Michail Nikolaevič Tuchačevskij – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 02 Nov 2025 21:00:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 19: First Strike? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/il-nuovo-disordine-mondiale-19-first-strike/ Fri, 04 Nov 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74620 di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare. E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

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di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile.
La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare.
E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

Ancora una volta occorre dunque sottolineare e ricordare ciò che, da più di un decennio, l’autore va affermando in testi, articoli e interventi sulla questione della guerra: elemento ineliminabile di una società fondata sullo sfruttamento di ogni risorsa ambientale e umana, sulla concorrenza più spietata sia a livello economico che sociale e sulla spartizione imperialistica del mercato mondiale e dei territori di importanza strategica (sia dal punto di vista geopolitico che economico-estrattivistico).

Tanto da spingerlo a rovesciare, come già aveva fatto con largo anticipo Michel Foucault nel corso degli anni ’70, la celebre affermazione di Karl von Clawsevitz nel suo contrario, ovvero che sarebbe proprio la politica a costituire nient’altro che la continuazione della guerra con altri mezzi1. Con buona pace di chi ancora oggi, pur proclamandosi antagonista e antimperialista, pensa che le logiche della politica istituzionale possano (o almeno dovrebbero) sfuggire alle logiche della guerra e dei suoi sfracelli.

Certo non ha colpa chi si accorge del precipitare delle situazioni create da conflitti ritenuti locali in guerra mondiale soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali, dopo anni, se non decenni, di totale disattenzione per le logiche profonde dell’imperialismo e, forse soprattutto, per la “questione militare” e la sua “arte”, mai sottostimata invece dai teorici autentici del pensiero rivoluzionario: da Marx a Lenin, da Engels a Trotzkij fino alla Sinistra Comunista (nelle figure di Jacques Camatte e Roger Dangeville) e a Guy Debord.

Dinamiche di sottovalutazione legate sia ad una superficiale convinzione dell’avvenuto superamento delle contraddizioni interimperialistiche, scaturita sia dalle predicazioni liberal-democratiche che da un certo estremismo di maniera che ha fondato le sue valutazioni di classe sulle analisi del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) originatesi dalla riflessione di alcune formazioni armate a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Solo apparentemente confermate dai processi di globalizzazione economica degli ultimi decenni.

Ma questa disattenzione, chiamiamola così, affonda le radici anche in un rifiuto dello studio di quella che abbiamo qui chiamato “questione militare”, legato sia in un’imbelle concezione pacifista dell’antimilitarismo di stampo cattolico che a una concezione, di tale questione, iniziata con lo stalinismo che, proprio nella figura del piccolo padre di tutte le Russie, fin dallo scontro sulla campagna polacca dei primi anni ’20, si era opposto all’utilizzo degli specialisti militari sia nell’esercito rosso, fortemente voluta invece da Trotzkij per rafforzare l’armata rossa durante la guerra civile 1918-21, che nelle scuole di formazione dei quadri militari, per dare maggior spazio ai commissari “politici” e ai rappresentanti del partito2.

Cosa che, all’epoca dei grandi processi di Mosca (1936-37), costò la decapitazione dello stato maggiore sovietico, soprattutto con il processo per tradimento e l’eliminazione di Michail Nikolaevič Tuchačevskij (Smolensk, 16 febbraio 1893 – Mosca, 12 giugno 1937) autentico innovatore del pensiero militare della guerra di movimento moderna, supportata da truppe corazzate, aviotrasportate e meccanizzate3, con i conseguenti disastri militari subiti dall’Armata rossa nel corso della fase iniziale dell’Operazione Barbarossa ovvero dell’invasione nazista del territorio russo.

Questi due fattori, riassunti qui fin troppo sinteticamente, hanno quindi grandemente contribuito allo sviluppo di una tradizione politica che ha per troppo tempo eluso il problema della “centralità della guerra” nel sistema di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali. Un’analisi che troppo frequentemente ha scambiato la dominazione di stampo coloniale e neo-coloniale esterna come l’unico settore in cui l’Occidente avrebbe dovuto e potuto ancora dispiegare la sua potenza militare. Condividendo perciò, anche se indirettamente, la stessa concezione degli apparati militari ad effettivi “ridotti ma professionalizzati”, messa in pratica da gran parte degli eserciti dei paesi più avanzati.

