo di attenuare la malnutrizione, compensare le carenze più gravi e consentire ai governi di favorire la ripresa senza sollevare le furibonde proteste di chi pativa la fame. […] In sostanza era necessario convincere i popoli dell’Europa occidentale ad accettare ciò che Charles S. Maier ha sinteticamente chiamato la «politica della produttività»7.

Questo potrebbe apparire in contraddizione con quanto fino ad ora detto, ma non lo è se si considerano i due cardini ineliminabili della politica economica del capitale: 1) incrementare la produttività e quindi la redditività del lavoro vivo, come unica fonte di creazione di plusvalore e 2) impedire che l’aumento di produttività di qualsiasi o tutti i settori della produzione potesse trovarsi annullata da colli di bottiglia venutisi a creare nel settore della circolazione delle merci tra la prima e l’effettiva capacità di assorbimento del mercato.

Due problemi che da sempre assillano il modo di produzione capitalistico e la sua effettiva capacità di realizzare sul mercato il valore virtualmente prodotto dal pluslavoro estratto in forma sempre più massicce dalla forza lavoro per mezzo del continuo incremento e rinnovo del capitale costante.
Se si tengono ben presenti questi due ultimi concetti si vedrà allora che ad ogni svolta tecnologica e produttiva non c’è alcun bisogno di gridare alla novità o alla capacità del capitale e dei suoi funzionari di controllare massicciamente la società e l’agire umano. Il domino reale del capitale ha affinato le sue armi e le sue tecniche, ma non ha cambiato di segno la sua sostanza.

Se nella fase susseguente alla prima e seconda rivoluzione industriale il lavoratore era integrato nel processo di produzione attraverso la sua dipendenza dalla macchina, da cui derivava però ancora la sua alienazione rispetto alle finalità della stessa, nella nuova fase aperta dalla società dei consumi affermatasi dopo il secondo conflitto mondiale la forza-lavoro si ritrovava “coinvolta” nel prodotto attraverso il desiderio dello stesso, anche se non appartenente allo stesso segmento produttivo di cui faceva parte il singolo operaio. Non più per motivi ideologici (fascismo, nazismo, stalinismo) dunque, ma per “interesse” personale e spinta al consumo.

Motivo per cui ogni “nuova” fase dello sviluppo capitalistico non richiede analisi del tutto nuove o presunte tali, ma forme di lotta adatte alle nuove condizioni imposte dal capitale. Negli anni Sessanta, la ripresa delle lotte operaie aveva posto al proprio centro richieste salariali che erano state dettate anche dai nuovi bisogni che la diffusione delle immagini di un benessere basato sull’ampliamento dei consumi avevano innestato a livello individuale e collettivo8. Quella protesta, di fatto alimentata forse più dalla tendenza al “consumismo” che da una non meglio definita “coscienza di classe”, aveva, però, scardinato per un momento nemmeno troppo breve l’ordine sociale capitalistico e il suo comando sul lavoro. Una volta finita, come in ogni periodo controrivoluzionario, lo stesso aveva però potuto costituirsi ad un livello più alto, aiutato in questo proprio dalle lezioni apprese dallo scontro aperto con il nemico: l’insorgente, a tratti, proletariato di fabbrica. E’ proprio l’apprendere da tali lezioni che permette al capitale collettivo di avvantaggiarsi nelle fasi immediatamente successive e a far sembrare che siano le lotte proletarie a rafforzarlo in qualche modo.

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica.

Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità9.


  1. Geminello Alvi, Dell’Estremo Occidente. Il Secolo Americano in Europa. Storie economiche 1916-1933, Marco Nardi Editore, Firenze 1993  

  2. Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe, Belknap Press, 2005 (in traduzione italiana: L’impero irresistibile. società dei consumi americana alla conquista del mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006)  

  3. V. De Grazia, op. cit., ed. italiana pp. 371-372  

  4. Ibidem, p. 374  

  5. Si veda, ad esempio, Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi Editore, Roma 2004  

  6. Si veda, ad esempio, l’attenta e dettagliata critica dei trionfalistici dati sovietici contenuta negli articoli dello stesso periodo di Amadeo Bordiga su «il programma comunista». In particolare in quelli raccolti successivamente in: Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista, Milano 1976.  

  7. V. De Grazia, op. cit., pp. 372-373  

  8. Si veda in proposito: Dario Lanzardo, Produzione, consumi e lotta di classe, «Quaderni rossi» n. 4, Reprint, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1976  

  9. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

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Il nuovo disordine mondiale / 6: la crisi dell’ordine occidentale e la sua “naturale” soluzione https://www.carmillaonline.com/2022/03/17/il-nuovo-disordine-mondiale-6-la-crisi-dellordine-occidentale-e-la-sua-naturale-soluzione/ Thu, 17 Mar 2022 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71032 di Sandro Moiso

«Il 29 maggio 1453, Costantinopoli cadeva sotto l’assalto degli eserciti di Mehmed II. Solo se la Cristianità fosse subentrata all’impero in disfacimento rilevandone il potere e le funzioni, solo allora forse il destino di Costantinopoli e della Grecia avrebbe potuto essere diverso. Invece proprio in quelle otto settimane di assedio, la Cristianità rivelò di essere un puro nome, privo di contenuto reale, divisa com’era da lotte e rivalità fra stato e stato, fra città e città, priva di un ampio disegno continentale, tutta presa dai grossi e piccoli problemi delle varie nazioni» (Steven Runciman – «The [...]]]> di Sandro Moiso

«Il 29 maggio 1453, Costantinopoli cadeva sotto l’assalto degli eserciti di Mehmed II.
Solo se la Cristianità fosse subentrata all’impero in disfacimento rilevandone il potere e le funzioni, solo allora forse il destino di Costantinopoli e della Grecia avrebbe potuto essere diverso. Invece proprio in quelle otto settimane di assedio, la Cristianità rivelò di essere un puro nome, privo di contenuto reale, divisa com’era da lotte e rivalità fra stato e stato, fra città e città, priva di un ampio disegno continentale, tutta presa dai grossi e piccoli problemi delle varie nazioni» (Steven Runciman – «The Fall of Costantinople 1453»)

Nel corso delle ultime settimane una viscerale e sfegatata propaganda bellica ha visto tutti i media mainstream insistere sull’unità politica, militare e di intenti degli alleati occidentali di Washington, in generale, e dei paesi dell’Unione Europea, in particolare. Vedremo che così non è anche se, sempre nello stesso periodo, gli stessi strumenti di disinformazione hanno particolarmente insistito sulla provenienza “cinese” dell’idea di un nuovo disordine mondiale ovvero di una situazione in cui si può considerare quasi irreversibile il declino delle potenze economico-militari collocate a cavallo dell’Oceano Atlantico.

In realtà, però, la troppa attenzione prestata dai media e dai giornalisti embedded alla causa occidentale ha impedito loro di cogliere che la prima formulazione completa di tale idea, almeno sul piano economico-politico e finanziario, è stata sviluppata in maniera abbastanza compiuta proprio da uno degli organi più rappresentativi del general management statunitense, la «Harvard Business Review», che nel numero di agosto del 2003 titolò un suo articolo, redatto da Nicolas Checa, John Maguire e Jonathan Barney, proprio così: Il nuovo disordine mondiale (The New World Disorder qui).

Per intendere meglio di che cosa si parla, basti sapere che l’«Harvard Business Review» nacque nel 1922 come progetto editoriale della Harvard Business School, ma iniziò a spostare il suo focus editoriale sul general management dopo la seconda guerra mondiale, quando un crescente numero di manager cominciò ad interessarsi alle tecniche di gestione introdotte dalla General Motors e da altre grandi aziende. Nei successivi tre decenni, ha focalizzato la sua attenzione sulla formazione dei decision maker. Contribuendo ad un’idea di gestione manageriale del mondo che rivela tutta l’insopportabile prosopopea connessa alla pratica della privatizzazione e dello sfruttamento di ogni aspetto della vita e della riproduzione della specie.

Nell’articolo anticipato prima, la rivista riassumeva il percorso della globalizzazione a partire da quel 1° gennaio 1995 in cui, con una cerimonia a Ginevra ampiamente pubblicizzata, i rappresentanti di 76 paesi avevano apposto le loro firme alla carta dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’OMC (o WTO, World Trade Organisation), fu l’ultima dei figli di Bretton Woods a diventare maggiorenne, mentre i suoi organi gemelli, tra cui il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, si erano formati tutti nel 1940.

Precedentemente l’OMC era stata per anni classificata come parte di un accordo commerciale temporaneo e il suo emergere finale come organismo sovranazionale pienamente potenziato sembrava riflettere il trionfo di quello che il primo presidente Bush aveva descritto come il “nuovo ordine mondiale”, dopo aver colto i frutti, elettorali ed economici, della reganiana “vittoria sul comunismo” e della Glasnost e della Perestroika avviate da Mikhael Gorbachev .

Quell’ordine era in gran parte basato su due presupposti: in primo luogo, che un’economia sana e un solido sistema finanziario creano stabilità politica, e in secondo luogo, che i paesi in affari insieme non si combattono a vicenda. La priorità numero uno della politica estera degli Stati Uniti era chiara: incoraggiare i paesi ex comunisti d’Europa e le nazioni in via di sviluppo in America Latina, Asia e Africa ad adottare politiche favorevoli alle imprese. Il capitale privato sarebbe fluito quindi dal mondo sviluppato in questi paesi, creando crescita economica e posti di lavoro. […] Come la gente amava dire, nessun paese con McDonald’s era mai andato in guerra l’uno con l’altro.

[…] Questo percorso di riforma, spesso chiamato Washington Consensus, ha comportato disciplina fiscale, liberalizzazione del commercio, privatizzazione, deregolamentazione e diritti di proprietà ampliati attraverso riforme legali. I promotori di queste riforme speravano che i cambiamenti avrebbero reso i paesi in via di sviluppo più attraenti per gli investimenti stranieri e avrebbero integrato ulteriormente quei paesi in una rete economica globale competitiva, ma pacifica. Nella sua forma più estrema, la visione divenne quella in cui questi paesi sarebbero diventati parte di un’economia mondiale liberale e aperta che promuoveva valori occidentali come la democrazia.
Per la maggior parte degli anni 1990, i paesi in via di sviluppo sono stati più che felici di accontentare tali propositi. Nell’agosto 2000, con l’adesione dell’Albania, il numero dei membri dell’OMC era quasi raddoppiato a 139.

La politica degli Stati Uniti di mettere il business al primo posto sembrava rendere il mondo un posto molto più semplice per i manager. Molti presumevano che l’esportazione di capitali dalle economie sviluppate verso i mercati meno sviluppati potesse essere sostenuta indefinitamente; non appena un paese sceglieva di essere integrato nella nuova economia globale, le sue istituzioni si adattavano sotto la stessa pressione implacabile che stava trasformando le imprese di tutto il mondo.

Per le aziende il tutto si riduceva sostanzialmente alle dimensioni: più grande è il paese, meglio è e più sicuro. Sembrava più pericoloso stare fuori dalle grandi economie in via di sviluppo che immergersi. Un miliardo di cinesi avrebbero potuto acquistare un sacco di auto, dentifricio o scarpe, mentre gli investitori finanziari tenevano un atteggiamento altrettanto spensierato.

Finché la valuta di un paese poteva essere scambiata liberamente e un mercato liquido era disponibile nel suo debito, l’economia di quel paese era considerata sicura. Quando il FMI si comportava come prestatore dell’ultimo, e in alcuni casi del primo, ricorso (anche se non ha mai affermato di esserlo), cosa importava se il sistema bancario di un paese era compromesso?
Sembrava troppo bello per essere vero, e così si è dimostrato. Il nuovo ordine mondiale di Bush padre e del suo successore, Bill Clinton, è stato sostituito dal nuovo disordine mondiale di Bush figlio.

Fu infatti alla fine degli anni ’90 che si ebbe il primo assaggio del rovescio della medaglia della globalizzazione finanziaria:

la crisi finanziaria della Thailandia del 1997 ne scatenò un’altra in Corea lo stesso anno. Il virus economico si diffuse in Russia l’anno successivo e, all’inizio del 1999, il Brasile fu costretto ad abbandonare la sua politica di tassi di cambio fissi. Questi paesi avevano poco in comune, eppure le crisi finanziarie si propagavano da uno all’altro come un virus a causa dei legami creati dalla nuova economia globale.
La ragione era semplice: sebbene le destinazioni degli investimenti diretti esteri fossero lontane e diversificate, la fonte di quel capitale non lo era. La banca occidentale che deteneva baht thailandesi deteneva anche real brasiliani. Il fondo che possedeva obbligazioni coreane deteneva anche banconote russe. Nella convinzione che il FMI, con gli Stati Uniti alle spalle, fosse disposto a salvare le economie che si trovavano in difficoltà a breve termine, molte di queste istituzioni avevano fatto incetta di titoli e valuta di quelle stesse.

[…] All’inizio, il FMI è intervenuto per aiutare, ma i costi dei ripetuti salvataggi multilaterali sono diventati sempre meno accessibili. Alla fine, il governo russo è andato in default, rendendo pressoché inutili i quasi 40 miliardi di dollari di debito pubblico interno detenuti dalle istituzioni finanziarie e più che dimezzando il valore di 100 miliardi di dollari delle azioni russe. Gli Stati Uniti hanno usato la loro influenza per costringere il FMI ad aiutare la Russia poco prima dell’agosto 1998; tuttavia, è riuscito ad acquistare meno di un mese di solvibilità aggiuntiva. Con il senno di poi, possiamo vedere che la convinzione degli investitori che gli Stati Uniti sarebbero rimasti indietro rispetto ai grandi paesi desiderosi di riforme aveva innescato una bolla speculativa in quelle economie che sarebbe scoppiata con il default russo.

[In realtà] Le forze della globalizzazione avevano cambiato le istituzioni russe così poco che un funzionario pubblico ha definito gli aiuti del settore pubblico alla Russia come “acqua versata su una lastra di vetro”. I programmi di privatizzazione hanno dimostrato di aver fatto poco più che arricchire le classi dominanti, anche se la gente comune ha pagato per la presunta liberalizzazione economica con il proprio lavoro. L’ostilità che questo ha generato tra gli elettori, spesso di recente diritto di voto, si è solo approfondita quando gli investitori stranieri hanno iniziato a chiudere i rubinetti.
Ironia della sorte, il secondo presidente Bush ha messo l’ultimo chiodo nella bara del nuovo ordine mondiale. Anche prima dell’11 settembre, l’amministrazione stava segnalando di avere una visione molto diversa dell’impegno internazionale da quella del suo predecessore, basata sulla sicurezza, non sulle preoccupazioni economiche. E la sicurezza era ora definita non solo negli stretti termini della Guerra Fredda di sicurezza dall’attacco di una superpotenza ostile, anche se stabile, ma molto ampiamente per includere la sicurezza dal terrorismo e dalle armi di distruzione di massa, così come gli input economici vitali come il petrolio.

Nel maggio 2001, la politica energetica nazionale del presidente Bush e del vicepresidente Cheney sottolineò che: “La sicurezza energetica deve essere una priorità del commercio e della politica estera degli Stati Uniti. Dobbiamo guardare oltre i nostri confini e ripristinare la credibilità dell’America con i fornitori esteri. Inoltre, dobbiamo costruire forti relazioni con le nazioni produttrici di energia nel nostro emisfero, migliorando le prospettive per il commercio, gli investimenti e le forniture affidabili”.
L’implicazione era chiara: la sicurezza, in questo caso la sicurezza energetica, era ora la considerazione principale nel commercio e nella politica estera degli Stati Uniti. La Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America pubblicata nel settembre 2002 mostra come il pensiero si sia sviluppato da lì. È diventato molto chiaro che il governo Bush definisva l’impegno internazionale in termini di relazioni bilaterali con alleati strategicamente importanti e confronto unilaterale con quasi tutti gli altri.

Ma è a questo punto che viene la parte più interessante dell’articolo, motivo per cui l’autore del presente chiede venia al lettore per le lunghe citazioni, che ha inizio con una dichiarazione decisamente spudorata:

Le aziende non possono giocare in difesa tutto il tempo; solo l’offesa mette punti sul tabellone. Dal momento che la globalizzazione è qui per rimanere.
Anche le economie sviluppate sono colpite, anche se in modo più sfumato, dal cambiamento epocale delle prospettive geopolitiche. È improbabile che l’acrimonia sollevata nel dibattito sull’Iraq si traduca in una guerra commerciale, ma avrà un piccolo ma percettibile effetto sul modo in cui gli Stati Uniti e l’Unione europea affrontano determinate questioni. Queste includono controversie commerciali, extraterritorialità legislativa degli Stati Uniti e regolamenti sulla concorrenza.
Ancora una volta, l’allontanamento tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei è durato diversi anni, perché la nuova amministrazione è entrata in carica determinata a non lasciare che le alleanze esistenti limitassero la libertà d’azione dell’America. In effetti, il documento sulla strategia di sicurezza nazionale dello scorso settembre fa solo riferimenti di passaggio alla NATO e all’Europa occidentale.

E questo è il momento in cui si spiega, almeno parzialmente, il comportamento a dir poco ambiguo tenuto dalle istituzioni finanziarie e dalle diverse amministrazioni americane nei confronti della Russia.

Gli investimenti passati in Russia forniscono un caso di studio perfetto di questa dinamica. Gli investitori hanno commesso l’errore di interpretare la vittoria di Boris El’cin sul candidato del Partito Comunista nel 1996 come un segno che la Russia era sicura per gli affari. Dal momento che i comunisti erano cattivi, El’cin deve essere buono, giusto? Inoltre, gli Stati Uniti avevano un chiaro interesse per la stabilità (a quasi tutti i costi) della nazione perché la Russia era allora il più grande arsenale nucleare del mondo. A dire il vero, la natura capricciosa del sistema legale russo ha scoraggiato molti investimenti aziendali e ha impedito a molte aziende occidentali di farsi del male. Tuttavia, molti occidentali e capitali occidentali affluirono, rendendo Mosca una delle città più costose del mondo.
Dopo il default, la svalutazione e la moratoria del debito del 1997, la Russia è passata dall’essere percepita come l’opportunità di investimento più brillante del mondo ad essere la peggiore. La nuova percezione ha preso una presa così salda che gli investitori hanno quasi completamente perso la ripresa russa del 1999-2000. A quel tempo, l’aumento dei prezzi del petrolio, la nomina di Vladimir Putin a primo ministro nell’agosto 1999, la sua assunzione della presidenza nel gennaio 2000 e la sua successiva elezione alla carica nell’agosto 2000 si combinarono per trasformare il panorama economico e politico della Russia. Le agenzie di rating hanno notato il miglioramento solo verso la fine del 2000; Standard & Poor’s, ad esempio, ha aumentato il debito estero russo a lungo termine da SD (default) a C solo nel dicembre 2000. E il mercato azionario non ha preso atto della posizione molto migliorata della Russia fino al 2001.
Oggi (2003, NdA) la tentazione è quella di presumere che gli attacchi terroristici dell’11 settembre abbiano portato a un’inversione dell’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Russia e, insieme ad esso, a una forte riduzione del rischio di fare affari lì. Sbagliato di nuovo, su entrambi i lati dell’ipotesi. Gli Stati Uniti vedevano la Russia come un partner strategico prima degli attacchi.
Nel maggio 2001, l’amministrazione ha pubblicato un report sulla politica energetica globale che implicava che gli Stati Uniti stavano cercando di diversificare le loro importazioni di energia per ridurre la dipendenza da regimi instabili in Medio Oriente. La Russia era chiaramente uno dei beneficiari previsti della nuova politica degli Stati Uniti.

