operaismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Immagini di classe. Produzione artistica, operaismo, autonomia e femminismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/27/immagini-di-classe-produzione-artistica-operaismo-autonomia-e-femminismo/ Tue, 27 Feb 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80892 di Gioacchino Toni

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00

In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.

Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa [...]]]> di Gioacchino Toni

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00

In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.

Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa in rassegna la produzione del Gruppo N, collettivo artistico che, riprendendo il primo operaismo, intese ripensare il rapporto tra tecnologia, arte e lavoro, per poi dedicare un capitolo all’influenza esercitata dall’operaismo sull’architettura facendo riferimento in particolare al collettivo fiorentino Archizoom nato a metà degli anni Sessanta.

Nel volume trova spazio la ricostruzione del dibattito che attraversa “Angelus Novus” e “Contropiano” circa le avanguardie storiche, il ruolo degli intellettuali e dell’architettura moderna, vengono riprese le riflessioni a proposito del rapporto tra architettura, urbanistica e politica prodotte da Manfredo Tafuri insieme al suo gruppo di ricerca nel corso degli anni Settanta ed esaminato, a partire dalla figura di Danilo Montaldi, il rapporto tra la pratica della “conricerca” e l’universo culturale e artistico.

Ad essere passate in rassegna da Galimberti sono, inoltre, alcune produzioni realizzate con media diversi appositamente per Potere operaio e i materiali a sostegno della Campagna per il salario al lavoro domestico prodotti dal Gruppo Femminista Immagine di Varese, nato attorno alla metà degli anni Settanta.

L’ultima parte del volume è dedicata alla grafica delle riviste e delle fanzine dell’area autonoma, in particolare alla ripresa delle avanguardie storiche nelle strategie comunicative del movimento del ’77, per poi concludersi con l’analisi di alcune opere realizzate durante e dopo gli arresti del 1979 da parte di artisti legati all’operaismo e all’autonomia.

Immagini di classe intende dunque ricostruire un legame, quello tra esperienze politiche radicali e riflessione/produzione artistica, scarsamente approfondito: le ricostruzioni di quell’assalto al cielo portato dalla stagione dei movimenti, che pure non sono mancate, hanno spesso affrontato i due ambiti in maniera disgiunta.

Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla produzione del Gruppo Femminista Immagine di Varese, fondato nel 1974 da Milli Gandini, Mariuccia Secol e Mirella Tognola, a sostegno dell’International Wages for Housework Campaign portata avanti da femministe materialiste, alcune delle quali passate dall’esperienza di Potere operaio, come Mariarosa Dalla Costa.

Galimberti analizza in apertura di capitolo il manifesto del Convegno nazionale tenutosi a Roma il 29 aprile 1978 volto a lanciare la Campagna per il salario al lavoro domestico realizzato dalle componenti del Gruppo Immagine che, riprendendo una delle questioni centrali del network internazionale femminista – ben sintetizzata dalla frase «Col capitalismo cominciò lo sfruttamento più intenso della donna come donna e la possibilità alla fine della sua liberazione» di Mariarosa Dalla Costa e Selma James (Potere femminile e sovversione sociale, 1972) – recitava: «Soldi a tutte le donne», a suggerire da un lato «fino a che punto l’identità sociale delle donne fosse irretita nell’economia di mercato» mentre allo stesso tempo il manifesto graficamente ribadiva «la necessità di sviluppare un’azione politica di massa che saldasse chi riceveva un salario e le casalinghe, il cui lavoro era invece […] “demercificato”» (p. 246).

Betty Friedan (The Feminine Mystique, 1963) – ripresa successivamente da Leopoldina Fortunati (L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, 1981), altra ex militante di Potere operaio –, aveva evidenziato come l’ideologia della “mistica femminile” avesse contribuito a privare il lavoro domestico della sua dimensione economica legittimando così l’assenza di una sua retribuzione. Il manifesto prodotto dal gruppo intendeva dare immagine a questa oscillazione tra economia e natura in un contesto come quello italiano che negli anni Sessanta e Settanta, non di rado persino all’interno di formazioni politiche radicali, tendeva a considerare il lavoro riproduttivo alla stregua di una “vocazione femminile per natura” ricompensata con “l’affetto e l’amore”.

La forma sinuosa del corteo [proposta dal manifesto del Gruppo Immagine] rimandava infatti a un motivo classico che simboleggiava la prosperità: la cornucopia, un corno, spesso associato a una figura muliebre, da cui traboccano monete o alimenti che sono il frutto “del lavoro della natura”, per così dire. Questa scelta iconografica faceva sì che il poster del gruppo riuscisse a tradurre in termini visivi quello che Fortunati aveva definito come la doppia natura del lavoro domestico e del lavoro di cura: per l’ideologia capitalista, essi erano una “naturale” fonte di ricchezza e benessere, ma dal punto di vista delle “operaie della casa”, la forza-lavoro necessaria per svolgere queste mansioni era una merce e doveva essere retribuita come tale (247).

Con una personale tenuta a Roma nel 1975 dal titolo La mamma è uscita, Milli Gandini, una delle fondatrici del Gruppo Immagine, intese rispondere all’invito ad “uscire di casa” rivolto alle donne da Dalla Costa e James. Mossa dalla volontà di presentare momenti di «creatività del rifiuto del lavoro domestico», attraverso arazzi realizzati con una trama molto larga e scarsamente ricamati, Gandini intendeva palesare il rifiuto di quanto questi avevano storicamente rappresentato per le donne, ossia «tanto lavoro manuale da eseguire ripetitivamente con punti piccolissimi» («Le operaie della casa», novembre 1975 – febbraio 1976). La tecnica del punto croce veniva dunque sovvertita e trasformata in qualcosa di volutamente grossolano intendendo così rifiutare l’abnegazione ad un lavoro ripetitivo, alienante e non retribuito. Nella stessa mostra l’artista aveva voluto esporre anche utensili domestici, trasformati dal processo di ricontestualizzazione artistico in esempi di “rifiuto del lavoro” femminile.

Attraverso le sue realizzazioni Gandini ambiva inoltre a contribuire a quell’opera di controinformazione femminista portata avanti a metà degli anni Settanta dalle militanti della Campagna per il salario al lavoro domestico anche attraverso nuove forme di controinformazione visiva.

Galimberti ricostruisce inoltre le modalità con cui politica ed estetica si sono intersecate all’interno del gruppo femminista promotore della Campagna per il salario al lavoro domestico, focalizzandosi soprattutto sul discorso estetico sviluppato da militanti italiane come Laura Morato e Silvia Federici. Di quest’ultima, trasferitasi negli Stati Uniti nel 1967, lo studioso analizza le illustrazioni – in buona parte stampe del XVI e XVII secolo – scelte per il volume pubblicato in lingua inglese ad inizio del nuovo millennio Caliban and the Witch (2004) – in cui la militante aveva ripreso e ampliato un lavoro svolto con Fortunati a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta –, sottolineando come in tale apparato iconografico Federici intendesse proporre un uso innovativo delle illustrazioni nei testi di teoria politica.

Ad essere esaminato dallo studioso è anche il grande telo realizzato nel 1976 dal Gruppo Immagine e steso dietro al palco di un evento napoletano nell’ambito della Campagna per il salario al lavoro domestico, in cui erano state cucite con effetto filigrana in latino le Litanie della Beata Vergine Maria, figura modello di femminilità e maternità nell’Italia cattolica dell’epoca. A fare da controcanto al contenuto religioso era stata riportata in evidenza la scritta “Anche l’amore è lavoro domestico”, a sottolineare, così come avrà modo di argomentare Giovanna Franca Dalla Costa (Un lavoro d’amore: la violenza fisica componente essenziale del “trattamento” maschile nei confronti delle donne, 1978), come

il capitalismo [avesse] sostenuto l’ideologia dell’amore coniugale e, parallelamente, la stigmatizzazione delle sex workers proprio per imporre uno specifico modello di famiglia e legittimare, pertanto, il lavoro femminile non retribuito. Lo stupro e la violenza maschile non erano, quindi, eventi tragici e isolati, ma piuttosto misure standard che, in nome dell’ordine economico, i mariti mettevano in atto per garantirsi l’asservimento delle compagne (p. 259).

A Mariuccia Secol si devono grandi arazzi raffiguranti figure femminili astratte in cui a materiali nobili e pratiche complesse si alternano interventi poveri e grossolani al fine di criticare «l’immagine della casalinga virtuosa e compiaciuta della propria abilità nei lavori» (p. 260).

La questione della creatività femminile è stata posta la centro dell’incontro milanese Donne Arte Società tenutosi nel 1978 in un clima politico e sociale particolarmente teso. In quell’occasione le donne del Gruppo Immagine presentarono un documento – accesamente criticato da diverse partecipanti – con cui, rivedendo in maniera critica il tipo di militanza assunto negli anni precedenti, intendevano rivendicare il diritto a una pratica artistica più individuale e autoreferenziale e meno subordinata all’universo politico esistente.

Alla Biennale veneziana del 1978 intitolata Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, il Gruppo Immagine prospettò un riformulazione della dualità natura/arte intendendo, sostiene Galimberti, contrastare l’idea che le donne potessero “rappresentare la natura”, come a lungo sostenuto da diversi artisti maschi. Il Gruppo guardò criticamente anche all’ambito architettonico denunciando quanto la progettazione delle abitazioni avesse storicamente contribuito a limitare l’indipendenza delle donne e prospettando forme architettoniche alternative ed emancipative.

Il ritorno all’ordine che si diffuse in Italia sul finire degli anni Settanta comportò la fine tanto della Campagna per il salario al lavoro domestico quanto dello spirito militante e collettivo che aveva animato il Gruppo Immagine. Gli anni Ottanta sancirono una svolta tanto nella militanza politica quanto nella pratica artistica delle donne che condusse all’aprirsi un nuova e differente stagione.

]]>
E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/13/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-3/ Sun, 13 Aug 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77119 di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le [...]]]> di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le fa regredire ma come linea politica tutta interna al piano del capitale . Esattamente in questo passaggio si situa gran parte della ricchezza prima teorica e analitica e poi organizzativa del giornale. Il riformismo è osservato e identificato come progetto e strategia tutta interna al capitale, come suo centrale modello di sviluppo e principale governo della forza lavoro.

Se Lenin aveva identificato il riformismo come la borghesia dentro il movimento operaio, l’operaismo de “La classe” identifica il riformismo come parte costitutiva e costituente del piano del capitale , tutto questo sulla scia di quanto messo a punto nel lavorio teorico delle esperienze precedenti ma, soprattutto, grazie anche alle esperienze poste in atto dalle lotte operaie in aperta rottura con partito e sindacato. Qualche anno dopo, avendo a mente il ruolo del PCI e del sindacato nelle vicende degli anni settanta, tutto ciò potrà sembrare come la scoperta dell’acqua calda ma, negli anni sessanta, questo è un passaggio teorico di grandissima portata poiché, per la prima volta, ascrive il riformismo alla strategia materiale del capitale1. Mentre i gruppi critici, ma ortodossi, pongono l’accento sul revisionismo del movimento operaio ufficiale, “La classe” e tutte le aree teoriche e politiche a questa contigua focalizzano l’attenzione proprio sul riformismo; per gli ortodossi, infatti, la colpa del movimento operaio ufficiale è quella di aver abbandonato la dottrina e aver introdotto una nuova liturgia poco attenta al verbo presente nei testi sacri. A partire da questi presupposti, pertanto, il riformismo diventerebbe solo la conseguenza fenomenologica di una revisione ideologica e non una pratica del tutto interna al piano del capitale. In ciò che “La classe” elabora vi è, invece, un decisivo passaggio qualitativo dentro la ritraduzione di Lenin. Una ritraduzione che va sicuramente oltre Lenin poiché sviluppa un’analisi del riformismo a partire dai processi materiali interni al ciclo di accumulazione capitalista. Il merito enorme de “La classe”, e dell’operaismo in generale, o almeno di questo operaismo, è quello di aver letto il riformismo dentro la fabbrica e averlo osservato come motore principale del processo produttivo e del suo sviluppo.

“La classe” va oltre Lenin perché il capitale è andato oltre la forma fenomenica conosciuta da Lenin il quale, per forza di cose, non poteva certo fare i conti con l’epopea dello stato–piano2 e di tutto ciò che questo ha comportato. La critica di Lenin al riformismo è una critica tutta politica nel senso che a incarnare il riformismo sono quegli strati, la cosiddetta aristocrazia operaia, che dentro il sistema capitalista hanno trovato una sistemazione sostanzialmente confortevole poiché possono usufruire di una quota del surplus di profitto che il proprio imperialismo rastrella in giro per il mondo. In questo senso il riformismo può essere considerato come una tattica del capitale non una strategia ovvero una alleanza tra classi che condividono alcuni interessi in comune e, soprattutto, hanno il medesimo nemico: lo spettro comunista. In questa alleanza, tuttavia, i ruoli rimangono ben distinti.
Diverso, invece, il ruolo che il riformismo inizia a ricoprire nel nuovo ciclo di accumulazione: qui il riformismo si fa strategia del capitale poiché sua preoccupazione essenziale è il governo della forza lavoro e la totale compatibilità di questa con il ciclo produttivo. Con ciò il sindacato e gli istituti del movimento operaio diventano, da mediatori della forza lavoro, gestori e controllori di questa, ma non solo: gli istituti del movimento operaio ufficiale diventano parte integrante del piano. Se l’aristocrazia operaia di Lenin era quella forza deputata, di fronte all’attacco operaio, a puntellare il sistema capitalista, oggi questa, che più sensatamente inizierà a essere individuata come destra operaia, è chiamata a gestire il piano dell’accumulazione e lo scontro con questa, per tanto non potrà che essere una battaglia all’ultimo sangue perché in palio vi è la sopravvivenza o meno del capitalismo e non per caso, le lotte operaie, troveranno davanti a sé, ancora prima che padroni e polizia, gli istituti del movimento operaio ufficiale.

Quando, negli anni settanta, il riformismo svolgerà appieno il ruolo di nuova polizia, non farà altro che completare, entrando a pieno titolo negli apparati della statualità, quel percorso iniziato negli anni sessanta che lo vedeva tutto interno alla materialità del piano del capitale. Questo passaggio è centrale nell’elaborazione de “La classe” e non si tratta certo di cosa di poco conto ma, per molti versi, si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana. È vero Lenin, sin dalla pubblicazione del Che fare? aveva individuato nell’economicismo la politica borghese dentro la classe operaia ma in ciò che viene messo a registro adesso vi è qualcosa di diverso. Qui non si tratta più di leggere una politica borghese che viene portata dentro la classe per limitarne prima e annichilire poi le sue prospettive politiche rivoluzionarie ma di una lettura, tutta materialistica, delle trasformazioni intervenute dentro al capitale. La critica de “La classe” agli istituti del movimento operaio ufficiale ha ben poco di “ideologico” e/o di “politico” ma affonda le sue radici dentro i processi materiali del capitalismo. Parafrasando Marx si può dire che è una critica che non nasce nel cielo delle idee bensì dentro gli inferi della fabbrica. Ma questo cosa significa? Perché ciò rappresenta sia una svolta che manda in frantumi tutto il politicismo proprio del PCI e dei suoi critici e, per altro verso, riporta Lenin dentro la classe operaia? Perché in questo passaggio riaffiora prepotentemente l’attualità della rivoluzione? Non sono certo domande di poco conto alle quali occorre cercare di offrire qualche risposta.

