Ottobre – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 04 May 2024 20:00:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Traditori di tutti, traditi del tutto https://www.carmillaonline.com/2022/11/15/traditori-di-tutti-traditi-da-tutto/ Tue, 15 Nov 2022 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74689 di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, [...]]]> di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, troppo spesso, fine a se stessi (o quasi.) Basta leggere, infatti, le pagine di romanzi quali La talpa, La spia venuta dal freddo, Tutti gli uomini di Smiley o La tamburina per entrare in un mondo di servizi segreti occidentali (MI6, CIA o Mossad) in cui a dominare sono l’astuzia, la spietatezza, il calcolo (spesso personale) e la disillusione,

Il romanzo di Jorge Semprún (1923- 2011), appena pubblicato in Italia da Settecolori, nonostante la sua edizione originale risalga al 1969, ci introduce nello stesso mondo, però visto dal “fronte orientale”, speculare avversario dei protagonisti dei romanzi di le Carré. Qui gli agenti operano per il KGB (siamo ancora in piena guerra fredda, e gli avversari (?) sono quelli della CIA. Il tutto complicato da un elemento che per i difensori dell’ordine liberale non esisteva: il sentirsi, o meno, rappresentanti di una Rivoluzione che avrebbe dovuto rovesciare il mondo, ma che invece non lo ha fatto.

Oltre a ciò, nel romanzo si affaccia in continuazione la storia collettiva e personale della Guerra Civile spagnola. Anch’essa caratterizzata da tradimenti, violenze, soprusi che non hanno lasciato certo immacolata la sua immagine. Anche sul fronte repubblicano.
E vi è molto di autobiografico nel romanzo, visto che l’autore, spagnolo di origine e francese per vocazione letteraria, aveva dovuto abbandonare la Spagna appena tredicenne, al seguito della famiglia di un diplomatico della Repubblica, riparata in Francia agli inizi della guerra nel 1936.

Non solo, l’autore, pur appartenente ad una famiglia borghese di rango, democratica e cattolica, aveva in seguito aderito al Partito comunista spagnolo di Santiago Carrillo ed era diventato agente dei servizi segreti dello stesso e dei paesi dell’Est. Un percorso non dissimile, anche se con motivazioni estremamente diverse, a quello di le Carré che, prima di diventare scrittore, era stato agente dei servizi inglesi del MI6.

Ancor prima, però, il futuro scrittore spagnolo era entrato nella resistenza francese contro i tedeschi ed era finito prigioniero a Buchenwald. Così, come racconta nella bella postfazione al testo Romain Cortés:

Nell’aprile del 1945, tre ufficiali con la divisa britannica, ma in forza all’esercito del generale americano Patton, fissarono con uno sguardo spaventato il ventenne che li osservava all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald, da poco liberato. Capelli rasati a zero, una magrezza estrema, il ragazzo indossava degli stivali di cuoio dell’esercito russo, aveva a tracolla una mitraglietta tedesca sotto cui, a strati, l’uniforme del carcerato si mischiava con ritocchi civili e militari. Jorge Semprún era il nome di quell’apparizione. […] A Buchenwald Semprún era arrivato un anno prima, dopo che la Gestapo lo aveva arrestato in un rastrellamento di provincia, sorpreso nel sonno in uno dei tanti rifugi clandestini della Resistenza. Il risultato di quell’anno, in quello che non era un campo di sterminio, ma i cui forni crematori tramutavano in fumo i corpi di chi vi moriva per fame, stenti, fatica, spandendo nell’aria l’odore dolciastro della carne umana bruciata, era ciò che si stagliava davanti agli occhi come pietrificati dei tre ufficiali. Un fantasma, più che un sopravvissuto, si sorprese a pensare il diretto interessato. «I fantasmi fanno sempre paura. Io non ero veramente sopravvissuto alla morte, non l’avevo evitata. Non le ero sfuggito. Piuttosto, l’avevo percorsa da un capo all’altro. Ne avevo percorso i sentieri, mi ero perduto e ritrovato, immenso territorio dove scorre l’assenza. Un fantasma, appunto». Dietro questa constatazione, Semprún sentiva però premere qualcos’altro, sempre più forte nei diciotto giorni che passarono dalla liberazione di Buchenwald al suo ritorno a Parigi, in un convoglio di rimpatriati organizzato da una associazione religiosa. «Ero convinto di essere immortale. Fuori pericolo, in ogni caso. Mi era successo tutto, niente poteva più accadermi. Nient’altro che la vita, da mordere con denti voraci. È con questa sicurezza che ho attraversato, più tardi, dieci anni di clandestinità in Spagna» 1.

Clandestinità e azione politica durante le quali si rese progressivamente conto di quante menzogne occorresse sostenere oppure contribuire a diffondere, anche nei confronti di amici e compagni “innocenti”, purché la grande macchina partitica ed organizzativa, oltre che propagandistica, di una rivoluzione da tempo spentasi potesse continuare a rappresentarsi come l’erede delle tradizione rivoluzionaria e proletaria.

Sono le stesse domande che sembra porsi il protagonista del romanzo. Un agente trentatreenne che, durante una missione ad Amsterdam, nel 1966, si rende conto di essere stato tradito e venduto agli agenti della CIA.

