Julio Cortázar – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nello spazio della memoria, nella danza del Tempo https://www.carmillaonline.com/2021/04/29/nello-spazio-della-memoria-nella-danza-del-tempo/ Thu, 29 Apr 2021 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66178 di Paolo Lago

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, Terrarossa, Bari, 2020, pp. 292, € 16,00.

Daniele Petruccioli, studioso e traduttore, col suo romanzo d’esordio La casa delle madri, ci regala con grande maestria il delicato affresco di una saga familiare caratterizzato da una scrittura sinuosa e avvolgente. Una scrittura che – per mezzo delle sue volute, del suo navigare attraverso le onde della memoria, dei suoi incisi fra parentesi che assumono la stessa erranza nomadica del pensiero – sembra mimare lo scorrere del tempo attraverso un vero e proprio viaggio testuale, una [...]]]> di Paolo Lago

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, Terrarossa, Bari, 2020, pp. 292, € 16,00.

Daniele Petruccioli, studioso e traduttore, col suo romanzo d’esordio La casa delle madri, ci regala con grande maestria il delicato affresco di una saga familiare caratterizzato da una scrittura sinuosa e avvolgente. Una scrittura che – per mezzo delle sue volute, del suo navigare attraverso le onde della memoria, dei suoi incisi fra parentesi che assumono la stessa erranza nomadica del pensiero – sembra mimare lo scorrere del tempo attraverso un vero e proprio viaggio testuale, una erranza nel tempo che si colloca in un preciso spazio. O, meglio, in due spazi, in due case. Una è la casa al mare, chiamata “la casa delle onde”, l’altra è la “casa delle madri”, l’enorme appartamento cittadino appartenente da generazioni alla famiglia del “notaio”. Le case sono le vere protagoniste di un racconto che apre varchi nello spazio della memoria, momenti quasi incantati nei quali la realtà, per mezzo di recondite magie, diviene probabilmente più comprensibile. E allora, col Montale della Casa dei doganieri possiamo chiederci: “Il varco è qui?”. Forse sì, il varco è qui, nelle stanze delle nostre case avite: e, se da esse ci separiamo, ci priviamo, per certi aspetti, anche di noi stessi, della nostra più segreta essenza.

Il romanzo si apre con la “casa delle madri” sventrata, senza mobili, senza pavimento, piena di buchi e aperture effettuate dai muratori che stanno lavorando per la “nuova proprietà”. All’inizio la casa appare come un vero e proprio corpo pulsante: un corpo martoriato e ferito ma pronto per essere ricomposto per una nuova vita, per essere riconsegnato a un nuovo tempo, quello del futuro, che poi si ritrasformerà inesorabilmente in passato. La scrittura di Petruccioli attua un vero e proprio “gioco col tempo”, come ha notato Gérard Genette a proposito dello stile della Recherche proustiana. Si tratta – scrive Genette – di “interpolazioni, distorsioni e condensazioni temporali” che aprono la scrittura a numerose anacronie. Perché, in definitiva, in Proust, la descrizione diventa narrazione e si svolge nell’arco di un tempo caratterizzato da costanti anacronie ma anche da ritorni. Si tratta, infatti, di una temporalità iterativa. Nella narrazione messa sapientemente in atto da Petruccioli le descrizioni si trasformano in narrazione, all’interno di uno stile in cui sono praticamente assenti la forma mimetica e i dialoghi. La narrazione – e la narratività primaria del suo romanzo – è tutta nella forza sinuosa e avvolgente delle descrizioni delle case-corpi, spazi fisici, profondamente corporei, ma anche spazi mentali, esistenti quasi in funzione della mente dei personaggi che abitano quegli stessi spazi. Ed ecco che dall’ambiente generatore di personaggi profondamente corporei emerge una vera e propria saga familiare venata di magia che ci può far pensare sia a Menzogna e sortilegio di Elsa Morante che a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Marquez. I personaggi di Speedy e Sarabanda ricordano, appunto, quelli di Garcìa Marquez: quasi ‘magici’, dotati di una bellezza e di una essenza per certi aspetti soprannaturali. Sarabanda che, uscendo dalla terrazza, corre sui tetti della città per rincorrere Armanda, il gatto maschio con un nome da femmina, appare come rivestita di una grazia surreale e incantata, conferendo un senso di levità e di leggerezza (in senso positivo, quella stessa leggerezza di cui Calvino tesseva le lodi nelle sue Lezioni americane) all’intera narrazione. Sarabanda è un personaggio lieve, leggero, incantato, rivestito di una magica grazia, come il nome che porta, il quale indica, non a caso, una danza lenta e solenne che ha la sua probabile origine in una sfrenata danza spagnola d’amore. Anche Speedy, il marito della ragazza, evoca nel suo nome la velocità e la leggerezza, caratteristica che emerge non da ultimo nel loro libertario stile di vita, la cui giovinezza si colloca tra fine anni Sessanta e inizio Settanta, essendo loro figli del Sessantotto e della contestazione.

