Narcotraffico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un cuore di tenebra nel Triangolo d’Oro https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/un-cuore-di-tenebra-nel-triangolo-doro/ Tue, 19 Nov 2024 23:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85484 Di Jack Orlando

Patrick Winn, Narcotopia, Adelphi Edizioni, Milano 2024, 503 pp., 30€

La Birmania, o Myanmar, è uno di quei territori periferici che appare per brevi momenti sugli schermi dei media occidentali, salvo poi sparire dentro coni d’ombra lunghi anni. E nel momento in cui si scrivono queste righe, tra le colline e le valli del paese si combatte e si muore.

Quattro anni fa un movimento democratico di studenti delle città, represso ferocemente, si è saldato con le etnie delle province gelose della propria autonomia. Sono quasi millequattrocento giorni che una giunta militare golpista cerca in modo [...]]]> Di Jack Orlando

Patrick Winn, Narcotopia, Adelphi Edizioni, Milano 2024, 503 pp., 30€

La Birmania, o Myanmar, è uno di quei territori periferici che appare per brevi momenti sugli schermi dei media occidentali, salvo poi sparire dentro coni d’ombra lunghi anni.
E nel momento in cui si scrivono queste righe, tra le colline e le valli del paese si combatte e si muore.

Quattro anni fa un movimento democratico di studenti delle città, represso ferocemente, si è saldato con le etnie delle province gelose della propria autonomia.
Sono quasi millequattrocento giorni che una giunta militare golpista cerca in modo folle e feroce di mettere capo a una guerra civile che essa stessa ha provocato e di cui non ha alcuna possibilità di vittoria.
Le innumerevoli milizie ribelli conquistano costantemente avamposti, controllano la gran parte del territorio del paese e sono ormai ben rodate nella pratica bellica.
Ai generali al governo resta il potere della tecnica, una manciata di chilometri quadrati e qualche pista di volo da dove sganciare bombe sulle città e poter fuggire quando sarà il momento.

Della guerriglia non si parla, delle etnie in lotta nemmeno, non si parla della Giunta né dei suoi crimini contro l’umanità. Il popolo birmano consuma il suo dramma nell’ombra.
Però ricordiamo tutti molto bene l’immagine della tiktoker che balla in live mentre alle sue spalle sfrecciano i suv neri delle forze armate che si apprestano a chiudere il decennio di regime elettorale, deponendo e arrestando il governo di Aung Saan Suu Kyi (forse l’unico volto del paese a cui si sia mai data un po’ d’attenzione da queste parti) per riprendere la lunga pratica di dittatura militare.
Bizzarrie dell’epoca dei social media.

Triste fama, battezzata dalla propaganda della “guerra alla droga” che da decenni miete vittime invisibili in giro per il globo.
La Birmania è infatti un tassello fondamentale del cosiddetto “Triangolo d’Oro”: un territorio che comprende ampi brandelli di Laos e Thailandia, negli anni principale produttore di eroina, poi metanfetamina e oggi truffe online. Praticamente un’infinita ed esecrabile miniera d’oro.

È la zona di confine con la Cina, il territorio montano delle tribù Wa, il laboratorio dove prese il via la grande invasione dell’Eroina. Tra contadini poverissimi e campi di papaveri da oppio su terre aride.
Il popolo Wa si presta facilmente alla creazione del cattivo della storia: genti incolte e bellicose, abitanti luoghi inospitali, con alle spalle la discutibile abitudine di tagliare la testa ai vicini.
Eppure se per anni sono stati i produttori del novanta per cento dell’eroina prodotta nel mondo, questo è stato merito della CIA, i portavoce del mondo libero che per difendere la libertà non esitano a rovesciare napalm sulla gente e stringere le mani di boia e macellai.

Negli anni ’50 i tentativi di seminare disordine, destabilizzare e infiltrarsi nella giovane Repubblica Socialista Cinese avevano come esecutori bande di espatriati reazionari, armati e finanziati dai servizi statunitensi e se la contropartita era di aiutarli per anni a produrre e trasportare eroina, anche usando gli aerei americani, anche vendendola ai soldati americani che combattevano in Vietnam, guadagnandosi la prima grande generazione di tossicodipendenti, poco male.

Il verticalizzarsi di un’economia locale sulla produzione di oppio finì per intrecciare tentativi d’emancipazione, lotte di potere e dipendenze strutturali.
Il territorio Wa, nella ricerca della sua autodeterminazione non è mai riuscito, nonostante i numerosi tentativi, a sganciarsi dal suo ruolo di centro della droga, finendo per superare il giro di boa del terzo millennio vestendo i panni di un ambiguo narcostato in perenne crisi interiore: né comunità politica né cartello.
Questa la genesi e lo sviluppo sommario che la propaganda della “guerra alla droga” ha cercato di censurare per dipingersi come forza del bene eretta a difesa del mondo.

Patrick Winn, giornalista d’inchiesta specializzato nel Sud Est asiatico, che negli anni ha sondato i recessi bui dell’area, ha ricostruito questa storia ridandole giustizia, strappandola al cono d’ombra e allo stigma.
Reportage, racconto storico, indagine giornalistica sono strumenti messi a lavoro nel costruire una narrazione a tutto tondo, avvincente quanto puntuale, dove il moralismo e l’orientalismo lasciano il passo alle parole dei protagonisti, unici a vivere davvero il peso delle vicende e ovviamente soli a essere esclusi da qualsiasi altra presa di parola.

Winn, come il sig. Marlow di Lorenz (o il capitano Willard di Coppola), risale attraverso sentieri tracciati dagli anfibi delle truppe imperiali del “mondo libero” ne saggia le tracce lasciate e osserva, attraverso la boscaglia, le figure dei nativi, che via via perdono il loro stato di spettri, creature proprie della botanica più che della cultura, per divenire umani a pieno titolo.
In questo disvelamento cadono le maschere della morale ed emerge la lotta per la sopravvivenza delle comunità, l’intreccio di interessi cinici che procede incurante sulle teste degli uomini e delle donne che ne subiscono le conseguenze.

C’è una galleria di eroi tragici, di antagonisti irriducibili, di idealismi ottusi e slanci generosi; ingredienti degni di ogni epopea ma privi d’astrattezza, anzi, fatti completamente di carne e sangue, ultraterreni nel loro movimento storico.

Anche in questa Narcotopia, il colonnello Kurtz alla fine del viaggio, lungi dall’essere un mostro, è il doppio, il riflesso straziato di un universo piegato su sé stesso, appeso tra i feticci di una cultura morente e le scorie di un futuro alieno che ingloba i mondi al suo margine, li include, ma solo in posizione subordinata e perennemente condannabile.
La penna di Winn rimettendo loro la voce, salva gli ultimi delle vette birmane e assume così il dovere etico e politico dei narratori.
Questo Kurtz collettivo, che ora parla e sgrana le sue verità, è il popolo Wa, osceno perché accusatorio nella sua stessa forma di vita, che non fa che rovesciare l’anatema mostrando come, in ogni cuore di tenebra, il male non viene dal basso dove si procede a tentoni, ma dall’alto di chi illumina e stabilisce la forma delle cose.

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La vera notte di Iguala e il caso Ayotzinapa: intervista con Anabel Hernández https://www.carmillaonline.com/2017/03/15/la-vera-notte-iguala-caso-ayotzinapa-intervista-anabel-hernandez/ Tue, 14 Mar 2017 23:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37045 di Fabrizio Lorusso

Anabel Hernández è una delle giornaliste d’inchiesta più riconosciute del Messico. E’ autrice, tra gli altri, dei libri La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga[*], Messico in fiamme. L’eredità di Calderón e La vera notte di Iguala, l’inchiesta più attuale e contundente sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala, nel meridionale stato messicano del Guerrero, la notte del 26 settembre 2014. Per le minacce e le aggressioni ricevute, che hanno coinvolto direttamente lei, la sua famiglia e i suoi vicini, [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Anabel Hernández è una delle giornaliste d’inchiesta più riconosciute del Messico. E’ autrice, tra gli altri, dei libri La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga[*], Messico in fiamme. L’eredità di Calderón e La vera notte di Iguala, l’inchiesta più attuale e contundente sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala, nel meridionale stato messicano del Guerrero, la notte del 26 settembre 2014. Per le minacce e le aggressioni ricevute, che hanno coinvolto direttamente lei, la sua famiglia e i suoi vicini, Anabel vive da più di sei anni sotto scorta. Dall’agosto del 2014 e all’agosto del 2016, s’è dovuta rifugiare negli Stati Uniti, dove ha potuto vivere coi suoi figli grazie a una borsa di studio del programma di studi in giornalismo dell’Università della California a Berkeley. Ho conversato con lei delle sue scoperte sul caso dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, sulla corruzione delle autorità e il ruolo dell’esercito, sulla situazione dei cartelli del narcotraffico, sul muro di Trump e sulla legalizzazione delle droghe. Questa è la versione integrale dell’intervista di cui alcuni estratti sono usciti su Huffington e su Ctxt. Esce oggi su Carmilla in collaborazione con Frontiere News [Foto “Ayotzinapa” di Diego Simón Sánchez / Cuartoscuro].

Perché te ne sei dovuta andare dal Messico e com’è stato il periodo dell’esilio negli USA?

Prima di tutto va spiegato che il Messico è uno dei luoghi più pericolosi al mondo per l’esercizio della professione giornalistica. Non sono solo parole al vento. In Messico sono stati assassinati più di 116 giornalisti negli ultimi dieci anni. Solo l’anno scorso sono stati sedici ed io, per sfortuna, sono una delle giornaliste che ha subito violenze e attentati come conseguenza del mio lavoro. In seguito alla pubblicazione del mio libro Los señores del narco (uscito in Italia col titolo La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga) nel dicembre del 2010 sono venuta a sapere da una delle mie fonti d’informazione che l’allora Ministro della Sicurezza Pubblica, Genaro García Luna, aveva organizzato un piano per uccidermi come rappresaglia per quanto avevo pubblicato su di lui e sulla rete di corruzione che operava dentro la Polizia Federale (PF) per favorire il cartello [organizzazione criminale] di Sinaloa e passava direttamente dallo stesso García Luna e dai principali capi della polizia. Questo ha provocato che la polizia organizzasse un complotto per assassinarmi. Me ne sono accorta in tempo e allora la Commissione Nazionale dei Diritti Umani ha chiesto al governo di Città del Messico di darmi una protezione. Da allora vivo 24 ore su 24 con la scorta.

verdadera noche iguala portadaDopo questi fatti, nel gennaio 2010, c’è stato un attentato armato contro la mia famiglia e s’è scatenato un inferno: alcune delle mie fonti d’informazione sono state ammazzate, crivellate di colpi per strada, come nel caso del Generale Mario Arturo Acosta Chaparro, che era stato una delle mie fonti principali per il libro Los señores del narco e mi aveva narrato l’incontro che ebbe con esponenti dei differenti cartelli della droga, compreso Joaquín “El Chapo” Guzmán, che all’epoca era latitante, per ordine dell’allora Presidente della repubblica Felipe Calderón. Contrariamente a quanto diceva in pubblico, cioè che c’era una “guerra contro il narcotraffico”, in realtà quello che faceva era essere corrotto dal narcotraffico e cercare di negoziare con diverse organizzazioni criminali. Questa informazione, in seguito, me la confermò anche Edgar Valdez Villareal, alias “La Barbie”. Si tratta di un narcotrafficante importante che [prima di finire in manette] lavorava per il cartello di Sinaloa, per quello dei fratelli Beltrán Leyva e per El Chapo Guzmán. Valdez mi scrisse una lettera nel novembre del 2012, raccontando come lo stesso presidente Calderón aveva condotto alcune di queste gestioni con i criminali, per cui invece di perseguitarli si sedeva a prendere un caffè con loro, e come gli risultasse che quel capo di polizia, che risponde al nome di Genaro García Luna, e altri dirigenti che avevo denunciato ricevesse denaro da lui e da altri cartelli.

Sono rivelazioni molto pesanti.

Questo ha fatto sì che le aggressioni contro di me fossero sempre peggiori e nel dicembre 2013 è successa una cosa molto delicata, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, per cui sono stata costretta a lasciare il Messico. E’ arrivato un commando armato della polizia federale con undici uomini armati a casa mia. Sono entrati nel condominio, hanno minacciato gli uomini della scorta, portandosene via una per malmenarlo brutalmente, e poi hanno minacciato i miei vicini, puntagli le pistole alle tempie, senza nemmeno risparmiare i bambini di sei o sette anni lì presenti. Infine sono entrati in casa ma io non ero là. Non hanno rubato assolutamente niente, ma questo crimine è rimasto impune e sono stata obbligata a pianificare un’uscita dignitosa dal Paese.

Dico così perché non volevo sembrare un “cattivo esempio” per i miei colleghi e compagni, scappando solo per scappare. Volevo veramente trovare un modo di avere uno spazio, di continuare a lavorare, ricercando e pubblicando informazione in Messico senza stare in Messico. Così ho trovato un programma di giornalismo d’inchiesta alla Università della California di Berkeley che mi ha che mi ha accolto per due anni dandomi una borsa per poter vivere coi miei figli in relativa tranquillità. Anche se era una piccola isola, per me era difficile pensare ai miei colleghi che continuavano a morire in Messico e alla situazione che non cambiava, così ho deciso di rischiare comunque e, nei due anni passati negli USA, ho indagato sul caso Iguala-Ayotzinapa e la desaparición dei 43 studenti, tornando una volta al mese in Messico.

Anabel Hernandez

Foto: la giornalista Anabel Hernández (su gentile concessione)

Quali sono le principali scoperte del tuo libro sulla “vera notte di Iguala” e il caso Ayotzinapa?

Dapprima vorrei dire all’opinione pubblica e alla comunità internazionale che il governo del Messico ha inventato la risoluzione del caso.

Quando succede questa terribile sparizione forzata degli studenti e l’omicidio di tre di loro e di altre tre persone, proprio quella notte del 26 settembre che tutti ricordano, il governo messicano ha cominciato a tessere una versione ufficiale che potesse coprire per sempre la realtà dei fatti accaduti quella notte. Durante un anno mi sono occupata di smantellare tutte le menzogne inventate dal governo federale, principalmente dalla Procura Generale della Repubblica (PGR), diretta all’epoca da Jesús Murillo Karam e dal responsabile diretto delle indagini, che era il direttore della Agenzia per la Indagini Criminali (AIC), il signor Tomás Zerón.

Questi due personaggi hanno inventato la cosiddetta “verità storica”, hanno fatto credere al mondo che gli studenti della scuola normale erano stati assassinati per ordine di un semplice e piccolo sindaco, quello di Iguala, José Luis Abarca, da un gruppo di poliziotti senza armamento né formazione sufficiente e da un piccolo gruppo criminale che era operativo nella zona. Questa è la storia inventata dal governo che ha detto al mondo che gli studenti erano stati cremati quella notte in una discarica della vicina cittadina di Cocula. E’ la storia che conosce il mondo, ma questa storia è falsa.

Ciò che ho scoperto in due anni di ricerche si riassume in cinque punti fondamentali che dimostrano, provano, che sono stati i funzionari pubblici del governo del presidente Enrique Peña Nieto, sono stati i militari, i poliziotti della federale e i federali-ministeriali, e sono stati alcuni membri della polizia statale [dello stato del Guerrero] a prendere parte a questo crimine. Ho trovato che sono stati direttamente l’esercito messicano, il 27esimo battaglione di fanteria, e l’allora colonnello responsabile del battaglione [José Rodríguez Pérez] che hanno orchestrato, disegnato, ordinato, coordinato e infine eseguito la sparizione forzata dei 43 studenti. Ho potuto anche scoprire che vi hanno partecipato attivamente almeno quattordici elementi della Polizia Federale. Nel libro cito anche i loro nomi nello specifico. Cito anche i nomi dei membri della Polizia Federale Ministeriale (PFM), ossia coloro che lavoravano al servizio di Tomás Zerón e hanno partecipato direttamente ai fatti, e ho prove contundenti del fatto che l’esercito ha sparato direttamente quella notte contro i cinque pullman su cui viaggiavano gli studenti. Hanno sparato in particolare sui due autobus della marca Estrella de Oro, i bersagli di quella notte.

Ho scoperto che l’origine o la ragione dell’attacco, che fino ad ora è stato tenuto nascosto dal governo federale, è che l’esercito quella notte stava lavorando per conto di un boss molto importante che gestiva le operazioni nel Guerrero e che voleva recuperare il carico di eroina di due milioni di dollari che si trovava nei due pullman e che, per una fatalità, gli studenti avevano occupato ignari di tutto qualche giorno prima. Senza sapere che quei bus si sarebbero trasformati nelle loro tombe. E un altro degli elementi che ho potuto scoprire è che il governo del Messico era a conoscenza di tutto ciò.

fue el estadoCome?

A metà 2016 c’è stata un’investigazione interna alla procura. Il responsabile degli affari interni, l’Auditor Generale della PGR ha fatto un’indagine indipendente sulla stessa investigazione condotta dalla PGR nel caso e ha scoperto quello che avevo scoperto anch’io: che la presunta cremazione dei corpi a Cocula non è mai esistita, che la maggior parte degli arrestati per il caso, come racconto nel libro, erano stati brutalmente torturati per strappargli confessioni di delitti che non avevano commesso e che i due pullman Estrella de Oro erano realmente la chiave di quello che era successo quella notte. Per questo l’Auditor ha ordinato di investigare più a fondo questi fatti. E ha ordinato anche di indagare sul Capitano José Martínez Crespo, un personaggio centrale in questa tragedia, uno dei principali responsabili, accusandolo di presunti nessi con la criminalità organizzata. Ha ordinato anche l’arresto di vari poliziotti federali e un’investigazione totale sul 27esimo battaglione delle forze armate. Il governo federale era a conoscenza di tutta l’informazione e, per ordine del presidente Peña Nieto, queste due indagini chiave, sulla falsità dei fatti della discarica di Cocula e sul coinvolgimento dell’esercito, sono state tenute segrete per vari mesi. Per ordini presidenziali.

Dopo aver presentato il suo rapporto, l’Auditor della procura, César Alejandro Chávez Flores, è stato minacciato e s’è dovuto dimettere. Il documento è stato divulgato pubblicamente? Si può parlare della “riduzione al silenzio” di uno dei pochi funzionari onesti in questa vicenda?

E’ così. Il documento è finito nelle mie mani proprio quando stavo finendo di scrivere il mio libro. Mi ha confermato la bontà dei contenuti dell’inchiesta e ho pubblicato il suo contenuto nel libro, ma ora si può trovare anche alla pagina web verdaderanochedeiguala.com, che abbiamo creato con la casa editrice affinché tutti, compresi i genitori dei 43 studenti e i loro avvocati, possano consultare questi documenti. L’Auditor s’era preso l’impegno con i genitori dei 43 di condurre un’investigazione indipendente contro Tomás Zerón e nei riguardi dell’indagine della PGR, quindi sul lavoro dello stesso Zerón ma anche dell’ex procuratore di Jesús Murillo Karam.

Si suppone che c’era un impegno, nell’agosto scorso, della PGR a consegnare i risultati di questo rapporto ai genitori degli studenti, ma dato che l’auditing interno aveva scoperto tutte le irregolarità e la “bugia storica”, è per questo che per ordine del presidente la allora procuratrice di giustizia, Arely Gómez, ha ordinato di non dare il documento ai genitori di Ayotzinapa. L’auditor dopo ha subito pressioni da parte della stessa procuratrice e da altri funzionari della procura, tra cui il primo degli accusati, Tomás Zerón, affinché cambiasse i risultati del suo rapporto che distruggeva la “verità storica”.

La cosa più grave di questo documento, che poi è la più importante, è il momento in cui l’auditor, attraverso varie prove ricavate da perizie e testimonianze, con un’indagine molto profonda, scopre, riguardo ai fatti di Cocula, che gli studenti non sono mai stati assassinato e bruciati lì. E che le ossa dello studente Alexander Mora, che si suppone sia l’unico identificato tramite analisi genetico dei suoi resti, rinvenuti nel fiume di Cocula, sono stati collocate lì in realtà dallo stesso Tomás Zerón: si tratta della prova periziale più importante che coinvolge, incolpa e responsabilizza il governo messicano di questi fatti. Perché, se i fatti di Cocula sono falsi e le prove sono state messe lì nel fiume San Juan di Cocula, il signor Zerón e il governo erano in possesso dei resti calcinati di Alexander Mora? Questa è la parte centrale del caso, per questo il governo non poteva permettere che fosse diffuso pubblicamente il rapporto dell’auditor generale. Ed è per questo che lui è stato minacciato di morte ed è stato forzato a rinunciare.

vivos se los llevaronSarebbe possibile accusare di crimini di lesa umanità gli alti funzionari del governo e lo stesso presidente?

Non sono un avvocato né esperta nella materia, ma una delle parti più efficaci delle conclusioni che raggiunge l’auditor, dopo aver controllato la normativa internazionale, è che effettivamente, dato che è stato violato il diritto alla verità delle vittime, che è parte del diritto internazionale, visto che sono stati commessi selvaggi atti di tortura per inventare questa storia e presumibilmente “risolvere il caso, siccome sono state alterate le prove e la verità dei fatti e sono state compiute violazioni gravi ai diritti umani, si può considerare che se il governo del Messico, Peña Nieto e i funzionari pubblici coinvolti non risolvono questa situazione, possono essere giudicati internazionalmente se si integra un tribunale speciale.

Che resta del famigerato gruppo di narcotrafficanti dei Guerreros Unidos e dell’ex sindaco di Iguala, José Luis Abarca, e di sua moglie, María Pineda, che inizialmente vennero indicati come i responsabili della sparizione degli studenti?

La gran maggioranza, l’80%, dei detenuti, compresi presunti membri dei Guerreros Unidos, il sindaco e sua moglie, sono stati torturati e i loro arresti sono stati illegali. L’ho saputo dai referti medici che ho controllato e che furono realizzati a tutti questi detenuti, ma anche da testimonianze che ho ottenuto da loro e dai loro familiari. Per vari mesi mi hanno mandato lettere dalla prigione, raccontandomi le brutali e selvagge torture che hanno sofferto, comprese le violazioni sessuali e le scariche elettriche su tutto il corpo per far sì che confessassero il falso. Secondo l’auditor generale l’incarcerazione della maggior parte di loro e dei principali accusati d’essere gli autori intellettuali e materiali della sparizione dei normalisti, come il signor Abarca e sua moglie, i quattro detenuti che hanno confessato d’aver bruciato gli studenti e i poliziotti locali che, secondo l’accusa, avrebbero orchestrato e organizzato tutto ciò, è stata illegale, il che significa che non dovrebbero restare in prigione. Il governo del Messico s’è preoccupato di fabbricare capri espiatori, falsi colpevoli, ed ha accusato persone innocenti di un crimine che non hanno commesso per proteggere i veri colpevoli, principalmente i funzionari pubblici di Iguala, dell’esercito messicano, della polizia federale e della stessa procura che hanno partecipato attivamente alle operazioni della notte di Iguala.

Al di là dei gruppi criminali piccoli del narcotraffico come i Guerreros Unidos, nel Guerrero chi comanda?

