Kino – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 27 Nov 2025 22:54:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mama Anarchia https://www.carmillaonline.com/2024/01/05/mama-anarchia/ Fri, 05 Jan 2024 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80473 di Giorgio Bona

Un soldato tornava a piedi a casa,

incontrò ragazzi lungo la strada,

oh ragazzi, chi è la vostra mamma?

Quel giorno chiese così il soldato.

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

 

Indossavano tutti giubbotti di pelle,

erano tutti di bassa statura,

il soldato provò ad andare via,

non ci riuscì

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà [...]]]> di Giorgio Bona

Un soldato tornava a piedi a casa,

incontrò ragazzi lungo la strada,

oh ragazzi, chi è la vostra mamma?

Quel giorno chiese così il soldato.

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

 

Indossavano tutti giubbotti di pelle,

erano tutti di bassa statura,

il soldato provò ad andare via,

non ci riuscì

 

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

La mamma è l’anarchia e il papà un bicchiere di porto!

 

Una burla giocosa,

si divertivano quei ragazzi

pitturandogli il viso di rosso e blu,

lo obbligarono a dire bestemmie

 

Questa canzone si intitola Mama Anarchia, una canzone dei Kino scritta e musicata nel 1985 da Viktor Coj.

Viktor la dedicò ad Andrej Panov, il leader del gruppo Avtomatiçeskie Udovletvoritelì (un termine di difficile traduzione che potrebbe stare per divulgatori automatici di felicità). Che passerà alla storia come il primo vero gruppo Punk-Rocker di Leningrado: era nato qualche anno prima dei Kino, in quanto Andrej Panov detto il Maiale era rimasto folgorato dalla notizia che in qualche parte dell’occidente ci fosse una band chiamata Sex Pistols, decidendo a diciannove anni, nell’estate del 1979, di formarne una propria con il nome Le Pistole del Sesso.

Perché il Maiale? Intorno alla sua figura fiorivano tanti racconti, e tra questi la voce che Andrej avesse defecato dinnanzi al pubblico durante un evento, poi mettesse il prodotto su un piatto e cominciasse a mangiare. Anche gli altri componenti di questa band avevano soprannomi provocatori: oltre al Maiale c’erano Pinochet, l’Incazzato e il Fruscio e le loro canzoni avevano titoli senza senso come Risata, Sbronza – canzoni senza uno spirito politico definito, ma con parole di grande provocazione che si esprimevano manifestando una contestazione aperta alla canzone tradizionale russa.

Purtroppo, come i Kino di Viktor Coj, quando nacquero, gli Avtomatiçeskie Udovletvoritelì furono un gruppo fantasma, essenzialmente più un nome negli elenchi della polizia segreta che una vera e propria realtà musicale.

Nel suo gruppo Viktor Coj era il bassista: certo un Viktor giovanissimo, diciassettenne, appena agli inizi, grande amico di Andrej anche fuori dall’ambito musicale. Andrej Panov soltanto pochi anni dopo, con la grande politica di rinnovamento in atto nel paese, diventò un musicista leggendario.

Una sua esibizione in stato di ubriachezza venne tramessa dalla televisione centrale del paese. E proprio a lui si deve la maturazione artistica di Viktor che ai tempi del gruppo suonava appunto solo il basso. Mentre dopo la breve esperienza con Panov cominciò lui stesso a produrre musica e testi.

Mama Anarchia ha una storia particolare e il suo percorso è legato a vicende tragicomiche.

Come ogni testo, prima di essere pubblico, doveva essere sottoposto al vaglio della censura che, nonostante l’epoca di cambiamento in atto, sembrava conservare ancora i sistemi del socialismo reale. La stampa di regime definiva il rock un sottoprodotto culturale, simbolo di decadenza culturale e morale dell’occidente e considerava i punk fascisti, violenti e reazionari. Dunque, per, presentare la canzone, Viktor Coj la trasmise alla censura come parodia delle corrotte bande punk rock occidentali considerate di cattivo esempio, e pessimo modello da imitare.

Infatti, il titolo nell’album alla parola Anarchia aggiungeva parodia delle corrotte band rock occidentali.

Il Ministero della Cultura si dimostrò entusiasta e approvò la canzone insieme a tutto l’album. E a quel punto titolo della canzone fu Anarchia, parodia di gruppi punk occidentali, per divenire in seguito Mama Anarchia.