Ad una coppia eterea e quasi ‘incantata’, magicamente separata dalla realtà come Speedy e Sarabanda, innamorati ma ben presto separati, ne corrisponde una prepotentemente fisica e ‘corporea’ come Ernesto ed Elia, i loro due figli gemelli. Ernesto, segnato fin dalla nascita da una malattia congenita che gli ha paralizzato la mano destra e compromesso l’uso di una gamba, porterà sempre con sé le stigmate di un corpo malato e sofferente che, quasi a confermarne la prorompente fisicità, obnubilerà con l’uso di alcool e droghe. Elia, connotato da un ambiguo e sfuggente eros, si caratterizzerà invece come il custode in ombra del fratello, in un rapporto di amore-odio dai tratti sado-masochistici fino a sfiorare le più oscure ossessioni del doppio e della polarità gemellare. Le due coppie sono immerse nel ventre buio e meraviglioso delle due case (anch’esse costituenti una sorta di coppia), in lunghissimi corridoi notturni ma anche in stanze quasi sospese sui tetti della grande città (che rimanda sottilmente a Roma, città dell’autore), le cui finestre riverberano della luce del sole e della luce che si riflette nelle acque del fiume che scorre molto più in basso, ma sono immerse anche nelle camere della casa al mare che, invece, si affacciano sull’azzurra distesa marina e sul vento.

Le case sono anche sature di oggetti memoriali e oggetti-feticcio che, al pari dei luoghi e degli spazi, sono importanti veicoli di affettività: “Noi crediamo di legarci a relazioni, sentimenti, persone; ma siamo molto più legati ai luoghi e agli oggetti che hanno accolto noi, e queste persone, coi sentimenti che ci siamo suscitati a vicenda e le relazioni che abbiamo intessuto. Sono i luoghi e gli oggetti (i corpi, i corpi puri e semplici), con la loro malleabilità, la loro possibilità di essere toccati, la capacità di adattarsi, a raccontarci di quelle relazioni, di quelle persone e dei nostri sentimenti verso di loro: a dirci, cioè, di noi”. Come scrive Massimo Fusillo in Feticci, “riattivare la memoria è forse il ruolo che l’oggetto svolge più di frequente in letteratura”, a partire dalla stagione del grande romanzo europeo di Goethe e Dickens. “Sfruttando il meccanismo retorico della sineddoche” – continua lo studioso – “con la sua densità corposa l’oggetto evoca un intero mondo di affetti e di ricordi: è una parte che, tramite la sua potenza visiva, riesce a sostituire con particolare efficacia il tutto”. Gli oggetti che si trovano, come vere e proprie sedimentazioni della memoria, nelle stanze delle due case evocano, appunto, un vero e proprio “mondo di affetti e di ricordi”, un mondo che, nelle ristrutturazioni, vere e proprie distruzioni devastanti, viene spazzato via. E oggetti memoriali sono anche le pareti distrutte, i tramezzi sfondati, i pini abbattuti perché ostacolano la vista del mare, il praticello, un tempo brulicante di piccola vita, inesorabilmente pavimentato e cementificato.

