Kurdistan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 06 Dec 2025 21:23:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’ultima duna https://www.carmillaonline.com/2023/01/03/lultima-duna/ Tue, 03 Jan 2023 22:55:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75429 Ovvero: uno scrittore in Forcolandia

di Nico Maccentelli

Cesare Battisti – L’ultima duna, romanzo – Edizioni Golem, 2022, pag. 272 € 18,00

Questa dovrebbe essere una normale recensione di un romanzo scritto da un autore che nella sua vita è stato principalmente sul piano professionale uno scrittore. Ma in un paese dove la forca viene innalzata a destra come a “sinistra”(1), dove la cultura dell’emergenza è sopraffazione culturale di ogni punto di vista critico e antagonista al sistema di potere dato, non è possibile limitarsi a una mera descrizione filologica [...]]]> Ovvero: uno scrittore in Forcolandia

di Nico Maccentelli

Cesare Battisti – L’ultima duna, romanzo – Edizioni Golem, 2022, pag. 272 € 18,00

Questa dovrebbe essere una normale recensione di un romanzo scritto da un autore che nella sua vita è stato principalmente sul piano professionale uno scrittore. Ma in un paese dove la forca viene innalzata a destra come a “sinistra”(1), dove la cultura dell’emergenza è sopraffazione culturale di ogni punto di vista critico e antagonista al sistema di potere dato, non è possibile limitarsi a una mera descrizione filologica di un’opera nata quasi miracolosamente in carcere.

In un paese dove viene dato il 41 bis a un anarchico (2) misurando non il reato, ma la sua irridicibilità e quindi “pericolosità” (per chi?), ma di più: dove esiste il 41 bis e ogni sorta di carcerazioe punitiva, dove i media fomentano questa logica fascista e additano sette adolescenti che fuggono dal Beccaria come degli spietati criminali, dove un uomo costretto a scappare per decenni, come nel caso del nostro autore, una volta preso viene esposto come un trofeo (3) a una gogna mediatica e in senso letterale, dove è finita la letteratura? Dov’è un’arte che non sia al servizio di questa emergenza perenne?

Ma come diceva Faber: “… dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fior…” (per altro il letame secondo i miei ricordi d’infanzia ha un ottimo profumo…), gli ottimi romanzi nascono da ottimi scrittori (4). È il caso di Cesare Battisti, all’ergastolo da un paio d’anni e nel peggiore dei modi, per i media e la giustizia di Forcolandia assassino e terrorista, per chi invece non se la beve e sa che gli assassini veri sono quelli della repressione di stato, della gestione pandemica e della guerra, per l’appunto è uno scrittore a pieno titolo nel pantheon del noir, che le teste di cazzo di regime lo vogliano o meno (5).

Scenari: dal deserto libico al Mediterraneo

Chiuso questo preambolo doveroso, con L’ultima duna, non vi trovate davanti al classico noir di alla Scebanenco, ma a un viaggio dentro le viscere di un inferno quotidiano che inizia in quelle case del disagio sociale, percorre migliaia di chilometri nella guerra in Medio Oriente e nord Africa dello schiavismo e della tortura, per tornare nei nostri inferni a due euro all’ora nei campi di pomodoro, tra caporali e altre vessazioni ben tollerate da ogni governo “che si rispetti”, dove l’unica congruità è il profitto.

In questo romanzo, l’odissea umana è un viaggio interiore, lungo i fili labili della memoria d’un uomo che deve ritrovare qualcosa e quel qualcosa è se stesso. La vita fatta a pezzi, da rimettere insieme tassello dopo tassello in un mosiaco frammentato irricomponibile nella narrazione viaggia lungo due binari paralleli del racconto e del vissuto, tra una grigia questura con una poliziotta che nella vita ha le sue gatte da pelare e il percorso di un uomo senza una meta apparente, ma che si crea da sé lungo le tappe di un itinerario che tocca tutti drammi imposti da fascismi vecchi e nuovi, con una sapienza da parte dell’autore delle circostanze, dei luoghi e delle pratiche umane che sono frutto di una documentazione che immagino essere stata difficoltosa per l’autore.

Scenari: Kobane

In Battisti la guerra e la miseria, le atrocità vissute dai protagonisti non sono mai frutto di un destino “cinico e baro”, ma il risultato di un’azione umana basata sulla sopraffazione. Di fondo c’è sempre un sistema di relazioni colonialista e razzista, classista e patriarcale. Quelle potenze militari e mafiose con la loro rete di criminali che abitano territori e vivono tra le popolazioni rendendo incerti con l’ambiguità, a ogni svolta della narrazione, i confini tra il bene il male.

Ma in tutto questo spuntano dal fango i fiori di una poesia che dà un senso di riscatto individuale e collettivo da una desolazione imposta, con l’amore e con la lotta della guerriglia curda. Così dai villaggi devastati dalle bombe e dai combattimenti nasce un’epica della Resistenza, che nel nostro contesto culturale abbiamo perso nelle liturgie dei “bellaciao” di maniera, elettorali, ma che Battisti restituisce alla letteratura dei dannati senza alcun filo di retorica, in quel “dover fare quello che si deve fare”, con le scarpe rotte, della nostra Resistenza. Fior di “antifascisti” da tastiera, avrebbero solo da imparare da ciò che compagni come Orso Tekoser (6) hanno compiuto e che autori come Battisti hanno saputo imprimere nella loro scrittura.

Combattenti delle JPG curde

Nel personaggio principale del romanzo, Aurelio, non c’è redenzione, ma la ricerca spasmodica di un filo interrotto nella propria vita. Eppure è proprio questo filo, perso e ritrovato e ancora perso, traccia labile di eventi dimenticati,  fatta di odori e sensazioni, e di un amore fragile e disperato, a condurlo alla verità, così semplice e al tempo stesso così intangibile. Se la struttura dell’opera è quella di un noir, possiamo collocare L’ultima duna in un crocevia tra letteratura di genere ben costruita e una narrativa improntata sulla forza emotiva e passionale dei personaggi, lontani dunque da straniamenti e fiction stereotipate, ma reali in una storia che è realtà pura e che induce a una presa di coscienza.

 

Note: 

1.  L’emergenzialismo è un modo di governare il paese e reprimere ogni forma di opposizione attraverso l’invenzione di nemici interni ed esterni e la loro criminalizzazione, con l’idea che lo stato, le istituzioni “democratiche” e i partiti siano portatori di democrazia e di convivenza civile, quando è vero l’opposto

2. Mi riferisco ad Alfredo Cospito, compagno anarchico prigioniero, in sciopero della fame da oltre 70 giorni (Bobby Sands morì al 66mo) per uscire dal 41bis

3. L’«esibizione» di Battisti all’aeroporto, dopo la sua cattura illegale in Bolivia, suggellano un’infamia forcaiola tramandata per decenni dai vecchi partiti a quelli nuovi come i 5 Stelle. E non è un caso che con le ultime elezioni di settembre, alcuni sinistrati expcisti odierni, con la sempiterna vocazione di “carabinieri” vedano in queste “nuove forze” ondivaghe (da Salvini a Letta in poche settimane) un opportunistico punto di approdo nello sfacelo di un sistema ormai del tutto oligarchico e tecnocratico, dove di democrazia rappresentativa non c’è più neppure l’odore

4. Per avere almeno una vaga idea delle peripezie con le quali Battisti ha dato vita a questo romanzo si veda qui.

5. Per una bibliografia di Cesare Battisti (da Wikipedia):

Disponibili in italiano
  • Travestito da uomo, Granata Press, Bologna, 1993 (Les habits d’ombre, Gallimard, Parigi, 1993)
  • L’orma rossa, Einaudi, 1999 (L’ombre rouge, Gallimard, Parigi, 1995)
  • L’ultimo sparo. Un «delinquente comune» nella guerriglia italiana, introduzione di Valerio Evangelisti, Derive-Approdi, Roma, 1998 (Dernières cartouches, Joelle Losfeld, Parigi, 1998)
  • Avenida Revolución, Nuovi Mondi Media, Ozzano nell’Emilia, 2003 (Avenida Revolución, Rivages, Parigi, 2001)
  • Faccia al muro, DeriveApprodi, Roma, 2012 (Face au mur, Parigi, Flammarion, 2012) 285 p. ISBN 978-2-08-127998-8
In francese
  • Nouvel an, nouvelle vie, Ed. Mille et une nuit, Parigi, 1994
  • Buena onda, Gallimard, Parigi, 1996
  • Copier coller, Flammarion, Parigi, 1997. Romanzo per ragazzi
  • J’aurai ta Pau, Balene, Parigi, 1997 (nella serie “Le Poulpe”)
  • Naples, Eden Production, Parigi, 1999. Raccolta di cinque racconti di Cesare Battisti, Jean-Jacques Busino, Carlo Lucarelli, Jean-Bernard Pouy e Tito Topin
  • Jamais plus sans fusil, du Masque, Parigi, 2000
  • Terres brûlées, (curatore), Rivages, Parigi, 2000
  • Le cargo sentimental, Joelle Losfeld, Parigi, 2003
  • Vittoria, Eden Production, Parigi, 2003
  • L’eau du diamant, du Masque, Parigi, 2006
  • Ma cavale, Grasset/Rivages, Parigi, 2006 (con prefazione di Bernard-Henri Lévy e postfazione di Fred Vargas)
In portoghese
  • Ser bambu, WMF Martins Fontes, 2010

6. Per sapere chi sia stato Lorenzo Orsetti, alias Orso Tekoser si veda qui.

 

 

]]>
Jin Jiyan Azadi – La rivoluzione delle donne in Kurdistan https://www.carmillaonline.com/2022/05/13/jin-jiyan-azadi-la-rivoluzione-delle-donne-in-kurdistan/ Fri, 13 May 2022 20:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71862 di Giovanni Iozzoli

A cura dell’Istituto Andrea Wolf (*) è uscito per Tamu Edizioni, il libro Jin Jiyan Azadi (Napoli, pagg. 445) che rappresenta, ad oggi, uno dei più esaustivi contributi per la ricostruzione della storia del movimento di liberazione del Kurdistan. E questo a partire da quella che è l’anima del movimento: l’emancipazione della donna, costruita in decenni di elaborazioni e lotte condotte fino al martirio.

Il protagonismo femminile è il filo conduttore di tutta la narrazione: la battaglia ideologica “interna” contro il patriarcato storico del Kurdistan, le prime forme di elaborazione [...]]]> di Giovanni Iozzoli

A cura dell’Istituto Andrea Wolf (*) è uscito per Tamu Edizioni, il libro Jin Jiyan Azadi (Napoli, pagg. 445) che rappresenta, ad oggi, uno dei più esaustivi contributi per la ricostruzione della storia del movimento di liberazione del Kurdistan. E questo a partire da quella che è l’anima del movimento: l’emancipazione della donna, costruita in decenni di elaborazioni e lotte condotte fino al martirio.