Ancora una volta con il plauso del ‘pacifismo’ che vedeva nell’abolizione degli eserciti di leva un passo avanti verso un mondo privo di guerre o, almeno, lontano da quelle di portata planetaria. Cadendo così in una duplice ed egoistica contraddizione che mentre da un lato si rassegnava ad una sorta di guerra in permanenza fuori dai territori delle metropoli imperialiste per mantenere i privilegi economici di queste ultime, dall’altro vedeva nell’abolizione della leva una riduzione del militarismo all’interno delle società in cui questa fosse stata abbandonata.

L’anticolonialismo perdeva così la concezione internazionalista per rifugiarsi tra le sottane del pietismo solidale, mentre la storica questione dell’armamento delle masse sfruttate attraverso la formazione militare universale (o almeno maschile), difesa dal socialismo radicale fin dai tempi di Friedrich Engels, veniva accantonata a favore di eserciti professionali di stampo pretoriano, in cambio dei sempre corruttibili “diritti individuali”. Che, oltretutto, non ledevano affatto i diritti degli Stati di contribuire allo sviluppo e all’ampliamento del settore militare dell’economia industriale. Settore in cui, a differenza di tanti altri, l’Italia è sempre stata ai primi posti a livello mondiale.

Oggi, tra guerra in Ucraina e dichiarazioni del neo-ministro della difesa Guido Crosetto sulla necessità di provvedere ad un aumento del numero di soldati a disposizione della ‘nazione’, il risveglio è stato piuttosto brusco, seppur ancora confuso. Oltre a tutto ciò, la notizia della dottrina del diritto al First Strike dichiarata apertamente dal presidente americano ha certamente contribuito a seminare ulteriormente la paura di una guerra aperta, diffusa e devastante tra i grandi schieramenti militari e le grandi potenze economiche, fino ad ora, per alcuni, inconcepibile. Eppure, eppure…

Non è certo il quadrante centro-europeo a far dichiarare, per ora, agli Stati Uniti la necessità dell’uso per primi dell’arma nucleare. Sul fronte ucraino le forze della Nato, seppur con vaste contraddizioni al proprio interno, hanno trovato il modo di far combattere e soffrire, in nome dei propri interessi strategici, prima di tutto i militari e i civili ucraini. Mentre tutto intorno all’area interessata direttamente dal conflitto, per vecchi e mai sopiti odi e interessi nazionalistici, altri stati, come la Polonia e gli stati baltici, potrebbero contribuire con il sangue dei propri soldati e la parziale devastazione dei propri territori a mantenere a lungo il conflitto in una dimensione di dissanguamento progressivo dell’esercito russo.

E’ possibile fare questa affermazione poiché ciò che l’attuale conflitto ha rivelato fin dai primi giorni è di aver dato inizio ad una nuova guerra di grandi eserciti, in cui i corpi specializzati (mercenari occidentali, della Wagner o corpi speciali britannici [qui]) possono svolger un ruolo soltanto se attorno ad essi esiste una fitta e ampia rete logistica di supporto, oltre che il paravento di un gran numero di corpi di soldati e di civili sacrificabili. Su entrambi i fronti del conflitto.

Il sogno di una guerra lampo oppure “altamente tecnologica”, con risparmio di vite e militari impegnati nei combattimenti è andato via via dissipandosi, lasciando al suo posto le immagini e lo svolgimento di una guerra convenzionale fatta di artiglieria, fanteria, truppe corazzate, avanzamenti e ripiegamenti che richiedono un gran numero di soldati impegnati e tempi estremamente lunghi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Qualunque essi siano e da qualsiasi parte in conflitto siano essi stati, o meno, dichiarati.

La propagande deve fare i conti con le necessità di una guerra il cui compito non è soltanto quello del search and destroy cui, da diversi decenni, si erano abituati i commentatori e gli spettatori, interessati o meno, come nel caso di tanti, e comunque fallimentari, interventi della Nato o degli USA e delle forze armate occidentali, in aree del mondo esterne al cuore dell’Europa o delle metropoli imperialistiche, ma anche, e soprattutto, quello di conquistare, mantenere e occupare vaste porzioni di territorio, urbano o meno, compreso all’interno di aree densamente popolate, industrializzate e ricche di impianti e investimenti agricoli, industriali, minerari e quant’altro.

Uno scenario che non si vedeva dalla fine del secondo conflitto mondiale e che per forza di cose, nonostante le promesse e le illusioni sul superamento delle modalità di quello e delle contraddizioni che lo avevano causato, rinvia a quello nelle modalità, terribili e distruttive, di svolgimento.
Per anni infatti ci si è interrogati, a livello militare e politico, tattico e strategico, sulla possibilità di lasciar definitivamente da parte i grandi apparati bellico-militari che avevano rappresentato la più tipica caratteristica delle forze armate nazionali degli Stati moderni.