Intanto, per prima cosa, significa riprendere tra le mani la teoria marxiana in quanto critica dell’economia politica. Il punto di partenza della teoria marxiana, il suo cantiere elaborativo è l’inferno di Manchester, non il mondo celestiale della politica ma il sordido rumore delle macchine capitaliste. Quell’inferno, che sembra essere circoscritto alla sola Manchester, segnerà tutto il mondo a seguire. Ciò che Marx osserva, attorniato dallo scetticismo dei più, è il processo materiale che in quel luogo si sta evolvendo e che darà il la al mercato mondiale. Questo è il punto più alto dello sviluppo e questo segnerà, piegandolo a sé, i destini del mondo. Ma Marx non si limita a ciò poiché, insieme all’economia politica, cosa che lo accomunerebbe ai tanti economisti dell’epoca, focalizza lo sguardo sul soggetto deputato a rivestire i panni della critica alla economia politica.

Contro la scienza degli economisti Marx mette a punto la scienza operaia. Questa è la scienza delle lotte ed è una cultura che affonda le sue radici dentro la costituzione materiale che il ciclo dell’accumulazione impone. Il giornale “La classe” si colloca esattamente dentro questa scia dove non gli equilibri di governo, non le schermaglie parlamentari e tanto meno le percentuali elettorali e le rappresentanze effimere che stabiliscono, hanno importanza ma le lotte, la quantità e la qualità di forza che queste sono in grado esercitare. Centrale è il punto di vista operaio e non un punto di vista dal sapore sociologico come piace registrare ai cani da guardia della borghesia, ma il punto di vista politico degli operai, quello, cioè, che si manifesta solo dentro le lotte autonome e qui, allora, vi è per intero la ritraduzione di Lenin da parte de “La classe”. Sulle lotte, di fabbrica e di strada, Lenin aveva costruito il partito dell’insurrezione, sulle lotte di fabbrica del presente e il loro riversarsi nei quartieri proletari va costruita l’organizzazione operaia. Ma non si pone, allora, nuovamente l’attualità della rivoluzione e non occorre forse comprendere in che modo questa attualità si presenta? Questo è ciò che sta al centro e al cuore dell’esperienza de “La classe”.

Certo questo non è la scoperta di qualche intellettuale, non è la teoria messa a punto da un ceto politico particolarmente arguto bensì la sintesi concettuale di ciò che una prassi di massa ha ormai evidenziato. Le avanguardie, il ceto politico–intellettuale non si inventano nulla ma decodificano, sostanziano e rielaborano ciò che la lotta di massa ha già, e non più solo come tendenza, posto in atto. La crisi del PCI e del sindacato in fabbrica non è altro che l’espressione fenomenica della lotta operaia. Ai rappresentanti del lavoro salariato gli operai contrappongono il rifiuto del lavoro salariato. Questo fa saltare il banco del riformismo. “La classe” si limita a registrare prima e a rilanciare poi, attraverso una attenta elaborazione teorica, ciò che dalle masse è stato conquistato. È sicuramente un Lenin inaspettato e anomalo quello che prende forma dalle pagine di questo giornale, ma è anche l’unico Lenin possibile: è di nuovo l’attualità della rivoluzione, la riscoperta e la riappropriazione del tempo della rivoluzione contro i ritmi e i tempi del capitale.

Il tempo operaio è il tempo non declinato sulla produzione ma sulla lotta; è il tempo della soggettività di classe contrapposto al tempo oggettivista della produzione. Il sabotaggio si contrappone ai ritmi produttivi, lo sciopero a gatto selvaggio è il modo migliore per ottenere il massimo dalla lotta con il minimo sforzo e bloccare la produzione impiegando, volta per volta, modesti plotoni operai; una rivisitazione, a conti fatti, della guerra del deserto all’interno della macchina capitalista3.

Lo sciopero improvviso di un solo comparto della fabbrica, che blocca, però, per intero il ciclo di assemblaggio della merce, equivale a quelle mille punture di insetto attraverso le quali un piccolo esercito guerrigliero è in grado di piegare e far implodere anche il più poderoso degli eserciti statuali. Allo stesso tempo l’agguato ai capi, lo spazzare via i reparti con improvvisati cortei mascherati e illegali è un modo per liberare e appropriarsi di pezzi di territorio dentro la fabbrica negando a spie, ruffiani e crumiri un qualunque diritto di cittadinanza. Questa è la guerra che ormai si va delineando dentro la fabbrica e che sancisce l’esistenza di un dualismo di potere.

Dualismo di potere, appunto, non lotta sindacale ancorché particolarmente aspra, scontro tutto politico non economico o economicista come, con fare saccente, lo definiscono le varie anime della ortodossia comunista allineandosi in tutto e per tutto al PCI. Gli operai non liberano la fabbrica, non si impossessano della produzione ma, sabotando il lavoro, si riappropriano del tempo, ma liberare il tempo dalla produzione non era stata una delle principali indicazioni di Marx sin dal periodo dei Manoscritti?4. Questo il perimetro della guerra che si va delineano tra classe operaia e comando capitalista, non il mito neo-resistenziale tutto declinato nell’immaginario del passato, ma la guerra dentro il presente incarnato dalla fabbrica fordista ed è esattamente qui che Lenin va ritradotto e attualizzato. Ma il riappropriarsi della teoria leniniana non si limita a ciò. Torniamo quindi a Lenin, a osservarne le peculiarità e la sua nuova traduzione che le lotte operaie impongono.

Al centro della sua teoria politica vi è la relazione indissolubile tra politica e guerra5, tanto che non è certo un caso che Clausewitz sia uno degli autori da lui maggiormente studiati, la cui conseguenza pratica immediata è la relazione indissolubile tra legalità e illegalità. Due aspetti che non possono che essere costantemente complementari. Mentre per la socialdemocrazia occidentale legalità e illegalità rimandano a momenti e a contesti del tutto incommensurabili per Lenin, che comprende sino in fondo come la guerra sia compresa nella politica, legalità e illegalità sono due aspetti sempre attuali e presenti. Centrale nel conflitto di classe è comunque e sempre la questione della forza.

Ma la forza, aspetto centrale della modernità, è diventata monopolio dello stato6. Solo lo stato è legittimato a detenerla e usarla ma lo stato è quella macchina burocratica e militare deputata a esercitare e garantire una dominazione di classe, la forza, quindi, non può che essere appannaggio della borghesia mentre la forza operaia non può che darsi come forza illegittima ed esprimersi solo attraverso l’illegalità. Dentro lo stato borghese la classe operaia deve essere forzatamente disarmata, ma una classe disarmata non può esercitare alcuna forza, non occorre il rasoio di Occam per comprenderlo.

Su ciò Lenin è estremamente chiaro e, in piena coerenza, considera l’armamento operaio aspetto permanente dell’organizzazione rivoluzionaria. Non si tratta di una particolare propensione di Lenin per il militarismo, ma dello scontato riconoscimento che così come non vi è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, non vi è organizzazione operaia senza forza operaia.
Per Lenin, e non per caso abbiamo ricordato il debito da lui contratto con Clausewitz, il militare è sempre compreso nel politico, ne è aspetto costitutivo e costituente il quale non subentra al posto del politico e non ne è neppure l’aspetto anomalo e indesiderato bensì un suo tratto ineludibile, ma se ciò è vero, e lo è, ne vanno tratte le ovvie conseguenze.

In un contesto in cui la forza è sottoposta a regime di monopolio o si rinuncia al conflitto o ci si adopera per edificare la propria forza. Certo la forza non può che essere costantemente posta sotto il controllo del politico e modellarsi alle fasi del conflitto, ma deve esistere sempre, essere sempre presente e, per le obiettive caratteristiche che incarna, godere anche di un certo grado di autonomia. La presenza di un apparato militare è una costante della teoria politica leniniana che solo la deriva socialdemocratica e riformista a cui è approdato il movimento operaio ufficiale in occidente ha posto prima tra parentesi e poi in archivio.

Il dibattito sulla forza entra prepotentemente nel dibattito de “La classe” e con ciò l’esperienza di questo giornale compie un salto politico non secondario rispetto a tutto ciò che è venuto prima. Lo compie perché al centro della sua iniziativa, a differenza di gran parte di quanto l’ha preceduto, costante è la questione dell’organizzazione complessiva degli operai in funzione dello scontro con lo stato. Certo, col senno di poi, si potranno anche fare mille obiezioni ai tentativi messi in atto da “La classe”, ma ciò che dobbiamo tenere costantemente a mente è il periodo in cui questi tentativi si danno e il vuoto politico in cui questa sperimentazione si dà. Dobbiamo infatti avere ben a mente che questa generazione di operai e comunisti alle spalle non ha alcuna esperienza tranne il mito resistenziale mutuato velocemente in democraticismo e parlamentarismo opportunista e imbelle. La stessa radicalità operaia manifestatasi nel ’607 e nel ’628 si è trovata di fronte il muro del partito e del sindacato che l’hanno tacciata di estremismo, teppismo e persino fascismo. Dietro di sé questa generazione operaia e comunista non ha alcuna tradizione dalla quale attingere. Ma ritorniamo a occuparci della questione della forza.

Le lotte operaie stanno ponendo, ogni giorno che passa, all’attenzione dei comunisti la questione della forza e “La classe” ha indubbiamente il merito di non eludere il problema ma di affrontarlo di petto. Lo fa, occorre riconoscerlo, anche con una certa ingenuità, ma questo più che essere il frutto di limiti e incapacità è la triste testimonianza di come tutta una generazione di operai e comunisti si sia trovata, e non certo per colpa propria, del tutto impreparata ad affrontare passaggi centrali del conflitto di classe. Proprio questi limiti testimoniano l’infausto ruolo giocato per anni dal movimento operaio ufficiale che si era speso non poco per imporre che la questione della forza dovesse essere considerata ormai del tutto estranea alle esigenze della classe operaia soprattutto come strumento offensivo. È vero l’uso della forza non è ipotesi del tutto estranea al movimento operaio ufficiale, ma lo è nella sua accezione difensiva tutta ripiegata in chiave antifascista e anti golpista. Qui si aprono una serie di questioni che meritano di essere trattate senza fretta.

Intanto, anche seguendo il filo del discorso dei riformisti, viene da chiedersi come sia concretamente possibile fare ricorso alla forza se questa forza non esiste. In che modo, cioè, la classe operaia potrebbe, in caso di golpe fascista o svolta apertamente autoritaria, armarsi e combattere se alle sue spalle non vi è alcun apparato militare minimamente attivo e preparato, ma non solo. O gli operai nascono, per patrimonio genetico, militarmente già formati, oppure asserire che di fronte alla minaccia fascista e golpista si combatterà è solo una boutade o, aspetto tipico dell’opportunismo, passare repentinamente dal legalitarismo all’avventurismo tout court con tutte le ricadute del caso.

Immaginiamo, anche solo per un momento, che di fronte a un golpe vengano distribuite le armi agli operai ora, ammesso e non concesso che queste armi da qualche parte esistano, pensiamo a un qualunque operaio che all’improvviso si ritrovi tra le mani un mitra, cosa ne fa? Immaginiamolo alle prese con il tiro a raffica, è pensabile che sia in grado di farlo con un minimo di dimestichezza? Non occorre dare una risposta. Una simile ipotesi non può che condurre al massacro cosa che, del resto, è proprio dell’opportunismo che precipita velocemente nell’avventurismo.

Qui occorre rilevare la reiterazione di un vizio originario del movimento operaio e comunista italiano e più in generale occidentale, un vizio che possiamo tranquillamente far risalire, per quanto concerne l’Italia, almeno al biennio rosso prima e alla vittoria del fascismo dopo. Di fronte all’offensiva operaia seguita alla guerra e alla tendenza insurrezionale che questa si portava dietro, nessuna delle forze politiche della sinistra, all’epoca ancora legate al PSI e che successivamente daranno vita al PCd’I, si pose minimamente sul terreno della guerra civile e, invece di organizzare l’attacco alla macchina statuale, non riuscirono ad andare oltre la gestione della fabbrica capitalista9.

Nel momento in cui si era reso necessario passare dalle armi della critica alla critica con le armi nessuno si mostrò minimamente preparato e tanto meno intenzionato a farlo. La questione militare, che per Lenin era sempre stata aspetto ineludibile dell’agire di partito, era del tutto estranea anche tra coloro che si professavano interni al marxismo rivoluzionario. Non diversamente da quelli tedeschi, i rivoluzionari italiani si mostravano quanto mai distanti da Lenin poiché la guerra, andando al sodo, continuava a essere considerata come momento anomalo della politica e non suo aspetto costituente, un errore concettuale tipico di tutto il socialismo europeo. Su questi presupposti è ovvio che nessuno si mostrasse non solo pronto alla battaglia, ma che non fosse neppure in grado di raccogliere le tensioni insurrezionali provenienti dalla lotta operaia. Se c’è un momento in cui il distacco della presunta avanguardia dalle masse assume tratti al limite del grottesco è esattamente questo. Se possibile le cose andarono ancora peggio di fronte all’incalzare del fascismo.

Non si può certo dire, come tutte le esperienze degli Arditi del popolo10 sono lì a testimoniare, che non vi fu resistenza di massa al fascismo, ma fu una resistenza che non trovò alcuna sponda politica e del resto, come ricorda nelle sue memorie Bruno Fortichiari11, responsabile del settore militare del PCd’I, l’arsenale del partito nel 1922 contava tre revolver, mentre il suo apparato militare era formato da qualche gruppo di giovanotti che si cimentava in scampagnate tra le montagne.

Tutto ciò a palese dimostrazione di come, indipendentemente dalle dichiarazioni di principio, nel nostro paese i tratti del partito dell’insurrezione difficilmente riuscivano a andare oltre i perimetri della carta stampata e delle frasi fatte, insomma tutto chiacchiere e stemma di partito. Questo lo scenario di fondo al quale, però, si aggiungono anche altri elementi i quali, se possibile, peggiorano ancor più la situazione e finiscono con il fare tabula rasa intorno a qualunque ipotesi insurrezionale. Se, nella tradizione del movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza era stato un enunciato al quale non era mai stato data concretezza, l’assunzione della guerra di posizione come sola e unica cornice politica possibile in un paese a capitalismo avanzato12, pone una pietra tombale sul marxiano passaggio dalle armi della critica alla critica con le armi. Assumere la dimensione della guerra di posizione non significa solo mettere da parte la rivoluzione, ma riconoscere per intero la democrazia borghese e parlamentare come cornice politica della classe operaia e, sulla scia di ciò, per il movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza diventa legittimo solo di fronte a un atto illegittimo della borghesia. La forza, il che ha qualcosa di paradossale, può e deve essere utilizzata solo per ripristinare la legalità borghese nel caso questa, o alcune sue frange, si adoperassero per sopprimerla. La forza è legittima solo in funzione antifascista.

