malattia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 28 Oct 2025 21:29:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Processi di ibridazione. L’orrore (è) nella carne https://www.carmillaonline.com/2022/05/17/processi-di-ibridazione-lorrore-e-nella-carne/ Tue, 17 May 2022 20:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71920 di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. Anche nella realtà che si è. Perché il vero orrore è sempre la realtà. Soprattutto la realtà che si è e che, non diversamente dal contesto reale che ci circonda, sfugge alla nostra comprensione, al nostro controllo, alla nostra direzione, imponendosi dispoticamente, violentemente, atrocemente».

Così scrivono Selena Pastorino e Davide Navarria, Il male quotidiano. Considerazioni filosofiche sull’horror (Rogas 2022), introducendo il volume in cui, attraverso «incursioni sull’horror, nelle sue molteplici forme, a partire da un reale che gli è affine in un modo che è la stessa narrazione orrorifica a palesare» (p. 18), intendono evidenziare la capacità del genere «di istituire un legame esperienziale con lo spettatore partecipante, traendolo nella notte che già da sempre lo abita» (p. 19).

Il provare orrore ha a che fare non tanto con l’essere spaventati di fronte a una minaccia incombente, quanto piuttosto, sostengono gli autori, soprattutto con l’essere disgustati, nauseati e raccapricciati al manifestarsi del corporeo, non necessariamente umano, di qualcosa che rimandi alla

concretezza materiale di un che di vivente, pulsante, carnale. […] È la comparsa della corporeità nella sua visceralità organica, nella sua tridimensionalità carnale, a fare orrore, come il ritorno di un rimosso. Perché, anche qualora si sia potuto accettare di avere un’esistenza materiale, si tende comunque a ridurre la corporeità a una mera superficie: ciò che fa il nostro corpo è il suo aspetto esteriore, la pelle che lo confina, i tratti che ci identificano. Oltrepassare questo confine per comprendere qualcosa della nostra realtà è un gesto autorizzato in un’unica direzione, quella che pone una frattura tra la fisicità che siamo e ciò che davvero siamo: che la si chiami mente, anima, pensiero, spirito, quella componente meta-fisica della nostra identità è l’unica parte di noi che ci sentiamo legittimati a definire come nostra interiorità. Ci è invece precluso quel movimento che, nell’oltrepassare la pelle che ci contiene, vi apra una breccia, svelando come al nostro interno non si trovi una specie di spirito impalpabile a capo di un automa inorganico, bensì carne sanguinolenta, vasi, nervi, legamenti, tendini, organi, scarti, solo in ultimo ossa, altrettanto vive che tutto il resto. Un resto che trattiamo sempre come tale e che pure ci costituisce al punto da essere l’unico punto in cui siamo, in cui non possiamo fare a meno di essere (pp. 166-167).

“Entrare” in contatto con la cruda realtà del corpo provoca disgusto; “scoprirsi” organici significa in qualche modo fare i conti con la mortalità. L’epidermide si propone come limite inviolabile, come confine che, se oltrepassato, conduce alla perdita dell’integrità palesando la vulnerabilità e la caducità: l’essere mortali.

Da tempo e da più prospettive si riflette sul perché produca attrazione un genere come l’horror incentrato su quanto solitamente si è portati a rimuovere, ci si interroga sul da e verso cosa muova il desiderio che spinge a sottoporsi all’orrore, a un’esperienza emotiva e fisica insieme.

Del ruolo simbolico ed antropologico della pelle si è occupato Francesco Paolo Campione, Discorsi sulla superficie. Estetica, arte, linguaggio della pelle (Mucchi, 2015) [su Il Pickwick] e lo ha fatto passando in rassegna una serie di narrazioni che vanno dal mito di Marsia, al martirio di San Bartolomeo sino alla pratica del tatuaggio. In Marsia scuoiato è possibile vedere tanto un essere anatomico privo di vita e identità quanto una pelle viva che viene ad assumere un carattere perturbante, segno di un’identità mantenuta oltre l’annientamento del corpo. E se Marsia muore per aver sfidato un dio vendicativo, per certi versi, suggerisce Campione, rinasce sotto la pelle del San Bartolomeo cristiano. Resto mortale e firma figurata al contempo, il San Bartolomeo/Michelangelo ripropone il Socrate/Marsia del Simposio; la bellezza risiede entro il deforme dell’epidermide attraverso un gesto di apertura al contempo artistico e di fede.

Artisticamente parlando, la figura di Marsia, si estende ben oltre le estetiche rinascimentali e barocche tanto da ricomparire, per certi versi, nella messa in scena davidiana dell’assassinio a tradimento di Marat intento a lenire in una vasca la malattia della pelle, opera che trasforma il rivoluzionario, oltre che in una sorta di Cristo laico, appunto in un novello Marsia, come del resto aveva già notato Baudelaire1.

Insomma, la pelle rappresenta la veste del vivente e si può dire che su di essa si è sviluppata, nel corso dei secoli, un’estetica che ha saputo dar conto di diversi aspetti relativi al presentarsi al mondo dell’essere umano. Se in numerose narrazioni la privazione dell’epidermide rappresenta la perdita dell’identità, la pelle può anche vivere un’esistenza autonoma rispetto al corpo che ricopriva o, in alcuni casi, può persino tornare a ricoprirlo conferendogli un nuovo aspetto. Spogliarsi della pelle può anche preannunciare simbolicamente una risurrezione che conduce ad una nuova vita.

Tornando al volume di Pastorino e Navarria, in particolare sulla sezione dedicata al rapporto tra orrore e corpi, in esso gli autori, riprendendo alcune riflessioni di Linda Williams2, evidenziano come l’horror abbia per certi versi in comune con il porno e il melodramma la peculiarità di agire in modo diretto sul corpo del fruitore: il melodramma deve commuove, il porno deve eccitare e l’horror deve spaventare. Se ciò non avviene allora si tratta di produzioni che non hanno mantenuto fede alle promesse dei rispettivi generi. Occorre che il fruitore senta, provi sensazioni direttamente sul suo corpo.

In Videodrome (1983) David Cronenberg, pur sperimentando diverse declinazioni dell’inorganico che si anima come carne, si concentra soprattutto sullo schermo televisivo che, più che farsi permeabile alla realtà, diviene realtà o, meglio, come suggerisce il personaggio Brian O’Blivion, qualcosa più di essa, tanto che il protagonista, Max, viene da esso sedotto al punto di indurlo a cercare una fusione con l’immagine di Nicky Brand, ossia con colei che «nella vita fuori dallo schermo lo provoca a considerare lo stretto legame tra dolore ed eccitazione, torture e sesso» (p. 169).

Il collassare della funzione schermante della televisione comporta con sé la distruzione di ogni paradigma di riferimento: la compenetrazione tra TV e corpo funziona come realizzazione di un più ampio progetto di controllo e sottomissione della mente, un vero e proprio piano di purificazione dell’umanità che si serve della fascinazione di una trasmissione snuff per intercettare gli individui da condurre all’autodistruzione. Videodrome è il nome di un disegno malato di selezione della specie, a partire dalla presunta indegnità a vivere di chi manifesta eccitazione nei confronti di ciò che devia dalla sessualità socialmente accettabile. L’implementazione di questo dominio passa per un controllo mentale che è insieme controllo carnale (pp. 169-170).

Il film mostra pertanto come anche l’inorganico tecnologico sia «animato dalle stesse forze pulsanti che ci fanno essere, anche se non lo vogliamo (sapere)» (p. 170).

In altre opere la fragile vulnerabilità carnale degli esseri umani emerge nel confronto con corpi non-umani. In Alien (1978) di Ridley Scott, così come in Aliens (1986) di James Cameron, l’alterità aliena manifesta caratteristiche carnali e viscerali capaci di prendere possesso del corpo umano devastandolo. «L’alieno di queste due pellicole è xenomorfo, come comunemente lo si chiama, solo nella misura in cui abbiamo deciso di chiudere fuori dalle mura della nostra identità civile, sociale, culturale, politica e personale ciò che ha la forma (morphé) del corpo, dichiarandolo così straniero (xéno), negandogli un diritto di cittadinanza che già da sempre ha, anzi che già da sempre ci concede» (p. 171)

In diverse opere horror la corporeità animale viene utilizzata per definire, per differenza, la corporeità umana, tanto che in molte narrazioni, per garantirsi la sopravvivenza, gli esseri umani si trovano costretti a individuare ed allontanare dalla loro comunità l’alterità non-umana.

«Nello specifico di queste narrazioni si potrebbe pensare che il rapporto tra l’umano e l’animale susciti disgusto e terrore rivelando la natura ferina, bestiale, che l’uomo avrebbe rimosso dalla propria definizione e che tuttavia lo caratterizzerebbe al punto da riemergere sempre, in maniera inesorabile» (p. 171). A suscitare orrore in tali opere non è però, secondo Pastorino e Navarria, l’emergere della bestialità umana rimossa, quanto piuttosto la

vulnerabilità intrinseca all’esser vivo dell’uomo, che l’animale, con il suo comportamento, rivela come da sempre definitoria dell’umano e come da sempre misconosciuta. […] La realtà della nostra corporeità è quella di una fragile vitalità, di una mortalità certa, di un dolore possibile e probabile. Ciò che ci tocca in modo orrendo è il timore che al nostro corpo possa accadere qualcosa di tanto disgustoso, come di essere lacerato, dilaniato, divorato, puntellato, sbrandellato. Come se più non fosse corpo umano, come se più non fosse corpo nostro. Anche perché a quel punto di noi, che ne sarebbe? Che cosa saremmo cioè noi, senza il nostro corpo? (p. 175)

Oltre che dal timore per la possibile profanazione del proprio corpo, l’orrore può derivare tal terrore per una sua trasformazione ed in entrambi i casi si può arrivare a desiderare la morte per porre fine al supplizio iniziato o imminente. Si pensi, ad esempio a quando Rick Grimes, il protagonista della serie The Walking Dead (dal 2010), trovatosi bloccato sotto a un carro armato circondato da zombi che intendono cibarsi di lui, vistosi senza scampo, per un attimo, prima di individuare una via di fuga, si punta la pistola alla tempia per suicidarsi, o, ancora, al finale del film La Mosca (The Fly, 1986) di David Cronenberg, quando lo scienziato Seth Brundle, ibridatosi con un insetto, ormai teriomorfo, in una residuale capacità di autodeterminazione, chiede alla ex compagna di porre fine alla sua esistenza.