Il protagonismo femminile è il filo conduttore di tutta la narrazione: la battaglia ideologica “interna” contro il patriarcato storico del Kurdistan, le prime forme di elaborazione teorica, le pratiche costituenti di nuove istituzioni. Attraverso il sacrificio delle guerrigliere curde – dalle carceri alle montagne – si può leggere in controluce non solo la storia di un movimento di liberazione nazionale ma anche lo sviluppo di un punto di vista femminile rivoluzionario originale, diverso dai femminismi storici d’occidente. È proprio il peso del protagonismo femminile, le prassi solidale e ribelle che esso incarna, a ispirare la svolta ideologica guidata da Ocalan, verso la fine degli anni ’90, in direzione della teoria/prassi del Confederalismo democratico – un processo di superamento dell’idea della statualità socialista novecentesca in direzione di una nuova radicalità democratica delle istituzioni autonome.

Il libro è attraversato dalle biografie di donne dirigenti del PKK che hanno consapevolmente affrontato la morte in nome della vita, contribuendo con i loro corpi e la loro indomita testimonianza, a tenere in piedi la resistenza armata e la prospettiva rivoluzionaria. Se questa direzione rappresenterà  effettivamente un nuovo stadio di sviluppo del pensiero anticapitalistico, lo capiremo nei prossimi anni. Per il momento, grazie a libri come questo, possiamo attingere a quello che già rappresenta un patrimonio ricchissimo di esperienza ed eroismo popolare, dentro una storia nuova: una storia scritta anche con il sangue delle donne.

Di seguito un estratto dal prologo del libro.

***

Questo testo è stato scritto nel settimo anniversario del massacro di tre rivoluzionarie a Parigi. Per noi donne curde cominciava allora una lunga giornata che sarebbe trascorsa sotto l’ombra della sofferenza e della rabbia. L’anniversario ci ricorda il dolore che si è fatto strada in noi e che in giorni come questo sentiamo più profondamente; quante vite abbiamo perso, quante ne abbiamo date per il bene della lotta per la libertà. (…) La nostra lotta è cresciuta e ha superato le frontiere grazie al loro ricordo e a tutto quello che hanno creato, non solo tre rivoluzionarie, ma migliaia di donne hanno dato la propria vita per questa lotta di quasi mezzo secolo. Il ghiaccio che il patriarcato ha innestato nella nostra memoria, corpo, coscienza e mente, si sta sciogliendo. (…) Il sangue scorre dalle lande delle dee madri fino alle vene della terra. Si sta sollevando il manto di nebbia caduto sulla storia delle donne, nascosta per cinquemila anni. E sta convergendo con la nostra lunga, dolorosa e dura odissea. Sara è stata la prima, e Hevrin Khalaf è l’ultimo anello che ha fatto parte di questa cultura della resistenza. Desideriamo che sia l’ultima, vogliamo restare sempre vive. Perchè la nostra lotta continua e il sangue scorre nelle vene del mondo. (…) Ora, le pietre che colpiscono il corpo di una donna lapidata in Iran raggiungono i nostri corpi. Siamo rivoluzionarie come il fazzoletto bianco che pende dalla punta di un bastone impugnato da una giovane donna iraniana. Ora siamo una parola che si aggiunge al grido mee too di una donna nera in America; siamo il coraggio delle donne che dall’Afghanistan salutano il Rojava. Con la luce che arde negli occhi di una guerrigliera che costruisce il futuro sulle montagne delle Filippine, appicchiamo il fuoco alimentato da una guerrigliera sulle montagne del Kurdistan. Le oscure gallerie della storia si stanno illuminando una a una. Il silenzio che copriva i sussurri nella gallerie buie, si sta trasformando in parole, grida. Non importa dove o quando, questa voce ci dice: la resistenza delle donne è un torrente che non si secca mai, è un fiume che, per quanto si cerchi di ostacolarne il passaggio, troverà sempre la sua strada.

Questo libro è il risultato del lavoro collettivo di un gruppo di donne che vogliono abbandonarsi al flusso di quel fiume e ripercorrerne la storia. E’ il risultato delle testimonianze di donne e della consapevolezza di un gruppo di compagne internazionaliste, coscienti che l’illuminazione della storia è più di un indagine, è una ricerca di senso, un primo passo verso la creazione di se stesse. (…)

In oltre quarant’anni di lotta, le donne curde non hanno avuto neanche una volta la possibilità di fermarsi e respirare, di descrivere e affrontare quello che hanno vissuto. Ci sono molte storie che non sono ancora state raccontate, molte esperienze che non si sono trasformate in coscienza e tante realtà che non hanno avuto l’opportunità di aprire la strada alla verità. Nascosta nelle nostre coscienze, nei ricordi, nei dolori, c’è la storia non scritta di migliaia di donne. Ora, il lavoro condiviso delle nostre compagne ha unito gli sforzi per portare alla luce questa storia. Esse si sono assunte un compito tanto difficile quanto significativo – scrivere la storia del Movimento delle donne curde. Non hanno solo registrato quanto visto e ascoltato. Mentre annotavano le conoscenze, le esperienze e i dolori sanguinavano, sentivano il dolore, si riempivano di speranza e in questo modo completavano una parte della loro identità che era mancante. Hanno mostrato l’esempio più bello, ovvero lo sforzo di capire e far capire. Ecco perché questo lavoro, che crediamo illuminerà il cammino di tutte le donne del mondo che stanno portando avanti la lotta per la libertà – non importa dove, chi, né quando -, è molto prezioso: esso trasforma le esperienze di quarant’anni di lotta delle donne curde, in un esempio. Ci auguriamo che questo libro, che trasmette la bellezza, l’estetica e il potere formativo del creare attraverso la vita, sia inteso come uno sforzo per capire e far capire, e che aumenti il desiderio di creare insieme. Auspichiamo che, attraverso quanto raccontato tra le sue pagine, l’offerta di ottenere e conoscere la libertà che filtra dalle nostre esperienze in quanto donne curde, dia forza alla marcia per la libertà delle altre donne (…)

 

(*) L’Istituto Andrea Wolf è nato nel 2019 in Rojava, È luogo di incontro per donne di tutto il mondo che vi si ritrovano per organizzare seminari, formazioni, ricerche e interviste con le persone che vivono e combattono nella Siria del Nord e dell’Est, e condividere saperi ed esperienze.


Il volume sarà presentato alla  manifestazione valsusina del movimento NoTav  “Una montagna di libri” domenica 29 maggio ore 11:30 – Bussoleno

]]>
Orologi e cacciaviti. Tempo, praxis, storia. https://www.carmillaonline.com/2020/09/08/orologi-e-cacciaviti-tempo-praxis-storia/ Tue, 08 Sep 2020 20:50:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62492 di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

[...]]]>
di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

Come nei libri precedenti di Barbara Balzerani, anche Lettera a mio padre, edito da DeriveApprodi, è una discesa e un’immersione nelle crepe della Storia, tra gli scarti della storia ufficiale senza i quali però nessuna storia può essere raccontata se non trasfigurandola, e nessuna via di fuga collettiva da un sistema sociale basato su profitto, sfruttamento e miseria, pensata. È questa la scrittura e la concezione della Storia che Barbara propone nei suoi libri, messa a punto con sempre più affinata maestria nel suo ormai ultraventennale percorso letterario.

Una prospettiva che permette di cogliere le dissonanze, i punti di frattura che smentiscono la presunta linearità del tempo e dei fatti. Un viaggio che posa lo sguardo sugli “invisibili al potere”, interni alle “dissonanze della vita collettiva”, compagni di viaggio che Barbara ha incontrato sulle strade percorse in questi anni di difficile resistenza, fuori dal terreno viscido dell’indistinto che tutto fagocita, laddove è possibile lo squarcio di luce che smaschera i meccanismi pervasivi di un sistema di sfruttamento stritolante, dove è possibile la rottura imprevista, l’incontrollabilità al potere. Ma anche lontano dai sentieri ormai infertili di quel Novecento che ha attraversato e che l’ha attraversata nelle viscere. E da questo viaggio torna restituendoci un quadro a più colori, a più voci e accenti, tessuto in trame di inconciliabilità al capitale che assumono un volto che si fa sempre più riconoscibile.

Al pari dei libri precedenti, anche Lettera a mio padre è scrittura che si fa filosofia, storia e politica, un ulteriore passo in quell’opera di ricerca e ricomposizione di un vocabolario comune, di un pensiero forte capaci di ridisegnare un orizzonte rivoluzionario contro la menzogna dell’unico mondo possibile. E che è il filo conduttore che attraversa tutta la scrittura di Barbara; un patrimonio partigiano di cui abbiamo più che mai bisogno per orientarci.

Una lettera al padre per raccontargli come corre il mondo da quando lui non c’è più, per dirgli che a differenza del suo mondo dove si lottava per l’indispensabile, ora si vive e si muore per e di consumo, nella miseria. Un operaio senza fabbrica per scelta, di quelli dell’inizio del secolo scorso, cresciuti prima dell’avvento dell’usa e getta, della serialità, che fa dell’esperienza pratica, della capacità delle mani di riparare, dell’ingegno della creatività pratica a trovare soluzioni, il suo valore, e il metro per misurare l’inutilità dei padroni.

Come è stato possibile che proprio lui cadesse nell’inganno padronale mortifero del fascismo, nella mancanza di fiducia nei propri simili, nella prospettiva fallace della salvezza individuale? Cosa l’ha trattenuto, anni più tardi, dal sostenere e condividere – insieme a quegli altri padri dell’officina – ragioni e pane con gli insorti dell’unico e ultimo tentativo rivoluzionario della nostra storia novecentesca? Riattraversamento di una frattura mai sanata sul piano personale e sul piano storico.

Come è stato possibile che cadesse negli ingranaggi delle compatibilità illudendosi di esserne sfuggito, che ripiegasse nella rassegnazione di un mondo che è raccontato come se sempre dovesse essere dominato dall’ingiustizia di chi comanda, nell’inganno di padroni abili a macinare, assorbire e trasfigurare, a disarmare le menti, confondendo nell’indistinguibilità oppressi e oppressori, con la retorica mistificatoria delle sempreverdi emergenze e degli annessi solidarismi nazionali?

Questioni che ci precipitano nelle contraddizioni irrisolte del secolo scorso, ma ancora aperte, alla radice di una sconfitta che ci ha irretiti. Eppure proprio il lascito di sapere ed esperienza di quel padre, un nostro padre, può essere ripercorso, per riattraversare la storia in un altro modo, e può esserci di soccorso per l’oggi, in un tempo che corre alla velocità irraggiungibile del 5G, che ci impedisce di capire la concretezza del reale nascosta dentro l’intelligenza artificiale. Abbiamo bisogno di un altro tempo. Nel racconto al padre, ciò che lui ha lasciato come valore continua ad essere ciò che regge il mondo, perché senza mani sapienti, senza la materialità dei corpi, l’intelligenza artificiale e l’economia immateriale che ci comandano non si sorreggono. Liberarsi dal tempo disumanizzato del capitale riappropriandosi di quel sapere pratico – del gesto e della conoscenza che assomigliano a quelli dell’artigiano, frutto di un accumulo di esperienza tramandata che ha selezionato materiali e strumenti adatti alla realizzazione non solo dell’utile e durevole ma anche del bello, diritto inalienabile degli esseri umani, in una storia lunga e irregolare, fatta di biforcazioni, di strade non praticate, sepolte e dimenticate sotto le macerie del tempo veloce del progresso – può essere oggi la via di fuga collettiva per sottrarsi al sistema di sfruttamento e devastazione cui siamo sottomessi, fino a distruggerlo, disseppellendo l’inespresso, scovando il potenzialmente realizzabile che sta nel passato.