Ma l’attacco dell’11 settembre e la successiva guerra con l’Iraq avrebbero reso la Russia strategicamente meno importante per gli Stati Uniti. Con la scommessa (poi persa) sulla rimozione dei talebani afghani e di Saddam Hussein, il governo degli Stati Uniti pensava che il Medio Oriente sarebbe diventato più stabile sotto il proprio controllo e che ciò avrebbe ridotto il fabbisogno statunitense di petrolio russo.

All’indomani dell’11 settembre, il governo russo si era saldamente allineato con gli Stati Uniti. Ma quell’allineamento è stato il risultato della frettolosa valutazione di Putin degli interessi economici e dell’influenza diplomatica della Russia, specialmente nella sensibile Comunità degli Stati Indipendenti, vicino all’Afghanistan. Alcune visite ai vicini dell’Asia centrale della Russia hanno mostrato al presidente russo che il suo paese non aveva abbastanza influenza per impedire che si sviluppasse una considerevole presenza americana mentre la guerra contro i talebani si avvicinava. Allo stesso tempo, il personale del Cremlino ha convinto Putin del valore economico di un rapporto migliore con gli Stati Uniti.
Gli storici arriveranno a riconoscere che l’allineamento era puramente temporaneo. Alla fine del 2002, i russi erano diventati ben consapevoli che la loro influenza sugli Stati Uniti sarebbe diminuita una volta iniziate le ostilità in Iraq, cosa che costituiva esattamente il motivo per cui erano così contrari alla guerra durante i negoziati delle Nazioni Unite all’inizio di quest’anno. Inoltre, il governo aveva poco da perdere, ma molto da guadagnare, dalla disapprovazione degli Stati Uniti.

Con l’affermazione di Putin, nelle elezioni presidenziali del 2000, erano «ormai lontani i giorni inebrianti di El’cin, quando l’Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare erano visti come la fonte del successo economico e della verità politica».
Se il cambiamento nella politica energetica degli Stati Uniti aveva creato nuovi incentivi per partecipare all’industria energetica russa nel 1999, con una legge costituita per incoraggiare gli investimenti stranieri nello sviluppo energetico russo proteggendo le società straniere in alcune joint venture dalle onerose tasse russe, i cambiamenti geo-politici successivi di fatto hanno decisamente ridotto la funzione degli accordi precedenti. Mentre, nel settore energetico, i passi successivi intrapresi dal governo russo su alcune questioni care agli investitori stranieri, in particolare, l’accordo di condivisione della produzione, avrebbe reso gli investimenti in quel paese «un gioco tutto o niente».

Il nuovo disordine mondiale si era già affacciato alle porte, dalle crisi latino-americane all’ondata di radicalismo islamico che avrebbe reso meno stabili le aree mediorientali, tanto da far sì che fin che Putin aveva condotto la seconda guerra cecena (1999-2009), conclusasi con il ristabilimento dell’ordine della Federazione russa in quell’area precedentemente resasi indipendente con il sanguinoso conflitto del 1994-1996, gli Stati Uniti e l’Occidente in genere ebbero ben poco da dire sui crimini commessi dalle forze russe e dai loro alleati in quell’area. Nonostante le denunce di una giornalista davvero coraggiosa e anti-putiniana come Anna Politkovskaja (1958-2006), poi freddata da diversi colpi di pistola nell’androne del palazzo in cui viveva nel 20061, avessero cercato di far aprire gli occhi sia su ciò che avveniva in quell’angolo del Caucaso che sulla corruzione imperante nel sistema economico-politico russo. Gravi silenzi di allora che rendono ancora più sospetta la forsennata criminalizzazione attuale di Putin e del suo regime2.

Ma, a ben guardare, fu proprio anche in quegli anni di “disinteresse americano per l’Europa” che si andò a definire la politica della Nato nei confronti dell’ex-Patto di Varsavia.
Esclusa infatti la DDR che sarebbe entrata nell’Alleanza Atlantica subito dopo la riunificazione tedesca, soltanto nel 1999 l’avrebbero seguita Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca3, nove anni dopo che, il 9 febbraio 1990, il segretario di Stato americano James Baker aveva promesso a Mikhael Gorbachev che, con la garanzia della Germania unificata, la giurisdizione della Nato non si sarebbe spostata di un pollice verso Est.

Come si rileva dall’editoriale dell’ultimo numero di «Limes»:

Un pollice sono 2 centimetri e 54 millimetri. Trent’anni dopo, l’Alleanza Atlantica è avanzata di circa cinquecento chilometri dall’Elba al Bug, quasi duemila se consideriamo l’intero fronte dal Mar Baltico al Mar Nero. Cammin facendo ha inglobato tre stati ex-sovietici – Estonia, Lettonia, Lituania (nel 2004) – che insieme a Norvegia e Polonia affacciano direttamente sulla Russia.
[…] Baker esprimeva il punto di vista prevalente a Washington sotto George Bush senior: impedire che la perdita dell’impero europeo comportasse la disintegrazione dell’URSS, con relativa dispersione di 35 mila testate atomiche a disposizione dell’Armata Rossa. L’ultimo difensore dell’Unione Sovietica è il presidente degli Stati Uniti. Lo testimonia il suo sferzante monito al parlamento ucraino, il 1° agosto 1991, in cui su suggerimento di Gorbachev denuncia «il nazionalismo suicida» degli ucraini (cosa che l’anno dopo gli costerà il voto etnico degli slavi americani e forse la rielezione).
[…] Come scriverà poco tempo dopo l’ambasciatore americano a Mosca, Robert Strauss, «l’evento più rivoluzionario del 1991 per la Russia potrebbe non essere stato il collasso del comunismo, ma la perdita di qualcosa che i russi di ogni parte politica considerano parte del proprio corpo politico, e molto prossimo al cuore: l’Ucraina»4.

E’ chiaro che con premesse del genere sarebbe stato in seguito buon gioco per Putin giustificare l’invasione di territori limitrofi, prima la Georgia nel 2008 poi l’Ucraina a partire dal 24 febbraio scorso, sventolando la rinnovata minaccia atlantica nei confronti della Russia, esattamente come aveva iniziato a fare fin dal 10 febbraio 2007 nel suo intervento alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, sintomo di una politica estera che, comunque, tra il 1991 il 2007, la potenza dell’Est, sia con Gorbachev che con El’cin e Putin, aveva condotto con la speranza di rientrare nel gioco europeo. A dimostrazione non soltanto di come le cose siano volte in altra direzione, ma anche del fatto che nello scontro attuale si sia di fronte ad una guerra tra due opposte fazioni imperialiste, prima ancora che a una per la libertà o meno del popolo ucraino.

Il quale, abbastanza spudoratamente, è stato incitato fino ad ora sia da i suoi governanti, che non hanno mai rifiutato di includere le milizie fasciste e neonaziste nei ranghi dell’esercito regolare, sia dai paesi europei e dagli Stati Uniti a combattere una guerra per procura, destinata a causare migliaia di vittime e milioni di profughi tra i civili, pur di riuscire ad intrappolare l’esercito e lo Stato di Putin in un pantano destinato, nelle intenzioni di chi lo ha pensato, a svolgere la stessa funzione di indebolimento che ebbe la guerra afghana per l’ex-URSS.

Progetto più facile a dirsi che a realizzarsi, poiché se è pur vero che le tecnologie e le tattiche belliche messe in campo dai russi appaiono, dopo due settimane e nonostante i lenti ma progressivi successi ottenuti sul campo, in difficoltà rispetto alle armi, soprattutto i missili portatili Javelin5 e Stinger, fornite dagli americani, con relativo addestramento e con largo anticipo rispetto all’esplodere della guerra in corso. I secondi, in particolare, autentico terrore per gli elicotteri, come hanno già sperimentato le forze della coalizione occidentale in Afghanistan, che proprio a causa di quest’ultima arma dovettero rinunciare quasi da subito alle missioni elitrasportate diurne. Armi che, inoltre, hanno messo in difficoltà anche le missioni aeree russe che, hanno spesso dovuto abbassarsi troppo per colpire gli obiettivi, pagandone la conseguenze in termini di perdite di velivoli6.

Detto questo, però, occorre ricordare che nel settore di un possibile scontro intercontinentale o nucleare le armi russe probabilmente risulterebbero oggi più avanzate di quelle a disposizione degli U.S.A. e della Nato7. Come dimostrato dall’utilizzo, per la prima volta, in Ucraina dei micidiali missili ipersonici Kinzhal che possono portare sia testate tradizionali (da 480 kg di esplosivo.) che nucleari. Da qui la scommessa su una “guerra di terra” convenzionale in cui gli alleati occidentali vorrebbero forse impantanare il gigante russo che, anche se su un territorio considerato patrio o nazionale si affida ancora a livello di movimenti di fanteria alle tattiche applicate dalle campagne napoleoniche fino a Stalin (tattica vincente non si cambia), in occasione di una guerra allargata potrebbe avere a disposizione un arsenale decisamente più moderno ed efficace.

Lasciando da parte le oziose discussioni sul fatto che l’avanzata russa voglia o meno risparmiare i civili, almeno in parte, occorre ricordare che fin dalle teorizzazioni del generale italiano Giulio Douhet, primo teorico della guerra aerea moderna intesa come guerra totale in cui gli obiettivi civili sono di fatto obiettivi militari a tutti gli effetti (aree industriali, infrastrutture, ospedali), sono state massicciamente applicate da tutte le forze aeree moderne e da quelle occidentali in primo luogo fin dalla seconda guerra mondiale, appare chiaro che si tratta di una pericolosa scommessa di cui è facile perdere il controllo.

Sia per un sempre possibile errore nella traiettoria di un missile o di un proiettile d’artiglieria oppure per una scelta di Putin che, vedendosi in decisiva difficoltà, potrebbe davvero alzare il tiro e la portata della posta in gioco. Motivo per cui non basta nascondersi dietro la scusa degli aiuti senza intervento diretto, soprattutto dopo che la Cina è stata minacciata, in caso di aiuti militari ai russi, di essere considerata cobelligerante. Affermazione statunitense e Nato che apre la porta ad un altro quesito tutt’altro che secondario in una situazione delicata come quella attuale: gli eventuali aiuti cinesi costituirebbero cobelligeranza, degna di essere non solo deprecata ma anche punita con pesanti sanzioni, e quelli europei o americani all’Ucraina no? Bel problema, purtroppo risolvibile più sul campo di battaglia economico e militare che in un’aula di tribunale internazionale.

Sia anche perché alcuni alleati, come si diceva in apertura, non sono troppo soddisfatti delle scelte adottate fino ad ora dagli Stati Uniti e dal Consiglio europeo. Come la scelta di Polonia, Slovenia e Repubblica Ceca di manifestare una più aperta solidarietà a Zelensky, che ha infastidito sia Germania che Italia e Stati Uniti (almeno apparentemente), ha dimostrato, senza contare la costante spinta britannica a ricostituire una sorta di protettorato militare sui paesi baltici così come già era avvenuto al termine del primo conflitto mondiale8. A conferma dell’ipocrisia del governo inglese, così ben disposto a fomentare e armare la guerra, ma che fino ad ora è stato quello che ha accolto il minor numero di profughi ucraini sul proprio territorio nazionale.

Innanzitutto dovrebbe preoccupare la proposta polacca di una missione di peace keeping internazionale in Ucraina, considerato che nella base militare ucraina di Yavoriv, pesantemente bombardata dai missili russi il 12/13 marzo, si custodivano armi e lavoravano istruttori militari e mercenari stranieri pur essendo la stessa definita come Centro internazionale per la pace e la sicurezza (Ipsc, nell’acronimo in inglese). Base militare dove a settembre si erano svolte le esercitazioni militari ucraine in coordinamento con la Nato, Rapid Trident- 2021. Manovre andate avanti fino al 1° ottobre9. Proposta polacca che, nella sua intima essenza, nasconde inoltre l’antica rivalsa di riconquista della Galizia, di cui la capitale sarebbe Leopoli oggi ucraina, da sempre rivendicata come parte del territorio polacco dai nazionalisti di Varsavia.
Mentre la vicina Ungheria, pur appartenente anch’essa alla Nato, ha rifiutato di far transitare sul suo territorio qualsiasi tipo di aiuto militare diretto all’Ucraina.

Senza allargare il discorso all’infinita frammentazione territoriale delle nazionalità racchiuse tra i confini dei paesi che vengono definiti centro-europei, ma che pencolano da secoli tra Est e Ovest, tra mondo slavo e mondo tedesco, occorre segnalare che a distanza di più di un secolo dalla Conferenza di Versailles, che sotto l’egida del presidente americano Woodrow Wilson ridisegnò gli assetti territoriali che erano precedentemente appartenuti agli imperi asburgico, guglielmino, ottomano e zarista, quei territori costituiscono ancora un esplosivo mix di nazionalità, odi, rivendicazioni, rivalità di cui le recenti manifestazioni in Serbia a favore dei serbo-bosniaci o dei serbi del Kosovo (qui e qui) non costituiscono altro che un pallido esempio ciò che potrebbe rivelarsi ben più catastrofico delle guerre balcaniche degli anni ’90.

Due guerre mondiali sono partite dalle rivalità mai sopite in quell’area e ancora una volta questo fattore potrebbe precipitare nel nuovo disordine mondiale come tragico elemento dirompente nel cuore dell’Europa.
In questo senso il riarmo tedesco e la circolare di allerta destinata pochi giorni or sono alle forze armate italiane affinché si tengano pronte e in completa efficienza in previsione di “esercitazioni di warfighting” e l’approvazione dell’aumento al 2% del Pil per le spese militari italiane oppure, ancora, l’affermazione di Emmanuel Macron secondo il quale la Francia dovrebbe prepararsi ad “una guerra di alta intensità che può tornare sul nostro continente”, non fanno certo ben sperare per il futuro.

Così come un’eventuale missione di peace keeping delle Nazioni Unite, come conseguenza della dichiarazioni sulle intenzioni e i comportamenti criminali di Putin e del suo “Stato canaglia”, portate aventi da chi, come Biden, rappresenta nazioni che hanno altrettanto le mani sporche da secoli del sangue di donne, bambini e innocenti, non rappresenterebbe altro che una scusa, nemmeno troppo occultata, per un intervento militare diretto sul campo. Con tutte le possibili conseguenze già elencate prima.

E sono tutte queste contraddizioni, più o meno sotterranee o più o meno aperte, che hanno anche ingarbugliato le diplomazie europee, ormai ampiamente fuori gioco e superate da quello di Israele, Turchia o di uno degli oligarchi più importanti della cerchia di Putin, Roman Abramovič, che ha continuato a volare da una capitale all’altra dei due paesi quasi affiancando l’operato di Lavrov su altri fronti diplomatici.

L’Europa procede in ordine sparso, tenuta insieme soltanto dal decisionismo americano che, dopo il disastro afghano e soltanto per ora, segna un punto a proprio vantaggio, costringendo all’angolo sia la diplomazia europea che l’iniziativa militare ed economica di Putin, ma senza raggiungere con certezza nessun altro obiettivo che quello di sfruttare ulteriormente un’alta guerra in favore dell’industria degli armamenti, mai secondaria nemmeno nei ragionamenti dell’articolo della «Harvard Business Review» con cui si è aperto questo lungo intervento.

Raytheon, una delle principali compagnie di difesa del mondo, ha scelto di strombazzare la sua identità americana piuttosto che minimizzarla. Raytheon ritiene che il successo sul fronte militare sia una buona notizia per l’azienda e i suoi prodotti: dal momento che gli Stati Uniti sono un vincitore, anche Raytheon, come naturale estensione della sicurezza degli Stati Uniti, sarà un vincitore. Questa tattica trasforma la potenziale responsabilità di far parte dell’odiato impero in una risorsa. Certo, sarebbe difficile per un’azienda come Raytheon de-americanizzare il proprio marchio. Ma unirsi alla squadra vincente è certamente una tattica praticabile per qualsiasi azienda la cui base di clienti includa i governi nazionali.10.

Sicuramente anche all’epoca della caduta di Costantinopoli qualcuno avrà affermato che la ruota della Storia o del destino stava tornando indietro, ma in realtà quell’evento modificò per sempre la Storia, indipendentemente da come giri e in quale direzione la grande ruota dell stessa (ammesso che esista). Il Mar Mediterraneo perse la sua centralità per i commerci e questi si spostarono decisamente verso gli oceani, creando le potenze marittime atlantiche e 118 anni dopo, a Lepanto, l’apparente vittoria cristiana sulla flotta ottomana non cambiò di una virgola il sistema che si era intanto andato affermando. Anzi furono proprio alcune nazioni europee a dovere allearsi con i Turchi per dirimere i propri contrasti. Esattamente come fece il regno di Francia per cercare di risolvere manu militari le rivalità con la Spagna.

Qualsiasi possano essere le ulteriori conseguenze del conflitto ucraino o gli accordi che lo rallenteranno o fermeranno, una nuova età di guerre allargate e radicali cambiamenti si è aperta e l’unico spiraglio per la salvezza della specie e per coloro che si oppongono a questo modo di produzione delirante, che ci ostiniamo a chiamare capitalismo, non potrà essere altro che quello rappresentato dall’opposizione ad ogni guerra e dall’appoggio fornito ai lavoratori, ai giovani, alle donne e ai disertori che si scontreranno prima di tutto con i loro governati per rovesciarne, in ogni angolo del mondo e in ogni paese, l’imperio e la fasulla e sanguinaria retorica nazionalista e guerrafondaia.
Poiché la nostra pace significa disertare la loro guerra.