Metamorfosi, mutazioni e modificazioni del corpo umano al centro dell’opera cronenberghiana sono elementi ricorrenti nelle narrazioni del cosiddetto body horror, sottogenere in cui la

realtà della corporeità viene così esposta, rivelata senza infingimenti, inverata in modo paradossale dal suo non essere più se stessa: non più integra, non più sana, non più vitale, in altre parole non più appropriata da quel meccanismo culturale ed esistenziale che lavora a minimizzare il corpo fino a farne un niente, un accessorio, un possesso. Disappropriata dall’individuo che crede di abitarla quando in realtà ne è parte, la carne si mostra nella sua potenza e nella sua vulnerabilità, nella sua magnificenza e nella sua repellenza, nella sua forza e nella sua disgregabilità. Proprio per aver portato la narrazione dentro il corpo, nel luogo del reale, i confini si intrecciano tra loro, scolorano, lasciandoci in balia del disorientamento che ci coglie ogni qual volta non possiamo rimandare oltre il confronto con la realtà: crollano i confini delle contrapposizioni che siamo soliti usare per muoverci nella quotidianità, ma vengono meno anche quelli delle categorie identitarie e quelli fisici che permettono un certo intuitivo livello di distinguibilità tra gli enti. Insomma, la mutevolezza è all’opera e non si può più fingere di non vederla (pp. 182-183).

D’altra parte, nonostante la tendenza a considerare il corpo come «stabile ancoraggio identitario» (p. 183), l’esistenza non può sottrarsi alla mutazione e la visione di opere orrorifiche come queste, in fin dei conti, mette di fronte alla propria vulnerabilità. Ci parlano di ciò, sostengono Pastorino e Navarria, narrazioni incentrate sulla «metamorfosi dell’umano in ciò che umano non è, soprattutto quando questo processo non è irreversibile […] ma si intervalla a momenti di recupero […] di quei lacerti residuali di ciò che si era ora che si è stati qualcosa che non si è» (p. 183). Si tratta di opere che evidenziano «quanto la dimensione identitaria sia carnale, corporea, fisica» (p. 183).

Alla luce del fatto che, come detto, la metamorfosi del corpo è un processo inevitabile, diviene difficile individuare un confine certo tra ciò che si era e ciò che non si è più, soprattutto, «se questa frontiera risulta valicabile più volte, in entrambe le direzioni» (p. 185), come nell’esempio di licantropia di Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London, 1981) di John Landis. «Perdere a tal punto il proprio controllo su di sé da essere condizionati in modo vincolante, perfino necessitante, da ciò che il proprio corpo è diventato, da ciò che noi stessi paradossalmente siamo diventati, è l’abisso del terrore da cui trae linfa questa narrazione. Da cui origina l’orrore stesso, non tanto quello delle vittime o dei superstiti, bensì quello di chi realizza di essere incarnato: fare i conti con l’incontrollabilità proteiforme e metamorfica del nostro corpo significa fare conti con la sua indisponibilità, con la sua irriducibile realtà che resiste a ogni nostro tentativo di disciplinarla, di evaporarla, di annichilirla» (p. 186)

Oltre che nelle trasformazioni fisiologiche che la vita corporea comporta, l’esperienza della «corporeità come dimensione che può determinarci senza poter essere determinata» (p. 186) può essere vissuta anche nella condizione della malattia. Secondo Pastorino e Navarria, pur mostrando esplicitamente la degenerazione carnale, l’horror

finisce col riproporre una cesura netta tra la malattia e l’esistenza fisiologica, un confine che sì può essere attraversato con lentezza estenuante e consapevolezza acuta, ma che presto o tardi conduce a luoghi da cui non si ritorna, in cui più si è umani. Se in certa misura si può comprendere come le dinamiche narrative che riguardano tutto ciò che appare come minaccioso, perturbante, disgustoso, spaventoso, funzionino anche riguardo al corpo malato, sembra qui essere in opera nella stessa messa in opera un meccanismo culturale che fonda ogni possibilità creativa e la orienta, in gran parte determinandola, vincolandola. Ecco allora che la maggior parte delle narrazioni trattano il contagio di un morbo come se producesse sempre effetti analoghi a quelli di un’invasione zombi, quando non viene direttamente ricollegato a questa. L’umanità sana rifugge, talvolta mostrando tratti di devianza psichico-morale che la delegittimano di fronte all’innocente, perché inevitabile, aggressività cannibalica degli infetti, spesso riproponendo anche in questo frangente lo schema di una lotta contro il mostro, nella forma della malattia che si è impossessata dei corpi, spossessandoli delle loro identità vitali. Della loro stessa vita. È forse in questa curvatura che il punto cieco dello sguardo horror sul morbo tange uno spazio di veridicità: la malattia per il (presunto) sano ha sempre qualcosa ha che fare con la mortalità, perché la richiama, la esibisce, e così converte la rinnegabilità in cui vogliamo relegarla, rivelandola come segreto manifesto della vita carnale stessa. Che vive perché sta morendo, che smetterà di morire solo quando smetterà di vivere (pp. 186-187).

La malattia spaventa in quanto restituisce alla carne il suo potere sull’individuo a cui non resta che che provare a fuggire il contagio nascondendo i sintomi agli altri e forse persino a se stesso, magari minimizzando o addirittura ignorando la propria corporeità per annichilirne il destino di morte.

Nelle messe in opera horror, sottolineano gli autori, per poter vantare un ruolo da protagonista nella narrazione, le malattie devono apparire «irriconoscibili rispetto alle loro forme consuete, più incontrollabili […], più devastanti, più letali. A imporre loro un controllo è la stessa trama narrativa che le relega a macroscopica trasformazione del corpo facente sì parte del regno del possibile e del verosimile, ma anche di ciò da cui si deve e dunque […] si può sfuggire» (p. 188).

Quando invece la vulnerabilità corporea viene messa in scena sotto forma di «desiderio di disporre della carne come di un regno dei balocchi da parte di qualche sadico torturatore» (p. 188), ecco che il body horror diventa «nella contemporaneità soprattutto un genere di esorcismo del corpo, che funziona con la tecnica dell’esposizione prolungata a ciò che scatena orrore, come terrore e disgusto, nel fruitore. Ma contemporaneamente lo attrae, la affascina, in modo morboso, tale che non possa distogliere lo sguardo qualunque cosa accada, e in modo perverso, tale cioè che si allontani da ciò che costituisce la norma nella sua realtà quotidiana (si spera)» (p. 188). Un esempio di ciò è ravvisabile nel torture porn in cui

ciò che conta è assistere voyeuristicamente a ciò che è a mala pena tollerabile, quando non insopportabile, sia per chi si trova sullo schermo, sia per chi prova con questo a schermarsi, difendendosi da un’immedesimazione con le vittime che fa contorcere gli arti e le budella, nel totale comfort del proprio divano o della poltrona cinematografica […] Nei torture porn lo schermo mantiene la sua funzione di separatore, quasi un buco della serratura da cui osservare qualcosa che lo spettatore sembra ricercare non per vivere un’esperienza, […] ma per osservare (e quindi in certa misura tenere le distanze da) un’esperienza altrui. È una differenza sottile ma sostanziale, che permette forse di riarticolare, almeno a partire dalla presente prospettiva di analisi, una ridefinizione del genere cui queste narrazioni appartengono, che con l’horror flirta senza riuscire a incarnarne, letteralmente, le dinamiche (pp. 189-190).


Processi di ibridazione


  1. Baudelaire, commentando tale opera, da lui definita “poema inconsueto”, nel 1846 scriveva: «Marat può ormai sfidare Apollo, la Morte lo ha ora baciato con labbra amorose, e lui riposa nella quiete della sua metamorfosi». 

  2. Cfr. Linda Williams, Film Bodies: Gender, Genre, and Excess, in “Film Quarterly”, Vol. 44, No. 4, Summer, 1991. 

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Un calendario per l’anno che verrà https://www.carmillaonline.com/2020/12/16/un-calendario-per-lanno-che-verra/ Wed, 16 Dec 2020 22:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63896 di Sandro Moiso

Mali che se ciapa. Epidemie e contagi nel Veneto moderno, Lunario veneto di Dino Coltro 2021, Redazione di Marco Girardi, Cierre edizioni, Verona, ottobre 2020, 12,00 euro.

Certo, è una cosa che non si era mai vista: Carmilla che segnala e recensisce un calendario. E poi mica uno di quelli moderni con le immagini realizzate da fotografi famosi, oggi un po’ più castigati di quelli che un tempo erano conosciuti e ricercati come ad esempio i “calendari Pirelli”, oppure di ‘movimento’. No, tutt’altro, qui si parla di un ‘lunario’. Ma quanti sono ancora coloro che si ricordano, [...]]]> di Sandro Moiso

Mali che se ciapa. Epidemie e contagi nel Veneto moderno, Lunario veneto di Dino Coltro 2021, Redazione di Marco Girardi, Cierre edizioni, Verona, ottobre 2020, 12,00 euro.

Certo, è una cosa che non si era mai vista: Carmilla che segnala e recensisce un calendario.
E poi mica uno di quelli moderni con le immagini realizzate da fotografi famosi, oggi un po’ più castigati di quelli che un tempo erano conosciuti e ricercati come ad esempio i “calendari Pirelli”, oppure di ‘movimento’. No, tutt’altro, qui si parla di un ‘lunario’. Ma quanti sono ancora coloro che si ricordano, o anche solo immaginano, che un tempo, nelle culture che oggi si ritengono superate e arcaiche, il calendario avesse una funzione educativa e ancor più pratica, soprattutto per i contadini?
Certamente pochi e già immagino i sorrisini e gli sguardi di scherno che correranno sulle labbra e i volti di molti lettori.

Evidentemente, da popolo di bevitori di birra oppure di bottiglie di vino acquistate in tutta fretta (al supermercato, nelle enoteche o nei ‘wine bar’) qual siam diventati, anche solo il fatto che la conoscenza delle fasi lunari possa essere stata (e sia ancora) di fondamentale importanza per l’imbottigliamento del vino potrebbe sembrare un residuo passatista antiquato e inutile, e forse anche un po’ conservatore. Eppure, eppure…

Il nuovo calendario/lunario per l’anno che viene, pubblicato dalle edizioni Cierre di Verona che continuano la tradizione dei lunari ispirati dalle ricerche sulla cultura popolare veneta condotte da Dino Coltro per più di trent’anni1, avrebbe potuto intitolarsi anche Mala tempora currunt visto che è totalmente ispirato dalla lunga stagione pandemica in cui siamo immersi e di cui, nonostante le miracolose e incerte promesse vaccinali, non si vede ancora con certezza una fine.