Qual era l’uomo incaricato di seguirlo? Uno qualunque. Quelli della CIA, aveva pensato, stanno diventando irriconoscibili, ultimamente: assomigliano a degli universitari, a dei ricercatori della Rand Corporation, oppure a dei seduttori con le tempie brizzolate. A chiunque. Alcuni non sembrano nemmeno americani, hanno una faccia umana. È lo stile Kennedy, forse2.

Ma il vero problema si nasconde tra le file del KGB, forse ai livelli più alti. Forse proprio tra quei vecchi agenti e compagni che per il Partito avevano già sopportato tutto. Anche il Gulag, prima di essere riabilitati ed inseriti nuovamente nelle fila e ai vertici dei servizi operativi.

«Che cosa siamo noi, esattamente? Può dirmelo, Georgij Nikolaevič?». […]
A Zurigo, due anni prima, in Froschaugasse, aveva fatto una domanda a Georgij Nikolaevič Užakov, e questi aveva riso, con gli occhi celesti che gli brillavano.
«La storia si ripete come una farsa, vero?» aveva detto Užakov. «Siamo la ripetizione farsesca e beffarda di una storia del passato».
«Quale storia?».
«Ma quella della rivoluzione, ovviamente» diceva Georgij Nikolaevič.
«Una storia mancata» diceva lui.
«Ma via! Se non fosse mancata, non si ripeterebbe come una farsa. Anzi, non si ripeterebbe in alcun modo».
Lui, però, insisteva. «E il nostro ruolo qual è, in questa farsa?».
Užakov lo stava fissando. Non sembrava vederlo. Lo stava fissando, senza vederlo. Stava fissando altrove, nel proprio passato.
«Un ruolo tragico» diceva alla fine. «Tragico e beffardo. Siamo solo la caricatura dei funzionari della rivoluzione. Non ci sono più professionisti della rivoluzione mondiale, ci sono solo agenti infiltrati, funzionari dei servizi speciali»3.

Ecco, il rivoluzionario o preteso tale. si era trasformato, o era stato trasformato, in un funzionario, in un burocrate, un grigio esecutore di ordini. Magari dell’assassinio e del tradimento. Come in ogni dittatura che si rispetti, come per un altro fronte aveva già spiegato già Hannah Arendt nel suo La banalità del male (1963).
Non a caso il protagonista porta lo stesso, pesantissimo nome di un personaggio simbolicamente importante del tortuoso percorso della rivoluzione dall’Ottobre allo stalinismo e al Gulag: Ramón Mercader, l’assassino di Leone Trotzkij in Messico, nel 1940.

Figura tragica e dannata, degna forse di figurare nel romanzo Il demone meschino di Fëdor Sologub, scritto tra il 1892 e il 1902 e apparso a puntate nel 1905. Condannato a vent’anni di carcere in Messico come esecutore dell’assassinio, Mercader scontò tutto il periodo della condanna, senza mai parlare o confessare, in attesa di tornare in Russia a ritirare la medaglia d’oro che Stalin gli aveva assegnato per il compito svolto e gli onori che avrebbero dovuto essergli tributati. Ma Stalin era morto nel 1953 e quando Mercader era ritornato in URSS erano già passati quattro anni da quel congresso, voluto da Nikita Kruscev (segretario generale del Partito dal 1954 al 1964), che ne aveva rivelato i crimini. E per questo motivo, ignorato ed evitato da tutti, aveva dovuto accontentarsi di una dacia e di una pensione assegnategli dallo Stato, come unica ricompensa dei suoi “servizi”. Dopo aver vissuto nelle vicinanze di Mosca per un decennio si sarebbe trasferito a Cuba nel 1970, dove morì nel 1978 a 65 anni. Ecco il destino dell’”eroe” socialista.

Walter Wetter alzava il suo boccale di birra, quasi vuoto.
«Sai?» diceva. «Adesso brindiamo alla salute di Ramón Mercader».
Wettlich lo guardava. «Perché? È in pericolo?».
Walter Wetter sorrideva malignamente. «Ma no, non quello. Alla salute dell’altro, il vero Ramón Mercader».
Herbert Wettlich, visibilmente, non apprezzava lo scherzo. «E perché, se posso?» chiedeva, con una voce che voleva essere di biasimo.
«Ma perché è un militante esemplare, via!».
E Walter Wetter rideva sinceramente, una grande risata cupa, e a Herbert Wettlich quello scherzo piaceva sempre meno, ed ecco il nostro eroe positivo, pensava Walter Wetter, con una risata sempre più violenta, c’è da chiedersi perché i critici e i teorici della letteratura socialista si siano scervellati così a lungo, eccolo l’eroe positivo, Ramón Mercader del Río, ammesso che sia il suo vero nome, il militante che ha sacrificato tutto alla Causa, e quando dico tutto è tutto, non è una metafora, tutto, sé stesso, e la Causa stessa, tutto sacrificato nel silenzio e nel pubblico ludibrio, e non vale la pena di cercare altrove, signore e signori, eccolo l’eroe positivo, non vale la pena tentare di spingere in primo piano sulla scena letteraria – fedele riflesso socialista di una realtà radiosa – spingere avanti tutti quei trattoristi, quelle esemplari mungitrici di mucche da latte, quei tecnici che nella gioia del pensiero corretto inventano il metodo migliore per fondere i pezzi di una nuova macchina, non vale davvero la pena, parlateci piuttosto di Ramón Mercader del Río, il nostro eroe positivo4.