Per scrivere il libro Los señores del narco per dodici anni ho investigato sulle operazioni del cartello di Sinaloa e dei fratelli Beltrán Leyva [che prima della scissione del 2008 lavoravano insieme]. Una delle principali basi delle operazioni di questi gruppi era il Guerrero, specialmente la città portuaria di Acapulco. In quel libro racconto come l’allora comandante militare della zona, Salvador Cienfuegos, attualmente Ministro della Difesa, andava in giro in yatch per la baia di Acapulco in compagnia del boss Arturo Beltrán Leyva. Il libro è uscito ormai più di sei anni or sono e il Ministro non ha mai negato i fatti che vi sono narrati né ha sporto denuncia. Quando viene fuori questa storia del governo federale per cui presumibilmente c’era un gruppo criminale molto forte chiamato Guerreros Unidos e c’erano anche i rivali, Los Rojos, mi metto a cercare e ritiro fuori l’archivio che avevo usato per il libro e scopro che quell’organizzazione quasi non esiste, è praticamente minuscola. Ho potuto parlare personalmente con gente del cartello di Sinaloa e dei Beltrán Leyva e mi hanno detto che in effetti sì esistono le bande dei Rojos e dei Guerreros Unidos, ma si tratta di cellule minuscole che non rappresentano nulla in comparazione con il potere che ancora possiede nel Guerrero l’organizzazione dei Beltrán Leyva. Quando Arturo Beltrán Leyva viene assassinato a Cuernavaca, nello stato del Morelos, nel dicembre 2009, varie parti della loro organizzazione iniziano a smantellarsi. Ci sono molti membri importanti di questo gruppo criminale i cui nomi non sono stati rivelati dal governo ma che continuano con le loro operazioni nel Guerrero. E sono diventati capi importante, magari non al livello de El Chapo Guzmán, però sì con la capacità di trafficare quantità significative di droga, di eroina, dal Messico agli Stati Uniti. Uno di questi capi, di alto livello, nel settembre 2014 controllava la zona di Iguala e dintorni ed è questo boss, il cui nome il governo non cita e che non è accusato o in arresto per il caso, che la notte del 26 settembre ordina al 27esimo battaglione dell’esercito di recuperare ad ogni costo l’eroina che si trovava in quei due pullman da cui sono stati sequestrati i 43 studenti.

ezln 43Quindi qual è il ruolo dell’esercito nel Guerrero?

Sono in possesso di fascicoli della stessa PGR, dichiarazioni di testimoni collaboratori di giustizia che adesso la procura non può smentire, in cui si segnala che per anni l’esercito messicano ha protetto e lavorato con il cartello di Sinaloa e dei Beltrán Leyva. Questo è successo durante molto tempo, è una complicità antica. Particolarmente nel Guerrero c’era questa protezione. Ripeto: lo stesso General Cienfuegos, quando era a capo della zona militare di quella regione, è accusato di aver frequentato Arturo Beltrán Leyva e di averlo protetto. Ci sono molte accuse addirittura non solo contro l’esercito, ma anche contro la polizia federale e la federale-ministeriale, che allora era la AFI o Agenzia Federale delle Investigazioni. Quando Genaro García Luna ne era il direttore, nel 2004-2006, la stessa agenzia funzionava come “assassino mercenario” del cartello di Sinaloa. C’è un episodio che ricordo molto bene e ho i documenti che avallano quanto dico. E’ successo ad Acapulco, dove c’era un gruppo del cartello degli Zetas che voleva prendersi la plaza [la zona, il mercato] e toglierla agli uomini dei Beltrán Leyva e di Sinaloa. Quando i Beltrán Leyva vengono a sapere di questa operazione, non solo inviano i loro uomini armati a combattere gli Zetas m sono gli stessi membri della polizia AFI che agiscono come sicari agli ordini di Arturo Beltrán quella sera: sequestrano vari membri degli Zetas e dopo li fanno fuori registrando un video impressionante. E’ stato quello il primo video di un “esecuzione” dal vivo che poi venne diffuso in vari mezzi di comunicazione in spregio agli Zetas nel mezzo di una guerra selvaggia che stavano facendo col cartello di Sinaloa. Insomma, la complicità dell’esercito, dei federali e della polizia federale ministeriale col narcotraffico nel Guerrero, specialmente coi Beltrán Leyva, è antica e ci sono diverse prove al riguardo. Oggi purtroppo il caso dei 43 desaparecidos è un esempio ulteriore di questa collusione del governo, di questa guerra fallita in cui non solo l’esercito protegge i narco ma addirittura agisce da sicario.

Perché il caso Iguala-Ayotzinapa è emblematico?

Per varie ragioni. La più umana e allo stesso tempo più importante è che in effetti in Messico migliaia di famiglie hanno vissuto la tragedia dei desaparecidos. Oltre 25mila persone sono state “fatte sparire” nel periodo presidenziale di Felipe Calderón (2006-2012), ma per paura o per via delle intimidazioni molti dei loro familiari sono rimasti zitti, non han detto nulla, pero timore ad essere criminalizzati. I genitori dei 43 ragazzi hanno rotto questo schema e hanno dimostrato al Messico e al mondo che di fronte al crimine delle sparizioni forzate non si può mantenere il silenzio.

L’esempio che hanno dato questi genitori negli oltre due anni dalla sparizione dei propri figli non è solo di coraggio ma anche di profondo amore. Mi sembra che alla fine questo è quello che conta di più. L’esempio d’amore di questi genitori ha commosso il mondo e ha fatto in modo che in Messico questo caso non si dimentichi e che ci siano molte persone che continuano a cercare verità e giustizia.

D’altra parte questo caso è l’esempio chiaro del fatto che questa “guerra contro il narcotraffico” in Messico è una guerra simulata perché non si può parlare di “guerra” quando un battaglione è al servizio del narcotraffico. Non si può parlare di guerra contro i narco quando il presidente della Repubblica, invece di mettere in prigione un manipolo di pessimi funzionati pubblici, cioè 40 o 50 funzionari coinvolti nel narcotraffico che hanno determinato i fatti della notte di Iguala, e invece di processarli e dare un esempio per dire che “questo non lo possiamo permettere”, ecco al contrario il presidente ha tollerato la corruzione e la collusione, premiando i responsabili. Oggi il colonnello che era responsabile del 27esimo battaglione ha assunto praticamente l’incarico di sottosegretario alla difesa ed è diventato generale. Il Capitano Martínez Crespo e i federali che hanno partecipato agli attacchi continuano a “proteggere la società” ovunque essi siano, il che in realtà rappresenta un rischio per la società messicana.

Il caso è emblematico perché dimostra il fallimento della guerra alla criminalità organizzata.

Infine è un caso che ha scosso il mondo, ha fatto in modo che la comunità internazionale veda che in Messico in verità non ci sono né pace, né verità, né giustizia quando si tratta di crimini commessi dallo Stato.

ayotzinapa-somos-todosE’ proprio il ministro Cienfuegos che ora chiede l’approvazione di una Legge per la Sicurezza Interna che legittimi la militarizzazione della sicurezza pubblica, la presenza dei militari per le strade e la realizzazione di operazioni di polizia da parte delle forze armate. Che ne pensi?

Mi sembra che il Messico stia passando per un processo molto complicato. Da una parte abbiamo un esercito fuori controllo che vuole più potere e impunità.

Dall’altro abbiamo un presidente con i livelli più bassi di popolarità degli ultimi decenni, con indici minimi di approvazione, che è a punto di finire il suo mandato e non sa come uscirne fuori. E abbiamo una società che ripudia la presenza dell’esercito per le strade. E’ molto pericoloso che il caso di Ayotzinapa resti impunito perché permetterà che l’esercito messicano possa continuare a stare per le strade commettendo questo ed altri crimini. Non va dimenticato che i fatti di Iguala non sono il primo crimine di massa commesso dai militari. Appena qualche mese prima, a metà del 2014, nel Estado de México, a Tlatlaya, i militari hanno assassinato ventuno persone, le hanno ultimate in modo sommario. Il Ministero della Difesa ha provato a nascondere anche questo caso per vari mesi fino a che alla fine l’inchiesta giornalistica dell’agenzia AP e della rivista Esquire è riuscita a scoprire la verità e a rivelare che non s’era affatto trattato di uno scontro a fuoco tra l’esercito e alcuni delinquenti, ma un’esecuzione sommaria condotta dall’esercito. Siamo dinnanzi a una crisi terribile in cui sfortunatamente sembrerebbe che questo esercito boia permarrà nelle strade con tutto ciò che implica.

Gli Stati Uniti hanno promosso per decenni le politiche di “guerra alle droghe”, specialmente in America Latina, ma adesso la marijuana è stata legalizzata per uso ricreativo in ben otto stati americani e in altri quindici è permesso il suo uso medicinale. Che pensi di questo paradosso?

Tutto dipende dall’angolazione da cui guardiamo questa situazione. La mia posizione è contraria alla legalizzazione delle droghe. Mi spiego, se la giustificazione per la legalizzazione è legata alla salute pubblica, mi pare che sia una strategia sbagliata e ti do le mie ragioni. Prendiamo per esempio gli USA. Il principale consumo di droghe negli Stati Uniti non è di droghe illegali ma legali. Le medicine che si suppone che possono essere vendute solo su prescrizione medica, mentre in realtà c’è tutto un mercato nero immenso nel Paese che fa sì che giovani, bambini e persone adulte abbiano accesso a medicine allucinogene in modo illegale in una farmacia legale. Questo dimostra che la legalizzazione non è la soluzione. Se non c’è prima una vera cultura della legalità, se la legge che esiste attualmente non si applica, non si può pensare che la legalizzazione della marijuana, della cocaina, dell’eroina e delle metanfetamine sarà la soluzione, sempre ci sarà un mercato nero. E’ quanto stiamo vedendo con le medicine. Se il governo statunitense non è capace di controllare le imprese farmaceutiche, non riesco nemmeno a pensare come qualcuno possa solo sognare di poter controllare il business legale, i piccoli proprietari, le imprese che fabbricano droghe che prima erano illegali. E’ un sogno stupido, ingenuo, che non porta da nessuna parte. E’ dimostrato che la legalizzazione delle droghe, le droghe legalizzate dunque, non implica che, anche se sono legali, non sorga un mercato illegale, nero, di queste. Da una parte.

Dall’altra se si tratta di vedere la legalizzazione delle droghe come una maniera per controllare la violenza e il business multimilionario, di miliardi di dollari secondo il governo USA, del narcotraffico e dei cartelli, è una visione totalmente erronea. Quando in Colorado s’è iniziata legalizzare la marijuana, con questi posti in cui si può comprare apertamente, i cartelli della droga messicani, secondo quanto mi ha spiegato un agente de la DEA (Drug Enforcement Administration) [agenzia antidroga statunitense], hanno creato delle minipillole, piccole dosi di droga sintetica che fanno lo stesso effetto della marijuana ma a un decimo del costo di una sigaretta di marijuana legale. Stiamo parlando, quindi, del fatto che non è possibile controllare i cartelli perché per ogni droga che si legalizza, se ne inventano una nuova. I cartelli stanno nel business e stanno inventando costantemente nuove droghe per migliorare i loro affari, per renderli più efficienti e redditizi.

Inoltre dobbiamo tenere da conto che non trafficano solo droghe, ma anche persone o merci e si dedicano alla pornografia infantile, al taglio abusivo degli alberi e un mucchio di affari illegali. Allora pensare che la legalizzazione di alcune droghe controllerà il potere dei cartelli è un sogno ridicolo, è una cosa che non succederà. Solo con la cultura della legge, applicando la legge. Non mi riferisco a sparare. Mi riferisco al fatto che, se veramente si cominciasse a vedere una vera guerra contro il narcotraffico, prima di arrestare El Chapo Guzmán, si sarebbero dovuti arrestare tutti i suoi complici, dai governatori ai banchieri e agli imprenditori. Se le grandi banche continueranno a riciclare denaro sporco impunemente, ci saranno “Chapos” ovunque perché ci sarà sempre una parte del mondo “legale” disposta a convivere e fare affari con il mondo illegale. La recente estradizione de “El Chapo” negli USA non sarà una soluzione per il Messico nemmeno alla lontana, anzi, potrà generare ancora più violenza e instabilità.

marcha-ayotzinapaUn altro tema, diciamo, “frontaliero” è l’amministrazione di Donald Trump. Hai vissuto due anni negli USA come migrante-esiliata e conosci bene i due lati della frontiera. Che pensi della costruzione del muro e delle prime settimane di governo?

Devo riconoscere che facevo un po’ di fatica, quando vivevo là, a riconoscere certe attitudini, certi modi di essere del nordamericano. Perché da una parte c’è una comunità latina molto grande, di migranti, ma l’essenza, ciò che è l’americano bianco, anglosassone, beh, sono personaggi difficili da comprendere. Una cosa vera è che, per come l’ho sperimentato in carne viva là e l’ho visto, negli Stati Uniti c’è sempre stato un razzismo occulto, non detto, silenziato. Per un’epoca, lo sappiamo, c’è stato un razzismo aperto, selvaggio e crudele, però poi, col passare degli anni, questo razzismo è rimasto progressivamente all’interno degli americani anglosassoni. L’ascesa di Trump spiega questo: chi vota per lui è questa maggioranza bianca, e non mi riferisco solo a una maggioranza bianca economicamente benestante, ma anche all’esistenza di un’ampia maggioranza bianca formata da operai, gente comune che non ha abbastanza per vivere e che si sente scalzata dai migranti e sentono che questi sono arrivati a rubargli il loro paese. Poco tempo fa ho potuto parlare con un accademico molto importante della Università della California a Los Angeles, David Maciel, e lui mi spiegava una cosa che non avevo capito, perché c’è bisogno di essere americani per capire queste parole: quando Trump in campagna elettorale diceva “faremo di nuovo grande l’America” e “America per gli Americani”, significava tornare indietro di cinquant’anni. Alla “America grande” in cui c’era un gran razzismo e ciascuno se ne stava al suo posto e non si poteva muovere da lì. Restituire l’America agli americani si riferisce a questa classe, a questa razza fondatrice di ciò che sono gli Stati Uniti. A questo faceva riferimento Trump, per questo ha votato la gente, per tornare al passato. Siamo di fronte a una situazione critica perché chi pensa che si tratti solo di Donald Trump, si sbaglia. Tutto questo riguarda una buona maggioranza della società americana per cui c’è un piccolo razzista silenzioso che cova nel seno di ogni americano.

no-solo-ayotzinapaChe opinione ti sei fatta delle manifestazioni contro Trump in Messico, compresa l’iniziativa “Vibra México” che pretende di creare una “unità di tutti” contro il presidente USA? Ci sono alcuni settori e organizzazioni della società che l’hanno usata, piuttosto, per sostenere Peña Nieto internamente. Che pensi delle reazioni del governo messicano?

Credo che, ci piaccia o no, che siamo d’accordo o no come messicani da questa parte del confine, il presidente Trump sul suo territorio possa fare quello che vuole. E’ tra le sue prerogative farlo. Se lui pensa che con un muro impedirà che i messicani passino il confine e questa è la sua politica pubblica e gli americano lo sostengono, non c’è maniera di impedirlo. E’ assurdo, colpirà milioni di messicani, ma non si può impedirlo. Quando lui dice “i messicani finiranno per pagare il muro”, ci sono tanti modi con cui può fare in modo che i messicani paghino il muro e ti faccio un esempio specifico. La principale entrata legale di denaro, senza parlare delle droghe, che ha il Messico, più del petrolio, sono le rimesse dall’estero, ossia i soldi che inviano tutti i messicani che vivono negli USA ogni anno. Se Trump decidesse aumentare o introdurre una tassa a queste rimesse, noi messicani finiremmo per pagare il muro. Riguardo a questo discorso di “unità”, mi sembra che in Messico non vi sia unità, perché non può esseri unità intorno a un presidente assassino. Uno cosa è che Trump sia terribile e un’altra è che la gente pensi di stringersi attorno a un presidente che è stato terribilmente corrotto, come l’ha mostrato il caso della Casa Blanca [Casa Bianca, un’inchiesta giornalistica del portale Aristegui Noticias che messo in luce le opache relazioni tra l’acquisto della casa del presidente e sua moglie e contrattisti del governo del gruppo imprenditoriale Higa] e il fatto che ha permesso l’impunità, proteggendo per esempio i responsabili della sparizione dei 43 studenti nel caso di Ayotzinapa. E la gente questo lo sa! Come si fa a lanciare un appello all’unità quando è un governo assassino che convoca? Siamo in una situazione davvero molto polemica in cui vedo una società che ama il proprio Paese, in cui amiamo il nostro Paese, il Messico, ma sappiamo che il governo che abbiamo sarà capace di qualunque cosa affinché Trump non decida rappresaglie legale contro vari funzionari pubblici, per esempio adesso che El Chapo Guzmán è stato estradato negli Stati Uniti… Molti, incluso il presidente, devono essere preoccupati, anche se lui stesso ha accettato l’estradizione pensando che così sarebbe entrato nelle grazie di Trump. Ebbene oggi, osservando l’attitudine di Trump, mi pare che tutti debbano preoccuparsi perché il signor Joaquín Guzmán Loera possiede molta informazione non solo sui periodi presidenziali precedenti ma anche su quello in corso in cui, ricordiamo, è stata possibile la sua seconda fuga di prigione a metà 2015…

padres ayotziCome pensi che possa evolvere l’organizzazione de “El Chapo” in Messico adesso? Potrà realmente il boss stipulare dei patti con la giustizia statunitense? Molti dicono che non ha più molte carte in mano o che comunque non riuscirà mai a uscire di galera con tutti capi di accusa che gli hanno dato.

E’ una domanda complessa a ampia, ma bisogna premettere che la fine de El Chapo è iniziata nel gennaio 2016, quando è stato ricatturato. La sua fine era già quindi determinata prima dell’estradizione del 19 gennaio scorso. Non era già più il capo del cartello di Sinaloa, quando viene estradato, e non aveva più nessun potere, era totalmente debilitato da una guerra interna. Ora negli USA lui sa che la sussistenza, la sopravvivenza della sua famiglia dipende soprattutto da lui e da quello che pensa di negoziare col governo americano. So che il governo statunitense lo vede come un’arma importante contro il governo messicano. L’aspettativa è che, sebbene non gli possano offrire una condanna minore e, per quanto ho capito e per le informazioni in mio possesso, gli daranno l’ergastolo, comunque ci sono altre cose da negoziare con lui come i soldi, la protezione per la sua famiglia, eccetera. Dunque in cambio di diversi benefici che il governo USA sarebbe disposto a concedergli, tra i quali non ci sarebbe una sentenza leggera ma benefici di indole economica e di altro tipo, loro si aspettano che El Chapo Guzmán cominci a denunciare i suoi principali protettori nel governo, in questo e nei periodi passati. E’ l’informazione che ho. Nel fascicolo criminale aperto contro di lui presso la corte federale del distretto est di New York, in cui sarà giudicato, si riconosce che nell’ultimo decennio il boss è diventato il narcotrafficante più potente del mondo grazie all’aiuto di funzionari dei livelli più alti del governo messicano che, durante questa presunta “guerra al narcotraffico”, hanno combattuto di più i suoi nemici per rafforzare il cartello di Sinaloa e consegnarli le plazas.

Tornando al caso Ayotzinapa. Nella presentazione del libro La verdadera noche de Iguala alla FIL-Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara, nel dicembre 2016, hai parlato del caso di un militare del 27esimo battaglione a Iguala che stavi per intervistare, ma poi non è stato possibile perché la persona che faceva da tramite è stata assassinata. Stai ancora investigando sul caso?

Continuo a indagare sul caso e su quale sia la situazione legale dei detenuti che sono stati torturati. Anche la ONU e la Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) stanno investigando su questo. So che ci sono già state le liberazioni di alcuni reclusi. Mi aspetto che ce ne possano essere altre e di certo continuo a investigare su quale sia stato il destino finale degli studenti che è una questione ancora irrisolta. Per quanto riguarda il militare m’interessava parlare con lui perché mi aveva fatto arrivare una comunicazione secondo cui alcuni dei 43 studenti erano stati portati nella caserma del 27esimo battaglione nella notte del 26 settembre 2014. Non segnalo questo nel mio libro, non ne parlo, perché non ho avuto l’opportunità di parlare direttamente con il militare visto che la mia fonte che faceva da tramite è stata assassinata e, ora che ho provato a stabilire di nuovo qualche tipo di contatto con il militare, mi hanno informato che risulta desaparecido…

ayotzi 43 ya bastaChe messaggio vorresti far passare ai lettori in Europa?

Mi sembra che la comunità internazionale sia stata abbastanza debole col governo del Messico riguardo questo caso dei 43 studenti. Mi pare che la stessa Unione Europea e il governo statunitense vincolino il governo messicano all’adempimento di norme minime sul rispetto dei diritti umani per poter fare affari col Messico. Ciononostante il Messico nemmeno rispetta questi standard minimi sui diritti umani. USA ed Europa continuano a fare affari col Paese con un pragmatismo criminale.

Mi pare che la comunità internazionale deve iniziare a vedere il Messico con occhi più disincantati e a comprendere che è una polveriera. La comunità internazionale, magari, si sta fregando le mani, pensando agli investimenti e ai guadagni multimilionari che può ottenere in un paese come il Messico, soprattutto adesso che c’è stata la riforma petrolifera, per cui chiunque può investire ed estrarre petrolio nel Paese, ed è cambiata anche la normativa sul settore energico. Mi sembra che la comunità internazionale non capisce che il Messico è una polveriera in cui i suoi capitali e gli investimenti possono esplodere insieme al resto del Paese.


[*] Il titolo del libro in spagnolo è Los señores del narco. Lo sottolineo perché nella traduzione italiana si perde un contenuto importante: i “signori del narcotraffico” del titolo originale non sono solo i trafficanti di droga e i boss ma anche, e soprattutto, i “signori” del mondo politico che li proteggono o fanno affari con loro ed anche i riciclatori di denaro sporco che permettono al business di “ripulirsi” e proliferare. Migliore è il titolo della versione americana: Narcoland: the mexican drug lords and their godfathers (La terra dei narcos: i baroni messicani della droga e i loro padrini).

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Messico Invisibile: Orme della Memoria per i Desaparecidos https://www.carmillaonline.com/2016/07/05/messico-invisibile-orme-della-memoria-per-i-desaparecidos/ Mon, 04 Jul 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31713 di Fabrizio Lorusso

orme della memoria huellas messico italia[A questo link invito a seguire il progetto Orme della Memoria e il cammino della mostra, che sarà in Italia da aprile 2017 (Firenze 18-23 aprile, Roma 19-30 aprile, Verona 1-15 maggio, Venezia 16-30 maggio, Torino 1-12 giugno, Padova 15-30 giugno), dedicata agli oltre 30mila desparecidos in Messico. A fine post e come giusta conclusione segnalo il trailer dell’ottimo documentario Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Il testo seguente è estratto dal libro di [...]]]> di Fabrizio Lorusso

orme della memoria huellas messico italia[A questo link invito a seguire il progetto Orme della Memoria e il cammino della mostra, che sarà in Italia da aprile 2017 (Firenze 18-23 aprile, Roma 19-30 aprile, Verona 1-15 maggio, Venezia 16-30 maggio, Torino 1-12 giugno, Padova 15-30 giugno), dedicata agli oltre 30mila desparecidos in Messico. A fine post e come giusta conclusione segnalo il trailer dell’ottimo documentario Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Il testo seguente è estratto dal libro di Fabrizio Lorusso, Messico Invisibile: Voci e Pensieri dall’Ombelico della Luna**, prologo di Alessandra Riccio, Ed. Arcoiris, 2016, € 15, pp. 356]

Mezza primavera 2016. Il laboratorio di Alfredo López Casanova, attivista e scultore messicano, è un piccolo museo con opere e narrazioni che catturano il visitatore. Siamo nel cuore antico di Città del Messico, dove il frastuono delle strade trafficate trova pace e, smorzato negli androni e nei patii interni delle case di ringhiera, diventa silenzio. Qui la memoria può lasciare le sue tracce. Il progetto Orme della Memoria è nato in questo spazio nei suoi aspetti materiali, ma spiritualmente è sorto ed è cresciuto per le strade, nelle dimore, nei cortei e nelle famiglie che sono testimoni delle sparizioni forzate in Messico.