Ed è proprio questa incertezza a far sì che questo mondo, questa società e questo stile di vita che si credono e definiscono come moderni in realtà non siano poi così distanti dai timori, dalle paure e dalle pratiche sociali, compreso il distanziamento in epoca di epidemie, che caratterizzavano le culture, alte e basse, dei secoli e delle età precedenti la nostra. Timori, paure e contagi che non sono mica mai scomparsi e che hanno fortemente segnato la vita, e la morte, di milioni di persone anche in periodi non troppo distanti temporalmente da quello in cui viviamo.

Dalle diverse ondate di peste che hanno percorso l’Europa e l’Italia dal Medio Evo al XVII secolo, fino al colera e alla tisi, insieme ad uno straordinario cocktail di malattie endemiche, che costrinsero all’esodo e all’emigrazione verso altri paesi e altri continenti milioni di italiani poveri tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento2 passando poi per l’epidemia di “Spagnola” che causò poi ancora milioni di morti negli anni a cavallo della fine del primo macello imperialista, prima nelle trincee e poi tra i civili, le malattie infettive e contagiose hanno costantemente segnato il cammino delle società umane, costringendolo a brusche svolte e ancor più spesso a bruschi arresti. E di tutto ciò, soprattutto per quanto riguarda l’area veneta, il lunario per il 2021 rende conto.

Chiarendo, indirettamente, come fosse quindi inevitabile che tale tradizione epidemica lasciasse un segno profondo nelle culture e nell’immaginario delle civiltà precedenti e in particolare, almeno qui in Italia, in quella contadina.
Valga per tutte, a livello di immaginario religioso, la frequenza con cui, soprattutto nel Nord Italia, è possibile imbattersi in feste patronali oppure edicole e cappelle dedicate alla figura di san Rocco, al quale, non a caso, è dedicato il 16 agosto.

Autentico santo della peste, ispirato alla figura di un mercante di Montpellier che si distinse, narra la leggenda più che la storia, per essersi prestato alla cura dei malati di peste mentre era in pellegrinaggio verso Roma. Colpito dalla stessa malattia, sarebbe guarito miracolosamente grazie anche alle cure prestategli da un cane che aveva preso con sé durante il viaggio. Sarà poi il cattolicesimo post-tridentino a trasformare l’immagine del santo accompagnato dal cane e con la piaga pestilenziale su una gamba in quella decisamente più gore del cane che gli lecca le piaghe per guarirle. Come ben si sa, infatti, al peggio non c’è mai limite.
Ma torniamo al nostro lunario, iniziando proprio dalle immagini che lo accompagnano.

Il lunario è illustrato con immagini legate al tema delle epidemie e con alcune incisioni che Hans Holbein il giovane (1497 circa – 1543) dedicò alla danza macabra. Nei momenti di grande crisi, come durante i contagi, la morte è la rivincita sulle disuguaglianze sociali, rivela la vanità del potere e della ricchezza. In un ritmo inesorabile, Holbein raffigura scene di vita quotidiana, in cui uno scheletro accompagna i protagonisti umani, per ricordare che la morte non risparmia nessuno: grandi e piccoli, poveri e ricchi, giovani e vecchi. Di fronte alla minaccia, il vivo reagisce cercando di venire a patto con la morte, che risponde con ironia macabra: lo scheletro trascina nel girotondo il vivente; ride delle sue paure; si fa beffe dell’attaccamento umano alla vita e ai beni terreni; sfotte il tentativo maldestro di sottrarsi all’inevitabile destino3.

Molto ci sarebbe da dire e scrivere sull’incredibile florilegio di Trionfi della morte e danze macabre che costellarono l’arte occidentale a partire dal XIV secolo, donandole alcuni dei più significativi capolavori, sia come affreschi che come incisioni. Ma occorre qui fermarci un attimo sul significato di questo terribile e implacabile memento mori4, soprattutto per quanto riguarda una società e un modo di produzione che hanno fatto della loro progressiva eternizzazione la base di ogni narrazione politica, storica, scientifica e sociale.

La pandemia e le epidemie, riportano alla luce ciò che si vuole inutilmente negare e nascondere: la vita umana è a termine5 e così pure le società in cui si svolge, compresa quella attuale. Ergo se tutto muore, come affermava già Howars P. Lovecraft secondo il quale dopo lunghi e strani eoni anche la morte muore, anche il capitalismo, come tutti gli altri modi di produzione che l’hanno preceduto, è destinato a morire. Anche se sarà soltanto la Storia futura a rivelarci se di inedia o di morte violenta .

Ma se questo manifestarsi della morte e della fine dei cicli vitali e storici è accolto nelle culture tradizionali come un fatto, per quanto tragico, la società degli ultimi decenni ha fatto di tutto per nasconderlo oppure negarlo. Quasi come se la morte e la malattia invece che un fatto naturale, appartenessero al regime del non detto, di ciò di cui non si può parlare e, soprattutto, fossero diventate qualcosa di cui vergognarsi oppure qualcosa di talmente eccezionale da doverlo sottolineare con forme drammatiche spettacolari. Da lì derivano sia la spettacolarizzazione dei funerali e delle esequie (con tanto di applausi di cui non si riesce mai bene a capire il significato, considerato la distanza siderale che separa, in tali occasioni, i destinatari dell’omaggio da coloro che lo porgono), quanto la corsa verso forme di feste di morte (come quelle di cui già parlava Giovanni Boccaccio nella “cornice” del Decameron), rituali e scaramantiche, celebrate sia con la partecipazione di massa ad eventi collettivi che potrebbero rivelarsi compromettenti per la salute, sia nelle attuali risse tra gang di minorenni che, senza reali motivazioni nemmeno nel campo del controllo territoriale, si affrontano nelle piazze e nelle vie o sui ponti delle città italiane da qualche tempo a questa parte.

Fughe, dalla realtà della morte e da quella delle malattie che, però, hanno il pregio, almeno per il potere, di non intaccare mai o mettere in discussione le cause profonde e diffuse delle pandemie e delle emergenze. Mentre lo stato di emergenza tende a creare l’attesa del rimedio miracoloso, vaccino o altro che sia, e trasformando così l’antica e primitiva fede magico-religiosa popolare delle società contadine nella fede in una scienza svenduta un tanto al chilo.

Recuperare consapevolmente il memento mori potrebbe invece rivelarsi come un momento liberatorio per la specie umana attuale, come già suggeriva il materialista Leopardi indicando la necessità di collaborazione tra gli esseri umani, la cui triste condizione mortale obbligò a stringersi in social catena6 oppure come, in forma più aristocratica e guerriera, già faceva il libro del Bushido giapponese che nel vivere come si fosse già morti coglieva la possibilità di realizzare con audacia una vita completa e consapevole.
Completezza di vita, comunità umana e consapevolezza che sono agli antipodi della proposta solitaria ed egoista di vita individuale prospettata dal sistema economico-sociale attuale.

Il paradosso odierno è infatti quello di una società che, per negare la morte e la necessaria fine di ogni cosa, finisce con l’esaltarla e diffonderla sempre più massicciamente a discapito della vita, in un contesto in cui la biopolitica del potere si trasforma sempre più in necropolitica7. E che per paura della propria morte, in nome del mantenimento dello stato di cose presenti, è disposta a sacrificare l’intera biosfera e il suo futuro8.

Il calendario qui proposto ha sicuramente un grande pregio, quello di ricordarci come società ritenute arretrate nell’immaginario moderno e progressista potessero rivelarsi molto più disincantate nei confronti del potere, della ricchezza, dell’ambizione personale e della morte di quanto lo sia quella odierna, in ogni sua componente. Senza dimenticare che quelle stesse società, e nella fattispecie quella contadina veneta, dylanianamente non avessero bisogno di un meteorologo per sapere in quale direzione spirasse il vento. Non soltanto nel senso sotteso da Blowin’ in the Wind.

Il lunario si presenta diviso in cinque colonne:

La prima intitolata “Luna”, registra le fasi lunari di un comune calendario; nella seconda, distinta con il termine “Quarantìa”, sono riportate le conoscenze meteorologiche della tradizione orale. Pe renderli attuali si devono confrontare con le fasi lunari della prima colonna che, essendo diverse da un anno all’altro, ne garantiscono il significato meteorologico e rendono probabili le previsioni. Se non si tiene conto di questi “continui confronti”, esse perdono ogni riferimento reale. E’ infatti sulle fasi lunari che il contadino misurava l’annata agraria, contava le quarantìe, arrivava a fare delle previsioni del tempo alle quali si legavano le regole agronomiche, formulate sull’esperienza secolare delle generazioni passate e tramandate oralmente.
[…] I mutamenti violenti e repentini di questi decenni hanno cambiato, mutato o cancellato molto della sapienza del tempo contadino e il lunario rischia di essere dimenticato dalle nuove generazioni. Forse non è tempo perso quello riservato alla riscoperta di come eravamo e quale fosse il modo di “contare” il tempo dei nostri nonni, a confronto con i metodi attuali.
La terza colonna, infatti, riporta i giorni di lavoro, le feste, i santi secondo il consueto schema dei calendari, fatta eccezione per quei santi che sono direttamente legati alle indicazioni meteorologiche, alle usanze, al lavoro di una volta. La tradizione orale non ha mai tenuto conto delle riforme calendariali, avvenute nel corso dei secoli e, generalmente, è ferma al calendario di Cesare, come lo sono i russi e gli ortodossi.
La quarta colonna sviluppa il tema scelto per il 2021, Mali che se ciapa. L’ultima riporta, giorno per giorno, i proverbi, i modi di dire, i detti, che esprimono gli aspetti sapienziali del lavoro e della vita dei contadini, legati alla tradizione orale9.

In attesa di poter riempire di pece e piume i rivenditori di dati economici farlocchi, di terapie miracolose e di suggestioni nazionaliste, dell’enorme Medicine Show mediatico su cui si fonda la sottomissione al dominio del modo di produzione attuale, il cui unico scopo è quello di negare l’orrore “vero” del presente per mantenerlo in vita a discapito di tutto ciò che è davvero vivo e necessario per la nostra specie e quelle che ci hanno accompagnato fin qui, la consultazione e la lettura di questo calendario, nonostante la serietà dell’argomento, potrebbe ancora rivelarsi di buon auspicio per l’anno che verrà.