In questo dialogo immaginato con il padre, che nell’incedere ricorda in alcuni passaggi l’epica brechtiana, Barbara riprende e approfondisce il discorso iniziato in L’ho sempre saputo, una ricerca nella storia e nel patrimonio dei vinti, delle armi della critica pratica rimaste integre nello scontro con il capitale, che hanno retto alla tempesta del progresso. E tra le macerie pratico-teoriche del Novecento rivoluzionario, ricerca quel che può essere ancora utile, fili spezzati da riannodare, ponendo però l’urgenza di staccarsi da ciò che oggi è peso morto e che è anche una delle ragioni che ha permesso al nemico di aumentare la sua ferocia, impune.

Non l’assalto al Palazzo d’Inverno – e con esso la scienza sociale che l’ha sostenuto – ma sabotaggio delle fondamenta, sottrazione alle compatibilità, porta d’ingresso negli ingranaggi del capitale. Sottrazione come via di fuga che erode quelle fondamenta e costruisce al tempo stesso altre forme di vivere collettive. “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, continua ad indicare la bussola. Dal racconto delle pratiche di lotta e di resistenza che ci giungono dal Kurdistan alla Zad, dai Gilet gialli agli zapatisti, agli operai argentini in autogestione che cancellano la divisione del lavoro, agli illegali ed irregolari, sempre più numerosi, delle periferie dell’Occidente colonialista, si ridelinea una nuova scienza sociale.

È il frutto dell’esperienza pratica di chi si organizza nel segno dell’autodeterminazione, dell’autogoverno; riattivando le relazioni sociali e la cultura del vicinato, che significa in fondo ricostruire tessuti connettivi di solidarietà senza lasciarsi neutralizzare da un potere che ha dato prova di quanto gli sia facile appropriarsene e soffocarla nei suoi tentacoli, riducendola a compassionevole spot pubblicitario a costo zero per bulimici consumatori atomizzati; trame di alleanze, di aiuto mutuo, cacciaviti per inceppare gli ingranaggi, zone da prendere e da difendere, perché vivere liberi dai padroni è possibile, ed è condizione perché si riconquisti dignità come comunità umana. “Fino a che la dignità non diventi consuetudine”, come risuona dalle piazze del Sudamerica in rivolta.

Praxis associata alla visionarietà che contraddistingue le eresie quel che scorre nelle pagine del libro, che in fondo è quello che Barbara porta con sé della sua storia politica, una pagina della storia scritta dagli oppressi che alzano la testa, non negoziabile, che sta nel sangue e nella carne, non una parentesi della vita. Che sta nella scrittura, densa, stratificata di significati, che ricerca, seleziona e cesella le parole con la cura e il sapere dell’artigiano.

Lettera a mio padre è un libro che si libera del peso di una tradizione marxista che ha mostrato le corde puntando sull’idea di sviluppo e di produttivismo. Lo sviluppo delle forze produttive – come indicano le esperienze storiche sperimentate, pur nella loro portata emancipatrice e nel loro significato storico – è stato incapace di spezzare il funzionamento del capitale. Ha usato, rovesciandoli, gli stessi meccanismi e la stessa logica del suo antagonista, ed è rimasto impigliato all’interno dell’idea occidentale di progresso propria del capitalismo. Proprio sul continuum della Storia è inciampata la concezione marxiana della Storia, non riuscendo a sottrarsene e permettendo che il capitale battesse il suo tempo.

Da questi limiti parte la riflessione di Barbara, che si inserisce e fa propria l’eterodossia benjaminiana, ripresa in tempi più recenti da Agamben. Ne riattiva l’idea di sospensione del flusso omogeneo e progressivo del tempo, sospensione in cui il kairos irrompe, l’arresto del tempo, l’attimo giusto sottratto al correre del progresso contro l’abbaglio della meta nel futuro lontano. La rivoluzione come “freno d’emergenza”, nelle parole di Benjamin, che ci ricorda come lo stato d’emergenza sia la regola. “Il tempo papà, il tempo”, scrive Barbara, perché non c’è cambiamento del mondo senza cambiamento del tempo. “Sparare agli orologi” come fecero i comunardi, ci ricorda la storia degli oppressi, e ci mostra la mano dell’operaio che inceppando la catena di montaggio fa saltare l’ordine e il tempo, perché il tempo della rottura è sempre tempo presente.

Comunismo comunitario, mutuo soccorso, economia comunitaria, autogoverno, autonomia basata sulla messa in comune, sono il patrimonio pratico-concettuale annidato nelle crepe della nostra storia – che emergono spazzolando la storia contropelo, come dice Benjamin, come ci racconta Barbara che va a recuperarle nella storia degli oppressi, dove si manifestano in pratiche contrarie alla compatibilità capitalistica, al tempo lineare in progresso – e che riecheggiano allo stesso modo nelle storie degli altri, schiacciate sotto una pretesa universalistica che è appartenuta anche alla tradizione marxista, da cui dovremmo affrancarci prendendo atto della loro irriducibilità.

Abbiamo il cacciavite per bloccare gli ingranaggi, ce lo mostrano nei quattro canti del pianeta gli “scarti”, quelli che anche noi abbiamo considerato niente più che “sopravvivenze”, come ci ha suggerito l’antropologia, scienza del colonialismo per eccellenza, nella sua pretesa di spiegare agli Altri chi essi fossero. C’è un sapere e ci sono ferramenta che hanno continuato ad essere tramandati, ai margini, quasi clandestinamente nella loro incompatibilità al capitale, come fuoco che cova sotto la cenere della centralità occidentale novecentesca. Ci indicano che si può ricreare comunità, risignificare appartenenza, compiti irrimandabili per combattere la devastazione capitalistica.

Prendere un cacciavite – riappropriazione di conoscenza e gesto – significa liberarsi dalla catena della deresponsabilizzazione che ci ha ridotti allo stato di minor età, ricacciare il principio della delega e della passività, e agire consapevolmente per costruire un tempo e un mondo autodeterminato, libero dai padroni. Risignificare, costruire un vocabolario comune che riagganci le parole all’esperienza, al terreno reale e alle relazioni interpersonali e collettive che le hanno create, grattandole dalle incrostazioni ideologiche e risignificandole della praxis che le sostanzia. Per una praxis politica che nel suo farsi possa risignificare comunismo. Il tempo è adesso.

]]>
Una critica radicale della conoscenza di stampo positivista e patriarcale https://www.carmillaonline.com/2020/05/20/per-una-critica-radicale-della-conoscenza/ Wed, 20 May 2020 20:30:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60106 di Sandro Moiso

Jineolojî, a cura del Comitato europeo di Jineolojî, pubblicato in collaborazione con le Edizioni Tabor, prima edizione italiana ottobre 2018, pp. 110, 3,00 euro

E’ un opuscolo ricco di spunti e di riflessioni quello che, con un po’ di colpevole ritardo, viene qui recensito. Un libello, anche se il diminutivo dovuto alle ridotte dimensioni e al numero contenuto di pagine non intende assolutamente sminuirne l’importanza, che definisce una scienza alternativa delle donne, sviluppatasi a partire dalle riflessioni di Abdullah Öcalan e dalle esperienze di lotta e liberazione portate avanti [...]]]> di Sandro Moiso

Jineolojî, a cura del Comitato europeo di Jineolojî, pubblicato in collaborazione con le Edizioni Tabor, prima edizione italiana ottobre 2018, pp. 110, 3,00 euro

E’ un opuscolo ricco di spunti e di riflessioni quello che, con un po’ di colpevole ritardo, viene qui recensito. Un libello, anche se il diminutivo dovuto alle ridotte dimensioni e al numero contenuto di pagine non intende assolutamente sminuirne l’importanza, che definisce una scienza alternativa delle donne, sviluppatasi a partire dalle riflessioni di Abdullah Öcalan e dalle esperienze di lotta e liberazione portate avanti dalle donne del Kurdistan.

Riflessioni, sia quelle del reber del popolo curdo che delle donne impegnate nella lotta di liberazione, che a partire dall’esclusione delle donne e del loro addomesticamento all’interno delle società patriarcali, fondate sulla proprietà privata e, successivamente, sul modo di produzione capitalistico, giungono a porre questioni che vanno al di là di quelle poste dalla condizione femminile nel corso dei secoli.

E’ sostanzialmente un’attenta critica delle scienze sociali, così come sono venute definendosi dall’età del Positivismo in avanti, quella che percorre la prima metà del libro. Un sistema di divisioni specialistiche in discipline che sempre più, con la scusa della rigida compartimentazione del sapere, hanno allontanato dal campo degli studi non soltanto le donne in quanto corpi reali, individuali e sociali, sottoposti a usanze e discipline determinate da specifici modi di produzione, ma i bisogni sociali concreti dall’ambito degli studi sociologici.

Studi determinati da un ben preciso sistema di potere e disciplinamento, basato sia sul pregiudizio di genere, destinato a mantenere nella sottomissione l’universo femminile, sia su quello di classe, destinato a mantenere determinati privilegi politico-economici in un ambito ristretto dello stesso universo maschile.

Studi e ricerche che hanno però basato la propria autorevolezza su un concetto di scienza che è servito, almeno dal xvi secolo in poi, ad escludere dal discorso della conoscenza generale, utile allo sviluppo e al benessere della specie, tutto ciò che avrebbe potuto inficiare il privilegio delle classi dominanti e maschile.
Una scienza ‘patriarcale’ che si è sviluppata fin dalle grandi religioni rivelate (ebraica, cristiana e mussulmana), con l’esclusione di figure di rilievo di carattere femminile all’interno del processo di formazione e conduzione del cosmo e delle sue leggi, che ha fortemente influenzato e favorito formazioni sociali basate sull’emarginazione del ruolo delle donne all’interno della società e una progressiva perdita di centralità della Natura in quanto eco-sistema con cui convivere e ridotta invece a risorsa da sottomettere e conquistare.

Più volte il testo rinvia al concetto di natura selvaggia che, come la donna, deve essere sottomessa e, se occorre (ma a quanto pare lo è sempre), violentata per permettere un corretto funzionamento del sistema patriarcale basato sullo sfruttamento di genere e di classe. Un’analisi che va ben oltre le banalità dell’odierno Me Too hollywoodiano che, nonostante lo scalpore destato, non riesce a liberarsi dai dettami della società dello spettacolo mercantile.