DSC_0726 mejor (Small)La maggior parte dei casi di desaparición è legata a qualche tipo di omissione, azione o complicità commessa dalle autorità. Secondo i dati ufficiali sono più di 27.000 le persone scomparse nel Paese e oltre 150.000 i morti attribuibili al conflitto interno dell’ultimo decennio. Solo nel governo di Peña Nieto, tra il dicembre 2012 e il marzo 2016, si contano più di 60.000 omicidi. Si tratta di un fenomeno di violenza esplosivo e complesso che comprende ed eccede la cosiddetta “guerra alle droghe” o “narcoguerra”, dichiarata dall’allora presidente Felipe Calderón nel 2006. In realtà la strage dei morti ammazzati, dei femminicidi e dei desaparecidos, siano essi messicani, centro o sudamericani, rispecchia molteplici tensioni sociali, disuguaglianze e problematiche irrisolvibili nel breve periodo, anche perché frutto di un modello economico e sociale escludente e traumatico. Un modello di stato minimo, anzi infimo, e nettamente business oriented, che nel contesto messicano e latinoamericano crea il terreno ideale per il proliferare delle “imprese criminali” regionali e globali.

Le scarpe di chi cerca i propri cari desaparecidos possono trasformarsi in messaggeri di speranza e di denunce. Per questo Alfredo, che concepisce l’incisione e l’arte come mezzi per il cambiamento sociale, s’è dedicato a incidere sulle suole delle loro scarpe i nomi, i ricordi e le date di chi è scomparso e a stampare su carta le loro orme. Il progetto, concepito per diventare collettivo e itinerante, comincia a girare il Messico e, si spera, il mondo nel mese di maggio 2016. Settanta paia di scarpe riempiono il Museo della Memoria Indomita nel centro della capitale messicano e si preparano per un lungo viaggio.

Com’è nato il progetto “Orme della Memoria”?

Dal contatto con le famiglie dei desaparecidos. Da alcuni anni seguo alcune famiglie, ancora prima che nascesse il Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità del poeta Javier Sicilia, nel 2011. Proprio nel mezzo di questa sterile, fottuta e non pianificata guerra iniziata da Felipe Calderón, che forse era vincolato a un gruppo per sconfiggerne un altro.

DSC_0823 (2) nivel (Small)Il 10 maggio 2010 ho partecipato al corteo annuale del 10 maggio, Festa o Giorno della Mamma, che è un corteo nazionale molto importante in cui convergono a Città del Messico i familiari dei desaparecidos di tutto il Paese. Faceva un caldo tremendo, stavamo camminando e mi sono messo a pensare a come risuonavano i passi delle persone. Si sentivano slogan e canzoni, alternati ai silenzi. Ed era quando i passi si sentivano di più. C’erano gruppi organizzati e gente sola, tutti con dei desaparecidos da rivendicare. Ho pensato allora a tutte queste scarpe che fuggono e che registrano tutto il contenuto di chi le porta, denuncia e non si stanca di cercare i propri cari. Ho iniziato a osservare la parte posteriore delle loro scarpe che è sempre molto consumata e ho visto che le scarpe erano elementi dell’identità delle persone e della loro regione di provenienza: da Tijuana a Guerrero, da Oaxaca a Monterrey, l’unica cosa che hanno in comune è il dramma della sparizione forzata.

Cosa hai fatto dopo?

Dovevo parlarne con qualcuno di fiducia e mi sono rivolto a Lety Hidalgo affinché mi prestasse delle scarpe vecchie che non usava. Lei è di Monterrey e cerca suo figlio Roy. Mi ha dato le scarpe, ora le apprezzo molto, con affetto. Quindi ho elaborato io un testo perché conosco il caso. L’idea era di mettere su una scarpa i dati della persona, per esempio: “Io mi chiamo Lety Hidalgo e cerco mio figlio”. Sull’altra dice: “Roy è stato fatto sparire l’11 gennaio 2011”. Nello specifico è stato tecnicamente difficile incidere sul materiale di queste scarpe, quindi alla fine ho deciso di aggiungere linoleum e la scritta è venuta in rilievo e così l’ho stampata su un foglio.

Dopo mi sono arrivate le scarpe di Luz Helena Montalvo, del Coahuila. Al loro interno c’era una lettera indirizzata al suo figlio scomparso. Era la chiave. Ho preso una parte del testo, oltre ai dati di base, e l’ho incisa, poi ho chiesto a Luz Helena il permesso di caricare la stampa sulla pagina Facebook del progetto e da lì i contatti si sono moltiplicati. Hanno iniziato a scrivere perfino dal Cile, dall’Argentina, dall’Uruguay.

E dopo questa fase sperimentale?

A metà del 2014 mi sono arrivate altre scarpe su cui potevo incidere più facilmente, anche senza aggiungere linoleum. Facebook è servito a diffondere il progetto e la rete di relazioni s’è allargata anche grazie a gruppi organizzati come FUNDEC, Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Coahuila, FUNDENL, Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Nuevo León, e altre. Non era ancora scoppiato il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa. Molti di questi gruppi sono stati legati al Movimento per la Pace di Javier Sicilia e grazie a questo siamo entrati in contatto. Mi sono accorto che per vari motivi ciascun familiare aveva messo via un paio di scarpe a cui era affezionato. Tere Vera è una di loro, cerca sua sorella Minerva che è scomparsa a Matías Romero, Oaxaca, il 29 aprile 2006, cioè molto prima della dichiarazione della cosiddetta “guerra al narcotraffico”. Lei camminava da sola, non c’era nessun movimento a cui unirsi.

DSC_0761 (2) (Small)Quindi non c’erano organizzazioni fino a poco tempo fa?

L’unico precedente che io ricordo di persone organizzate per la ricerca dei desaparecidos è Eureka, intorno alla figura di Rosario Ibarra de Piedra e quindi agli anni ‘70, e i gruppi del Guerrero, legati a quel periodo storico e alla figura di Tita Radilla, figlia di Rosendo Radilla Pacheco, vittima di sequestro politico per cui il Messico è stato condannato internazionalmente.

Ma c’è molta gente che ha casi in famiglia e non è vincolata a nessun gruppo, non sa cosa fare e allora parte da sola nella ricerche. Tere con queste scarpe che ho qui e che ha consumato, cucito e ricucito fino a non poterne più, ha camminato per tutto lo stato di Veracruz e Oaxaca da sola, fermandosi a dormire in casa di sconosciuti, nelle chiese o dovunque potesse per cercare sua sorella. Lei mi disse: “Guarda, avevo queste scarpe, non so perché dal 2006, te le do perché questo progetto ha molto a che vedere con esse”. E così potrei raccontarti altri casi. Qui ci sono quelle di Araceli Rodríguez che dice: “Guarda, ti consegno i miei stivali da carovana”, cioè quelli che hanno marciato nella carovana di Javier Sicilia nel Nord del Messico nel 2011. Anche María Rueda mi ha dato le sue scarpe della carovana, le chiamano così.

A che epoche si riferiscono le storie?

Il progetto non è limitato ad alcune date, ma ha camminato da solo e in questo camino ti trovi con persone con casi d’ogni epoca, anche degli anni ’70. Alejandra Cartagena è figlia di Leticia Galarza Campos, scomparsa a Città del Messico nel 1978. Era il periodo delle sparizioni forzate ai danni dei militanti del movimento guerrigliero Liga Comunista 23 de Septiembre.

Ci sono le scarpe di Celia. Suo marito è scomparso nel 1974 e io sapevo il suo nome: Jacob. Ma non sapevo un altro dettaglio finché lei non m’ha inviato uno scritto per inciderlo sulle suole in cui dice che lui era un maestro diplomato alla scuola normale di Ayotzinapa: “Mi chiamo Celia Piedra Hernández, cerco mio marito, Jacob Nájera Hernández, vittima di sparizione forzata a San Jerónimo de Juárez, Guerrero, dal 2 settembre 1974, maestro diplomato alla Normale di Ayotzinapa, con queste scarpe non smetterò di cercarti, ti amiamo con il cuore che è il motore della nostra ricerca”.

Chi scrive il testo per le suole?

Quando, all’inizio del progetto, mi arriva il testo di Luz Helena dentro una scarpa, capisco che lì c’è già tutto: l’oggetto o la scarpa e il contenuto da registrare che loro mi mandano e non elaboro io. Preferisco così, anche se è molto doloroso per loro scriverlo. Dunque questa è la prima lettera, dell’8 maggio 2014: “Sono Luz Helena Montalvo, madre dell’architetto Daniel Roberto Dávila Montalvo, scomparso il 23 giugno 2009 a Torreón, Coahuila, all’età di 27 anni. Daniel è padre di una bimba e un bimbo che lo aspettano con ansia, quando l’han portato via si sono portati via la vita, per noi non c’è nessun progetto di vita, non c’è allegria, per me che sono sua madre c’è solo il camminare, il cercare, cercarlo nella speranza di trovarlo e riportarlo a casa. Dany, continuo a cercarti, manchi ai tuoi genitori e fratelli, a tua moglie, ai tuoi figli, ai nonni, agli zii, ai cognati e ai cugini, ti rivogliamo con noi e ci manchi molto. Tua madre”.

C’è un tema centrale nelle lettere che ricevi?

Ci sono sempre tutti i dati delle persone, ma ho pensato che le lettere dovesse contenere anche qualcosa sul tema della ricerca e dell’incontro. Cosa ti dicono le parole ricerca e incontro? Questo chiedo loro e mi scrivono qualcosa. Ognuno si libera e mette quello che vuole, cose semplici o elaborate e intime.

“Io mi chiamoYolanda Oropeza, cerco il mio figlioletto Roberto Oropeza Villa che è scomparso a Piedras Negras, Coahuila, il 21 marzo 2009. Camminare per me è un respiro di speranza per poterlo trovare un giorno”. E’ un testo semplice e diretto, ma ce ne sono altri più complessi perché col tempo le famiglie costruiscono narrazioni diverse.

“Melchor Flores Landa, cerco mio figlio, Juan Melchor Flores Hernández, vittima di sparizione forzata. I fatti sono avvenuti a Monterrey il 25 febbraio 2009. Melchor, detto Cow-boy Galattico”, questa è la parte essenziale, ma poi continua emotivamente: “Figlio mio, ti cerco da 7 anni e non mi sono ancora stancato, continuerò a cercarti finché Dio me lo permetterà e le mi forze e il mio corpo resistano, ovunque tu sia ti mando tutto il mio amore di padre, ti amo e ho bisogno di te”.

Qual è la tua relazione con le persone che ti spediscono le loro lettere e le scarpe?

E’ molto importante per me, è un simbolo di fiducia, significa che il progetto vale la pena e che loro condividono qualcosa che fa molto male. Il progetto sta diventando collettivo e bisogna essere più rispettosi e attenti. Ho incontrato personalmente quasi tutti i proprietari delle scarpe e, quando non è stato possibile, me li hanno lasciati da qualche parte, ma cerco sempre di vederli e parlarci prima o poi. Quando ci troviamo mi parlano del loro caso e spesso scrivono il messaggio subito dopo. Meglio avere una relazione personale. Per esempio c’è una lettera con foto che viene dalla frontiera nord, da Mexicali. Un’amica me l’ha consegnata e non li ho conosciuti direttamente: “Pierre Meza López, scomparso il 14 agosto 2006 a Mexicali. Seguirò sempre le tue orme fino a trovarti, fino alla fine del mondo, mi manchi molto, ho molto bisogno di te, ti amerò sempre, tua mamma Imelda”. Quello che resta inciso alla fine sono i dati essenziali e poi una parte più personale, emotiva, che si prende dalla lettera o che quasi sempre riguarda la ricerca e l’incontro, anche se non sempre gli suggerisco io queste parole. Ma queste finiscono per apparire, in un modo o nell’altro, e la speranza di trovarli è costante.

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DSC_0815 (2) nivel (Small)Priscila ha un fratello, Juan Chávez, scomparso l’8 settembre 1978: “Sono Priscila Chávez e cerco mio fratello. Sopportando e pellegrinando, stanca di tanto camminare per un fratello che tanto amo, continuerà sempre a lottare fino a trovarlo insieme agli oltre 500 desaparecidos”. Lei sta citando la cifra che si conosceva ai tempi della guerra sucia [guerra sporca dello Stato e dei militari contro i movimenti di protesta, guerriglieri e sociali in generale]. Ci sono varie persone che scrivono e dicono che stanno cercando tutti gli altri, non solo i loro cari. A volte, parlando delle scarpe, ho chiesto ai genitori se qualcosa era cambiato in loro a partire dalla scomparsa di loro figlio. Vari dicono di sì, perché hanno camminato tantissimo nei cortei, nelle procure, nei ministeri, nelle fosse e nelle ricerche. E hanno cambiato il loro modo di vestire, per cui portano scarpe più comode, con le suole resistenti e flessibili, per andare avanti a camminare.

Com’è nato il nome “Orme della Memoria”?

E’ stato facile perché qui ci sono memorie, scarpe, incisioni, prove di fatti, passi e orme, e allora così siamo arrivati al titolo.

In che lingue è tradotta la página Facebook?

All’inizio facevo una foto e riproducevo il testo, coi dati e le frasi die familiari, delle scarpe su una pagina Facebook in spagnolo più o meno una volta alla settimana. Strada facendo ho conosciuto una studentessa inglese che faceva la tesi su questo tema e s’è offerta di tradurre in inglese la pagina. Altri amici qui in Messico hanno fatto lo stesso per l’italiano. Poi sono nate le pagine in tedesco e in giapponese, data una forte relazione che mantengo con i collettivi “Bordamos por la Paz” (Tessiamo per la Pace). Loro hanno un collettivo in Giappone. Stesso discorso per la versione francese, c’è un’amica che collabora dal Québec. L’idea è che ci sia un impatto fuori dal Messico.

Per ora le orme sono verdi, ma in futuro di che altri colori le farete?

Nel progetto Bordamos por la Paz abbiamo cominciato a tessere in rosso per raffigurare tutti gli omicidi che ci sono nel Paese. Poi, sul tema dei desaparecidos, i familiari hanno preferito il verde che simboleggia la speranza di ritrovarli vivi. Il verde s’è consolidato e molti gruppi l’hanno adottato. Comunque ci saranno due altri colori. Il nero nasce perché arrivano scarpe relative a casi particolari, come questo: “Io sono María Helena, mamma di José Saúl Ugalde Vega, desaparecido il 14 settembre 2015 a Queretaro. Con queste scarpe sono andata fuori a cercarti tutti i giorni, sono stati giorni disperati, senza dormire e mangiare, sperando di trovarti. Il 4 dicembre 2015 hanno trovato i tuoi resti, ti amo figlio e non ti dimenticheremo mai”. Come segnale di lutto dobbiamo inciderli in nero. Può essere perché sono stati ritrovati i resti della persona o i membri della famiglia che i occupavano delle ricerche sono morti. Alcuni a volte muoiono cercando, s’ammalano, perché quando avviene la sparizione davvero solo loro sanno quanto forte è il dolore, l’ansia e la disperazione. Questo causa malattie. Useremo anche il rosso perché molti di quelli che seguono le ricerche sono stati assassinati, come nel caso di Nepo, Nepomuceno Moreno. Lui aveva detto in faccia all’ex presidente Calderón, una settimana prima che lo ammazzassero, che aveva ricevuto minacce perché cercava suo figlio. A Calderón non fregò nulla e Nepo fu assassinato. Qui ho 5 o 6 casi di familiari che sono finiti così per aver continuato le ricerche.

Ci sono altri casi che puoi condividere?

Ho conosciuto Lucía Vaca, moglie di Alfonso Moreno, al corteo nazionale del maggio 2014. Avevamo amici in comune. Alfonso mi ha parlato del caso di loro figlio, Alejandro, e mi ha dato un paio di scarpe per il progetto, le prime da uomo. Il secondo paio è stato quello di don Margarito, che mi ha dato i suoi sandali. Sono stato ad Ayotzinapa, ci siamo conosciuti perché eravamo seduti vicini sull’autobus e mi ha detto di avere le scarpe che ha usato quando, insieme agli altri genitori dei 43 studenti scomparsi, è andato a cercarli fuori dalla città di Iguala. E fu quella volta che rinvennero molti altri corpi e fosse clandestine, per cui nacque il movimento degli Altri Desaparecidos de Iguala (Los Otros Desaparecidos de Iguala). Molti di loro, nella maggior parte dei casi, posseggono solo le scarpe che portano. Il mese dopo ci siamo visti in manifestazione a Città del Messico e abbiamo fatto uno scambio di scarpe: gli ho dato dei sandali nuovi in cambio dei suoi vecchi. Ora hanno questo testo stampato: “Io Margarito Ramírez cerco mio figlio che si chiama Carlos Iván Ramírez Villareal, studente della normale di Ayotzinapa. Lo hanno fatto sparire i poliziotti, insieme a 42 dei suoi compagni, a Iguala, il 26 settembre 2014”.

Allora qui c’è tutto il Paese, raccolto nelle scarpe delle famiglie che sono alla ricerca dei loro cari, perché ho paia che vengono da Tijuana e dal Guerrero, da Oaxaca e dal Chiapas. E’ sintomatico che ne arrivino di più dai luoghi in cui il conflitto è più presente, ci sono tantissime scarpe del Tamaulipas, di Tijuana o di Veracruz e del Guerrero. E’ un termometro del conflitto.

Ne arrivano dall’estero?

Al riguardo è successo qualcosa d’imprevisto. Così come ne sono arrivate del periodo della guerra sporca in Messico, ne hanno mandate alcune dall’Argentina. Ne ho un paio di un bambino, Camilo, figlio di Paula Mónaco, che ha 5 anni e ha cominciato a chiedere insistentemente dove erano i suoi nonni. Paula le ha cominciato a spiegare. Sai, là le famiglie non nascondono le cose e cercano un modo di spiegare. Lei ha detto al bambino che li stavano ancora cercando. I genitori di Paula sono spariti durante la dittatura. Le scarpe dicono: “Mi chiamo Camilo Tovar Mónaco, cerco i miei nonni, Esther Felipe y Luis Carlos Mónaco, sono scomparsi a Villa María, Córdoba, Argentina, l’11 gennaio 1978. Io chiedo a mia mamma, Paula, quando troveremo i suoi genitori. Lei dice che non lo sa, ma che continueremo a cercarli. Quando torneranno, correrò ad abbracciarli perché sono i miei nonni”.

Poi mi sono arrivate due paia dal Guatemala e due dall’Honduras. Le reti sociali aiutano molto. E’ venuta una compagna dell’associazione Hijos México e ha portato delle scarpe del periodo della guerra degli anni ’80 in Guatemala. Ho fatto un intercambio anche con una mamma durante la Carovana delle Madri Centroamericane che è passata dal Messico recentemente e altre mi sono arrivate da Ana Enamorado, una signora dell’Honduras che è rimasta in Messico per cercare suo figlio, desaparecido nello stato del Jalisco. Forse ne manderanno altre da El Salvador e dalla Colombia. Si chiude una fase e la prima esposizione è per il 9 maggio al Museo de la Memoria Indómita di Città del Messico.

Come proseguirà il progetto?

In futuro dovrà essere aperto e collettivo, non importa chi farà le incisioni e il resto. Ora è finita la fase sperimentale e tecnica. Da solo non potrei continuare. Per adesso è già collettivo nella misura in cui esistono 5 pagine-specchio tradotte in varie lingue e varie persone che ci si dedicano. Poi alcuni compagni in Messico si sono fatti coinvolgere in vari modi ed è così, necessariamente, che potremo procedere a creare maggiore visibilità sulla sparizione forzata in Messico.

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In che senso?

Stiamo sperimentando il ritorno di uno stato di terrore, di uno Stato repressore e di una strategia mediatica, specialmente delle TV, che influisce sull’elezione di un presidente e instaura una visione idilliaca del Paese. La paura è stata impiantata nella società e fa sì che la maggior parte della gente entri in una fase di negazione, cioè che neghi quello che succede qui e, quando poi gli succede qualcosa, solo allora arriva la botta. E dunque s’impedisce che, in una situazione così drammatiche come questa, con oltre 30.000 desaparecidos e 150.000 morti, la gente si mobiliti e protesti. Se sono trentamila i desaparecidos, dovresti avere là fuori per le strade a manifestare, fisse, a dir poco 30 o 60mila persone, una o due per ogni famiglia con vittime. E invece non è così, non ci si mobilita. I gruppi di familiari fanno quello che possono, cercano almeno di unirsi a livello nazionale per avere più forza, soprattutto per quanto concerne l’iniziativa di Legge sulla Sparizione Forzata che si discute in parlamento. Un paese come questo non ha una legislazione adeguata su questa materia ed è un’altra tragedia…

DSC_0829 (Small)Infatti, si susseguono le condanne internazionali contro il Messico per il disprezzo imperante dei diritti umani. Si fanno addirittura in leggi come quella appena approvata nel Estado de México, detta Ley Atenco o Ley Eruviel (dal nome del governatore Eruviel Ávila), che ampliano molto le facoltà della polizia, anche senza previa consultazione del potere politico, nell’uso della “forza letale” contro i manifestanti. Oppure c’è il caso dell’approvazione del regolamento dell’articolo 29 della Costituzione che dà al presidente più possibilità di decretare lo “stato d’eccezione” e la sospensione delle garanzie individuali, anche in presenza di presunte emergenze economico-sociali.

Ciò conferma che si va all’indietro, verso uno Stato più autoritario. E stiamo parlando di un Paese con un narco-governo, dobbiamo dirlo chiaramente. Una gran quantità di desaparecidos, come successe nel caso emblematico dei 43 di Ayotzinapa ma anche in tanti altri in Messico, sono presi e consegnati ai narcotrafficanti da diversi corpi della polizia, includendo i federali e i militari. Lì c’è una situazione per cui non sai dove comincia la relazione di complicità tra narcos e governo. Stiamo vedendo un deterioramento tale da poter parlare di un narco-governo.

Perché vengono fatti sparire?

E’ molto assurdo. Molti casi sono assurdi. Tere Vera cerca sua sorella che era andata a tagliarsi i capelli e non è più tornata. Non chiedono soldi né riscatti alla famiglia. Al figlio di Lety l’hanno costretto a uscire di casa a mezzanotte, poco prima d’andare a dormire. Arriva la polizia, o personaggi vestiti da poliziotti, di nero, lo prendono per portarlo in questura e perché, dicono, hanno bisogno d’informazioni, ma poi non si sa niente di lui, sparito. Il marito di Ixchel nello stato del Coahuila. Vanno a prenderselo all’alba, gli dicono che vogliono precisazioni su un caso qualunque e non fa più ritorno a casa. Con i ragazzi di Ayotzinapa abbiamo visto un altro caso di coinvolgimento diretto delle autorità.

Ci sono tante ipotesi. Nel caso del figlio di Alfonso Moreno, per esempio, lui è un tecnico delle telecomunicazioni. Ci sono casi di ingegneri e altri professionisti che sono rapiti e quindi si crede che i narcos li sta usando per e comunicazioni, la costruzioni di tunnel e altre questioni tecniche. Ma in altri casi pare non ci sia logica, è l’assurdo.