Fu proprio Viktor Coj a dichiarare più tardi che la canzone seguiva lo stile dei Sex Pistols, e che l’escamotage della parodia era stato utilizzato per superare il vaglio della censura.

L’anno successivo, 1986, la moglie di Viktor, Marijana, docente in un liceo musicale, raccontò che nella sua scuola era stato organizzato un concerto per festeggiare il 7 novembre l’anniversario della Rivoluzione di Ottobre. Nel pieno della festa salì sul palco un ragazzo accompagnato dalla chitarra e si mise a suonare Mama Anarchia. Nessuno poté protestare perché il Ministero aveva approvato il testo della canzone.

Certo che Viktor aveva messo in difficoltà il sistema, che anzi, compreso il trucco, non la prese tanto bene.

Per Viktor valeva quanto un passo di una canzone compresa nell’album Noč’ dei Kino (1986) riportava a chiare lettere: “così siamo venuti qui per reclamare i nostri diritti – “. Era quel , quella grande certezza, che infastidì il potere. E come per il suo grande amico Andrej Panov vi saranno ombre intorno alla sua morte.

Panov muore infatti otto anni dopo Viktor di peritonite, ma la madre crederà sempre e affermerà che sia stato ucciso. Le stesse ombre toccano la morte di Viktor, forse in rapporto a quel scandito con tanta fermezza.

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Caffè Saigon https://www.carmillaonline.com/2023/11/24/caffe-saigon/ Fri, 24 Nov 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80064 di Giorgio Bona

La vodka passa in secondo piano e ci si concede un caffè, la terapia giusta per il dopo sbronza.

Tutto questo al Saigon di Leningrado. Non era un ritrovo alla moda, ma uno spazio di confronto di letterati molto vivace in contrapposizione alle sedi della cultura ufficiale come l’Unione Scrittori, il Komsomol e l’università.

Aperto nel settembre del 1964 e frequentato assiduamente nei primi anni Settanta, si trovava tra il Nevskij e il Vladimirskiy Prospekt. Fu chiuso nel marzo 1989, in piena Perestrojka gorbacioviana, per far posto a un negozio di sanitari italiani.

Perché il nome Saigon? Restando [...]]]> di Giorgio Bona

La vodka passa in secondo piano e ci si concede un caffè, la terapia giusta per il dopo sbronza.

Tutto questo al Saigon di Leningrado. Non era un ritrovo alla moda, ma uno spazio di confronto di letterati molto vivace in contrapposizione alle sedi della cultura ufficiale come l’Unione Scrittori, il Komsomol e l’università.

Aperto nel settembre del 1964 e frequentato assiduamente nei primi anni Settanta, si trovava tra il Nevskij e il Vladimirskiy Prospekt. Fu chiuso nel marzo 1989, in piena Perestrojka gorbacioviana, per far posto a un negozio di sanitari italiani.

Perché il nome Saigon? Restando alle testimonianze del poeta Viktor Toporov, uno dei più assidui frequentatori, il nome è legato alla domanda intimidatoria che un agente rivolse a tre ragazze che stavano fumando all’interno del locale: “È un’indecenza. Che diavolo di Saigon avete creato qui dentro?”. A quei tempi la capitale vietnamita era ritratta dai mezzi di comunicazione occidentali come una novella Sodoma, patria del vizio e del peccato di soldati impegnati nella sanguinosa guerra del Vietnam.

Il Caffè Saigon si caratterizzò come un luogo aperto e democratico, abitato da protagonisti dell’underground come Viktor Krivulin e Tatiana Goriĉeva e da poeti conosciuti a livello ufficiale come Viktor Sosnora e Gleb Gorbovskij.

Il locale era un collante tra individui di diversa età e questo spiega la longevità della sua durata, con un fronte di resistenza che all’interno vedeva discussioni aperte su film, concerti, mostre, letture di poesie, fino allo scambio di manoscritti.

Dal 1964 al 1982 fu anche il periodo in cui Leonid Il’ič Brežnev ricoprì il ruolo di segretario generale del PCUS e capo di stato, ma l’attività letteraria all’interno del caffè proliferò nonostante le censure imposte dal regime.

Quel periodo anni dopo venne chiamato žastoj, ovvero stagnazione a causa dell’immobilismo della politica di quegli anni, un incancrenire delle istituzioni che creò un clima di inerzia e invecchiamento dei progetti in campo economico, sociale e culturale.