  1. La cui opera principale è stata recentemente recensita su Carmilla qui  

  2. Si veda in proposito almeno G.A. Stella, Odissee, Rizzoli, Milano 2004  

  3. Mali che se ciapa. Epidemie e contagi nel veneto moderno, Lunario veneto di Dino Coltro 2021  

  4. Sul tema del buon morire e della danza macabra si veda il sempre fondamentale A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), Einaudi, Torino 1977 (prima edizione 1957)  

  5. Come avrebbe affermato il teologo tedesco Meister Eckhart, vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo, ci sarebbe data soltanto “in prestito d’uso”  

  6. G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, v. 149; cui andrebbero aggiunte le considerazioni svolte nel Dialogo della Natura e di un Islandese: “Natura – Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.”  

  7. Si veda D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino 2020  

  8. Come sembra suggerire lo straordinario romanzo di George A. Romero e Daniel Kraus, I morti viventi, recentemente pubblicato da La nave di Teseo  

  9. Lunario veneto di Dino Coltro 2021  

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Vite operaie tra lavoro, malattia, emozioni e rivolta https://www.carmillaonline.com/2020/10/27/vite-operaie-tra-lavoro-malattia-emozioni-e-rivolta/ Tue, 27 Oct 2020 22:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63209 di Sandro Moiso

Niso Tommolillo, Gli acidi mi hanno fatto male. Narrazioni operaie dalla Viscosa di Roma, con una Postfazione di Osvaldo Costantini, Il Galeone Editore, Roma 2020, pp. 172, 15 euro

E’ certamente un progetto ambizioso quello che sta alle spalle del libro di Niso Tommolillo (sociologo, antropologo culturale, specializzato in etnopsichiatria) recentemente pubblicato dall’editore Il Galeone; un piccolo editore di Roma il cui catalogo dovrebbe essere tenuto maggiormente d’occhio dai lettori di area antagonista. Un catalogo particolarmente significativo, sia sul piano della saggistica che della grafica e della narrativa contemporanea, [...]]]> di Sandro Moiso

Niso Tommolillo, Gli acidi mi hanno fatto male. Narrazioni operaie dalla Viscosa di Roma, con una Postfazione di Osvaldo Costantini, Il Galeone Editore, Roma 2020, pp. 172, 15 euro

E’ certamente un progetto ambizioso quello che sta alle spalle del libro di Niso Tommolillo (sociologo, antropologo culturale, specializzato in etnopsichiatria) recentemente pubblicato dall’editore Il Galeone; un piccolo editore di Roma il cui catalogo dovrebbe essere tenuto maggiormente d’occhio dai lettori di area antagonista. Un catalogo particolarmente significativo, sia sul piano della saggistica che della grafica e della narrativa contemporanea, che meriterebbe sicuramente una migliore distribuzione sul territorio nazionale.

Per questo interessante lavoro di ricostruzione della storia della fabbrica di viscosa (seta artificiale tratta dalla cellulosa, ancora molto in uso oggi) sorta a Roma nei primi anni Venti, con il pieno avvallo del regime, e chiusa alla metà degli anni Cinquanta, con l’avvallo del governo democratico/cristiano, ma soprattutto delle vite e del lavoro dei suoi operai, l’autore ha potuto avvalersi della grande documentazione e raccolta di schede di quasi tutti i lavoratori impiegati nel tempo nella fabbrica contenute nel Centro di Documentazione Territoriale Maria Baccante – Archivio Storico Viscosa oggi compreso all’interno dell’area occupata dal Csoa eXSnia di Roma.

Tommolillo ha infatti partecipato alla fondazione di tale, e importante, centro di documentazione, cosa che gli ha permesso di esaminare e utilizzare la grande quantità di materiale raccolto in tale archivio.
Il corpus principale del libro ricostruisce così, attraverso un alternarsi di ricerca documentaria e fiction, la vita, le sofferenze e la rivolta oppure la sottomissione nei confronti del lavoro e della sua organizzazione all’interno della fabbrica degli operai e delle operaie, sia negli anni del fascismo che in quelli immediatamente seguenti alla sua caduta.

Lavoro insalubre e pericoloso per eccellenza quello che si svolgeva tra le mura di uno dei più importanti stabilimenti chimici italiani. Lavoro che ha macinato implacabilmente corpi e menti delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti nell’attività. Per anni, anzi per tutto il periodo di attività dell’azienda. Lavoro dannoso per la salute e per l’ambiente, ricoperto e nascosto dal paternalismo aziendale e dal miserabile benessere che quell’attività comportava sia per i lavoratori impiegati sia per il quartiere circostante. Una gestione paternalistica condotta in realtà in maniera spietata, in cui l’uso della scienza medica utilizzata per la valutazione della salute degli operai corrispondeva sempre e soltanto alle necessità dell’accumulazione del capitale e dello sfruttamento, fino al totale sfiancamento, della forza lavoro e delle sue energie. In cui, solo per fare un esempio tratto dal libro, la questione dei trasporti pubblici, della loro diffusione e del loro miglioramento diventavac essenziale soltanto per aumentare la puntualità e, quindi, la produttività degli operai.

Ricostruire qui il processo lavorativo, le varie fasi e funzioni destinate a produrre sempre più seta artificiale (basti pensare che quando il personale sarà dimezzato in seguito alla crisi del settore la produttività aumenterà del 30% senza alcun miglioramento o nuovi investimenti sul piano tecnologico) e tutti i momenti di autentico pericolo che potevano rappresentare sul piano neurologico, epatico, gastro-intestinale, respiratorio e del sistema endocrino dei dipendenti, sarebbe troppo lungo e per questo si rinvia alla lettura del libro. Ma ciò che esce da queste pagine, che grondano fatica, sudore, stordimento, follia e intossicazione da solventi (soprattutto del micidiale solfuro di carbonio utilizzato nelle varie fasi della lavorazione), è il fatto che la scritta Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi (di morire), esposta sui cancelli dei campi di lavoro e stermino creati dalla Germania nazista, dovrebbe o potrebbe essere riprodotta sugli ingressi di qualsiasi stabilimento industriale. Come hanno ben dimostrato anche le vicende dell’Ilva di Taranto e degli stabilimenti di Bagnoli nei decenni successivi.

Lo sviluppo industriale, spacciato per progresso e alla faccia dell’attuale e farlocco green capitalism, ha sempre costituito, fin dalle sue origini, come dimostrva già La condizione della classe operaia in Inghilterra scritto da Friedrich Engels alla metà dell’Ottocento, un autentico cancro per la società e per l’ambiente. Un tumore le cui metastasi si sono diffuse ovunque: nell’aria, nell’acqua, nella terra e nei corpi. Sempre e soltanto in nome del profitto. Cosa ancora pienamente dimostrato dalla mancata zona rossa in Val Seriana nel febbraio di quest’anno e ancora nel rifiuto di chiudere le attività produttive anche oggi di fronte ad una più diffusa e devastante seconda ondata pandemica da Covid-19. Sempre e soltanto in nome del profitto e dell’accumulazione di capitale. Un autentico fardello per la specie umana nel suo insieme e uno strumento di tortura per tutta la classe operaia.

Le tre vicende narrate nel testo, con nomi di invenzione per quanto riguarda i protagonisti ma fondate sui registri medici della fabbrica della Viscosa e sulle carelle personali reali dei dipendenti depositate presso l’Archivio, testimoniano di ciò con realismo e crudezza, ma come afferma Osvaldo Costantini nella sua Postfazione, pur descrivendo il ricatto della scelta tra salute e /o lavoro subito da chi è costretto a vendere la propria forza lavoro mercificata:

A differenza di tanta fredda saggistica, Niso Tommolillo riesce a mostrare il vissuto di questi personaggi immersi in quel potere strutturale che limita la loro capacità d’azione.Laddove non ha i dati, l’autore li immagina: molti dati e scene del quotidiano, ci avvisa sin da subito, sono inventati. Quello che sul piano scientifico potrebbe essere considerato un punto debole, in una dinamica di oscillazione tra la socio-antropologia e la narrativa finisce per diventare la caratteristica valorizzante del testo, perché coglie in vivo dimensioni inesplorabili, trattandosi di operai di cui si hanno a disposizione solo le schede di fabbrica1.

Già, e proprio qui si pone non soltanto il punto di forza del testo ma anche del tentativo di riportare in vita e alla luce tutte quelle emozioni, tutte quelle esperienze e drammi vissuti dal basso e solitamente sepolte, in nome di un’oggettività che non potrà mai non essere di parte, sotto montagne di schede personali negli archivi freddi delle fabbriche oppure delle procure e dei tribunali.
Tommolillo si prende dunque la briga e il merito di far parlare chi, di solito, non ne ha il diritto, se non attraverso il giudizio e le scarne parole di un potere che gli è estraneo e nemico.

Sono le emozioni il motore dei comportamenti, sia che si tratti di accettare con orgoglio disperato il ruolo di lavoratore produttivo utile alla Patria sia della rivolta collettiva ed individuale, e Niso riesce a trasmettere tutto questo con grande forza e coinvolgimento del lettore. Mentre allo stesso tempo, nemmeno troppo tra le righe, riesce a farci comprendere come non possano essere riposte illusioni nella funzione benefica del capitalismo e del lavoro salariato. Anche quando questo assume l’aspetto dell’assistenza sanitaria “gratuita” o di un patto (New Deal) con i lavoratori poiché il problema non è rappresentato solo dal fascismo.

Un testo particolarmente utile, soprattutto oggi, in un tempo di pandemie e di emergenze infinite, di cui il mostro capitalista sembra ferocemente avvalersi, per aumentare il proprio controllo sociale e il proprio vantaggio economico, quasi esclusivamente sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini. Con minima spesa e massima resa. Esattamente come per la produttività nella fabbrica romana (oppure come quella oggi richiesta dal presidente di Confindustria Bonomi).

Last but not least, le questioni trattate dall’autore nella sua ricca e sintetica Introduzione, in cui parla sia degli intenti della sua ricerca e del libro che della/le metodologia/e di cui si è servito.