I casi degli anni ’70 ricadevano nella logica del nemico politico che bisognava annichilire. Questi esistono anche oggi. Per esempio il “Tio”, Teodulfo Torres Soriano, un attivista che nel giorno dell’insediamento del presidente Peña Nieto si trova affianco a Juan Francisco Kuykendall. E’ il primo dicembre 2012. Il Tío filma, nei pressi del palazzo del Parlamento, come un proiettile di gomma viene sparato dalla polizia e rompe la scatola cranica di Kuykendall. Questo di vede, si vede il proiettile sparato, soprattutto se si congela il fotogramma. E’ quindi una documento di prima mano della repressione e della responsabilità della polizia federale nell’accaduto. Il ferito fu portato in ospedale e rimase in coma per un anno. Il Tío è un testimone oculare e viene fatto sparire. E’ una desaparición politica simile a quelle di 40 anni fa, perché Teodulfo aveva in mano un’informazione precisa e chiara di un abuso indiscutibile della polizia. La PGR, la procura o Procuraduría General de la República, ha chiesto il video al Tío e gli ha dato 5 giorni per consegnarlo. Ma in questi pochi giorni ecco che Teodulfo sparisce. Per fortuna è riuscito a dare il video ad altre persone o oggi possiamo vederlo su internet. L’evidenza mostra che sono stati apparati dello Stato a farlo sparire, non si vede nessun’altra spiegazione. E’ il primo desaparecido politico del governo di Enrique Peña Nieto. L’80% dei desaparecidos non aveva nessuna affiliazione politica, non sono militante di nessuna organizzazione. Sono professionisti o lavoratori senza appartenenze specifiche, come Alejandro Moreno, il figlio di Alfonso. Ma capiamo anche che spariscono perché c’è una strategia di spopolamento forzato di molte regioni in cui ci sono acqua, risorse naturali o minerarie. Questa è un’altra ipotesi, ma in fin dei conti pare evidente perché è vero che si registrano spopolamenti e spoliazioni come in una guerra di sterminio.

Puoi spiegarlo meglio?

DSC_0754 nivel (Small)Ci sono persone che a partire dal loro caso individuale hanno compreso che si tratta di un problema strutturale e, quando affrontano il tema, cominciano a parlare alla prima persona plurale, come un collettivo, e non più in prima persona. Ed è proprio per segnalare che tutte le vittime del Paese sono di ognuno di noi. Se noi sovrapponiamo la mappa geografica del Paese con le regioni dove ci sono più desaparecidos, vedremo che stiamo assistendo alla fase più acuto di saccheggio d’argento dall’epoca coloniale e, quando non sono le risorse naturali, sono i centri di resistenza come Atenco, il Chiapas o Oaxaca a catalizzare l’attenzione. Cioè, dove ci sono zone in resistenza sociale, questa deve essere debilitata, e dove ci sono risorse naturali, per esempio lo shale gas, bisogna spopolare, sfollare. Quindi, come si fa? Instaurando uno stato del terrore con la sparizione forzata, cioè una strategia perversa, peggiore dell’assassinio o della prigione.

Che esempi hai trovato al riguardo?

Ne ho uno del gruppo de Los Otros Desaparecidos de Iguala. “Mi chiamo Mario Vergara, cerco mio fratello Tomás, è stato sequestrato e fatto scomparire a Huitzuco, in Guerrero, il 5 luglio 2012. Ho imparato a cercare in fosse clandestine, ma chiedo a Dio di non farmi incontrare mio fratello in un orribile buco, cammino anche per ritrovarlo vivo”. E di un familiare di un ragazzo di Ayotzinapa. “Sono Margarita Zacarías, mamma di Miguel Ángel Mendoza Zacarías, studente della normale di Ayotzinapa, in Guerrero, è scomparso il 26 settembre a Iguala, insieme a 42 dei suoi compagni. Figlio mio, voglio dirti che ho camminato tanto cercandoti e non ce l’ho fatta, ma voglio che tu sappia che non riposerò fino ad ottenerlo, anche se dovesse costarmi la vita”.

Di una madre honduregna che sta qui in Messico: “Sono Priscila Rodríguez Cartagena, vengo dall’Honduras camminando fino al Messico, cercando mia figlia, e seguirò le orme fino a trovarla. Yesenia Marlén Gaitán è sparita il 10 febbraio a Nuevo Laredo, in Tamaulipas, quando si dirigeva verso gli Stati Uniti”.

Una è del gruppo Hijos México. E’ stato difficile incidere, la scarpa è arrivata tutta rotta. E’ del periodo della guerra sporca, lei non ha conosciuto suo padre, perché è scomparso quando sua mamma era incinta: “Sono figlia di Rafael Ramírez Duarte, desaparecido politico dal giugno del 1977. Seguire le tue orme è voler toccare i tuoi piedi coi miei, come il gioco della tana dei conigli tiepida che c’hanno rubato, papà, Tania”.

Ci sono bambini che ti inviano le loro scarpe?

Sì. Una frase di un bimbo riflette tenerezza e semplicità e dice molto di una regione, per esempio il Michoacán, che sta al centro della narcoguerra. “Sono Leonel Orozco García, ho 8 anni. Mio papà Moisés Orozco è stato catturato-fatto sparire il 22 maggio 2012 ad Apatzingán, in Michoacán. Cerco mio papà per trovarlo perché è mio papà, e gli vogliamo tanto bene”.

Un altro bambino è figlio di uno studente di Ayotzinapa. “Io mi chiamo José Ángel Abraham de la Cruz, ho 9 anni e sto cercando mio papà, Adán Abraham, studente della normale di Ayotzinapa, desaparecido il 26 settembre 2014 a Iguala, in Guerrero. Per questo mi trovo ora qui a Città del Messico, esigendo la presentazione con vita di mio papà e dei suoi 42 compagni”. Miguelito non aveva altro che queste scarpe e, siccome è cresciuto e non ha niente di niente, le scarpe ormai gli andavano strette. Ho chiesto permesso a suo fratello e a sua zia, lo abbiamo portato a comprare delle scarpe nuove. Tanto ai genitori dei 43 come agli altri desaparecidos che non hanno niente di più di quello che portano addosso io chiedo le scarpe per fare uno scambio e gli consegno un paio nuovo.

Quante scarpe hai inciso fino ad ora?

Abbiamo circa 70 paia di scarpe, ma ne stanno arrivando altre. Saranno esposte qui a Città del Messico per un po’ e poi si sposteranno secondo un percorso logico, verso nord, ma anche dove la gente e i gruppi organizzati vorranno. Potrebbero arrivare all’estero, negli USA e in altri posti, perché l’idea è di denunciare la situazione. Mi sono arrivate le scarpe di un familiare di quello che è noto come il primo desaparecido del Paese nel 1969, che era legato alla guerriglia di Genaro Vázquez. Da lì si arriva fino ad oggi con un paio di scarpe che è del 2015. Se mi inviano una scarpa di una moglie che cerca un marito o un figlio che magari è un militare, non lo scarto. Non escludo nulla, perché l’idea è mostrare l’intero paese, per cui le ragioni delle sparizioni sono molteplici in tanti luoghi diversi.

Allora abbiamo incluso il figlio di Araceli Rodríguez, che è della Polizia Federale, o il papà di Nadim Reyes, Edmundo, che è rivendicato come militante desaparecido dall’EPR (Ejército Popular Revolucionario, gruppo guerrigliero dello stato di Guerrero). C’è di tutto, è il Paese: scompaiono militanti politici e contadini, studenti e perfino soldati o poliziotti, e non mi hanno ancora mandato il caso di un giornalista, ma ce ne sono. E’ una gran tragedia. Sono donne sole, figli orfani e tutta una strategia di Stato che rappresenta un filo conduttore. Per esempio nel caso di Araceli Rodríguez c’è una denuncia e un’ipotesi chiara secondo cui i capi della polizia federale hanno mandato suo figlio, Luis Ángel León Rodríguez, con altri cinque e un autista a occupare una cittadina. Che è successo lì? E’ il novembre 2009. Li mandano a un paesino in un giorno di riposo, non lavorativo, in un’automobile non di servizio, che è stata chiesta a terzi e non è della polizia, senza armi né uniformi. E così gli danno l’ordine di occupare il paesino. Poi tutti spariscono. Quello che sta succedendo è un disastro, una guerra non detta. Se paragoni cosi come l’Afghanistan o l’Iraq o altri ancora vedrai che qui ci sono bilanci peggiori, in un Paese che teoricamente non è in guerra.

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Userai anche altri oggetti?

Per Orme della Memoria non ho voluto le scarpe dei desaparecidos perché già è stato fatto molto con gli oggetti dei desaparecidos e mi interessa la parte vitale, la parte di chi cerca, di chi più ha indagato e di chi sta lavorando in questo periodo alla Legge sulle sparizioni forzate. Chi farà uscire questo paese dal disastro sono i familiari perché vogliono cercare i loro figli e stanno scoprendo le ragioni del deterioramento, quindi vogliono denunciare e cambiare il Paese. Lo spirito collettivo del progetto può potenziarlo affinché non si centri su una persona sola e prosegua indefinitamente.


** Cos’è Messico Invisibile?

Il libro riunisce reportage, interviste e saggi sul Messico attuale che è diventato il centro dei traffici degli stupefacenti consumati negli Stati Uniti e in Europa: marijuana, cocaina, eroina, metanfetamine. In 10 anni la “guerra alle droghe” ha fatto oltre 150mila morti, 30mila desaparecidos e migliaia di femminicidi nel Paese. La crisi dei diritti umani colpisce specialmente giornalisti e attivisti che lavorano sotto minaccia del crimine organizzato, spesso indistinguibile dalle autorità. Messico invisibile spiega l’evoluzione dei narco-cartelli, le vicende del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán e il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, sequestrati da poliziotti e narcos a Iguala la notte del 26 settembre 2014 e, ad oggi, ancora desaparecidos. L’autore dà spazio a storie silenziate, invisibili, come quelle delle donne della prima casa di riposo al mondo per ex prostitute o di chi s’organizza per cercare i propri cari desaparecidos, e critica le narrazioni tossiche sui “cervelli in fuga” e sul neoliberalismo, il sistema culturale ed economico che fa da cornice alla conflitto messicano. Nuovi studi sul culto popolare della Santa Muerte, sugli italiani all’estero e sui legami tra l’amianto e il “filantrocapitalismo” in America Latina completano il testo. Alla fine di ogni capitolo sono raccolte le voci, con interviste a Don Ciotti, fondatore di Libera, Alfredo López Casanova, ideatore di Orme della Memoria per i desaparecidos, agli scrittori Alberto Prunetti, Pino Cacucci e Roberto Saviano, al difensore dei diritti umani Francisco Cerezo, al pittore partigiano Luciano Valentinotti e a Xitlali Miranda, coordinatrice delle ricerche degli Altri Desaparecidos di Iguala. Segnalo presentazione del libro il 7 luglio alle 19:30 presso l’ex OPG occupato Je so’ pazzo a Napoli.


Di seguito il trailer del documentario (presto disponibile per varie proiezioni in Italia) Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Seguitene i passi! FaceBook Link 

Un viaggio nel Messico che resiste al neoliberismo. Voci da una terra in cui Non ci si rassegna, dove immaginare un mondo che include altri mondi non è un semplice slogan ma una reale e costante pratica quotidiana. Abbiamo iniziato a pensare in collettivo, a immaginare un progetto. La forma che abbiamo scelto è quella del film documentario. Una serie di interviste che possano rendere diversi sguardi sul Messico e sulle lotte che lo animano. Negli stati che abbiamo attraversato siamo entrati in contatto con diversi attivisti e militanti di organizzazioni radicali e anticapitaliste, cercando di cogliere il comune sentire che vive intorno al “discorso rivoluzionario” nel Messico di oggi. Parlando di capitalismo e resistenze, di collettività e autonomia, abbiamo imparato che, nonostante tutto, pensare un futuro rivoluzionario e agire in un presente tanto complesso può essere una pratica quotidiana. Abbiamo visto come si possa parlare di tutto ciò con una semplicità disarmante. La stessa semplicità con la quale da ormai più di vent’anni dei contadini, in Chiapas, tengono testa agli attacchi del governo, costruiscono il proprio mondo sottraendolo al capitalismo e ci regalano ogni giorno un motivo di speranza.

Un film di: Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri.
Fotografia di: Claudio Carbone
Disegni di: Mario Berillo
Montaggio di: Leonardo Botta
Musiche di: Moover
con la collaborazione di Kairos elementikairos.org
Pagina Facebook: facebook.com/Cielito-Rebelde-Voci-del-Messico-resistente-493029287533380/timeline
Sito: cielitorebelde.org
Trailer: vimeo.com/151901240

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Moltiplicazione della violenza e narco-caos: un bilancio della “guerra” ai cartelli secondo Anabel Hernández https://www.carmillaonline.com/2016/05/21/moltiplicazione-della-violenza-narco-caos-un-bilancio-della-guerra-ai-cartelli-secondo-anabel-hernandez/ Sat, 21 May 2016 21:04:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30631 di Elena Ritondale

Foto Antonio CruzConosciuta in Italia grazie alla pubblicazione di La terra dei narcos (Mondadori, 2014), Anabel Hernández è una delle giornaliste più impegnate nelle indagini sui rapporti fra cartelli della droga e apparati dello stato messicano. Vincitrice del Premio Nacional del Periodismo per un’inchiesta chiamata Toallagate (2001), sull’uso di fondi pubblici per spese private da parte dell’allora presidente Vicente Fox, Anabel Hernández è forse la principale biografa del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán. Sulla relazione fra il cartello di Sinaloa e gli ultimi governi messicani la giornalista è [...]]]> di Elena Ritondale

Foto Antonio CruzConosciuta in Italia grazie alla pubblicazione di La terra dei narcos (Mondadori, 2014), Anabel Hernández è una delle giornaliste più impegnate nelle indagini sui rapporti fra cartelli della droga e apparati dello stato messicano. Vincitrice del Premio Nacional del Periodismo per un’inchiesta chiamata Toallagate (2001), sull’uso di fondi pubblici per spese private da parte dell’allora presidente Vicente Fox, Anabel Hernández è forse la principale biografa del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán. Sulla relazione fra il cartello di Sinaloa e gli ultimi governi messicani la giornalista è sempre stata chiara: tutta la cosiddetta guerra al narco non sarebbe stata altro che un modo per aiutare quel cartello a fare piazza pulita della concorrenza.
Nel 2011 Hernández accusò in televisione il Segretario Generale per la Pubblica Sicurezza di aver ordinato il suo assassinio a membri corrotti della polizia, con queste parole: “Yo quiero denunciar desde esta tribuna que el Secretario de Seguridad Pública Federal, Genaro García Luna y su equipo siguen con la orden dada de matarme”.
Attualmente vive a Berkeley con i suoi due figli proprio per ragioni di sicurezza ma non rinuncia al lavoro di inchiesta in Messico, dove viaggia regolarmente.
Anabel Hernández è stata protagonista, insieme a Diego Enrique Osorno, di una serata al teatro Massimo di Palermo dedicata alla mattanza dei giornalisti in Messico e della ‘ndrangheta in Calabria, con la proiezione di Le strade del narcotraffico tra Messico e Italia di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello.
Ne abbiamo approfittato per chiederle un commento su alcuni aspetti di questi anni convulsi in Messico.

Giovanni Falcone diceva che “le mafie, come il denaro, non hanno confini”. Sappiamo che è vero ma qual è oggi il rapporto tra i cartelli della droga e il territorio? Ai cartelli è ancora utile che resistano alcune frontiere?
Il traffico di droga è una delle espressioni più selvagge del capitalismo, si tratta di denaro, di fare affari. I consumatori sono ovunque e, come qualunque impresa capitalista (i narcos) cercano nuovi clienti. Per questo, anche se i consumatori più importanti sono negli Stati Uniti, per i cartelli messicani il Sud America e l’Europa sono i mercati che vogliono conquistare e che stanno conquistando poco a poco. Questo non implica assolutamente che questi affari non abbiano bisogno di un controllo territoriale, esattamente come avviene in molti altri settori dell’economia capitalista. In Messico, per fare un esempio, ci sono territori in cui si vende Coca Cola e non si vende Pepsi Cola e altri in cui si vende Pepsi e non Coca Cola. Voglio dire che anche il controllo territoriale è capitalista. I cartelli hanno bisogno del controllo del territorio, soprattutto per il trasporto della merce, ma anche per gestire attività parallele: l’estorsione, i sequestri, la tratta delle donne e chiaramente il traffico dei migranti. Questo controllo si estende anche in centro e sud America.

In un momento in cui il Messico sta liberalizzando un settore come quello dell’energia, legato all’estrazione del petrolio, quanto credi che questa capacità dei cartelli della droga di presidiare il territorio possa rivelarsi cruciale per quelle imprese che dovranno investire in luoghi “caldi”? Detto diversamente: gli imprenditori nazionali e stranieri dovranno scendere a patti con loro per poter operare “in sicurezza?”
In questo momento nessuno, in Messico, può garantire “ordine” o sicurezza, neppure i cartelli della droga. Ognuno di loro controlla zone concrete ma circoscritte e questo si nota, ad esempio, dal fatto che chi trasporta merci per lunghe distanze debba pagare qualcosa a gruppi diversi. Gli Zetas in alcune zone rubano petrolio e condotti e un’impresa che voglia investire in un’area sotto il loro controllo deve naturalmente farci i conti. Questo però non sarebbe sufficiente; fare un accordo con gli Zetas, in una situazione frammentata come quella del Messico di oggi e, anche, del suo mondo criminale, non esclude assolutamente che gruppi rivali degli Zetas attacchino un territorio da loro controllato per subentrarvi. Nessuno può garantire stabilità al momento, per questo gli investimenti stranieri sono tanto debilitati. L’atomizzazione del mondo della droga è stata una conseguenza diretta della complicità di Vicente Fox nella fuga del Chapo e poi della cosiddetta guerra al narco voluta da Calderón. Dal 1970 fino al 2000 tutto il territorio nazionale era spartito da cinque cartelli. Gli ultimi governi hanno debilitato gli avversari del cartello di Sinaloa, di fatto frantumandoli e moltiplicandoli. Ora esistono gruppi più piccoli e meno stabili ma altrettanto aggressivi e molto ben armati, grazie alla facilità con cui si possono reperire armi sul territorio proprio grazie alla loro massiccia diffusione durante il periodo di militarizzazione del paese. Oggi anche il gruppo più piccolo può entrare in possesso di un lanciafiamme. La fortuna è che non tutti sanno usarli.

Parlando della “guerra”, un capitolo a parte meriterebbe il modo in cui è stata spiegata ai messicani. Il lessico utilizzato è stato tutto volto all’esaltazione del “nemico”, alla promozione di una diffusa percezione di insicurezza che potesse alimentare la paura e giustificare una reazione violenta da parte dello Stato.
Prima di tutto bisogna dire che non è mai esistita una “guerra al narco”. Il Governo di Calderón ha mandato l’esercito in certe parti del paese e non in altre, perché i suoi interessi erano indirizzati a togliere di mezzo alcuni gruppi, non a risolvere il problema. Intorno agli anni ‘70 in Messico esisteva una sorta di regolazione del traffico di droga attraverso una corruzione diffusa, che includeva tutte le bande; così si è andati avanti fino al 2000. Da quel momento in poi l’interesse del Governo è coinciso con quello di un gruppo in particolare, che si è deciso di appoggiare nella sua guerra agli altri. Questo ha avuto i suoi effetti collaterali, ad esempio i governatori dei singoli stati non sono mai stati così potenti, perché i gruppi esclusi hanno trovato in loro delle sponde: il PRI in alcuni casi ha appoggiato cartelli osteggiati dal governo nazionale.

Qual è stato in generale il ruolo del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale)? La svolta del 2000 coincide di fatto con lo storico passaggio di consegna da questo partito (al governo da 70 anni) al Pan di Vicente Fox.
La verità è che la transizione non c’è mai veramente stata. Se si controlla il gabinetto di Vicente Fox si può vedere che esponenti priisti sono sempre stati presenti. Gli stessi priisti che c’erano con Zedillo e con Salinas sono rimasti cruciali anche durante i mandati di Vicente Fox, di Calderón e di Enrique Peña Nieto; parlo soprattutto dei luoghi in cui si controlla l’economia. Il PRI non ha mai lasciato i posti di potere in cui si trovava. Nella Secretaría de hacienda o al Banco de México ha continuato a essere presente.

Oltre alle parole “morte”, “guerra”, “nemico”, nell’ultimo decennio se ne è imposta una, con urgenza drammatica: “desaparecidos”. La scomparsa di decine di migliaia di persone è uno strumento di terrore ancora più efficace degli omicidi di massa?
A partire dalla “guerra” di Felipe Calderón abbiamo avuto almeno ventiseimila desaparecidos. Si tratta di un tema articolato. È difficile differenziare quante persone siano state fatte sparire dai cartelli e quante dal governo. In Messico è un argomento che non si è studiato a sufficienza, che rimane ancora sospeso. Quando ci sono casi come quello di Ayotzinapa, in cui si distingue più chiaramente la responsabilità della polizia federale, sorge chiaramente la domanda: “e allora gli altri?”. Ci stiamo rendendo conto che in alcuni casi l’autore dei sequestri è stato l’esercito, perché ce lo hanno detto i giornalisti con le loro ricerche. Ma nei casi – troppi – su cui non ci sono state indagini è difficilissimo capire se la responsabilità sia stata dell’esercito, dei narcos o della collaborazione fra i due. È complesso definire chi stia usando questo strumento del terrore. Mi pare comunque che il Governo non abbia voluto analizzare attentamente la lista dei desaparecidos e che continui a non farlo, anche se si tratterebbe di una cosa elementare, perché nella lista compaiono i nomi, le età, l’ora in cui sono stati prelevati, il sesso, il quartiere, la città. È incredibile che il Governo, dopo tanti anni, non abbia fatto un’analisi di tutte queste informazioni, anche a un livello molto semplice, per dire “in Messico il posto in cui spariscono più persone è questo, normalmente succede in questo modo e per queste cause”. Perché non lo fa?

Foto di Antonio Cruz

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Nella Notte Ci Guidano le Stelle. Ayotzinapa e la Lotta per la Verità https://www.carmillaonline.com/2016/04/06/nella-notte-ci-guidano-le-stelle-ayotzinapa-la-lotta-la-verita/ Tue, 05 Apr 2016 22:00:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29660 di Fabrizio Lorusso 

ayotzinapa iguala_normlistas[Questo articolo è formato da un aggiornamento di Fabrizio Lorusso dal Messico sul caso Iguala-Ayotzinapa e da un comunicato stampa del Collettivo Parigi-Ayotzinapa che ripercorre cronologicamente la vicenda e decostruisce il discorso ufficiale. Il titolo del post è ripreso dal testo del canto della Resistenza “Fischia il vento” e dall’ispiratore titolo del romanzo Il sole dell’avvenire (vol. 3) di Valerio Evangelisti]

In Messico il numero dei desaparecidos ha superato ufficialmente l’impressionante cifra di 27.500[1], anche se ci sono stime che addirittura [...]]]> di Fabrizio Lorusso 

ayotzinapa iguala_normlistas[Questo articolo è formato da un aggiornamento di Fabrizio Lorusso dal Messico sul caso Iguala-Ayotzinapa e da un comunicato stampa del Collettivo Parigi-Ayotzinapa che ripercorre cronologicamente la vicenda e decostruisce il discorso ufficiale. Il titolo del post è ripreso dal testo del canto della Resistenza “Fischia il vento” e dall’ispiratore titolo del romanzo Il sole dell’avvenire (vol. 3) di Valerio Evangelisti]

In Messico il numero dei desaparecidos ha superato ufficialmente l’impressionante cifra di 27.500[1], anche se ci sono stime che addirittura raddoppiano l’entità di questa catastrofe umanitaria, e la crisi dei diritti umani, che le autorità cercano di sterilizzare e silenziare con una strategia mediatica e diplomatica, è pesantissima su tutti i fronti[2]. Il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa è emblematico, metafora terribile della lunga notte messicana, ma è riuscito, a fasi alterne e grazie all’azione della società civile e dei media non allineati col governo, a rompere il silenzio su questa situazione. Ayotzinapa rappresenta tuttora una spina nel fianco del governo di Enrique Peña Nieto, presidente eletto nel 2012 e appartenente al Partido Revolucionario Institucional (PRI). A un anno e mezzo dalla “notte di Iguala”, in cui agenti della polizia locale di Iguala e Cocula, nel meridionale stato del Guerrero, sequestrarono 43 studenti della scuola normale rurale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, ultimarono extra-giudizialmente altre sei persone, ne ferirono decine e consegnarono i giovani a presunti narcotrafficanti, i normalisti restano ancora desaparecidos e il governo è in affanno, sempre alla ricerca di maniere sbrigative e “creative”, cioè ingannevoli, per chiudere il caso e ricostruire la falsa immagine di un Paese moderno e pacificato, pronto ad accogliere investimenti, agli occhi del mondo.