Gian Piero Piretto in Quando c’era l’URSS (Cortina, 2018) su Il caffè Saigon:

 

da quel mondo di Bohemien faceva parte anche una giovane donna fotografa, vittima della demotivazione, dell’ingerenza del potere, dell’invadenza del discorso nelle vite private, Maša Ivašinkova, compagna del poeta Viktor Krivulin, ma legata anche a un collega fotografo, Boris Smelov, dopo il divorzio dal primo marito, il linguista Melvar Melkumjan.

 

Maša faceva parte di quel numeroso pubblico underground che frequentava il Caffè. Compagna di vita del poeta Krivulin, legata anche a Smelov, un suo collega fotografo, scattò all’interno del locale un numero smisurato di foto senza mai mostrarle in pubblico. Si seppe che aveva anche componimenti poetici molto belli e nessuno poté mai accedervi perché li tenne sempre riservati: forse per un complesso di inferiorità nei confronti dei suoi amanti, grandi attivisti del caffè che leggevano in pubblico i loro componimenti. Visse facendo svariati mestieri: la guardarobiera, la bibliotecaria, la critica teatrale, ma soprattutto si sentiva una fotografa. Scattò foto per tutta la vita: scorci di quotidiano, angoli di città rubati e dolenti, ritratti espressivi di ribelli e dissidenti di quegli anni. Anche questi scatti non apparvero mai in pubblico.

Qualcuno la accostò a Vivian Maier, la bambinaia americana che fotografò il mondo che vedeva nel fine settimana e lasciò centinaia di rullini mai sviluppati che le avrebbero fruttato notorietà post mortem.

Maša fu vittima di una forte depressione e interruppe la sua attività lavorativa. Fu subito riconosciuta come un soggetto disturbato e definita una asociale. Si trovò a dover scegliere tra due possibilità, entrambe dentro un vicolo chiuso: il carcere o l’ospedale psichiatrico. Scelse il secondo dove morì di cancro nel 2000. Nei suoi anni di frequentazione del caffè sembra che abbia superato i 30.000 scatti trovati dalla figlia in diversi scatoloni in soffitta.

Ma il Saigon non fu soltanto luogo di incontri letterari e poetici.

Nei primi anni Ottanta diede segnali nuovi con altre forme artistiche, quando la musica faceva tremare i muri delle cantine di Leningrado, dove nascevano numerose band sfidando le censure di un governo vicino al collasso ma deciso a non mostrare segni di cedimento.

Leningrado era in Russia la città più occidentale del paese e considerata la più vicina all’Europa e al mercato nero.

Ecco dunque nascere gli eredi degli intellettuali anni Sessanta e Settanta, quelli appunto che frequentavano il Saigon, la fucina dei poeti, degli scrittori, degli studenti e degli informatori del KGB.

A proposito di tale tempesta generazionale di frequentatori, si è già raccontato di Viktor Coj, il frontman dei Kino. Viktor fu la stella più luminosa del rock sovietico, il Jim Morrison russo per via di quella sua aria da ribelle ma soprattutto per la sua morte prematura coperta di mistero.

Sulla scena le band si moltiplicarono: Zoopark, Alissa, Leningrad Center, DDT. Le autorità non vedevano di buon occhio quei personaggi alternativi, tutti schedati, che rappresentavano una minaccia al modello di cittadino sovietico.

La censura stava loro addosso e si racconta che all’interno del Saigon una parete a specchio dividesse il locale da una piccola stanza dove si nascondevano i funzionari del KGB arrestando ogni tanto qualche indesiderato.

Eppure, i testi delle canzoni non attaccavano direttamente il potere, non volevano sparare sul quartier generale, cantavano semplicemente la speranza di un mondo diverso, più aperto, dove i giovani potessero comunicare, parlare. Tutto questo era incompatibile con la massiccia e granitica realtà sovietica.

Il Saigon ora vive nei ricordi di chi lo ha vissuto, sostituto da grandi vetrine con WC, bidet e rubinetteria di una famosa marca italiana.

Resta un ricordo anche di quel processo di emancipazione nel campo della musica che coinvolse tanti ragazzi di allora, offrendo un modo di pensare diverso.

Ai giorni nostri la scena artistica russa si presenta con un’altra faccia. Gruppi identitari e nazionalisti che tessono le lodi di Putin e inneggiano alla potenza militare del paese.