Chi scrive ha avuto la fortuna di partecipare al processo che ha portato alla costruzione del Centro di Documentazione Territoriale Maria Baccante – Archivio Storico Viscosa fino alla sua
apertura ufficiale avvenuta nel febbraio del 2015. Il fascino di questa esperienza mi portò ad assumere nel 2012 l’impegno di svolgere la prima ricerca antropologica che sia mai stata effettuata su questo materiale.
L’obiettivo che mi posi fu quello di illustrare la dimensione sociale della malattia, per dimostrare che dietro un aspetto apparentemente naturale si possono nascondere relazioni di potere che riducono le persone in condizioni di sofferenza. Le dinamiche e i processi sociali, culturali ed economici sono tutt’altro che naturali ma hanno attori e scopi precisi. L’analisi antropologica può far comprendere queste dinamiche e le poste in gioco dei processi di naturalizzazione dell’arbitrio, promuovendo, all’interno dell’analisi, un’etica della giustizia sociale che non ci faccia guardare le condizioni di sofferenza umana attraverso gli occhi della compassione2

Questo severo appello al superamento della ‘compassione’, all’interno del discorso politico e sociologico, dovrebbe servire anche a smascherare la fasulla retorica dell’emergenza. Una trappola ‘umanitaria’, intrinsecamente cattolica e perbenista, in cui troppi compagni sono caduti, si tratti di salute sui territori, di migranti o delle carceri, che è sempre ampiamente prevedibile nel suo scopo finale: la promozione del collaborazionismo interclassista. Purché, naturalmente, se ne rifiutino i valori su cui si fonda: quelli del padrone, del potere statale e dell’apriori economico dato invece per naturale e scontato3.

Poiché, alla fine, non è soltanto il capitalismo a dover essere rimesso in discussione, ma anche la sua scienza medica, attraverso un’autentica antropologia della sickness:

perché c’è il rischio che, per comprendere la disease (la malattia intesa come patologia), l’analisi venga basata su una realtà biofisica con delle cause e degli effetti prevedibili, e che venga data priorità alle origini fisiologiche piuttosto che alle azioni, modellate culturalmente e socialmente significative, che danno forma al comportamento durante gli episodi di malattia.
Gli stati di malattia non hanno solo cause biologiche, ma sono determinati anche dai contesti sociali e dalle relazioni di potere che gli individui vivono e subiscono. Si può sostenere, utilizzando le parole di Michael Taussig, che: «I segni e i sintomi della patologia, tanto quanto le tecniche
di guarigione, non sono “cose in sé”, non sono solo entità biologiche e fisiche, ma hanno anche valenza di segni di relazioni di tipo sociale pur presentandosi nella veste di oggetti naturali e pur essendo latente il loro radicamento nella condizione umana della reciprocità.»
Quindi, segni e simboli non sono entità definibili una volta per tutte, hanno significati negoziabili che acquistano valenze differenti a seconda del periodo storico, delle culture di appartenenza e della classe sociale degli attori coinvolti: «Potremmo dire che sono fatti sociali tanto quanto fisici e biologici. Intravediamo ciò se riflettiamo solo un momento sui significati disparati veicolati da segni e sintomi in differenti momenti storici e in diverse culture.»4

Con buona pace della semiologia medica così come è andata affermandosi con la medicina basata principalmente sui principi della riparazione “chimica” o strumentale del “corpo macchina”. Ci piaccia o meno l’addio al paradigma scientifico, conoscitivo, tecnico ed economico dell’era attuale dovrà avere al più presto inizio e con questo libro Tommolillo ci aiuta a comprenderlo ancor meglio.


  1. O. Costantini, Ricatti e riscatti. Uno sguardo al ruolo delle emozioni, in N. Tommolillo, Gli acidi mi hanno fatto male, p. 139  

  2. N. Tommolillo, op. cit. p. 7  

  3. Per una definizione di quest’ultimo si veda K.Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974, 1981 e 2010  

  4. Tommolillo, op. cit., pp. 9-10  

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Nemico (e) immaginario. Mutazioni nell’immaginario dello zombi https://www.carmillaonline.com/2017/02/15/nemico-e-immaginario-mutazioni-nellimmaginario-dello-zombi/ Wed, 15 Feb 2017 22:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35731 di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» Antonio Lucci

Riprendiamo la serie “Nemico (e) immaginario” grazie ad alcuni spunti interessanti offerti dal breve saggio “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” di Antonio Lucci contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016), ove sono presenti anche scritti di Rocco Ronchi, Livio Marchese, Tommaso Ariemma, Tommaso Moscati, Emiliano Cinquerrui e Cateno Tempio.

Lucci ripercorre la trasformazione dell’immaginario degli zombi costruita dagli strumenti narrativo-mediatici contemporanei ripercorrendo al contempo il tipo di frames che tale immaginario veicola e rafforza. Nonostante George Romero trasformi, sin dalla fine degli anni Sessanta, decisamente la figura dello zombi rispetto alle sue origini haitiane, lo studioso individua tre elementi che restano sufficientemente costanti: gli zombi sono morti che tornano in vita,  sono sempre più di uno e sono una massa indifferenziata.

Lo zombi haitiano messo in scena dal film White Zombies (L’isola degli zombie, 1932) di Victor Halperin è esplicitamente vittima del sistema capitalista; è un morto che viene risvegliato da uno stregone che lo priva di volontà per renderlo schiavo impotente mancante di bisogni e desideri ed è impossibile da redimere. L’immaginario dello zombi haitiano è costruito sul terrore per una schiavitù che rischia di essere eterna, tanto che nemmeno con la morte l’individuo riesce ad emanciparsi da essa. Si tratta di un immaginario che prospetta uno stato atemporale in cui esiste soltanto il lavoro ed il comando.

«Questo elemento – lo zombi come paradossale controfigura dell’oppresso – resterà sempre, più o meno dichiaratamente, come elemento caratterizzante il frame-zombi. […] Gli zombi-drogati delle piantagioni della HASCO […] erano lavoratori senza forza-lavoro, in quanto per essere forza-lavoro, in una prospettiva marxiana, bisogna essere innanzitutto forza, ossia qualcosa che vive, e che vivendo eccede il lavoro, si ricarica delle proprie energie, della propria vitalità, dopo, malgrado e al di là del proprio impiego nell’attività produttiva. Lo zombi haitiano, privato anche di questa potenzialità produttiva, non è più né forza-lavoro (ma solo lavoro) né proletariato, in quanto privato persino della potenzialità di creare prole, di essere vita che perpetua sé stessa, ma pura morte, nuda morte che cammina: walking dead. Lo zombi – incarnazione visiva del ritorno del rimosso freudiano – si vendicherà di questa schiavitù preoriginaria nelle sue incarnazioni successive, che da un lato renderanno la figura dello zombi un emblema della critica al capitalismo, mentre dall’altro esso diventerà una macchina da riproduzione, un prole-tario nel senso letterale del termine: un ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione» (pp. 72-73).

Se il film Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero può essere interpretato in chiave antirazzista, con The Dawn of the Dead (Zombi, 1978) di George Romero è esplicatamene l’immaginario capitalista ad essere messo in discussione e, secondo lo studioso, in questo film mutano alcune caratteristiche fondanti del frame-zombi: «se, infatti, l’idea originaria per cui lo zombi porta in sé un potenziale critico nei confronti delle strutture di potere esistenti era già presente in nuce nella figura della mitologia haitiana (lì, come visto, la critica alla schiavitù si esprimeva indirettamente come critica nei confronti del malvagio stregone-schiavista, simbolo del padronato bianco), essa si presenta ora con una forza sempre maggiore nelle trasposizioni cinematografiche romeriane» (p. 74). In realtà già sul finire del primo film di Romero, al di là della critica al razzismo, si trovano alcuni elementi che resteranno costanti nella produzione romeriana, come la critica nei confronti di governanti e militari palesemente incapaci di proteggere la popolazione nelle situazioni di pericolo.

«L’inoperosità dello zombi diventa in questo film paradigmatica (gli zombi sono pura “potenza di non”, una potentia negativa per eccellenza, in quanto il loro agire non crea mai nulla, nessun prodotto, ma solo l’opposto di un prodotto, un non-prodotto, vale a dire la contraddizione in atto che è il morto vivente) assieme al rovesciamento della sua posizione proletaria. Se – come visto – lo zombi haitiano era deprivato sia della sua inoperosità (base di qualsiasi forza, anche di quella produttiva) sia della sua capacità procreativa di generazione e riproduzione, lo zombi romeriano – al contrario – rappresenta l’oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione: gli zombi romeriani sono (non-) morti che creano altri, potenzialmente infiniti, seguaci della loro stessa non-morte, portando così alle sue conseguenze estreme, critiche e massime il proprio potenziale prole-tario. Gli zombi, dunque, mutano con Romero – in maniera importante anche se non direttamente percepibile – le coordinate-base dei loro frames di riferimento: restano massa, ma da asservita diventano soggiogante, non sono più in potere di un padrone, ma fanno parte di un movimento eminentemente acefalo, collettivo e organizzato “dal basso” nella propria assenza di opera» (pp. 75-76).

28-days-laterUna nuova mutazione dell’immaginario zombi, sostiene Lucci, ha a che vedere con «la teoria del complotto e l’ansia sociale nei confronti dei possibili risvolti tanatologici (e tanatopolitici) della medicalizzazione sempre più evidente della cosa pubblica» (p. 76). Secondo lo studioso è a partire da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle che tale filone diviene il nuovo standard per il genere zombi, anche se in realtà nasce insieme alle prime opere di Romero, basti pensare a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973). «Fin dall’inizio, quindi, potremmo dire che nella testa del creatore dello zombi sul grande schermo, e più in generale nell’immaginario collettivo, lo zombi e l’infetto sono l’uno il Doppelgänger dell’altro, camminano – claudicanti – assieme» (p. 77).

Dunque se da un lato lo zombi è un morto che ritorna, dall’altro è un vivo malato. «Le due figure non possono mai totalmente coincidere: a livello cinematografico, infatti, vi è piuttosto una sovrapposizione iniziale che diviene poi una staffetta tra i due generi, per finire con una sostituzione praticamente totale […] lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte – sia nel dibattito pubblico che nelle angosce che dominano le rappresentazioni collettive – per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» (pp. 77-78).

A partire da 28 Days Later, sostiene Lucci, le narrazioni insistono nell’indicare l’origine degli zombi nella contaminazione da virus, solitamente derivante da un esperimento militare o da un atto terroristico, e ciò determina un allontanamento dell’immaginario zombi dalle sue origini ove veniva data importanza alla tematica della morte ed a quella del lavoro e della sottomissione. La variante contemporanea dello zombi tende piuttosto a concentrarsi sullo zombi infetto che spesso perde la proverbiale goffaggine e lentezza per divenire un corridore affamato, dunque una perfetta incarnazione dei valori della società capitalistica realizzata.