(6 – continua)


  1. Di Anna Politkovskaja sono stati pubblicati in Italia: La Russia di Putin, Adelphi, Milano 2005; Per questo, Adelphi 2009; Diario russo 2003-2005, Adelphi 2007; Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma 2006; Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin, Arnoldo Mondadori, Milano 2007; Un piccolo angolo di inferno, Rizzoli, Milano 2008  

  2. Soprattutto in Italia, dove vale la pena di ricordare la fitta rete di interessi stabilitasi intorno al gas russo, in particolare durante il berlusconismo (qui)  

  3. Seguite nel 2004 da Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovenia e Slovacchia; nel 2009 da Croazia e Albania; nel 2017 dal Montenegro e nel 2020 dalla Macedonia del Nord  

  4. Il silenzio di Puškin, in La Russia cambia il mondo, «Limes» n° 2/2022, pp. 16-17  

  5. L’FGM-148 Javelinè un’arma anticarro portatile, in servizio nelle forze armate statunitensi. L’arma utilizza un sistema di guida automatica ad infrarossi, che permette all’operatore di cercare copertura immediatamente dopo avere sparato. Il sistema è composto da un lanciatore riutilizzabile (CLU, Command Launch Unit) e da un missile HEAT a combustibile solido, che è in grado di superare le difese e le corazze reattive dei moderni carri attaccandoli dall’alto, dove la corazza è più sottile. Il personale di lancio è di norma costituito da due persone, ma può essere lanciato anche da una persona singola. Il bersaglio viene individuato in fase di puntamento, ed è agganciato e seguito autonomamente dal missile, senza che siano necessari altri interventi da parte del personale che lo ha lanciato (“lancia e dimentica”) per mezzo del calore emanato dal bersaglio stesso; il puntamento è facilitato dall’elettronica dell’arma che, oltre ad una funzione di zoom, include anche una di visione notturna.  

  6. Anche se su tutti questi aspetti sarebbe comunque bene tener conto da quanto espresso qui dal Generale Fabio Mini  

  7. Si veda in proposito. Franco Iacch, La stabilità strategica USA-Russia vale più della crisi ucraina, in «Limes» n° 2/2022, cit., pp. 221- 229  

  8. Si veda in proposito: Evgenij Jurevič Sergeev, La Gran Bretagna e gli Stati baltici dal 1918 al 1922 in Davide Artico – Brunello Mantelli, Da Versailles a Monaco. Vent’anni di guerre dimenticate, UTET 2010, pp.14-34  

  9. Fonte: «La Stampa» 13 marzo 2022  

  10. The New World Disorder, op. cit.  

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Dall’organizzazione libertaria al partito di classe https://www.carmillaonline.com/2018/11/21/dallorganizzazione-libertaria-al-partito-di-classe/ Wed, 21 Nov 2018 20:31:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49530 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), Gruppi anarchici d’azione proletaria. Le idee, i militanti, l’organizzazione. Vol. 2 Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest: dall’organizzazione libertaria al partito di classe, Quaderni della rivista storica dell’anarchismo 8/2018, BFS, Pisa 2018 – Pantarei, Milano 2018, pp. 784, euro 40,00

Con questo secondo volume, di fatto, si conclude la monumentale opera, curata da Franco Bertolucci, dedicata alla ricostruzione della breve ma intensa esperienza dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) che, tra il 1949 e il 1956, vide alcuni importanti esponenti dell’anarchismo e del comunismo estraneo alla tradizione stalinista e togliattiana [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), Gruppi anarchici d’azione proletaria. Le idee, i militanti, l’organizzazione. Vol. 2 Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest: dall’organizzazione libertaria al partito di classe, Quaderni della rivista storica dell’anarchismo 8/2018, BFS, Pisa 2018 – Pantarei, Milano 2018, pp. 784, euro 40,00

Con questo secondo volume, di fatto, si conclude la monumentale opera, curata da Franco Bertolucci, dedicata alla ricostruzione della breve ma intensa esperienza dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) che, tra il 1949 e il 1956, vide alcuni importanti esponenti dell’anarchismo e del comunismo estraneo alla tradizione stalinista e togliattiana impegnati nel tentativo di dare vita ad un’organizzazione politica di classe che convogliasse tra le propria fila e nel proprio programma gli aspetti migliori di una militanza proletaria e di una teoria che fossero avulse dall’ormai evidente tradimento della causa rivoluzionaria messo in atto da formazioni ed organizzazioni che formalmente si richiamavano ancora al marxismo e agli interessi del proletariato in quanto classe ben distinta, sia a livello nazionale che internazionale, tanto da quella imprenditoriale legata al capitale privato che da quella che, ammantandosi di socialismo farlocco, rappresentava ormai soltanto più gli interessi di un capitalismo di Stato travestito da patria del proletariato.

Una stagione durissima per la militanza proletaria, che seguiva una stagione in cui le dittature dell’Occidente (nazionalsocialismo e fascismo) e quella che reggeva l’U.R.S.S. avevano in egual modo contribuito alla distruzione delle autonome organizzazioni di classe, riuscendo a coinvolgere il proletariato mondiale in uno scontro militare che aveva avuto come unico esito quello di dar vita a due super potenze che si erano spartite il pianeta e le sue risorse in nome di posizioni ideologiche apparentemente divergenti, ma in realtà convergenti nel ristabilimento di un ordine gerarchico e politico destinato a tarpare le ali a qualsiasi tentativo di rivolgimento proletario nei territori da esse direttamente occupati militarmente oppure amministrati da partiti “fratelli” o amministrazioni fedeli alle alleanze militari (NATO e Patto di Varsavia) create ad hoc. Più per controllare le insorgenze dal basso che per far fronte a reali conflitti militari tra le stesse.

Autentiche sante alleanze che in nome della libertà capitalistica oppure del socialismo nazionale di Stato contribuirono a mantenere l’ordine non solo a Berlino, come era avvenuto nel 1953 durante l’insurrezione operaia della parte orientale della città, ma anche là dove ancora l’insorgenza di classe tardava a venire a causa del controllo esercitato sulla forza lavoro dai sindacati, ereditati dalla tradizione di concertazione degli interessi nazionali di stampo fascista, e dai partiti sedicenti di sinistra ma già pienamente inseriti nel gioco delle parti del parlamentarismo autoritario dietro il quale si trinceravano gli interessi della borghesia e del capitale, sia industriale che finanziario.

L’attuale volume sulla storia dei GAAP, che giungerà a conclusione con un terzo volume già pronto per la stampa dedicato alle biografie dei militanti anarchici e comunisti che parteciparono a quell’esperienza, riparte proprio da dove si era concluso il primo ovvero da quel 1953 che si era dimostrato foriero di tempeste proprio per quei regimi che nell’Europa dell’Est rappresentavano la presenza e l’esistenza di un imperialismo sovietico che più che appoggiarsi su piani di sostegno economico e promesse di sviluppo dei consumi, come era avvenuto all’Ovest con il Piano Marshall, si appoggiavano sulla presenza militare diretta delle truppe sovietiche sui territori compresi tra la Germania dell’Est e i confini dell’U.R.S.S.

In entrambi i casi i due imperialismi avevano fatto affidamento, oltre che sul denaro o sulle armi e se necessario su tutti e due gli elementi contemporaneamente, alla presenza negli stati interessati di partiti strettamente legati a Washington o a Mosca, oppure, come era successo in Italia, a un partito che pur rivendicando la fedeltà alla Moscovia avrebbe continuato a servire fedelmente gli interessi della patria e della Chiesa, teorizzando attraverso il suo leader Togliatti una sorta di via italiana al socialismo che tutto ammetteva tranne l’uso del sovvertimento rivoluzionario delle strutture di classe.

L’esperienza dei GAAP si trovò così affiancata ad altre esperienze maturate nell’ambiente anti-stalinista, bordighista e trotzchista che cercavano di riesumare l’internazionalismo proletario in nome di una rivoluzione mondiale destinata a rovesciare il modo di produzione dominante, sia all’Ovest che all’Est, basato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, sul salario, sui profitti e sul consumo di merci. Che poi questo fosse giustificato attraverso la ‘ricostruzione’ in Italia oppure la costruzione del socialismo negli stati dell’Est poco cambiava nella sostanza.

Per comprendere appieno l’importanza dell’opera di ricostruzione storica della vicenda di un’organizzazione sviluppatasi grazie alla forte e determinata personalità di Pier Carlo Masini e di altri militanti, tra i quali un giovane Arrigo Cervetto, occorre ascoltare ciò che ha avuto modo di affermare lo stesso curatore:

questo secondo volume mi è costato molta fatica e sacrifici anche perché la storia che racconto in gran parte è totalmente inedita e riguarda la sinistra, soprattutto quella rivoluzionaria, in un periodo storico difficilissimo. Il messaggio che vorrei che passasse anche con aspetti critici è quello del recupero di quella parte della memoria e cultura politica, radicale, antistatalista, antiburocratica, antistalinista, diffidente verso ogni potere costituito che la sinistra “ufficiale” per tanti anni ha disprezzato ed emarginato. Oggi di questa cultura politica “antagonista” seria se ne sente molto la mancanza, in questi ultimi trent’anni con l’acqua sporca la “sinistra” ha buttato anche il “bambino” cioè l’utopia e l’ideale di una società egualitaria e libertaria!!
Inoltre, questa ricerca è stata portata avanti dalla nostra biblioteca in totale autonomia dall’accademia, anzi possiamo dire con una punta di orgoglio che siamo fieri della nostra ricerca – nonostante errori, refusi e qualche dimenticanza – proprio perché indipendente dalle logiche del “profitto culturale e carrieristico” di cui purtroppo oggi è piena una parte della nuova “gioventù” di storici che hanno un solo obiettivo quello di affermarsi nella gerarchia baronale delle università e nessuna “passione politica”.

Questa passione politica portò i militanti di allora ad essere tra i primi a comprendere l’evoluzione anti-imperialista delle lotte di liberazione dei paesi definiti all’epoca del “Terzo Mondo”. Territori in cui la cacciata dei vecchi imperialismi europei dai continenti extra-europei seguita alla Seconda Guerra Mondiale, più che aprire immediatamente le porte al dominio dei nuovi signori del pianeta, russi o americani che fossero, aveva spalancato orizzonti di indipendenza e libertà anche per le classi meno abbienti (contadini, proletari e sottoproletari) che si erano letteralmente lanciate a capofitto in un processo rivoluzionario assolutamente inaspettato.

La rivoluzione algerina, successiva alla sconfitta indocinese delle armate e del colonialismo francesi, che prese l’avvio negli anni di esistenza dei GAAP fu uno dei primi momenti di confronto/scontro tra le posizioni degli anarchici, degli anarco-comunisti e dei comunisti e quelle dei partiti che pur dichiarandosi di sinistra la osteggiavano, soprattutto in Francia, in nome degli interessi della Nazione. Così i rigurgiti di razzismo e di sovranismo dei nostri giorni dovrebbero essere rivisti e studiati anche alla luce delle esperienze e della formulazioni politiche dell’epoca, non sempre collocabili a “destra”.
Ma accanto alle nuove insorgenze proletarie e contadine provenienti dal Sud del mondo, andavano prendendo forma nuove problematiche inerenti alla crisi di un marxismo ridotto a mero feticcio e alla scoperta tardiva, e tutto fuorché disinteressata, dei “crimini di Stalin” nella stessa patria del socialismo reale, avvenuta nel corso del XX Congresso del PCUS nel febbraio del 1956 ad opera dell’allora segretario del partito Nikita Chruščëv.

A proposito della prima, il Comitato nazionale dei Gruppi anarchici di azione proletaria, in un commento all’Indirizzo stilato nell’ottobre del 1953 dai membri del Partito comunista internazionalista dopo un incontro tenutosi a Genova-Sestri, aveva sostenuto che:

Oggi il «marxismo» come corpo di dottrina che è storicamente inscindibile da tutte le sue incrostazioni, da tutti i suoi sottoprodotti, da tutte le sue stesse contraffazioni, ha dato luogo ad una estenuante produzione di interpretazioni e di dispute dottrinarie, che in alcuni casi hanno rappresentato un contributo positivo alla formazione del pensiero rivoluzionario, ma molte altre volte hanno rappresentato una causa di sterilità, di dispersione, qualche volta di pieno e provato tradimento. Il «marxismo» nella sua più larga ed ormai irrestringibile accezione, si perde in illazioni di ordine politico, che i gruppi superstiti del proletariato rivoluzionario non possono accettare singolarmente prese e respingono nel loro stesso contraddittorio sviluppo, come un fenomeno di crisi.

Le sette sembravano infatti trionfare in assenza di una ripresa della lotta e di un’autonomia di classe in grado di determinare da sé quali fossero le proposizioni e le modalità di conduzione della lotta in grado di far fronte ad un capitalismo proteiforme e allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Il problema rimaneva sempre quello del che fare e di come indirizzare ed orientare le lotte future.

In un contesto in cui, poi, la denuncia dei “crimini di Stalin” e del culto della personalità era servita soprattutto a diffondere l’idea di una coesistenza pacifica tra sistemi diversi (socialismo e capitalismo) e che le forze del socialismo potessero affermarsi senza rivoluzioni, senza guerre civili, mediante processi parlamentari. Idee che se da un lato aggiornavano a livello internazionale le proposte già suggerite da Togliatti per il PCI e l’Italia, dall’altro non impedirono agli operai e ai giovani studenti e proletari ungheresi di impugnare le armi per dar vita nel 1956 a una repubblica dei consigli operai e a una rivolta di Budapest di breve durata, ma estremamente significativa e rivelatoria della vera essenza del socialismo che si prospettava all’Est.

Una rivolta per l’indipendenza dall’imperialismo sovietico, in seguito repressa nel sangue dal ‘pacifista’ Chruščëv e dalle truppe corazzate dell’U.R.S.S. destalinizzata, che riportava nel cuore dell’Europa i temi dell’anti-imperialismo solitamente usati per i paesi in via di decolonizzazione. Mentre gli USA, la Nato e le democrazie europee, fedeli ai trattati di spartizione del globo, stavano a guardare senza colpo ferire, come già avevano fatto con la rivolta di Berlino Est, e mentre Togliatti e il PCI condannavano come fascisti e sabotatori gli insorti. Come avrebbero poi fatto ancora in seguito i rappresentanti del “più grande partito comunista d’Occidente” negli anni Sessanta e Settanta nei confronti di qualsiasi insorgenza di classe e di qualunque manifestazione di autonomia dell’antagonismo sociale.

In tale magmatico contesto l’esperienza dei GAAP si concluse, senza riuscire a dar vita a quell’organizzazione politica così ambita dai suoi militanti e promotori. Anzi dall’iniziale prospettato incontro tra forze anarchiche e comuniste eretiche sarebbe poi emersa una formazione destinata trasformarsi da lì a poco in una delle più rigide formazioni basate sull’ortodossia leninista del partito. Ma tutto ciò, a distanza di più di sessant’anni, non ha più alcun valore se messo a confronto con l’immensa mole di scritti, pubblicazioni e riflessioni che l’opera, curata con impegno, passione e perseveranza da Franco Bertolucci e dalle compagne e dai compagni della Biblioteca F.Serantini, mette oggi a disposizione non solo degli studiosi, ma anche di coloro che ancora vogliano comprendere gli errori e le conclusioni, sempre e solo di valenza momentanea, di un percorso rivoluzionario che per vie pubbliche o clandestine, in situazioni di massa o di piccoli gruppi ristretti non ha mai cessato di esistere. E che non cesserà mai di esistere fino a quando esisterà lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente e la specie intera in nome del profitto e della barbarie capitalistica.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 80 https://www.carmillaonline.com/2018/04/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-80/ Sun, 15 Apr 2018 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45048 di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000 “Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film [...]]]> di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000
“Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film che sembra rinunciare programmaticamente alla dignità? Allora procedo con una fredda elencazione dei fatti: si parte con la giovane Michelle Hunzinker (sic, nei titoli di testa) che inorridita raccoglie un coltello insanguinato. È stata testimone di un assassinio e fugge col coltello tra le mani, il Nobel. Un giornalista televisivo in preda ad anacoluti (immagino per adesione realistica) consegna all’opinione pubblica la certezza che lei sia colpevole (di nuovo per amor di verità, se uno ricorda il Bruno Vespa vintage e tanti colleghi che sono seguiti). Lei fugge in macchina, i cattivi la incrociano su una strada di campagna e la cacciano giù da un dirupo. Esplosione e miracolo del buon pastore coi pecuri che la raccoglie. Poi conosciamo il personaggio di Alberto Tomba, Alex, agente del CIS: Albertone è attorialmente cane con pedigree stratosferico e mettiamoci anche anni di prese per il culo della Gialappa’s Band e di dichiarazioni insensate ai cronisti sportivi ed è fatta: la credibilità è nulla e la sensazione è di vedere uno Z Movie, tanto più che la regia alterna mestiere a vaccate imbarazzanti, zoomate missilistiche e altri attori senza senso (Ramona Badescu, porella).
E poi i dialoghi, con il sedicente infelice attore costretto a recitare (…) alla fidanzata versi seduttivi come “Giuro che stasera sono lì a stropicciarti le piume”. Ci mettiamo mezz’ora per arrivare al cuore della vicenda: Alex deve accompagnare la Hunziker, sospettata, a incontrare il giudice, ma lo mandano da solo. Uhm, sospetto! Fughe, scontri degni di una lite tra alunni ripetenti di terza elementare e il rapporto tra carabiniere e protetta che cresce con una profondità emotiva degna di un episodio di Peppa Pig. La coppia regala alla grande e devo dire che ho cominciato a tenere per loro, perché i delinquenti ai quali sfuggire non sono i tizi perversi che vogliono far secca lei, no, lo sono i produttori di questa incommensurabile vaccata. Che posso pure immaginare l’imbarazzo quando avranno visto per la prima volta il risultato della dissennata operazione: doveva essere una fiction Mediaset, poi s’è deciso per un’uscita estiva, nascosta, sinché il passaggio televisivo ha sancito la natura stracult della porcata in questione. Si arriva stancamente fino al finale e io metto da parte dialoghi stralunati come: “Mi hai fatto puntare la pistola contro una suora!” (e cosa volevi? Toccarti i coglioni?); oppure: “Mi devi rintracciare una targa: ti faccio lo spelling” (lo spelling?). Tomba è un patatone con l’espressività propria di chi aspetta un’autopsia e la Hunziker al confronto sembra Meryl Streep e l’apice si raggiunge quando i due, ammanettati, devono procedere a una pisciata boschiva. Uno pensa possa bastare la trafila di castronerie sinché non irrompe nella trama anche il vero cattivo, Orso Maria Guerrini, il baffo della Birra Moretti!, con una voce bassissima da vero attore di teatro, ma capitato in una recita dell’asilo. Insomma: fa tutto schifo e tenerezza e ho assistito a incontri di rubamazzo con più azione. Il finale è una specie di parodia di Ufficiale e gentiluomo e la parole FINE è l’unico momento riuscito di un film firmato da quel Damiano Damiani già glorioso regista di cinema impegnato. Che poi uno dice l’impegno… ma lo vedi i danni che fa? (Dvd; 6/6/12)