(3 – continua)


  1. Al proposito si veda, G., Trotta, F., Milana, a cura di, L’operaismo degli anni sessanta. Da Quaderni rossi a Classe operaia, Derive Approdi, Roma 2008.  

  2. Cfr. A., Negri, Crisi dello stato piano, organizzazione, comunismo, in Id. I libri del rogo, cit.  

  3. Il riferimento è alla tattica guerrigliera utilizzata dai guerriglieri arabi contro l’esercito ottomano nel corso della prima guerra mondiale, Th. E., Lawrence, Rivolta nel deserto, Il Saggiatore, Milano 2010.  

  4. K., Marx, Manoscritti economico–filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968.  

  5. V. I., Lenin, Note al libro di Von Clausewitz: sulla guerra e la condotta della guerra, Edizioni del Maquis, Milano 1970.  

  6. M., Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2006.  

  7. Sulla retorica predominante sui fatti di Genova è quanto mai significativo il testo di A., Paloscia, Al tempo di Tambroni. Genova 1960. La Costituzione salvata dai ragazzi in maglietta a strisce, Mursia, Milano 2010. Per una narrazione decisamente controcorrente e incentrata sul portato che la nuova composizione di classe ha avuto in quegli eventi si veda, A., Dal Lago, E., Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003.  

  8. Sui fatti di piazza Statuto si vedano, C., Bolognini, Quelli di piazza Statuto, Agenzia X, Milano 2019; D., Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto. Torino luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979.  

  9. Su ciò si veda, in particolare, P., Spriano, L’Ordine nuovo e i Consigli di fabbrica. Con una scelta di testi dell’Ordine nuovo (1919–1920), Einaudi, Torino 1971.  

  10. La pubblicistica sugli Arditi del popolo è immensa, tra questa uno dei testi maggiormente esauriente è sicuramente il lavoro di E., Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917–1922), Odradek, Roma 2000.  

  11. Al proposito si veda, AA. VV. Bruno Fortichiari. In memoria di uno dei fondatori del PCd’I, Edizioni Lotta comunista, Milano 2020.  

  12. A., Gramsci, Note su Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1991.  

]]>
E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/07/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-1/ Sat, 22 Jul 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76714 di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia [...]]]> di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia di storici che, delle vicende dell’altro movimento operaio degli anni ’60 e ’70, hanno fatto il loro ambito di ricerca. Pattuglia più che meritevole poiché, grazie a questa, sono stati confezionati una serie di lavori che hanno ben ricostruito sia gli albori delle lotte operaie e proletarie degli anni sessanta e primi settanta insieme a quel multiforme filone teorico che è stato l’operaismo, sia ciò che da questo ceppo ha preso vita. Lavori di notevole interesse e spessore che hanno contribuito non poco a restituire un minimo di obiettività storica all’insieme di quelle vicende che l’ordine del discorso dominante aveva decretato innominabili arrivando a bruciare sul rogo parte dei testi che di quella stagione erano stati elementi teorici e politici non secondari1.

Rispetto all’insieme di questi lavori il testo presente non ha nulla da aggiungere, semmai è interessato a focalizzarne alcuni aspetti. Si può, più o meno, concordare o dissentire con alcune interpretazioni come, ad esempio, l’eccessiva enfatizzazione attribuita a questa o quella rivista ignorando, e non si tratta proprio di cosa di poco conto, come in non pochi casi il corpo militante e le avanguardie si mostrarono non uno, ma molti passi indietro rispetto al movimento reale e, diretta conseguenza di ciò, come la questione della forza che la violenza operaia stava ponendo in maniera esplicita finisse con l’essere sostanzialmente elusa proprio da una parte di coloro che, almeno sul piano teorico e analitico, si mostravano tra i più sagaci interpreti e lettori di ciò che il movimento di massa stava ponendo all’ordine del giorno. Per altro verso si potrebbe anche obiettare come dentro una parte di quell’operaismo, aspetto solitamente ignorato da gran parte delle ricostruzioni storiche, la lotta contro la macchina statuale non fosse minimamente presa in considerazione il che, a conti fatti, non poteva far altro che far retrocedere la pratica del potere operaio entro un “economicismo” sempre o a rimorchio del comando o come volano del comando stesso. Se c’è qualcosa di poco convincente nell’operaismo che precede l’autunno caldo è proprio la teorizzazione di una sorta di dualismo di potere in permanenza che le lotte operaie sarebbero in grado di imporre, dando vita a forme di attacco che obbligherebbero il comando a una costante ristrutturazione senza mai, però, ipotizzare il momento della rottura.

Sulla necessità di spezzare la macchina statuale una parte dell’operaismo si mostrò a dir poco titubante e, a tal proposito, va sicuramente evidenziato come proprio nelle pagine de «La classe» tale nodo iniziò a essere affrontato senza mezze misure. Se l’operaismo, che per convenzione possiamo definire classico, aveva sostanzialmente ignorato la “questione dello Stato” e la necessità per la forza operaia di attrezzarsi per lottare contro la macchina statuale della borghesia, l’operaismo che prende forma dentro la lotta autonoma di massa comincerà a porsi concretamente il problema dello scontro politico – militare con lo stato e i suoi apparati. Anticipato ciò proseguiamo.

Come in tutte le storie, anche in quella relativa all’altro movimento operaio ve n’è una ufficiale e una tenuta, ad arte, un po’ nell’ombra2. Quella ufficiale, sposata dai più, ha focalizzato l’attenzione sul ruolo degli intellettuali e le riviste da questi confezionate, finendo con ignorare le lotte operaie o renderle semplici appendici e/o esecutrici delle direttive di un ceto politico – intellettuale, l’altra, e non per caso decisamente minoritaria, ha invece focalizzato la sua attenzione sulla massa anonima degli operai tanto che, in maniera non del tutto insensata, si è iniziato a parlare di autonomia operaia con la a maiuscola nel caso dell’autonomia degli intellettuali e di autonomia con la a minuscola messa di fronte a quella degli operai. Non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno emerso in alcune recenti ricostruzioni poiché, detta contrapposizione, affonda le sue radici nelle differenze risultate incolmabili all’origine anche della fine del giornale «La classe», tra ciò che diede vita a Potere Operaio3 da una parte e Lotta Continua4 dall’altra. A ciò va aggiunto, il che mostra come l’operaismo sia stato un contenitore teoricamente e politicamente affine ma non omogeneo, il fatto che una quota non secondaria degli attori che avevano dato vita alla stagione teorica dell’operaismo già sul finire degli anni sessanta era rientrata nei ranghi del PCI e del sindacato allineandosi velocemente e senza grandi difficoltà alle peggiori nefandezze che questi stavano perpetrando e continuando su questa strada anche quando, partito e sindacato, si mostrarono come i più accaniti nemici e persecutori delle lotte e delle pratiche dell’altro movimento operaio e della guerriglia comunista che queste si erano portate appresso5.

Fatta questa necessaria precisazione la quale, come un vero e proprio lapsus freudiano, sfugge a molti autori che negli ultimi anni si sono cimentati nella ricostruzione dell’operaismo, ritorniamo un momento sulla contrapposizione tra le due autonomie. In un bel saggio recente, Galmozzi6 ha ben reso il senso di questa differenza e, chi scrive, si allinea sostanzialmente con quanto in quel testo è sostenuto e argomentato. Per altro verso Viale, nel suo lavoro sul ’687, aveva già evidenziato come queste due anime non avrebbero potuto convivere a lungo e quanto un certo tipo di operaismo avesse poco a che vedere con gli operai e le loro lotte. Pur propendendo maggiormente per questa interpretazione il testo presente, dall’insieme di dette diatribe, si smarca immediatamente provando a collocarsi in un contesto diverso. Sicuramente, da un lato, ha indubbiamente un valore storico in quanto riporta alla luce un’esperienza del passato e la rende fruibile a chi è interessato a studiare queste vicende ma, dall’altro, prova ad argomentarne soprattutto l’attualità e per questo il suo intento è decisamente politico dove, per politico, si intende il qui e ora delle lotte operaie e della necessità di queste di trovare uno sbocco politico in grado di rimettere al centro dell’ordine discorsivo dell’antagonismo sociale la centralità operaia, la sua capacità di direzione e la necessità di costruire gli organismi del contropotere operaio sia all’interno degli ambiti produttivi, sia nei territori, un’asserzione non proprio scontata e in apparenza quasi folle ma che, con pazienza, si cercherà di argomentare infine , ma non per ultimo, discutere de «La classe» è anche una scusa per ridiscutere Lenin e la teoria politica leniniana. Partiamo, pertanto, esattamente da Lenin.

Mentre dai più, oggi, Lenin è considerato un cane morto il cui cadavere merita scarsa menzione o una mummia da venerare come un Padre Pio in versione laica, pare utile oltre che necessario provare a ricalibrare la teoria leniniana dentro il presente e farlo sulla scia dell’esperienza del giornale «La classe» il quale aveva fatto esattamente ciò, strappando Lenin alle sue litigiose vestali eredi del terzo internazionalismo, per farlo ripiombare prepotentemente e in piena freschezza dentro il fuoco della lotta di classe del presente. Questo aspetto sembra essere per lo più ignorato dalla saggistica inerente alla nascita e sviluppo del movimento dell’autonomia operaia mentre, al contrario, è stata proprio una nuova lettura di Lenin, o forse sarebbe meglio dire una sua nuova traduzione, a fare da sfondo a tutto ciò che ha dato politicamente vita alla stagione dell’autonomia operaia. Se c’è una cosa sulla quale appare difficile non concordare è proprio la costante ritraduzione di Lenin da parte di tutte le componenti politiche di quella stagione. Si può anche parlare della messa a regime di diverse eresie leniniane, di diverse traduzioni della teoria politica di Lenin ma sicuramente non di una sua rimozione e tutta la pubblicistica dell’epoca va esattamente in quella direzione. Lenin in Inghilterra insieme a 1905 in Italia8, del resto, erano stati passaggi e letture condivise dai più e questo non può essere certamente ignorato così come: “Cominciamo col dire Lenin”, era stato un non secondario incipit del ragionamento politico di ciò che nelle fabbriche, nei reparti e nei territori operai aveva iniziato a prendere forma9. Se c’è qualcosa che fa permanentemente da sfondo a tutte le iniziative organizzative ed editoriali che nascono intorno alle lotte operaie degli anni sessanta sono proprio Lenin e l’insurrezione, di più, se c’è una idea – forza che sostanzia tutte le esperienze dell’epoca è la necessità di dare, nel presente, corpo e teoria al partito dell’insurrezione.

Di questo, il che qualche interrogativo lo pone, nei testi recenti che hanno affrontato la storia e la politica dell’altro movimento operaio vi è ben poca traccia come se, gran parte degli intellettuali militanti contemporanei, preferisse ignorare e rimuovere alla radice la questione della insurrezione e della violenza che Lenin inevitabilmente si porta appresso, insieme a quell’ombra del patibolo e del carcere che da sempre fa da sfondo ai rivoluzionari, insomma ciò che sembra aver preso corpo è l’idea di una rivoluzione non distante da un buffet di gala, consumato negli intervalli di un qualche seminario o convegno accademico, all’interno del quale studenti e dottorandi di belle speranze pontificano sulle teorie operaiste, sulle sue derive approdate dall’operaio massa alle moltitudini, sul general intellect, il frammento sulla macchina per arrivare al lavoro cognitario come orizzonte contemporaneo sia del comando che della sovversione sociale tanto che, a uno sguardo anche distratto, lo spezzare la macchina statuale, l’insurrezione armata, la dittatura operaia e il potere dei soviet sembrano essersi repentinamente condensate nella conquista di una qualche cattedra universitaria e coevi fondi di ricerca. Detto polemicamente ciò torniamo a Lenin e alle pagine del nostro giornale. Infine, ma certamente non per ultimo, si assiste alla completa rimozione della rottura come elemento centrale della conflittualità operaia e proletaria. Con ciò, reiterando il limite proprio di un certo operaismo delle origini, si torna alla teorizzazione di un conflitto in permanenza, e coeve istanze di potere, destinate a giocarsi in eterno. Su questo piano, ovviamente, Lenin non solo può, ma deve essere rimosso. In ciò che, con non poca arguzia, è stato chiamato l’operaismo della cattedra10 i richiami a Lenin e al terrore rosso non possono che essere ignorati prima, accantonati poi. Non diversamente da quanto fece Bonaparte nei confronti della Grande Rivoluzione gli operaisti della cattedra, non rinnegano l’autonomia ma la epurano dagli eccessi relegandola nel tranquillizzante mondo della buona teoria niente di più e niente di meno di uno dei tanti capitoli della storia delle idee. Ma torniamo al nostro giornale.

«La classe» non si era prostrata davanti a Lenin e tanto meno si era sognata di venerarlo ma lo aveva preso e portato alla Fiat dove, in piena ubriacatura eretica, era risorto. Solo davanti ai cancelli di Mirafiori o dentro le Presse questi cessava di essere un santino da incorniciare ed esibire sugli altarini delle varie chiese comuniste, per farsi nuovamente rivoluzionario di professione, così come solo ritornando in fabbrica poteva abbandonare i panni del compito parlamentare rispettoso della legge e della legalità a cui una lettura a dir poco approssimativa de “L’estremismo” lo aveva relegato. Quella sua immagine bigotta e perbenista che il PCI e non solo aveva, per anni, pazientemente confezionato andava in frantumi. Ritornando in mezzo agli operai il suo tratto barbarico faceva nuovamente capolino e ritornava a far tremare il mondo, all’interno delle officine, insieme ai cortei operai, Lenin riprendeva a essere il partito dell’insurrezione e poteva tornare a essere il teorico e l’organizzatore della guerra di movimento e mandare in soffitta tutte le amenità proprie della guerra di posizione. Ma non si tratta solo di ciò. «La classe» sintetizza al meglio il rifiuto del determinismo e dello scientismo in cui Lenin era stato, e con lui tutta la teoria marxiana, da tempo imprigionato e con ciò ritornava a essere il punto d’approdo non della scienza in astratto, che è sempre scienza del capitale, ma della scienza operaia ovvero della soggettività di classe. Contro lo storicismo, prono alla metafisica della storia, ritornava a stagliarsi prepotentemente il treno della soggettività così come, contro il determinismo oggettivista, tornava quel Bisogna sognare! che Lenin aveva tradotto in programma di potere nella prospettiva della dittatura operaia.