Lo zombi contemporaneo, lo zombi-infetto, non è più un morto che ritorna e se «il potenziale critico dello zombi-morto si esprimeva per contrasto metaforico (gli zombi erano gli schiavi, o le vittime incoscienti – e al fondo innocenti dell’innocenza propria dei morti – delle macchinazioni militari o governative), gli zombi-infetti sono sempre più spesso solo la molla d’innesco di film che hanno al proprio centro un’antropologia pessimistica, e che hanno come fine quello di mostrare come – in una società resettata, in cui le istituzioni collassano e tornano al punto zero, grazie a o per colpa degli zombi – l’essere umano sia il vero mostro» (p. 79).

Lucci sottolinea come nelle recenti produzioni audiovisive, nonostante lo zombi-infetto sia tale a causa di un virus propagato, più o meno volontariamente, da altri, l’accento tende ad essere posto non tanto sui rapporti tra esseri umani e zombi, quanto piuttosto sulle dinamiche intercorrenti tra i gruppi umani dopo l’apocalisse. «In questo modo, mostrando la crudeltà dell’animale umano allo stato di natura, il genere si rovescia da cultural-critico in conservatore: vengono, infatti, sempre più affermati i valori della famiglia, del gruppo, della leadership (un tormentone, nei film del genere, la domanda “Who is in charge?”, “Chi comanda qui?”), della violenza “giustificata”, della sopravvivenza del più “adatto”. In questo punto il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» (pp. 79-80).

Nella serie di fumetti The Walking Dead, da cui è tratta l’omonima serie televisiva, vi è un momento in cui esplicitamente la narrazione dello zombi-morto finisce col coincidere con quella dello zombi-infetto: «nel mondo di TWD un’infezione dall’origine sconosciuta ha colpito tutti in potenza, ma il divenire-zombi si attualizza solo una volta che (non importa come) si muore. Dunque l’infezione (preoriginaria) e la resurrezione (necessaria e inevitabile, come in un’inevitabile realizzazione postmoderna del dogma cristiano) finiscono per coincidere in un’unica narrazione, dove la teoria del complotto fa da sfondo. TWD riesce così, da un lato, a rimanere una serie paradossalmente “mortalista” (dove cioè la morte svolge ancora un ruolo portante nella determinazione dello zombi, in pieno stile romeriano, anche se affiancata dall’idea della zombificazione come risultato di un virus), anche laddove […] la narrazione dello zombi-infetto sposta l’accento più sui rapporti umani e sulle implicazioni delle macchinazioni (complottiste) delle entità statali nell’epoca pre-apocalisse. Questo punto (il “mortalismo”) è di particolare rilevanza in TWD, perché, paradossalmente, fa “rientrare” lo stato d’eccezione che l’outbreak, per definizione, crea: nel mondo di Rick Grimes e della sua compagnia, infatti, gli zombi (ossia la presenza quotidiana della morte) sono la normalità, la morte che essi incarnano e rappresentano è inevitabile… così come necessariamente, anche per noi, la morte è, e non può che essere» (pp. 80-81).

A differenza di ciò che avviene nelle narrazioni romeriane, in The Walking Dead gli zombi sembrano essere divenuti parte della normalità. A tal proposito Lucci si sofferma sull’episodio intitolato “The Grove” (n. 14 – Stagione 4) in cui la piccola Lizzie, aggregatasi a Carol dopo aver perso la madre, si dimostra incapace di considerare gli zombi ontologicamente diversi dagli umani. Tale logica appare inconcepibile ai personaggi adulti e, attraverso essi, tende a risultare assurda anche allo spettatore. «In realtà, dal punto di vista logico, l’atteggiamento di Lizzie è perfettamente coerente con le coordinate ontologico-esistenziali del mondo in cui sta crescendo: gli zombi sono (in un modo del tutto peculiare, per noi inconcepibile) persone, fanno parte della realtà, di quella determinata realtà, è impossibile ignorarli, e – soprattutto per chi conosce solo quel mondo, come i bambini, appunto – ghettizzarli ontologicamente, come un’anomalia che non va accettata in alcuna maniera, appare parimenti assurdo. La paradossale figura di Lizzie rappresenta l’interiorizzazione parossistica delle categorie del mortalismo assoluto che la presenza della morte entificata (ossia dello zombi) porta nel proprio orizzonte logico». (pp. 81-82).

Nelle narrazioni delle serie televisive, che hanno tempi narrativi lunghi, le categorie logiche, ontologiche ed etiche, constata Lucci, mutano facilmente rispetto alla realtà pre-apocalittica ed il genere zombi (sia nella variante dead che in quella dell’infetto) non può che mettere in scena strutture sociali e morali trasformate mentre nei film, che hanno tempi di narrazione meno dilatati, ed il racconto tende a svilupparsi a ridosso dell’apocalisse, si possono più facilmente esporre elementi di critica culturale, mostrando gli esseri umani in balia di situazioni estreme. «Laddove l’apocalisse diventa uno stato acquisito, essa viene normalizzata, e la funzione della narrazione-horror quale esperimento mentale viene meno» (p. 82).

the-walking-deadFacendo riferimento alla puntata intitolata “Them” (n. 10 – Stagione 5) lo studioso si sofferma su una frase pronunciata da Rick Grimes: “We are the walking dead!”. Con tale affermazione si ha il superamento del dualismo tra zombi-morto e zombi-infetto; l’uomo e lo zombi finiscono col coincidere. E non è casuale, continua Lucci, che tale frase venga pronunciata dopo lo scontro tra il gruppo di Grimes e gli abitanti di Terminus, che intendevano sperimentare un’utopia post-apocalittica accogliente ed avendo dovuto far ricorso alla violenza per difendere la propria libertà, si sono poi trasformati in un gruppo militarizzato incline al cannibalismo.

Dunque, conclude Lucci, l’affermazione “We are the walking dead!” «è vera non solo perché ogni vivente, nel mondo di TWD, è già sempre infetto (senza contare che – anche prima dell’infezione – ogni vivente porta in sé la propria morte), ma anche e soprattutto perché in un mondo dove la resurrezione è avvenuta senza giudizio, tutti – vivi e morti – sono zombi, e tutto è permesso. I cannibali di Terminus, al fondo, così come Lizzie, sono abitanti perfetti di un mondo in cui le coordinate storiche ed etiche di riferimento non possono che essere mutate, e dove gli ancoraggi della morale pre-apocalisse (ad esempio concetti come “persona”, “comunità”, “fratellanza”, “onore”, ecc.) perdono tutto il loro valore. Anche qui, nella variante post-apocalittica e post-moderna dello stato di natura hobbesiano, il genere zombi perde il suo valore cultural-critico, normalizzandosi, e diventando anzi conservatore: vengono rimpiante quelle istituzioni che invece l’esperimento mentale dell’apocalisse metteva radicalmente in questione. Infatti, in un mondo dove tutto è permesso, dove non c’è Dio, e la prova di questa assenza è (al contrario di quello che sosteneva San Paolo) proprio l’avvenuta resurrezione dei morti, rimane solo la speranza che arrivi un qualche Leviatano (nella forma militarizzata dell’esercito o in quella tecnocratica di una cura), in quanto Deus ex machina, a salvarci» (p. 82).


Qua l’intera serie “Nemico (e) immaginario

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La società dei devianti nell’epoca della prestazione https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/la-societa-dei-devianti-nellepoca-della-prestazione/ Tue, 27 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32708 di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo [...]]]> di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).

Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento. «Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).

Si viene divorati dalla società produttivista non solo se, come afferma Basaglia, si fa parte della classe sbagliata, della famiglia sbagliata, della razza sbaragliata ecc., ma anche, aggiunge Cipriano, su uno si ritrova ad essere «più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via. A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare» (pp. 14-15).

Dopo aver raccontato il manicomio fisico nel libro La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013) ed aver ricostruito ne Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] i passaggi principali che hanno condotto all’era della psichiatria chimica in cui il paziente assume il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, con La società dei devianti (Elèuthera, 2016) Cipriano, che ama definirsi “psichiatra riluttante”, racconta «cos’è questo nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno, sia esso disturbo o malattia, etichetta che diventa tatuaggio identitario di un individuo, diventa destino, da cui tutto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita» (p. 234).
In particolare, in questo terzo ed ultimo volume di quella che Cipriano definisce “trilogia della riluttanza”, si ricostruisce come la stanchezza esistenziale, sempre più diffusa in questa società votata alla prestazione, sia stata trasformata in “depressione” grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ed al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e si lancia una campagna contro la contenzione tramite fasce, pratica molto più diffusa di quel che si pensi.

Non solo gli psichiatri trasformano spesso la tristezza in depressione ma, in generale, ormai chi è semplicemente colto da stanchezza, esaurimento o “mal di vivere”, si sente in dovere di rivendicarsi depresso e di pretendere la relativa cura (chimica). Si potrebbe dire che viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza è pressoché costretto a dichiararsi malato e ad accettarne le conseguenze che il più delle volte si presentano sotto forma di farmaco. Non occorre individuare le cause che determinano uno stato di tristezza; questa viene facilmente trasformata in depressione e la depressione, di questi tempi, richiede farmaci antidepressivi. Non solo non interessano le cause del disagio, ma non interessano nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il DSM è la nuova bibbia e chiede solo di essere applicato, senza farsi troppe domande.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, la “salute” è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, non una mera assenza di malattia» (p. 44). Dunque, sostiene Cipriano, viene da pensare che «i poveri, i miserabili, non possano mai essere in buona salute, date le loro esigue risorse per raggiungere il pieno benessere psichico, fisico e sociale, e che la loro miseria sia già malattia. E che tutti gli africani che si imbarcano sulle carrette per attraversare il Mare Nostrum e raggiungere la fortezza Europa lo facciano per venire incontro al proprio benessere psichico, fisico e sociale, per raggiungere il paese della salute, e sfuggire al loro destino di malati. E noi, noi Stati europei, li respingiamo. Ecco che alcuni esseri umani vengono sottoposti ai Trattamenti Sanitari Obbligatori in nome della salute (psichica) che non hanno, e ad altri esseri umani i trattamenti sanitari vengono negati» (p. 44).

Sempre secondo l’OMS, la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra i 15 ed i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, non esiste uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause e che si tratti in effetti di una malattia. Fin dagli anni ’60 si sostiene che la depressione derivi da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale e, ancora oggi, in mancanza di altre spiegazioni, ci si rifà a tale convinzione. Dagli anni ’50 si è imposta quella che è diventata la “bibbia diagnostica” degli psichiatri: il DSM, opera dell’American Psychiatric Association (APA) e con il DSM-III del 1980 si impone l’abbandono di diverse teorie psicologiche sui disturbi psichici in favore di «un manuale di pura descrizione di sintomi, nudi e crudi. Si compie […] la scelta ideologica di eliminare tutte le diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici» (p. 45). Dunque, dal 1980, grazie al DSM-III, si è depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: «umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi;pensieri di morte o di suicidio» (46). Perché cinque sintomi e non meno o di più e perché l’elenco prevede un massimo di nove sintomi non è dato a sapersi.