Per anni le scrivanie dello studio ovale o degli altri centri di potere occidentali sono state inondate di proposte di apparati difensivi, e quindi immancabilmente offensivi alla faccia di tutte le anime belle che pensano di poter separare la difesa dall’offesa o viceversa, miranti a diminuire il numero dei militari impiegati in servizio attivo, attraverso la formazione di corpi d’élite o unità destinate alle operazioni speciali, altamente addestrate e appoggiate da tecnologie particolarmente avanzate sul piano della sorveglianza elettronica dei territori e delle forze nemiche oppure destinate a colpire con estrema precisione gli obiettivi nemici (singoli individui, unità o basi militari che siano).

La guerra intelligente, che tale non è mai stata come hanno dimostrato le stragi di civili in Palestina, Libano, Siria, Iraq e Afghanistan, senza dimenticare le guerre balcaniche successive alla riunificazione tedesca, si è però rivelata utile ed efficace, se non si contano le vittime reali e i danni collaterali in cui rientrano solitamente, nei confronti di paesi che non potevano porsi sullo stesso piano militare e tecnologico di Stati Uniti, Israele, Europa Occidentale, ma che, allo stesso tempo, potevano riuscire a mettere in difficoltà i più forti aggressori attraverso tattiche e tecniche di guerriglia che hanno fatto sempre più propendere anche le forze armate più importanti verso forme di guerra asimmetriche e non convenzionali.

Ma sulla distruttività della guerra moderna, fin dagli albori del XX secolo, in ambito civile si è già parlato diffusamente negli articoli precedenti di questa serie per rispondere all’idiozia formale dei “crimini di guerra” (come se già questa non costituisse di per sé stessa un crimine); mentre è sul gran numero di soldati necessari per condurla, quando si tratti di confronti militari tra potenze di “pari grado”, che è necessario soffermarsi per comprendere dove sta il rischio reale dell’utilizzo dell’arma nucleare.

Truppe relativamente poco numerose, con grande uso di tecnologie sofisticate e dell’arma aerea, in mancanza di necessità o possibilità di mettere gli stivali per terra (boots on the ground), hanno relativamente funzionato nella “guerra al terrore”, senza però mai ottenere risultati decisivi, come il ritiro dall’Afganistan ha in seguito dimostrato. Un modello di guerra “coloniale tecnologicamente avanzata” che il conflitto in Ucraina sta testando in profondità.

Se c’è un elemento evidente del conflitto attualmente in corso è infatti quello dell’uso di tecnologie avanzate a fianco delle tattiche militari classiche derivate ancora dal secondo conflitto mondiale: largo impiego di artiglieria, fanteria (meccanizzata e non), truppe corazzate, lanciarazzi/missili multipli, sommergibili, aviazione e…droni. Soprattutto questi ultimi costituiscono la novità più rilevante, quella che, sia a livello di rilevamento della posizione degli avversari che della distruzione localizzata e precisa degli obiettivi, ha messo maggiormente in difficoltà le forze armate di Putin fino ad ora.

Ma che ha anche rivelato, almeno nell’ultimo periodo, come, pur costituendo una tecnologia innovativa e perniciosamente precisa, anche un paese non propriamente all’avanguardia come l’Iran può produrre su vasta scala e con risultati di poco inferiori a quelli ottenuti con quelli prodotti dalla Turchia o in area occidentale. Un gap tecnologico facilmente aggirabile e capace di rivoltarsi nel suo contrario. Ovvero una tecnologia dal costo non elevatissimo che anche chi non appartiene ai settori della difesa della Nato e dei suoi satelliti può facilmente procurarsi (ed utilizzare pericolosamente).

Ora diventa evidente, e chi scrive l’ha affermato fin dai primi giorni del conflitto, che le armi nucleari accumulate per decenni negli arsenali dell’Est e dell’Ovest, oltre che in quelli di svariati altri stati (allineati e non), non sono affatto armi giocattolo o spaventapasseri con cui minacciare gli avversari senza però aver la reale intenzione di utilizzarle. Tutto sommato nemmeno durante la Guerra Fredda fu del tutto così, anche se allora i margini per una trattativa erano molto più ampi di quelli odierni. Inoltre Nagasaki e Hiroshima stanno lì, ancora adesso, a dimostrare che l’impero americano non è disposto a fermarsi, se lo ritiene necessario, davanti a nulla. Cosa cui, con evidente facilità, si sono adeguati anche i suoi principali ed ‘imperialistici’ avversari: Russia e Cina. Come ha affermato Cechov nei suoi scritti sul teatro: “se un’arma da fuoco compare in scena nel primo atto di un’opera, sicuramente avrà sparato prima dell’ultimo”.