Un andare oltre che mette in discussione l’ordine scientifico su cui il sistema di appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, la cui credibilità sembra essere andata definitivamente in pezzi con l’odierna pandemia e le infinite ricette scientifiche suggerite per contrastarla, si è basato nel corso degli ultimi quattro secoli. Sistema di dominio, di genere e di classe, che ha apparentemente sostituito il principio religioso autoritari delle religioni monoteistiche con un principio ancora più autoritario basato sullo scientismo che, come già sosteneva Galileo (in un’età ancora eroica della scienza), doveva defalcare tutti gli impedimenti dalle sue ipotesi e formulazioni.

Tutto ciò che poteva contraddire le ipotesi scientifiche ‘predominanti’ ha dovuto quindi essere progressivamente rimosso e cancellato, così come di pari passo tutti gli ordini sociali, passati o futuri, che potevano respingere la validità e l’assolutismo dell’ordine vigente, dovevano essere negati, distrutti e addomesticati.

Che si trattasse infatti delle religioni animistiche oppure basate sull’idea della Grande Dea Madre, con la loro spiegazione più complessa e attinente al reale rapporto tra specie e natura, che delle comunità basate sulla gestione comunitaria dei bisogni reali e sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, con il loro rifiuto della mercificazione del prodotto sociale e dei rapporti umani, non vi è stata mai altra possibilità per i detentori del potere statale ed economico che quella di negare, quasi sempre armi e leggi alla mano, quelle possibili alternative.

In questo senso, per secoli, si sono confrontate due realtà sociali possibili: una patriarcale, basata sulla proprietà privata e sulle leggi dello Stato, e una comunista, matriarcale e/o matrilineare, intrinsecamente legata ad una differente funzione della donna al suo interno e al riconoscimento della sua importante funzione sia nella vita sociale che nella riproduzione della vita stessa. Separare il primo riconoscimento dal secondo, riducendo come nella società classica o in quelle determinate dai monoteismi la donna a fattrice sottomessa, significa da sempre negare, non soltanto alle donne, l’alternativa di una società più democratica ma anche più equa economicamente anche per la parte maschile della società.

Repressione delle comunità autonome, politicamente economicamente e culturalmente, e repressione delle donne sono andate nei secoli di pari passo e con ciò si è proceduti anche sulla strada di una sbrigativa eliminazione di saperi e conoscenze che per lungo tempo avevano accompagnato e favorito la sopravvivenza e lo sviluppo della specie. Una condizione durata molto più a lungo di quella attualmente dominante e che, per paradosso, oggi sembra rendersi necessaria per superare l’impasse creata a livello planetari dal capitalismo e da un patriarcato oggi ancora difficilmente giustificabili.

Ogni grande cambiamento ha bisogno di produrre nuove forme di conoscenza, poiché non si può superare l’esistente senza negarne e superarne le ipotesi e la conoscenza che lo fondano e giustificano.
L’opera delle donne curde, di Öcalan, dei partiti che li/le rappresentano costituiscono ancora un piccolo, ma significativo contributo in questa direzione. Questo probabilmente, è stato possibile proprio grazie all’assenza di uno Stato nazionale curdo, che si sarebbe, altrimenti, preoccupato ex-post, come tutti gli altri stati, di giustificare e fondare la propria esistenza e la propria autorità non sui bisogni reali e la conoscenza collettiva, ma su leggi giuridiche e ‘scientifiche’ selezionate e rafforzate in nome del superiore principio di legittimità statuale.

Ancora una volta soltanto la lotta paga e insegna, come sempre è accaduto nella Storia, che è proprio nella lotta che le donne possono tornare a riconquistare e svolgere il loro inestimabile ruolo di conoscenza e organizzazione.
Il testo contribuisce così ad aprire tutte queste porte ed altre ancora, rivelando tutta la sua potenza ed utilità ben al di là dei problemi collegati alla liberazione e all’indipendenza delle donne e del popolo curdo, come tutte le lettrici e i lettori potranno facilmente scoprire scorrendone le pagine.

]]>
Ancora sugli eroi del nostro tempo https://www.carmillaonline.com/2019/11/06/ancora-sugli-eroi-del-nostro-tempo/ Wed, 06 Nov 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55834 di Sandro Moiso

Omaggio al Rojava. Il fronte siriano, la rivoluzione confederale e la lotta contro il jihadismo raccontati dai combattenti internazionali YPG, RED STAR Press, Roma 2019, pp. 212, 16 euro

“Saper riconoscere chi o cosa in mezzo all’inferno non è inferno è dargli spazio, farlo durare”

Poche settimane or sono, in occasione di una serata in omaggio a Ivan Della Mea uno degli intervenuti ha affermato che per il cantautore comunista l’ultimo degli eroi era stato Che Guevara. Quelle parole, pronunciate da qualcuno che sembrava fare proprio il giudizio di [...]]]> di Sandro Moiso

Omaggio al Rojava. Il fronte siriano, la rivoluzione confederale e la lotta contro il jihadismo raccontati dai combattenti internazionali YPG, RED STAR Press, Roma 2019, pp. 212, 16 euro

“Saper riconoscere chi o cosa
in mezzo all’inferno non è inferno
è dargli spazio, farlo durare”

Poche settimane or sono, in occasione di una serata in omaggio a Ivan Della Mea uno degli intervenuti ha affermato che per il cantautore comunista l’ultimo degli eroi era stato Che Guevara.
Quelle parole, pronunciate da qualcuno che sembrava fare proprio il giudizio di Ivan mi hanno fatto comprendere, ancora una volta, l’enorme iato che è andato aprendosi tra la cosiddetta sinistra, non solo istituzionale, e la realtà del mondo attuale.

Senza voler nulla togliere né alla figura del Che, né tanto meno a quella di Della Mea mi sembra palese che una simile mancanza di produzione di figure adatte a nutrire l’immaginario antagonista contemporaneo sia emblematico, almeno per quanto riguarda l’italietta con cui dobbiamo fare giornalmente i conti, di una crisi profonda di una frazione politica della società, sempre più rinchiusa nelle sue sconfitte e nei suoi superati modelli novecenteschi.

Come è noto Bertolt Brecht, nella sua Vita di Galileo, aveva affermato: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Purtroppo, o per fortuna dipende solo dai punti di vista, il mondo contemporaneo, soprattutto quello giovanile, ha ancora un forte bisogno di eroi, ovvero di modelli di riferimento in grado di catalizzare energie, desideri, speranze e rabbia di chi comprende, anche solo inconsciamente, di non essere ancora uscito, sia individualmente che socialmente, da ciò che nel XIX secolo Marx definiva come la ‘preistoria dell’umanità’.

Il recente successo della figura del Joker nelle rivolta sociali, soprattutto cilene e libanesi, che ha rapidamente sostituito la maschera di Anonymous tratta dal fumetto e dal film V for Vendetta, ci parla non tanto di un predominio dell’industria culturale e cinematografica americana nella cultura di massa contemporanea, quanto piuttosto della ricerca di un modello che non ripeta soltanto le stantie ricette e mitografie di una sinistra novecentesca non solo sconfitta, ma anche decisamente traditrice nel suo percorso storico (dalla Russia alla Cina e dall’Europa ad ogni angolo del pianeta) delle aspettative dei diseredati di tutto il mondo. Soprattutto in un momento in cui, contraddicendo le promesse del capitalismo e confermando le previsioni di Karl Marx, la proletarizzazione è andata allargandosi con l’immiserimento di quelle che un tempo erano definite classi medie.

Ecco allora che il testo appena pubblicato dalla Red Star Press, i cui proventi per esplicita volontà degli autori contribuiranno alla costituzione dell’Associazione Culturale “Lorenzo Orsetti”, può costituire un autentico manifesto per il nuovo eroe contemporaneo, anzi per i nuovi eroi contemporanei. Eroi anonimi, conosciuti principalmente attraverso il nome di battaglia, mossi da motivazioni diverse e non uniti da un’unica appartenenza politica e tanto meno partitica. Spesso accomunati dalla giovane età (anche se questa è una caratteristica costante degli eroi di sempre) e, soprattutto dall’aver saputo riconoscere immediatamente, in maniera quasi epidermica più che profondamente cosciente, una causa in cui ritrovarsi e per cui valesse la pena di rischiare la prigionia e anche la morte.

Vengono da molti paesi (Italia, Francia, Irlanda, Catalogna, Stati Uniti, Russia, Albania, Germania, Paese Basco e Québec, ma altri paesi avrebbero potuto essere aggiunti se fossero stati diversi gli autori scelti per la selezione della realizzazione del libro) e, anche se nel libro attuale le testimonianza sono soltanto maschili, appartengono indifferentemente ai due sessi. Si spera infatti in una successiva pubblicazione di memorie di donne combattenti per la stessa causa.

La causa, lo rivela il titolo, è in questo caso quella dell’indipendenza curda e del Rojava in particolare e tutte le testimonianze sono tratte dalle esperienze fatte o nell’IFB (International Freedom Battalion) oppure nell’YPG (Yekîneyên Parastina Gel – Unità di Protezione Popolare) a fianco dei combattenti e delle combattenti kurdo-siriane.

Come si afferma nelle pagine introduttive da parte dei curatori, sarebbe estremamente riduttivo leggere la partecipazione degli internazionalisti alle battaglie condotte dai curdi nel nord della Siria in chiave esclusivamente anti-ISIS. Questa è una motivazione spesso messa in primo piano dai media, anche se in realtà anche chi è partito inizialmente per combattere a fianco di una causa anti-fascista e contraria al radicalismo islamico più efferato si è trovato ben presto coinvolto nella difesa di un esperimento politico e sociale, quella del confederalismo democratico e dell’organizzazione politico-militare dal basso, ancora più importante e significativa della prima.

Sono giovani anarchici, comunisti oppure privi di ideologia politica di partenza a parlarci delle loro esperienze, al fronte e non, attraverso le pagine del libro. Alcuni di loro hanno fatto un solo turno nell’YPG e nell’IFB, per poi dedicarsi a propagandare la causa del Rojava una volta tornati nel paese d’origine; altri hanno fatto più turni nelle due formazioni e non vedono l’ora di poter tornare là per continuare a dare il loro contributo in prima linea.

Esprimono talvolta pareri diversi su differenti aspetti della vita, della disciplina, dei rapporti intercorsi con gli altri combattenti arabi, turcomanni e curdi, ma tutti esprimono una vivacità, una determinazione, un coraggio quasi sempre scevro da qualsiasi tipo di retorica. Qualcuno si concentra maggiormente sugli aspetti militari, per esempio il russo-polacco Ilyas, altri sulla vita e la disciplina dei tabur (plotoni) di appartenenza. Tutti hanno conosciuto combattenti, uomini e donne, morti in seguito durante le operazioni e spesso, come alcuni compagni-combattenti italiani e di altra nazionalità, hanno dovuto affrontare dei guai con la giustizia o l’informazione manipolata dei media ufficiali una volta rientrati nei paesi di provenienza.