Di fronte alla pacatezza e al buon senso di tutti i residui e cascami del terzo internazionalismo i quali, di fronte agli operai che non si lasciavano irretire dalla loro coscienza, dichiaravano l’immaturità dei tempi e della necessità della politica dei piccoli passi e dell’importanza strategica del grigio lavoro quotidiano, le fabbriche tornavano ad annunciare: sproneremo il ronzino della storia fino a che schianti! Una pietra tombale sembrava finalmente essere posta sul determinismo scientista e la gabbia dello storicismo definitivamente divelta dalla soggettività operaia, a fronte di un marxismo ridotto a banale interpretazione dello sviluppo capitalista e prono a un evoluzionismo ancorché dai tratti messianici, il marxismo di Lenin è nuovamente la scienza operaia della rottura, la scienza dell’insurrezione. All’oggettività dei processi del capitale, intorno ai quali si focalizzano tutte le eredità terzo internazionaliste, va giocato il processo della soggettività operaia. Lì, con questa e non altrove, si situa il punto di rottura. Contro la storia come sviluppo oggettivo del capitale va lanciata tutta l’irruenza del treno della soggettività operaia. Ai nuovi marxisti legali va contrapposto il bolscevismo del partito dell’insurrezione. Contro tutte le ortodossie comuniste che, reiterando il vizio positivista della Seconda internazionale, considerano il divenire come un canovaccio evoluzionista teologicamente determinato11, l’altro movimento operaio e le sue teorie reintroducono la dialettica dentro il divenire storico e con ciò la storia torna a essere un campo di battaglia che la soggettività può piegare in una direzione piuttosto che in un’altra. On s’engage …puis on voit! e ancora: D’audace, encore d’audace et toujours d’audace!, così Lenin aveva lanciato l’assalto al cielo e se c’è qualcosa di ortodosso nell’autonomia operaia è proprio la totale adesione a queste indicazioni leniniane.

Questa a conti fatti era stata la grande eresia pronunciata, ancorché sulla scia di Marx, da Lenin e che gli era costata l’ostracismo da parte di tutto il marxismo europeo insieme a una quantità di accuse le quali, volta per volta, lo avevano definito anarchico, giacobino, blanquista, neopopulista fino, tradendo con ciò lo sfondo razzista implicito in gran parte della Seconda internazionale, come barbaro e asiatico. Quanto questa narrazione tossica su Lenin e il bolscevismo finisse con l’essere fatta propria da tutti i ceti politici e intellettuali compresi, almeno in buona parte, quelli interni al movimento dell’autonomia operaia è ampiamente riscontrabile nel modo in cui, un intero pezzo della storia bolscevica e della coeva linea di condotta leniniana, finì con l’essere sostanzialmente rimossa dagli orizzonti dei vari ceti politici e intellettuali. Per esemplificare al meglio tutto ciò occorre compiere un piccolo passo avanti negli anni e osservare la diversa recezione che un pezzo non secondario della storia del bolscevismo ebbe dentro l’area dell’autonomia. Lì ed esattamente lì è possibile scorgere la non secondaria differenza tra l’autonomia operaia con la a maiuscola e quella continuamente tradotta in caratteri minuscoli.

(1continua)


  1. L’intera raccolta del giornale «La classe» è reperibile in formato PDF sui siti Chicago86 e Machina- DeriveApprodi. In particolare, in relazione all’esperienza de «La classe», si veda il lavoro di A. Pantaloni, 1969 L’assemblea operai studenti. Una storia dell’autunno caldo, Derive Approdi, Roma 2020; mentre per gli opuscoli marxisti di Antonio Negri si veda A. Negri, I libri del rogo, Derive Approdi, Roma 2006. Il libro raccoglie una serie di testi usciti per la collana Opuscoli marxisti editi dalla Feltrinelli la quale, all’indomani del 7 aprile, li mandò al macero.  

  2. Cfr., E. Quadrelli, a cura di, Le condizioni dell’offensiva. Senza tregua. Giornale degli operai comunisti: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975–1978), Red Star Press, Roma 2019.  

  3. Su Potere operaio si veda, in particolare, M. Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria., Vol. 1. Derive Approdi, Roma 2018.  

  4. Per la storia di questa organizzazione si veda soprattutto, G. Viale, Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta Continua, Edizioni Interno4, Rimini 2023  

  5. Massimo Cacciari e Mario Tronti, che pure avevano avuto un ruolo importante nella costruzione del pensiero operaista, già sul finire degli anni sessanta fecero marcia indietro e si riallinearono al PCI seguendone, senza battere ciglio, tutte le nefandezze che questo non ebbe difficoltà a perpetrare contro i comunisti e le avanguardie operaie nel corso degli anni settanta.  

  6. C. Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973–1976), Derive Approdi, Roma 2019. Ancora più esplicativo, al proposito, è il recente lavoro dello stesso autore, Marzo 1973. Bandiere rosse a Mirafiori, Derive Approdi, Roma.  

  7. G. Viale, Il 68. Contro l’università, Edizioni Interno 4, Rimini 2018.  

  8. Entrambi i saggi si trovano in M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.  

  9. A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, Manifestolibri, Roma 2016.  

  10. Si deve questa espressione a Oreste Scalzone che così, in Operaismo e comunismo, pubblicato sul blog Comunismo e comunità, Laboratorio per una nuova teoria anticapitalista, ha definito parte di quel ceto intellettuale che ha accademizzato la storia dell’autonomia operaia.  

  11. In questo modo il marxismo diventa una delle tante teologie della storia, cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 2015.  

]]>
Far deragliare la locomotiva della Storia https://www.carmillaonline.com/2021/09/04/far-deragliare-la-locomotiva-della-storia/ Fri, 03 Sep 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68015 di Jack Orlando

Gigi Roggero; Il treno contro la Storia. considerazioni inattuali sui ’17; DeriveApprodi; Roma giugno 2021: 105 pp. 9,00€

La rivoluzione è anzitutto un atto di fede diceva un tale. Forse è vero, la speranza e la fede in un domani migliore, in una certa seppur lontana vittoria sono corroboranti. Ma in tempi cupi come questi, curiosamente paludosi, dove ogni cosa si muove pur sembrando sempre immobile, è difficile tener salda la fede. Anche i monaci più devoti tendono a sbandare di fronte a una notte troppo lunga, e li si [...]]]> di Jack Orlando

Gigi Roggero; Il treno contro la Storia. considerazioni inattuali sui ’17; DeriveApprodi; Roma giugno 2021: 105 pp. 9,00€

La rivoluzione è anzitutto un atto di fede diceva un tale. Forse è vero, la speranza e la fede in un domani migliore, in una certa seppur lontana vittoria sono corroboranti. Ma in tempi cupi come questi, curiosamente paludosi, dove ogni cosa si muove pur sembrando sempre immobile, è difficile tener salda la fede. Anche i monaci più devoti tendono a sbandare di fronte a una notte troppo lunga, e li si vede ripiegare nella fideistica attesa del domani migliore, o nell’autismo della ritualità che scaccia i demoni e le preoccupazioni dal perimetro sicuro del chiostro.

Brutta fine per la rivoluzione, ancorata ad un inafferrabile sol dell’avvenire, annegata nella bava e nell’attesa. Allora preferiamo prenderla in maniera più drastica la questione: la rivoluzione comincia con un atto di volontà. Ovvero inizia quando decidiamo, coscientemente, di farla finita con un certo destino e una certa Storia, quella cui siamo assegnati dal modo di produzione che ci genera, e allora ci mettiamo contro, per passare al bosco e alla lotta. Perché di certo saremo un passo più vicini alla meta agendo nell’oggi, piuttosto che pregando il domani.

Contingenza contro aspettativa. Immediatezza contro invocazione.

Eppure, diciamolo subito e chiaramente, la volontà fine a sé stessa, quando sganciata dalle condizioni oggettive, dall’osservazione reale del campo, è buona per gli idealisti e gli ingenui e, salvo gran botte di culo, ha come meta finale il disastro. La nobile parabola di Spartaco si schianta in caduta libera contro il cemento duro e indifferente del rapporto di forza.

La volontà, il coraggio, sono elementi fondamentali, necessari; ma non bastano da soli, quel che fa la differenza sono il metodo e lo sguardo: solo chi osserva il nemico e sé stesso può vincere cento battaglie diceva, più o meno, quel tizio cinese che leggono tutti e che quasi nessuno capisce.

Volontà, azione, metodo. La malta con cui nel corso di quasi due secoli si è costruita la figura del militante, il professionista della rivoluzione.

Ma chi è il militante, cosa e come pensa e agisce il militante è una domanda cui si gira intorno ormai da un po’, che riaffiora puntualmente in una realtà in cui progettualità ed esperienza politica stentano a trovare ossigeno, in cui le vecchie lenti fanno più che fatica a leggere il testo del presente e ci si interroga su qualcosa che è profondo, scomodo e difficoltoso, perchè chiama in causa il senso ultimo di storie personali e collettive. E d’altronde è una di quelle domande la cui risposta non si trova cercando su Google, né la si disegna a tavolino. Un militante non lo si crea per decreto, è una creatura strettamente incastonata nella prassi e nel tempo.

Una crisi della militanza cui si è risposto spesso sostituendo alla prassi politica l’attivismo spicciolo, al progetto collettivo il protagonismo individuale, alla disciplina collettiva il conformismo comunitario. Una praxis che si dice antagonista e si trova figlia di una pessima educazione liberale.

Riprendere in mano quindi il nodo della formazione militante, una formazione al metodo di pensiero e di azione, è una tappa obbligata per superare una impasse storica che si va approfondendo sempre di più.

Una proposta ben strutturata in questo senso è quella de Il treno contro la Storia recentemente ristampato da DeriveApprodi in una collana, per l’appunto centrata sulla formazione.

Di che treno si parla? Di quello blindato, coperto di placche di acciaio, mitologie e maledizioni, che attraversa la tragedia della Grande Guerra e approda al centro della Russia zarista per aprire le porte, di lì a poco, al grande diluvio operaio.

Questo il punto centrale, Lenin, pietra miliare che articola sulla base dell’analisi marxiana gli elementi della prassi e della volontà per piegare l’evento e far deragliare i binari di un progresso storico presunto lineare. È qui che ha origine la figura del militante come rivoluzionario di professione: non burocrate stipendiato come vuole la vulgata ma specialista della disciplina-rivoluzione, che coniuga sapere materialista con pratica organizzativa e agitativa. Né intellettuale né manovalanza; livello intermedio dove teoria e prassi restano in stretto contatto e procedono in un movimento a spirale in cui costantemente l’una informa l’altra e viceversa. Un’ermeneutica della distruzione creatrice.

Da questo punto focale si muove Roggero, triangolando il problema della militanza tra Marx, Lenin ed operaismo italiano, o meglio, dato che si tratta di assumere e trasformare categorie di pensiero e non di fare l’apologia dei nostri supereroi, tra principio marxista del materialismo storico, lezione politica leniniana e lascito del punto di vista operaista.

Il punto di vista, altro nodo cui soffermarsi per uscire anche dal relativismo democratico che avvolge tante analisi, relativismo che si rifà all’interesse generale, che poi non è altro che agenda del nemico fatta senso comune. Il punto di vista, ovvero la capacità di cogliere i fenomeni con sguardo di parte, parziale o partigiano, che muove dalla propria appartenenza per cogliere la totalità dei rapporti, un punto di vista inchiestante nel senso che è perennemente attento a registrare ciò che l’ambiente mette sul piatto, i mutamenti e i movimenti carsici sporchi, rimestando l’acqua sporca alla ricerca del bambino. È quest’ottica che permette al militante di vivere osmoticamente la composizione di cui si vuole indirizzare il cammino, fuori dal cieco ideologismo autoreferenziale e compiaciuto. Perché anzitutto guardando al proprio campo di forza che si può cogliere il punto in cui si possono spezzare le fila nemiche.

Tornando alla domanda di cui sopra, chi è il militante? Il militante è colui che si mette in gioco totalmente nella distruzione di questo modo di produzione, che disciplina sé stesso nell’adesione ad un progetto radicale e fa sua l’arte regia della trasformazione della realtà con tutti gli arnesi del mestiere che ad essa appartengono, che porta lo scontro perennemente con sé, fin dentro sé, non riconoscendo distinzione tra spazio della politica, spazio del lavoro e tempo libero. Perché la massima “il personale è politico” ha senso solo nella misura in cui si porta il conflitto e la trasformazione al fondo anche della propria soggettività (sicuramente non nel senso che qualunque paturnia esistenziale può essere tinta di politico).

Ci piace pensare, in questi tempi senza spina dorsale, che il militante sia, o per lo meno possa essere, il corpo nuovo in cui batte un cuore antico, quello di un drammatico spettro generato nel secolo delle guerre civili, che ancora allunga le sue mani nel presente, e di cui c’è disperato bisogno per dinamitare la linea ferrata del progresso, farne deragliare la sua Storia.

]]>
Tra soggetto e oggetto, la classe operaia di Panzieri https://www.carmillaonline.com/2021/02/10/tra-soggetto-e-oggetto-la-classe-operaia-di-panzieri/ Tue, 09 Feb 2021 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64791 di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa [...]]]> di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa della prematura scomparsa di Panzieri, avvenuta all’età di 43 anni. A cento anni dalla sua nascita vale la pena recuperare il contributo originale del pensatore romano, troppo spesso relegato al ruolo di semplice precursore. A tal fine torna utile il libro scritto da Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano, pubblicato da DeriveApprodi.
Dirigente del Partito Socialista, direttore della rivista Mondo operaio, traduttore del secondo libro de Il capitale di Marx, Panzieri si caratterizza da subito per un marxismo non ortodosso, sostenendo l’idea della democrazia diretta e la concezione del partito-strumento. La pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, scritte nel 1958 con Lucio Libertini, segna il punto di svolta nella biografia intellettuale di Panzieri e avvia il suo allontanamento dal Partito Socialista. Si trasferisce l’anno successivo a Torino dove lavora fino al 1963 per la casa Editrice Einaudi e dà vita alla rivista cui il suo nome è indissolubilmente associato. La vecchia capitale sabauda rappresenta un osservatorio privilegiato per studiare il cuore del “neocapitalismo” italiano: la grande fabbrica fordista-taylorista e la nuova composizione di classe formata da quello che sarà successivamente definito operaio massa.

Il libro di Cerotto, dopo aver delineato la biografia politico-intellettuale del pensatore romano e la storia redazionale dei “Quaderni rossi”, dedica un lungo capitolo alla ricostruzione del dibattito teorico-politico nell’ambito del marxismo italiano del dopoguerra fino alla fine degli anni Cinquanta. Il panorama è dominato dallo storicismo marxista del Partito Comunista di Togliatti che, utilizzando il pensiero di Gramsci, vuole ricongiungersi all’eredità del neoidealismo italiano per mostrare la politica della classe operaia come continuatrice e innovatrice della cultura nazionale, operazione funzionale alla predisposizione di una politica di alleanze. L’analisi del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi segna il passo a favore della ricerca di una egemonia politica tarata sulle particolarità economico-sociali e culturali italiane. Tra le conseguenze, sul piano teorico, ci sono la sottovalutazione del grado tecnico-scientifico raggiunto dal processo di produzione e l’indifferenza verso i possibili contributi della sociologia e delle nuove scienze sociali. Lo forze produttive, nel loro sviluppo, sono considerate senz’altro il polo positivo, razionale, oggettivo, mentre i rapporti di proprietà costituiscono il polo negativo che, attraverso l’anarchia del mercato, limita e perverte le potenzialità dei progressi tecnico-produttivi. A questo si può porre rimedio con le riforme di struttura ovviando all’incapacità del capitalismo nazionale di realizzare autonomamente uno sviluppo economico accessibile a larghi strati della popolazione. Si delinea così la via italiana al socialismo.
Come si pone Panzieri nei confronti di questo articolato panorama teorico-politico?  Possiamo partire da una sua citazione, tratta da Plusvalore e pianificazione, opportunamente riportata da Cerotto.

Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come involucro che a un certo grado dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere perché semplicemente divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale. E ciò consente allo sviluppo capitalistico di perpetuarsi anche dopo che l’espansione delle forze produttive ha raggiunto il suo massimo livello. 

Insomma, il dispotismo capitalistico è inestricabilmente intrecciato con esigenze razionali di tipo tecnico-produttivo. Questo rapporto si materializza concretamente nelle macchine. Esse non si sviluppano esclusivamente con il fine di aumentare la produttività del lavoro, ma con quello di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Esse sono portatrici certamente di una razionalità nell’ambito dei processi produttivi, ma di una razionalità specificamente capitalistica. In breve ogni stadio dello sviluppo tecnologico costituisce un rafforzamento del potere del capitale, del suo dispotismo sulla forza-lavoro vivente.

Questo rafforzamento significa anche, secondo Panzieri, la progressiva estensione del principio di pianificazione non solo all’interno della fabbrica, che si ingigantisce grazie ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale, ma anche all’esterno del processo produttivo vero e proprio. La pianificazione capitalistica, sostiene Panzieri, diventa un elemento basilare per il mantenimento della struttura di potere capitalistico, superando le contraddizioni derivanti dall’anarchia del mercato, tipica della fase concorrenziale del capitalismo. Anche a discapito della ricerca immediata del massimo profitto, ciò implica la necessità di aumentare notevolmente investimenti e produttività. Questo a sua volta richiede la più completa disponibilità della forza lavoro che può essere garantita da un accordo con i sindacati e con le altre organizzazioni della classe operaia.
Secondo le elaborazioni dei “Quaderni Rossi”, la politica di piano che si sviluppa nei primi anni Sessanta del Novecento non mira a subordinare le scelte economiche al potere politico, ma assegna allo stato la responsabilità di stimolare certi investimenti privati tramite un apposito sistema di incentivi. Le punte più avanzate del capitalismo italiano, pubblico e privato, convergono a grandi linee sugli obiettivi della pianificazione e non a caso sostengono la costituzione del centro-sinistra (nel 1962 il PSI entra nell’area di governo e a fine 1963 per la prima volta partecipa direttamente all’esecutivo). I settori più arretrati si oppongono ad entrambi. La conflittualità interna al fronte capitalistico contribuisce a mascherare il riformismo subalterno delle organizzazioni operaie da politica rivoluzionaria. Anche la conflittualità operaia, se mantenuta entro un certo livello, può giovare allo sviluppo capitalistico perché impedisce ai suoi settori più arretrati di fare affidamento esclusivamente sul basso costo della forza-lavoro costringendoli a investire e innovare.
La strategia delle riforme di struttura, secondo Panzieri, non prevedendo un intervento diretto nella sfera produttiva esclude la rottura rivoluzionaria del sistema favorendo soltanto catene più dorate per tutta la classe operaia. Già nelle Sette tesi Panzieri, ponendo in evidenza i caratteri innovativi del recente sviluppo del capitalismo italiano, sostiene la necessità di spostare l’asse dell’intervento politico nei luoghi della produzione dove hanno origine le principali contraddizioni della dicotomia classista e dove risiede la reale fonte del potere. In altri termini, solo prendendo di petto il luogo dove si svelano le reali contraddizioni del sistema capitalistico, la lotta in fabbrica innalza i lavoratori a reali protagonisti della politica.

Questo spostamento comporta un doppio movimento. Da una parte, infatti, si deve indagare la sfera della produzione capitalistica che non è al suo interno indifferenziata. Essa presenta un’articolazione gerarchica. Esistono dei punti di maggior sviluppo che sono trainanti rispetto a tutto il resto. E tale articolazione del processo produttivo complessivo non è indifferente rispetto alle sorti politiche della lotta di classe. D’altra parte, con altrettanta forza, si deve affermare che il comportamento operaio non è una mera riflessione passiva della struttura del capitale. Quest’ultima condiziona lo sviluppo dell’antagonismo operaio, pone le condizioni e i limiti del suo possibile esplicarsi, ma non lo determina meccanicamente. Per questo è necessaria, utilizzando le parole di Panzieri riportate da Cerotto, “un’osservazione scientifica assolutamente a parte” sulla classe operaia. Assume cioè importanza l’inchiesta operaia, non solo come strumento di conoscenza, ma anche come strumento di intervento politico. La realtà osservata attraverso l’inchiesta non è un oggetto passivo, ma un’unità vivente che va colta nei suoi momenti di svolta, di repentino mutamento, soprattutto attraverso l’inchiesta “a caldo”, cioè quella effettuata durante i momenti più aspri del conflitto.
Proprio sulla necessità di tenere insieme questi due livelli dell’analisi e dell’intervento politico si consuma la frattura, nell’ambito della redazione dei Quaderni Rossi, tra i “sociologi di Torino”, raggruppati attorno a Panzieri, e i “filosofi di Roma”, guidati da Mario Tronti. Una rottura, argomento dell’ultimo capitolo del libro di Cerotto, che ha come oggetto immediato la valutazione degli eventi del luglio 1962 e le prospettive che si aprivano dopo la manifestazione esplicita di un elevato grado di insubordinazione della nuova classe operaia al piano del neocapitalismo.1 Per Panzieri le rivendicazioni operaie espresse nel fuoco acceso dello scontro, così come rilevate dall’inchiesta “a caldo”, contengono il massimo spirito anticapitalistico che, però, non può essere immediatamente generalizzato all’insieme della classe. Come si legge in una citazione riportata in epigrafe all’ultimo capitolo del libro di Cerotto, Panzieri accusa Tronti di sostenere una filosofia della storia hegeliana, una filosofia della classe operaia quando utilizza questi momenti alti dell’antagonismo per supportare la sua rivoluzione copernicana. Rivoluzione che consiste nella tesi, opposta a quella del marxismo classico, che è l’antagonismo della classe operaia a determinare lo sviluppo del capitale. Una tesi che giustificava la necessità di dare immediatamente espressione politica a questo nuovo soggetto operaio. Panzieri, invece, resiste all’idea di trasformare la rivista in un gruppo militante, in un nuovo partito, volendo limitare il suo contributo politico alla costruzione di un’“avanguardia interna” alla classe, dal momento che solo il susseguirsi delle lotte operaie avrebbe potuto determinare la loro progressiva organizzazione.

Personalmente sono convinto che ancora oggi sia necessario tenere insieme i due livelli di cui si è parlato a proposito di Panzieri: da una parte l’analisi della struttura del capitale quale fondamento materiale della soggettività proletaria; dall’altra la continua attenzione allo sviluppo del lato soggettivo che mantiene rispetto a questo fondamento un livello di indeterminatezza. La specifica riflessione sulle dinamiche di soggettivazione dei subalterni, aggiungo, può risultare tanto più feconda quanto più il punto di osservazione è interno ai conflitti e ai movimenti. In assenza del primo livello possiamo ottenere soltanto una una fenomenologia del conflitto che, per quanto preziosa possa risultare sul piano descrittivo, difficilmente può aiutarci a prefigurare un processo generale di ricomposizione delle disperse soggettività in campo. In assenza del secondo, invece, risorge immancabilmente lo spettro dell’autonomia del politico in cui non si dà ricomposizione, ma solo subordinazione, reale o immaginaria, delle concrete soggettività antagonistiche a una guida esterna.
Certo, se essere comunisti vuol dire essere la parte più risoluta dei partiti operai come indicava Marx nel 1848, questo significa porsi sulla frontiera più avanzata dell’antagonismo di classe, laddove si può dare la confluenza fra dimensione oggettiva e soggettiva; una frontiera a partire dalla quale, in altri termini, un soggetto collettivo è potenzialmente in grado di farsi mondo, di produrre una nuova oggettività. Da questo punto di vista è comprensibile il senso del gesto teorico di Tronti che, con la sua rivoluzione copernicana, mette al centro la classe operaia, come “motore mobile del capitale”. Gesto ripetuto in forme diverse dal successivo operaismo e post-operaismo. Ma se dimentichiamo che la tendenziale confluenza tra soggetto e oggetto si dà soltanto nei momenti più alti dell’antagonismo e pretendiamo di ritrovarla sempre e comunque nel nostro mondo dominato dal capitale, i costrutti teorico-politici che ne derivano rischiano di assomigliare sempre più a visioni lisergiche, come la moltitudine dell’ultimo Toni Negri.
Se vogliamo mantenere una presa sulla realtà e al tempo stesso non rassegnarci alla triste virtù del realismo con annessa autonomia del politico, come ben presto fece Tronti, non ci rimane che l’ostinata ricerca, pratica e teorica, delle vie sotterranee di una possibile ricomposizione delle molteplici forme di conflittualità sociali. Forme conflittuali che nella realtà continuano a darsi perché il capitalismo è un sistema basato necessariamente sull’incessante e crescente ricerca dello sfruttamento e perciò intrinsecamente antagonistico. E in questa ricerca la lezione di Panzieri ci può tornare ancora utile, 
anche ritornando a riflettere su cosa rimane oggi di una delle sue tesi fondamentali e cioè che una lotta generale contro il capitalismo non può prescindere dai conflitti che si verificano nella sfera della produzione e in particolare nei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico.


  1. Il 7 luglio 1962, nel corso di uno sciopero dei metalmeccanici a Torino, si diffonde la voce che UIL e SIDA hanno firmato un accordo separato con la FIAT. Alcune migliaia di operai si dirigono a Piazza Statuto dove ha sede la UIL dando inizio a tre giorni di violenti scontri con la polizia. 

]]>
Macchinette per pensare l’oltre https://www.carmillaonline.com/2020/07/07/macchinette-per-pensare-loltre/ Tue, 07 Jul 2020 21:55:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61150 di Veronica Marchio

Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, pag. 142  € 7,65, Ed. DeriveApprodi, Collana Input, 2020

Il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, sistematizza, come scrivono i due curatori Francesco Bedani e Francesca Ioannilli gli interventi al corso di formazione politica tenutosi a Bologna presso la Mediateca Gateway, raccogliendo i contributi, oltre che dei due curatori, di Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore [...]]]> di Veronica Marchio

Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, pag. 142  € 7,65, Ed. DeriveApprodi, Collana Input, 2020

Il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, sistematizza, come scrivono i due curatori Francesco Bedani e Francesca Ioannilli gli interventi al corso di formazione politica tenutosi a Bologna presso la Mediateca Gateway, raccogliendo i contributi, oltre che dei due curatori, di Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore Cominu, Anna Curcio, Guido Borio e Raffaele Sciortino.

L’obiettivo del lavoro, che si mostra immediatamente come un elaborato collettivo, uno strumento parziale, volutamente incompleto, è quello di fare emergere la ricchezza della produzione teorica di un militante politico, Romano Alquati, sconosciuto ai più oggi e sminuito da tanti ieri, nonostante la sua capacità teorica e politica di aggredire l’ignoto a partire dalla realtà contingente, verso un possibile tutto da costruire. Se nel già noto infatti c’è la tranquillità della riproduzione, nell’ignoto c’è il rischio della rottura. E il rischio non tutti decidono di correrlo.

Il testo si concentra sulla sua produzione teorica dagli anni Ottanta in avanti, provando a identificare quei nodi teorici e politicamente rilevanti che segnavano l’inizio di alcune tendenze della ristrutturazione capitalistica, oggi in potente dispiegamento, e al contempo costringevano a immaginare e tracciare le possibili linee della tendenza contro soggettiva antagonista. Tornerò più avanti su questi punti.

In tutti gli interventi che compongono il testo emerge un tratto fondamentale, un’esigenza particolare che si pone come necessità rispetto alla studio dei testi alquatiani – molti dei quali inediti. Cosa significa infatti, concretamente, non fare del suo pensiero un feticcio? Mi pare che l’elemento peculiare di un simile atteggiamento sarebbe quello, tipicamente intellettuale, di settorializzazione di un campo teorico. Lo specialismo, la specializzazione, è un mezzo tipicamente capitalistico di neutralizzazione – nel senso che produce neutralità – della conoscenza e della formazione; una pratica che incatena il pensiero per renderlo innocuo. Di Romano Alquati allora, sottolineano i curatori, bisogna provare a utilizzare il metodo dello sguardo complesso sulla realtà: per cogliere il senso della realtà che osserviamo e vogliamo capire e trasformarlo in senso della possibilità – come sottolinea Borio. Una lettura della complessità a partire dal punto di vista della parzialità.

Insomma, rifiuto dello specialismo dovrebbe significare saper utilizzare ciò che può essere utile per la costruzione di ipotesi di rottura rivoluzionaria nel presente, avendo però la capacità di mettere in discussione e buttare via ciò che non serve più.
Ciò sopratutto perché, come emerge in vario modo e con diverse sfumature dagli interventi, Alquati non era meramente uno studioso, né un pensatore, né un intellettuale o solamente un sociologo critico: era un militante politico, la cui soggettività si forma per rotture e salti e la cui produzione teorico-politica è attraversata da un senso politico intrinseco, che si concretizza nella pervicace ricerca di una possibile tendenza di uscita dalla civiltà capitalistica, rappresentata dal fatto che la «capacità umana vivente» – concetto complesso e articolato approfondito da tutti gli autori – è irriducibile alla logica del capitale.

Prima di venire agli argomenti sostanziali e pregnanti per l’attualità che maggiormente emergono dal libro, vorrei tracciare alcune linee conduttrici che attraversano i contributi e che, a mio avviso, sono esemplificative del pensiero e stile militante di Alquati, elementi che potrebbero servirci a pensare e ad agire l’oggi dove la teoria politica rivoluzionaria non è al passo con la realtà – avendone perso il senso –, e non è quindi in grado di collocarsi, brancolando nel deserto del già noto.

La prima linea è quella che fa emergere il modo di stare dentro e contro la composizione politica del suo tempo, cosa che Alquati ha messo in pratica per tutto il suo percorso militante. Dal volume questo aspetto emerge in modo straordinario e variegato. Quell’essere «cane in chiesa» assume una connotazione tutt’altro che negativa. Il pensiero di Alquati dava fastidio perché non compiaceva gli amici con atteggiamenti trionfalistici o celebrativi, il suo essere «spavaldo» indicava la capacità di relazionarsi e comparare, ma anche di criticare in modo serrato gli altri, ricercando limiti e insufficienze, non la mera esaltazione delle esperienze specifiche. Un militante che rifiutava le semplificazioni e le scorciatoie strumentali, ma osava scommettere con occhi fini e pervicace sapienza. Mi ha colpito particolarmente la definizione che viene data del suo carattere da Borio, quello di «intransigenza sostanziale rispetto a un individualismo finalizzato al compromesso e allo scambio vantaggioso per il posizionamento personale».