Ora siamo vicini se non all’ultimo, almeno al penultimo atto del decorso storico dell’imperialismo occidentale e, soprattutto, americano. Sicuramente non è tanto la Russia di Putin a rappresentare la prima minaccia economica e militare per gli Stati Uniti, ma lo sono sicuramente la Cina e la situazione di rifiuto del comando statunitense (e della sua moneta) sviluppatasi non soltanto nell’ambito dei BRICS, ma in ogni continente esterno alla porzione occidentale del mondo.

Scontro, ipotizzabile su scala mondiale e dalle alleanze contraddittorie e non ancora del tutto date, che oltre a costituire il vero epicentro del terremoto economico e militare attuale, di cui la campagna ucraina di Putin potrebbe rivelarsi soltanto come un modo (parzialmente fallimentare) di saggiare il terreno avversario dopo il disastro afgano (qui e qui), sta alla base dell’inevitabile terzo o quarto conflitto mondiale (dipende soltanto dai punti di vista)4 ormai prossimo (almeno sulla scala del tmpo storico), se non già in atto.

Conflitto in cui il numero di soldati necessari potrebbe ampiamente sopravanzare le disponibilità di arruolamento statunitensi ed europee e, soprattutto, la disponibilità al sacrificio e alla sofferenza delle popolazioni occidentali e del loro dispendioso stile di vita e che richiederebbe sicuramente la necessità di anticipare le mosse dell’avversario, si pensi alla caldissima questione di Taiwan e del controllo del Mar della Cina e del Pacifico Orientale, con un primo e “decisivo”(?) lancio di testate o bombe nucleari.

Situazione drammatica, ma da tempo ampiamente prevedibile anche senza il recente annuncio del presidente dormiente.

(19 – continua)


  1. Si veda: Sandro Moiso, Warzone ovvero da Flint a Flint: la guerra come condizione di esistenza, introduzione a S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismo, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 11-15  

  2. Spesso inseriti con il compito di controllare e indirizzare tutte le scelte militari sulla base delle tattiche e alleanze elaborate o concordate con altre forze dalla direzione del Partito, anche nell’ambito della guerra partigiana come avvenne durante la Resistenza, più che di fornire un’effettiva ed adeguata formazione politica ai militari e ai combattenti.  

  3. Cui la strategia della “guerra lampo” di Erwin Rommel, e degli altri generali della Wermacht nel corso della prima parte del secondo conflitto mondiale, si ispirò invece totalmente.  

  4. Si veda ancora in proposito: S. Moiso, War! e Yankee Doodle Goes to War in S. Moiso, La guerra che viene, op. cit., pp. 28-39  

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Rivoluzione e disillusione https://www.carmillaonline.com/2017/11/15/rivoluzione-e-disillusione/ Wed, 15 Nov 2017 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41462 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900. Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900.
Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero trasformato definitivamente le concezioni ottocentesche del socialismo e, allo stesso tempo, la concezione borghese della funzione dei partiti.

Franco Bertolucci, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, storico militante e ricercatore attento a tutte le manifestazioni del pensiero espresso tra Otto e Novecento dal movimento operaio e anarchico italiano ed internazionale, ha condensato in un agile e documentato volumetto, edito dalle edizioni BFS, le contraddittorie posizioni manifestate dal movimento anarchico italiano nei confronti di quella rivoluzione.

Posizioni la cui contraddittorietà non derivava dalla più generale concezione anarchica della trasformazione sociale, quanto piuttosto da quella che fondava la rivoluzione stessa.
Un moto enorme di soldati, operai, donne e contadini che nel giro di pochi giorni, nel febbraio del 1917, aveva di fatto cancellato dalla Storia un’autocrazia che da cinque secoli governava il territorio più grande al mondo: quei 24 milioni di km quadrati che costituivano l’impero zarista.

Un moto rivoluzionario, che avrebbe costituito, ad un primo giudizio storico e politico, l’evento più importante della guerra (la prima mondiale) come ebbe a dire Rosa Luxemburg nel suo scritto dedicato all’evento e scritto a caldo nel 1918 mentre si trovava in carcere.1
Il fatto più importante di un evento che a sua volta avrebbe contribuito in maniera decisiva a fondare le premesse e i percorsi politici e sociali del XX secolo.