Ma non tutto è così fedele alla linea. E allora nulla è cambiato nella politica sfrontatamente neoliberista del presidente Putin rispetto al passato, perché chi non si adegua viene colpito ancora duramente con la mannaia della censura.

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Un brindisi con Viktor Coj (parte III) https://www.carmillaonline.com/2023/10/29/un-brindisi-con-viktor-coj-parte-iii/ Sun, 29 Oct 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79313 di Giorgio Bona

(qui la prima parte, qui la seconda)

Rimbomba ancora nella testa la notte trascorsa al Caffè Saigon. Un’esperienza unica e indimenticabile, di quelle che ti accompagneranno per una vita.

Il nome Saigon pare sia dovuto alla battuta di un poliziotto che si rivolse a quattro ragazze che stavano fumando nonostante il divieto e aveva esclamato: ma che razza di Saigon avete combinato? Era durante la guerra vietnamita e la reputazione della città di Saigon era al massimo. Nel locale la vodka veniva lasciata da parte [...]]]> di Giorgio Bona

(qui la prima parte, qui la seconda)

Rimbomba ancora nella testa la notte trascorsa al Caffè Saigon. Un’esperienza unica e indimenticabile, di quelle che ti accompagneranno per una vita.

Il nome Saigon pare sia dovuto alla battuta di un poliziotto che si rivolse a quattro ragazze che stavano fumando nonostante il divieto e aveva esclamato: ma che razza di Saigon avete combinato? Era durante la guerra vietnamita e la reputazione della città di Saigon era al massimo. Nel locale la vodka veniva lasciata da parte perché era il caffè a far da padrone con la funzione primaria di aiutare a smaltire la sbornia della notte (“Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica” di Gian Piero Piretto, Cortina, 2018). Il menu ne proponeva diverse varianti: malen’skj prostoj, bol’soj dvojnoj, bol’soj detvernoj (semplice, doppio, quadruplo).

Scoprii quella sera che bere caffè al Saigon ti faceva entrare in quella cerchia di alternativi che la milizia non perdeva di vista anche se ogni tanto prelevava qualcuno per non abbassare troppo la guardia.

La frequentazione del Saigon prevedeva compagnie tra loro differenti: Boris Grebenščikov (leader del gruppo Akvarium), Viktor Coj (Kino), Jurij Ševčuk, il poeta Evgenij Rejn e lo scrittore Sergej Dovlatov.

Il viaggio per il ritorno a Mosca è stato confortevole, il posto letto rilassante e pulito: e al primo mattino mi sveglia l’addetta della carrozza ristoro con una tazza di tè.

A Mosca, come a Leningrado, mi rendo conto che c’è un mondo in fermento. Anche a Mosca, in Piazza Puškin, il mondo giovanile si riversa con più insistenza sotto gli sguardi della milizia che osserva indifferente i gruppi sempre più numerosi, animati da un grande desiderio di evasione, davanti al monumento dedicato al padre della letteratura russa. La nuova musica esce allo scoperto e si fa sentire, viaggia sottopelle, dà emozioni forti.

Come per Viktor la vita non è altro che una favola grigia, una falsa esistenza: nello scrigno della quotidianità sovietica sono custoditi assieme un mondo cupo e il desiderio di un cambiamento celato nell’esistenza di tutti i giorni. “Come una coperta di pezze è la città nella morsa delle strade. Sulla città fluttuano delle nuvole che soffocano il cielo azzurro. Poi ancora: “Sulla mia città c’è un fumo giallo, la città ha duemila anni trascorsi sotto una stella chiamata sole”.

Stena Coj è una parete di Mosca al numero 37 nell’intersezione tra la via Arbat e Krivoarbatskij pereulok. Viene considerata uno dei simboli della capitale. Ricoperta di graffiti, la parete è interamente dedicata a Viktor Coj e alla sua band, i Kino.

In quel luogo frequentemente visitata dai fans è consuetudine lasciare una sigaretta spezzata a metà, accesa, in uno speciale posacenere vicino al muro che venne imbrattato per la prima volta il 15 agosto 1990 con la scritta Viktor è morto oggi seguito da Paçka sigaret (pacchetto di sigarette), una delle più celebri canzoni dei Kino. Altre città hanno seguito l’esempio della capitale dedicando un muro all’artista scomparso: tra queste San Pietroburgo, allora Leningrado, dove Viktor e il suo gruppo nacquero, Sebastopoli, Chabarovsk, Dnipro…

 

Sono qui a guardare un cielo sconosciuto da una finestra estranea e non vedo neppure una stella conosciuta. Ho vagato ovunque per le strade, mi sono voltato e non sono in grado di trovare le tracce. Me se hai in tasca un pacchetto di sigarette non è poi così male il giorno.