All’interno di questi spazi della memoria, quasi essenza stessa del corpo-casa, ci sono i morti, le ombre, le presenze che ancora animano quei luoghi delineate in un impianto tematico che appare come una variante leggera e allusiva del topos letterario della casa infestata. Eppure, sembra che le presenze della “casa delle onde” e della “casa delle madri” non amino manifestarsi esplicitamente ai vivi, come da tradizione. Secondo quanto scrive Massimo Scotti nella sua Storia degli spettri, infatti, scopo ultimo dello spettro è “quello di manifestarsi al vivente, dissimulando o enfatizzando la qualità arcana del contatto” mentre “ai vivi tocca il compito di diffondere la narrazione, legando così un luogo alla leggenda di un incontro soprannaturale”. Perché, in fin dei conti, come leggiamo nel romanzo, “la casa è divisa in due. I morti si aggirano per camere scomparse, facendo inciampare i vivi in cose che non dovrebbero stare dove stanno”, mentre “famiglie di vivi” condividono i loro spazi con “schiere di morti che non hanno nessuna contezza di compravendite, frazionamenti, divisioni, e continuano ad attraversare gli spazi”. E così, nelle due case sopravviveranno le presenze del notaio e della moglie, di Speedy e di Sarabanda così come, ai tempi in cui essi erano in vita, in quelle stesse case sopravvivevano le presenze di altre persone che precedentemente le avevano abitate. Il gioco col tempo si trasforma in una danza ostinata e leggiadra di presenze, in una vera e propria sarabanda di ombre e di sguardi velati e inconsistenti. Le case sono divise in due, coabitate dai vivi e dai morti, come in Casa tomada di Julio Cortázar (e come nel film The Others, di Alejandro Amenábar), in cui le presenze spettrali emergono dalle spazialità di case che conservano i ricordi del passato. E quelle stesse presenze si possono manifestare in forma più esplicita, forse, agli esseri più sensibili, gli animali, come in questa leggiadra apparizione di Sarabanda-spettro, seduta a guardare il mare: “Da dietro la vetrata, ogni tanto un topolino si alza sulle zampe posteriori e, vuoi per l’effetto controluce del tramonto, vuoi per il rifrangersi dei raggi sulla vetrata (vuoi perché a volte i morti si dimenticano, o non si curano, di lasciarsi vedere da animali e da quegli esseri umani più affini ad altre specie), riesce a fissare i suoi due occhietti sulla figura in trasparenza di una signora accoccolata, con i capelli crespi e le gambe lunghe e magre, la testa voltata verso il mare”.

Ma i veri spettri sono probabilmente i nostri ricordi e continuano a vivere nella memoria, negli spazi che coincidono con essa perché saturi di immagini che appartengono a noi stessi. Quegli spazi, alla fine, siamo proprio noi perché, come scrive Emily Dickinson, “non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro”. Siamo noi, indissolubilmente legati a oggetti, luoghi, case, muri, pareti, finestre, sguardi che si aprono sui paesaggi del ricordo. La sapiente scrittura di Petruccioli ce lo rammenta in modo elegante e gentile, e ci invita a una leggiadra danza, a una magica sarabanda che, contemporaneamente, è un incantato gioco col Tempo.

 

Riferimenti bibliografici:

M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Il Mulino, Bologna, 2012.

G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino, 1976.

M. Scotti, Storia degli spettri. Fantasmi, medium e case infestate fra scienza e letteratura, Feltrinelli, Milano, 2013.

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Il reale delle/nelle immagini. Spettacolo e irrealismo della società reale https://www.carmillaonline.com/2017/10/01/39984/ Sat, 30 Sep 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39984 di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre [...]]]> di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre più spesso la realtà riprodurre la finzione [su Carmilla]. Se da una parte il reale ama replicare il finzionale, è vero anche che spesso quest’ultimo tende, e forse proprio per questo, a fare del primo il suo tratto distintivo

generando effetti visivi o letterari di contenuto dentro contenuto, come il romanzo dentro al film o viceversa, citazionismi religiosi o mitologici raffigurati o “girati” dentro una scena che con le allusioni non hanno nulla in comune. La mise en abyme dà vita a un doppio, come nel caso dello specchio, condividendo con questo l’artificio o la stregoneria che gli consente un simile effetto. La mise en abyme fa di ciò che ha originato un medium, un ingresso da attraversare, investigare e forse anche da riempire, poiché è proprio lì che si cela l’essenza di un’opera. La creazione di un’entità (persona o oggetto) come doppione di un’entità primaria possiede un’elevata somiglianza a tal punto da far cadere in stato confusionale chi osserva o legge; eppure, nonostante la considerevole attendibilità, questa risulta evanescente, intangibile e parzialmente confutabile, poiché l’accesso dentro l’abisso è collocato all’infinito. Conseguentemente, la mise en abyme produce una trascrizione che riverbera quel principio auratico custodito nell’opera originale. Un’ombra senza tratto distintivo alcuno, poiché calco di un’autentica natura (p. 91).