Nel ripercorrere la “storia della depressione”, Cipriano ricorda come Ippocrate distingua tra tristezza cum causa e tristezza sine causa, ove solo quest’ultima è da ritenersi patologica, dunque compie una distinzione tra una “malinconia esogena” (con causa) ed una endogena (priva di causa). Tale impostazione di fondo resta in vigore a lungo, tanto che diversi secoli dopo, lo stesso Sigmund Freud (Lutto e melanconia) sostiene che non si deve curare chi è triste, ad esempio, per un lutto in quanto si tratta di un “dolore normale” che necessita solo di tempo. «Insomma, per duemilacinquecento anni si è tenuta separata la tristezza normale, che ha una causa, dalla tristezza abnorme, che una causa non ce l’ha ma poi tutto cambia dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il manuale ateoretico, che non vuole più basarsi su alcuna interpretazione (la differenza tra causa esterna o interna, in fondo, è un’interpretazione), ma solo sui sintomi osservabili. Addio alla millenaria differenza tra le due forme di tristezza, dal 1980 esiste una sola depressione: quella che dura più di due settimane e che presenta almeno cinque dei nove sintomi» (p. 47). Se il DSM-III del 1980 almeno specifica che è “normale” provare tristezza per un lutto, anche se si sente in dovere di quantificarne la durata ad un anno (oltre questa durata non si è in lutto ma depressi), con il DSM-IV del 1994 il periodo di “normalità” del lutto scende a due mesi e dal 2013, con il DSM-5, si giunge a due settimane di tristezza consentita. Insomma, sostiene Cipriano, dal 2013 il lutto è pressoché scomparso. È facile capire come grazie a tale logica la depressione si sia trasformata da patologia rara in pandemia.

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoDal momento che i manuali diagnostici hanno via via reso depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, questi hanno posto fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena. Se il fine è quello di ottenere la salute attraverso la guerra alla stanchezza ed all’infelicità, lo stesso lutto deve essere regolamentato: due settimane devono bastare a tutti ed in ogni caso. Passate le due settimane occorre tornare ad essere felicemente produttivi. Alcuni decenni di chimica antidepressiva e la cinica riscrittura dei manuali diagnostici hanno portato ad una vera e propria pandemia di depressi. I dati riportati da Cipriano sono impressionanti: al mondo si contano 400 milioni di depressi e 60 milioni di bipolari, ove la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore. Se il disturbo bipolare risulta un fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, con la diffusione degli antidepressivi diviene la seconda patologia psichica più diffusa ed è stato esteso agli adolescenti.
La maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche deriva dagli antidepressivi (negli ultimi due decenni negli USA il ricorso ad antidepressivi è aumentato del 400%), chiaro allora, sostiene Cipriano, che alle aziende farmaceutiche è convenuto l’allargamento dei confini diagnostici della depressione voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association. Il dubbio che tale allargamento sia stato dettato dalle industrie farmaceutiche è del tutto legittimo e non sarà un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se metà dei redattori è direttamente legata ad esse.

Fino agli anni ’50 la malattia “giustificante la psichiatria” è la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi. Dopo che l’OMS ha trasformato la salute in benessere psicofisico e sociale, l’agire psichiatrico cambia; non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma si deve mirare al raggiungimento del “completo benessere psicofisico”. Alla schizofrenia si sostituisce così la depressione. Probabilmente, sostiene Cipriano, l’American Psychiatric Association ha saputo approfittare di qualcosa che “era nell’aria” e la grande stanchezza esistenziale dei nostri tempi è stata tramutata in malattia: la depressione.

Visto che gli individui sembrano davvero essersi trasformati da oggetti di ubbidienza a soggetti di prestazione, lo “psichiatra riluttante” si chiede se l’esaurimento psicofisico e quello che i manuali diagnostici chiamano depressione non possa essere conseguenza dell’imperativo della prestazione. «Questo è il paradosso dell’uomo moderno, che per la prima volta nella storia si trova a essere padrone, sfruttatore, schiavista di se stesso […] la sua è solo un’apparente libertà. La sua è patologia della libertà. È una nuova società del lavoro, una società che sembra libera ma non lo è, perché è iperattiva, frenetica, schiava della sua stessa isteria di lavoro e iperproduzione. Una società che non contempla il riposo, e ancor meno l’ozio. Di qui la stanchezza […] che ora è diventata depressione» (pp. 49-50).

Nel libro viene riportata l’interessante ricostruzione di Mario Colucci, derivata da Ethan Watters (Crazy like us: the globalization of the American psyche), di come la depressione sia stata introdotta in Giappone al fine di poter inondare il paese di antidepressivi serotoninergici. In Giappone la personalità melanconica non ha tradizionalmente nulla di patologico, anzi, è sempre stata considerata sintomo di serietà, dunque, non facendo parte della cultura nipponica, la depressione deve essere introdotta ed è così che su quella cultura «negli anni Duemila, irrompe la nuova, moderna, scientifica, semplificata, omogenea narrazione proposta (o imposta) dal DSM […] E gli antidepressivi fanno il boom» (pp. 51-52).

Dagli USA arriva anche la “pillola dell’intelligenza”, si chiama Modafinil (“Moda”) ed il suo nome commerciale è “Provigil”, dunque, come suggerisce il nome, si preoccupa di favorire la vigilanza. Inizialmente «doveva servire come farmaco contro la narcolessia. Oggi viene proposta come smart drug, droga furba, cioè pillola dell’intelligenza. Infatti dovrebbe migliorare attenzione, memoria, concentrazione, e dunque intelligenza. Questa molecola sembra davvero l’equivalente del Ritalin dato ai piccoli scolari distratti, da distribuire a quegli adulti che, per stare in tiro, s’ingozzano di troppi caffè, o sono costretti a farsi la cocaina ogni tanto. Con la differenza farmacodinamica, però, che il metilfenidato (Ritalin) agisce solo aumentando la quantità di dopamina, il modafinil (Provigil) agisce anche riducendo il livello di acido gamma amino-butirrico (GABA), che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC» (pp. 80-81).

Nel libro viene ricordato come già i militari americani siano costretti per contratto ad assumere farmaci che li rendono più resistenti alla fatica ed al sonno e più performanti in guerra. Dunque, sulla scorta di tale ricorso al potenziamento chimico, c’è chi propone di estenderlo a tutte le professioni impegnate in emergenze. Piloti d’aereo, chirurghi e medici del pronto soccorso, ad esempio, potrebbero presto essere tenuti ad assumere neurostimolatori per migliorare le loro prestazioni in situazioni d’emergenza. Gli studi sugli effetti di queste molecole, però, vengono effettuati sul breve periodo (poche settimane) esattamente come è accaduto per il Ritalin somministrato ai bambini definiti “iperattivi”, col risultato che ci si ritrova, a distanza di anni, di fronte ad individui ridotti a zombie. Un’eventuale estensione ad altre professioni, oltre all’ambito militare, aprirebbe nuove opportunità per il business della salute; si potrebbero avere futuri pazienti depressi o bipolari a cui somministrare farmaci stabilizzatori od antipsicotici. Insomma, si tratta di un perverso meccanismo in cui una pillola chiama l’altra.

Se da un lato è quantomeno inquietante pensare di salire su un aereo con al comando un pilota “rinforzato” da qualche neuro-stimolatore, o di sottoporsi al bisturi di un chirurgo impasticcato, ci preme sottolineare come, anche in questi casi, i lavoratori vengano “potenziati” per essere più “performanti” (produttivi) per un lasso di tempo sempre più breve, per poi essere “scartati” in quanto non più “sicuri” (non più produttivi). Si delinea un quadro in cui la “spremitura” del lavoratore avviene, anche grazie alla chimica, sempre più velocemente e, in un sistema lavorativo votato al mito dell’autoimprenditorialità, quel che è peggio è che sarà il lavoratore stesso a potenziarsi per migliorare la sua posizione sul mercato del lavoro. Sarà il lavoratore stesso a spremersi sempre più velocemente bruciandosi il corpo ed il cervello per poi divenire velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute, capace, come stiamo vedendo, di trarre profitto anche dai “rifiuti umani”. Al pari del business per il trattamento dei rifiuti prodotti dal consumismo, esiste un business che ricava profitto dagli scarti umani.

Prendendo spunto dalla serie televisiva di successo Dr. House, Cipriano tratteggia alcune inquietanti caratteristiche della società contemporanea. Il Dr. House, medico a cui interessa la malattia ben più che il paziente, rappresenta davvero il «medico perfetto per questa società schizoide […] È un medico schizoide a cui non piace, o meglio teme, la relazione. Tant’è che per potersi permettere una sufficiente capacità relazionale si droga, si fa, si prende farmaci, ora non lo so cosa diavolo prenda lui di preciso, di certo antidolorifici, ma come lui moltissimi medici o terapeuti si prendono la cocaina o gli antidepressivi, per essere più socievoli e performativi, più terapeutici, perché proprio loro non ce la fanno, se no, a essere in sintonia con l’altro. Ecco il dramma, allora, di una società disconnessa, schizoide, nel senso di portata per l’autismo, arelazionale, che sempre più sta perdendo il contatto con il mondo, con gli altri, con il koinós kósmos (mondo comune) eracliteo, a favore dell’autistico ídios kósmos (mondo proprio). È una società, quella che acclama il paradigma del medico schizoide dottor House, che è essa stessa schizoide, perché manca di sintonia, di capacità di entrare in relazione affettiva con gli altri. E questo modo i porsi viene scambiato per apatia, o tristezza, e quindi depressione. Ma la depressione è un’altra cosa. La depressione, i moderni, mistificatori manuali americani, non lo sanno che cosa sia. Dunque apparentemente abbiamo un’epidemia di depressione. In realtà è, questa, l’epoca della schizoidia. L’epoca dei dottor House, e dei malati a lui speculari» (pp. 84-85).