 

Migliaia di giovani che forse possiamo indentificare con il testo di una sua canzone del primo album 45, Vremja est’, a deneg net (Ho tempo ma niente denaro), dedicato ai ragazzi, per lo più proletari, ai loro tentativi di sopravvivere e alla conduzione di una vita difficile.

Viktor morì in Lettonia, nelle vicinanze di Riga, il 15 agosto 1990, dopo essersi scontrato in auto contro un autobus. La sua prematura scomparsa, a soli 28 anni, alimentò molti miti, come l’idea che si fosse suicidato o che fosse stato eliminato da servizi segreti sovietici.

Nella sua auto furono trovate cassette con registrazioni vocali e la band le utilizzò varando un album postumo, Čërnyj al’bom (L’album nero) perché la copertina era completamente di colore nero.

Tra queste canzoni rilevante è Kukuška – “Quante canzoni ancora da scrivere, dimmelo, cuculo, canta insieme a me” –, dedicata al cuculo che nell’immaginario russo rappresenta un presagio di morte. E poi ancora i versi “giacere come un sasso o brillare come una stella”? Il dialogo con l’uccello apre il grande tema della morte.

All’epoca eravamo in piena perestrojka: oggi quei giovani hanno (come me) qualche anno in più. Risuonano le parole di alcuni di loro che cantano in gruppo intorno all’accompagnamento di una chitarra “la sorte ama di più chi vive secondo le leggi altrui, chi ha nel destino una morte giovane. Non ricorda le parole ‘sì’  e ‘no’, non ricorda i ranghi e i nomi e arriva a toccare le stelle non sapendo che è un sogno.

C’è ancora un gran movimento, un desiderio di vita come allora. Il rock non è più fuorilegge ma Viktor ci ha lasciato da pochissimo. Ho l’impressione che questi miei coetanei di allora siano come i personaggi dentro le sue canzoni, persone che nutrono un netto rifiuto con la vita esterna e che provano a trovare rifugio nella vita interiore e nella contemplazione (“la sorte ama di più..”).

Tutto questo diventa un brindisi collettivo e tutti alzano il bicchiere.

Cmo grammov?

Cmo grammov…

E per dirla come Viktor, dalle parole tratte dal suo testo Khochu peremen (Voglio cambiamenti), “Non c’è nient’altro, tutto è dentro di noi”.

(3-fine)

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Un brindisi con Viktor Coj (parte II) https://www.carmillaonline.com/2023/09/26/un-brindisi-con-viktor-coj-parte-ii/ Tue, 26 Sep 2023 20:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79189 di Giorgio Bona

(qui la prima parte)

Mi ritrovai all’incrocio tra il Nevsky Prospekt e il Vladimirskiy Prospekt. Una zona della città da sempre ritenuta malfamata, ma luogo ideale per il fermento della cultura underground.

Ecco il Caffè Saigon. Questo spazio fu un vero e proprio luogo di ritrovo per tutti quelli che nell’Unione Sovietica non si riconoscevano nella cultura organizzata dalle autorità ufficiali, in primis da quella della gioventù comunista del Komsomol.

C’era un senso di inquietudine perché la massa dei frequentatori stava per spostarsi in blocco e abbandonare il centro di [...]]]> di Giorgio Bona

(qui la prima parte)

Mi ritrovai all’incrocio tra il Nevsky Prospekt e il Vladimirskiy Prospekt. Una zona della città da sempre ritenuta malfamata, ma luogo ideale per il fermento della cultura underground.

Ecco il Caffè Saigon. Questo spazio fu un vero e proprio luogo di ritrovo per tutti quelli che nell’Unione Sovietica non si riconoscevano nella cultura organizzata dalle autorità ufficiali, in primis da quella della gioventù comunista del Komsomol.

C’era un senso di inquietudine perché la massa dei frequentatori stava per spostarsi in blocco e abbandonare il centro di incontro.