936 – Rocky III di Sylvester Stallone, USA 1982
L’idea era goderselo oscenamente con l’avanzamento veloce, scegliendo le scene migliori e tagliando la fuffa, ma non c’è stato niente da fare: i film di Rocky sono ineludibili, costruiti con una sapienza spettacolare infallibile, con tutti i meccanismi del Mito che girano a mille. E mi sono arreso praticamente subito: Rocky è uomo della strada, ignorante, rozzo, ma con un sogno, un pizzico di talento, forza di volontà e una squadra di amici e familiari che lotta per lo stesso obiettivo. Il problema è quando si è raggiunto il top della carriera: soldi, successo e lusinghe ottenebrano il già non lucidissimo fronte occipitale del pugile che guadagna sempre più, si allena di meno e diventa un po’ borghese, perdendo l’occhio della tigre. La noia, insomma, esistenziale e pure a livello di coppia, anche perché Adriana è appetitosa come un passato di verdure. Mettiamoci che l’entourage è completato da quel buzzurro di suo fratello Paulie, pseudo manager, e dall’allenatore Mickey, con l’apparecchio acustico e pronto per la fossa. Un incontro di wrestling con Hulk Hogan (!) rischia di finire male e il Balboa e i suoi si guardano negli occhi: hanno tutti la panza piena e lui è stufo di pigliare legnate come un somaro. Ma al momento dell’annuncio del ritiro davanti a una statua celebrativa si fa avanti Clubber Lang (Mr.T, quello dell’A-Team), lingua lunga, cresta e bicipite potente. Sfida Rocky e lo intorta insultandogli la moglie, tranello in cui lui casca come un tontolone. Come da manuale di sceneggiatura (di film un po’ di merda, in effetti) si riparte, solo che Rocky si allena davanti alla stampa con l’orchestra che suona e annesse manifestazioni circensi mentre l’altro, il negro cattivo che parla a mitraglietta, suda sette camicie al riparo dai flash. E quando si arriva all’incontro Clubber tira uno spintone al vecchio Mickey: Rocky non vuole combattere perché ne è turbato, stellassa, e il suo avversario ha messo nell’equazione – di nuovo, come con Adriana – qualcosa di estraneo allo sport. E non solo: prima del match Mr.T trova il modo di insultare anche l’elegante Apollo Creed, nero ripulito e commentatore tivù, cioè per lo spettatore medio negro accettabile. E a metà secondo round Rocky è già knock out, mentre il vecchiaccio sta morendo, cosa che farà puntualmente credendo che il suo protetto abbia vinto. Bene, siamo al punto di non ritorno: Balboa, sconfitto, si deve confrontare col suo monumento, metaforicamente e realmente, risultando in effetti meno espressivo del bronzeo gemello, eretto in cima a quella famosa scalinata. E come si fa? Apollo Creed vuole riportarlo sul ring, stavolta ci si allena the old way, in cantine puzzolenti, correndo sulla spiaggia, danzando sul cemento, al suono supercafone dei Survivor. Poi c’è il momento di crisi ed è Adriana che dà la svegliata e allora riparte il tema di Rocky, evvai di allenamenti, corse, sudore, danze, con Apollo che passa un po’ di negritudine e senso del ritmo a questa specie di blocco di travertino che esibisce una canotta veramente gayissima. Aggiungo che Apollo gli regala i suoi mutandoni: del resto, tra particolari dei muscoli guizzanti, abbracci intensi e praticamente nessun accenno etero, qui la bromance si trasforma in un amore omo che verrà spezzato solo da Ivan Drago, eh. Si arriva al match e Rocky adotta la strategia di Muhammad Ali in Zaire e fa stancare Clubber Lang che lo pesta come un mastro ferraio ed è provocato da parole grosse come “Mia madre me le dava più forte!”.
È una tattica curiosa, un po’ come pigliare a testate un muro e chiedergli: “Sei stanco, adesso?”. E quello lì a un certo punto è stanco sì e a Rocky torna l’eye of the tiger e lo tarella di brutto e vince. Yo, Adrian! I did it! E poi, a concludere la vera storia d’amore del film – a questo punto rivoluzionario perlomeno dal punto di vista sessuale – Rocky e Apollo sono a darsele di santa ragione in cantina, quindi di nascosto perché non è ancora epoca di coming out, ma sudati, felici e vivi. E io cosa posso dire? Che mi aspettavo anche peggio, perché la regia è ottusa ma essenziale, asinina con i primi piani insistiti ma anche movimentata quando la tensione lo esige, e in generale montaggio e recitazione sono inappuntabili. Okay, e Stallone? Ma Stallone non deve recitare bene, perché Rocky è così, un babbo di minchia, bloccato neuronalmente: gli devi leggere negli occhi la decrittazione del pensiero, devi abbassarlo al nostro livello di spettatore del Midwest, se no non funziona! E detto questo, c’è ritmo, drammaturgia e qualche (forse inconscio) spunto per una lettura erotica interessante. E poi, cosa posso dire? Io ormai voglio bene a tutti i film: brutti, belli, scarrafoni… il mio cuore ha più stanze di un bordello (cit.). Sarà l’età, il rincoglionimento, la malinconia, la depressione – che ne so! – ma di fronte a un film (un filmaccio) degli anni Ottanta, ritrovo quell’atmosfera, quel tempo, quelle sensazioni. Sto scrivendo un romanzo ambientato nel 1986 e rimpiango quel mondo senza telefoni, internet e social: cerco quel sapore come un cefalo merdaiolo perché in fondo quello è il cinema con cui sono cresciuto, che mi ha formato, informato, deformato e in cui mi ritrovo. Ora forse questo è il film sbagliato da prendere a esempio, perché è di una semplicità imbarazzante, ma oggi ricerco la linearità narrativa quasi elementare di certo cinema del passato e non sopporto più la ricchezza odierna, dove forma, effetti e innovazione nascondono il narrato, quasi lo soffocano. Certo, la mancanza di tempo e quella faccenda di una volpe con l’uva devono avere il loro peso, ma è così e non so che farci. (Dvd; 3/6/12)

938 – L’eccezionale Fawlty Towers di John Howard Davies, Gran Bretagna 1975
Ne avevo un pallido ricordo di quando ero a Londra, nel 1988, e avevo assistito con religiosa devozione a un’ennesima replica sulla BBC. John Cleese, lo spilungone dei Monty Python, è Basil Fawlty, un ambizioso quanto megalomane – e instabile mentalmente – direttore d’albergo: deve gestire le 22 stanze della umile pensioncina di grandi pretese Fawlty Towers, sulle costi inglesi, in un posto freddo, umido e dove non passa mai un cane. Lo affianca la stolida moglie Sybil, il cameriere pasticcione Manuel (uno spagnolo che non parla inglese) e Polly, una giovane cameriera sveglia. In 6 episodi da mezz’ora Cleese e compagnia disintegrano con ferocia inarrestabile e in un’isteria sublime tutte le vecchie buone maniere inglesi: un Little Britain anni Settanta acre e assolutamente irresistibile. La serie purtroppo brevissima si conclude con un finale grandioso, con la commozione cerebrale del personaggio principale e gaffe a ripetizione con degli ospiti tedeschi, a cui si ricordano tutte le malefatte della Seconda Guerra Mondiale, qualcosa che oggi – in epoca di correttezza politica – si farebbe fatica non solo a mettere in scena ma anche a concepire, con una censura preventiva su tutto quanto sia nazismo. La seconda serie (di Bob Spiers, 1979) l’abbiamo vista in tempi lunghissimi ed è meno riuscita, esasperata ma senza finezze, con vicende che nascono da equivoci verbali e si trascinano fino a che non va puntualmente tutto in vacca. Meno brillante, insomma, ma il tutto è una boccata d’aria fresca e di gas esilarante che si può recuperare grazie alla generosità della Rete. Approfittatene! (Giugno e luglio 2012)

940 – Mani sulle palle per The Day After di Nicholas Meyer, USA 1983
Questo l’ho visto al cinema Orfeo di Genova nel febbraio 1984, in via XX Settembre, sala che ormai da chissà quanto tempo ha chiuso… Era un film televisivo che aveva fatto parlare tutto il mondo ed era andato in onda dopo l’abbattimento di un aereo di linea sudcoreano da parte dei sovietici e, due mesi dopo, l’invasione USA di Grenada. Tutte cose che nell’equilibrio del terrore erano sollecitazioni per nulla tranquillizzanti; il mondo era diviso in due e anche se ti dicevi che non sarebbe mai successo nulla, ogni tanto ti si stringeva il culo solo a pensarci: e se uno si sbaglia e schiaccia il pulsante sbagliato? E se uno perde la testa? E soprattutto: oggi, quella marea di missili dove sono finiti? Io non ci credo mica che abbiano smantellato tutto, figurati, e non dormo all’idea che Putin abbia in mano questo arsenale. O che l’abbia avuto quello scemo di Bush. No, scusate: quegli scemi dei Bush. Vabbeh: per cui The Day After è un pezzo di storia che non sappiamo realmente se non possa tornare attuale. Il film è decisamente iettatorio, ossessivo, lugubre e rozzamente efficace. La fotografia bruttina, gli effetti così cosà (tremendi quelli con le persone che diventano radiografie!) e la musica orrendissima accompagnano una narrazione opportunamente frammentata in tante microstorie: i destini individuali di alcuni bifolchi di Lawrence, Kansas, che si trovano a vivere presso una base missilistica, ovvio obiettivo sensibile. Il fatto è che in DDR c’è casino, rivolte, scaramucce nei pressi del Muro e poi scontri tra truppe della NATO e del Patto di Varsavia. Finisce che a qualcuno – non è chiaro a chi per primo – scappi la mano e comincino a volare missili e al 55° minuto di proiezione Kansas City e dintorni conoscono gli effetti della tecnologia sovietica quando tre piccanti funghetti nucleari si alzano nel cielo. C’è la coppietta di contadinotti con figli che si fa una (ultima) trombatina incurante delle notizie che arrivano dal televisore, prima di essere tutti spazzati dal vento nucleare. C’è il soldato nero che vuole tornare dalla moglie ma strada facendo perde i pezzi e finisce in una fossa comune. E poi c’è il medico di buona famiglia (Jason Robards) che si danna invano per portare cure a tutti, fino a soccombere. Insomma: non c’è un cazzo di lieta fine e il giorno dopo è quello che viene a film concluso, con la terra rasa al suolo. Il film è angosciante ma decisamente antiretorico ed è girato in modo asciutto, con un percorso agonico senza speranza (e in realtà abbastanza ottimistico, secondo gli esperti). Però, al di là della confezione televisiva cheap, l’organizzazione del racconto non è male: la crescita del timore, il sentirsi totalmente succubi, senza difese, senza futuro, senza speranze, senza notizie. Nel tempo è diventato un film da considerarsi brutto, ma invece ha una sua forza di verità e dice cose sgradevoli a tutto campo (le esecuzioni degli sciacalli, l’egoismo e la violenza che esplodono di fronte alla tragedia). Reagan ne fu impressionato, anima sensibile. (Dvd; 3/6/12)

941 – Coraggio… fatti ammazzare di Clint Eastwood, USA 1983
Ravanando negli archivi della memoria e nei meandri della Rete mi ricapita tra le mani questo Callaghan reaganiano di cui avevo vaghi ricordi, se non per la famosa frase “Go ahead, make my day”, cioè “Va’ avanti, dà un senso alla mia giornata”. E decido di dargli retta, ritrovando un film rozzo come il suo protagonista ma efficace e divertente nella sua semplicistica bruttezza. Sì, perché la trama è perlomeno discutibile nella sua implausibilità e la messa in scena talvolta stupisce per sciatteria, però… Dunque, io con Clint ho un rapporto difficile: lo amo per i film di Leone, per Bird, per Madison County, per il magnifico e delirante Lo straniero senza nome e anche perché gli hanno cioncato una gamba ne La notte brava del Soldato Jonathan, ma di fronte a certe prese di posizione politiche che in qualche modo finiscono nei suoi film più sbirreschi, boh, vacillo. Diciamo che qui siamo – nell’arco parlamentare del suo operato cinematografico – molto a destra. Callaghan lo conosciamo già e qualunque cosa faccia, ci sono dei morti (come gli dirà un collega: “La gente quando ti frequenta ha il brutto vizio di morire”). Qui Harry ha 53 anni, è taciturno e parla solo per cavernose sentenze che più scritte non si può (in effetti tutte abbastanza memorabili), tiene le braccia pendule come il gorilla di Filo da torcere e con questa pellicola – di enorme successo – Clint incassò una barcata di dollaroni. Il film inizia, il protagonista va a prendersi il caffè e fa secchi tre rapinatori su quattro che hanno la sfiga di aver scelto quel diner lì da rapinare. Poi va a bluffare da un boss mafioso e lo fa schiattare d’infarto. I superiori gli dicono di darsi una calmata e lui decide di fare serata tranquilla sennonché i mafiosi provano a vendicarsi ma gli dice male e ne fa secchi altri tre. La sera dopo è un trio di stronzetti (tra cui uno mandato libero da una giudice troppo cavillosa) che prova ad arrostirlo con due molotov, ma lui gliene rende con estrema cortesia una e l’ameno trio finisce nella baia di San Francisco. Oh, ne fa secchi a mazzi di tre per volta: siamo al 43° minuto e ne ha già seppelliti dieci. Intanto una donna dalla memoria dolorosa (Sondra Locke, allora moglie di Clint e affascinante e disinvolta come un manichino) va vendicandosi della ghenga che dieci anni prima ha violentato lei e la sorella. Incrocia Callaghan nella cittadina (immaginaria) di San Paulo dove i superiori l’hanno mandato e da uno sguardo i due si intendono subito. Non sto a dirvi come va a finire perché c’è uno sviluppo ulteriormente violento e delirante che può dare qualche soddisfazione, specialmente con la scena finale che si conclude in groppa a un unicorno (…). Sappiate solo che Clint, con gli occhi spiritati e un virilissimo pistolone, perderà progressivamente la pazienza, specie dopo che gli hanno sgozzato l’amico nero e azzoppato il cane (scoreggione, giuro). (Dvd; 4/6/12)
P.s. del 2018: tre mesi dopo questa mia visione Eastwood si era surrealmente rivolto a una sedia vuota alla convention repubblicana, perculando Barack Obama e sostenendo Mitt Romney. Due anni fa ha ammesso una sorta di pentimento per il gesto, salvo poi informarci che lui, piuttosto che Hillary presidentessa, sosteneva Trump. Ecco.

943 – Il delirante Fantastica Moana di Riccardo Schicchi, Italia 1987
Moana Pozzi: l’angelo, la puttana, la santa, boh. E chi lo sa chi era, realmente? Specie dopo i misteri della morte e la beatificazione come perfetta icona cult. Io ricordo più l’imitazione di Sabina Guzzanti che le sue apparizioni tivù o le interpretazioni cinematografiche. Per cui, da vero studioso, mi procuro il film in pellicola che la lanciò, diretto dal visionario Riccardo Schicchi. Fantastica Moana è – a scanso di equivoci – una micidiale schifezza che fa quasi tenerezza per il tentativo, impossibilitato dalla mancanza di mezzi intellettuali e materiali, di costruire una fantasia erotica con uno sviluppo narrativo coerente. Anzi, se vogliamo, è un porno sbagliato, di cui si potrebbe sentenziare TROPPA TRAMA, perché la vicenda vede un ossessionato erotomane, Gabriel Pontello (già protagonista di fotoromanzi hard e idolo della generazione precedente la mia), che è ossessionato da Moana e s’ingroppa qualunque femmina gli si pari davanti – anche violentemente -, sognando di possedere la steatopigia pornodiva platinée. Il racconto è ambientato in un borgo che puzza di povertà, con esterni rurali squallidissimi e scene urbane che ci rimandano a un’Italia provinciale anni Ottanta imbarazzante. Lui ha una faccia da scemo rara ed è peloso come un orsetto. Lei è altera e bellissima e per qualche misteriosa trasmissione del pensiero viene turbata ed eccitata dalle fantasie del protagonista maschile. Le gesta del Pontello sono patrimonio comune di Moana, del suo agente e dei suoi compari: come per miracolo di sceneggiatura si conoscono tutti e condividono le info, arrivando alla mutua decisione che per liberare il borgo e la testa di Moana dall’incubo di questo satiro conviene farlo trombare con l’oggetto del suo desiderio.
Lei, voce off, ci spiega: “Esorcizzarlo consisteva nel coinvolgerlo in un’orgia a quattro e cioè distruggere ai suoi occhi la mia immagine”. Roba che neanche Deleuze e Guattari. Per cui Moana si concede generosamente all’indemoniato Pontello (assieme anche a Siffredi, che è il futuro tanto quanto Pontello era il passato) e si chiude in bellezza con champagne stappato. È finita? Ma no! C’è l’uscita magnificamente folle: Moana finalmente liberata guarda in camera, si contorce di nuova in preda a frenesia belluina e conclude: “E adesso… chi sarà di voi?”. Wow! Beh, che dire? L’alternanza tra realtà e sogno è dilettantesca ma il continuo montaggio parallelo è anche di un coraggio spropositato per un genere solitamente al risparmio. Detto questo le qualità tecniche del film sono imbarazzanti e quando ci sono momenti di recitazione Moana sonda gli abissi dell’infamità attoriale con un distacco quasi metafisico. E del resto anche quando zompa facendo e facendosi fare di tutto è straniante: non sembra mai partecipe, semmai dignitosamente indifferente, nivea, alta, bionda, aristocratica e sfuggente. Probabilmente questo atteggiamento che si riscontrava anche nelle uscite pubbliche ha contribuito a renderla l’icona che è diventata: silenziosa e misteriosa e presuntamente intelligentissima (ma per quali dichiarazioni non si sa), forse – come ha ipotizzato qualcuno – per accreditare i tantissimi amanti importanti (spettacolo, sport e politica… si diceva del cinghialone) dichiarati. Boh. (Youporn, 15/6/12)

945 – Lorax – Il guardiano della foresta di Chris Renaud, USA 2012
Lorax sembra il nome di un gastroprotettivo da banco. E invece è un discreto film, che da una storiellina piccina picciò del Dr. Seuss costruisce una vicenda più articolata. Chi si lamenta che il film è per bambini: 1) non ha sicuramente letto l’originale di Seuss (e gli basterebbero 5 minuti), 2) ha visto il film in preda a turbinio digestivo. Però qualche criticonzo ha detto questa stupidaggine per primo e da lì tutti hanno scopiazzato l’affermazione. Sbagliata. Comunque: si schianta dal caldo e al cinema si sta al fresco, per cui ci andiamo con le due bimbette. Loro si divertono molto e io le seguo, Barbara invece borbotta un po’ annoiata. Film dal messaggio ambientalista e anche anticapitalista, in un film hollywoodiano che farà milionate di dollaroni col merchandising. È contraddittorio? Sì, e alcuni hanno aspramente criticato il tradimento del messaggio del Dr. Seuss ma grande è la confusione sotto il cielo e questo è sempre bene. In termini spettacolari il film fila come un razzo. Straordinario il lavoro scenografico e la cura dei particolari: ormai non stupisce l’accuratezza della realizzazione quanto la scelta dei materiali, come in un film vero e proprio, girato live action o come cazzo si dice, ma ci siamo capiti. Qui il vetro o il metallo o la pietra hanno una resa più vera del vero che fa impressione. Ammirevole è l’invenzione di un mondo rotondo spassoso, allietato da canzoni molto divertenti, dove il cattivo è un tappetto iroso e avido (cosa che a noi italioti ricorda sicuramente qualcuno). Proiezione perfetta e luci solo tenui accese sui titoli. Esperienza da ripetere il cinema: ogni volta che ci torno lo penso. E poi non lo faccio, ach! (Cinema Ducale, Milano; 23/6/12)