Ma è tutta la brutalità, la casualità, la crudeltà e la violenza della guerra a riverberare dalle pagine di Omaggio al Rojava. La violenza di cui i pacifisti imbelli, gli intellettuali da salotto e i compagni da osteria non vogliono sentire parlare e che, anzi, non riescono neppure ad immaginare proprio perché non riescono a immaginare, e nemmeno a comprendere, lo scontro di classe così come esso si manifesta al suo culmine e ridotto alla sua essenza: quello della guerra di classe e civile.
Senza romanticismo e senza paraocchi ideologici e moralistici.

“Arrivo in paese distrutto, sono giorni che non mi lavo, e sono completamente coperto di sangue. Non mi interessa, mi butto su un materasso a terra e crollo in un sonno profondo. La mattina dopo uno degli anziani mi accompagna in un’altra casa. Mi offrono mille sigarette, mille çay (tè curdo), e una colazione abbondante. Accetto tutto più che volentieri. Mi sono lavato le mani come meglio potevo, ma l’acqua era poca, e l’odore del sangue attraversava la tazza fumante di the. Mi dicono di restare un paio di giorni per riposare, ma non mi interessa, a parte qualche acciacco non sono ferito e posso continuare.
Insistono, gli dico che voglio solo la mia arma e raggiungere l’altro gruppo sulla collina. Questa volta accettano, e dopo un paio d’ore e qualche telefonata un compagni mi viene a prendere: Ringrazio per la colazione, ci salutiamo con grande calore. Scoprirò solo poi che tutti i presenti in quella stanza sarebbero morti il giorno dopo.
La prima notte sulla nuova collina è la notte dei “cobra”. L’elicottero ci vola proprio sopra, spara raffiche a caso su tutti i cespugli. Aspettiamo che si allontani per fare manovra e girarci e arretriamo verso altri cespugli. Passiamo lì la notte, senza coperte, con le orecchie tese al cielo. Risentire il giorno dopo, sotto il sacco a pelo, il calore riaffluire nelle gambe sarà una delle sensazioni più belle che ricordo.
Stiamo fermi due giorni, e non capisco come mai. Il volo dei droni e degli aerei da guerra si fa più intenso. Diluvia, sono bagnato fradicio, ed è mentre mi chiedo come farò ad affrontare il gelo della notte in quelle condizioni che mi avvertono che ci muoviamo. Una squadra più fresca prenderà il nostro posto e avremo qualche giorno per riposare.
Ringrazio il cielo e raccolgo in fretta le mie cose.
Al villaggio noto subito che l’atmosfera è molto cambiata, non c’è più quasi nessuno, e quei pochi che ci sono fanno molta più attenzione. Le facce sono tese, e c’è poca voglia di scherzare.
Vedo le macerie dell’edificio dove avevo fatto colazione, many sheit dice un compagno.
Gli aerei che in quel giorno si erano sentiti passare avevano colpito molto duramente. Buona parte dei combattenti erano stati spostati sulle colline, altri in qualche postazione più sicura.
Avrei voluto scrivere un finale diverso, uno in cui magari strappavamo il villaggio al nemico senza problemi, ma la realtà non è un bel racconto, e in fin dei conti per questa storia un finale ancora non c’è; sulle colline di Afrin si resiste, si vince e si perde, si vive e si muore, ma se la lotta non si spegne vuol dire che la speranza vive ancora”1

E’ proprio nelle parole di Tekosher, forse annoverabili tra le ultime righe scritte da Lorenzo Orsetti, che chiudono il libro, che possiamo trovare tutto lo spirito delle testimonianze in esso racchiuse. Testimonianze che rinviano alla memoria di altri eroi anonimi di altre guerre di classe, dalla Spagna alla Resistenza italiana, spesso tradite e quasi sempre sconfitte nei loro fini ultimi, ma utili a rinnovare la speranza in un mondo altro e diverso dall’attuale.
Quello in cui finalmente non ci sarà più bisogno di eroi.


  1. Omaggio al Rojava, pp. 209-210  

]]>
Un eroe del nostro tempo https://www.carmillaonline.com/2019/10/30/un-eroe-del-nostro-tempo/ Wed, 30 Oct 2019 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55768 Abdullah Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 40; Confederalismo democratico, pp. 40; Liberare la vita – La rivoluzione delle donne, pp. 56; La nazione democratica, pp. 64. Ristampa, riveduta e corretta, a cura delle Edizioni Tabor e di UIKI Onlus. Ogni pamphlet è in vendita al prezzo di 2 euro e si può richiedere presso le Edizioni TABOR – www.edizionitabor.it – tabor@autistici.org oppure presso l’Ufficio Informazioni Kurdistan Italia – info.uikionlus@gmail.com

[Domani 1° novembre si terrà a Roma una manifestazione nazionale in difesa e appoggio della lotta e dell’esperimento politico di confederalismo democratico che le donne e gli uomini [...]]]> Abdullah Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 40; Confederalismo democratico, pp. 40; Liberare la vita – La rivoluzione delle donne, pp. 56; La nazione democratica, pp. 64. Ristampa, riveduta e corretta, a cura delle Edizioni Tabor e di UIKI Onlus. Ogni pamphlet è in vendita al prezzo di 2 euro e si può richiedere presso le Edizioni TABOR – www.edizionitabor.it – tabor@autistici.org oppure presso l’Ufficio Informazioni Kurdistan Italia – info.uikionlus@gmail.com

[Domani 1° novembre si terrà a Roma una manifestazione nazionale in difesa e appoggio della lotta e dell’esperimento politico di confederalismo democratico che le donne e gli uomini del Rojava stanno portando avanti da anni e, in particolare, in questi giorni nel tentativo di contrastare l’azione militare e diplomatica turca e internazionale tesa ad annientare tale importantissima esperienza di auto-organizzazione, pratica militante e di parità di genere.
In tale contesto, però, occorrerebbe evitare il rischio, a livello di informazione di massa, di far passare in secondo piano la figura del leader politico che è stato alla base della revisione di un pensiero e di una pratica politica, quella del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan – Partito dei Lavoratori del Kurdistan) che, nato originariamente sulle basi teoriche del marxismo-leninismo, si è andato progressivamente liberando dai cascami nazionalistici e del centralismo partitico di ispirazione stalinista che lo avevano precedentemente caratterizzato.
Abdullah Öcalan, ormai da più di vent’anni detenuto nella prigione di Imrali, aveva già iniziato fin dagli anni Novanta del secolo scorso un percorso di riflessione teorica che lo aveva portato a prevedere il declino storico del sistema degli Stati-nazione imposto al Medio Oriente dall’eredità coloniale. Nella sua analisi il crollo di tale sistema avrebbe prodotto uno scenario di guerre e di crisi: un caos gravido di potenzialità di liberazione se le forze democratiche e rivoluzionarie fossero state in grado di scendere in campo per costruire un’alternativa. Esattamente quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente. La ricchezza del pensiero di Öcalan, oltre che nella lucidità delle previsioni, sta proprio nel fatto che il suo pensiero non è mai stato disgiunto dagli sforzi politici e militari per metterlo in pratica, tanto che il movimento da lui fondato ha costituito e costituisce il retroterra (teorico, organizzativo, militare) su cui ha potuto edificarsi il percorso rivoluzionario oggi in atto in Rojava.
I quattro opuscoli appena ripubblicati, in occasione della Conferenza internazionale tenutasi a Roma il 4, 5 e 6 ottobre di quest’anno, permetteranno a tutti i lettori non solo di scoprire o riscoprire, ma anche di confrontarsi con un pensiero ed una proposta politica estremamente stimolante e destinata ad influire in maniera determinante anche sul pensiero e sull’azione di chi si trova oggi ad agire contro il modo di produzione capitalistico e l’imperialismo militare, estrattivista e finanziario in ogni altro angolo del mondo, Occidente compreso.
Ancor più quindi che per la pratica militante e la coraggiosa resistenza alla detenzione che Abdullah Öcalan ha opposto ad un sistema che intendeva e intende annientarlo e destinarlo, insieme alla lotta del popolo curdo, all’oblio, il militante e leader del PKK è diventato un eroe contemporaneo proprio per la volontà, la capacità e il coraggio di rimettere in discussione quei presupposti teorici su cui ancora troppi movimenti sembrano voler riposare, condannandosi così, questi ultimi, all’impossibilità di interagire in maniera propositiva e vincente con le contraddizioni del presente.
Qui di seguito si pubblica un estratto da uno dei quattro pamphlet, proprio a testimonianza della novità propositiva delle riflessioni del militante curdo, non dimentichiamolo mai, catturato ed imprigionato grazie anche al tradimento nel 1999 del governo italiano, retto all’epoca da Massimo D’Alema. S.M.]

Il mio rapimento fu sicuramente un duro colpo per il PKK, tuttavia non fu la causa del suo cambiamento ideologico e politico. Il PKK era stato concepito come un partito con una struttura gerarchica di tipo statale, simile a quella di altri partiti. Una struttura che era, pero, in contraddizione dialettica con i principi di democrazia, libertà e uguaglianza, una contraddizione di principio per ogni partito, quale che sia la sua filosofia. Sebbene il PKK avesse una visione orientata verso la liberta, non eravamo stati capaci di liberare il nostro pensiero dalle strutture gerarchiche.
Un’altra delle contraddizioni principali stava nella ricerca, da parte del PKK, del potere politico istituzionale, sul quale il partito si era formato e allineato. Una struttura volta al potere istituzionale era pero in conflitto con quella democratizzazione della società alla quale il PKK dichiarava apertamente di aspirare. Gli attivisti di un qualsiasi partito di questo genere tendono a farsi dirigere dai loro superiori piuttosto che dalla società, oppure a scalare la gerarchia per salire di posizione.
Tutte e tre le grandi correnti ideologiche fondate su una concezione emancipatrice della società si trovarono di fronte a questa contraddizione. Quando il socialismo reale e la democrazia sociale, come pure i movimenti di liberazione nazionale, cercarono di formulare concetti di società che andassero oltre il capitalismo, non riuscirono a liberarsi dai legami ideologici del sistema capitalista. Presto divennero loro stessi pilastri del sistema capitalista, per il semplice fatto che cercarono il potere politico istituzionale, piuttosto che focalizzare la loro attenzione sulla democratizzazione della società.
Un’altra grande contraddizione fu il valore dato alla guerra nel pensiero ideologico e politico del PKK. Guerra intesa come continuazione della politica, pur con mezzi diversi, e come strumento strategico.
Ciò era apertamente in contraddizione con la percezione di noi stessi come movimento che combatte per la liberazione della società, in base alla quale l’uso della forza armata e giustificabile solo ai fini dell’autodifesa. Tutto quanto va oltre e in aperto contrasto con l’approccio sociale di tipo emancipatore professato dal PKK, dato che tutti i regimi oppressivi della storia erano stati fondati sulla guerra o avevano strutturato le loro istituzioni secondo una logica bellica.
Il PKK credeva che la lotta armata fosse sufficiente per conquistare quei diritti che erano stati negati ai curdi. Una tale concezione deterministica della guerra non e ne socialista, ne democratica, anche se il PKK si considerava un partito democratico. Un partito veramente socialista non si ispira a strutture o gerarchie di tipo statale, ne aspira al potere politico istituzionale, il quale si fonda sulla protezione dei propri interessi e del proprio potere tramite il ricorso alla guerra.
La presunta sconfitta del PKK, che le autorità turche credevano di aver ottenuto con la mia deportazione in Turchia, divenne piuttosto l’occasione per riesaminare in modo critico e aperto le ragioni che avevano impedito al nostro movimento di liberazione di fare ulteriori progressi. La frattura ideologica e politica vissuta dal PKK trasformò la presunta sconfitta in un punto di passaggio verso nuovi orizzonti.1