Per i suoi dubbi e le sue critiche Semprún era stato espulso dal partito spagnolo nel 1965 e, pur continuando a dichiararsi comunista per anni, aveva deciso di non più tacere e trasformare in letteratura ciò che apparentemente avrebbe dovuto appartenere soltanto alla Storia con la s maiuscola. Ricevendo, inevitabilmente, l’ostracismo dall’«Humanité», il quotidiano del Partito comunista francese, al momento dell’uscita di La seconda morte di Ramón Mercader in Francia.

Nel 1979, su insistenza di Leonardo Sciascia, altra splendida figura di intellettuale eretico, sarebbe stata pubblicata in Italia, da Sellerio, l’opera autobiografica che ripercorreva il cammino dell’autore tra le rovine e le menzogne del socialismo reale (e di Santiago Carrillo, storico segretario rigidamente allineato all’URSS del Partito comunista spagnolo): Autobiografia di Federico Sánchez, uscita l’anno prima per le Editions du Seuil, in Francia.

E proprio nelle pagine della Postfazione, Romain Cortés ci aiuta a disvelare il “segreto” della mancata pubblicazione fino ad ora del romanzo di cui si è fin qui parlato, anche se di Semprún in Italia erano già state pubblicate, da Einaudi, altre opere.

In Francia, l’unica critica astiosa al libro venne dal quotidiano «L’Humanité», organo del PCF, il Partito comunista francese […] Si tratta di una posizione minoritaria, come del resto è sempre più calante, come appeal e come voti, il peso culturale e politico di quel partito, sorpreso dal «maggio francese» come dall’invasione della Cecoslovacchia, ancora egemone nella classe operaia, ma non più in quella borghese e intellettuale, costretto di lì a non molto a ritrovarsi come competitor quel François Mitterrand che di fatto rifonda il Partito socialista e lo mette alla guida della sinistra…
Ma in Italia? In Italia il ruolo e il peso del Pci sono ben diversi e la situazione sociale, economica e politica molto più turbolenta di quella francese, dove la contestazione dura appena un mese e per un de Gaulle che se ne va c’è un Pompidou che arriva… Dopo aver espulso, proprio in quel 1969, per «frazionismo» il gruppo del Manifesto, nel 1973 Berlinguer proporrà il «compromesso storico», l’anno prima è saltato per aria l’editore Feltrinelli, c’è già stata piazza Fontana, hanno già fatto la loro comparsa le Brigate rosse, fra «strategia della tensione» e «autunno caldo», hanno insomma preso il via gli «anni di piombo». Il decennio dei Settanta è dunque il meno ideale per un libro che al fondo sostiene che tutto il comunismo non è stato altro che un gigantesco, sanguinoso inganno, che il Partito, con la p maiuscola, è la Burocrazia, non la Rivoluzione, che l’abitudine al bis-pensiero e alla neolingua di orwelliana memoria (anche di questo, criticamente, si parla nel romanzo), è una camicia di Nesso destinata bruciare chi la indossa… E che a dirlo sia uno che continua a definirsi comunista non migliora le cose, ma le peggiora5.

Agli estimatori della buona letteratura, lontana dal mainstream modaiolo e poco interessata alle verità preconfezionate, non resta allora che ringraziare l’editore milanese che, seppur ideologicamente distante dalle posizioni espresse da chi scrive e da Carmilla più in generale, sta però conducendo un ottimo lavoro di riscoperta, traduzione e pubblicazione di testi fino ad ora sconosciuti, o quasi, ai lettori italiani.


  1. R. Cortés, La scrittura e la vita, postfazione a J. Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Settecolori, Milano 2022, pp. 454-455  

  2. J. Semprún, op. cit., p. 31  

  3. pp. 273-275  

  4. pp. 271-272  

  5. R. Cortés, op. cit., pp.450-451  

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Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 3 https://www.carmillaonline.com/2022/10/15/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-3/ Sat, 15 Oct 2022 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73969 di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. [...]]]> di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. Ma se qualcosa è accaduto nella messa in forma della guerra significa che dentro il “politico” qualcosa di non secondario si è modificato. Significa che la relazione simmetrica che faceva da sfondo all’agire della politica ha conosciuto una sostanziale modifica. In altre parole si è passati da un modello simmetrico a uno asimmetrico. Ma tutto ciò rappresenta una novità assoluta oppure, a conti fatti, non si tratta d’altro che di una nuova attualizzazione di un modello, quello coloniale, che ha a lungo accompagnato la nostra storia? La relazione politica asimmetrica e il conseguente modello che si porta appresso non è esattamente la rimessa in circolo di quanto ampiamente sperimentato nei confronti delle colonie? Questo, a conti fatti, sembra essere il cuore della questione. Per molti versi, infatti, sembra di essere precipitati, subito dopo la fine della “Guerra fredda”, all’interno di uno scenario internazionale che ha forzatamente accantonato uno degli aspetti centrali della storia novecentesca: la decolonizzazione. Ora, indipendentemente da qualunque giudizio si possa dare sulla decolonizzazione, una cosa appare comunemente accertabile: la decolonizzazione ha fatto sì che, i popoli senza storia, entrassero prepotentemente nello scenario politico internazionale.