Tra la depressione e la psicosi si colloca una nuova sindrome che i giapponesi definiscono “hikikomori”, letteralmente starsene in disparte, isolarsi dalla vita sociale. Dunque, ritirarsi dalla prestazione o, almeno, aggiungiamo noi, pensare di farlo, perché in questa società si diventa facilmente produttivi anche quando si pensa di non esserlo. L’hikikomori è spesso un adolescente che si isola socialmente, passa il tempo chiuso in casa costantemente davanti al computer a navigare in rete sopperendo così ad una solitudine reale con la convinzione, dettata dall’iperconnessione virtuale, di non esserlo. La studiosa Sherry Turkle (Reclaming Convesation), un tempo entusiasta delle incredibili potenzialità di affermazione della propria identità grazie ad internet, ed ora decisamente pessimista al riguardo, accusa i social network di aver condotto ad un’atrofia dell’empatia.

Grazie alla legge 180, per il solo fatto di soffrire di un disturbo psichico, non si fa più riferimento al malato definendolo “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (criterio d’internamento in manicomio della legge 36 del 1904) al fine di giustificare il ricovero coatto. La 180 per il trattamento dei disturbi psichici prevede la volontarietà del paziente e solo eccezionalmente si può agire in maniera impositiva. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può darsi solo se: «1. esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2. gli stessi non vengono accettati dal paziente; 3. non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere» (p. 148). L’obbligo della cura (TSO) non avviene più per “tutelare la società” ma per “dovere etico di cura”; si è passati da una questione di pubblica sicurezza ad una terapeutica. I dati dimostrano come più un servizio territoriale è debole, maggiore è il ricorso ai TSO e, nonostante la 180, secondo Cipriano, la psichiatria italiana non solo non si è liberata dal manicomio ma sembra sempre più farvi ritorno: «nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto» (p. 150).

Cipriano si dice convinto che TSO e contenzione siano strettamente collegati. «La contenzione, il legare le persone, sovente inizia già per strada, la iniziano poliziotti o carabinieri, e gli psichiatri che si trovano recapitate persone già ammanettate, nei pronto soccorso, non fanno altro che togliere le manette e mettere le fasce» (p. 152). Dunque sussiste la necessità e l’urgenza di promuovere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione: legare una persona ad un letto di ospedale è l’ultimo atto violento di una lunga serie che magari inizia con le manette, poi continua con la perquisizione, l’essere spogliati di tutti gli effetti personali e la scansione temporale ferrea degli orari in cui mangiare, dormire, fumare, assumere farmaci ed avere colloqui. Di fronte a tutto ciò Cipriano si chiede quanto possa sorprendere un’eventuale reazione rabbiosa da parte del ricoverato. «Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattamento provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce al trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?» (p. 161).

Come disobbedire da psichiatri alla consuetudine di legare? Secondo Cipriano si può disobbedire trovando altri modi per contenere la rabbia, la furia e la violenza del paziente e rendere pubblica la disobbedienza, raccontando, scrivendo, facendosi delatori, svelando che legare le persone al letto è una pratica diffusa. «Per vincere, e sconfiggere questo spettro, lo spettro delle fasce, e il fascismo subdolo che il loro uso comporta, c’è bisogno di persone (operatori) etiche e disubbidienti, che sappiano opporsi a questa prassi, che sappiano disubbidire all’assurdità di questa consuetudine, all’assurdità dei protocolli e delle linee guida, che sappiano sottrarsi alla banalità del male di una medicina e di una psichiatria che per curare esercita forza e violenza» (pp. 164-165). Dunque, insiste lo “psichiatra riluttante”, occorre convincere la società civile e gli operatori che ricorrono alle fasce, occorre far capire che con quelle fasce gli operatori legano tanto i pazienti quanto loro stessi, si umiliano, in modo diverso, entrambi.
Gli attacchi di Cipriano prendono di mira anche la psicoterapia che, a suo avviso, può avere senso soltanto se poco interpretativa e molto narrativa, perché il suo scopo non è guarire ma conoscersi attraverso il racconto della propria esistenza. Intanto gli operatori possono nella pratica quotidiana provare ad abolire l’ottocentesco giro di visita giornaliero in favore di un colloquio continuo, portare fuori i ricoverati, revocare i TSO, sciogliere i legati costi quel che costi e ridurre i farmaci. Almeno, suggerisce lo “psichiatra riluttante”, sarebbe utile riuscire a convincere i giovani operatori del settore, i pazienti ed i loro famigliari che «un altro modo per curare i disturbi dell’anima è possibile» (p. 26).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleAi nostri giorni si ricorre frequentemente al termine “schizofrenia”; tutti credono di sapere cosa essa sia mentre in realtà non è così. Nel saggio viene ricostruito, seppur per sommi capi, il processo storico che ha costruito tale diagnosi a partire da Emil Kraepelin (1856-1926) che, a fine ‘800, classifica i disturbi psichici osservando la loro evoluzione nel tempo. La sua fiducia sulla genesi organica della follia lo porta a distinguere la dementia praecox (una serie di forme morbose che si manifestano già prima dei 30 anni di età e che sfociano in demenza) dalla follia maniaco-depressiva (che ritorna alla normalità). Nel suo approccio i giudizi di valore hanno la meglio su quelli clinici e, pur senza ammetterlo, molti psichiatri ai giorni nostri sono intimamente e nichilisticamente kraepeliniani al pari del famigerato DSM-5. È chiaro, sottolinea Cipriano, come la visione pessimistica semplifichi il lavoro dello psichiatra: lo deresponsabilizza. L’incurabilità è comoda per i medici ma significa condanna certa per i pazienti.

Eugen Bleuler (1857-1939) sostiene, invece, che l’esito demenziale è raro e non la regola in questo disturbo, dunque introduce il termine “schizofrenia” provando a concedere ad essa una speranza terapeutica. Nonostante ciò la nozione di schizofrenia si è rivelata “una nuova prigione” perché molti psichiatri continuano a curare gli schizofrenici come dementi precoci. Bleuler distingue tra sintomi fondamentali ed accessori ed indica nella frammentazione delle funzioni psichiche il nucleo della malattia da cui derivano alterazioni dell’affettività, ambivalenza e tendenza ad isolarsi dalla realtà. Bleuer, sostiene Cipriano, pur soffermandosi eccessivamente sui sintomi accessori a discapito di quelli da lui stesso indicati come fondamentali, ha il merito, almeno sul piano teorico, di riportare «il più grave disturbo psichico dal territorio dell’incomprensibile e del non curabile a quello della comprensibilità e della curabilità» (p. 207).

Eugéne Minkowski (1885-1972), riprendendo i disturbi individuati come fondamentali nella schizofrenia da Bleur restringe ulteriormente il campo e si concentra in particolare sull’autismo considerato dallo studioso come perdita del senso della realtà. Cipriano pone l’accento sull’influenza esercitata dalla filosofia di Henri Bergson su Minkowski: «la nozione di intuizione (suggestione bergsoniana) diventa per Minkowski la chiave di volta per un metodo, un modo, una possibilità di incontrare la persona schizofrenica» (p. 210). Diviene così più importante cogliere le confidenze dei malati rispetto al mero elenco dei sintomi. Nel libro Schizofrenia (1927) Minkowski sottolinea come etichettare nosograficamente un essere umano significhi marchiarlo per sempre precludendosi la possibilità di comprenderlo. «È per questo che, sulla scorta del pensiero di Bergson, si è fatto promotore della cosiddetta diagnosi per penetrazione, cioè di una diagnosi intuitiva, non intellettiva, una diagnosi per sentimento, una diagnosi che sente, una gefüldiagnose, una diagnosi che ha bisogno di un modo particolare dello psichiatra di stare con quella persona, attento, interessato a lui e non ai suoi sintomi caldo e non freddo, affettivo e non staccato. Ecco che, in questo modo, diagnosi, comprensione, relazione e terapia sono un tutt’uno, diventano inestricabili» (p. 211). Nel libro viene ricostruita l’idea minkowskiana di schizofrenia ponendo l’accento sulla centralità della nozione di curabilità in psichiatria; partire dall’idea di incurabilità significa condannare a priori le persone. Purtroppo, continua Cipriano, oggi ad avere la meglio è la linea kraepleiniana rispetto a quella minkowskiana e dire schizofrenia significa dire incurabilità.

La messa in discussione di manicomi inizia a darsi soltanto negli anni ’60 di pari passo con il trattamento farmacologico a cui fanno ricorso anche gli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si passa dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si tratta di una sorta di passaggio obbligato utile a porre fine al manicomio tradizionale, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici risultano efficaci sui sintomi più eclatanti. «I sintomi cosiddetti floridi, nel giro di settimane o mesi, di solito si spengono. Lasciando il posto, per lo più, ad altri vissuti. Per esempio a uno stato di introflessione, di chiusura, di asocialità, insomma di schizoidia esasperata, di contatto vitale con il mondo ormai perduto, anche se i deliri o le allucinazioni magari non ci sono più» (pp. 223-224). Come mai gli psichiatri si concentrano su tali sintomi accessori trascurando «il vero disturbo generatore della schizofrenia, che è l’autismo, inteso come perdita del contatto vitale con la realtà?» (p. 224).

Secondo Cipriano qualche responsabilità deve essere imputata a Kurt Schneider (Psicopatologia clinica), psichiatra che a metà degli anni ’50 descrive lo schizofrenico molto diversamente da come viene indicato precedentemente da Minkowski. Se in quest’ultimo «dominava la visione di uno schizofrenico arroccato nel suo autismo, isolato, staccato […] In Schneider prevale la sensazione di una persona esposta al mondo esterno, che quasi ha perduto la sua pelle, senza più intimità, alla mercé degli altri» (p. 225). Nella visione schneideriana pare dominare l’idea di perdita dei confini dell’io (la perdita della meità) e da tale visione pare prendere il via «il filone più tipicamente clinico-nosografico della schizofrenia, che disinteressandosi del disturbo generatore, ma interessandosi dei sintomi patognomonici, condizionerà fortemente la nosografia di questo disturbo, e dunque il manuale americano che dagli anni Cinquanta si è venuto ad affermare, manuale che schneiderianamente si professa ateoretico, disinteressato alle cause dei disturbi ma attento ai sintomi» (p. 225). Arriviamo così a quell’elenco burocratico dei sintomi delle schizofrenia del DSM-5 del 2013 che gli operatori del settore debbono considerare per «formulare una diagnosi così tanto grave, diagnosi che ancora non sappiamo se è un destino o una malattia: – due o più di questi sintomi, durante più di un mese, tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, abulia); – disfunzione sociale o lavorativa; – durata del disturbo per più di sei mesi; – esclusione di disturbi dell’umore o disturbo schizoaffettivo; – esclusione dell’uso di sostanze o patologie mediche» (p. 226).

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