  1. A. Öcalan, Pace e guerra in Kurdistan, pp. 25-27  

]]>
Il Continuum di Omnibus https://www.carmillaonline.com/2019/10/20/il-continuum-di-omnibus/ Sun, 20 Oct 2019 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55500 di Alessandra Daniele

“Stiamo per subire un altro genocidio” dice la combattente curda, in collegamento con La7. Il conduttore di Omnibus l’interrompe: “Dobbiamo mandare la pubblicità”. È successo davvero. La denuncia d’un imminente genocidio non cambia niente. Deve aspettare. La priorità è la merce. Automobili, frullini, merendine, materassi. “Chi dice che le vacanze finiscono a settembre?” Chi deve tornare a lavorare. “Con soli 240€ potrai acquistare Evolatex”. Il materasso eugenetico. “Non seguire, fatti seguire”. Da uno bravo. Skyline scintillanti, chirurghi olografici, sorrisi perfetti. È il Continuum di Gernsback dell’hard sci-fi anni ’30, [...]]]> di Alessandra Daniele

“Stiamo per subire un altro genocidio” dice la combattente curda, in collegamento con La7. Il conduttore di Omnibus l’interrompe: “Dobbiamo mandare la pubblicità”.
È successo davvero.
La denuncia d’un imminente genocidio non cambia niente. Deve aspettare. La priorità è la merce.
Automobili, frullini, merendine, materassi.
“Chi dice che le vacanze finiscono a settembre?”
Chi deve tornare a lavorare.
“Con soli 240€ potrai acquistare Evolatex”.
Il materasso eugenetico.
“Non seguire, fatti seguire”.
Da uno bravo.
Skyline scintillanti, chirurghi olografici, sorrisi perfetti.
È il Continuum di Gernsback dell’hard sci-fi anni ’30, di cui parla William Gibson nel suo racconto omonimo.
Il futuro fittizio ancora adoperato per piazzarci tutte quelle variopinte stronzate, col riso e senza lattosio, che ci tengono buoni nelle nostre gabbiette.
Giocattoli per bambini decrepiti ma incapaci di crescere, bambini vampiri.
Vittime e complici d’un modello socio-economico che non ammette eccezioni. Non ammette eresie, come quella curda.
Un modello basato sul genocidio.
La priorità è la merce.
Sono stata nel ventre della Bestia. Ci siamo stati tutti. Supermarket, Superstore, Shopping center, Centro commerciale di gravità permanente: ha centinaia di nomi, e miliardi di fauci, fisiche e virtuali.
Ha miliardi di occhi, che ci guardano dagli schermi che teniamo in mano.
Ci ha ingabbiato in un timeloop, come criceti nella ruota, con uno scintillante futuro irraggiungibile appeso davanti al naso. E una pistola alla testa.
Stiamo per subire un altro genocidio.
Ma prima, pubblicità.

]]>
Galassie da difendere https://www.carmillaonline.com/2018/09/21/galassie-da-difendere/ Fri, 21 Sep 2018 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48823 di Pereira e Maurizio (partecipanti no-tav all’incontro intergalattico tenutosi dal 27 agosto al 2 settembre all’Ambazada della Zad)

Nel recente appello che ha convocato “la settimana intergalattica“ alla Zad, riprendendo l’espressione usata in Chiapas per intitolare i grandi incontri dei “pueblos zapatistas”, si analizza come dopo la vittoria tanto attesa contro il progetto dell’aeroporto, si esca da una primavera per usare un eufemismo “complicata”.

Quest’ultima si scrive nell’appello “ è stata marcata da due fasi di espulsioni durante le quali il governo si è consacrato a vendicarsi dell’affronto rappresentato dalla zad nel corso di tanti anni. Un territorio senza “stato [...]]]> di Pereira e Maurizio (partecipanti no-tav all’incontro intergalattico tenutosi dal 27 agosto al 2 settembre all’Ambazada della Zad)

Nel recente appello che ha convocato “la settimana intergalattica“ alla Zad, riprendendo l’espressione usata in Chiapas per intitolare i grandi incontri dei “pueblos zapatistas”, si analizza come dopo la vittoria tanto attesa contro il progetto dell’aeroporto, si esca da una primavera per usare un eufemismo “complicata”.

Quest’ultima si scrive nell’appello “ è stata marcata da due fasi di espulsioni durante le quali il governo si è consacrato a vendicarsi dell’affronto rappresentato dalla zad nel corso di tanti anni. Un territorio senza “stato di diritto “ secondo lo Stato Francese, una Libera Repubblica secondo l’espressione No Tav.
Queste grandi manovre poliziesche hanno causato il ferimento di molte persone e portato alla distruzione di una parte dei luoghi di vita della zad, oltre ad una lunga presenza militare.”
“ La resistenza sul campo, la solidarietà altrove, e il processo di negoziazione hanno portato ad un accordo sul mantenimento di decine di abitati, spazi comuni piuttosto che di attività sulla gran parte delle terre prese in carico dal movimento.
Lo Stato nonostante la vera e propria campagna politica/militare contro la Zad ha dovuto rinunciare all’obbiettivo di sradicare la presenza “zadista .

Continuano a scrivere nell’appello “Mentre la zad si riprende dalle sue ferite, si ricompone, mentre i lavori sui campi e di costruzione riprendono, noi slanciamo in avanti sulle lotte dei prossimi mesi. Queste vanno oltre le nostre persone, e si legano ad altre lotte condotte dappertutto nel mondo. Sono lotte che riguardano l’uso collettivo e rispettoso della terra, la condivisione dei beni comuni, la messa in discussione degli stati-nazione e delle frontiere, la riappropriazione degli abitati, la possibilità di produrre e di scambiare liberandosi dalle costrizioni del mercato, le forme di auto-organizzazione sui territori in resistenza e il diritto di vivere liberamente…”

La settimana intergalattica dal 27 agosto al 2 settembre ha visto l’inaugurazione dell’Ambazada, una nuova, straordinaria costruzione in legno, argilla, paglia e terra battuta, a fianco della foresta di Rohanne, silenziosa e fresca in queste giornate di fine Agosto, spazio destinato tra altri ad accogliere sulla zad di Notre-Dame des Landes lotte e popoli ribelli dal mondo intero, luogo dove realizzare incontri aperti tra territori e battaglie in cerca di autonomia per contribuire a ridare slancio e orizzonti alle mobilitazioni in corso in Francia come nel resto del pianeta.
Nella settimana che è trascorsa molte delle questioni che hanno interrogato durante tutta la stagione passata gli “zadisti”, e che spesso interrogano i rivoluzionari sono state riflessione e condivisione comune dell’incontro tra i territori in lotta quali : l’ancorarsi in durata a un luogo senza per questo lasciarsi addomesticare, il rapporto di forza più o meno frontale con lo Stato, la valutazione delle nostre forze e di quelle del nemico, la possibilità che le vittorie abbiano risultati duraturi, come organizzarsi, quali progetti e quale posizionarsi terreni di lotta sia in caso di vittoria che di sconfitta, l’uso dalle barricate di sassi e di quelle di carta, come prendere le decisioni, quale legame con il filo rosso delle lotte precedenti i tempi delle lotte come tempi tattici e tempi strategici, il ruolo dell’immaginario dei movimenti e quale legame con il filo rosso delle lotte precedenti nel saper ritrovare gli elementi della nostra storia.

Durante tutta la settimana hanno avuto luogo proiezioni, dibattiti multilingue con traduzione simultanea, incontri, scambi e convergenze tra  le tante lotte ed esperienze di autogestione e di contropotere , dai quartieri-squat di Lentilleres (Dijon, France), Errekaleor (Gasteiz in Euskadi ), Christiania (Copenhagen, Danimarca), ai luoghi della resistenza No Tav contro le grandi opere come da noi in Valsusa e il movimento NO MUOS (Niscemi, Sicilia), alle reti contro il nucleare del Wendland (Bassa Sassonia, Germania ) e di Bure (Grand-Est, Francia) alla lotta per l’abitare con i sindacati inquilini di Barcellona.
Contributi vivi e militanti, con attenzione particolare alla lotta delle donne e dell’ecologia sociale , alla tematica del dominio, alla critica e all’autocritica, con contributi da parte di compagn* attiv* in Kurdistan come nel Chiapas.

Ed ogni sera, al calar del sole, l’Ambassada ha accolto proiezioni e retrospettive sui movimenti sociali che oggi costituiscono la costellazione di riferimento per tanti e tante che combattono in Francia e non solo contro il capitalismo e il suo mondo.

Dalla la battaglia in Giappone contro la costruzione dell’aeroporto internazionale di 
Tokio-Narita negli anni ’60,all’Autonomia italiana degli anni Settanta e quella tedesca negli anni Ottanta, dalla meteora inglese di Reclaim The Streets negli anni ’90, fino ai moti insurrezionali anti-CPE in Francia nel 2005 e 2006 -questi ultimi precursori delle recenti proteste contro la “loi travail” sino ai movimenti studenteschi francesi dello scorso inverno.

Nel corso della settimana ci sono state serate di festa con musiche dei diversi territori in lotta e momenti di lavoro collettivo dalla raccolta delle patate, alla cura delle piante medicinali, alla costruzione/ ricostruzione dei diversi luoghi colletivi. In particolare attività agricole e artigianali in corso di impianto sulla ZAD, che a fianco a fianco della nuova rete “la cagette des terres”, si propongono di sostenere scioperanti, occupanti e migranti nella zona di Nantes e in tutta la Francia. Momenti di lavoro comune, di narrazione e di festa come momenti di costruzione della comunità.