946 – Mondo Cane oggi, l’orrore continua commesso da Max Steel, Italia 1986
L’orrore è quello che prova lo spettatore, non equivochiamo. Trattasi di repellente documentario erede dei Mondo Movie di Jacopetti, Cavara e Prosperi e che mette in fila, col solito commento stolido e suadente, nell’ordine: un aborigeno nudo che dorme sul ciglio della strada, un duello tra cani, un campeggio nudista tedesco (mmh) e – sdoganate le tette – vai!: donne in palestra, lotta di donne nude, modelle di nudo, danzatrice nera delle Figi seminuda che sa muovere indipendentemente le tette (oooh!), pescatrici di alghe giapponesi a seno nudo, donne nude che si fanno spugnare con le alghe. Poi, dopo l’erezione inversa provocata, passiamo a New York (cioè, la civiltà, si direbbe, ma…) e ci scoppiamo una bella apertura di cadavere ripieno di droga, allenamento di judoka, indiani che lavano i panni, tuffi in un tempio indiano, gauchos argentini, agopuntura ustionante, tatuaggi giapponesi, pitoni cinesi scuoiati, gastronomia estrema con serpentelli decapitati, corrida spagnola, lapponi che bevono sangue di renna e cibi afrodisiaci con tartarughe mangiate fresche. Il passaggio deve aver solleticato il montatore che subito propone dei massaggi occidentali con una bella patata pelosa in primissimo piano, bassorilievi erotici a Khajuraho e una lesbicata veloce veloce, per par condicio. Si passa poi a usi e costumi del mondo: svastiche indiane, cadaveri bruciati sulle rive del Gange, pipistrelli giganteschi, pesca nel fango, sushi servito su una donna nuda, ciccione americane alle Hawaii, vacche sacre che cagano letame poscia impastato a mano, allevamento di bovini in USA e macellazione, vita tra i morti di fame in India, tonsura dei monaci buddhisti, bambini storpiati per chiedere l’elemosina, culturisti indiani, igiene giapponese, massaggi sensuali, amputazione yakuza di un dito (la scena si direbbe vera, ma chissà), elettroshock, operazione a pene aperto, travestitismo orientale very exciting, evirazione a Casablanca (nel momento supremo del taglio, commento illuminante: “Il re è morto!”), crescita del seno con tubi aspiranti, cadaveri e rimozione di una calotta cranica e infine visita sul set di un film porno atroce con attori urfidi. L’orrore continua, indubbiamente: alla fine cosa ho visto? Una carrellata antologica di cose “strane”, impressionanti e pruriginose, senza un vero filo conduttore. Stelvio Massi è il responsabile di cotanta ignominia, subìta a tratti – confesso – con l’avanzamento veloce che, va bene l’aggiornamento professionale del Cacace, ma a tutto c’è un limite. (24/6/12)

947 – Cazzi vostri: Open Water di Chris Kentis, USA 2003
Attenzione agli spoiler, eh. Dunque: film di grande successo in diversi festival per appassionati di cinema horror e/o serie B, Open Water parte da una bella idea ma soffre per la malaccorta realizzazione: è infatti girato con una telecamera digitale peggiore della mia che risale al 2002. Non c’è alcun controllo della fotografia, con errori da operatore alle prime armi (ambiente luminoso e volti neri, per esempio). E inoltre il riversamento per l’emissione tivù (come accadeva anche a Italiano per principianti in Dvd) non passa evidentemente attraverso lavorazioni su pellicola e il risultato è poverissimo, proprio da filmino delle vacanze. In questo caso vacanze che finiscono in vacca ma a livelli epici. Dunque: esiste gente che si diverte a fare escursioni subacquee per guardarsi il fondo marino. Oh: hanno ben inventato i Dvd documentari PROPRIO per farci vedere comodamente da casa cosa cazzo ci sia la sotto, eh. Lo dico perché una volta ho fatto snorkeling sul mar Rosso e da allora mai più: m’è venuto un infarto perché un sacchetto bianco fluttuante mi ha fatto credere di essere vittima dell’attacco di una manta assassina. Vabbeh. Ad ogni modo la coppia dei protagonisti fa parte invece di questi invasati con bombole, mute, pinne etc., solo che il destino è beffardo e siccome queste cose sono organizzate da tipi che passano il loro tempo a sbevazzare e a dire “easy man” agli stolidi turisti, finisce che i due vengono dimenticati in mare aperto, ai Caraibi, ma mica a venti metri dalla riva come a me. E in mezzo al mare fa freddo e capita di incrociare bestiole come squali, barracuda e meduse. E poi viene la notte e hai una sete micidiale e la fatica ti ammazza. Da un punto di vista narrativo l’inghippo è ben gestito: l’attesa dei soccorsi e l’angoscia crescono bene fino a un prefinale buttato via (una lite insulsa – in quella situazione, poi –, la notte che passa in un baleno, l’attacco degli squali velocissimo) e un finale gestito veramente col culo, in campo lunghissimo, mentre dovrebbero arrivare i soccorsi. Un anticlimax frustrante, dove tenti di capire cosa stia succedendo al posto di goderti sadicamente l’epilogo GIUSTO della vicenda. Ispirato a una storia vera, film decisamente inferiore alle ambizioni e premiato perché queste operine grammaticalmente atroci fanno tenerezza al pubblico dei festival, che intravede una possibilità per piazzare un giorno i propri filmini matrimoniali. Non m’ha fatto impazzire, s’intuisce, no? (Coming Soon Television; 26/6/12)

(Fine – 80)

Utilizzate a dovere il vostro Bonus Cultura! È ancora in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la prefazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band).
Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook.
Oppure binge reading qui, su Carmilla.

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Memento https://www.carmillaonline.com/2016/01/11/memento/ Mon, 11 Jan 2016 04:12:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27849 di Alessandra Daniele

bomba 1Da sempre, in guerra il corpo delle donne è considerato sia territorio di conquista che strumento di propaganda. Anche in questo l’attuale Scontro di Civiltà rimette in scena ancora una volta gli stessi schemi millenari. Ed è una grande occasione per gli imbonitori della Civiltà Occidentale quando il Nemico recita il suo ruolo in modo tanto diligente, quando sa corrispondere così accuratamente ai peggiori stereotipi. Alcuni degli aggressori di Colonia avevano addirittura in tasca un copione. A tutti in questa guerra è richiesto d’interpretare disciplinatamente il loro [...]]]> di Alessandra Daniele

bomba 1Da sempre, in guerra il corpo delle donne è considerato sia territorio di conquista che strumento di propaganda. Anche in questo l’attuale Scontro di Civiltà rimette in scena ancora una volta gli stessi schemi millenari.
Ed è una grande occasione per gli imbonitori della Civiltà Occidentale quando il Nemico recita il suo ruolo in modo tanto diligente, quando sa corrispondere così accuratamente ai peggiori stereotipi. Alcuni degli aggressori di Colonia avevano addirittura in tasca un copione.
A tutti in questa guerra è richiesto d’interpretare disciplinatamente il loro ruolo, e d’interpretarlo come se fosse la prima volta.
Ci vengono richieste obbedienza, e ignoranza.
“Chi dimentica i propri errori è condannato a ripeterli”, ed è esattamente sulla continua ripetizione in loop degli errori che è costruito il sistema.
È una macchina il cui motore è una ruota. Il criceto che c’è dentro siamo noi.
Perché la ruota continui a girare, e ogni loop si ripeta come il precedente, occorre cancellarne la memoria.
Carmilla nasce come supplemento a una rivista chiamata “Progetto Memoria”.

La cosiddetta Civiltà Occidentale s’è resa responsabile o corresponsabile della maggioranza dei peggiori crimini contro l’umanità della Storia.
Considerando solo l’ultimo secolo:
Il Colonialismo, con l’oppressione, la schiavizzazione, la deportazione, e il massacro delle popolazioni locali.
La Prima Guerra Mondiale.
Il Nazifascismo, con le persecuzioni, le deportazioni, e i campi di sterminio per ebrei, rom, comunisti, anarchici, omosessuali, disabili, testimoni di Geova, dissidenti e appartenenti a minoranze etniche e religiose in generale.
La Seconda Guerra Mondiale.
La distruzione totale con armi nucleari di due città, Hiroshima e Nagasaki.
Le centinaia di proxy war fomentate e combattute in tutto il mondo fra la Nato e il Patto di Varsavia del cosiddetto Blocco Orientale, dalla Corea all’Afghanistan.
Le dittature militari europee e latino americane sostenute dagli USA, responsabili di milioni di morti e desaparecidos.
Il sostegno diretto e indiretto alle non meno sanguinose dittature e alle guerre civili in Africa e Asia.
Il sostegno diretto e indiretto alle guerre civili successive al crollo del Patto di Varsavia, dalla Jugoslavia all’Ucraina.
Il sistematico saccheggio di tutte le risorse naturali e la devastazione dell’ambiente, con le conseguenti carestie causa principale dello sterminio per fame di intere popolazioni.
Il Neocolonialismo in Africa e Asia, direttamente responsabile della nascita dell’integralismo islamico armato, dai Talebani all’Isis, dell’agonia delle popolazioni palestinese e curda, della distruzione di almeno quattro stati, Afghanistan, Iraq, Libia, e Siria.
E dell’attuale guerra, per la quale anche la Russia, ex cosiddetto Blocco Orientale, responsabile o corresponsabile di crimini contro l’umanità come l’Imperialismo russo e sovietico, i progrom, lo Stalinismo, il sostegno a dittature e guerre civili, il massacro dei dissidenti, e le proxy war, s’è arruolata nell’Occidente.

Quell’Occidente che oggi fa la morale al mondo, stando immerso fino ai gomiti nel sangue che ha versato.
Memento.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 71 https://www.carmillaonline.com/2015/05/14/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-71/ Thu, 14 May 2015 21:00:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22211 di Dziga Cacace

So join the struggle while you may, the revolution is just a t-shirt away

ddv7101788 – Grandissimo Sandokan del compagno Sergio Sollima, Italia/Francia/Gran Bretagna/ Repubblica Federale Tedesca, 1976 Presa per mano Sofia coi suoi cinque anni, a Sandokan ci arriviamo passin passetto. Innanzi tutto vediamo la prima puntata di Gian Burrasca, del 1964, per la regia della Wertmuller, con protagonista la diciottenne Rita Pavone che dovrebbe essere Giannino Stoppani di anni dieci. Vabbeh. Ma il vero problema è che lo sceneggiato è letteralmente insopportabile, un cacamento di cazzo teatrale, lentissimo, zeppo di dialoghi verbosi e ripetitivi, con [...]]]> di Dziga Cacace

So join the struggle while you may, the revolution is just a t-shirt away

ddv7101788 – Grandissimo Sandokan del compagno Sergio Sollima, Italia/Francia/Gran Bretagna/ Repubblica Federale Tedesca, 1976
Presa per mano Sofia coi suoi cinque anni, a Sandokan ci arriviamo passin passetto. Innanzi tutto vediamo la prima puntata di Gian Burrasca, del 1964, per la regia della Wertmuller, con protagonista la diciottenne Rita Pavone che dovrebbe essere Giannino Stoppani di anni dieci. Vabbeh. Ma il vero problema è che lo sceneggiato è letteralmente insopportabile, un cacamento di cazzo teatrale, lentissimo, zeppo di dialoghi verbosi e ripetitivi, con messe a fuoco precarie e montaggio inesistente: teatro filmato, ma di quello peggiore (se mai ne esiste uno buono, eh?). E poi la Pavone – quella che ritiene di essere stata citata dai Pink Floyd – canta (continuamente) con le “O” e le “E” chiuse come se venisse dal basso Piemonte. A fine puntata ci guardiamo negli occhi, Sofia ed io, e decidiamo che no, vaffanculo, no. E allora lei mi chiede, con falsa noncuranza, com’è la storia invece di “quel Sandokan là”, se si tratta di quello famoso che “sale e scende la marea, Sandokan ha la diarrea…” e che poi “Marianna, con piacere, gli pulisce il…”. La fermo e mi chiedo come sappia già queste cose: evidentemente il mito ha travalicato le generazioni. O avrò canticchiato io l’azzeccatissima sigla dei fratelli De Angelis, cioè gli Oliver Onions (con clavinet bassissimo e sitar che sferraglia). Fatto sta che le propino il primo episodio e le piace (e non è il migliore). Siccome è figlia mia le viene subito la scimmia e puntata dopo puntata conosciamo uno dopo l’altro il cattivissimo Brooke (dalla piacevole ambiguità), l’astuto Yanez, il ciccione Sambigliong, i compari Giro Batol e Ragno di mare, la virginale e curiosa Marianna, l’elegante colonnello Fitzgerald (con pantaloni così attillati che gli si vede il pitone, manco fosse Mick Jagger) e ovviamente, lui, la Tigre, Sandokan. Che viene subito tradito da un infame e, ferito gravemente, casca in mare. Recuperato a riva ridotto come uno straccio finisce nella casa del ricco commerciante Lord Guillonk, dove passa per essere un nobile locale d’alto rango cui si devono ospitalità e cure. Se ne occupa la giovane Marianna che è turbata dal bel manzo, riconosciuto dalla servitù che non lo tradisce.
Festa dei 18 anni di Marianna e caccia alla tigre, alé. Tremal Naik ne fa secca una, ma quando ne arriva un’altra ancora si fa sotto il recuperato Sandokan. Tremal Naik ammette sportivamente: “Conosco solo due persone che affrontano una tigre corpo a corpo. Una sono io, l’altra è la Tigre della Malesia!”. Baci e abbracci e Sandokan, in volo, apre una bella cerniera addominale al felino. Ma caccia un verso che Tarzan al confronto è un principiante e Sir William Fitzgerald, non di gran cervello ma di udito fine, esclama: “Ti ho riconosciuto dall’urlo!”, manco girasse con Shazam sul cellulare. La Tigre – il magnetico Kabir Bedi – riesce a scappare, imbarcando seco Marianna e siccome i 18 anni sono giusto dell’altro ieri, le rifà la festa, ma sotto coperta. È amore grande, al punto che incappati in mare aperto in Brooke – la sfiga! – Sandokan, per salvare la sua bella, che bella in effetti è (Carole André), pronuncia la fatidica frase: “La Tigre si arrende!”.
ddv1001bPerò nell’anello ha una polverina bianca – avantissimo! – che dà la morte apparente e dopo tre ore, non un minuto prima né uno dopo, chi se l’è pippata si risveglia. Per cui la Perla pretende da Brooke (il maestoso Adolfo Celi) il funerale vichingo esattamente tre ore dopo, non un minuto prima né uno dopo, e quando il malese cala in acqua in un sudario, riesce a liberarsi e a scappare un’altra volta. Torna a Labuan, rapisce Marianna, Yanez (il beffardo Philippe Leroy) li sposa su un praho e i due vanno a vivere felici e contenti a Mompracem. Qui avviene la definitiva maturazione politica della sposa che, a fianco del suo Che (da notare come la fascia intorno ai capelli della Tigre assuma sempre le sembianze di un basco a incorniciare il capello zozzo e lo sguardo fiammeggiante), comprende e appoggia la lotta contro l’imperialismo britannico, prodigandosi a insegnare agli abitanti di Mompracem a leggere e scrivere perché l’emancipazione passa attraverso la consapevolezza, cribbio. Ma il Capitale gioca sporco e l’isolotto subisce una vigliacca epidemia di colera, l’agente arancione de noartri, e poi l’invasione a base di esercito, dayachi tagliatori di teste e navy seals – giuro – che fan gran strage di donne, vecchi e bambini. Sandokan, Yanez e fedelissimi scappano e Marianna ci rimane secca. Lacrimuccia di Sofia. Infine i superstiti prendono il mare, sconfitti e disperati. Ma il popolo ha capito e gli va incontro da tutto il Sud est asiatico sollevato. S’alza la bandiera rossa e Sandokan promette: “La Tigre è ancora viva!”. GRANDISSIMO e Sofia in estasi. Sceneggiato agile, comprensibile da tutti, con sottotesto politico puntuale ed evidente (a guerra del Vietnam appena conclusa: peccato non fosse già portavoce Capezzone, perché si sarebbe scagliato anche contro Sollima) e con buona alternanza di azione e riflessione, aiutato da efficaci ellissi narrative e sostenuto da recitazioni congrue, con un po’ di humour (Yanez) e tanta epica (Sandokan). Mettiamoci poi una musica in cui senti la vanga ma che tutto incornicia perfettamente e alla fine ottieni un capolavoro. Popolare, ma capolavoro. Giuro. (Dvd; agosto 2010)

ddv7102Rock al bacio
Siamo tutti cresciuti coi dischi dei nostri genitori e io sono stato fortunato. Pochi vinili, ma buoni, dall’aulico al burino, ma di qualità: Santana, Creedence, Deep Purple, Emerson Lake & Palmer, Grand Funk, Battisti e Beatles. La mia primogenita, Sofia, ha 5 anni e l’imbarazzo della scelta tra circa 3000 titoli in Cd. Chiaro che allora la copertina di un album diventi il primo indizio per decidere cosa assaggiare e quando ha potuto non ha mostrato dubbi: “Voglio ascoltare quello!”. Quello con le facce truccate dei Kiss, cioè. A 2 anni, del resto, chiedeva insistentemente di vedere i video dell’omo nudo, cioè dell’esibizionista Freddie Mercury. Ora, in un singolare percorso di maturazione musicale mi fa sciroppare i Dvd dei Kiss a rullo (e volete mettere rispetto alla trentesima visione de La sirenetta?). E anche in macchina, solo Kiss. Macchina galeotta dalla quale, quest’estate, ha adocchiato un cartello che annunciava le Kissexy in concerto a Lesa, sul Lago Maggiore. Per Sofia real thing o tribute band non fa differenza (anche per Gene Simmons, si direbbe) e alle 21.30, munita di tappi e previa dormita pomeridiana forzata, la porto al campo sportivo dove Barbara, Sara, Elena e Sergio (la chitarra solista rimane privilegio maschile) porgono il loro omaggio al femminile alla band di Paul Stanley e compagnia dipinta. Le Kissexy se la cavano amabilmente, con repertorio classico, make up fedele, voglia di divertirsi e una bassista linguacciuta che sputa sangue com’è d’obbligo. L’accento lombardo e la bonomia ben poco macha della bella leader danno un sapore casereccio al concerto, ma la messa in scena funziona. Sofia non è l’unica bambina, anzi: di bimbi, sul prato e sulle transenne, è pieno e alcuni hanno anche 50 anni. È chiaro perché i Kiss continueranno ad avere successo: la loro musica è un innocente e pagano ritorno alla nostra infanzia edenica. Imbattibile, specie quando si conclude un gig urlando a squarciagola I-I-I Wanna Rock’n’roll Aaall Night…And Party Every Day! Sofia è contenta e io ripenso al mio primo concerto: già dodicenne, vidi Franco Battiato bedduzzo mio, rimasto poi pietra angolare del credo musicale che informa tutti i miei scritti (e a chi storce il naso ricordo che con Franco c’era la chitarra rovente di Alberto Radius). Sofia ha esordito così, coi Kiss o il loro sembiante, e son sicuro che crescendo non si farà infinocchiare da qualche poser o da una boy band messa su dal marketing di una major. O perlomeno spero. E prego. (Agosto 2010)