Crimine di Stato

Lo Stato non ha riconosciuto le sue responsabilità, malgrado le indagini giornalistiche rigorose svolte in questi diciotto mesi convulsi, che sono basate su testimonianze dirette ed evidenze audiovisuali, abbiano mostrato che vi fu un’operazione orchestrata da diversi apparati pubblici e dalle autorità contro gli studenti[3].

Alle stesse conclusioni è arrivato anche il rapporto del settembre 2015 stilato dal Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti (GIEI)[4], un’equipe altamente qualificata della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) che, grazie a un accordo d’assistenza tecnica siglato col governo del Messico, funge da coadiuvante delle indagini ufficiali[5].

Il GIEI ha parlato di “un’aggressione massiva, in ascesa, sproporzionata e senza senso” alla quale hanno partecipato non solo agenti della polizia locale e presunti criminali del cartello dei Guerreros Unidos, ma pure le forze armate e la polizia federale, che ignorarono o coprirono rastrellamenti e violenze, dunque furono conniventi coi crimini che si stavano commettendo[6].

Il GIEI e il quinto autobus

Inoltre ha mostrato che la PGR (Procura Generale della Repubblica) ha deciso di accantonare la linea delle indagini che riguarda uno dei cinque autobus che erano stati presi dagli studenti nella stazione di Iguala e che, senza che questi ne fossero a conoscenza, conteneva probabilmente una partita di eroina nel portabagagli. L’attacco contro i ragazzi, quindi, potrebbe essere stato guidato dall’intenzione di recuperare il prezioso carico di stupefacenti[7].

Gli autobus di linea sono infatti un mezzo di trasporto comune per i narcotrafficanti e, serve ricordarlo, proprio lo stato del Guerrero detiene la leadership storica nella produzione di marijuana e sperimenta da 3-4 anni un boom delle coltivazioni di papavero da oppio, pianta da cui si ricavano l’eroina e la morfina esportate negli Stati Uniti. Il Guerrero racchiude nei suoi confini il cosiddetto pentagono dell’oppio, una zona geografica delimitata da 5 vertici che dalla costa alle catene montuose, a ridosso dei vicini stati del Morelos, de México, del Michoacán e di Città del Messico, ospita le coltivazioni e i laboratori di stupefacenti. Ma le “cinque punte” della regione sono blindate e protette da altrettante postazioni militari, mentre gli snodi autostradali e le strade statali sono controllati dalla polizia federale e da quelle statali e municipali, rispettivamente. Sono queste le autorità che gestiscono i flussi e pattugliano i territori, negoziando a vari livelli coi gruppi della delinquenza organizzata. E sono queste “forze dell’ordine” che sono intervenute preventivamente e poi durante tutta la notte nella strage, gli attacchi e i sequestri compiuti il 26 settembre 2014 a Iguala e dintorni.

Il GIEI ha chiesto di poter intervistare i militari del 27º Battaglione di stanza a Iguala che erano presenti durante la persecuzione degli studenti, ma il governo gliel’ha proibito categoricamente e fino ad oggi ha continuato a difendere le azioni dell’esercito, mentre dal canto suo la PGR ha negato il coinvolgimento di autorità federali e non ha aperto nessun fascicolo al riguardo[8].

L’opera di ricerca del GIEI e dell’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF) ha smontato la “verità storica” sulla notte di Iguala, presentata ai mass media nel gennaio 2015 dall’allora procuratore generale della Repubblica, Jesús Murillo Karam, la quale sostiene che i normalisti furono bruciati nella discarica di Cocula e i loro resti gettati nel vicino fiume San Juan.

Il tentativo di archiviare il caso prematuramente è fallito e l’investigazione s’è distinta per le incoerenze e le irregolarità. Non è riuscita a determinare con certezza il destino che hanno avuto i 43 studenti, né a soddisfare le richieste di giustizia e verità della società civile e dei genitori dei ragazzi. Questi, supportati da cittadini, collettivi e movimenti sociali di tutto il mondo, non hanno mai smesso di mobilitarsi per le strade e ovunque ne abbiano avuta la possibilità, tanto in Messico come all’estero.

La battaglia per il rinnovo del mandato del GIEI

Il 22 marzo 2016 i genitori e i loro rappresentanti, avvocati del Centro dei Diritti Umani della Montagna-Tlachinollán hanno fatto richiesta formale di una proroga affinché il GIEI prosegua nelle investigazioni sul caso. Il ministro degli interni, Miguel Ángel Osorio Chong, ha invece ribadito che il lavoro degli esperti si concluderà il 30 aprile e non ci saranno dilazioni. “Al posto di stare a discutere sul termine, abbiamo bisogno di conclusioni […] non troviamo una linea diversa da quella che ha studiato la PGR”, ha dichiarato in un’intervista radiofonica[9].

Invece Emilio Álvarez Icaza, segretario esecutivo della CIDH, ha mostrato apertura verso l’ipotesi di un nuovo mandato e tratterà il caso col governo durante le sessioni del 157º periodo ordinario di riunioni della Commissione Interamericana previsto tra il 2 e il 15 aprile[10]. “Abbiamo ricevuto una comunicazione da parte delle organizzazioni che rappresentano gli studenti con la richiesta di un prolungamento del mandato, ma nessuna notifica da parte del governo messicana”, ha spiegato Álvarez. Ancor più diretto è stato il presidente della Commissione Interamericana, James L. Cavallaro, che da Washington ha sentenziato: “Non è una decisione del signor Osorio Chong, ministro degli interni, dare per conclusa la partecipazione del GIEI nel caso Ayotzinapa”.

Secondo l’accordo siglato il 18 novembre 2014 tra la CIDH, i rappresentanti delle vittime e il governo messicano il futuro del GIEI non ha nulla a che vedere con le opinioni di Peña Nieto o di Osorio. Certo è che l’esecutivo e la procura possono ostacolare in tutto i modi il lavoro degli esperti e renderlo di fatto impossibile, cosa che a tratti hanno già cercato di fare. “E’ riprovevole questa manovra del governo per cui dice che non si rinnoverà, quando non è sua competenza farlo”, ha ribadito Cavallaro.

In un comunicato anche i gruppi nati in solidarietà con il movimento di Ayotzinapa in Europa si sono espressi in favore di una proroga “indefinita” e hanno sottolineato il loro pieno sostegno al GIEI, “di fronte alle recenti dichiarazioni in alcuni mezzi di comunicazione messicani, come MVS e Gruppo Milenio, in cui è stata attaccata l’integrità morale di alcuni dei suoi componenti”[11].

In Messico il conflitto è senza quartiere, il governo e la procura, supportati da gruppi mediatici alleati, si occupano da mesi, praticamente dall’inizio delle indagini, più di screditare gli studenti, le loro famiglie, i giornalisti indipendenti e gli esperti internazionali che di trovare soluzioni concrete e dimostrare una reale volontà politica di toccare le corde sensibili del “patto d’impunità” vigente nel Paese.

Trappole e manovre

Il 22 marzo la PGR, istituzione sempre più screditata agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, è arrivata addirittura ad ammettere l’apertura di un’indagine preliminare contro il segretario della CIDH, organi facente parte della OSA (Organizzazione Stati Americani), Álvarez Icaza, per una presunta frode nei confronti dello Stato messicano. Questa “malversazione di fondi” è stata denunciata dal Consiglio Cittadino per la Sicurezza Pubblica e la Giustizia Penale, un’associazione civile affine all’esecutivo di Peña Nieto[12].

Il presidente dell’associazione, José Antonio Ortega, s’è immaginato e ha denunciato un pregiudizio economico relativo al lavoro del GIEI, visto che la CIDH, non avrebbe rispettato il compromesso d’inviare in Messico in qualità di esperti “delle persone probe”. Così, secondo Ortega, “i cinque membri del GIEI sono tutto il contrario”. La CIDH ha espresso “costernazione e considera inammissibile l’apertura di un fascicolo in base a questa denuncia temeraria e infondata”. Si tratta di una vera e propria provocazione: la PGR ha preso la palla al balzo e ha fatto sfoggio del suo cinismo, non archiviando immediatamente la denuncia. Ci sono almeno 150.000 casi di omicidio negli ultimi 9 anni e migliaia di desaparecidos che meriterebbero la priorità, invece s’accetta d’iniziare una pratica insultante per la società e per le vittime. Ad ogni modo, dopo due settimane di rimpalli mediatici e reazioni, finalmente il 5 aprile la PGR ha desistito dall’azione penale “per mancanza dei requisiti a procedere”.

La pressione mediatico-giuridica contro il dirigente della CIDH e del GIEI viene ad unirsi a una prolungata “campagna di dispregio totale e spietata da una posizione di forza e dai mezzi di comunicazione”, come l’aveva definita e denunciata mesi fa lo studente di Ayotzinapa Omar García, sopravvissuto agli attacchi del 26 settembre. Dall’Italia, in cui si trova per l’iniziativa “Carovane Migranti” di Torino, Omar ha riaffermato: “Prolungare nel tempo l’indagine è quello che cercano, così il movimento si stanca e la gente dimentica. Non per altro è stata avviata la campagna di diffamazione del GIEI; non per altro hanno imposto questa terza perizia; non per altro ora vogliono indennizzare le famiglie. Le famiglie, avvocati, esperti e studenti, il movimento che accompagna Ayotzinapa, dovranno analizzare bene che fare di fronte a questa situazione.” Per questo “non abbandonare i genitori dei nostri 43 compagni desaparecidos. Se dimentichiamo, loro vincono”.

La terza perizia sull’incendio nella discarica di Cocula

In questo contesto la PGR ha diffuso a sorpresa il 2 aprile il risultato della terza perizia sull’incendio della discarica di Cocula, realizzata da un Gruppo Collegiale di esperti nominato ad hoc il febbraio scorso dalla procura, d’accordo con il GIEI. Lo studio, ancora parziale, indica “evidenza sufficiente” del fatto che c’è stato un “fuoco controllato di grosse dimensioni e almeno 17 esseri umani adulti che furono bruciati in quel luogo”.

Poche ore dopo in un comunicato il GIEI ha denunciato la violazione dell’accordo di riservatezza che aveva stabilito con la procura, deplorando “questa forma di cambiare la dinamica del dialogo e il consenso” e “le decisioni unilaterali” sulla diffusione del documento. Inoltre i genitori dei 43 non sono stati avvisati previamente dei risultati della perizia, come invece era stato accordato durante le loro conversazioni con lo stesso presidente Peña.

Prima della conferenza stampa il portavoce degli esperti, Ricardo Damián Torres, che hanno realizzato questa terza perizia avevano rassicurato il GIEI del fatto che “il messaggio era per dire che non s’era potuto determinare se il fatto era accaduto o no e che c’era bisogno di nuovi studi e prove sperimentali per determinarlo”, si legge sul comunicato di protesta del GIEI. Invece hanno fatto l’opposto, rinforzando l’idea dell’esistenza di una guerra sporca da parte delle autorità messicane nei loro confronti. “Ciononostante il suo messaggio s’è riferito a parti del contenuto del rapporto provvisorio che nemmeno erano state analizzate dal GIEI e, cosa ancor più grave, segnalando pubblicamente cose che non sono state spiegate al GIEI durante la riunione, né sono approvate unanimemente dai periti esperti di incendi”, approfondisce il comunicato. Il Messico firma a iosa trattati e convenzioni internazionali sui diritti umani, ma poi la realtà è questa.I periti forensi argentini dell’EAAF hanno commentato che non esiste “una risposta concludente” sulla calcinazione dei 43. La loro perizia, presentata il 9 febbraio 2016 e fondata su studi realizzati solo poche settimane dopo i fatti, ha confermato che nella discarica c’erano resti ossei di 19 persone. Ciononostante è impossibile stabilire le date di calcinazione che probabilmente si riferiscono a diversi incendi. Vidulfo Rosales, avvocato difensore dei genitori di Ayotzinapa, ha segnalato che nella discarica “viene bruciata spazzatura regolarmente, anche se si suppone che è la scena di un crimine”. Di fatto negli ultimi 5 anni si sono registrate più di 300 sparizioni forzate e decine di fosse comuni con resti umani nella zona. Fino ad oggi solo i resti dello studente Alexander Mora sono stati identificati con certezza, però erano stati ritrovati in una busta di plastica sulle rive del fiume San Juan, non nella discarica.  La nuova perizia, pertanto, “non conferma né smentisce l’ipotesi della PGR”, hanno dichiarato i periti argentini il 2 aprile [13]. Pertanto, dopo un’assemblea presso la normale di Ayotzinapa, i genitori dei 43 studenti e le organizzazioni della società che li sostengono hanno deciso di riprendere le mobilitazioni e le proteste a partire dal 6 aprile. Il Comitato Studentesco della nella scuola “Raúl Isidro Burgos” ha cominciato una sospensione indefinita delle attività e alcune organizzazioni, capeggiate dal “Campamento de los 43” hanno chiuso simbolicamente i cancelli della sede della PGR a Città del Messico.

La verità è oggetto di una guerra sporca in Messico, è stuprata dalla disonestà e dal cinismo ufficiali, mentre sta alla società, ai media autonomi e ai ricercatori indipendenti mantenere vive la memoria e le ricerche. Quello che segue è un tentativo (ben riuscito) in tal senso.

 

ayotzinapa_2Comunicato del 3 aprile 2016 – Collectif Paris-Ayotzinapa – parisayotzi@riseup.net

Nel gennaio 2015 il procuratore generale della Repubblica messicana, Jesús Murillo Karam, ha presentato le conclusioni del governo sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa vittime di sparizione forzata a Iguala il 26 settembre 2014. Secondo la sua versione i 43 studenti sarebbero stati assassinati dalla criminalità organizzata, i loro corpi bruciati nella discarica pubblica di Cocula e le loro ceneri gettate in un fiume sottostante. Nel settembre 2015 il GIEI (Gruppo Internazionale di Esperti indipendenti), nominato della CIDH (Commissione Interamericana dei Diritti Umani), ha reso pubblico un rapporto che rimetteva in discussione questa versione (qui il video della conferenza stampa). Questo rapporto raggiungeva le stesse conclusioni di quelle di numerosi specialisti tra cui l’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF) che aveva determinato che non c’erano elementi scientifici che permettessero d’assicurare che i 43 studenti erano stati calcinati presso la discarica di Cocula. Messo davanti a queste perizie, che contestavano la cosiddetta “verità storica” di Murillo Karam, il governo messicano ha deciso d’effettuare un terzo studio servendosi di un nuovo gruppo di specialisti in tema d’incendi e fuoco.

Per questa perizia la PGR (Procura Generale della Repubblica) ha chiesto la collaborazione del GIEI che ha accettato di partecipare a condizione che tutte le decisioni fossero prese congiuntamente. Il primo aprile 2016 il nuovo gruppo di specialisti nominato dalla PGR e il GIEI ha reso alle autorità messicane un rapporto con alcuni risultati preliminari del proprio lavoro. Contrariamente a quanto convenuto con il GIEI, la PGR ha deciso unilateralmente di rendere immediatement pubblici i risultati di queste perizie. Ha dunque indetto una conferenza stampa che ha avuto luogo il giorno stesso e in cui i giornalisti non hanno avuto la possibilità di fare domande. Ricardo Damián Torres, membro de l’equipe di specialisti, s’è incaricato di fare da portavoce di tutto il gruppo. Contrariamente a quanto il signor Torres aveva indicato al GIEI prima della conferenza stampa, il suo messaggio non si è affatto limitato a segnalare l’impossibilità, al momento, di confermare o rifiutare l’ipotesi della calcinazione degli studenti nella discarica di Cocula. Anzi, è stata fatta allusione a elementi della ricerca che non erano ancora stati analizzati dal GIEI e sui quali non c’era consenso tra tutti i membri del gruppo di specialisti.

In questa conferenza di 4 minuti la PGR ha concluso che c’è stato un evento incendiario controllato di grandi dimensioni e che nella discarica sono stati ritrovati i resti umani di almeno 17 persone incenerite sul posto e che questo permette di formulare l’ipotesi che si tratti dei resti degli studenti scomparsi. La versione della procura si basa principalmente sulle confessioni, probabilmente ottenute sotto tortura (vedere rivista Proceso, 12 settembre 2015) di tre presunti sicari che hanno confessato di aver bruciato gli studenti presso la discarica di Cocula. Eppure, il 9 febbraio 2016 l’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF), in una conferenza stampa durata oltre un’ora e mezza, aveva presentato in modo dettagliato i risultati della sua ricerca nella discarica (che era stata realizzata dal 27 ottobre al 6 novembre 2014, cioè solo un mese dopo la tragedia). Da questa perizia emerge che gli elementi probatori testimoniali forniti dai presunti sicari non concordano con le prove fisiche raccolte sul campo.

L’equipe argentina (cf. ALLEGATO 1) ha dimostrato che nella discarica ci sono stati, sì, molteplici episodi di fuoco controllato, ma che nessuno di essi ha avuto le dimensioni ipotizzate dalla PGR, né ha potuto avere luogo nella notte del 26 settembre 2014. L’EEAF ha trovato nella discarica i resti di almeno 19 individui, tra i quali compaiono due protesi dentali che non corrispondono ai profili degli studenti. L’equipe insiste sul fatto che questi 19 corpi sono stati molto probabilmente calcinati in momenti diversi e che ciò è da mettere in relazione con il contesto delle sparizioni forzate nella zona di Iguala. In effetti, in seguito alla sparizione dei 43 studenti e alle ricerche nella regione, sono stati denunciati a Iguala più di 300 casi di sparizione che sono stati commessi negli ultimi 4-5 anni e nei dintorni sono state scoperte dozzine di fosse clandestine. Per questo l’EAAF, al contrario della procura, afferma che ad oggi non c’è nessun prova fisica che permette di stabilire un legame tra i resti rinvenuti a Cocula e gli studenti scomparsi.

La sola prova al riguardo è costituita dall’osso che ha permesso l’identificazione dello studente Alexander Mora Venancio. Questo frammento osseo è stato ritrovato da membri della Marina all’interno di una busta di plastica scoperta sulle rive del fiume San Juan, in seguito alle confessioni dei presunti sicari. L’EAAF non era presente al momento del rinvenimento e, in mancanza di una catena di custodia, non è in grado di confermarne la provenienza. Il governo, d’altro canto, non ha permesso agli esperti del GIEI d’interrogare i membri della Marina che l’avevano ritrovata.

L’identificazione è stata eseguita dal laboratorio di medicina legale dell’università di Innsbruck, che è stato incaricato dal governo messicano d’analizzate 17 resti calcinati. Il solo frammento per cui è stato possibile estrarre il DNA nucleare è l’osso di A. Mora Venancio. Questo frammento, secondo l’EAAF, presentava un colore diverso, una dimensione maggiore e un minor grado d’esposizione al fuoco degli altri frammenti ossei ritrovati nella discarica o nelle buste. Gli altri campioni, essendo troppo calcinati per poterne estrarre il DNA nucleare, sono stati sottoposti a una procedura sperimentale per l’estrazione del DNA mitocondriale. Grazie a questo metodo gli esperti hanno trovato una corrispondenza con la madre dello studente Jhosivani Guerrero de la Cruz, ma la coincidenza genetica è debole in termini statistici e l’EAAF considera che questo risultato non permette un’identificazione definitiva, soprattutto se si tiene in conto il numero degli scomparsi nella regione. Inoltre il frammento in questione proveniva, anch’esso, dalla busta recuperata nel fiume. Il laboratorio di Innsbruck ha eseguito i test del DNA sul resto dei campioni e consegnerà i risultati nei prossimi giorni.

Insomma, in questa nuova ricerca realizzata un anno e mezzo dopo i fatti la PGR non apporta nuovi dati rispetto alle perizie precedenti, però ne ricava conclusioni differenti. Affermando che almeno 17 persone sono state bruciate nella discarica durante uno stesso evento incendiario, la procura cerca di eliminare le incoerenze tra le prove fisiche e le testimonianze dei sicari e d’imporre, così, la sua “versione storica” dei fatti. Il modo in cui questi risultati sono stati resi pubblici mostra nuovamente l’incompetenza del governo, il suo autoritarismo e il suo disprezzo per le vittime e i loro cari, non solamente per i 43 studenti di Ayotzinapa ma per centinaia di desaparecidos della regione di Iguala, alcuni dei quali potrebbero essere stati bruciati nella discarica di Cocula (basti pensare alla citata protesi dentale non appartenente ad alcun studente di Ayotzinapa).

Tutto questo accade in un contesto molto delicato. Infatti, malgrado la richiesta delle famiglie dei 43 di prolungare il mandato del GIEI, che scade in aprile, il governo ha deciso di non rinnovare la missione del Gruppo, nonostante il caso degli studenti, tuttora desaparecidos, sia lontano dall’essere risolto. Inoltre, da qualche mese, i membri del GIEI sono oggetto di una ignobile campagna di discredito su certi mezzi di comunicazione messicani e nelle reti sociali. Il governo messicano non ha mostrato nessuna volontà di mettere fine a queste diffamazioni che, sia beninteso, mirano a screditare il lavoro fatto dal GIEI. Al contrario, le autorità messicane hanno dato seguito a una denuncia infondata sporta contro il segretario esecutivo della CIDH, Emilio Álvarez Icaza, riguardante una presunta appropriazione indebita di fondi pubblici da parte del GIEI.

Non è la prima volta che il governo di Enrique Peña Nieto si mostra ostile verso gli organismi internazionali che denunciano la violazione dei diritti umani in Messico. Nel marzo 2015, quanto il relatore speciale dell’Onu sulla tortura, Juan Méndez, ritenne che la tortura in Messico era una pratica generalizzata, fu definito dalle autorità messicane “non professionale e non etico” (commento fatto da Juan Manuel Gómez Robledo, che all’epoca era responsabile dei diritti umani presso il Ministero degli Esteri e che è attualmente l’ambasciatore messicano in Francia). Inoltre la nuova autorizzazione per una visita che Juan Méndez ha richiesto al governo messicano per continuare il suo lavoro nel 2016 è stata appena rifiutata col pretesto di problemi di calendarizzazione.

L’informazione diffusa in Francia (e in genere in Europa) riguardante la nuova perizia non considera altro che il messaggio lanciato in conferenza stampa dal governo. Vi invitiamo a esaminare il comunicato stampa che il GIEI ha pubblicato immediatamente dopo la conferenza della PGR e in cui denuncia le manovre delle autorità messicane e le loro mancanze nel rispetto degli accordi sottoscritti. Vi invitiamo inoltre a entrare in contatto con le famiglie dei desaparecidos e con gli studenti che hanno subito l’aggressione del 2014 per conoscere la loro versione dei fatti. I familiari e i cari dei 43 rifiutano categoricamente l’annuncio fatto il primo aprile e sono determinati a continuare la loro lotta finché non si arrivi alla verità e alla giustizia.