Lunedì 27 Agosto, giornata di apertura della settimana, la discussione è entrata nel vivo delle lotte su diritti,rovesci e storia recente del movimento con e dei migranti “sans papier” nella vicina Nantes. In città decine di profughi/profughe hanno occupato, durante lo scorso inverno, un edificio sfitto di proprietà dell’Università grazie al sostegno dei movimenti studenteschi dando origine ad una straordinaria esperienza di autogestione e condivisione di spazi e lotte comuni.
Dopo lo sgombero di questo e di tanti altri luoghi occupati, oggi centinaia di migranti hanno piantato le tende in pieno centro. In queste tendopoli improvvisate che sfidano la facciata borghese di una città che punta sul turismo e sulla gentrificazione per garantirsi un comunque impossibile futuro di crescita economica, le condizioni di vita già precarie rischiano di diventare insostenibili con l’arrivo della stagione autunnale. E emerso quindi come siano fondamentali in questo contesto le mense popolari, come quella adiacente all’Ambassada, che durante tutta la settimana intergalattica ha nutritole persone presenti con pasti preparati in autogestione, semplici e a prezzo libero e il cui Il ricavato servirà a nutrire le lotte di domani nella zona di Nantes e non solo.

I migranti presenti sia come animatori delle mense popolari che come partecipanti al dibattito hanno ribadito l’importanza di luoghi comuni in cui vivere e discutere senza lasciare nessuno indietro, hanno spiritosamente raccontato come di fronte ad alcune “anime buone “ che portando dei cibi e vestiari si stupivano di trovare solo migranti neri hanno provveduto facendoli parlare con due Tuareg bianchi.

Hanno altresì denunciato installazioni come il Muos in Sicilia che non solo danneggino il territorio in cui sono istallate e avvelenino la popolazione che li abita, ma siano i luoghi da cui si aggredisce il pianeta come nel caso della Libia.

Una settimana intensa di riflessione teorica, di lavoro comune, di festa, che ha dimostrato una volta di più come alcune categorie del nostro passato siano oggi inutilizzabili.
Come sia necessario pensare ad andare oltre alle grandi dimensioni urbane, come sia necessario ragionare su tempi lunghi di costruzione rivoluzionaria, sul sottrarre territori agli stati e come su questo sia importante studiare l’esperienza indigena e come la fiaccola dell’ insurrezione venga presa i mano dalle differenti lotte come faro destinato a rilanciare e a dare forza alle altre esperienze.

Come il capitalismo, finito il periodo in cui cercava di presentarsi con “un volto umano” oggi in ogni angolo del pianeta proponga nuove forme di fascismo, violenza e distruzione, devastando, cementificando, sfigurando corpi, esseri, territori, imponendo ovunque guerre e politiche securitarie.

In questa situazione le tante galassie che in questi giorni si sono incrociate – trasformando ciascuna collisione in fattore di unione, si sono date appuntamento nelle lotte in divenire:
contro l’estensione del cantiere Tav in Valle di Susa, il 29 e 30 Settembre per occupare nuovi terreni alla Zad, al prossimo G7 che si terrà nel Paese Basco e ovunque si accenderà un fuoco di resistenza perché sempre di più vi siano luoghi sottratti agli stati e tante “libere repubbliche” federate nella lotta.

]]>
Un soldato della buona ventura https://www.carmillaonline.com/2018/09/06/un-soldato-della-buona-ventura/ Wed, 05 Sep 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48455 di Fiorenzo Angoscini

Tom Anderson-Eliza Egret, Yannis Vasilis Yaylali, Da fascista ad antimilitarista. Intervista con un ex-soldato turco; progetto grafico e impaginazione: Luca Serafino; Traduzione: Claudia Buonaiuto; Stampato in proprio da Associazione Culturale Candilita, Vico della Calce a Materdei, 49 – Napoli, 2017, s.i.p.

Scrivere, parlare, di questa agile pubblicazione: 15 pagine in formato editoriale 10/16, è facile, e al contempo difficile. C’è poco da dire, tanto è esaustiva nella sua essenziale sinteticità. Rimane solo da spronare ed invitare alla lettura. Dalla prima all’ultima pagina, dall’ ‘attacco’ alla frase conclusiva è densa di contenuti e significati. Aiuta a capire come [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Tom Anderson-Eliza Egret, Yannis Vasilis Yaylali, Da fascista ad antimilitarista. Intervista con un ex-soldato turco; progetto grafico e impaginazione: Luca Serafino; Traduzione: Claudia Buonaiuto; Stampato in proprio da Associazione Culturale Candilita, Vico della Calce a Materdei, 49 – Napoli, 2017, s.i.p.

Scrivere, parlare, di questa agile pubblicazione: 15 pagine in formato editoriale 10/16, è facile, e al contempo difficile. C’è poco da dire, tanto è esaustiva nella sua essenziale sinteticità. Rimane solo da spronare ed invitare alla lettura. Dalla prima all’ultima pagina, dall’ ‘attacco’ alla frase conclusiva è densa di contenuti e significati. Aiuta a capire come il fascismo, sotto tutte le sue esplicite e mentite spoglie, è sempre uguale e fedele ai propri ‘istinti bestiali’: ignoranza, violenza, menzogna. Crudeltà.
Leggendo, l’ho accostato (non è la stessa cosa) alle ‘confessioni’ di Giulio Salierno in “Autobiografia di un picchiatore fascista”1.

Quando prevale la ragione, l’umanità, la cultura, anche chi, fino a quel momento, è stato stravolto e coinvolto in azioni disumane ed ha abbracciato pseudoideologie reazionarie (in realtà manifestazioni di intolleranza ed odio nei confronti di presunti ‘diversi’ e fantasiosi ‘nemici’), recupera il tempo gettato alle ortiche, essendo ateo non posso e non voglio pensare o invocare una impossibile redenzione, e riesce ad elaborare idee e concetti di fraternità e solidarietà sino a poco prima impossibili.

Inutile, da parte mia, tentare condensati o proporre riassunti dell’intervista. Resta solo da ribadire l’invito alla lettura di questo ‘cameo’ di maturità e consapevolezza.
Proprio per sollecitare, e solleticare, un approfondimento diretto, trascrivo parte dell’asciutta biografia del protagonista proposta all’inizio dell’opuscolo:

Yannis Vasilis Yaylali (1974), cresciuto in un ambiente dai forti connotati nazionalisti, sin da ragazzo si riconosceva in un’ideologia di tipo fascista, arruolandosi poi nell’esercito negli anni novanta, quando la Turchia stava mettendo in atto uno dei suoi attacchi più brutali alla popolazione curda. Yannis non vedeva l’ora ‘«di andare a est e combattere contro i Curdi’». Dopo pochi mesi fu catturato dai guerriglieri del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e ha passato due anni come prigioniero di guerra, esperienza che lo ha completamente trasformato. Si è ora trasferito a Roboski, nel Kurdistan settentrionale (all’interno dei confini politici della Turchia, a sud-est), dove vive come attivista in solidarietà con la popolazione curda…


  1. G. Salierno, Autobiografia di un picchiatore fascista, Einaudi, 1976  

]]>
Murray Bookchin: una nuova prospettiva per il XXI secolo https://www.carmillaonline.com/2018/02/22/murray-bookchin-nuova-prospettiva-xxi-secolo/ Wed, 21 Feb 2018 23:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43769 di Sandro Moiso

Murray Bookchin, LA PROSSIMA RIVOLUZIONE. Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta, con una Postfazione di Ursula K. Le Guin, BFS Edizioni 2018, pp. 192, € 18,00

Nei suoi ottantaquattro anni di vita Murray Bookchin (1922 – 2006) ha avuto modo di percorrere da critico radicale quasi l’intero ‘900, confrontandosi con le principali ideologie del movimento operaio e militando all’interno delle sue due correnti principali, marxismo e anarchismo, in periodi differenti della sua vita.

Pur ritenendosi anarchico nel corso della seconda e più lunga fase della sua vita, ha però sentito la necessità, dalla seconda metà degli [...]]]> di Sandro Moiso

Murray Bookchin, LA PROSSIMA RIVOLUZIONE. Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta, con una Postfazione di Ursula K. Le Guin, BFS Edizioni 2018, pp. 192, € 18,00

Nei suoi ottantaquattro anni di vita Murray Bookchin (1922 – 2006) ha avuto modo di percorrere da critico radicale quasi l’intero ‘900, confrontandosi con le principali ideologie del movimento operaio e militando all’interno delle sue due correnti principali, marxismo e anarchismo, in periodi differenti della sua vita.

Pur ritenendosi anarchico nel corso della seconda e più lunga fase della sua vita, ha però sentito la necessità, dalla seconda metà degli anni ’90 del XX secolo fino alla fine dei suoi giorni, di ridefinire la critica del modo di produzione vigente a partire dal superamento delle due ideologie principali, insieme a quelle genericamente socialiste oppure legate al sindacalismo rivoluzionario, per giungere ad una sintesi del pensiero rivoluzionario più adeguata ad affrontare le condizioni sociali, politiche, economiche e ambientali che si possono già intravedere per il secolo in cui siamo entrati ormai da quasi un ventennio.

Il testo ora tradotto in italiano è stato pubblicato per la prima volta in lingua inglese nel 2015 e raccoglie otto saggi scritti tra il 1991 e il 2002, coprendo così la parte finale e forse più importante della riflessione di Bookchin. La cui prima caratteristica è sta quella di importare e sviluppare all’interno del pensiero antagonista la questione del rapporto tra uomo e ambiente, non soltanto come problema a latere del movimento rivoluzionario o come semplice visione ecologista della realtà, ma come punto centrale ed essenziale di ogni ipotesi di trasformazione futura dei rapporti sociali di produzione e convivenza con la natura. Di cui la società umana non solo non potrà più definirsi antagonista o dominatrice, ma soltanto accettare di fare parte della stessa, adeguando le proprie necessità a quelle del mondo e delle specie che la circondano.
Così come recita un bel manifesto della lotta NoTav: Noi non difendiamo la natura, noi siamo la natura che si difende.

L’immaginario politico e filosofico di Bookchin non risente però del primitivismo teorizzato da alcune frange anarchiche ispirate al pensiero di John Zerzan, ma si attiene ancora al razionalismo di stampo illuministico e marxista poiché il fine non è quello di lasciarsi alle spalle il pensiero scientifico tout court ma di adeguarlo alle reali necessità della comunità umana e del pianeta con cui convive. L’autore americano rivendica infatti la fiducia nel poter giungere a ciò che definisce come naturalismo dialettico, autentica base di un’ecologia sociale condivisa e non dettata dalle mode o dalle esigenze del capitale.