ddv7103789 – Lo strepitoso Anvil! The Story of Anvil di Sacha Gervasi, USA 2008
Gli Anvil sono una band canadese di heavy metal dei primi anni Ottanta. Rock zarro, urlato e fracassone, con testi insensati, zuppo di sudore ma suonato con l’anima. Trent’anni fa hanno assaggiato il successo, finendo immediatamente in una spirale discendente che li ha portati ad affrontare tour disastrosi e umiliazioni continue. Anvil! racconta la calata agli inferi e la resurrezione, grazie all’impegno, la testardaggine e anche l’ingenuità di chi, passati i cinquant’anni, non vuole arrendersi e abdicare al suo sogno rock and roll. Il film è splendido, commovente, intenso e vive di due straordinari protagonisti: il primo è il chitarrista Lips, cocciuto cuore d’oro incapace di arrendersi e pronto a ricominciare dopo ogni clamorosa batosta (e nel film se ne vedono di tremende, come suonare davanti a cinque persone, tra l’altro disinteressate), coinvolgendo familiari e amici; e poi c’è Robbo, il batterista malinconico e cinico che fuma un joint dopo l’altro e dipinge improbabili nature morte, inseparabile da Lips. Ne viene fuori una storia che racconta la miseria del business, ma anche la grandezza del sogno e la forza della volontà a dispetto di ogni evidenza. Il documentario è costruito drammaturgicamente da dio (sospetto rifacimenti e accordi, ma chi se ne frega) e si arriva al finale col cuore in gola: ce la faranno, stavolta? L’ho visto – assente Barbara – con la cugina Alessandra, che s’è fidata di me ma che ha anche vacillato alle prime battute: rock durissimo in documenti sgranati d’epoca e testimonianze di Lemmy (Motorhead), Lars Ulrich (Metallica) e Slash (Guns n’Roses). Ma ci vuole poco a comprendere che non conta il genere musicale e che non si tratta di un documentario per appassionati metallari: questo capolavoro di Sacha Gervasi (il colpevole di The Terminal: chi l’avrebbe mai detto?) è un film per tutti perché racconta una storia universale. L’heavy metal è solo il contesto e, anzi, dà più sapore. Come l’impagabile, improvvisata e improbabile manager veneta che accompagna la band: non sa l’inglese, non saprebbe fare il suo mestiere neanche parlando italiano e bestemmia tutto il tempo come un carrettiere. E come puoi non voler bene anche a lei? (Dvd; 30/8/10)

ddv7104790 – L’abisso e l’estasi di Man on Wire di James Marsh, USA/Gran Bretagna 2008
Il sogno e la follia di camminare sospesi per aria, di volare dove nessun altro uomo è in grado di farlo. Questo l’obiettivo di Philippe Petit, il funambolo che il 7 agosto 1974 ha tirato un cavo tra le due torri gemelle di New York, non ancora inaugurate, e poi ha fatto avanti e indietro per 45 minuti, con la polizia in attesa che si stufasse per poterlo arrestare. Oggi lo seccherebbero con una fucilata dopo 5 minuti. Ma anche il fatto che “oggi” le torri non esistano più dà un sapore diverso al documentario e soprattutto una dimensione metafisica alla stravagante impresa, misto di ambizione suprema, visionarietà, egocentrismo e coraggio al limite della stupidità. Per dimostrare cosa, poi? Il film di Marsh investiga sia la psicologia del protagonista (affetto da sicuro delirio d’onnipotenza) che dei suoi compagni d’avventura, gente di cui all’epoca non si seppe più nulla e dei quali invece oggi vediamo le conseguenze a livello umano. Petit trascinò gli amici più cari (tutti disgraziati, che spariscono di fronte alla sua personalità debordante) e tutti si misero a disposizione, rischiando in proprio per lui: c’è chi andò via, chi continuò ad appoggiarlo in sfide assurde (ma mai come questa), chi ancora oggi piange a ripensarci. Per cui Man On Wire racconta anche di potere, forza di persuasione e tradimento, con Petit diventato ricco e famoso e tutti gli altri caduti nel dimenticatoio. Il racconto è teso come il filo su cui Philippe cammina, costruito in maniera intelligente, con materiali originali splendidi (e incredibili: ‘sto qua lavorava alla costruzione del mito di se stesso già prima dell’esibizione definitiva) e da ricostruzioni che non disturbano, ma legano meglio il racconto quando mancano i raccordi originali. E poi siamo sospesi nella musica di Erik Satie a 450 metri di altezza o baldanzosi nel farci 110 piani a piedi incalzati da quella di Michael Nyman. Un film bellissimo e anche se sai fin dal manifesto/spoiler del film come andrà a finire, continui a dirti: no, è impossibile, non ce la farà mai. E invece. Pazzesco. (Dvd; 31/8/10)

ddv7105792 – ‘Na pallata La storia infinita di Wolfgang Petersen, Repubblica Federale Tedesca/USA/Gran Bretagna 1984
Dunque: a 13 anni lo avevo schifato e avevo già ragione da vendere; ovviamente a Sofia è piaciuto moltissimo mentre io ho rantolato per buona parte della pellicola. Dal romanzo di Michael Ende (che non ho letto né mai lo farò) è venuto fuori un film evocativo, lento, con l’eroe – alter ego del piccolo Bastian che sta leggendo un libro magico – che affronta diverse prove non particolarmente memorabili o tese, a dir la verità, per fermare il Nulla che sta invadendo il regno di Fantàsia. Sento la consueta mano pesante tedesca e a parte il protagonista – che però non sa recitare – i bambini hanno facce orrende. I mostri da combattere, in compenso, non possiedono alcun fascino e sfiorano il ridicolo (un cane-drago che sembra un peluche, un uomo di pietra che pare uscito da una parodia, cose così). L’improbabile Limahl (dei Kajagoogoo) sottolinea il tutto con una canzonaccia che solo a nominarla poi ti rimane in testa per una settimana. Ecco, infatti. Mah. Era un film per bambini, per cui avrebbe dovuto scriverne direttamente Sofia, però ho ragione io. (Dvd; 5/9/10)

ddv7106793 – Telefonato ma perdonabile: Le concert di Radu Mihaileanu, Francia 2009
Trappolone emotivo inevitabile! Era un grande direttore d’orchestra, Andrey, ma il compagno che sbagliava Brezhnev lo ha rovinato e ancora oggi è costretto a pulire i cessi del Bolshoi per vivere. Grazie a un sotterfugio s’imbarca in un’operazione impossibile: riprendere a Parigi il concerto interrotto 30 anni prima a Mosca, con la vecchia orchestra e una giovane, nuova, violinista (Mélanie Laurent, sono ufficialmente innamorato). Si ride e ci si commuove per un finale preparato a puntino, che più ricattatorio non potrebbe essere, accompagnati da un Čajkovskij ineludibile. Il concerto un film caruccio, furbo, ma anche – nella sua svagatezza e nei suoi eccessi sparsi qui e là – ben fatto. Io l’ho visto in francese ma per curiosità ho rivisto alcune parti in italiano, con una resa linguistica che definire allucinante è un eufemismo. I russi – ma neanche tutti! – parluano cuosì, come in brutto film della guerra fredda. Senza parole, ma del resto abbiamo i migliori doppiatori del mondo. Come gli arbitri e i portieri, insomma. (Dvd; 5/9/10)

ddv7107794 – Il lacerante Videocracy di Erik Gandini, Svezia 2009
Non un documentario, un horror. E un film a tesi, ahimé, e scrivo ahimé perché a tanto siamo dovuti arrivare per raccontare la genesi e l’ascesa del regime berlusconiano, alimentato da dosi massicce di nudo femminile in tivù. Ora, chi vuol chiamarsi fuori offeso (leggi Antonio Ricci) fa le pulci a Videocracy e sottolinea i tanti errorini storici, che però non sono sostanziali. È inutile dire “non ho cominciato io”, il problema è che tu hai proseguito, caro mio, altro che satira dell’allora presente. E il problema non è soltanto la mercificazione della donna ma tutta la televisizzazione della società e pensare (perché è questo l’inganno in cui spesso si cade) che la televisione metta in scena solo la realtà, mentre purtroppo la produce e riprendendola la amplifica, in un loop mortale. Il monito o la constatazione serve e servirà, ma per fortuna non è ancora solo così (credo, spero), ma questo è quello che appare e anche Gandini sembra cascare nell’equivoco che la rappresentazione sia la realtà. Però questi son discorsi che non so affrontare, dài. Penso che una sana prospettiva storica dovrebbe ricordare come nel fermento di fine anni Settanta fosse cominciata un’esibizione del corpo femminile che per alcuni era liberazione, per altri trasgressione, per altri ancora provocazione e per i più furbi semplice sfruttamento di un’onda lunga inizialmente sincera e libertaria. Poi ha vinto la linea marpiona, ma non credo si possa leggere dietro un complotto berlusconiano preciso, mi sembra invece una naturale evoluzione capitalistica: vado dove si fa denaro. E il sesso – sinché il portafogli lo gestisce il maschio – produce denaro, molto. E consenso, ipocrita ma palpabile. Simple as that. Berlusconi non è la causa (o la sola causa), ma piuttosto lo strumento, l’espressione, l’interprete perfetto (e l’effetto) di questa Italietta che non impara mai, che perde la testa davanti a una tetta e si corrompe non appena circolano un po’ di soldi. E che preferisce apparire che essere, tanto che la messa in scena è arrivata al governo e spadroneggia da 15 anni. Ci siamo americanizzati al peggio, senza quelle due o tre regolette etico-morali fondamentali cui gli americani tengono molto, ipocritamente, ma molto. Nella carrellata di mostri, oltre al ducetto che sappiamo, anche Lele Mora (agente di spettacolo e veicolatore di monnezza) e Fabrizio Corona, paparazzo e orchestratore di gossip nonché protagonista in proprio di vita da divo gossipabile. E Corona che si sgrulla l’uccello per farlo sembrare più grosso e lungo è la sintesi perfetta dell’italiano di oggi: uno sfigato che si mena il belino per sentirsi superdotato e non ha letteralmente più un cazzo, se non l’apparenza. In questo senso è volutamente emblematica la clamorosa scena finale delle aspiranti veline che ballano indipendentemente, come se fosse la volata finale di tappa, ognuna impegnata a dare il meglio (e il peggio) di se stessa, senza neanche ascoltare la musica, una contro le altre, per l’occhio del selezionatore. Diventare visibili, prendere vita nella rappresentazione catodica. Un momento di televisione che diventa cinema altissimo. Film bello, non risolto e anche impreciso ma lacerante e che rivisto tra trent’anni ci farà chiedere quale (ulteriore) sorta di ipnosi avesse soggiogato il Belpaese. (Dvd; 8/9/10)

ddv7108795 – L’orrendissimo Sojux 111 Terrore su Venere di Kurt Maetzig, Repubblica Democratica Tedesca/Polonia, 1960
C’è l’Alessandra a cena e dopo esserci saziati con una pastasciuttina da urlo condita con un sughetto surgelato misto mare probabilmente velenoso ma efficacissimo, procedo al consueto rosario di film per la serata. Le due cugine mi schifano tutto, specialmente la mia collezione di oldies but goldies elegantemente in black and white e non avendo nulla di moderno (non contemporaneo, proprio moderno, cioè dai Settanta in poi) allora andiamo sull’originale: fantascienza della Germania Est. Alé: giubilo per l’originale trovata! Pensa domani, in ufficio: “Ieri sera ho visto un film della Repubblica Democratica Tedesca!”. E bastano pochi secondi di titoli di testa per capire che invece abbiamo fatto una vaccata siderale. La vicenda è squallidissima e scopertamente propagandistica: i paesi fratelli del Patto di Varsavia organizzano una spedizione alla volta di Venere per scoprire che l’olocausto nucleare ha annientato i venusiani, monito a tutti popoli a non rifarlo sulla Terra; ma soprattutto il concetto esplicito è: mi sto rivolgendo a te, pezzo di merda americano che sei già stato responsabile di Hiroshima (nome ripetuto nel film almeno 4 volte dalla figlia di una sopravvissuta all’atomica). L’equipaggio della missione è un misto di razze e popoli per dimostrare l’ecumenismo socialista, mica come noi capitalisti razzisti (e in effetti io un astronauta negro non l’ho visto ancora, se non in Capricorn One). L’ambientazione è nel futuro 1982 e son tutti vestiti come negli anni Cinquanta, e vestiti male, come ci si poteva conciare allora in un paese comunista (di quel comunismo lì, intendo). Le divise spaziali, in compenso, anticipano brillantemente quelle dei Teletubbies. Il doppiaggio regala qualche furbata, come la previsione della diplomazia del ping pong del 1972 tra Nixon e Mao (era Chou En Lai: stai a vedere che ‘sti qui ci hanno quasi azzeccato, 12 anni prima… ma no, non è possibile, dài). Gli attori sono di una staticità commovente e con delle facce tristissime, da alimentazione precaria: dentature sconnesse o rade, occhi sporgenti o incavati, e tutti o calvi o con ciuffi assurdi. Ma la vera mazzata è data dallo script, di una lentezza esasperante, senza tensione, ritmo o almeno qualche invenzione futuribile (ah sì, c’è l’incredibile freno a mano dell’astronave, utilizzato mentre s’incappa in una tempesta di meteoriti!) e piagata da dialoghi ridicoli con cifre ed elementi chimici buttati lì, che fanno tanto fantascienza, tipo (invento):“Hai visto la reazione gamma del biofloruro di Izbenio 58?”, “No, dottore, la temperatura pentatonica era ormai prossima alla sublimazione H”, supercazzole così. Insomma, ‘sto Sojux 111 è una tavanata realmente galattica, dal fascino visivo naif e orbo di qualsivoglia drammaturgia. Ispirato al romanzo Il pianeta morto di Stanislav  Lem, che non volle avere niente a che fare, giustamente, con questa stronzata spaziale. Come qualche criticonzo possa parlarne come di un capolavoro è emblematico della ragione mercantile della professione. (Dvd; 18/9/10)

ddv7109Popa Chubby: the Blues is Alright!
Se BB King vi sembra grasso, non avete mai visto Popa Chubby. E se credete che il blues sia un genere vecchio, significa che non lo avete neppure ascoltato. E Popa su disco è una cosa (generalmente buona, molto buona) e dal vivo un’altra, buonissima: sudore e lacrime, rabbia e dolcezza, sigaretta e caffè. Fraseggio fluido, innesti soul, rock e hip hop sulla tradizione, tono Fender inarrivabile. Un autentico bluesman urbano di questi tempi, che commenta ciò che accade sulla terra e non la manda a dire, e suona come se ogni concerto fosse l’ultimo. Ebreo newyorchese con nonni italiani, non è educato, non è elegante, Popa, ma ha una sua tifoseria precisa che ne apprezza la schiettezza e l’irruenza musicale verace. Siccome passa da Milano per un omaggio hendrixiano ricco di ospiti (tra cui Tolo Marton e Vic Vergeat di cui il vostro scribacchino vi ha già parlato in passato), approfitto. Ci dobbiamo incontrare a pranzo ma quando sono in prossimità del suo albergo mi arriva una telefonata: Popa è fuori combattimento, è stato male in nottata. Rinvio a dopo il soundcheck, ma a mezz’ora dall’intervista la vetusta Ka rossa mi molla sotto casa. La mente gira a mille e siccome sono affilato come un bisturi penso: ruote! Prendo la bici che non uso mai e affronto il traffico stocastico di Milano riducendomi il culo come quello di un babbuino, e non solo cromaticamente. Assisto a delle prove dove s’improvvisano assoli celestiali e poi intervisto il bluesman di New York mentre monta le corde della chitarra. Popa ha la faccia tenera da bambinone cresciuto a dolciumi. Ha una voce scartavetrata splendida ed è umile e puntuto, non dice mai una cazzata. In passato si è apertamente schierato contro Bush con testi espliciti e diversi vaffanculo col dito medio (tra l’altro – dopo centomila morti gratuiti in Iraq – perché il tribunale dell’Aia non lo processa, Bush?) e oggi è molto deluso da Obama. È indignato per lo stato della sanità statunitense e tante altre cose che non riescono a cambiare. Azzardo, come Fantozzi col megadirettore: ma sarai mica… comunista? Ride: no, dice di essere un convinto capitalista, dove però non vince uno solo, ma un po’ tutti… “Forse”, aggiunge, “sono un po’ socialista”. Al netto della confusione ideologica e del classico pragmatismo yankee, gli chiedo se ne scriverà e mi risponde che lui cerca solo “un buon riff e una rima che funzioni”. Da buon papà sta imparando dai figli e parla con ammirazione di Dr. Dre e Snoop Dogg, confermandomi che il progetto di fondere blues e hip hop potrebbe avere un futuro. Poi, serata buona ma pubblico milanese un po’ freddo di fronte alla sua chitarra incandescente. Tornerà ancora da queste parti: oh, ci vediamo sotto il palco, ragazzi. (Teatro Ciak, Milano; 22/10/10)

ddv7110798 – Il Labyrinth in cui s’è perso Jim Henson, USA/Gran Bretagna 1986
Film da grandi, Barbara e io, non riusciamo a vederne più, per cui finisce che un Labyrinth evitato accuratamente da adolescente diventi qualcosa da vedere oggi, papà ultraquarantenne, assieme a Sofia. Con grande nocumento, perché questo fantasy infantile, tra ingenui effetti col blue back, pupazzoni da Muppet Show (di cui effettivamente Henson era il creatore) e numeri musicali eterni, è una menata di cazzo labirintica ed estenuante. Dopo un ¼ d’ora ero già scoglionato, sorpreso dalla recitazione urlata e dall’apparizione di un Bowie pettinato a metà strada tra Tina Turner e Solange. Certo, Jennifer Connelly era incantevole anche nei suoi paffutelli quindici anni e c’è pure qualche bella invenzione scenografica (il pozzo di mani o i battiporta parlanti), però, no, io queste cose non le capisco, non ci arrivo. Sofia, ovviamente, ha apprezzato molto. Dopo un clamoroso flop all’uscita, Labyrinth è diventato col tempo un film di culto. Non chiedetemi come e perché. (Dvd; 23/10/10)