Una seconda linea, anch’essa presente in tutti i contributi, consiste nella decisiva dinamicità e circolarità del modo di ragionamento complesso di Alquati. La sua capacità di modellizzare la realtà che aveva di fronte, senza costruire una gabbia chiusa – quella sì reclusione nel già noto e non bisognosa di essere modificata. È l’intelligenza politica di distruggere ogni staticità deterministica, portando il pensiero sempre al limite della sua processualità e trasformatività. Come scrive Ioannilli, un atteggiamento capace di «afferrare quello che c’è, per costruire quello che manca». Il suo «Modellone» della civiltà capitalistica allora non rappresenta una chiusura teorica, ma l’indicazione di linee di fuga, la sistematizzazione della realtà per immaginare un contro-percorso, una necessità imposta dall’accentuata complessità, ma anche il punto medio di una costruzione attenta e permeabile alle insorgenze.

La terza linea, forse la più importante, è quella di rintracciare in Alquati la continua propensione alla ricerca di forze soggettive – o meglio contro-soggettive – che potessero mettere in discussione il livello alto del dominio capitalistico, come sottolinea Pentenero. La ricerca di un’intenzionalità autonoma e contro, che non ha nulla di oggettivo né lineare, ma è calata dentro l’ambivalenza dell’articolazione stessa dell’agente umano, capitalisticamente formato come attore, dotato di risorse calde proprie in quanto persona, e sempre potenzialmente orientato a dei fini contro quelli ufficiali. Detta con Cominu, la ricerca quindi di forze soggettive che ampliano le condizioni dell’ambivalenza per trasformarla in possibilità.

L’ultima linea trasversale agli interventi ed esplicativa del senso politico forte che sta dietro il pensiero di Alquati, è la sua attenzione al nodo della formazione militante. Come ribadiscono sia Borio che Bedani, il suo obiettivo era quello di costruire delle macchine teoriche aperte e ipotetiche. Delle macchinette utili a costruire delle capacità collettive di ragionamento per pensare oltre; la formazione infatti deve «cambiare qualcosa di rilevante nella soggettività della gente, oltre che nella sua competenza e cultura».

Passando agli elementi sostanziali tuttora rimasti irrisolti, rispetto ai quali Alquati ha avuto il merito di operare dei salti teorici, come sottolinea Sciortino, mi pare che essi siano almeno tre, e non sono mai da considerarsi come aspetti o del capitale o del «contro-percorso». Si tratta di ragionamenti che sono ben collocati dentro il presupposto che, come scrive Curcio, il grado di intensità e presenza di politicità intrinseca e ambivalenza – quindi di possibilità antagonista –, dipende da rapporti di forza storicamente determinati. Questi tre aspetti sono a mio avviso i seguenti: la crisi della salarietà nei suoi aspetti tradizionali, accompagnata dal processo di iperindustrializzazione dell’ambito della riproduzione; la centralità del concetto di soggettività; la questione di cosa possa essere un militante politico oggi.

Per quanto riguarda il primo aspetto, sono soprattutto Chicchi e Curcio a concentrarsi sul processo di radicalizzazione dell’estrazione capitalistica di valore che Alquati descrive a partire dagli anni Ottanta. A ciò segue la domanda che Chicchi si pone in merito a quali potrebbero essere oggi le nuove forme di salarietà e operaietà, laddove il processo di estrazione e valorizzazione investe la vita, e la «capacità umana vivente attiva» in generale. Un’impresizzazione del mondo della riproduzione sociale, per riprendere Curcio, dove però esso non assume solo un carattere produttivo, ma diventa riproduzione di capacità umana, mezzo di accumulazione e valorizzazione diretto, senza mediazioni.
Nell’ambito dei processi di ristrutturazione, avverte Alquati, le trasformazioni sistemiche non sono neutre, perché non indicano né liberazione già avvenuta, né cattura inesorabile da parte del capitale.

Il dibattito allora si concentra sulla necessità di riqualificare, se non mettere in discussione, i concetti marxiani di forza lavoro e sussunzione reale. Scrive Curcio che si passa dal fuori della forza lavoro al dentro della capacità lavorativa, che Alquati definisce come «forze attive», intese in quanto combinazione tra le capacità attive umane calde e le capacità fredde macchiniche. Il processo di sussunzione reale si estende si enormemente, ma emerge una incompletezza della sussunzione effettiva (data l’incapacità per il capitale di sussumere fino in fondo quelle risorse calde, che gli residueranno sempre).

Il secondo nodo è quello della soggettività. Come già accennavo in precedenza, Alquati si pone il problema delle forze contro-soggettive possibili per la fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. Nel libro questo aspetto viene bene messo in evidenza; ritengo a maggior ragione che questo concetto, quello di soggettività, in quanto baricentrale all’interno del pensiero alquatiano, necessiti di essere trattato sempre meno come un concetto e sempre più come un punto di vista. Borio lo descrive bene nel suo contributo, quella della soggettività è una questione sostanziale, un «cruccio» che Alquati non smetterà mai di portarsi dietro; essa non è un modo di essere generico o oggettivamente dato, ma intenzionale. La soggettività è diversa dal soggetto, la prima è propria di tutti gli agenti umani viventi, mentre il soggetto, con propri fini, è potenziale. Entrambi sono campi di battaglia tanto per il capitale tanto per «noi». La soggettività va riferita non al soggetto – che per Alquati è già contro se c’è – ma alla persona, in quanto soggetto intermedio e portatore di ambivalenza. È la contro-soggettività che va ricondotta al soggetto, strappando al capitale l’iniziativa dei percorsi di risoggettivazione individuale e collettiva.

Concludo con l’ultimo nodo, forse per noi il più importante – noi che da Alquati vorremmo imparare un modo di stare al mondo che non si stanchi mai di dare fastidio a chi pensa di avere tante certezze – su cosa significa essere un militante politico. Come scrive Bedani, ispirando il titolo di questa recensione, il militante è colui che pensa per pensare oltre. Alquati considerava la militanza come posizionamento, radicamento, internità, conricerca, studio, atteggiamento.
Il militante è colui che riesce a collocarsi e muoversi su più piani utilizzando saperi, scienze, conoscenze ecc. La conricerca è esattamente la capacità di fare interagire forze soggettive con soggettività differenti. È la messa in discussione, scrive Chicchi, di un rapporto neutro del sapere con le lotte, per produrre autonomia che sta nell’imprevisto.

Per chiudere, credo che questo piccolo libro possa essere pensato come una macchinetta per pensare l’oltre, una macchinetta incompleta, tutta da mettere a verifica nella realtà, perché il senso della possibilità bisogna averlo prima di tutto nella testa.

]]>
Si fa presto a dire Autonomia Operaia…* https://www.carmillaonline.com/2020/02/26/si-fa-presto-a-dire-autonomia-operaia/ Wed, 26 Feb 2020 21:38:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58117 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019, pp. 553, 28,00 euro

E’ una storia dal lato dell’ombra quella tracciata dal testo recentemente edito da Red Star Press e curato da Emilio Quadrelli. Di quel lato rimasto in ombra di un’esperienza, quella dell’Autonomia Operaia, poi diventata semplicemente Autonomia una volta perso l’aggettivo, di cui in compenso si è parlato tantissimo, sia a livello storiografico che politico e culturale. Una storia cui sono [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019, pp. 553, 28,00 euro

E’ una storia dal lato dell’ombra quella tracciata dal testo recentemente edito da Red Star Press e curato da Emilio Quadrelli. Di quel lato rimasto in ombra di un’esperienza, quella dell’Autonomia Operaia, poi diventata semplicemente Autonomia una volta perso l’aggettivo, di cui in compenso si è parlato tantissimo, sia a livello storiografico che politico e culturale. Una storia cui sono stati dedicati molti volumi, molte ricostruzioni, molte biografie e autobiografie; quasi quanto è stato fatto per quella che è rimasta, almeno nell’immaginario collettivo, la leggenda aurea della lotta armata in Italia: le Brigate Rosse. Con tutto il corollario di polemiche, illazioni e differenti interpretazioni soggettive che ne hanno accompagnato la leggenda mediatica e politica dal processo 7 aprile e dal rapimento Moro in poi.

Quadrelli, con il suo consueto stile efficace e incisivo, affronta di petto la questione e ricorda a tutti che da questa narrazione “monca” della storia dell’Autonomia (in particolare quella facente capo a «Rosso») è rimasta a lungo esclusa quella di una delle anime dell’Autonomia Operaia più vicine alla fabbrica, agli operai, alle condizioni di vita e all’immaginario politico che accompagnavano la classe nelle sue espressioni di lotta più avanzate e, al contempo, spontanee.

Non è pertanto una storia intellettuale quella che Quadrelli ripercorre nella sua stimolante introduzione alla raccolta dei nove numeri di «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti» usciti tra il giugno del 1975 e il settembre del 1977. Piuttosto è un’attenta riflessione sulle cause della messa in disparte di un’esperienza di lotta, riflessione teorica e organizzazione pratica che era sorta quasi spontaneamente dalle esigenze di una classe che, all’epoca, non intendeva affatto rimanere rinchiusa tra le mura delle fabbriche1 e nel recinto di un operaismo ortodosso che più che liberarla sembrava volerla trattenere in un mortifero abbraccio con gli interessi di crescita dei suoi oppressori, a causa di un determinismo di origine positivista che aveva fatto parte, per lungo tempo, del bagaglio politico e filosofico dei suoi teorizzatori.

Classe che a quel punto del tragitto intrapreso, dallo scaturire spontaneo delle lotte da Piazza Statuto e dall’autunno caldo in avanti, aveva visto le sue avanguardie interne giungere a quel rifiuto del lavoro che non stava a indicare soltanto il rifiuto della fatica e dello sfruttamento ma, nella sostanza, il modo di produzione capitalistico nel suo insieme: un modo di produzione di morte (come già nel 1976 Seveso e l’ICMESA avrebbero ben insegnato), di sottomissione di classe, di genere e di ghettizzazione sociale (anche se i ghetti iniziavano a mimetizzarsi da feste, festival o circoli del proletariato giovanile). Come il giornale nella sua breve ed intensa esistenza ebbe il modo di rimarcare e porre all’ordine del giorno.

Ordine del giorno che prevedeva soprattutto una ridefinizione del programma comunista e una discussione sulla forma partito che non intendevano affatto scimmiottare le precedenti (e perdenti) ipotesi ispirate dalle varie correnti storiche del marxismo ortodosso, ma che dovevano ri-nascere da ciò che lo scontro di classe di quegli anni aveva posto materialmente all’ordine del giorno. Soprattutto a partire dalle lotte di fabbrica e dalla loro estensione politica (e militare) sul territorio.

Ipotesi che mettevano al centro l’attenzione nei confronti della guerra civile come fase ineluttabile, intesa come porta stretta attraverso cui il movimento sarebbe dovuto passare nella sua lotta contro il capitale. Ipotesi che negava qualsiasi possibilità di convivenza tra forme di comunismo vissuto ancora in ambito capitalistico e mantenimento di rapporti sociali e di produzione fondati sulla mercificazione delle attività e dei bisogni umani e dello sfruttamento del lavoro. Soprattutto operaio.

E’ infatti proprio sulla questione del lavoro produttivo e del capitale variabile che si giocherà la partita definitiva con quell’area dell’Autonomia che si sarebbe dedicata, soprattutto a partire dal 1976/77, all’identificazione di nuovi soggetti sociali in grado di sostituire i lavoratori produttivi e la classe operaia, sia dal punto di vista economico che politico. Una sorta di “revisionismo” del pensiero marxiano che sarebbe partito proprio dai settori più ortodossi dell’operaismo precedente.

Quello che, affondando le proprie radici nella tradizione di Potere Operaio ben lontana dall’esperienza militante di Lotta Continua, aveva precedentemente predicato la separazione degli interessi e la funzione della classe operaia da tutti gli altri settori, soprattutto giovanili e studenteschi, che fin dal 1968 avevano iniziato a muoversi a fianco e con gli operai in lotta. In un’azione di stimolazione reciproca che i militanti di Senza Tregua, al contrario, riconobbero sempre come vitale e positiva.

La separazione definitiva tra l’ipotesi di organizzazione e riflessione radicale contenute nell’ambito del giornale e quelle ancora legate a quello che, nelle pagine di Quadrelli, potrebbe essere definito come una sorta di neo-riformismo dell’Autonomia intellettuale (forse ancora oggi leggibile in una parte dell’azione dei centri sociali, per cui troppo spesso il movimento sembra essere tutto e il fine nulla) avviene proprio sulla base dello scontro apertosi intorno all’ultimo numero della prima serie del giornale, quello del novembre 1976.

A quel numero sarebbe stato allegato un inserto scritto da Oreste Scalzone, intitolato Realismo della politica rivoluzionaria, che da un lato avrebbe marcato l’addio dello stesso al giornale cui aveva collaborato fin dall’inizio e dall’altro una definitiva rottura dei militanti che riprenderanno in mano e manderanno ancora avanti il giornale, con i due numeri usciti per la seconda serie nel maggio e nel settembre del 1977, con la strada che la tradizione operaista stava ormai imboccando.

Proprio nell’ultimo numero della prima serie si affermava:

Una composizione politica nuova caratterizza l’attuale fase dello scontro di classe in Italia. Fuori da una lettura “sociologica” dei comportamenti e della struttura di classe, un carattere politico nuovo emerge nella mutata composizione di classe che è frutto di elementi oggettivi e soggettivi presenti entrambi in modo determinante: l’antagonismo sociale diffuso, la riproduzione e massificazione dei comportamenti e dei bisogni operai a nuovi settori proletari si intreccia in maniera significativa alle forme in cui lotte, comportamenti e bisogni si sono espressi , ai momenti di combattimento praticati, ai livelli di organizzazione che hanno sedimentato. E’ [in] questo processo unitario, a volte contraddittorio ma interno al corpo di classe, in ci hanno agito da una parte il proletariato sociale e dall’altra – in maniera soggettiva – reparti avanzati di questo […] in queste lotte si è espressa una composizione di classe nuova, matura, rivoluzionaria […] Contro questo soggetto proletario rivoluzionario che può liberare bisogni comunisti, forza creativa e territori urbani, lo stato ha dichiarato guerra, si erge come puro strumento di dominio privo di qualsiasi prospettiva di sviluppo economico e di legittimazione sociale, votato alla formazione di una classe operaia militarizzata, obbligata ad erogare lavoro tramite comando.2

Il titolo della sottosezione dell’articolo recitava: Oltre l’Autonomia, un nuovo soggetto per il «Partito Operaio». Poiché la separazione d’intenti proprio nella costruzione di un soggetto politico-partitico nuovo, in una forma partito adatta ai tempi e ai bisogni organizzativi e ai compiti politici posti dalle pratiche di massa affondava le sue radici.

E’ questa coscienza anticipatrice dei compiti che attendevano il movimento che andava scaturendo e si sarebbe pienamente manifestato, pur con tutte le sue contraddizioni e travagli, proprio nel 1977 a rendere ancora oggi, in un clima di chiusura a qualsiasi ipotesi di trattativa e di inasprimento della repressione nei confronti dei conflitti socialie e, sostanzialmente, da guerra civile mondiale dichiarata dal capitale e dai suoi apparati repressivi e statuali nei confronti di tutti i movimenti che ne contestano ovunque il diritto al dominio, all’iniqua ripartizione della ricchezza prodotta e alla devastazione ambientale, estremamente attuale e interessante la rilettura delle pagine e delle riflessioni proposte dal testo curato da Emilio Quadrelli.