Un moto che sembrava smentire le concezioni gradualistiche della socialdemocrazia, sia europea che russa, che fondava le proprie idee di trasformazione sociale su una concezione distorta del pensiero di Marx.2 Un processo rivoluzionario che partiva dalle masse esaurite da anni di guerra, morte, fame e miseria, in un contesto socio-economico e politico che poteva ben considerarsi come il più arretrato d’Europa, ma che si esprimeva in un contesto rappresentativo, i soviet, in cui era ancora forte la funzione dei partiti. Non sempre all’altezza del compito e non sempre, anzi quasi mai, in sintonia con le richieste provenienti dal basso.

Basti qui citare un estratto da una lettera al soviet di Pietrogrado proveniente da un gruppo di soldati al fronte alla fine di luglio del 1917 (quando il governo provvisorio era in carica già da cinque mesi):

Al congresso3
E’ l’ultima volta che vi chiamiamo compagni.
Noi credevamo che il congresso avrebbe portato, o se non altro avvicinato la pace, invece i discorsi vertono su tutt’altro: sugli arresti degli anarchici, sulla disputa con i bolscevichi a proposito dell’allontanamento degli anarchici dalla dacia di Durnovo, sull’esistenza della Duma di Stato, sugli ossequi a Rodzjanko e così via. Ricordate signori ministri e principali dirigenti: noi i partiti li capiamo poco, sappiamo solo che non è lontano nè il futuro nè il passato, lo zar vi ha confinati in Siberia e imprigionati, ma noi vi trafiggeremo con le baionette.
Perché voi menate la lingua come le vacche menano la coda.
A noi non servono le belle parole, a noi serve la pace.4

Testimonianza esplicita di una rivendicazione all’azione diretta ed efficace contro la guerra e le inutili cianfrusaglie ideologiche ed opportunistiche espresse dall’assemblea che avrebbe dovuto innanzitutto dare voce e corpo alle istanze di chi le aveva permesso di esistere e sopravvivere.
Voci e moti che fin da febbraio avevano costituito per il movimento anarchico, italiano e internazionale, un più che valido motivo di speranza nell’avvicinarsi di un più vasto sommovimento di classe internazionale.

Voci e moti che trovavano corrispondenza anche in Italia e sul fronte italiano. Bertolucci non dimentica infatti di ricordare che le speranze degli anarchici italiani si fondavano non soltanto sulla resistenza alla guerra manifestatasi nelle campagne e città italiane già nel 1914, ma anche nei moti insurrezionali di Torino nel corso del mese di agosto del 1917 e, soprattutto, nell’elevato numero di diserzioni e procedimenti contro i renitenti alla leva (circa 470.000). In una situazione in cui in una regione come la Sicilia il numero dei renitenti corrispose al 50% dei chiamati o richiamati al fronte.

«Fare come in Russia» diventa in breve il leitmotiv dei giornali sovversivi e libertari. Gli anarchici e i propri organi tra i quali «L’Avvenire anarchico» e «Guerra di classe», periodico dell’Unione Sindacale Italiana, seguono con trepidazione e crescente simpatia l’evolversi della situazione.
Ragioni politiche e storiche – considerando l’influenza esercitata dal movimento rivoluzionario russo in Italia – determinano questa spontanea ed entusiasta attenzione verso la Rivoluzione russa da parte degli anarchici italiani, che con una visione messianica attendono la rivoluzione sociale come risposta alla guerra imperialista. Le prime notizie dalla Russia confermano le loro attese e le loro previsioni. Gli anarchici, nel marzo-aprile 1917, sperano che l’affermazione di quella rivoluzione sia il prodromo dell’espandersi del moto agli altri paesi coinvolti nel conflitto mondiale.5

Tali speranze e previsioni erano poi ulteriormente alimentate dalla stampa borghese che, come nel caso del quotidiano «La Stampa» di Torino in un articolo del 21 aprile di quello stesso anno, definiva Lenin come un «anarchico russo». Ignorando completamente le differenze che correvano tra le concezioni politiche del leader bolscevico e quelle libertarie. E che di lì a poco si sarebbero pesantemente manifestate in entrambe le direzioni di marcia.