(Continua – 71)

Il Cacace mette i dischi su Twitter @DzigaCacace

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/01/la-controfigura-eduardo-rozsa/ Fri, 01 May 2015 21:00:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21985 di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman [...]]]> di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino.
Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman fino alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti, e poi di salire a bordo di uno dei due piccoli battelli da cui, all’inizio per scherzo, con gli altoparlanti ci si chiamava, si dibatteva, si litigava, tra i flutti opachi e le luci della Riviera?
«Il gelato era buono, tutto è molto bello, ma siamo venuti qui per discutere di questioni serie», sostenevano i delegati del Sud America.
«Gli abbiamo anche spazzato il culo… Dammi il microfono», borbottava un capo degli studenti bolognesi.
Mi ero imbucato. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi studenteschi, ma incontrai per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Così in quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto.
Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo».
Il bulgaro Ognian Zla*ev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese».
Un cileno, lavandoci le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma…»
L’altissimo Emídio Guerre*ro, Partido Social Democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?»
Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, ma sono fiero di vivere a…»
Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia».
Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?»
Il cortese, mite professore che accompagnava Dusko e gli altri iugoslavi: «No, ti confondi, il Nagorno Karabakh…»
All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, come loro, cominciai a far parte di collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università… Ricordo molto meglio l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che la minoranza ungherese in Romania era oppressa dal regime di Nicolae Ceausescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi.
Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava come una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano, che sa fare di tutto; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista.
Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici incerti, avversari, probabili nemici: aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava e riusciva a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman: lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, feci amicizia e scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento:

RÓZSA GYÖRGY EDUARDO
Budapest
Ajtósi Dürer sor 5. II/1
H-1146      Telefon: ***

L’estate successiva, l’agosto del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, che aspettava il nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere dei calici e a stappare una bottiglia di champagne.
«Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele.
Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «Possiamo fare la doccia al bagno turco. Siete mai stati? Non è tanto lontano. Mangiamo dopo. Vi accompagno a un ristorante, poi potete tornare qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due».
Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda.
Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli Apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia nude le natiche. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio.
Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i Mongoli, Mattia Corvino, i Turchi, i Bagni Rudas…
«Qui hanno girato un film americano… Dopo Conan il Barbaro e Terminator questa volta era un poliziotto russo».
Daniele discute con Eduardo, mentre mi estraneo, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Non sono un uomo d’azione né un guerriero.
Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini».
«È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato… E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo».
«E tu?»
Eduardo ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così…»
Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale».
Pensa che sia giusto limitare i poteri del moderno principe o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda bastano a fiaccarmi, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito, non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno.
«Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo.
Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota.
Usciamo dal bagno turco e, non so come, arriviamo a sederci in un ristorante di Pest, sull’altra riva del fiume, all’aperto. La brezza che spirava lungo il corpo del fiume arriva fino ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo crudo, salse, pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già; è segretario della gioventù comunista della Università Loránd Eötvös senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore; conosce, non nasconde tutte le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare e a farsi benvolere, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare le sue avventure, che conosciamo entrambi solo in parte.
Perché si chiama Eduardo? Perché è bilingue, anzi poliglotta?
Ne ha parlato il giorno in cui ci siamo incontrati a Bologna, gli abbiamo chiesto di riparlarne per le strade di Budapest, lo invitiamo a parlarne ancora al ristorante, e i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani sera, non potranno fare a meno di tornare a raccontare il loro passato.

Dei parenti di György Rózsa, padre di Eduardo, in Ungheria non rimane nessuno. Il nonno fu fucilato dalle Croci frecciate, i nazisti ungheresi. Risparmiavano le munizioni: legavano tre prigionieri con filo di ferro, sparavano a uno, gettavano nel Danubio il grappolo umano. Gli altri parenti del padre, ebrei, non c’erano più. I nazisti e i loro camerati magiari avevano sterminato mezzo milione di ebrei ungheresi, mentre gli altri, circa duecentomila, talvolta con l’aiuto di diplomatici stranieri come lo svedese Raoul Wallenberg, erano riusciti a trovare un precario rifugio nel proprio paese, a ottenere i documenti o a guadagnare una qualsiasi via per espatriare. Quello che successe a György durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva tra i sedici e i ventidue anni, non mi è affatto chiaro. Eduardo ci disse che il padre, non riesco a ricordare quando, era scappato con uno zio, ma forse mi sbaglio… Ho letto però che nel 1942, in piena guerra mondiale, prima che il governo ungherese consegnasse gli ebrei stranieri ai nazisti, prima che la maggior parte degli ebrei ungheresi fosse sterminata nelle camere a gas, il giovane pittore György Rózsa avrebbe vinto il terzo premio a un improbabile concorso internazionale per arti figurative, a Firenze. Un ebreo, credo già comunista, forse con documenti falsi, forse no, per ritirare un premio o con la scusa di ritirare un premio, sarebbe dunque passato da Firenze, in quell’Italia fascista che già quattro anni prima aveva espulso tutti gli ebrei stranieri, compresi quelli ungheresi. Non so che cosa sia successo. Non so se György Rózsa dall’Italia sia poi fuggito rifugiandosi da qualche parte; non so se in Ungheria sia tornato prima o dopo la fine della guerra. Sono trascorsi molti anni, e la memoria del mio compagno di viaggio Daniele in questo non ci aiuta. Potremmo chiedere spiegazioni soltanto alla sorella di Eduardo, l’unica persona della sua famiglia che non abbiamo conosciuto nell’agosto del 1989, l’unica che oggi sia rimasta in vita.
Dopo la guerra, nel 1948, mentre gli stalinisti prendevano il potere, György era emigrato da Budapest a Parigi dove gli era stata assegnata una borsa di studio in storia dell’arte. Si fece conoscere come pittore, cominciò a dedicarsi al teatro. Nel 1952 prese parte a una spedizione etnografica e archeologica francese in Bolivia e qui decise di stabilirsi, prima a La Paz e poi Santa Cruz de la Sierra. Era la città in cui era cresciuta Nelly Flores Arias, un’insegnante di liceo, cattolica, di origine spagnola, anzi catalana. Dal matrimonio di Nelly e György nacquero un figlio, Eduardo, e poi una figlia. A Santa Cruz de la Sierra, negli anni Sessanta, il padre di Eduardo divenne conosciuto e stimato come insegnante, pittore, scultore, drammaturgo, scenografo, architetto… Abitava ancora in Bolivia con i famigliari quando Ernesto Che Guevara fu ucciso a La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz.
Fu un evento che cambiò le loro vite. György, che tutti in Bolivia chiamavano Jorge, e che ormai si sentiva a casa, era un comunista e come comunista non poteva astenersi dall’attività politica. Era un intellettuale marxista, un fondatore di istituzioni culturali e laboratori artistici, un organizzatore di cultura e forse anche di altro. Il professore ungherese non era Che Guevara, ma si dava da fare. Chi si impegna per trasformare la società corre dei rischi: la storia non finisce, e nemmeno si prende una pausa, per lasciar crescere i tuoi figli in pace. La famiglia di Eduardo fu costretta a lasciare la Bolivia per il colpo di stato del generale Hugo Banzer e si rifugiò in Cile alla vigilia del colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Fuggirono anche dal Cile, vissero per breve tempo in Svezia.
«Mi mancava la luce, d’inverno, faceva troppo freddo», diceva Eduardo. «Quel temperamento, quel modo di vivere non era per me».
Nel 1974 decisero di tornare in Ungheria, dove gli anni peggiori erano passati.
«Il periodo post-stalinista…», diceva il figlio.
«Il periodo neo-stalinista…», correggeva il padre.
Si cenava nel soggiorno di casa loro. Si parlava dell’insurrezione ungherese nell’autunno 1956, dei due interventi delle forze armate sovietiche, dell’eliminazione di Imre Nagy, della lunga stagione di János Kádár. Erano argomenti che prevedevo, da cui mi aspettavo risposte su cui misurare le divergenze di opinione tra il figlio e il padre, che però non sembrava un uomo loquace.
Si era parlato, sempre in italiano, anche di Giuseppe Garibaldi, America Latina, Simón Bolívar, Grande Colombia, Panama, Bolivia… Ero il più silenzioso. Avevo poco da dire e molto da ascoltare. Non mi sentivo un figlio della borghesia colta, non ero diplomato al liceo classico, l’ultimo anno delle superiori avevo trascurato lo studio della Storia perché non era uscita come materia della maturità, all’università non avevo ancora preparato esami sugli ultimi cinque secoli. Daniele partecipava alla discussione, mostrava di sapere di che cosa si parlava. Mi sentivo superfluo, anche se Eduardo, che stava seduto di fronte a noi, con lo sguardo non mi ignorava.
Mentre Nelly Flores, in spagnolo, loquace quasi come il figlio, confrontava la Bolivia e la Colombia, parlava di cocaina, di criminalità e di case presidiate da telecamere, mi guardavo intorno. Alle mie spalle ricordo una piccola cucina; a sinistra della tavola si estendeva il soggiorno spazioso, sobrio, poco illuminato, le cui finestre si affacciavano sul Parco della città, verso Piazza degli eroi. Dietro ai due uomini della famiglia Rózsa si apriva un disimpegno da cui subito si entrava nella stanza di Eduardo.
Mentre in camera sua ascoltavamo dischi in vinile, tra cui il discorso di un comizio spartachista e l’Internazionale, mi accorgevo, con vergogna e rimorso, di covare gelosia per l’intesa che avvertivo crescere tra Eduardo e Daniele, e di non riuscire più a nascondere una blanda, vaga ostilità nei confronti del nostro ospite. Cercavo di spiegarmi, di giustificare le ragioni del rancore: ero invidioso di uno che la sapeva lunga, che sapeva giocare e forse vincere su troppi tavoli? Ci aveva ubriacati in un’enoteca, vicino al castello di Buda, nei cui cessi avevo vomitato vino rosso francese, ci aveva fatto accomodare in un grande caffè stile liberty dove nel primo Novecento avevano discusso intellettuali come György Lukács, ci aveva portati in una sinagoga e poi a pranzo in un ristorante ebraico, ci aveva permesso di visitare fuori orario un locale dove alcuni suoi amici dalla faccia molto abbronzata giocavano a biliardo, quella sera ci avrebbe accompagnati al grande parco di fronte a casa sua per assistere alle prove di uno spettacolo e, se avessimo voluto, per ballare, stretti con altri ragazzi e ragazze, le danze tradizionali dell’Ungheria.
Gli ero grato, lo stimavo per la sua versatilità, apprezzavo la sua disponibilità, la sua generosità nel condividere la sua ricchezza di memorie, di esperienze, di rapporti umani. Avevo passato quei giorni a dire: figurati, grazie, non dovevi, non disturbarti, sei proprio gentile. Facevo più complimenti di una nonna campagnola a casa dei consuoceri cittadini benestanti. Avevo bisogno di trovare una buona ragione per i fastidi, per il sospetto, per il mio senso di minorità.
A Eduardo, in fondo, si poteva perdonare l’indulgenza, o meglio la pacatezza, che suo padre però non dimostrava, verso il regime e verso i carri armati sovietici. Si poteva considerare il grande busto di Stalin, che con malizia aveva collocato all’ombra della sua scrivania, dunque ai suoi piedi, come un poderoso motto di spirito. Non avevo diritto di biasimarlo. Il suo ruolo di dirigente dei giovani comunisti si reggeva sulla capacità di temperare talento ed esuberanza nella lenta prudenza delle riforme: forse lui riteneva che questo accasarsi, questo radicarsi nelle istituzioni, non privo di benefici, fosse un modo efficace per trasformare la società, per rendere costituzionale, come aveva detto, il potere del sovrano. Ma c’era qualcosa di troppo.
Avevamo ascoltato dischi, avevamo visto un cartone animato in cui il monarca, il guerriero, l’umanista Mattia Corvino, vestito da viandante, percorreva le strade del suo regno, prendeva coscienza delle sofferenze del popolo, interveniva per riparare i torti e le ingiustizie perpetrate dai sudditi malvagi contro i sudditi più poveri. È il momento giusto per chiedere a Eduardo chi abbia dipinto le due grandi tele appese tra la finestra, aperta, e l’ingresso della camera. Posso prendermi una piccola rivincita.
«Quale ti piace di più? Attento a rispondere bene».
«Quello di tuo padre è meglio, Eduardo. Si vede che lui è un vero pittore».
«Sei un po’ stronzo, amico mio».
«Sei bravo, ma non si può essere un genio in ogni cosa».
Oltre alla scrivania, altarino sacrilego del Piccolo padre, oltre a un grande letto, abbastanza largo per dormire comodo con la fidanzata ufficiale, insieme ai quadri, ai dischi, a un minuscolo televisore, nella sua camera ci sono libri, riviste, giornali, piccoli trofei, ricordi. Scrive per l’agenzia Prensa Latina di Cuba e per la stampa ungherese. Ci mostra articoli e interviste di cui è autore o protagonista, e poi la sua foto su un quotidiano e sulla copertina di una rivista. Sulla stessa rivista ha pubblicato alcune poesie, nella lingua del padre.
Dopo più di venticinque anni non sono sicuro di ricordare l’ordine dei piccoli fatti, delle parole che ci siamo detti in quella stanza, ma sono sicuro che lì, in quel momento, con quella rivista tra le mani, ho sentito di aver scovato una buona ragione per giustificare la mia diffidenza. Per me, studente di ventuno anni, moralista imbelle, rivedibile alla visita militare, piccolissimo borghese che sta per iniziare a far politica nell’ateneo di una città che di solito è giudicata a misura d’uomo, sicura, se non fosse che… Per me, qualcosa di troppo è scrivere poesie nella strana lingua di tuo padre per una rivista delle forze armate ungheresi.
«Non hai abitato sempre qui, ci dicevi che parli il russo, che hai studiato anche là. Non era uno scherzo, vero?»
Prima di iscriversi alla facoltà di Lettere, Eduardo ha frequentato una scuola militare nel suo paese, ma poi ha studiato per qualche tempo a Mosca, all’Accademia dei servizi segreti dell’Unione Sovietica. Lo dice come per gioco. Non riesco a capire se vuol farci intendere che si è stancato o se ha portato a termine il corso, magari scrivendo distici elegiaci per le forze armate ungheresi. Immagino che la ragione sociale dei servizi di spionaggio e controspionaggio non sia solo organizzare complotti, colpi di stato, attentati. L’intelligence, come si dice ora, ha bisogno di gente istruita, versatile, scaltra, poliglotta: analisti, esperti di crittografia, traduttori, interpreti, accompagnatori di uomini d’affari e diplomatici stranieri. Ora il compagno Rózsa si impegna in patria, per il cambiamento: lavora e compie missioni al confine tra l’Ungheria e la Romania. Proprio domani mattina si recherà da quelle parti, in auto, poi verso il tramonto procederà a cavallo o a piedi. Forse si spingerà oltre frontiera. Ci sono persone che in Romania hanno bisogno di lui: «Ti ricordi quello che dicevo a Bologna?»
«Andrai in Transilvania travestito, come Mattia Corvino?»
E potrei forse riderne ancora, magari con un po’ di disagio, ripensando a noi due, a lui, a noi tre in quella stanza, se non sapessi che Eduardo pochi anni fa è morto, è stato ucciso in una camera d’albergo, molto lontano dall’Ungheria.
Tornerà presto a Budapest, prima che io e Daniele, col passaporto timbrato dall’ambasciata cecoslovacca, proseguiamo il nostro viaggio in treno verso Praga.
Dalla finestra spalancata un alito di vento porta un clamore, come di applausi. Eduardo ci dice che a meno di un chilometro da casa sua, allo stadio, parla un predicatore americano.
«Glielo lasciano fare?», gli chiedo per niente stupito.
Oggi, quando siamo entrati nella sinagoga per poi accedere a un museo sugli ebrei dell’Ungheria, sono rimasto sbalordito davanti a un’enorme bandiera israeliana spiegata davanti alle schiere delle panche vuote.
«Mi aspettavo un luogo di preghiera», dico mentre sento crescere in me una rabbia che riesco a motivare solo in parte.
«Ti aspettavi Cavour? La divisione tra Chiesa e Stato? Non è così. Non funziona così. Il mondo non fa quello che ci aspettiamo per renderci la vita più semplice», mi dice Daniele che ancora all’ingresso del museo mi sente sragionare, sia pure sottovoce. Eduardo ci spiega che un importante uomo politico israeliano sta visitando la capitale, ma io continuo a sbraitare anche davanti alle prime foto del museo, tanto che Eduardo, avvicinato da un guardasala o da una guida, che forse in parte comprende i motivi della mia ostilità, ha il buon senso di decidere che è meglio affrettare la fine della visita. A volte ci ripenso, con la vergogna di chi ha detto troppe parole ingiuste invece di poche e giuste.
«Billy Graham si chiama. È un predicatore americano, protestante. I suoi sermoni attirano molta gente, come uno spettacolo. Riempie gli stadi. Una volta non avrebbe avuto il permesso».
«Ma tu, Eduardo, sei religioso?»
Sua madre è credente, molto cattolica, di famiglia così cattolica da questionare se lui porta la fidanzata in camera; suo padre, invece, grazie a Marx, dice Eduardo, è ateo. Mi pare di capire che Eduardo non sia credente, anche se vuole avere le carte in regola per qualche aldilà; o forse sì, potrebbe essere deista come i dollari americani: «In God we trust». Comunque sia, credente, ateo osservante o altro, non mi sembra una malignità pensare che trovi conveniente aggiungere la tessera di altri club al suo portafoglio.
«Sono dalla parte dei palestinesi. Alla comunità di Budapest noi abbiamo proiettato quel filmato in cui due soldati israeliani spaccano il braccio a un palestinese con il calcio del fucile. C’erano alcuni vecchi che, per non vedere e non sentire, voltavano le spalle allo schermo e pestavano i piedi».
Toglie da una piccola scatola, che sta nel cassetto della scrivania, una catenina d’oro da cui pendono una stella di David e un croce latina.
«Quel predicatore riesce a riempire lo stadio di Budapest. Un po’ di gente è arrivata in pullman. Molti ci vanno per curiosità».
Però non gli interessa. Si sente più legato alla tradizione cattolica. Ci dice che lui da qualche tempo ha simpatia per l’Opus Dei. Ha avuto dei contatti con alcuni austriaci e spagnoli. Sembra che ne voglia diventare un membro, se non lo ha già fatto.
Ormai tutto è così eccessivo e inverosimile che non riesco a credere che lo dica sul serio: deve essere un’altra scusa, una ragione in più per andare in vacanza all’estero, per introdursi in certi ambienti, per acquisire credenziali, per trovare nuove vie di accesso o di fuga. Forse sente arrivare il terremoto, prevede che un’ala del grande edificio del Partito potrebbe crollare. Ma questi pensieri scivolano via, penso che in fondo sia un vezzo, un modo per giocare a vivere molte vite.
Sembra che a molti una sola vita non basti: reincarnazione, oltretomba, corsi di recitazione e, in anni più recenti, nomi di battaglia per i piccoli schermi. Da decenni, o da secoli, puoi leggere romanzi lunghissimi senza farti alcun male, puoi vedere ogni giorno senza fatica film d’azione e serie televisive, ma c’è chi desidera lasciare le periferie poco illuminate, chi vuole uscire di casa e andare a letto per ultimo, chi decide di vincere anche a costo di far vincere un altro se stesso. Non è il caso di Eduardo, penso. Lui, con tutto il suo egocentrismo, crede nel socialismo, vuole riformare il socialismo. Certo non è un Garibaldi né tanto meno un Che Guevara; ritiene che il cambiamento si diriga dall’alto, è disponibile a impiegare tutto il suo estro per recitare più di un ruolo all’interno delle gerarchie e delle istituzioni, comprese le forze armate e i servizi di informazione della sua patria socialista. I collettivi universitari, a cui questa primavera abbiamo cominciato ad avvicinarci io e Daniele, per lui sono aggregati di giovanotti velleitari, anarchici, poco più che ranocchi gracidanti in uno stagno.
«L’Opus Dei è roba spagnola, vero? Ne ho sentito parlare in Matador o in Donne sull’orlo di una crisi di nervi…»
«È internazionale», ghigna Eduardo.
Anche se fosse già incorporato nella Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, preferisco pensare che sia un particolare irrilevante. Con Eduardo si parla del mondo intero mentre si gioca e si ride. Eduardo non ha scrupolo a vantarsi di quando ha fornicato con un paio di hostess assieme a un amico; e il pudore post-edenico inoculato dalla buona famiglia cattolica della madre, cresciuta ed educata provvidenzialmente nella città di Santa Cruz, non lo frenerà dall’invitarci domani in una piscina per nudisti.
Insomma, non riesci a sentirlo come un amico, come un individuo di cui ti puoi fidare, ma il suo fascino un po’ cialtrone, teatrale, carnevalesco, riesce a compensare i rancori, i sospetti per cui provi rimorso. Con lui te la spassi, hai il piacere sadico di ridere toccando qualche nervo scoperto della storia mondiale. Nessuno può prevedere che all’inizio del nuovo secolo, mentre le forze armate degli Stati Uniti faticheranno a consolidare l’occupazione dell’Iraq, Eduardo diventerà vice presidente dell’associazione dei musulmani ungheresi e che, poco più tardi, avrà rapporti sempre più stretti ed espliciti, o se non altro ambigui, con l’estrema destra ungherese.
Salutiamo i suoi genitori, usciamo dall’appartamento di Ajtósi Dürer sor, finiamo la serata al Parco della Città assistendo alle prove di uno spettacolo di danze della tradizione popolare ungherese. Due giorni dopo incontriamo Eduardo, ritornato dalla sua missione alla frontiera rumena, e giriamo ancora insieme a lui, sentiamo per l’ultima volta l’odore dell’ostello e della città. Se ci si allontana dalle colline di Buda o dal Danubio, ancora una volta sembra che l’aria sappia di asfalto, polvere, vestiti male asciugati, che l’aria del grande fiume ristagni come in una Pianura Padana che fugge sempre più lontano dal mare. Ma che cosa pretendo mai di sapere: sono solo un turista. Forse ciò che annuso è l’odore di questi pochi giorni, di questi mesi, dei vestiti che togliamo dallo zaino.
L’ultimo giorno che passo a Budapest non voglio certo andare in piscina. Non voglio spogliarmi e restare completamente nudo davanti a lui. Trova molto divertente la mia ritrosia: «In Ungheria non siamo pudichi come voi in Italia».
«Anche Malcolm X da giovane non voleva essere spiato nei cessi pubblici mentre pisciava…»
Quando andiamo in giro con Eduardo, spesso mi vergogno. Perciò non vedo l’ora di salutarlo e di partire con Daniele per Praga. Per strada, in tram, in metropolitana, in filobus, non importa dove ci si trovi, più di una volta si è messo a cantare delle canzoni di lotta, in italiano, e noi le abbiamo cantate con lui. Conosce Bella ciao, I morti di Reggio Emilia, Contessa, La ballata del Pinelli, Fischia il vento. Ma quando cantiamo l’Internazionale, quando Eduardo ci canta e ci traduce inni ungheresi, penso a tutti i cittadini muti che ci stanno intorno, donne e uomini che immagino con l’espressione attonita già intravista negli ascensori, negli autobus o anche nelle strade più affollate della mia città. Per loro questi sono canti di liberazione o jingle di regimi che detestano? Forse mi vergognerei anche se una parte del pubblico partecipasse: e allora canto, canto come gli altri due, non posso evitarlo, ma un po’ mi vergogno, come fino a pochi mesi fa mi sentivo a disagio se discutevo in autobus con Daniele di poeti italiani contemporanei.
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici, che forse passano l’intera giornata in piscina; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.