Pensai subito a un intervento della milizia da lì a poco e anch’io mi allontanai seguendo un gruppo di quattro ragazze che si accorsero della mia presenza. Una di loro mi aspettò e capii che era un invito a unirmi al loro gruppo. Così feci e lei disse di camminare veloce. Dopo venti minuti, eravamo in Via Rubinstein, al numero 13.

Questo era uno dei ritrovi magici per le prime esibizioni dei Kino, uno dei luoghi dell’anima di Viktor Coj.

Negli anni Ottanta si aprì la grande stagione del rock sovietico: accanto ai Kino si esibirono bande come DDT, Graždanskaja oborona, Mašina vremeni, che canonizzarono il genere certamente non senza problemi.

Se da un lato il fenomeno iniziò a diffondersi rapidamente, c’erano le spinte del governo che provarono a rendere vita difficile ai vari collettivi anche dopo la morte di Leonid Brežnev (1982). Ci provò Černenko (che muore però nel 1985) alimentando una caccia ai gruppi musicali costretti ancora una volta alla clandestinità. La ragione era proprio nei confronti dei testi prodotti che inculcavano cattivi valori identificati in droga, alcolismo e vita sregolata.

Tutti gli album di questi gruppi si diffusero su audiocassetta, in proprio: magnitizdat. In clandestinità. Queste cassette dovevano eludere la censura politica e diffondere il più possibile la musica.

Nella canzone dei Kino Khochu peremen (Voglio cambiamenti) uscita nel 1989, pochi mesi prima della caduta del Muro, siamo in piena Perestrojka sotto l’amministrazione di Michail Gorbačëv e i mutamenti evocati dal gruppo stanno rapidamente arrivando. “Cambiamenti chiedono i nostri cuori, / cambiamenti chiedono i nostri occhi, / […] / nelle nostre risate, nelle nostre lacrime, nel pulsare del sangue nelle vene…”.

Tale canzone diventò la colonna sonora dei giovani di Minsk nel bel mezzo di una rivolta non violenta suonata e cantata nelle strade e nelle piazze giorno e notte, per tenere sveglia la città e dimostrare una ferma opposizione dal basso al governo di Aleksandr Lukašenko.

Ma il testo arriva alla popolarità anche grazie a Assa, 1987, un film psichedelico che il regista Sergej Solov’ëv aveva girato negli anni Ottanta in Crimea e in cui anche Viktor interpretava una piccola parte: lo si vedeva camminare mentre indossava un lungo cappotto nero tra le sale vuote prima di entrare in ufficio. Lì incontrava una signora, la direttrice del ristorante, seduta a una scrivania. La signora gli leggeva un elenco di regole da seguire durante l’esibizione che doveva tenersi da lì a poco. Viktor sembrava ignorarla proseguendo imperterrito e salendo sul palco.

In Assa Solov’ëv aveva chiesto a Viktor di interpretare se stesso. I racconti degli amici testimoniano come lui non avesse atteggiamenti da rock star. In compagnia era piuttosto taciturno, scherzava poco e allo stile di vita rockettaro preferiva sport come il karate o la pesca. Il film rispecchierà dunque la persona che lui è: un emarginato, un solitario, di poche parole. E tale immagine offrì al suo pubblico durante gli anni di celebrità.

Nell’occasione della settantunesima edizione del Festival del Cinema di Cannes è stato presentato Leto (Summer, 2018), nuovo film del regista russo Kirill Serebrennikov. Il regista, tra l’altro non poté partecipare in quanto si trovava agli arresti domiciliari, accusato di peculato e irregolarità finanziarie nella gestione del Centro Gogol’ di Mosca. La parte di Viktor Coj vi è interpretata dall’attore tedesco coreano Teo Yoo: in effetti Viktor aveva tratti asiatici essendo figlio di un ingegnere cazaco di origini coreane e di un’insegnante russa.

Il film narra l’incontro di Coj con “Mike” Naumenko e sua moglie Natal’ja, un giorno d’estate 1981. In quel mese di agosto 1981 nasce la band con il nome Garin i Giperboloidy.

Nel film Serebrennikov tiene a far emergere quello che Naumenko aveva individuato in Viktor: un talento artistico straordinario. Il regista non manca peraltro di evidenziare anche la stretta sorveglianza che gli agenti del KGB esercitavano sul gruppo.