Restiamo a vostra disposizione e vi invitiamo a mettervi in contatto con noi per ulteriori informazioni.

 

ALLEGATO 1 Conferenza stampa del 9 febbraio 2016 dell’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF)

Ecco le principali conclusioni del gruppo di esperti argentini:

  • Rapporti metereologici realizzati da varie istituzioni registrano precipitazioni piovose nella zona di Cocula durante la notte tra il 26 e il 27 settembre 2014. Inoltre, le immagini satellitari confermano l’assenza di fuoco a tale data.
  • I 138 elementi balistici (bossoli e proiettili) ritrovati nella discarica provengono da almeno 39 armi da fuoco distinte. Si tratta per lo più di armi da spalla, mentre i presunti testimoni parlano di armi da pugno. Inoltre, alcuni di questi elementi balistici erano arrugginiti, il che significa che la loro presenza nella discarica precede la scomparsa degli studenti.
  • L’analisi del suolo, della vegetazione, di insetti e di escrementi animali ha dimostrato che nella discarica sono avvenuti numerosi episodi di fuoco controllato con differenti epicentri, il che è confermato dalle immagini satellitari degli ultimi anni. Per di più, dei tronconi d’albero sono stati ritrovati nel punto in cui, secondo i sicari, si trovava la pira usata per bruciare i corpi. Se l’indicazione dei sicari fosse esatta, i tronconi dovrebbero essere, anch’essi, completamente carbonizzati.
  • Nella discarica sono stati trovati centinaia di frammenti ossei carbonizzati che non possono essere stati calcinati in un solo evento incendiario, perché presentano differenti livelli di esposizione al fuoco e perché sono sparpagliati in vari punti della discarica. Basandosi sulle “rocche petrose” (che sono le ossa del cranio più resistenti) presenti nella discarica, l’EAAF ha calcolato che tali resti umani appartengono ad almeno 19 individui diversi. Tra questi resti, figurano due protesi dentarie, di cui una è fissata su una mandibola. Siccome nessuno degli studenti di Ayotzinapa portava protesi, nella discarica sono sicuramente presenti resti umani non attribuibili agli studenti.

Note

[1] (Legati a indagini di competenza federale e di ogni stato) http://secretariadoejecutivo.gob.mx/rnped/datos-abiertos.php

[2] https://youtu.be/aevgXsqTEIw  o http://www.hchr.org.mx/index.php?option=com_k2&view=item&id=767:declaracion-del-alto-comisionado-de-la-onu-para-los-derechos-humanos-zeid-ra-ad-al-hussein-con-motivo-de-su-visita-a-mexico&Itemid=265

[3] Steve Fisher y Anabel Hernández, Iguala, la historia no oficial, http://www.proceso.com.mx/390560/iguala-la-historia-no-oficial

[4] http://centroprodh.org.mx/GIEI/

[5] https://www.centrodemedioslibres.org/2015/09/06/informe-ayotzinapa-del-grupo-interdisciplinario-de-expertos-independientes-de-la-cidh/

[6] AAVV, México, la Guerra invisible. Informe de Libera contra las mafias. http://www.red-alas.net/wordpress/wp-content/uploads/2015/09/DossierMexico_LIBERA_ESP.pdf (pp. 52-55)

[7] José Reveles, Échale la culpa a la heroína, Grijalbo, 2015.

[8] Denise Maerker. Ayotzinapa, incompetencia y manipulación. http://www.eluniversal.com.mx/entrada-de-opinion/columna/denise-maerker/nacion/2015/09/8/ayotzinapa-incompetencia-y-manipulacion

[9] http://www.radioformula.com.mx/notas.asp?Idn=581856&idFC=2016

[10] http://www.oas.org/es/cidh/sesiones/docs/Calendario-157-audiencias-es.pdf

[11] Comunicado completo http://aristeguinoticias.com/2403/mexico/ongs-europeas-respaldan-en-un-comunicado-al-giei/

[12] http://www.seguridadjusticiaypaz.org.mx/

[13] http://aristeguinoticias.com/0204/mexico/el-tercer-peritaje-sobre-cocula-no-afirma-ni-niega-hipotesis-de-la-pgr-peritos-argentinos/

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NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga https://www.carmillaonline.com/2015/06/03/narcoguerra-cronache-dal-messico-dei-cartelli-della-droga/ Tue, 02 Jun 2015 22:46:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23057 di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può [...]]]> di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte di informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti. Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prendono su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai “narcos” quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di Usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché…

Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico, da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

Odoya Bandiera messicana coca proiettiliE chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione, il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?

Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile. È per questo, che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

Petizione del collettivo Paris-Ayotzinapa: “NO alla presenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto alle celebrazioni del 14 luglio 2015” – LINK Firma

Prossime presentazioni a Milano: 13 giugno Libreria Les mots e 16 giugno Macao

Leggi l’introduzione del libro: QUI – Risvolto/Riassunto del libro+Bio: QUI 

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La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica https://www.carmillaonline.com/2014/10/10/la-strage-degli-studenti-in-messico-narco-stato-e-narco-politica/ Thu, 09 Oct 2014 22:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18018 di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi interrati di decine di studenti della scuola normale di Ayotzinapa, comune che si trova a circa 120 km da Iguala. Infatti, dal fine settimana precedente, 43 normalisti risultano ufficialmente desaparecidos. “Desaparecido” non significa semplicemente scomparso o irreperibile, significa che c’è di mezzo lo stato.

Vuol dire che l’autorità, connivente con bande criminali o gruppi paramilitari, per omissione o per partecipazione attiva, è coinvolta nel sequestro di persone e nella loro eliminazione. Niente più tracce, i desaparecidos non possono essere dichiarati ufficialmente morti, ma, di fatto, non esistono più. I familiari li cercano, chiedono giustizia alle stesse autorità che li hanno fatti sparire. Oppure si rivolgono ai mass media e a istituzioni che in Messico sono sempre più spesso una farsa, una facciata che nasconde altri interessi e altre logiche, occulte e delinquenziali. E nelle conferenze stampa, senza paura, dicono: “Non è stata la criminalità organizzata, ma lo stato messicano”.

La strage di #Iguala #Ayotzinapa

Marcha Ayotzinapa 8 oct 149 (Small)La sera di venerdì 26 settembre un gruppo di giovani alunni della scuola normale di Ayotzinapa si dirige a Iguala per botear, cioè racimolare soldi. Hanno tutti tra i 17 e i 20 anni. Vogliono raccogliere fondi per partecipare al tradizionale corteo del 2 ottobre a Città del Messico in ricordo della strage  di stato del 1968, quando l’esercito uccise oltre 300 studenti e manifestanti in Plaza Tlatelolco. I normalisti decidono di occupare tre autobus. I conducenti li lasciano fare, ci sono abituati. Sono le sette e mezza, fa buio. Fuori dall’autostazione, però, ad attenderli c’è un commando armato di poliziotti. Fanno fuoco senza preavviso. Sparano per uccidere, non solo per intimidire. Hanno l’uniforme della polizia del comune di Iguala e sono gli uomini del sindaco José Luis Abarca Velázquez e del direttore della polizia locale Felipe Flores, entrambi latitanti da più di una settimana. Ma i pistoleri poliziotti non restano soli a lungo, presto sono raggiunti da un manipolo di altri energumeni in tenuta antisommossa. Il fuoco delle armi cessa per un po’, ma l’attacco è stato brutale, indignante e irrazionale.

La persecuzione continua. Partono altri spari. Muoiono tre studenti, altri 25 restano feriti, uno in stato di morte cerebrale. Per salvarsi bisogna nascondersi, buttarsi sotto gli autobus. Non muoverti, se no gli sbirri ti seccano. Alcuni cercano di scappare, scendono dai bus, il formicaio esplode nell’oscurità. Gli uomini in divisa caricano decine di studenti sulle loro camionette e li portano via. Pare che l’esercito, la polizia federale e quella statale abbiano scelto di non intervenire. Lasciar stare.

Intanto sopraggiungono altri soggetti con armi di alto calibro, narcotrafficanti del cartello dei Guerreros Unidos, una delle tante sigle che descrivono il terrore della narcoguerra e la decomposizione del corpo sociale in molte regioni del paese. Non contenti, i poliziotti, in combutta con i narcos, si spostano fuori città, pattugliano la strada statale che collega Ayotzinapa a Iguala e fermano un pullman di una squadra di calcio locale, los avispones. Assaltano anche quello, pensando che sia il mezzo su cui gli studenti stanno facendo ritorno a casa. Bisogna sparare, bersagliare senza tregua. E ora sono in tanti, narcos e narco-poliziotti, insieme, probabilmente per ordine de “El Chucky”, un boss locale, e del sindaco Abarca.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 234 (Small)Ammazzano un calciatore degli avispones, un ragazzo di quattordici anni che si chiamava David Josué García Evangelista. I proiettili volano ovunque, sono schegge di follia e forano la carrozzeria di un taxi che, sventurato, stava passando di lì. Perdono la vita sia il conducente dell’auto sia una passeggera, la signora Blanca Montiel. Il caso, la mala suerte si fa muerte. Poche ore dopo in città compare il cadavere dello studente Julio Cesar Mondragón, martoriato. Gli hanno scorticato completamente la faccia e gli hanno tolto gli occhi, secondo l’usanza dei narcos. La macabra immagine, anche se repulsiva, diventa virale nelle reti sociali. E si diffondono globalmente anche le testimonianze dirette dell’orrore che stanno rendendo i sopravvissuti.

Le reazioni alla mattanza

Dopo il week end del massacro a Iguala i compagni della normale di Ayotzinapa e i familiari delle vittime e dei desaparecidos si organizzano, reclamano, tornano sul luogo della strage e indicono una manifestazione nazionale per l’8 ottobre a Città del Messico per chiedere le dimissioni del governatore statale, Ángel Aguirre, la “restituzione con vita” dei desaparecidos e giustizia per le vittime della mattanza.

Cresce la pressione mediatica e popolare per ottenere giustizia. Arrivano i primi arresti. 22 poliziotti al soldo delle mafie locali e 8 narcotrafficanti sono imprigionati e la Procura Generale della Repubblica comincia a occuparsi del caso. Alcuni degli arrestati confessano i crimini commessi e parlano di almeno 17 studenti rapiti e giustiziati. Indicano la posizione esatta di tre fosse clandestine in cui sarebbero stati interrati. L’esercito e la gendarmeria commissariano l’intera regione e blindano le fosse comuni che non sono tre, sono sei. La morte si moltiplica. I corpi recuperati sono 28, non 17. I desaparecidos, però, sono 43.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 020 (Small)I numeri non tornano. I familiari non si fidano, chiedono l’invio di medici forensi argentini, specialisti imparziali e qualificati. Ci vorrà tempo per avere certezze, se mai ce ne saranno. I risultati dell’esame del DNA tarderanno ad arrivare almeno due settimane. Nel frattempo, il 7 ottobre, seicento agenti delle polizie comunitarie della regione della Costa Chica, appartenenti alla UPOEG (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero), hanno fatto il loro ingresso a Iguala per cercare “vivi o morti” e “casa per casa” i 43 studenti scomparsi. Altri gruppi della polizia comunitaria di Tixla, autonoma rispetto alle autorità statali, hanno scritto su twitter: “Con la nostra attività di sicurezza stiamo proteggendo la Normale di #Ayotzinapa“.

Dov’è finito il sindaco del PRD (Partido de la Revolución Democrática, di centro-sinistra) José Luis Abarca? E sua moglie, anche lei irreperibile? E cosa fa il governatore dello stato, il “progressista”, anche lui del PRD, Ángel Aguirre? Pare che lui conoscesse molto bene la situazione già da tempo. Il loro partito ha scelto di espellere il sindaco e sostenere il governatore per non perdere quote di potere in quella regione. Abarca ha chiesto 30 giorni di permesso e poi è sparito. Ora è ricercato dalla giustizia e vituperato dall’opinione pubblica nazionale. Aguirre, che non ha potuto impedire la strage né ha bloccato la concessione permesso richiesto dal sindaco prima di scappare, cerca di difendere l’indifendibile e, per ora, non presenta le sue dimissioni. Anzi, scambia abbracci e si fa la foto con Carlos Navarrete, nuovo segretario generale del PRD eletto domenica 5 ottobre.

Narco-Politica

La gravità della situazione è palese, anche perché è nota da anni e non s’è fatto nulla per denunciarla ed evitare la sua degenerazione violenta. José Luis Abarca, sindaco di Iguala al soldo dei narco-cartelli, ha un passato inquietante alle spalle, ma è riuscito comunque a diventare primo cittadino e a piazzare sua moglie, María Pineda, come capo delle politiche sociali municipali, cioè dell’ufficio del DIF (Desarrollo Integral de la Familia), e prossima candidata sindaco. Il giorno della strage la signora Pineda doveva presentare la relazione dei lavori svolti come funzionaria pubblica e, temendo un’eventuale incursione dei normalisti nell’evento, avrebbe richiesto al marito di “mettere in sicurezza” la zona.

Abarca avrebbe quindi lanciato l’operazione contro gli studenti con la collaborazione piena del capo della polizia municipale, suo cugino Felipe Flores. Costui era già noto per aver “clonato” pattuglie della polizia col fine di realizzare “lavoretti speciali” e per i suoi abusi d’autorità. La moglie del sindaco è sorella di Jorge Alberto e Mario Pineda Villa, noti anche come “El borrado” e “El MP”, due operatori del cartello dei Beltrán Leyva morti assassinati. Salomón Pineda, un altro fratello, sta con i Guerreros Unidos dal giugno 2013. In uno degli stati più poveri del Messico, Abarca e consorte prendono, tra stipendi e compensazioni, 20mila euro al mese che pesano direttamente sulle casse comunali.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 175 (Small)“Mi concederò il piacere di ammazzarti”, avrebbe detto nel 2013 il sindaco Abarca ad Arturo Hernández Cardona, della Unidad Popular di Guerrero, prima di ucciderlo, secondo quanto racconta un testimone di questo delitto per cui Abarca non è stato condannato, ma che è depositato in un fascicolo giudiziale.

Il 30 maggio 2013 otto persone scomparvero a Iguala. Erano attivisti, membri della Unidad Popular, un gruppo politico vicino al PRD. Tre di loro sono stati ritrovati, morti, in fosse comuni. La camionetta su cui viaggiavano venne rinvenuta nel deposito comunale degli autoveicoli di Iguala. Human Rights Watch, Amnesty Internacional e l’Ufficio a Washington per gli Affari Latinoamericani chiesero invano alle autorità federali di chiarire il caso, essendoci il fondato sospetto di un’implicazione delle autorità locali. Cinque attivisti sono tuttora desaparecidos.

I sicari con l’uniforme della polizia e quelli in borghese lavorano per lo stesso cartello, quello dei Guerreros Unidos che è in lotta con Los Rojos per il controllo degli accessi alla tierra caliente, la zona calda tra lo costa e la sierra in cui prosperano le coltivazioni di marijuana e fioriscono i papaveri da oppio, che qui si chiamano amapola o adormidera. Le bande rivali sono nate dalla scissione dell’organizzazione dei fratelli Beltrán Leyva, ormai agonizzante. Il 2 ottobre, mentre 50mila persone sfilavano per le strade della capitale per non far sbiadire la memoria di una strage, a Queretaro veniva arrestato l’ultimo dei fratelli latitanti, Hector Beltrán Leyva, alias “El H”, un altro figlio delle montagne dello stato del Sinaloa. “El H” era diventato un imprenditore rispettato. Originario della Corleone messicana, la famigerata Badiraguato, e antico alleato dell’ex jefe de jefes, Joaquín “El Chapo” Guzmán, che sta in prigione dal febbraio scorso, s’era costruito una reputazione rispettabile, onorata. Ma già da tempo il gruppo dei Beltrán s’era diviso in cellule cancerogene e impazzite secondo il cosiddetto effetto cucaracha: scarafaggi in fuga, un esodo di massa per non essere calpestati.

Ed eccoli qui che giustiziano studenti insieme ai poliziotti che, a loro volta, aspirano a posizioni migliori all’interno dell’organizzazione criminale, sempre più confusa con quella statale, e s’occupano della compravendita di protezione e di droga. L’eroina tira di più in questo periodo e Iguala è una porta d’accesso importante, una plaza di snodo. L’eroina bianca del Guerrero è un prodotto che non ha niente da invidiare, per qualità e purezza, a quella proveniente dall’Afghanistan. Anche per questo la regione è la più violenta del Messico da un anno e mezzo a questa parte e ha spodestato in testa alla classifica della morte altri stati in disfacimento come il Michoacan, il Tamaulipas, Sonora, il Sinaloa, Chihuahua, l’Estado de México e Veracruz.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 292 (Small)I responsabili del massacro di Iguala

I poliziotti detenuti accusano Francisco Salgado, uno dei loro capi, finito anche lui in manette, di avere ordinato loro di intercettare gli studenti fuori dalla stazione degli autobus. Invece l’ordine di sequestrarli e assassinarli sarebbe arrivato dal boss mafioso El Chucky. Chucky, come il personaggio del film horror “La bambola assassina” di Tom Holland. Il procuratore di Guerrero, Iñaki Blanco, ritiene che il principale responsabile della mattanza e della desaparición dei 43 normalisti sia il sindaco Abarca che “è venuto meno al suo dovere, oltre ad aver commesso vari illeciti”. Il procuratore parla solo di “omissioni”, promuoverà accuse per “violazioni alle garanzie della popolazione” e la revocazione della sua immunità, ma dal suo discorso non si capisce chi sarebbero tutti i responsabili né come saranno identificati e processati.

Chi ha ordinato ai (narco)poliziotti di fermare i normalisti e di sparare? Com’è possibile che il sindaco e il capo della polizia e delle forze di sicurezza locali, Felipe Flores, siano riusciti a fuggire? Perché i due, ma anche l’esercito e le forze federali, hanno lasciato gli studenti alla mercé della violenza? Perché la polizia prende ordini dai narcos e, anzi, fa parte del cartello dei Guerreros Unidos? Com’è possibile che tutto questo sia tragicamente così normale in Messico? Come mai nessuno l’ha impedito, se già da anni si era a conoscenza della situazione?

Infatti, ci sono prove del fatto che, almeno dal 2013, il governo federale e il PRD hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte all’evidenza: José Luis Abarca e sua moglie María Pineda avevano chiari vincoli col narcotraffico e con la morte di un militante come Arturo Hernández Cardona. Ma già dal 2009, quando il presidente era Felipe Calderón, del conservatore Partido Acción Nacional (PAN), la Procura Generale della Repubblica aveva reso pubbliche la relazioni della signora Pineda e dei suoi fratelli con il cartello dei Beltrán Leyva. La polizia di Iguala era in mano ai narcos e sono tantissime le realtà locali in Messico ove predomina questa situazione.

L’esperto internazionale di sicurezza e narcotraffico, il prof. Edgardo Buscaglia, ha parlato di Peña Nieto e di Calderón come figure simili tra loro, come coordinatori del patto d’impunità e della perdita di controllo politico nazionale: “Sono cambiate le facce, ma hanno lo stesso ruolo”.  Perciò, ha segnalato l’accademico, bisogna cominciare dal presidente per trovare i responsabili. Mentre la comunità internazionale “fa come se non stesse accadendo nulla”, nel paese “il denaro zittisce le coscienze collettive” e, secondo Buscaglia, “il sistema giungerà a una crisi e ci sarà una sollevazione sociale in cui si fermerà il paese e soprattutto il sistema economico”.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 129 (Small)Le scuole normali messicane

Resta il fato che sparuti gruppi di studenti, seppur combattivi, di un’istituzione rurale non sono pericolosi trafficanti né rappresentano minacce sistemiche. Perché annichilarli? Forse la storia ci aiuta a ipotizzare delle risposte. Le scuole normali messicane, nate negli anni ’20 e impulsate dal presidente Lázaro Cárdenas negli anni ’30 come baluardi del progetto di educación socialista per il popolo e le zone rurali del paese, sono considerate oggi dalla classe politica tecnocratica come un pericoloso e anacronistico retaggio del passato. Un’appendice inutile da estirpare per entrare appieno nella globalizzazione.

Di fatto i governi neoliberali, dai presidenti Miguel de la Madrid (1982-1988) e Carlos Salinas (1988-1994) in poi, hanno costantemente attaccato e minacciato la sopravvivenza del sistema scolastico delle normali che, ciononostante, ha saputo resistere. La funzione sociale di questi centri educativi è sempre stata fondamentale perché è consistita nell’istruire le classi sociali più deboli e sfruttate, specialmente i contadini e gli abitanti delle campagne, affinché potessero difendersi dai soprusi dei latifondisti e dei politici locali, secondo un chiaro progetto politico-educativo di emancipazione e ribellione allo status quo. L’alfabetizzazione della popolazione rurale e la formazione di maestri coscienti socialmente sembra essersi trasformata in un’anomalia per tanti settori benpensanti, politici e metropolitani.

Anche per questo gli studenti delle normali, in quanto portatori di modelli di lotta e di formazione antitetici rispetto a quelli delle élite locali e nazionali e dei cacicchi della narco-agricoltura e della narco-politica, sono già stati vittime in passato della barbarie e della repressione. Nel dicembre 2011 la polizia ne uccise due proprio di Ayotzinapa durante lo sgombero di un blocco stradale e di una manifestazione. Una violenza smisurata venne impiegata dalla Polizia Federale nel 2007 per reprimere gli alunni di quella stessa cittadina che avevano bloccato il passaggio in un casello della turistica Autostrada del Sole tra Acapulco e Città del Messico. Nel 2008 i loro compagni della normale di Tiripetío, nel Michoacán, furono trattati come membri di pericolose gang e, in seguito a una giornata di proteste e scontri con la polizia, 133 di loro finirono in manette.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 008 (Small)Tradizione stragista

La criminalizzazione dei normalisti va inquadrata anche nel più esteso processo di criminalizzazione della protesta sociale che incalza con l’approvazione di misure repressive, come la “Ley Bala”, che prevede l’uso delle armi in alcuni casi nei cortei da parte della polizia, con l’inasprimento delle pene per delitti contro la proprietà privata e l’ampliamento surreale delle fattispecie legate ai reati di terrorismo e di attacco alla pace pubblica. Tutti contenitori pronti per fabbricare colpevoli e delitti fast track. Il caso di Mario González, studente attivista arrestato ingiustamente il 2 ottobre 2013 e condannato, senza prove e con un processo ridicolo, a 5 anni e 9 mesi di reclusione, sta lì a ricordarcelo.

Ma la “tradizione stragista” e di omissioni dello stato messicano è purtroppo molto più lunga e persistente. Basti ricordare alcuni nomi e alcune date, solo pochi esempi tra centinaia che si potrebbero menzionare: 2 ottobre 1968, Tlatelolco; 11 giugno 1971, “Los halcones”; anni ’70 e ‘80, guerra sucia; 1995, Aguas Blancas, Guerrero; 1997, Acteal, Chiapas; 2006, Atenco y Oaxaca; 2008 y 2014, Tlatlaya; 2010 e 2011, i due massacri di migranti a San Fernando, Tamaulipas; 2014, caracol zapatista de La Realidad, Chiapas; 2014, Iguala; 2006-2014, NarcoGuerra, 100mila morti, 27mila desaparecidos…

La OAS (Organization of American States), Human Rights Watch, la ONU, la CIDH (Corte Interamericana dei Diritti Umani) si sono unite al coro internazionale di voci critiche contro il governo messicano. La notizia delle fosse comuni e della mattanza di Iguala sta cominciando a circolare nei media di tutto il mondo e si erge a simbolo dell’inettitudine, dell’impunità e della corruzione. In pochi giorni è crollata la propaganda ufficiale che presentava un paese pacificato e sulla via dello sviluppo indefinito.