A partire dalla Prima guerra mondiale, attraverso un processo che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo scorso, le popolazioni non occidentali si conquistano, armi in pugno, il diritto a esistere in quanto entità politiche. Il “Movimento dei Paesi non allineati”, con ogni probabilità, ne ha rappresentato la sintesi politica per eccellenza. Si tratta di un moto storico senza precedenti poiché rompe drasticamente tutti gli equilibri politici e culturali che, pur in condizioni storiche profondamente diverse e modificate, parevano darsi come storicamente immodificabili. Più che significativa la regolarizzazione politica a cui, proprio in tale contesto, perviene la figura del partigiano. Si tratta di un passaggio importante e che, per molti versi, mostra tutta la forza politica che l’Ottobre è stato in grado, prima di porre in campo, quindi di scatenare. È con l’Ottobre infatti che i “popoli senza” storia acquistano dignità di linguaggio e, con questa, accedono a pieno titolo al mondo della politica. Ciò che con la Grande rivoluzione era stato posto come semplice principio astratto nell’Ottobre trova la sua piena concretezza. Le conseguenze pratiche della legittimità delle guerre anticoloniali comportano ricadute non secondarie sulla concettualizzazione della guerra e la sua conduzione. Le guerre anticoloniali sono, in prevalenza, guerre di tipo partigiano. Anche quando, come nel caso del conflitto vietnamita, è presente un esercito regolare la lotta nei territori occupati dal fronte imperialista è condotta da forze partigiane politicamente organizzate nel fronte di liberazione nazionale. Il fatto che, queste forze, abbiano ottenuto, non solo di fatto ma formalmente, un riconoscimento politico non è qualcosa di poco rilevante. Basti pensare a come nel corso della Seconda guerra mondiale, dove pur la guerra partigiana assunse ruoli e dimensioni considerevoli, non si pervenne mai a un suo riconoscimento giuridico formale e il partigiano continuò a essere ascritto all’ambito del fuorilegge.

La decolonizzazione interrompe quell’ordine del discorso fondato sulla “civiltà bianca ed europea” che aveva consentito di considerare gran parte dell’umanità come qualcosa di antropologicamente diverso e inferiore. Un dato “obiettivo” che nessuna frattura storica interna al mondo europeo era stata in grado di porre radicalmente in discussione. Su ciò la stessa Grande rivoluzione si era vista costretta a fare marcia indietro. Neppure l’ala più estrema e progressista della borghesia era riuscita a estendere l’uguaglianza oltre la “linea del colore”. Questa linea si mostrava invalicabile e l’universalismo dei diritti rimaneva pur sempre confinato tra quei popoli e quelle nazioni che potevano vantare “storia, linguaggio e cultura” mentre, tutti gli altri, rimanevano ascritti, senza soluzione di continuità, all’ambito dell’indistinto. A fronte di popoli e nazioni certe si stagliavano le miriadi di etnie senza nome e senza volto. I diritti dell’Uomo erano sì universali ma non tutti gli esseri umani erano, in quanto tali, immediatamente Uomo e quindi portatori di diritti universali. Un’aporia che, in realtà, la Grande rivoluzione eredita dall’Umanesimo il quale, fin dalla sua nascita, coltiva tale ambiguità come le guerre di conquista extra europee, pre – moderne, sono lì a ricordare.

In poche parole l’eguaglianza è cosa che va riconosciuta ed elargita con parsimonia. La borghesia rivoluzionaria non è in grado di spingersi oltre tanto che, quando le suggestioni dell’89 approderanno tra i popoli di colore, per i giacobini neri non vi sarà altra soluzione che la forca. A imporsi è un ordine discorsivo il quale finisce con il diventare banale retorica di senso comune all’interno di tutti gli ambiti sociali. La differenza obiettiva e “naturalista” esistente tra noi e loro si sedimenta in profondità tanto da diventare “ciò che tutti sanno”. Un razzismo che, a differenza di quanto accade tra i teorici della razza tout court, non ha bisogno di essere teorizzato e continuamente rafforzato. La vera forza di questo ordine discorsivo sta, piuttosto, nella sua debolezza. È questo razzismo debole, e proprio per questo difficilmente estirpabile, ad attraversare per intero le formazioni economiche e sociali prima europee, poi occidentali. Di ciò, anche se è storia di oggi, ne si avrà una facile conferma quando, con l’irrompere prepotente dei nuovi flussi migratori, le retoriche xenofobe e razziste non troveranno troppi ostacoli a conquistarsi un certo protagonismo politico nelle nostre società così come, in maniera del tutto speculare e complementare, gran parte di questo razzismo, nuovo e arcaico al contempo, troverà la sua migliore sistematizzazione nelle retoriche multiculturaliste.
Ma non anticipiamo e riprendiamo il filo del nostro discorso.