Dagli inizi della sua attività musicale Viktor non seguì il modello di riferimento del potere imposto ai sovietici. Fu espulso dalla scuola d’arte, studiò intaglio del legno e successivamente lavorò per un paio d’anni nel locale caldaia del suo condominio che ora è un museo a lui dedicato. Viktor per il regime era l’ingranaggio imperfetto della locomotiva proletaria, il buono a nulla, l’inutile al progresso sociale.

Ormai il buio stava calando deciso e la strada era affollata dal popolo della notte. Da lì a poco avrei previsto un intervento della milizia, anche se tutti sembravano non preoccuparsi, attenti soltanto alla musica che veniva dall’interno del locale.

Qualcuno ripeteva le parole di una canzone che sembrava conoscere a memoria.

Come in un film di Pavel Lungin una delle mie improvvisate compagne di strada fermò un tassista abusivo per acquistare una bottiglia di vodka. Era cosa nota in Russia che i tassisti abusivi facessero anche mercato nero spacciando vodka agli alcolisti.

Con la bottiglia in mano la ragazza cantava: La morte ha valore per vivere, l’amore ha valore per attendere.

Tutto questo valeva un brindisi.

Cmo grammov?

Cmo grammov…

(2-continua)

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Un brindisi con Viktor Coj (parte I) https://www.carmillaonline.com/2023/09/19/kino/ Tue, 19 Sep 2023 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78993 di Giorgio Bona

Cento grammi di vodka e il fumo di una Kazbek a invadere le narici mentre passeggiavo lungo la Neva a Leningrado. Un invito alla calma per una due giorni di evasione dal frenetico universo moscovita.

Leningrado si preparava per la notte. Godere della sua bellezza e del suo fascino ha qualcosa di straordinario. Abitare in Russia ti porta a vedere la vita con un’ottica completamente diversa, ti invita alla riflessione.

Nella fretta della partenza – realizzai all’improvviso – non avevo effettuato il cambio di valuta: vista l’ora tarda non avevo [...]]]> di Giorgio Bona

Cento grammi di vodka e il fumo di una Kazbek a invadere le narici mentre passeggiavo lungo la Neva a Leningrado. Un invito alla calma per una due giorni di evasione dal frenetico universo moscovita.

Leningrado si preparava per la notte. Godere della sua bellezza e del suo fascino ha qualcosa di straordinario. Abitare in Russia ti porta a vedere la vita con un’ottica completamente diversa, ti invita alla riflessione.

Nella fretta della partenza – realizzai all’improvviso – non avevo effettuato il cambio di valuta: vista l’ora tarda non avevo alcuna voglia di fare code all’ufficio cambi di qualche albergo per stranieri con quelle file interminabili.

Si sa, la Russia è celebre per le sue code, per i suoi moduli da compilare, per le lungaggini della burocrazia.

Ecco tre tipi che mi stavano venendo incontro, potevano fare al caso mio. Tre farsovsiki (trafficanti) che di solito si aggirano nei pressi degli alberghi per concludere affari, soprattutto con l’attività del mercato nero.

Uno dei tre, quello che sembrava il capo, si avvicinò: “Cambiare? Un dollaro due rubli e mezzo”. Gli feci presente che a Mosca il cambio al nero era più favorevole e un dollaro si cambiava a tre rubli.

“Qui non siamo a Mosca, siamo a Leningrado. Malavita italiana malavita russa fare affari”.

Tirai fuori trenta dollari, e settantacinque rubli scivolarono velocemente nelle mie mani. A questo punto un suo compare si avvicinò, viso a viso, e mi mostrò un’audiocassetta, di quelle rudimentali, registrate in proprio. Voleva dieci dollari e io allungai la banconota per levarmeli di torno. Si dileguarono in un attimo.

Alla fine di agosto 1981, Leonid Brežnev era ancora al governo del paese. Da lì a breve sarebbe avvenuta la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Erano gli anni dell’atrofia del periodo brezneviano e del lento passaggio di potere.

Ma fu proprio nell’agosto del 1981 che in uno scantinato nella periferia di Leningrado sotto il nome di Garin i Giperboloidy (“Garin e le iperboloidi”, ispirato al racconto Le iperboloidi dell’ingegnere Garin di Aleksej Tolstoj), Viktor Coj (basso e voce), Aleksej Rybin (chitarra) e Oleg Valinskij (batteria) si incontrarono: con il tempo sarebbero stati considerati i pionieri della musica rock in Unione Sovietica. Dopo l’abbandono di Valinskij richiamato dalla coscrizione obbligatoria la band mutò nome in Kino.