“Estamos moviendo a México”

Marcha Ayotzinapa 8 oct 225 (Small)Gli spot governativi presentano un Messico che si muove, che sta sconfiggendo i narcos e che, grazie alla panacea delle “riforme strutturali”, in primis quella energetica, ma anche quelle della scuola, del lavoro, della giustizia e delle telecomunicazioni, si starebbe avviando a entrare nel club delle nazioni che contano: una retorica, quella delle riforme necessarie e provvidenziali, che suona molto familiare anche in Europa e in Italia e che, in terra azteca, copia pedantemente quella dei presidenti degli anni ottanta e novanta, in particolare di Carlos Salinas de Gortari. Dopo la firma del NAFTA (Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord) con USA e Canada, Salinas preconizzava l’ingresso del Messico nel cosiddetto primo mondo. Invece alla fine del suo mandato nel 1994 l’insurrezione dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) in Chiapas, l’effetto Tequila, la svalutazione, indici di povertà insultanti e la fine dell’egemonia politica del PRI (Partido Revolucionario Institucional, al potere durante 71 anni nel Novecento) attendevano al bivio il nuovo presidente, Ernesto Zedillo (1994-2000).

Oggi Peña Nieto, anche lui del PRI, dopo aver approvato le riforme costituzionali e della legislazione secondaria in fretta e furia, cerca di vendere il paese agli investitori stranieri, mostrando al mondo come pregi gli aspetti più laceranti del sottosviluppo: precarietà e flessibilità del lavoro; salari da fame per una manodopera mediamente qualificata, non sindacalizzata e ricattabile; movimenti sociali anestetizzati; un welfare non universale, discriminante e carente; riforme educative dequalificanti per professori e alunni ma “efficientiste”; stato di diritto “flessibile”, cioè accondiscendente con i forti e spietato coi deboli.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 276 (Small)Il presidente annuncia lo sforzo del Messico per consolidare l’Alleanza del Pacifico, un’area commerciale sul modello del NAFTA per i paesi americani affacciati sull’Oceano Pacifico, e la prossima partecipazione di personale militare e civile alle “missioni di pace dell’ONU” come quella ad Haiti, la missione dei caschi blu chiamata MINUSTAH, che pochi onori e tante grane ha portato al paese caraibico e agli eserciti latinoamericani, per esempio il brasiliano, l’uruguaiano e il venezuelano, che vi partecipano attivamente.

Questa politica da “potenza regionale”, però, deve fare i conti con la cruda realtà. L’inserto Semanal del quotidiano La Jornada del 5 ottobre ha pubblicato un box con un piccolo promemoria: dal dicembre 2012 al gennaio 2014 ci sono stati 23.640 morti legati al narco-conflitto interno, 1700 esecuzioni al mese, con Guerrero che registra, da solo, un saldo di 2.457 assassinii, secondo quanto  riferisce la rivista Zeta in base all’analisi dei dati ufficiali. Nel 2011 Fidel López García, consulente dell’ONU intervistato dalla rivista Proceso (28/XI/2011), aveva parlato di un milione e seicentomila persone obbligate a lasciare la loro regione d’origine per via della guerra. Anche per questo il Messico rischia di trasformarsi in un’immensa fossa comune (e impune).

Ayo foto corteo lungoPost Scriptum. Il corteo.

“¿Por qué, por qué, por qué nos asesinan? ¡26 de septiembre, no se olvida!” (“Perché, perché, perché ci assassinano? Il 26 settembre non si dimentica”).  E’ stato il grido di oltre 60 piazze del Messico e decine in tutto il mondo nel pomeriggio dell’8 ottobre 2014.

“Gli studenti sono vittime di omicidi extragiudiziari, si sequestrano e si fanno sparire non solo studenti ma anche attivisti sociali e quelli che vanno contro il governo […] è una presa in giro verso il nostro dolore, non sappiamo perché fanno questo teatrino politico”. Così ha espresso la sua rabbia Omar García, compagno degli studenti uccisi, in conferenza stampa. L’esercito, che nei tartassanti spot governativi viene ritratto come un’istituzione integra, fatta di salvatori della patria e protettori dei più deboli, ha vessato gli studenti di Ayotzinapa che portavano con loro un compagno ferito:

“Ci hanno accusato di essere entrati in case private, gli abbiamo chiesto di aiutare uno dei nostri compagni e i militari han detto che ce l’eravamo cercata. Lo abbiamo portato noi all’ospedale generale ed è stato lì a dissanguarsi per due ore. L’esercito stava a guardare e non ci hanno aiutato”, continua Omar. “Il governo statale sapeva quello che stavamo facendo, non eravamo in attività di protesta ma accademiche ed è dagli anni ’50 che occupiamo gli autobus e la polizia se li viene riprendere, ma non deve aggredirci a mitragliate”.

Il normalista ha infine parlato del governatore Aguirre: “Il nostro governatore ha ammazzato 13 dirigenti di Guerrero e due compagni nostri nel 2011 e per nostra disgrazia questi sono rimasti nell’oblio. La Commissione Nazionale dei Diritti Umani, cha aveva emesso un monito, non ha più seguito la cosa e il caso è rimasto impune, chi ha ucciso è rimasto libero”.

Perseo Quiroz, direttore di Amnisty in Messico, ha spiegato che non serve a nulla che il presidente Peña si rammarichi pubblicamente dei fatti di Iguala perché “questi incubavano tutte le condizioni perché succedessero, non sono fatti isolati […] lo stato messicano colloca la tematica dei diritti umani in terza o quarta posizione e per questa mancanza di azioni accadono come a Iguala”.

Ayo Polizia comunitaria a AyotzinapaAnche il Dottor Mireles, leader del movimento degli autodefensas del Michoacán e incarcerato dal luglio 2014, ha mandato un messaggio dal carcere solidarizzando con i normalisti di Iguala. Il suo comunicato è importante perché sottolinea il doppio discorso e le ambiguità del governo: da una parte la connivenza narcos-autorità-polizia è la chiave di un massacro di studenti nel Guerrero, per cui i vari livelli del governo sono immischiati e responsabili; dall’altra si mostra una falsa disponibilità al dialogo con gli studenti del politecnico (Istituto Politecnico Nazionale, IPN) che hanno occupato l’università due settimane fa per chiedere la deroga del regolamento, da poco approvato alla chetichella dalle autorità dell’ateneo, che attenta contro i principi dell’educazione pubblica e dell’università. Nonostante le dimissioni della rettrice dell’IPN e l’intimidazione derivata dal caso Ayotzinapa, la protesta studentesca continua, chiede la concessione dell’autonomia all’ateneo (cosa già acquisita da tantissime università del paese) e mette in evidenza la scarsa volontà di dialogo dell’esecutivo.

A San Cristobal de las Casas, nel Chiapas, gli zapatisti hanno proclamato la loro adesione alle iniziative di protesta di questa giornata e in migliaia hanno realizzato con una marcia silenziosa alle cinque del pomeriggio.

L’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario) ha emesso un comunicato in cui ha definito il massacro come un “atto di repressione e di politica criminale di uno stato militare di polizia”.

Il sindacato dissidente degli insegnanti, la CNTE (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación), era presente alle manifestazioni che sono state convocate in decine di città messicane e presso i consolati messicani in oltre dieci paesi d’Europa e delle Americhe. La Coordinadora ha anche dichiarato lo sciopero indefinito nello stato del Guerrero. Nella capitale dello stato, Chilpancingo, hanno marciato oltre 10mila dimostranti.

A Città del Messico abbiamo assistito a una manifestazione imponente, non solo per il numero dei manifestanti, comunque alto per un giorno lavorativo e stimato tra le 70mila e le 100mila persone, quanto soprattutto per la diversità e il forte coinvolgimento delle persone nel corteo. Hanno risposto alla convocazione dei familiari delle vittime e degli studenti scomparsi centinaia di organizzazioni della società civile, tra cui il Movimento per la Pace e l’FPDT (Frente de los Pueblos en Defensa de la Tierra di Atenco), che sono scese in piazza con lo slogan “Ayotzinapa, Tod@s a las calles” mentre su Twitter e Facebook gli hashtag di riferimento erano  #AyotzinapaSomosTodos e #CompartimosElDolor, condividiamo il dolore.

Ayotzinapa resiste cartelloNel Messico della narcoguerra le mattanze si ripetono ogni settimana, da anni, e così pure si riproducono le dinamiche criminali che distruggono il tessuto sociale e la convivenza civile. Solo che ultimamente non se ne parla quasi più. I mass media internazionali e buona parte di quelli messicani hanno semplicemente smesso d’interessarsi della questione, seguendo le indicazioni dell’Esecutivo.

La strage di Iguala e il caso Ayotzinapa stanno facendo breccia nella cortina di fumo e silenzio alzata dal nuovo governo e dai mezzi di comunicazione perché mostrano in modo contundente, crudele e diretto la collusione della polizia, dei militari e delle autorità politiche a tutti i livelli con la delinquenza organizzata. Sono i sintomi della graduale metamorfosi dello stato in “stato fallito” e “narco-stato”. Disseppelliscono il marciume nascosto nella terra, nelle sue fosse e nelle coscienze, nei palazzi e nelle procure. Smascherano la violenza istituzionale contro il dissenso politico e sociale, aprono le vene della narco-politica ed evidenziano omertà e complicità del potere locale, regionale e nazionale. Per questo Iguala e le sue vittime fanno ancora più male.

[Questo testo fa parte del progetto NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga]

P.S. Mentre stavo per pubblicare quest’articolo, il governo messicano, attaccato da tutti fronti per la strage di Iguala e i desaparecidos di Ayotzinapa, ha annunciato la cattura di Vicente Carrillo, capo del cartello di Juárez. Un altro colpo a effetto al momento giusto per distrarre l’opinione pubblica, ricevere i complimenti della DEA (Drug Enforcement Administration) e provare a smorzare gli effetti dell’indignazione mondiale. A che serve catturare un boss importante se continuano comunque le mattanze come a Iguala e tutto resta come prima?

Galleria fotografica della manifestazione a Città del Messico: LINK

Video Cori e Sequenze del Corteo: LINK

Riassunto Fatti di Iguala – Andrea Spotti/Radio Onda D’urto: LINK

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Gli USA, il Messico e la cattura del Chapo Guzmán https://www.carmillaonline.com/2014/02/27/gli-usa-il-messico-e-la-cattura-del-chapo-guzman/ Wed, 26 Feb 2014 23:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13151 di Fabrizio Lorusso

chapo vote forIl capo dei capi dei narcos messicani, Joaquín Guzmán Loera, alias El Chapo, è stato arrestato da un gruppo scelto di militari della marina all’alba di sabato 22 febbraio mentre dormiva in un hotel di Mazatlán, località marittima della costa pacifica. L’operazione, realizzata in collaborazione con l’agenzia americana DEA (Drug  Enforcement Administration), è stata pulita, nessun colpo è stato sparato per catturare il re della droga messicano che è a capo dell’organizzazione più potente delle Americhe e probabilmente del [...]]]> di Fabrizio Lorusso

chapo vote forIl capo dei capi dei narcos messicani, Joaquín Guzmán Loera, alias El Chapo, è stato arrestato da un gruppo scelto di militari della marina all’alba di sabato 22 febbraio mentre dormiva in un hotel di Mazatlán, località marittima della costa pacifica. L’operazione, realizzata in collaborazione con l’agenzia americana DEA (Drug  Enforcement Administration), è stata pulita, nessun colpo è stato sparato per catturare il re della droga messicano che è a capo dell’organizzazione più potente delle Americhe e probabilmente del mondo, il cartello di Sinaloa o del Pacifico. Ora il boss è rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Almoloya de Juárez, a un’ottantina di chilometri da Mexico City. Il potere e la fama del Chapo hanno superato persino quelle del mitico capo colombiano degli anni ottanta, Pablo Escobar, capo del cartello di Medellin ucciso nel 1993, per cui senza dubbio la sua cattura rappresenta un grosso colpo mediatico dall’alto valore simbolico. Ma le questioni aperte sono tante.

Il lavoro d’intelligence per scovare il boss, ricercato numero uno della DEA, è cominciato nell’ottobre 2013, quando le autorità americane e la marina messicana sono venute a sapere che il Chapo s’era stabilito a Culiacán, capitale dello stato nordoccidentale del Sinaloa, ma solo nel febbraio 2014 i rastrellamenti, i sorvolamenti e i controlli si sono intensificati in diverse zone dello stato. Di fatto la stampa speculava sulla possibilità che venisse preso il numero due dell’organizzazione, “El Mayo” Zambada, e non Guzmán. I capi d’accusa contro di lui sono vari: delitti contro la salute e narcotraffico, delinquenza organizzata, evasione (di prigione).

El Chapo era latitante dal 2001, quando scappò, o meglio fu lasciato uscire impunemente, dal penitenziario di massima sicurezza di Puente Grande, nello stato del Jalisco, in cui faceva la bella vita e controllava tutto e tutti con laute mazzette in dollari americani. Classe 1957 (ma alcune fonti indicano il 1954 come anno di nascita) e originario di Badiraguato, la “Corleone messicana” dello stato di Sinaloa, Joaquín Guzmán comincia a coltivare e trafficare marijuana sin da giovane, quindi negli anni settanta e ottanta si unisce al gruppo fondato dai boss Ernesto Fonseca Carillo “don Neto”, Rafael Caro Quintero e Miguel Ángel Félix Gallardo, el jefe de jefes, cioè il capo del cartello di Guadalajara o Federación. Nel 1989 Gallardo viene arrestato e il suo impero spartito tra alcuni fedelissimi come i fratelli Arellano Félix, che prendono Tijuana, il “Señor de los cielos” Amado Carrillo, che si tiene Ciudad Juárez, e il Chapo che resta nel Sinaloa.

Negli anni novanta, El Chapo sconta una condanna per l’omicidio del cardinale Juan Jesún Posadas Ocampo, commesso a Guadalajara nel 1993, ma la sua “carriera” non può finire in una cella. La versione ufficiale, secondo la quale il boss sarebbe evaso con una mossa astuta, semplicemente nascondendosi in un carrello della lavanderia e facendosi portare fuori, apparve inverosimile fin da principio, ma ebbe il merito di dare inizio alla sua leggenda. Versioni giornalistiche più attente e realiste, come quelle fornite da Anabel Hernandez, autrice de “Los señores del narco”, parlano invece di una totale connivenza delle autorità carcerarie, che erano praticamente sul libro paga di Guzmán, e di possibili implicazioni anche del governo conservatore di Vicente Fox e del suo partito, il PAN (Partido Accion Nacional).

chapo_guzman_detenidoDopo la fuga Guzmán riorganizza gli affari dell’organizzazione criminale, che negli anni settanta e ottanta era nota come La Federación o Cartello di Guadalajara, e la trasforma in una multinazionale della droga, il cartello di Sinaloa o del Pacifico. Introvabile e inarrestabile, El Chapo diventa un fantasma che controlla traffici in tutto il Messico occidentale e centrale, negli Stati Uniti e poi in Europa, grazie ai porti e agli scali sudamericani e africani. Dopo la morte di Bin Laden diventa il ricercato numero uno degli USA, ma il mito del Chapo cresce ancor più quando entra nella lista della rivista Forbes dei 500 uomini più ricchi e influenti della Terra, avendo superato un patrimonio stimato di un miliardo di dollari, condicio sine qua non per figurare nella famosa lista.

Proprio nei due sessenni in cui ha governato il PAN, con Fox e il suo successore Felipe Calderón, il cartello di Sinaloa s’è espanso e s’è stabilito come egemonico a livello nazionale, malgrado le dichiarazioni di guerra che arrivavano da Los Pinos, residenza del presidente messicano. Oggi l’organizzazione di Sinaloa è globale, presente in almeno tre continenti, e rifornisce di cocaina, marijuana e metanfetamine i mercati più grandi del mondo: gli USA e l’Europa, ma anche l’Oceania e l’America del Sud. Inoltre è presente in almeno 54 paesi con imprese legali.

Alcuni quotidiani, un po’ in tutto il mondo, hanno descritto il leader di Sinaloa come il responsabile principale della guerra al narcotraffico e degli oltre 80mila morti e 27mila desaparecidos registrati nel periodo più cruento, corrispondente alla gestione di Calderón (2006-2012). E’ un’operazione mediatica che ingigantisce la portata e le conseguenze dell’arresto e, in qualche modo, cerca di chiudere idealmente un capitolo, quella della narcoguerra, per aprirne un altro, quello dei successi dell’attuale presidente, Enrique Peña Nieto, che secondo il Time sta “salvando il Messico”.

Invece ci sono intere regioni, come Michoacán, fuori controllo e la guerra continua tuttora: i morti legati al conflitto nel 2013 sono stati stimati in circa 17mila. La violenza non può certo essere attribuita a un unico “operatore” o alla spietatezza di una banda. Esistono al contrario molteplici cause e fattori (sociali, storici, economici, politici) che la spiegano, tra i quali bisogna menzionare la strategia di lotta ai narcos adottata da Calderón, e per ora seguita da Peña Nieto, che consiste in una militarizzazione massiccia del territorio, non accompagnata da una politica adeguata contro il malessere sociale ed economico e l’assenza istituzionale che stanno alla base di una tragedia umanitaria senza precedenti nel paese.

Ma queste realtà, “indegne” di un paese “emergente” che sta ripulendo la sua immagine e si presenta come nuovo “global player”, sembrano essere sparite dai mass media, soprattutto fuori dal Messico, grazie a un’offensiva mediatica e diplomatica che vede in prima linea il governo messicano e le sue ambasciate e consolati nel mondo. Insomma non si parla più della narcoguerra, ma solo delle riforme strutturali che, secondo la narrativa ufficiale, in un anno avrebbero modernizzato il paese e attireranno investimenti e prosperità. Intanto le teste mozzate continuano a rotolare per le strade, lasciando dietro di sé strisce di sangue pulite alla meglio da un esercito di spazzini e scribacchini.

Il più grande mercato del mondo, gli Stati Uniti, spartisce 3000 km di frontiera col Messico che è un paese di transito per le droghe sintetiche, come metanfetamine e allucinogeni, e per la cocaina colombiana, peruviana e boliviana. Ma è anche un territorio di produzione di marijuana e papavero da oppio, da cui si ricavano la morfina e l’eroina. Questi “vantaggi competitivi”, la connivenza delle autorità a vari livelli e la storica debolezza istituzionale del Messico hanno da sempre costituito un terreno fertile per la proliferazione delle imprese criminali, foraggiate già negli anni trenta e quaranta del novecento dalla domanda militare statunitense e dalla relativa tolleranza sia dei governi messicani, statali-regionali e nazionali, sia degli USA, bisognosi di sostanze proibite in patria.

chapo cartel-influence-mexico

In seguito le pressioni nordamericane contro la produzione e il commercio di stupefacenti si fecero più serie e negli anni settanta e ottanta, in particolare durante le amministrazioni di Ronald “Rambo” Reagan, la “war on drugs” s’affermò come retorica e politica di stato degli Stati Uniti verso l’America Latina, Colombia e paesi andini in testa. Il Messico non era escluso dall’interessamento americano e la DEA è sempre stata presente nel paese.

E così anche la CIA che, per combattere il regime rivoluzionario dei sandinisti in Nicaragua, non esitò a stipulare accordi con Félix Gallardo e la Federación, il progenitore del cartello di Sinaloa, grazie ai quali poteva ricavare dalla vendita della cocaina e della marijuana i fondi necessari per le armi delle Contras, le bande paramilitari e antinsurrezionali che operavano contro il regime nicaraguense partendo dal territorio honduregno. Le ricerche sul coinvolgimento della CIA e della DFS messicana (Dirección Federal de Seguridad, poi trasformata in AFI, Agencia Federal de Investigaciones, e oggi in PM, Policia Ministerial) coi narcos sono state riconfermate dalle rivelazioni, riportate dalla rivista Proceso alla fine del 2013, di ex agenti della DEA che lavoravano in Messico negli anni ottanta e vengono a chiarire almeno un po’ un quadro fosco e inquietante, rappresentato perfettamente dallo scrittore Don Winslow ne “Il potere del cane”: al noto scandalo Iran-Contras si aggiunge quindi quello Narcos-Contras.

L’operazione della marina armata messicana, ma soprattutto il lavoro d’intelligence previo, che ha portato all’arresto del Chapo Guzmán non ha coinvolto integralmente la procura o altri corpi della polizia e dell’esercito per un motivo preciso: la corruzione interna a questi organi e la filtrazione costante di notizie e informazioni riservate che compromettono le investigazioni.

Infatti, aldilà dell’impatto simbolico dell’arresto che probabilmente permetterà a Peña Nieto di prolungare ancora un po’ la sua “luna di miele” con gli elettori, la giornalista Anabel Hernández ha giustamente segnalato come la lotta ai narcos non sia affatto finita e non finirà presto perché il governo non sta toccando il sistema di corruzioni e connivenze che coinvolge politici, giudici, amministratori locali, prelati, burocrati, poliziotti, militari e alte sfere del governo e che ha permesso ai cartelli messicani di diventare quello sono durante decenni.

Inoltre non vengono toccati nemmeno i patrimoni personali dei capi, in Messico e all’estero, e tantomeno le migliaia di imprese legali attribuibili ai leader dell’organizzazione in tutto il mondo. Infine la successione è pronta, come suole accadere. Il cartello era ed è già gestito, in alcune sue diramazioni o “divisioni aziendali”, da diverse figure chiave riconosciute come Ismael “El Mayo” Zambada García e José Esparragoza Moreno, alias El Azul, due membri della vecchia guardia.

L’anno scorso era stata annunciata e celebrata in pompa magna la cattura del capo degli Zetas, il cartello nazionale più importante dopo Sinaloa, ma fondamentalmente le considerazioni e le critiche al trionfalismo andavano nella stessa direzione: continua la corruzione politica, non si attacca il riciclaggio del denaro sporco, né i beni dei boss, e la successione al vertice non sempre è un problema per l’organizzazione. Nel caso degli Zetas un vero e proprio vertice nemmeno esiste, ma si tratta di cellule, reti e alleanze locali collegate tra loro.

In questo senso ignorare le cause strutturali del fenomeno è controproducente così come lo è procrastinare un serio dibattito sulla depenalizzazione e regolazione della produzione, consumo e vendita delle droghe leggere e pesanti. Con l’Uruguay e due stati degli USA, il Colorado e Washington, che hanno legalizzato l’uso ricreativo della marijuana, sarebbe il minimo. Il colpo mediatico di un arresto importante è facile, ma deve essere seguito dall’implementazione di una serie di controlli per riempire i vuoti di potere che in molti stati messicani sono la regola.

chapo-guzman-illustration-story-bodyEdgardo Buscaglia, accademico autore del saggio “Vuoti di potere in Messico”, parla di quattro tipi di controlli che mancano in Messico e senza i quali non è possibile combattere la delinquenza organizzata: giudiziari, patrimoniali, della corruzione e sociali, pensati sia a livello nazionale che internazionale. La costruzione iconica del Chapo Guzmán come “capo dei capi”, sul podio della storia criminale insieme ad Al Capone e Pablo Escobar, si chiude ora con la fine del suo regno, ma non dei suoi affari, e con la richiesta di estradizione che presto arriverà dagli USA. Ma il Messico vuole prima processare il suo capo che, secondo alcuni, potrebbe anche diventare un collaboratore di giustizia e scoperchiare il vaso di Pandora.