Abbiamo detto dei limiti che la stessa Grande rivoluzione si porta appresso. Su questa scia l’aveva seguita, almeno tacitamente, lo stesso movimento operaio organizzato nella Seconda internazionale. Sino a Lenin e ai bolscevichi, sino alla costruzione dell’Internazionale comunista, i popoli di colore, rimangono popoli senza storia e senza linguaggio. Un retaggio che, in Occidente, continuerà a essere a lungo il non detto di parte del movimento operaio. Di fronte alle lotte di liberazione dei Paesi sottoposti al giogo coloniale le titubanze degli stessi partiti comunisti occidentali non saranno proprio impasse da nulla basti pensare al comportamento del PCF nei confronti della guerra di liberazione algerina o alle dichiarazioni del PCI, attraverso il suo leader Palmiro Togliatti, rispetto alla legittimità dei possedimenti coloniali italiani per non parlare dei Partiti socialisti i quali, in non pochi casi, hanno condotto in prima persona la guerra contro i moti emancipatori dei popoli coloniali. In poche parole, la guerra fuori dai confini del “mondo civile”, è sempre stata qualcosa la cui messa in forma rimandava a uno scenario non commensurabile a quello abitualmente vigente tra entità politiche che si riconoscevano appartenenti al medesimo campo. Anche in guerra, come su tutti gli altri piani della vita, il principio di eguaglianza valeva solo all’interno di un ambito ristretto di popoli e nazioni.

La rottura epocale dell’Ottobre consiste proprio nell’aver universalizzato non tanto i Diritti dell’Uomo ma la dimensione politica dei popoli. Con l’Ottobre la “civiltà bianca” è costretta a riconoscere che tutti gli abitanti del globo hanno il diritto di organizzarsi politicamente e, pertanto, di essere posti su un piano di pari grado e dignità. Alla fine, pur se a denti stretti, USA e Francia (tanto per citare casi ampiamente noti) devono trattare con il FLN del Vietnam e con il FLN algerino considerandoli entità politiche a tutti gli effetti. Non per caso l’ONU è stato un terreno di battaglia, simbolico ma non secondario, di questo esercizio di diritto. Il riconoscimento legittimo presso l’ONU ratificava esattamente la dimensione politico – statuale alla quale una popolazione era pervenuta. Una parentesi, alla scala della storia, che si è protratta, all’incirca, per una sessantina d’anni e che da più di trenta anni è stata nuovamente posta al bando e che, non per caso, ha, di fatto, delegittimato l’ONU stesso diventato sempre più, da istituzione internazionale deputata a equilibrare i conflitti internazionali, a strumento delle politiche imperialiste. Basti pensare a come l’ONU ascrivi ormai abitualmente le lotte partigiane delle popolazioni sotto occupazioni, nell’ambito del terrorismo. Un modo neppure troppo raffinato per ascrivere all’ambito della criminalità ogni forma di resistenza e sottrarla così alla dimensione propria del “politico” e ricondurla nella più malleabile categoria del nemico privato. Con ciò il senso delle operazioni di polizia internazionale comincia a farsi più chiaro. A essersi ormai decisamente incrinato è tutto il quadro politico affermatosi con la fine della Seconda guerra mondiale.

Dal 1989 in poi, nei confronti delle popolazioni non appartenenti al Primo mondo, a riemergere è esattamente una linea di condotta che rimanda appieno alla situazione vigente prima dell’Ottobre. Tutto ciò è stato messo in atto attraverso una serie di operazioni anche culturali delle quali è opportuno occuparsi. Uno degli effetti immediati del post ’89 è stata la messa in mora di tale universalizzazione mentre, di pari passo, prendevano forma tutte quell’insieme di retoriche incentrate sul culturalismo così come, al posto delle entità statuali e nazionali, a emergere erano le singolarità etniche e l’insieme di conflittualità che, inevitabilmente, queste si portano appresso.

Subito dopo l’89 il mondo è stato oggetto di un nuovo bipolarismo solo che, questa volta, la divisione non nasceva sulla adesione alla forza militare della NATO o a quella del Patto di Varsavia ma su basi del tutto diverse. Da una parte, la sfera Occidentale e i cosiddetti Paesi emergenti, raggruppavano Stati politicamente organizzati mentre, il resto del mondo, sommava in maniera abbastanza confusa e caotica etnie e culture le quali non potevano far altro che essere nuovamente oggetto di un “processo di civilizzazione”. Le differenze non sono secondarie. Mentre nel primo caso, per forza di cose, a emergere non poteva essere altro che un conflitto tra eguali nel secondo, a emergere, era un non luogo privo di qualunque ordinamento politico a fronte di realtà statuali politicamente certe e organizzate. La distanza tra i due mondi diventava pertanto incommensurabile. Una nuova epopea coloniale si faceva non solo possibile ma necessaria. A emergere, in tale contesto, diventa l’esistenza di un nuovo forte noi contrapposto a un altrettanto forte loro. Di tale formazione è opportuno trarne la genealogia.