Ora sette dei loro brani erano nelle mie mani, in quella rudimentale audiocassetta registrata chissà dove e che non vedevo l’ora di ascoltare.

I Kino iniziarono a suonare sulla scena underground esibendosi in piccoli appartamenti e copiando in casa le audiocassette delle loro esibizioni. Testi che rievocavano sensazione di tristezza, insoddisfazione di vivere in una società corrotta e oppressiva, senza alcuna opportunità di miglioramento, e rappresentarono per una decina d’anni la voce del malcontento di quei cittadini stanchi delle condizioni precarie in cui versavano e delle menzogne dei politici.

La loro stella smetterà di brillare quando nel 1990 il suo leader Coj morirà in un incidente d’auto in Lettonia e il gruppo abbandonerà la scena dopo aver raggiunto una grande popolarità. Nelle strade della capitale non di rado si sentono ancora oggi le canzoni dei Kino interpretate da giovanissimi musicisti di strada. La volontà è di perpetuare un messaggio avvertito come pressante nonostante lo scetticismo di molti: la perestrojka non è una moda che passa, un fenomeno ancorato ai mutamenti degli anni Ottanta, ma un grido di libertà “puro” che resta nel tempo come provocazione necessaria.

La band aveva iniziato la propria attività in uno dei luoghi simbolo del rock sovietico, il Leningradiskij Rok-Club nella Via Rubinstein, uno degli ambienti più progressivi della città: vi si riunivano i giovani devoti alle espressioni d’arte occidentali e il rock rientrava tra queste. Ovviamente in Russia non ebbe vita semplice: come una letteratura samizdat la sua caratteristica intrinseca fu la clandestinità.

45 era il titolo dell’audiocassetta in mio possesso, la prima esperienza del gruppo, un lavoro sicuramente acerbo dove più che la musica erano i testi ad attirare l’attenzione: metafore della vita borghese e del bisogno di evadere, critiche all’omologazione voluta dal governo, incantevoli paesaggi naturali che evocavano visivamente l’idea di spirito libero.

Di band che cominciavano a suonare il rock senza il guinzaglio delle autorità ne stavano nascendo diverse, costrette a restare nascoste e a esibirsi in clandestinità quasi sempre con strumenti acustici adeguati a non essere facilmente rintracciate dalla milizia.

45 uscì ufficialmente nel 1982. Due anni dopo, con un cambio di sound all’inizio dell’epoca gorbacioviana, ecco Načal’nik Kamčatki (1984), cui collaborò Boris Grebenščikov, leader e cantante di un’altra band ancora oggi attiva, gli Akvarium.

Proprio in quell’anno la musica dei Kino sollevava le complesse questioni sociali e politiche degli anni della svolta. Dichiaro la mia casa una zona denuclearizzata assurse così a canzone per eccellenza contro la guerra, un inno per i giovani inviso al KGB che ascrisse il gruppo all’elenco dei più dannosi: e Viktor Coj ne era l’emblema ufficiale.

Gruppa Krovi (Gruppo Sanguigno, 1988), il sesto album, è sicuramente quello più conosciuto del gruppo, e uno dei più significativi in clima di perestrojka: i leitmotiv sono un incitamento all’azione, al cambiamento, alla lotta. Per molto tempo Gruppa Krovi venne associato alla guerra in Afghanistan:

 

Il mio gruppo sanguigno è segnato su una manica,

C’è il mio numero ordinale segnato su una manica,

Augurami un po’ di fortuna in battaglia…

 

Questo lavoro consacrerà il gruppo oltre la cortina di ferro e la band si esibirà in Europa, anche in Italia a Melpignano in provincia di Lecce dove suonerà un paio di canzoni mentre il pubblico resta in attesa del concerto dei Litfiba: e proprio in questa occasione nascerà l’idea di uno storico tour dei Litfiba in terra sovietica.

Mi fermo qui mentre ho appena attraversato il Nevsky Prospekt in solitudine e la città si prepara per la notte.

Una pioggerellina fine accompagna il mio cammino. Accendo un’altra Kazbek e ogni tiro è una nota: Non puoi dormire qui, non puoi vivere qui. Buongiorno ultimo eroe, buongiorno a te e a quelli come te.

(1-continua)

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