Eduardo Rózsa non fu l’unico volto, l’unico incontro di quel lungo viaggio in treno, iniziato in Austria e Ungheria, che ci portò in Cecoslovacchia, Germania Ovest, Belgio, Francia. Eduardo non restò in cima ai miei labili pensieri estivi: Sergej, Heike, Anja, Letizia, Wing May non mi interessavano meno di uno studente trentenne che forse millantava un ruolo nei servizi segreti ungheresi. In autunno, mentre crolla il Muro di Berlino, poco prima che sia fucilato il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, che lui tanto odiava, ci daremo da fare all’università di Bologna: seminari, volantini, manifesti, occupazione di aule, autoriduzione in mensa, corteo, contestazione al Rettore. A gennaio del 1990 occuperemo la nostra università per più di due mesi, così come faranno gli studenti italiani che detestano l’Italia di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, delle tivù di Silvio Berlusconi: «Noi da qui non ce ne andremo più». Solo quando l’occupazione volgerà alla fine mi deciderò a telefonare a Eduardo dall’Ufficio Erasmus occupato, la prima porta a sinistra del Rettorato, che i primi giorni d’aprile è ancora il Centro stampa del Movimento.
Mentre noi, la Pantera, occupavamo da più di un mese, alla fine di febbraio i sandinisti hanno perso le elezioni in Nicaragua, e io quella sera ho preferito smaltire la delusione dormendo nel letto di casa invece che in facoltà. Giorgio, un compagno di Scienze politiche che è là in Nicaragua per scriver la tesi, ci ha raccontato al telefono che i sandinisti, malgrado i bruciori di stomaco, non hanno intenzione di insorgere contro il nuovo governo. Ora, invece, in aprile, si attendono i risultati delle elezioni in Ungheria, le prime, dopo molti decenni, in cui i cittadini potranno scegliere fra più partiti. Non mi aspetto, non spero nulla dalle elezioni in Ungheria, dico a me stesso, anche se prima o poi, in un modo o nell’altro, mi piacerebbe che per qualche prodigio della Storia si uscisse dal «socialismo reale» per entrare in un socialismo più vero.
Per avere notizie telefono a casa di Eduardo, che è contento di sentirmi, ma si lamenta: «Non hai risposto neanche alla mia cartolina con gli auguri di Natale e Capodanno».
Gli dico che siamo impegnati da mesi nell’occupazione; chiede di me, di Daniele, dei miei studi, degli esami.
«Allora, vincete?»
«No, Alberto, non vinciamo».
«Sarà per la prossima volta, allora».
«Nemmeno la prossima volta. Ci vorrà molto tempo».
Lo richiamo da casa, quando l’estate è alle porte, con più calma, questa volta a spese dei miei genitori: «Quando vieni a trovarci in Italia?»
Presto sarà a Venezia per lavoro, ma si fermerà solo qualche giorno, i tempi sono stretti: «No, ho messo la politica a riposare per un po’. Scrivo per un giornale spagnolo».
Ha trovato una strada per andare avanti e se la cava assai bene, penso, malgrado il suo passato o proprio grazie a quel capitale accumulato negli anni. Mi chiede di raggiungerlo a Venezia, ma anch’io ho molto da fare: quasi tutta una vita. Passano anni prima che mi decida a richiamarlo. Non ricordo quante volte provo; gli telefono più di una volta, ma senza riuscire a parlargli, forse tra il 1994 e il 1999, dalla casa dei miei o dal piccolo appartamento in cui vivo con la mia compagna. Soltanto in anni più recenti comincerò a ricercare per la Rete i nomi delle persone che non vedo da anni. Perciò, quando la sua voce risponde al telefono, della nuova vita di Eduardo non so ancora niente.
Non gli dispiace di sentirmi, ma sembra in attesa di qualcosa: come se cercasse di estrarre dalle mie parole il movente della chiamata. Mi risponde che i suoi genitori non vivono più con lui. È stato corrispondente di guerra nell’ex Iugoslavia. Ha girato e vissuto all’estero per alcuni anni. Scrive poesie e ricordi di quella guerra…
«Il fascismo sparisce», gli dico, «ma si moltiplica nei suoi discendenti di formato ridotto. Sembra che nei Balcani si faccia la gara a chi è più fascista».
Mi risponde che il tiranno è la Serbia: «Io vivo per combattere i tiranni».
«Sei ancora legato ai comunisti?»
Non ha nulla a che fare con loro. Il bolscevismo ha tradito le sue promesse, ha negato l’autodeterminazione degli individui e dei popoli.
Non ricordo altro. Non sono nemmeno sicuro di avergli parlato. Forse rammento un sogno.
Sono certo invece di averlo chiamato in anni più recenti. Avevo scoperto con molto ritardo che, nel 2001, Eduardo aveva interpretato se stesso in un film, presentato e premiato a diversi festival, un film che raccontava la sua vita, dall’infanzia alla guerra di secessione della Croazia. In Croazia era andato come giornalista, corrispondente del quotidiano La Vanguardia e collaboratore della BBC, o anche, mi venne poi da pensare, come agente segreto ungherese. Nell’autunno del 1991 era avvenuta, si direbbe, una svolta: si era arruolato nella Guardia nazionale croata, con il nome di battaglia Chico, per combattere le milizie serbe in Slavonia. Aveva fondato e diretto la Prima unità internazionale dell’esercito croato, aveva fatto parte delle forze speciali, era stato ferito più volte e decorato, aveva ottenuto il grado di colonnello, gli avevano concesso l’onore della cittadinanza croata e nell’estate del 1994 era stato congedato.
«Te l’ho detto. Non sono loro i fascisti. Dovresti essere qui per giudicare», rispondeva al padre.
«E io dico e ti ripeto che gli ustascia sono fascisti. Non ti ricordi che i fascisti hanno ucciso tuo nonno?»
«No, non lo sono. E se dici che loro sono fascisti, allora sono fascista anch’io».
Del film avevo visto pochi passaggi. Temevo di velare le mie poche certezze con un altro filtro, di saldare in una nuova compiuta narrazione le ambiguità, le contraddizioni, forse le menzogne, che giacevano come ossa spezzate nella mia memoria. Ricordavo il busto di Stalin in camera sua, l’impegno a favore della minoranza magiara di Romania, ricordavo anche le battute in cui mostrava indulgenza se non proprio simpatia per la Lega Nord di Umberto Bossi. Siamo quasi tutti intossicati di finzione: potevo immaginare qualsiasi complotto, mescolando i suoi racconti sul Golem impazzito, l’Opus Dei, l’apprendistato a Mosca, le sue missioni come giovane agente dei servizi segreti. Ma allo stesso tempo mi sentivo autorizzato a pensare che ci sono persone che nascono in alto, o ci arrivano, e vogliono rimanerci a ogni costo.
«A Zelig set in contemporary international hot zones», avevo letto in un sito che mi rivelava l’esistenza di altri film in cui Eduardo aveva interpretato ruoli secondari.
«Vorrei parlare con Eduardo Rózsa? È la casa della famiglia Rózsa? Il signor Eduardo Rózsa… Lei lo conosce?»
Una voce maschile, che rispondeva in inglese al mio inglese, aveva riso: «Certo, tutti lo conoscono».
Non abitava più in quelle stanze che ci avevano accolto una sera di estate del 1989. Dopo aver combattuto in Croazia e aver interpretato l’ultima versione di se stesso nel film Chico, Eduardo continuava a recitare altri ruoli. L’avevo cercato per sentire se aveva qualcosa da dirmi, ma non avevo più intenzione di sforzarmi per trovare un nuovo recapito. Tutto quello che scoprivo di lui, se era vero, lo leggevo, talvolta lo decifravo a fatica sulla Rete, da siti e articoli scritti in lingua spagnola e ungherese, raramente in inglese. Rovistando nel suo passato, senza aver la possibilità di verificare quanto leggevo, il disagio cresceva, prevaleva sulla curiosità e sullo stupore.
Scoprivo che all’inizio del 1991, quando era stato inviato in Albania come giornalista, aveva favorito la partenza degli ebrei albanesi verso Israele, dove era stato per qualche tempo a visitare i luoghi santi. Leggevo che in anni recenti, dopo l’attentato al World Trade Center, o meglio dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq, si era convertito alla religione musulmana ed era diventato il vice presidente della comunità islamica dell’Ungheria. Si era recato per ragioni umanitarie, come inviato dei musulmani del proprio paese, ma forse anche prima della conversione, in Palestina, Indonesia, Sudan, Iraq, Iran. Negli anni Ottanta e anche più tardi, aveva avuto contatti con il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, condannato all’ergastolo nelle galere francesi, conosciuto come Carlos o anche come lo Sciacallo.
Chi era costui? Lo avevo già sentito nominare… Era un rivoluzionario di professione o un terrorista internazionale o un mercenario, secondo i punti di vista, un marxista-leninista legato ai servizi segreti dell’Est, nonché membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che in anni più recenti sosteneva di avere abbracciato una versione socialista dell’Islam politico radicale. Che rapporto c’era tra Eduardo e Ilich Ramírez? Eduardo, poco prima che io e Daniele lo conoscessimo, era stato la sua guida turistica, il suo interprete, in Ungheria, dove Ilich Ramírez aveva vissuto per alcuni anni. E proprio per questo Eduardo, nel 1991, era stato coinvolto in un processo che nel suo paese fece scalpore. Era un lavoro, obbediva agli ordini, rispettava la legge: fu assolto.
Avevo spedito una lettera per avvisare Daniele, che già viveva a Milano e lavorava all’Università di Bergamo. Daniele non aveva risposto, come se la e-mail non gli fosse arrivata. O forse l’aveva ricevuta, ma era rimasto così segnato da quel che poi aveva letto sulla Rete da cancellare le mie parole scrivendoci sopra le nuove. La nostra memoria umana viene assiduamente raschiata dal trascorrere del tempo come un antico palinsesto di cartapecora, che serba e cela i tenui graffi delle scritture precedenti.
Alcuni mesi dopo Daniele mi telefonò per dirmi che aveva scoperto il film Chico e la nuova vita del compagno Eduardo. Aggiunse qualcosa che ancora non sapevo. Uno scrittore francese, Mathias Énard, aveva pubblicato un romanzo, non ancora tradotto, in cui si parlava di un Eduardo Rózsa. Nel libro si raccontava che, ai tempi della guerra per l’indipendenza della Croazia, Eduardo fu sospettato di aver ucciso un giornalista svizzero e un fotografo inglese, infiltrati o incorporati nella brigata internazionale che lui comandava. Lessi poi che i due indagavano su un traffico internazionale di armi.
Mentre Daniele mi parlava, Eduardo viveva gli ultimi mesi della sua vita. Poteva essere la fine del 2008 o una data qualunque che preceda il 16 aprile 2009, il giorno in cui Eduardo fu ucciso a Santa Cruz de la Sierra, la città in cui era nato il 31 marzo 1960.
A volte la verità colpisce come un pugno in faccia: una scarica di parole che ascolti di sfuggita e capisci solo quando riprendi i sensi, con i gomiti puntati a terra. A qualcuno può perfino capitare di rialzarsi in piedi e non ricordare bene quello che è appena successo. Sono una persona che rumina i pensieri a lungo, e che troppo spesso capisce in ritardo. Sono una persona piuttosto comune. Quella primavera mi sentivo come se, arrivato in cima a una collina, avessi posato un sacco pieno di pietre. Avevo combattuto e stavo vincendo una lunga battaglia segreta di cui non potevo vantarmi. La mattina seguente mi sarei svegliato alle sei e venti per andare al lavoro, ma potevo dire a me stesso: abbiamo casa e reddito; ci amiamo, conviviamo da anni, abbiamo deciso di festeggiare con un matrimonio.
Mi ero seduto a tavola per cenare, cambiavo i canali con il telecomando, non so che cosa cercassi di vedere e ascoltare. Una notizia veloce, solo una foto che scompare dallo schermo mentre alzo la testa. Qualcuno è stato ucciso dalle teste di cuoio in Bolivia. Faceva parte di un commando che progettava l’assassinio del presidente Evo Morales. Il sicario, mi pare di sentire, sarebbe un certo Rosa Flores.
Eduardo non si chiama Flores. Non mi ha mai detto che si chiama Flores. Non mi ricordo. Sul biglietto da visita argentato c’è scritto Eduardo György Rózsa. Sulle lettere che mi ha spedito scriveva Eduardo Rózsa. Al telegiornale non ho sentito dire Eduardo. Non ricordo il cognome di sua madre. Mi sembra di ricordare che lei fosse colombiana. Non ha senso, non esiste un movente: perché Eduardo dovrebbe uccidere Evo Morales? Evo Morales non cerca di affermare la sovranità della nazione sulle risorse della Bolivia?
I giorni seguenti non leggo il giornale. Per settimane, mesi, forse per un paio di anni, non ci penso più, finché una folata della storia mondiale agitando le chiome dei miei nervi si incarica di ripetere la verità con maggiore chiarezza.
Eduardo György Rózsa Flores, figlio di György Rózsa e Nelly Flores Arias, è stato ucciso, assieme ad altri due uomini, dalle forze speciali boliviane nell’albergo Las Americas di Santa Cruz de la Sierra.

[Qui la seconda parte]

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