Questo noi ha preso forma all’interno di due contenitori più che diversi complementari. Da un lato il razzismo tout court delle formazioni di destra. Un razzismo un po’ sempre uguale a se stesso sul quale vi è ben poco da dire. In questo caso, il noi, ha funzionato come collante identitario attraverso il quale si ribadisce la “naturalità” della supremazia dell’occidentale nei confronti del resto del mondo. In questo caso, infatti, la “linea del colore” attraversa anche tutte quelle popolazioni che, pur bianche, risultano estranee alle retoriche politiche e culturali del mondo occidentale. Si tratta di un noi che, per molti versi, rimanda a una enfatizzazione e declinazione nazionalista dello Stato/Nazione e dei suoi perimetri e che, in non pochi casi, entra in rotta di collisione con le trasformazioni “post/nazionali” proprie dell’attuale fase imperialista globale. Comunemente questo modello politico/concettuale è ascrivibile al mondo dei populismi i quali si oppongono, o almeno su questo trovano la linfa del loro successo, alla costruzione di un blocco politico su base Continentale governato dalle frazioni transnazionali della borghesia imperialista finanziaria. Il costante richiamo a quell’entità mai chiaramente definibile come “popolo” ne rappresenta, insieme all’inconsistenza e indeterminatezza, tanto l’ambiguità quanto la sua capacità di catturare consensi non secondari tra quote di classe operaia impoverita o piccola borghesia proletarizzata. Questo ordine discorsivo, pur quantitativamente non irrilevante, non è stato però l’ordine discorsivo dominante delle nostre società. Accanto a questo razzismo becero e bifolco ha fatto prepotentemente capolino un altro tipo di discorso, quello che per comodità possiamo definire l’ordine del discorso multiculturale, che ha organizzato e declinato le retoriche razziste su basi completamente diverse.

Andando al sodo l’ordine discorsivo multiculturale aveva un unico e sostanziale progetto strategico: deprivare della dimensione del “politico” tutte quelle popolazioni esterne ed estranee non solo al mondo occidentale, questo è qualcosa che hanno sempre fatto tutte le variabili del discorso colonialista, ma alla “concreta” forma politica assunta dall’Occidente. Questo il vero punto della questione. In apparente contrapposizione alle retoriche della destra il discorso multiculturale spostava le differenze tra noi e loro dal piano della “naturalità” a quello delle culture. L’ordine discorsivo proprio del multiculturalismo spostava la differenza dal colore della pelle, della razza o dell’etnia sul piano delle gerarchie culturali. A fronte di un Cultura, con la c maiuscola e dal portato immediatamente globale, propria delle classi dominanti internazionali si stagliavano le infinite piccole culture particolari e locali proprie di quelle popolazioni non coscientemente globalizzate.

Una gerarchia obiettivamente immodificabile il cui riconoscimento doveva dar vita a un modello sociale all’interno del quale, le piccole culture (sotto l’attenta vigilanza della Cultura), trovavano un proprio spazio sia di legittimazione che di libertà. Mente la destra, un po’ goffamente, chiedeva insistentaltroemente l’omologazione e l’omogeneizzazione culturale, reiterando le retoriche proprie dell’assimilazione, la società “civile e democratica” optava per un modello che, a conti fatti, riportava in auge le retoriche proprie della “riserva indiana”. Non diversamente dalla destra non poneva in discussione il valore indiscusso dello “stile di vita” occidentale ma, mentre ribadiva con forza ciò, riconosceva ai popoli non occidentali o non occidentalizzati il diritto a conservare, negli appositi spazi a questi assegnati, i propri “riti” e le coeve “usanze”. In questo modo, oltre a rendere visibile, soddisfacendo in tal modo quella sete di orientalismo proprio delle società coloniali, l’ agli occhi curiosi e morbosi delle popolazioni locali, confinava le popolazioni non occidentali all’interno di codici culturali dai quali non avrebbero più potuto emanciparsi. Nel riconoscimento della cultura altra si realizzava un sostanziale processo di imprigionamento politico e sociale. Una prassi, a dire il vero, neppure troppo nuova poiché, qualcosa di simile, le nostre società lo avevano già ampiamente sperimentato, pochi anni addietro, nei confronti delle proprie classi subalterne. Un passaggio intorno al quale vale la pena di soffermarsi.

(fine terza parte – continua)

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Gli echi del rivoluzionario dagli occhi di tataro https://www.carmillaonline.com/2022/05/09/gli-echi-del-rivoluzionario-dagli-occhi-di-tataro/ Sun, 08 May 2022 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71849 di Jack Orlando

Guido Carpi, Lenin vol. II. Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Stilo Editrice, Bari, 2021, 327 pp., 18€

Avevamo già incontrato Lenin di recente, su queste pagine (qui), attraverso le pagine di Guido Carpi e della sua biografia del sensei bolscevico. Ci ritroviamo di nuovo qui a percorrere i sentieri di Vladimir Il’ič Ul’janov, quasi sempre in un frustrante e recalcitrante esilio; lo si era congedato all’alba del 1905, prima dello scossone rivoluzionario, fermi con lo sguardo su uno dei sommi cardini della sua opera: il militante, il rivoluzionario [...]]]> di Jack Orlando

Guido Carpi, Lenin vol. II. Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Stilo Editrice, Bari, 2021, 327 pp., 18€

Avevamo già incontrato Lenin di recente, su queste pagine (qui), attraverso le pagine di Guido Carpi e della sua biografia del sensei bolscevico.
Ci ritroviamo di nuovo qui a percorrere i sentieri di Vladimir Il’ič Ul’janov, quasi sempre in un frustrante e recalcitrante esilio; lo si era congedato all’alba del 1905, prima dello scossone rivoluzionario, fermi con lo sguardo su uno dei sommi cardini della sua opera: il militante, il rivoluzionario di professione che opera da cinghia di trasmissione tra processo (di rottura) oggettivo e volontà (politica) soggettiva, figura deputata al rovesciamento dell’esistente.
Lo riprendiamo ora nella frattura del 1905, per accompagnarlo fino alle soglie di quel fatidico ‘17, in un decennio dove il vecchio mondo scivola nella catastrofe fino a frantumarsi nelle trincee, e dove per il rivoluzionario si rivelano in tutta la loro importanza la centralità del partito e la imprescindibile dialettica tra tattica e strategia, tempi duri per gente dura e menti radicali.