Paradossalmente l’ultima manifestazione pubblica degli anarchici in Russia corrispose ai funerali, nei primi giorni di febbraio del 1921, del vecchio nobile e anarchico Kropotkin che, sebbene criticato dal movimento libertario, sia in Russia che in Italia, per aver scritto e firmato, il 21 febbraio 1916 ma pubblicato sul quotidiano «La Bataille» soltanto il 14 aprile di quello stesso anno, il Manifesto dei sedici in cui si inneggiava alla guerra a fianco dell’Intesa contro l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui centinaia di migliaia di soldati russi avevano cominciato a disertare,6 costituiva pur sempre un simbolo di continuità tra le vecchie e nuove generazioni del movimento libertario.

Di lì a poco, nel marzo del 1921, la distruzione e la dispersione, ad opera dell’Armata rossa diretta da Trockij e dal generale Michail Nikolaevič Tuchačevskij, della comune dei marinai, dei soldati e degli operai di Kronštadt, che aveva costituito una delle anime più generose e determinate della rivoluzione del ’17, avrebbe determinato la definitiva cesura tra movimento libertario e bolscevismo. Come ebbe ad osservare l’anarchica americana Emma Goldman all’epoca ancora presente sul territorio russo.

Cesura, tra movimento rivoluzionario autentico e politiche bolsceviche, che gli anarchici avevano già iniziato a denunciare precedentemente e che la convocazione del I Congresso della Terza Internazionale nel marzo del 1919, dopo un primo momento di partecipazione ideale e di positivo accoglimento dell’iniziativa, aveva portato, per esempio, ad affermare sulle pagine del giornale «Il Risveglio» di Ginevra:

Lenin ci ha fatto intendere chiaramente che non vuole di noi nella Terza Internazionale, a meno che fossimo disposti ad ammettere la conquista dei poteri pubblici e la dittatura cosiddetta del proletariato, ossia cessare d’essere anarchici.7

Dittatura del proletariato in cui gli anarchici non intravedevano altro che una sorta di dittatura di una minoranza di operai specializzati dell’industria, insieme agli intellettuali rivoluzionari e socialisti e ai nuovi proprietari terrieri, come scrivevano sulle pagine di «Umanità nova» nel novembre del 1920.

Delle tragiche conseguenze di quella rottura legata alla progressiva presa del potere da parte del partito bolscevico scrive ancora Bertolucci nel suo testo, così come altri hanno già fatto.
Ciò che occorre, però, qui individuare non sono soltanto le illusioni e le disillusioni che accompagnarono i movimenti reali e quelli sovversivi di quegli anni, ma anche il fatto che le difficili informazioni provenienti dalla Russia e le distorte interpretazioni ideologiche di quegli avvenimenti nascosero, allora come troppo spesso ancora oggi, il fatto che nel 1917 giunsero ad un fatale incrocio quattro treni lanciati in corsa: 1) quello del movimento reale dei soldati, degli operai, delle donne e dei contadini; 2) quello delle aspirazioni anarchiche e populiste attive in Russia fin dalla seconda metà dell’Ottocento; 3) quello dei partiti socialdemocratici, liberali e borghesi che intendevano approfittare di un rinnovamento in chiave capitalistica dell’assetto economico e sociale della Russia zarista e 4) quello della minoranza socialista bolscevica, sospesa tra marxismo ortodosso e rivoluzione. Il tutto in un contesto in cui l’imperialismo internazionale da subito fece di tutto per impedire e distruggere l’esperimento «sovietico» fin dai suoi primi e incerti passi.

Da quel cozzo di forze gigantesche emersero vincitori, ma soltanto per un breve periodo, i bolscevichi. Illusi essi stessi di poter guidare quel magma dopo averlo correttamente interpretato nei giorni di Ottobre. Illusi di essere in grado di rappresentare sempre e comunque le reali esigenze del proletariato, fino ad arrivare a distruggerne le avanguardie insieme agli avversari politici, anarchici e socialisti rivoluzionari. Prima di essere essi stessi divorati dallo stesso infernale e cieco meccanismo partitico e dittatoriale. Come dalle belle e pacate pagine scritte da Bertolucci è possibile correttamente intravedere.


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), BFS Edizioni 2017  

  2. Si confrontino Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e la sua recensione su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

  3. dei Soviet  

  4. cit. in Alessandra Santin, Lettere di soldati russi al Soviet di Pietrogrado (marzo-novembre 1917) raccolte in Paolo Giovannini (a cura di ), Di fronte alla grande guerra. Militari e civili tra coercizione e rivolta, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997, pp.168-169  

  5. Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE, pag. 38  

  6. Si calcola che nel solo 1916 siano state un milione e mezzo le diserzioni nell’esercito zarista  

  7. Bertolucci, pag. 77  

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