L’ex direttore dell’intelligence della DEA, Phil Jordan, sabato scorso sul canale latino statunitense UniVision, ha dato al mondo un assaggio del tipo di rivelazioni che probabilmente un boss mafioso del calibro del Chapo potrebbe fornire in gran quantità. Jordan s’è detto stupito dell’arresto del capo che si sarebbe “lasciato andare”, sicuro di un patto che gli garantiva protezione e che, sorprendentemente, si sarebbe rotto in questi ultimi giorni. Inoltre ha parlato di informazioni d’intelligence che confermerebbero un coinvolgimento diretto del cartello di Sinaloa in politica, di finanziamenti alla campagna elettorale del presidente Peña Nieto, insomma di un’alleanza tra parti del mondo politico messicano e i mafiosi di Sinaloa. Non è un’ipotesi nuova, ma ad ogni conferma, per ogni tassello del puzzle che si incastra, l’idea diventa sempre più realistica e credibile.

La pronta e simultanea smentita della DEA, dell’ambasciata americana e del governo messicano, attraverso il portavoce presidenziale Edoardo Sánchez, non serve a dissipare i sospetti. Evidentemente nessuno dei suddetti ha interesse a che si alzi un polverone politico-giudiziario che potrebbe rivelare al mondo trenta o quarant’anni di losche storie e “collaborazioni” da entrambi i lati della frontiera, oltreché l’ipocrisia di fondo della guerra alle droghe. I soldi in ballo sono troppi. Già ho menzionato le imprese legali, che sono migliaia, controllate dal cartello di Sinaloa in oltre 50 paesi, ma ci sono anche i capitali e gli investimenti finanziari depositati nelle banche americane.

Il 26 febbraio nel programma radio della giornalista Carmen Aristegui su MVS noticias Jordan ha rincarato la dose dicendo che “la verità a volte fa male” e che quando Caro Quintero, boss in prigione da trent’anni, è stato lasciato uscire nel 2013 in seguito all’ordine di un giudice, è sicuro che il PRI (Partido Revolucionario Institucional, al governo) lo sapeva, era ovvio. Per questo, secondo Jordan, “i cartelli hanno dato sempre del denaro ai politici per essere lasciati liberi di trafficare” e in passato il PRI “è sempre stato in buone relazioni coi trafficanti”, come confermato da documenti, testimoni e ricerche negli USA. “Il cartello di Sinaloa non è diverso da altri cartelli e ha messo soldi nella campagna del PRI, non dico direttamente a Peña Nieto”, ha dichiarato l’ex DEA che ha anche ribadito come “la corruzione c’è tanto in Messico come negli USA”.

“Spero che Peña non sia così coinvolto come i presidenti del passato, ma ciò che dico è che in passato il PRI stava nello stesso letto coi cartelli della droga”. Jordan ha fatto alcuni nomi di ex presidenti: Carlos Salinas de Gortari (1988-1994), suo fratello Raul, e Luis Echeverría (1970-1976), ma la lista potrebbe allungarsi. Lo stesso Chapo Guzmán era un sicario al soldo di Caro Quintero e degli altri capi negli anni 80. Quest’ultimo sarebbe stato rilasciato, secondo Jordan, in seguito al versamento di ingenti somme di denaro che avrebbero oliato il sistema politico e giudiziario, siglando un accordo, più o meno esplicito, con il crimine organizzato. Era impossibile, infatti, che Peña Nieto non sapesse che il boss Caro Quintero sarebbe stato rilasciato e non ha fatto nulla per impedirlo. Jordan ha lanciato l’ipotesi secondo cui se Guzmán resta in Messico, potrebbe prima o poi essere rilasciato, o lasciato fuggire, come Quintero. Il governo messicano nega categoricamente e definisce le dichiarazioni dell’americano come delle “sparate” non supportate da prove. Dunque la questione rimane aperta, irrisolta.

In un’intervista al giornalista Julio Schrerer García del 2010 il braccio destro del Chapo, “El Mayo” Zambada, aveva dichiarato: “Si me atrapan o me matan, nada cambia”, “Se mi prendono o mi ammazzano, nulla cambia”. Possiamo credergli.

]]> Diego Enrique Osorno: Z LA GUERRA DEI NARCOS https://www.carmillaonline.com/2013/11/03/diego-enrique-osorno-z-la-guerra-dei-narcos/ Sat, 02 Nov 2013 23:01:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10437 di Elena Ritondale

erdeozDiego Enrique Osorno, Z La guerra dei narcos, La Nuova Frontiera, Roma 2013, pp. 377, € 15,00

“La violenza messicana richiede un coinvolgimento personale per essere compresa”. Diego Enrique Osorno, svela il proprio coinvolgimento e suscita empatia anche nel lettore più assopito fin dalle prime pagine di Z La guerra dei narcos, uno dei momenti più avvincenti della nuova crónica messicana. Il genere, i cui albori risalgono ai diari di bordo dei primi conquistatori, ha vissuto alterni momenti di fortuna e oggi è uno dei canali privilegiati dagli scrittori messicani per raccontare l’orrore del narcotraffico e della guerra [...]]]> di Elena Ritondale

erdeozDiego Enrique Osorno, Z La guerra dei narcos, La Nuova Frontiera, Roma 2013, pp. 377, € 15,00

“La violenza messicana richiede un coinvolgimento personale per essere compresa”. Diego Enrique Osorno, svela il proprio coinvolgimento e suscita empatia anche nel lettore più assopito fin dalle prime pagine di Z La guerra dei narcos, uno dei momenti più avvincenti della nuova crónica messicana. Il genere, i cui albori risalgono ai diari di bordo dei primi conquistatori, ha vissuto alterni momenti di fortuna e oggi è uno dei canali privilegiati dagli scrittori messicani per raccontare l’orrore del narcotraffico e della guerra che lo Stato ha dichiarato alle principali organizzazioni criminali. E questo grazie alla capacità degli autori di coniugare i propositi più alti del giornalismo con l’espressività della letteratura di finzione.
Osorno, giornalista trentatreenne già vincitore del Premio Internacional de Periodismo, riesce con Z in un’impresa non facile: rovescia sul lettore nomi, date, cifre, cartine geografiche, retroscena e ipotesi, senza mai cedere alla fredda didascalia. Ingaggia una battaglia contro il silenzio, come ad esempio quello sulle fosse comuni nel deserto: molte delle persone scomparse durante le fasi più cruente del conflitto, non sono mai state dichiarate. Alcune non hanno neppure avuto diritto a un certificato di morte. L’autore sottolinea la raucedine dei mezzi di informazione di massa, quando riflette sul legame fra cronaca e memoria: “E mi chiedo, come sarà possibile tra cinquant’anni denunciare quello che sta succedendo nel Tamaulipas se già il giorno dopo non esiste nessun tipo di testimonianza degli scontri che avvengono quotidianamente? So che il silenzio che oggi regna nel Tamaulipas non è sorto dal nulla. Per funzionare il silenzio ha bisogno di uno scrupoloso apparato di repressione. Ha bisogno di fosse clandestine, di governanti illegittimi, della forza dei mitra cuernos de chivo, del degrado economico, di una polizia corrotta e di una società civile in letargo”.
Con un linguaggio semplice e diretto, di chi è cresciuto professionalmente nelle redazioni dei quotidiani, lo scrittore lamenta tuttavia l’inadeguatezza dell’informazione di massa nel contesto della guerra al narcotraffico. Le notizie sui quotidiani, brevi, sempre uguali e con formule stereotipate, non arrivano veramente a nessuno. Sono scritte sulla sabbia.
Osorno invece sceglie per il suo racconto un respiro ampio. Alle dichiarazioni lampo preferisce citazioni estese, talvolta interi brani tratti da interviste o dialoghi.
Il suo focus si stringe sulla dimensione locale quando riporta le opinioni della gente comune, i nomi delle strade in cui hanno luogo gli scontri, le storie delle vittime e dei testimoni più sconosciuti. Si allarga quando suggerisce i nessi fra l’attuale traffico di droga in Messico e il contesto caraibico, svelando ad esempio i legami fra boss messicani e cartelli colombiani. Diventa ancora più ampio quando inserisce la guerra messicana nell’ambito di un conflitto neoliberale, citando l’accordo Nafta di libero commercio fra Messico, Stati Uniti e Canada.
Ciò che stordisce, in Z La guerra dei narcos, è la molteplicità di informazioni, punti di vista, voci. Per essere sicuro di rompere definitivamente il silenzio, Osorno alterna l’ufficialità del racconto giornalistico alle voci confuse della strada, ai brani hip hop e ai corridos che esaltano le gesta di qualche capo del narco. Include l’agghiacciante comunicazione visiva dei comunicati su YouTube e le scritte dei manifesti che gli Zetas lasciano in autostrada per reclutare soldati sottopagati dell’esercito messicano, invitandoli a disertare.
Il testo di Osorno è soprattutto eterogeneo: parla la lingua di una moltitudine riflettendo sulla lingua di questa moltitudine. Così apprendiamo che un bambino messicano a cui, per prudenza, i genitori hanno vietato di pronunciare alcune parole riconducibili ai narcotrafficanti, usa “fiocco di neve” ogni volta che vuole dire qualcosa al riguardo. Veniamo a conoscenza di termini come “prelevamento”, “aquile” e di espressioni quali “quelli dell’ultima lettera”, “quelli delle molte lettere”, “quelli che non sono nessuno”. Formule che conducono a un universo saturo di terrore, costretto all’utilizzo di metafore e iperboli per descriversi.
Il racconto di questo cosmo passa sempre per l’udito e per la voce dell’autore. Fedele a una tendenza consolidata del periodismo literario, Osorno rende se stesso narratore, parte della narrazione. Non omette di contestualizzare l’informazione che fornisce. Il particolare è qui al servizio del generale. L’oggettività della narrazione si fonda sul rigore nella verifica dell’informazione, mai sull’esclusione del punto di vista soggettivo dell’autore.
Così, ad esempio, riporta anche appunti di lavoro personali e, nella seconda parte del libro, diversi capitoli tratti dal diario di un boss.
Fatto e contesto si fondono, perché il secondo è la chiave per comprendere il primo.
L’autore non fornisce risposte definitive ma è molto abile a suggerire al lettore alcune domande. Agisce così, ad esempio, quando racconta l’accanimento dei sicari contro i lavoratori della Pemex, l’industria petrolifera messicana. I morti delle fabbriche e quelli della frontiera, i migranti centroamericani uccisi dai narcotrafficanti, sembrano avere la stessa spiegazione: agli Zetas non interessa il traffico di droga ma il controllo del territorio, un territorio di passaggio ricchissimo di giacimenti minerari e pozzi di petrolio.
Quando ci troviamo di fronte a questa rivelazione, sussultiamo. Perché Osorno lo svela dopo averci tirato per le orecchie da Monterrey a Matamoros, passando per Ciudad Mier, San Fernando e decine di inferni diversi.
Talvolta si rischia di perdere il filo: l’ambizione giornalistica del racconto esauriente disorienta il lettore, spesso costretto a recuperare un nome perso chissà quante pagine e fatti prima. Si tratta di uno dei pochi limiti del testo.
Chi legge però perdona questa piccola debolezza, per due ragioni. In primo luogo perché l’empatia del lettore non è rivolta solo ai protagonisti delle storie che Osorno racconta ma in primo luogo a lui. Inoltre perché, nella mole possente di informazioni, ciascuno può individuare facilmente un filo rosso, un certo numero di fatti salienti che conducono alla tesi dell’autore: ciò che accade in Messico non può essere liquidato come “esplosione di cieca violenza”, proprio perché gli autori di quelle violenze hanno un’ottima vista e hanno individuato da tempo obiettivi e strategie.

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Badiraguato, la Corleone messicana che fa la fame https://www.carmillaonline.com/2013/08/30/badiraguato-la-corleone-messicana-che-fa-la-fame/ Fri, 30 Aug 2013 00:16:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8868 di Linaloe R. Floresbadiraguato2

Ángel Robles Bañuelos è il sindaco di Badiraguato, un comune messicano dello stato del Sinaloa, terra d’origine dei narcos più noti e ricercati. Robles, però, descrive problemi più gravi rispetto a qualunque altro conflitto legato alla sicurezza: la fame e l’oblio. In un’intervista pubblicata dal portale messicano SinEmbargo.Com.Mx rivela di conoscere bene la madre di Joaquín Guzmán Loera “El Chapo” [il narcotrafficante a capo del Cartello di Sinaloa, una delle organizzazioni criminali più importanti del mondo, n.d.t.], sostiene [...]]]> di Linaloe R. Floresbadiraguato2

Ángel Robles Bañuelos è il sindaco di Badiraguato, un comune messicano dello stato del Sinaloa, terra d’origine dei narcos più noti e ricercati. Robles, però, descrive problemi più gravi rispetto a qualunque altro conflitto legato alla sicurezza: la fame e l’oblio. In un’intervista pubblicata dal portale messicano SinEmbargo.Com.Mx rivela di conoscere bene la madre di Joaquín Guzmán Loera “El Chapo” [il narcotrafficante a capo del Cartello di Sinaloa, una delle organizzazioni criminali più importanti del mondo, n.d.t.], sostiene che il primo investimento per la costruzione della strada Badiraguato-Parral nel cosiddetto “triangolo dorato” [zona “d’oro” nel Nord-Ovest messicano che ha dato i natali ai narcos più noti dagli anni ’60 in poi, n.d.t.] è stato fatto da Rafael Caro Quintero e che nel comune che gestisce si coltiva la marijuana. Ma tutto questo non gli sembra importante. Ciò che lo fa preoccupare è l’esclusione del suo comune dal programma sociale varato dal governo di Enrique Peña Nieto, la Crociata Nazionale contro la Fame, il che significa, in fin dei conti, lasciare il territorio in mano ai narcos.

Il sindaco vuole che il presidente si faccia un giro per le montagne della regione e capisca come si vive da quelle parti. Come si può governare una comunità con una fama così nefasta? Dice il sindaco che Badiraguato, culla dei narcos più famosi del Messico o origine della violenza nazionale, sprofonda nella miseria, schiacciato dal pregiudizio dei luoghi comuni. Badiraguato è abbandonato dal governo federale.

Il 9 agosto scorso s’è saputo che Rafael Caro Quintero, nato a La Noria, una frazione di Badiraguato, era tornato libero dopo 28 anni di prigione. [Quintero era stato arrestato nel 1985 per l’omicidio dell’agente statunitense della DEA (Drug Enforcement Administration), Enrique Camarena e poi condannato a 40 anni di prigione ma, è uscito inaspettatamente l’agosto scorso per una decisione del tribunale penale dello stato del Jalisco, n.d.t.]

In quel momento si è pensato che una festa a base di alcolici e bande musicali allo stile “sinaloense” avrebbero attraversato il comune. S’è creduto che la festa si sarebbe protratta per ore e ore. Si è immaginato che questo paesino dai contorni verdeggianti, sul cucuzzolo del monte, privo di luce elettrica sul 30% del territorio, si sarebbe illuminato di colpo, solo per la magia che provocano i sapori della festa. Non è stato così.

Ed il professore pedagogo Ángel Robles Bañuelos, sindaco eletto nelle file della coalizione Para Ayudar a la Gente, formata dal PRI, Partido Revolucionario Institucional, attualmente al governo, dal Panal, Partido Nueva Alianza, e dal partito Verde Ecologista, a dicembre concluderà il suo mandato e ha dovuto rispondere di no, dato che nessuna luce v’è stata e perché l’unica cosa che è arrivata quel giorno a Badiraguato è stato un acquazzone.  

badiraguato

A trent’anni dall’ascesa di Rafael Caro Quintero, alias el Narco de narcos, quale capo assoluto delle operazioni di coltivazione e trasporto delle droghe in Messico, Badiraguato, sua terra d’origine, è arrivata alla disfatta, corrosa da due fattori: la fame e il pregiudizio. Si tratta di un territorio importante nella geografia delle coltivazioni di papavero e marijuana, ma allo stesso tempo è un’enclave tra le più marginali del paese. E’ sufficiente mettersi a studiare la biografia di qualunque narcotrafficante messicano di spicco per ritrovare il nome di Badiraguato.

Nei suoi aspri territori si ricongiungono le storie e i cognomi di uomini enigmatici e leggendari. Negli anni ’40 nacquero lì Pedro Avilés [mitico iniziatore dei traffici di droga USA-Mex negli anni ’60 e ’70, n.d.t.], Ismael “El Mayo Zambada” [boss del Cartello di Sinaloa, latitante, n.d.t.] e Juan José Esparragoza Moreno [alias El Azul, attuale boss del Cartello di Sinaloa, n.d.t.]. Dieci anni dopo la stessa terra partorì e allevò Ernesto Fonseca Carrillo, Rafael Caro Quintero e Ignacio Coronel Villarreal. In seguito anche Joaquín Guzmán Loera, “el Chapo” Guzmán [jefe máximo del Cartello di Sinaloa, n.d.t.], vide le sue prime luci e divenne adolescente in quelle montagne, quasi nello stesso periodo dei suoi cugini, i cinque fratelli Beltrán Leyva.

Dagli anni ’70 l’esercito è presente in quelle terre. Vi giunse con la Operación Cóndor che fece scendere in campo 10mila soldati. Si reputava che lì vi fosse la porta d’ingresso della regione battezzata come “triangolo dorato”, i cui vertici sono gli stati del Sinaloa, del Durango e del Chihuahua. Il tempo è passato. I soldati non se ne sono andati. E nessuno sembra abituarsi. Nel maggio 2012 una serie di conflitti a fuoco ha provocato la fuga di centinaia di famiglie e ha costretto il governatore dello stato, Malova (Mario López Valdez), a fare atto di presenza nella regione.

Perché il più antico e vivo ricordo è la povertà. La mancanza di tutto, per decenni, è stata condivisa da undici comunità sparse su questa terra secca. Ancora nell’agosto del 2013 Badiraguato è classificato tra i 200 comuni con più miseria in Messico. In altre parole, nella culla dei narcos più famosi, dov’è nata la violenza, la metà dei 30mila abitanti del comune vive in stato di crisi alimentare, in case di lamina, senza scarpe e con scarse possibilità di studiare e progredire.

“No, no, no, non è il narcotraffico il problema. Nemmeno ciò che resta dei narcos. O ciò che ne sarà. E’ la fame”. Così spiega la sua comunità Ángel Robles, che parla soffocando tra sospiri, sbotti di rabbia, preso dagli effetti che lascia la perdita della speranza. Ricomincia: “E’ la fame. E la fame non si può attaccare perché siamo soli. Ci temono per colpa di una specie di soprannome sbagliato. Per uno stigma erroneo. Lo stigma dei narcos lo stiamo pagando con la fame”. Come si amministra la cattiva fama di un paese?

“Dicono che feriscono più le parole di un pugnale. Dicono che uccidono di più gli stereotipi dei proiettili”, risponde il sindaco. Prima di occupare il posto di primo cittadino, Ángel Robles ha passato 25 anni della sua vita tra le montagne, dando lezioni in scuole senza tetto, in mezzo alla polvere, con un cavallo o un mulo quali uniche opzioni per intraprendere il viaggio di ritorno a casa.

Dalla liberazione di Rafael Caro Quintero ha parlato con reporter di vari paesi del mondo. Non gli interessa descrivere il suo territorio in modo diplomatico. Non gli importa di raccontare che conosce bene la madre di Joaquín Guzmán Loera, “El Chapo”, l’uomo con la fama d’essere “il più ricercato del mondo”, la cui leggenda ha come punto d’inizio le cime dei monti e delle colline che lui amministra.

chapo1Gli è indifferente rivelare che la madre del boss, Consuela Loera, contribuì alla costruzione di una scuola superiore a La Tuna durante il suo mandato. E racconta anche, per l’ennesima volta, che è vero che Caro Quintero ha fatto costruire la tratta Badiraguato-Parral dell’unica strada degna di questo nome nel “triangolo dorato” e che è probabile che proprio Quintero adesso sia in questa zona, com’è probabile che non ci sia. E dice anche che nel suo comune ci sono piantagioni di marijuana, ma che pure quelle coltivazioni sono state colpite dalla disgrazia.

Il sindaco nega che le risorse del programma nazionale contro la fame del governo centrale siano mai arrivate a Badiraguato. E nemmeno sono arrivati aiuti da parte del governo dello stato del Sinaloa. Stesso discorso per il sostegno di organizzazioni della società civile. Parla della solitudine in cui sprofonda come amministratore di Badiraguato, il territorio che ha messo al mondo i narcotrafficanti messicani.

“Io vado in altre zone dello stato e mi chiedono di che città sono sindaco, quando capita. Gli dico che sono sindaco di Badiraguato. E loro invocano il cielo. E io gli dico: ricordatevi che i proverbi portano con sé dei messaggi. Il Leone non è mai come lo dipingono”. E infine rivolge un invito. E’ per il presidente Enrique Peña Nieto. “Io gli faccio un invito direttamente. Rivolga lo sguardo verso di noi per osservare i piccoli comuni stigmatizzati. Segnati da qualcosa che non rappresenta più la realtà”.

Sull’utilità attuale delle piantagioni di marijuana dice che “non servono più a niente. Arrivano i militari e le distruggono. O gli elicotteri spargono pesticidi sui campi e li bruciano. Inoltre ricattano i contadini. Gli dicono che magari possono prendersi loro cura delle piante. La gente vive nella speranza. E la speranza non è più una realtà. Sono d’accordo sul fatto che bisogna combattere le coltivazioni di stupefacenti, ma il governo deve prevedere forme d’impiego lecite perché le famiglie sopravvivano. Qui non arriva nulla”.

triangulo-dorado1Infine, sul vecchio sogno dei ragazzi di Badiraguato che volevano diventare dei boss: “ormai è finita quell’epoca in cui i bambini e i giovani volevano imitare quel tipo di personaggio. Anche quello resta nel passato. Prima era molto comune che i bambini e i giovani si rifiutassero di andare a scuola semplicemente per quel motivo, perché non era la loro prospettiva. Ora gli anni non sono passati invano, vedono che è un miraggio e che chi si dedica a illeciti ha due strade davanti a sé: il cimitero o la prigione”.

Traduzione dallo spagnolo all’italiano di Fabrizio Lorusso

[Allego come nota finale una citazione tratta dall’intervista che nel 2010 il direttore del settimanale messicano Proceso, Julio Scherer, fece al boss “Mayo” Zambada in un rancho di Sinaloa. La conversazione riguardava la guerra contro i narcos intrapresa dal governo dell’allora presidente Felipe Calderón che all’inizio del 2007 militarizzò la lotta al narcotraffico. Il conflitto continua tuttora e ha provocato oltre 80mila morti e 27mila desaparecidos tra il 2007 e il 2012. Fabrizio Lorusso].

“Mettiamo che un giorno decido di consegnarmi al governo così mi ‘fucila’. Il mio caso deve essere esemplare, una dimostrazione per tutti. Mi fucilano e scoppia l’euforia. Ma dopo un po’ di giorni veniamo a sapere che non è cambiato nulla” […]

“Il problema del narcotraffico riguarda milioni. Come dominarli? Riguardo ai boss imprigionati, uccisi o estradati, già stanno lì i loro sostituti” […]

“Il narcotraffico sta nella società, radicato, come la corruzione”. 

La foto panoramica è “Badiraguato. Abandonado por el gobierno federal” di: Cuartoscuro

 

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