Andiamo rapidi, che non stiamo qui a far gli storici; la parentesi rivoluzionaria del 1905, quella del pope Gapon e dei gendarmi che sparano sulla folla con le icone sacre, vede Lenin (come quasi sempre) in una posizione di minoranza all’interno della socialdemocrazia, e con un apparato bolscevico impostato sulle indicazioni del che fare: partito ristretto, cospirativo, portato avanti da un èlite “neogiacobina”; una struttura atta a muoversi agilmente negli interstizi e nel mondo ben poco accomodante dello zarismo russo.

Il 1905 pone i rivoluzionari di fronte a una situazione inedita: l’irrompere sulla scena delle masse operaie come attore autonomo in grado di stabilire una propria agenda sganciata, a volte contrapposta, dagli interessi dello Stato o della borghesia. I lavoratori si dotano dei propri strumenti di decisione ed organizzazione, i Soviet, e l’incedere del processo rivoluzionario allarga le maglie della partecipazione alla vita pubblica, dalle libertà politiche alla stampa.
La fase è di attacco, di allargamento, e avanza convulsa. Va da sé che chi non tiene il passo resta indietro, come legge di natura, gli animali che non si adeguano alle mutazioni ambientali periscono.

Di qui una revisione dei principi d’azione bolscevichi che si orientano verso la messa in piedi di un partito di massa, in grado di occupare quei nuovi spazi di manovra convogliando le energie della massa in movimento, con l’esperienza combattiva del militante.
Non si tratta di scegliere tra vecchie maniere e nuovi democraticismi, come per quasi tutti i moderati. Non c’è teleologia del socialismo che tenga, né riforma che valga.
È sempre il processo rivoluzionario a portarsi appresso, come effetto collaterale, una politica di riforme; viceversa nessun riformismo o forma di rappresentanza può davvero far avanzare il percorso di emancipazione.
Si tratta di occupare tatticamente i posti disponibili in una Duma sostanzialmente impotente, per parlare al popolo dei lavoratori e non al potere burocratico, di usare le possibilità di stampare giornali legali non per tessere le lodi della libertà d’opinione ma per formare e radicalizzare la soggettività combattiva in lotta; i bolscevichi stanno nei soviet non per abbracciare il moto perpetuo e progressivo delle masse verso l’utopia socialista, ma per articolarne e coordinarne le potenzialità su di un piano di attacco che arrechi danni e sottragga terreno quanto più possibile al nemico.
Si dialoga con la spontaneità proletaria, unica davvero a rompere gli argini del potere, ma la si articola in organizzazione per portarla ad un livello superiore, per darle nuovo spazio e non farla rifluire.
Portare all’estremo le conquiste democratiche, accelerare la rivoluzione fino al punto di non ritorno.
O tutto o niente.

E quando poi la parentesi si va chiudendo, quando gli spazi si restringono, la repressione colpisce duro e le energie cominciano a smobilitare, come sopravvivere al contraccolpo?
L’ormai ex piccolo gruppo compatto, ora giovane partito di massa con articolazioni legali e non, deve operare una nuova virata e passare attraverso la porta stretta della controrivoluzione: mettere in sicurezza le varie articolazioni prima che vengano annientate; nella prassi: lasciare attivi i presidi conquistati, come i rappresentanti della Duma, per tenere viva una voce pubblica, ma investire le energie in una pratica di esercizio della forza, che sfrutti gli ultimi scampoli di tempo per un colpo di reni in grado di deviare la tendenza. È ora un bolscevismo insurrezionale che si nutre di rapine per il finanziamento, di truffe internazionali e contrabbando per l’approvvigionamento di armi, di tentativi lottarmatisti, gruppi di combattimento e granate nelle strade.

Ma all’impossibilità di tenere il confronto armato con gli apparati dell’impero zarista, si rende necessario uno spostamento ulteriore, con un non pacifico smantellamento dell’apparato militare prima che esso inghiotta l’intero partito in una spirale senza uscita. La direzione del processo deve rimanere sempre dell’elemento politico, anche quando questo tenga in mano una pistola.
È qui che Lenin imprime una nuova mutazione alla sua struttura: un partito fluido, rizomatico direbbe qualcuno, che al tradizionale centralismo bolscevico innesta una molteplicità di centri operativi indipendenti che portino avanti il lavoro sul campo, e che alla monolitica struttura-partito preferisce l’infiltrazione nelle forme legali e associative della società, per operare tramite queste un’egemonia politica sul tessuto sociale.
Un bolscevismo poco attenzionato dalla tradizione che però traghetta il partito fino al ‘17, alla resa dei conti finale col nemico storico. L’ultimo livello della sfida.