“Nel complesso, la condizione sociale prodotta dal capitalismo contemporaneo non si accorda con le previsioni, semplicemente classiste, espose da Marx e dai sindacalisti rivoluzionari francesi. Dopo la Seconda guerra mondiale il capitalismo ha subito un’enorme trasformazione e ha creato nuovi e gravi problemi sociali. Problemi che vanno oltre le tradizionali richieste del proletariato per il miglioramento dei salari, degli orari e delle condizioni di lavoro: in particolare riguardano l’ambiente, il gender, la gerarchia e le tematiche civili e democratiche.[…] Si stanno sviluppando nuove e complesse sfumature di status e interessi personali che oggi hanno un’importanza maggiore di quanto avessero in passato. Tutto ciò rende meno definito il conflitto tra lavoro salariato e capitale che prima era centrale, compreso e utilizzato in modo militante dai movimenti socialisti tradizionali. Le categorie di classe si sono ormai fuse con le categorie gerarchiche basate su razza, gender, preferenze sessuali e specifiche differenziazioni nazionali o regionali. Differenze di status e caratteristiche gerarchiche tendono a convergere con differenze di classe, e sta emergendo un mondo capitalistico diffuso in cui per l’opinione pubblica le differenze etniche, nazionali e di genere spesso sono più importanti delle differenze di classe.
Allo stesso tempo, il capitalismo ha prodotto una nuova contraddizione, forse la più importante: lo scontro tra un’economia basata sulla crescita infinita e la distruzione dell’ambiente naturale”.1

Anche se talvolta Bookchin sembra un po’ troppo affascinato dal capitalismo liberale del primo Novecento e poco propenso all’analisi delle dinamiche imperialiste e finanziarie passate e presenti, non vi è dubbio che nella sua opera ha saputo largamente anticipare le questioni poste sempre più in evidenza dalla società del terzo millennio cercando, allo stesso tempo, di superare i facili mantra e le eccessive semplificazioni ideologiche derivate dalle pratiche novecentesche, sia in campo marxista che bolscevico o anarchico.

“Nessuna delle ideologie anticapitaliste professate nel passato – marxismo, anarchismo, sindacalismo e varie forme di socialismo – ha ancora oggi la stesa importanza avuta nella fase precedente […] Nessuna di queste ideologie può comprendere integralmente la moltitudine di problemi, opportunità, incognite e interessi che il capitalismo ha creato più volte nel corso del tempo.
Evidenziando sia i presupposti storici e materiali che quelli soggettivi di una società di nuovo tipo, il marxismo ha rappresentato il tentativo più completo e coerente per organizzare un socialismo ben organizzato. Dobbiamo molto al tentativo di Marx di fornirci un’analisi coerente e stimolante dei rapporti di mercato e delle connessioni tra il mercato e il pensiero progressista, oltre a una teoria sistematica sociale, un concetto oggettivo o «scientifico» di sviluppo storico e una strategia politica flessibile.[…] Allo stesso modo l’anarchismo rappresenta, anche nella sua forma autentica, una prospettiva fortemente individualista che promuove uno stile di vita radicalmente libertario, spesso in sostituzione all’azione di massa.
In realtà. L’anarchismo rappresenta la più estrema formulazione dell’ideologia liberalista, fino alla celebrazione di atti eroici di sfida dello Stato. Il mito anarchico dell’autoregolamentazione – l’affermazione radicale dell’individuo al di sopra o anche contro la società e la personalistica assenza di responsabilità per il benessere collettivo – porta ad un’affermazione di una volontà personale onnipotente che sarà centrale nel percorso di Nietzche.[…] Il destino del sindacalismo rivoluzionario è stato condizionato in vari modi da una patologia chiamata «operaismo» e tutto ciò che possedeva a livello storico, filosofico o politico è stato preso in prestito, spesso in modo frammentario e indiretto, da Marx “.2

Ciò che poi accomuna, secondo Bookchin, le tre principali correnti del movimento anticapitalista è l’aver quasi sempre confuso la «politica» con il governo dello Stato, senza riuscire a comprendere come il secondo sia sostanzialmente destinato ad esercitare il dominio sulla società da parte di una classe o di un partito, o ancora di un modo di produzione dei suoi funzionari, più che a promuovere una razionale e condivisa organizzazione della stessa.

“Una caratteristica distintiva della sinistra è proprio la convinzione marxista, anarchica e sindacalista rivoluzionaria che non esista alcuna distinzione, in linea di principio, tra la sfera politica e la sfera statalista. Enfatizzando lo Stato-nazione – incluso lo «Stato operaio» – come centro del potere economico e politico, Marx (così come i libertari) non è riuscito a dimostrare come i lavoratori possano controllare in maniera piena e diretta un tale Stato senza la mediazione di una potente burocrazia e di istituzioni di tipo statalista ( o, nel caso dei libertari, governative). Di conseguenza, i marxisti hanno concepito inevitabilmente la sfera politica – che hanno definito Stato operaio – come entità repressiva, apparentemente fondata sugli interessi di una sola classe: il proletariato. […] Gli anarchici hanno a lungo considerato ogni governo come uno Stato e lo hanno condannato – un punto di vista che rappresenta la ricetta per eliminare ogni vita sociale organizzata, qualunque essa sia. Mentre lo Stato è lo strumento con cui una classe oppressiva e sfruttatrice regola e controlla in modo coercitivo il comportamento delle classi sfruttate, un governo – o meglio ancora, un sistema politico – è un insieme di istituzioni progettate per affrontare i problemi della vita consociativa in modo ordinato e, si spera, equo. Ogni associazione istituzionalizzata che costituisca un sistema di gestione degli affari pubblici – con o senza la presenza di uno Stato – è necessariamente un governo. Al contrario, tutti gli Stati, anche se sono di fatto una forma di governo, sono una forza di repressione e controllo di classe. Per quanto possa dar fastidio sia ai marxisti che agli anarchici, la classe degli oppressi ha richiesto per secoli, a gran voce e in maniera articolata costituzioni, governi responsabili e sensibili e perfino leggi o nomos, che la difendessero dal potere volubile dei monarchi, dei nobili e dei burocrati. L’opposizione libertaria alla legge, per non parlare del governo in quanto tale, è sciocca […] Ciò che rimane, alla fine, non è altro che un’immagine residuale sulla retina che non esiste nella realtà”.3

Qual è allora la proposta di Bookchin?

“Mentre entriamo nel ventunesimo secolo, i radicali sociali hanno bisogno di un socialismo – libertario e rivoluzionario – che non sia né un prolungamento dell’«associazionismo», di tipo contadino e artigianale, che troviamo al centro dell’anarchismo, né l’«operaiolatria» che troviamo al centro del sindacalismo rivoluzionario e del marxismo.[…] Tentare di rianimare il marxismo, l’anarchismo o il sindacalismo rivoluzionario, dotandoli di un’immortalità ideologica, sarebbe un ostacolo allo sviluppo di un importante movimento radicale.[…] E’ mia opinione che il comunalismo sia la categoria politica generale più adatta a comprendere pienamente una visione ben ponderata e sistematica dell’ecologia sociale […] Come ideologia, il comunalismo attinge alla migliore tradizione delle vecchie ideologie di sinistra –marxismo e anarchismo o, più propriamente, la tradizione socialista libertaria – offrendone una visione più vasta e rimarchevole per il nostro tempo. […] La scelta del termine comunalismo per affrontare le componenti filosofiche, storiche, politiche e organizzative di un socialismo per il ventunesimo secolo non è avventata . Il termine trae origine dalla Comune di Parigi del 1871, quando nella capitale francese il popolo armato salì sulle barricate non solo per difendere il consiglio comunale di Parigi e le sue sotto strutture amministrative, ma anche per creare una confederazione nazionale di città e paesi, in sostituzione dello Stato-nazione repubblicano. Il comunalismo, come ideologia, non è contaminato dall’individualismo e dall’antirazionalismo, spesso esplicito nell’anarchismo; né porta il peso dell’autoritarismo marxista esplicitato nel bolscevismo. Esso non si concentra sulla fabbrica come suo principale campo sociale o sul proletariato industriale come suo principale agente storico e non riduce le libere comunità del futuro in comunità irreali di stampo medievale”.4

Non è nemmeno un caso che le esperienze di lotta più significative attualmente, dalla Valle di Susa qui in Italia alla ZAD in Francia, si siano in qualche modo conformate a questa visione che, d’altra parte, non può nemmeno e non potrà mai darsi per definitiva una volta per tutte. Così come non può essere un caso che la visione di Murray Bookchin sia stata adottata o, almeno, sia così vicina alle forme di lotta e organizzazione sociale adottate nel Rojava curdo e fatte proprie anche dalle teorie esplicitate da Abdullah Öcalan nelle sue ultime opere dopo la revisione del marxismo-leninismo sulle cui basi si era formato il PKK.5

Così come forse non è nemmeno un caso che a curare la traduzione e l’introduzione italiana al testo pubblicato da BFS sia stato Martino Seniga, giornalista e inviato della RAI, che ha viaggiato a lungo nel Kurdistan, dove ha realizzato una serie di reportage televisivi e programmi per il web sul progetto confederalista democratico in Siria (Rojava) e Turchia.

Come afferma Ursula Le Guin, scrittrice americana di fantascienza utopica e femminista recentemente scomparsa, nella sua Postfazione:

“Certamente oggi il pensiero filosofico e sociale deve confrontarsi con l’irreversibile degrado ambientale prodotto da un capitalismo senza freni: un fatto evidente di cui la scienza ci parla da più di cinquanta anni, mentre i progressi della tecnica cercano solo di mascherarlo. Ogni vantaggio che ci hanno portato l’industrializzazione e il capitalismo, ogni miglioramento nella scienza, nella salute, nella comunicazione e nel benessere getta ormai la stessa ombra letale.[…] Il capitalismo si fonda per definizione sulla crescita; come dice Bookchin: «per il capitalismo desistere dalla sua crescita insensata significherebbe commettere un suicidio sociale». Evidentemente abbiamo semplicemente preso il cancro come modello del nostro sistema sociale.
L’imperativo capitalista di «crescere o morire» si scontra radicalmente con gli imperativi ecologici dell’interdipendenza e della sussistenza. Queste due visioni non possono più coesistere tra loro, né potrà sopravvivere una società fondata sul mito di questa coesistenza impossibile. O sapremo realizzare una società ecologica o non ci sarà più una società per nessuno, indipendentemente dal suo status.
Murray Bookchin ha speso la vita opponendosi allo spirito rapace del capitalismo del «crescere o morire». Gli otto saggi che compongono questo libro rappresentano la sintesi del suo lavoro: le fondamenta teoriche per una società ecologica, egualitaria e democratica, con un approccio pratico alla sua realizzazione. Analizza i fallimenti dei vecchi movimenti per il cambiamento sociale, rilancia la prospettiva della democrazia diretta e, nell’ultimo capitolo, disegna il suo progetto di trasformare la crisi ambientale globale in un’opportunità per superare le stantie gerarchie di genere, razza, classe e nazione, l’occasione di trovare una cura radicale per il «male» che governa il nostro sistema sociale. Ho letto questo libro con emozione e gratitudine”.6

Non saprei trovare parole migliori per concludere questa recensione.


  1. M. Bookchin, Il progetto comunalista (novembre 2002), in LA PROSSIMA RIVOLUZIONE, pp. 32-33  

  2. Bookchin, op.cit. pp. 34-37  

  3. pp. 38-39  

  4. pp. 39-41  

  5. Sulle interrelazioni tra il pensiero di Abdullah Öcalan quello di Murray Bookchin, si veda Janeth Biehl, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, Edizioni Tabor 2015  

  6. Ursula K. Le Guin, Postfazione, pp.180-181  

]]>