Soprattutto nel momento in cui l’incapacità e la scarsa volontà dei governi di provvedere al benessere e alla salute dei cittadini viene coperta e giustificata da un’ulteriore militarizzazione dei territori e della società. Aspetto non secondario che “Senza tregua” aveva già denunciato a proposito di Seveso nel 1976.

* Da leggere possibilmente utilizzando come colonna sonora Before The Deluge di Jackson Browne, nella versione dell’autore (1974) oppure degli irlandesi Moving Hearts (1981)


  1. Si veda anche Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019 (qui)  

  2. Lo scontro di classe ha già da un pezzo superato la soglia oltre la quale non risulta più componibile attraverso vie pacifiche. La guerra civile è la porta stretta attraverso la quale dovrà passare chiunque intenda sbloccare questa situazione in «Senza Tregua», 24 novembre 1976 ora in E. Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, pp. 280-281  

]]>
Macchine collettive contro l’innovazione capitalistica https://www.carmillaonline.com/2020/02/17/macchine-collettive-contro-linnovazione-capitalistica/ Mon, 17 Feb 2020 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58106 di Veronica Marchio

Frammenti sulle macchine. Per una critica dell’innovazione capitalistica, a cura di Giuseppe Molinari e Loris Narda, collana Input, ed. Derive Approdi, Roma 2020, pp. 104, 8,00 euro

Questa opera raccoglie e sistematizza gli interventi del seminario organizzato dal collettivo Hobo di Bologna “Tecniche viventi, vite macchiniche”, riportando la cornice teorica che ha stimolato la messa in discussione di alcune tendenze odierne per pensare una critica dell’innovazione capitalistica. Si tratta di una nuova uscita nella collana Input di DeriveApprodi, dedicata alla formazione politica e connotata da volumi – come questo – agili e di [...]]]> di Veronica Marchio

Frammenti sulle macchine. Per una critica dell’innovazione capitalistica, a cura di Giuseppe Molinari e Loris Narda, collana Input, ed. Derive Approdi, Roma 2020, pp. 104, 8,00 euro

Questa opera raccoglie e sistematizza gli interventi del seminario organizzato dal collettivo Hobo di Bologna “Tecniche viventi, vite macchiniche”, riportando la cornice teorica che ha stimolato la messa in discussione di alcune tendenze odierne per pensare una critica dell’innovazione capitalistica. Si tratta di una nuova uscita nella collana Input di DeriveApprodi, dedicata alla formazione politica e connotata da volumi – come questo – agili e di ampia diffusione, al contempo introduttivi del tema e con rigorosi livelli di approfondimento. I contributi sono quelli di Salvatore Cominu, Andrea Fumagalli, Franco Berardi Bifo; il libro è arricchito dalle interviste a Federico Chicchi, Christian Marazzi, Maurizio Lazzarato.roprio per il carattere fortemente articolato del testo, ricco di sfumature differenti e interrogativi aperti tutti da approfondire, sarebbe impossibile, se non addirittura inutile, pretendere di poter scrivere una recensione che tenga dentro tutto. Ecco perché, cogliendo lo stimolo al ragionamento teorico e politico che un tipo di scritto come questo si propone di offrire, proverò ad interagire con i contenuti del libro, individuando soprattutto gli elementi comuni dei vari interventi e problematizzando ulteriormente i nodi irrisolti che emergono con grande urgenza. 

Innanzitutto ciò che di fondamentale viene fuori dal libro, è che non può esistere una critica dell’innovazione capitalistica, tesa a costruire una progettualità politica antagonista, che non tenga insieme una serie di livelli di ragionamento e di realtà quando ci si interroga sul rapporto tra macchine, tecnologia, soggettività capitalistiche e potenziali soggettività-contro. 

C’è infatti un livello di dominio alto, in cui la dimensione del capitalismo finanziario – come spiega Fumagalli – si coniuga con lo sviluppo tecnologico e macchinico, producendo accumulazione di dominio e potenziamento capitalistico sempre più esteso. Questo livello alto di ragionamento permette di caratterizzare la critica con un punto di vista di parte: la macchina e l’innovazione non sono elementi neutrali, ma strumenti attualmente in mano alla civiltà capitalistica.

Questo elemento, per quanto apparentemente scontato, è in realtà fondamentale, poiché permette di affermare che le macchine, in quanto strumento di moltiplicazione delle forze, di potenziamento dell’attività dell’uomo, sono sempre esistite. L’uomo si è sempre dotato di esse. L’utilizzo capitalistico delle macchine non è naturale, ma storicamente determinato. Ciò di cui il libro si occupa quindi, sono le macchine capitalistiche, un sistema articolato che è costituito come macchina sociale complessiva. 

Prima di entrare nel merito di alcune questioni a mio avviso centrali, vorrei individuare due elementi ricorrenti nel testo, che possono fungere da premessa di questa recensione. In primo luogo emerge chiaramente il tentativo di mettere a verifica e a critica alcune concezioni e categorie del pensiero politico operaista italiano, in particolare attraverso gli studi e le ricerche che Romano Alquati e Raniero Panzieri – con differenze e anche contrasti tra di loro, giustamente evidenziati nel contributo dei curatori – hanno portato avanti sul tema. Secondariamente i vari autori provano in qualche modo a distanziarsi tanto da posizioni tecnofile, quanto da posizioni tecnofobe. Nelle prime l’innovazione tecnologica e il potenziamento delle macchine, ad esempio quelle biologiche come spiega Chicchi, sono viste come una grande risorsa per l’interazione della specie e per inventare nuove soggettività; oppure sono maggiormente legate al mondo della pratica politica, dove spesso l’apparato tecnologico appiattisce completamente la dimensione di realtà, rischiando di disincarnare le lotte e le soggettività. Le seconde prevedono che la tecnologia dominerà in modo totalitario e senza residui la vita dell’uomo, e perciò la soluzione che si prospetta è una rinuncia ad essa.

Nello stesso tempo, e in ciò sta l’elemento di grande stimolo del libro, la semplice terza strada del controuso della tecnologia e delle macchine – contro uso contro l’utilizzo capitalisticamente direzionato –, è posta certamente come punto dirimente, ma viene continuamente problematizzata. In questo senso il ragionamento che viene portato avanti è correttamente ambizioso: apre una sfida tutt’altro che semplice da affrontare. Tutto sommato ciò che alla fine si può affermare è che il contrario di innovazione capitalistica è rivoluzione. Ma ci arriveremo. 

Nel loro saggio introduttivo, che delinea il quadro teorico di riferimento e pone degli interrogativi, Molinari e Narda ci introducono alla definizione che Borio dà di macchina riprendendo Alquati: essa è un sistema complesso, articolato, espropriativo di capacità umane e finalizzato. Questo tipo di modo di considerare la macchina come un sistema e non come mero macchinario, viene in qualche modo riempito nel corso della trattazione. È un sistema articolato, nella misura in cui si caratterizza come sistema di macchine che sono tese alla produzione, all’organizzazione, alla gestione burocratica, macchine biologiche, sociali, che dispiegano un modo di funzionamento. Questo sistema articolato costituisce una macchina sociale complessiva – che Lazzarato definisce anche come macchina di guerra globale. È un sistema espropriativo di capacità umane. Ritengo che questo secondo elemento sia decisamente uno dei punti del libro che più necessitano di essere presi in considerazione, e difatti è anche un nodo su cui i vari interventi ritornano continuamente. 

Affermare ciò significa prima di tutto due cose: la questione dello sviluppo tecnologico delle macchine – la digitalizzazione, i big data, il mutamento delle forme del lavoro, come frontiera dell’innovazione capitalistica – non può essere assunta, come specifica Chicchi, al di fuori dei rapporti sociali di produzione, “della tensione di soggettività, estrazione del valore e sua accumulazione” (pag. 80). Cominu aggiunge che qualunque visione si abbia del rapporto tra innovazione, sapere sociale e natura del nuovo capitalismo, è difficile negare “che lo sviluppo del macchinario digitale sia stato decisivo, negli ultimi decenni, non solo per creare nuove merci ma anche per riformulare le modalità di comando sulla società” (pag. 30). Nonostante le nuove tecnologie siano specialistiche e automatiche, sono anche macchine relazionali e quindi sociali, che hanno assorbito capacità di dialogo, di regolazione ecc. Questo discorso non è in fondo contrastante con ciò che dice Lazzarato in chiusura del libro, e cioè che è la macchina sociale che crea le macchine tecniche. 

In secondo luogo, ricorrente è la critica alle teorie del cosiddetto capitalismo cognitivo secondo cui nel “postfordismo”, il lavoratore – a differenza del passato – sarebbe lasciato autonomo di cooperare per poi essere successivamente espropriato dal capitale, che succhierebbe in modo parassitario la ricchezza della cooperazione sociale. Potremmo quasi affermare che questa posizione – duramente criticata, soprattutto perché poi la presunta autonomia non ha portato a nessun sovvertimento della civiltà capitalistica –, ricade in una posizione tecnofila, affidando la progettualità politica totalmente in mano all’innovazione capitalistica. Mentre, come dice Bifo, è una temporalità autonoma che andrebbe contrapposta a quella accelerata del capitale.

Nel saggio introduttivo – e ciò in linea con lo stesso titolo del libro – i due curatori vanno invece direttamente al cuore del problema, ripartendo dal Frammento sulle macchine di Marx e dai concetti di capacità e attività umana di Alquati. Il capitale ha sempre avuto l’esigenza di liberarsi (ovvero sussumere la forza) del sapere e delle abilità operaie (viste come arma di ricatto), di impoverire la capacità umana nel senso di incorporarla dentro la macchina in funzione anti-operaia – si parla di macchinizzazione delle capacità umane – , di separarla, in quanto risorsa calda, dal corpo di chi la possiede, per inglobarla nella risorsa fredda macchinica. In altre parole, la costituzione di una contrapposizione tra la macchina e la capacità umana, che ha come effetto un potenziamento di essa per il capitale, e un impoverimento della sua potenziale linea di arricchimento contro il capitale. Come direbbe Alquati, la risorsa calda entra essa stessa in un processo di mercificazione. Pensiamo, come suggerisce Marazzi, al rapporto tra capacità umane e digitale: il lavoro vivo, che ha incorporato una serie di funzioni del capitale fisso, genera informazione e dati a partire dalle forme di vita, non solo quindi nel mondo del lavoro classicamente inteso, ma anche nel vasto mondo della riproduzione sociale. 

Il sistema macchina è infine, e di conseguenza, finalizzato. L’ovvio rischio a cui tutte le posizioni tecnofile si espongono è quello di considerare l’innovazione – e quindi le macchine – come dispositivi neutri e neutrali. Come spiega in modo eccellente Cominu, le macchine costituiscono una potenza ostile per l’agente umano, sono l’esito di un rapporto di forza, sono intrinsecamente una parzialità – direbbe Panzieri – e portano perciò ad una situazione di ambivalenza. Quest’ultimo concetto viene ripreso da Alquati, il quale ipotizzava, in modo esplorativo, un’ambivalenza irriducibile, per cui la capacità umana è solo tendenzialmente capitale e può rifiutarsi di funzionare come tale. In altre parole, se il capitale ha sempre bisogno della capacità umana per compiere il processo di innovazione – chiudendo o lasciando aperta l’ambivalenza –, la risorsa calda – per quanto impoverita – rimane comunque dentro al corpo caldo come potenzialità che può rompere i processi di lavorizzazione e mercificazione. L’ambivalenza allora, come suggerisce Cominu, va coltivata, come campo di battaglia. 

Prima di arrivare a conclusioni e interrogativi, vorrei toccare un’ultima questione importante che nel libro viene affrontata: il rapporto tra macchine e lavoro. In particolare mi sembra molto utile ciò che dice Cominu, quando afferma – riprendendo tutto un dibattito che non posso qui sintetizzare per motivi di spazio – che gli scenari sull’impatto della trasformazione digitale, anche in termini quantitativi di numero di lavori in diminuzione, sono irrealistici; più che parlare della fine del lavoro dovremmo parlare di lavoro senza fine, “laddove lavoro è meno distinguibile dall’insieme delle attività co-implicate nella produzione di valore” (pag. 37). Chicchi specifica ancora meglio questo rapporto, dicendo che in questo modello di relazione della tecnologia con il mondo del lavoro, la prestazione lavorativa deve essere assoluta e smisurata, e riguarda tanto il tempo produttivo, quanto quello riproduttivo. La gamma di capacità umane impoverite è dunque molto estesa. 

Per concludere, riprendo una domanda che Cominu, a conclusione del suo intervento, rivolge a mo di apertura di un dibattito in merito: “cosa significa contro-usare l’organizzazione infrastrutturata delle macchine digitali?” e “fino a che punto la persona umana è mezzificabile?” (pag. 40). Aggiungerei io: come immaginare un contro alla macchina sociale capitalistica complessiva, per riprendere il ragionamento sviluppato da Lazzarato? Penso che siano questi degli interrogativi cruciali, soprattutto per il fatto che la riduzione della capacità umana a mezzo è un processo, ed è un processo non risolto una volta per tutte: la risorsa umana è pur sempre calda – ritorna qui il concetto alquatiano di residuo irrisolto.

Alla luce della sfida che questo libro propone, mi sembra del tutto urgente ragionare sul fatto che, se l’innovazione capitalistica decantata come progresso dell’umano, in realtà impoverisce l’umano, potenziandolo ma privandolo della sua possibile ricchezza, costituendosi come forza ostile ad esso, è plausibile pensare a come rovesciare questa ostilità? Se l’innovazione e il progresso non sono, di conseguenza, figli della necessità di uno sviluppo che tende verso il bene, se essi sono sinonimo di sussunzione delle lotte e dei comportamenti dotati di politicità intrinseca – e quindi il contrario di rivoluzione –, come ripensare l’ipotesi del contro-uso delle macchine, in una direzione che immagini la costituzione di macchinette collettive, che producano ricchezza di capacità, organizzazione, contro-formazione e contro-soggettività?

]]>
LUDD ovvero dell’insurrezione permanente https://www.carmillaonline.com/2018/07/26/ludd-ovvero-dellinsurrezione-permanente/ Wed, 25 Jul 2018 22:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47303 di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta [...]]]> di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

“E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

“Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

“La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

“Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.