A fare questa breve cavalcata, è subito evidente una cosa: la coerenza delle forme è roba da neofiti.
Il militante bolscevico si è trovato a cambiare pelle più e più volte, ora scrittore ora agitatore politico, ora sindacalista, ora bandito e dinamitardo; così come alla sua comunità politica è chiesto un perpetuo sforzo di adattamento ed aggiornamento del sistema operativo. Anche a costo di una continua frammentazione dei rapporti personali e organizzativi, e quindi ad un costante riperimetrare il campo della propria amicizia politica. Bisogna prima dividersi, delinearsi, per poi potersi unire.

La coerenza delle forme, siano esse quelle dell’organizzazione o quelle dell’ideologia, finiscono sempre per essere pensiero autocentrato, che antepone il proprio sguardo alla realtà materiale, di fatto scollandosi da essa e diventando inutile orpello o strumento di affermazione personale.
Quella leniniana è invece dottrina di combattimento, e in quanto tale, non può mai prescindere dall’analisi concreta del campo di battaglia.
Se coerenza c’è, essa è tutta interna al rapporto dialettico tra tattica e strategia. Vero asse centrale dell’agire politico. Si preserva la rigidità strategica, perché l’obbiettivo è uno solo ed è indifferibile: l’instaurazione del comunismo da parte del proletariato attraverso le sue avanguardie organizzate. Stante questo assunto si può mantenere la flessibilità tattica per cui ad ogni passaggio di fase, come si rimodula il capitale, così corrisponde un adeguato riposizionamento della forza antagonista e delle sue pratiche.

Lenin prendeva ciò che gli serviva quando gli serviva. Ma per riporlo in una cassetta degli attrezzi dagli scomparti ben ordinati. A costituire la griglia immutabile attraverso cui il bolscevismo filtra, scompone e metabolizza ogni altro elemento, sono: la lotta come esperienza diretta, immediata che – assai più delle acquisizioni teoriche – determina la crescita politica, organizzativa, addirittura morale dei soggetti coinvolti; la profonda consapevolezza di come la lotta pratica non sia mai fine a sé stessa, ma sia fonte primaria di teoria, così come non si dà teoria che non si traduca immediatamente in pratica; l’enfasi su di una nuova figura di militante, che unisce in sé le capacità teoriche dell’intelligent e la determinazine pratica del proletario. Infine tutti questi elementi trovano la propria sintesi nell’organizzazione, pietra filosofale del leninismo e manifestazione sensibile di quell’universale istinto alla partiticità (partijnost’) che si configura come una vera e propria grazia laica.”1

Uno schema da tenere a mente, tanto più in quest’oggi che la guerra, con lo spettro della sua deflagrazione totale, torna a soffiare in Europa.
L’adagio leniniano del trasformare la guerra imperialista in guerra civile è ritornato di moda tra un certo antagonismo sempre a caccia di slogan, pure se non si sa bene chi, cosa e come dovrebbe operare questa mutazione bellica.
Guardare a Zimmerwald, cioè guardare a una politica che, innanzi alla sfida della guerra mondiale, della pace e del sentimento umanitario sostanzialmente se ne infischia e pone all’ordine del giorno ancora una volta il qui e ora della frattura rivoluzionaria, aiuta a smarcarsi da certe ingenuità pacifiste e dall’assorbimento in campo nemico (che è sempre quello che ci tiene direttamente il piede sul collo) e stabilisce, come sua consuetudine, che “non importa cosa soggettivamente pensi di stare facendo, ma negli interessi di chi stai oggettivamente operando; e guai se i due parametri non collimano”.2
Insieme al piccolo uomo dagli occhi di tataro siamo di nuovo di fronte al Moloch del capitale nella sua fase suprema, quella dell’imperialismo, pronta a scatenare tutta la sua furia (auto)distruttiva. Ma siamo orfani di una parte collettiva in grado di far sentire la sua voce, orfani di sodalizi davvero in grado in rompere questo frame, schegge sparse tra derive, resistenze e tentativi generosi.

Un compagno, parlando della situazione attuale, mostrava con rammarico il timore “di essere di nuovo in ritardo, e di non poter essere più in tempo ora che la Storia ha ricominciato a correre veloce”.
Non un timore infondato insomma, ma Lenin mostra come non esista un tempo giusto per il rivoluzionario, solo tempi diversi in cui agire diversamente, con l’occhio sempre all’obbiettivo.
Esistono momenti di ritirata, altri d’assedio, altri ancora di attacco. Ma il tempo giusto, in ultima istanza, sono volontà e intelligenza a determinarlo.
Non esiste fraseologia che tenga, è solo il metodo a contare davvero; l’uomo Lenin dorme in una teca di vetro, ed è giusto che sia lì a riposo, a noi servono gli strumenti del suo laboratorio, non le spoglie. Quegli echi che attraversano un secolo, non arrivano a noi per essere soggetti a condanna o celebrazione, ma perché siano ascoltati e reinterpretati, lingue nuove alimentate di grammatica antica. Il passato è per il rivoluzionario materia viva.
La condizione oggettiva non serve a niente senza una volontà soggettiva di rovesciamento. Né esiste un sentiero su cui camminare verso il Sol dell’Avvenire, abbiamo solo catene di istanti da far deflagrare, anello dopo anello, finché tutto il continuum non vada in frantumi.


  1. Carpi Guido, Lenin. Verso la rivoluzione d’ottobre (1905-1917), Stilo editore, Bari, 2021, p. 8 

  2. Ivi, p.10 

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