  1. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994  

  2. Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999  

  3. Paolo Ranieri, CRITICA RADICALE. GLI ANNI DI LUDD 1967-1970. Introduzione in La critica radicale in Italia, pag. 7  

  4. P. Ranieri, op.cit. pag. 5  

  5. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969  

  6. Leonardo Lippolis, L’occupazione definitiva del nostro tempo, in La critica radicale in Italia, pag. 35  

]]>
Murray Bookchin: una nuova prospettiva per il XXI secolo https://www.carmillaonline.com/2018/02/22/murray-bookchin-nuova-prospettiva-xxi-secolo/ Wed, 21 Feb 2018 23:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43769 di Sandro Moiso

Murray Bookchin, LA PROSSIMA RIVOLUZIONE. Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta, con una Postfazione di Ursula K. Le Guin, BFS Edizioni 2018, pp. 192, € 18,00

Nei suoi ottantaquattro anni di vita Murray Bookchin (1922 – 2006) ha avuto modo di percorrere da critico radicale quasi l’intero ‘900, confrontandosi con le principali ideologie del movimento operaio e militando all’interno delle sue due correnti principali, marxismo e anarchismo, in periodi differenti della sua vita.

Pur ritenendosi anarchico nel corso della seconda e più lunga fase della sua vita, ha però sentito la necessità, dalla seconda metà degli [...]]]> di Sandro Moiso

Murray Bookchin, LA PROSSIMA RIVOLUZIONE. Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta, con una Postfazione di Ursula K. Le Guin, BFS Edizioni 2018, pp. 192, € 18,00

Nei suoi ottantaquattro anni di vita Murray Bookchin (1922 – 2006) ha avuto modo di percorrere da critico radicale quasi l’intero ‘900, confrontandosi con le principali ideologie del movimento operaio e militando all’interno delle sue due correnti principali, marxismo e anarchismo, in periodi differenti della sua vita.

Pur ritenendosi anarchico nel corso della seconda e più lunga fase della sua vita, ha però sentito la necessità, dalla seconda metà degli anni ’90 del XX secolo fino alla fine dei suoi giorni, di ridefinire la critica del modo di produzione vigente a partire dal superamento delle due ideologie principali, insieme a quelle genericamente socialiste oppure legate al sindacalismo rivoluzionario, per giungere ad una sintesi del pensiero rivoluzionario più adeguata ad affrontare le condizioni sociali, politiche, economiche e ambientali che si possono già intravedere per il secolo in cui siamo entrati ormai da quasi un ventennio.

Il testo ora tradotto in italiano è stato pubblicato per la prima volta in lingua inglese nel 2015 e raccoglie otto saggi scritti tra il 1991 e il 2002, coprendo così la parte finale e forse più importante della riflessione di Bookchin. La cui prima caratteristica è sta quella di importare e sviluppare all’interno del pensiero antagonista la questione del rapporto tra uomo e ambiente, non soltanto come problema a latere del movimento rivoluzionario o come semplice visione ecologista della realtà, ma come punto centrale ed essenziale di ogni ipotesi di trasformazione futura dei rapporti sociali di produzione e convivenza con la natura. Di cui la società umana non solo non potrà più definirsi antagonista o dominatrice, ma soltanto accettare di fare parte della stessa, adeguando le proprie necessità a quelle del mondo e delle specie che la circondano.
Così come recita un bel manifesto della lotta NoTav: Noi non difendiamo la natura, noi siamo la natura che si difende.

L’immaginario politico e filosofico di Bookchin non risente però del primitivismo teorizzato da alcune frange anarchiche ispirate al pensiero di John Zerzan, ma si attiene ancora al razionalismo di stampo illuministico e marxista poiché il fine non è quello di lasciarsi alle spalle il pensiero scientifico tout court ma di adeguarlo alle reali necessità della comunità umana e del pianeta con cui convive. L’autore americano rivendica infatti la fiducia nel poter giungere a ciò che definisce come naturalismo dialettico, autentica base di un’ecologia sociale condivisa e non dettata dalle mode o dalle esigenze del capitale.

“Nel complesso, la condizione sociale prodotta dal capitalismo contemporaneo non si accorda con le previsioni, semplicemente classiste, espose da Marx e dai sindacalisti rivoluzionari francesi. Dopo la Seconda guerra mondiale il capitalismo ha subito un’enorme trasformazione e ha creato nuovi e gravi problemi sociali. Problemi che vanno oltre le tradizionali richieste del proletariato per il miglioramento dei salari, degli orari e delle condizioni di lavoro: in particolare riguardano l’ambiente, il gender, la gerarchia e le tematiche civili e democratiche.[…] Si stanno sviluppando nuove e complesse sfumature di status e interessi personali che oggi hanno un’importanza maggiore di quanto avessero in passato. Tutto ciò rende meno definito il conflitto tra lavoro salariato e capitale che prima era centrale, compreso e utilizzato in modo militante dai movimenti socialisti tradizionali. Le categorie di classe si sono ormai fuse con le categorie gerarchiche basate su razza, gender, preferenze sessuali e specifiche differenziazioni nazionali o regionali. Differenze di status e caratteristiche gerarchiche tendono a convergere con differenze di classe, e sta emergendo un mondo capitalistico diffuso in cui per l’opinione pubblica le differenze etniche, nazionali e di genere spesso sono più importanti delle differenze di classe.
Allo stesso tempo, il capitalismo ha prodotto una nuova contraddizione, forse la più importante: lo scontro tra un’economia basata sulla crescita infinita e la distruzione dell’ambiente naturale”.1

Anche se talvolta Bookchin sembra un po’ troppo affascinato dal capitalismo liberale del primo Novecento e poco propenso all’analisi delle dinamiche imperialiste e finanziarie passate e presenti, non vi è dubbio che nella sua opera ha saputo largamente anticipare le questioni poste sempre più in evidenza dalla società del terzo millennio cercando, allo stesso tempo, di superare i facili mantra e le eccessive semplificazioni ideologiche derivate dalle pratiche novecentesche, sia in campo marxista che bolscevico o anarchico.

“Nessuna delle ideologie anticapitaliste professate nel passato – marxismo, anarchismo, sindacalismo e varie forme di socialismo – ha ancora oggi la stesa importanza avuta nella fase precedente […] Nessuna di queste ideologie può comprendere integralmente la moltitudine di problemi, opportunità, incognite e interessi che il capitalismo ha creato più volte nel corso del tempo.
Evidenziando sia i presupposti storici e materiali che quelli soggettivi di una società di nuovo tipo, il marxismo ha rappresentato il tentativo più completo e coerente per organizzare un socialismo ben organizzato. Dobbiamo molto al tentativo di Marx di fornirci un’analisi coerente e stimolante dei rapporti di mercato e delle connessioni tra il mercato e il pensiero progressista, oltre a una teoria sistematica sociale, un concetto oggettivo o «scientifico» di sviluppo storico e una strategia politica flessibile.[…] Allo stesso modo l’anarchismo rappresenta, anche nella sua forma autentica, una prospettiva fortemente individualista che promuove uno stile di vita radicalmente libertario, spesso in sostituzione all’azione di massa.
In realtà. L’anarchismo rappresenta la più estrema formulazione dell’ideologia liberalista, fino alla celebrazione di atti eroici di sfida dello Stato. Il mito anarchico dell’autoregolamentazione – l’affermazione radicale dell’individuo al di sopra o anche contro la società e la personalistica assenza di responsabilità per il benessere collettivo – porta ad un’affermazione di una volontà personale onnipotente che sarà centrale nel percorso di Nietzche.[…] Il destino del sindacalismo rivoluzionario è stato condizionato in vari modi da una patologia chiamata «operaismo» e tutto ciò che possedeva a livello storico, filosofico o politico è stato preso in prestito, spesso in modo frammentario e indiretto, da Marx “.2

Ciò che poi accomuna, secondo Bookchin, le tre principali correnti del movimento anticapitalista è l’aver quasi sempre confuso la «politica» con il governo dello Stato, senza riuscire a comprendere come il secondo sia sostanzialmente destinato ad esercitare il dominio sulla società da parte di una classe o di un partito, o ancora di un modo di produzione dei suoi funzionari, più che a promuovere una razionale e condivisa organizzazione della stessa.

“Una caratteristica distintiva della sinistra è proprio la convinzione marxista, anarchica e sindacalista rivoluzionaria che non esista alcuna distinzione, in linea di principio, tra la sfera politica e la sfera statalista. Enfatizzando lo Stato-nazione – incluso lo «Stato operaio» – come centro del potere economico e politico, Marx (così come i libertari) non è riuscito a dimostrare come i lavoratori possano controllare in maniera piena e diretta un tale Stato senza la mediazione di una potente burocrazia e di istituzioni di tipo statalista ( o, nel caso dei libertari, governative). Di conseguenza, i marxisti hanno concepito inevitabilmente la sfera politica – che hanno definito Stato operaio – come entità repressiva, apparentemente fondata sugli interessi di una sola classe: il proletariato. […] Gli anarchici hanno a lungo considerato ogni governo come uno Stato e lo hanno condannato – un punto di vista che rappresenta la ricetta per eliminare ogni vita sociale organizzata, qualunque essa sia. Mentre lo Stato è lo strumento con cui una classe oppressiva e sfruttatrice regola e controlla in modo coercitivo il comportamento delle classi sfruttate, un governo – o meglio ancora, un sistema politico – è un insieme di istituzioni progettate per affrontare i problemi della vita consociativa in modo ordinato e, si spera, equo. Ogni associazione istituzionalizzata che costituisca un sistema di gestione degli affari pubblici – con o senza la presenza di uno Stato – è necessariamente un governo. Al contrario, tutti gli Stati, anche se sono di fatto una forma di governo, sono una forza di repressione e controllo di classe. Per quanto possa dar fastidio sia ai marxisti che agli anarchici, la classe degli oppressi ha richiesto per secoli, a gran voce e in maniera articolata costituzioni, governi responsabili e sensibili e perfino leggi o nomos, che la difendessero dal potere volubile dei monarchi, dei nobili e dei burocrati. L’opposizione libertaria alla legge, per non parlare del governo in quanto tale, è sciocca […] Ciò che rimane, alla fine, non è altro che un’immagine residuale sulla retina che non esiste nella realtà”.3

Qual è allora la proposta di Bookchin?

“Mentre entriamo nel ventunesimo secolo, i radicali sociali hanno bisogno di un socialismo – libertario e rivoluzionario – che non sia né un prolungamento dell’«associazionismo», di tipo contadino e artigianale, che troviamo al centro dell’anarchismo, né l’«operaiolatria» che troviamo al centro del sindacalismo rivoluzionario e del marxismo.[…] Tentare di rianimare il marxismo, l’anarchismo o il sindacalismo rivoluzionario, dotandoli di un’immortalità ideologica, sarebbe un ostacolo allo sviluppo di un importante movimento radicale.[…] E’ mia opinione che il comunalismo sia la categoria politica generale più adatta a comprendere pienamente una visione ben ponderata e sistematica dell’ecologia sociale […] Come ideologia, il comunalismo attinge alla migliore tradizione delle vecchie ideologie di sinistra –marxismo e anarchismo o, più propriamente, la tradizione socialista libertaria – offrendone una visione più vasta e rimarchevole per il nostro tempo. […] La scelta del termine comunalismo per affrontare le componenti filosofiche, storiche, politiche e organizzative di un socialismo per il ventunesimo secolo non è avventata . Il termine trae origine dalla Comune di Parigi del 1871, quando nella capitale francese il popolo armato salì sulle barricate non solo per difendere il consiglio comunale di Parigi e le sue sotto strutture amministrative, ma anche per creare una confederazione nazionale di città e paesi, in sostituzione dello Stato-nazione repubblicano. Il comunalismo, come ideologia, non è contaminato dall’individualismo e dall’antirazionalismo, spesso esplicito nell’anarchismo; né porta il peso dell’autoritarismo marxista esplicitato nel bolscevismo. Esso non si concentra sulla fabbrica come suo principale campo sociale o sul proletariato industriale come suo principale agente storico e non riduce le libere comunità del futuro in comunità irreali di stampo medievale”.4

Non è nemmeno un caso che le esperienze di lotta più significative attualmente, dalla Valle di Susa qui in Italia alla ZAD in Francia, si siano in qualche modo conformate a questa visione che, d’altra parte, non può nemmeno e non potrà mai darsi per definitiva una volta per tutte. Così come non può essere un caso che la visione di Murray Bookchin sia stata adottata o, almeno, sia così vicina alle forme di lotta e organizzazione sociale adottate nel Rojava curdo e fatte proprie anche dalle teorie esplicitate da Abdullah Öcalan nelle sue ultime opere dopo la revisione del marxismo-leninismo sulle cui basi si era formato il PKK.5

Così come forse non è nemmeno un caso che a curare la traduzione e l’introduzione italiana al testo pubblicato da BFS sia stato Martino Seniga, giornalista e inviato della RAI, che ha viaggiato a lungo nel Kurdistan, dove ha realizzato una serie di reportage televisivi e programmi per il web sul progetto confederalista democratico in Siria (Rojava) e Turchia.

Come afferma Ursula Le Guin, scrittrice americana di fantascienza utopica e femminista recentemente scomparsa, nella sua Postfazione:

“Certamente oggi il pensiero filosofico e sociale deve confrontarsi con l’irreversibile degrado ambientale prodotto da un capitalismo senza freni: un fatto evidente di cui la scienza ci parla da più di cinquanta anni, mentre i progressi della tecnica cercano solo di mascherarlo. Ogni vantaggio che ci hanno portato l’industrializzazione e il capitalismo, ogni miglioramento nella scienza, nella salute, nella comunicazione e nel benessere getta ormai la stessa ombra letale.[…] Il capitalismo si fonda per definizione sulla crescita; come dice Bookchin: «per il capitalismo desistere dalla sua crescita insensata significherebbe commettere un suicidio sociale». Evidentemente abbiamo semplicemente preso il cancro come modello del nostro sistema sociale.
L’imperativo capitalista di «crescere o morire» si scontra radicalmente con gli imperativi ecologici dell’interdipendenza e della sussistenza. Queste due visioni non possono più coesistere tra loro, né potrà sopravvivere una società fondata sul mito di questa coesistenza impossibile. O sapremo realizzare una società ecologica o non ci sarà più una società per nessuno, indipendentemente dal suo status.
Murray Bookchin ha speso la vita opponendosi allo spirito rapace del capitalismo del «crescere o morire». Gli otto saggi che compongono questo libro rappresentano la sintesi del suo lavoro: le fondamenta teoriche per una società ecologica, egualitaria e democratica, con un approccio pratico alla sua realizzazione. Analizza i fallimenti dei vecchi movimenti per il cambiamento sociale, rilancia la prospettiva della democrazia diretta e, nell’ultimo capitolo, disegna il suo progetto di trasformare la crisi ambientale globale in un’opportunità per superare le stantie gerarchie di genere, razza, classe e nazione, l’occasione di trovare una cura radicale per il «male» che governa il nostro sistema sociale. Ho letto questo libro con emozione e gratitudine”.6

Non saprei trovare parole migliori per concludere questa recensione.


  1. M. Bookchin, Il progetto comunalista (novembre 2002), in LA PROSSIMA RIVOLUZIONE, pp. 32-33  

  2. Bookchin, op.cit. pp. 34-37  

  3. pp. 38-39  

  4. pp. 39-41  

  5. Sulle interrelazioni tra il pensiero di Abdullah Öcalan quello di Murray Bookchin, si veda Janeth Biehl, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, Edizioni Tabor 2015  

  6. Ursula K. Le Guin, Postfazione, pp.180-181  

]]>