Cutrona ricorda come a partire dalla tragedia greca il termine spettacolo implichi l’atto del guardare qualcosa o qualcuno da parte di un pubblico, dunque si tratta di un’esperienza antropica dipendente inizialmente da riti religiosi, poi caratterizzata dal legarsi del mito del dramma al racconto. Lungo tale percorso la storia dello spettacolo ha finito con l’intrecciarsi fortemente con quella dei media dando vita ad un rapporto contraddittorio.

Il fascino delle rappresentazioni ha contribuito a modificare la percezione ed i valori dell’uomo, tanto che lo stesso capitale si è sempre più smaterializzato «mediante un’evoluzione da merce a immagine e da immagine a merce […] È lo Zeitgeist della nostra epoca, è proprio da lì, che tutto inizia e finisce, non c’è altra forma di creazione di un hic et nunc, se non quella di un continuo set cinematografico, che si tratti degli studios di larga fama piuttosto che, quelli di un talk show […] di casa nostra. Le regole non cambiano, il gioco ha sempre un solo fine: mimare la vita» (p. 12). Inutile, sembrerebbe, provare a resistere o scontrarsi sul terreno dello spettacolo in quanto quest’ultimo pare in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria.

All’interno di un capitalismo votato all’immateriale, ogni oggetto conta in quanto merce ed a contare è la sua forma simbolica. Se il valore di un bene, oltre che dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo, dipende sempre più dalla condivisione che l’immagine-merce e merce-immagine riescono ad ottenere, allora, suggerisce Cutrona, «più forte è il lancio dell’immagine-merce più visibile e condivisibile è la merce-immagine, pertanto si tratta dell’odierno valore di scambio, il potere della circolazione che conta sull’astrazione. Lo spettacolo in tutte le sue forme è attualmente il titolare della produzione, l’unica risorsa che si fa immagine della società capitalistica avanzata» (p. 12). Sarebbe dunque nello spettacolo che risiede il vero motore dell’irrealismo della società reale, visto che sempre più spesso il reale tende a richiamare o duplicare la finzione-spettacolo rendendo sempre più indistinguibili i due mondi.

Guy Debord indica come caratteristiche di quella che definisce società dello spettacolo integrato (sintesi di spettacolo concentrato e spettacolo diffuso) «il rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente» (pp. 14-15) e, suggerisce Cutrona, «Il rinnovamento tecnologico, l’eterno presente e il falso indiscutibile, sono le proprietà del mondo postmoderno» (p. 15). Essendo entrati in un’epoca in cui l’individuo tende ad avere un contatto con la realtà soltanto attraverso le immagini – si pensi, ad esempio, come la ripresa effettuata con lo smartphone rimpiazzi l’osservazione diretta dei luoghi attraversati – lo spettacolo oggi sembra rappresentare

la struttura scheletrica dell’odierna società dei consumi, sorretta da un rapporto sociale tra individui, a sua volta mediato da immagini. Se il bene principale è l’immagine, il consumatore contemporaneo è lo spettatore, il proletariato a cui si riferiva K. Marx si è evoluto nella classe dei famelici spettatori di fantasmagoria, certamente più consapevoli di un tempo. Curiosità e zelo determinano l’approccio a sperimentare nuove dinamiche e modalità di fruizione che, in questo punto culturale idealizzano l’audiovisivo come fondamento del dialogo collettivo, linfa vitale dell’l’imago-sfera (quel serbatoio di innumerevoli immagini fluttuanti disponibile a tutti), popolata da binari di ogni paese (p. 15).

Se in generale, rispetto al passato, è comunque sicuramente cresciuta la coscienza critica degli spettatori nelle modalità di fruire la realtà e le sue rappresentazioni, vale la pena soffermarsi sui tentativi di resistenza e di conflittualità più consapevoli ed a tal proposito Cutrona passa in rassegna alcune proposte della Psicogeografia, nella sua messa in discussione del luogo, e del fenomeno Lettrista, anticipatore di alcune linee di forza proprie dell’Internazionale Situazionista.

La Deriva Lettrista implica un modo di intendere libero finalmente da ogni pregiudizio, un’osservazione attenta dello spazio ma anche degli avvenimenti che ci circondano, capacità questa, di sottolineare il valore in ogni dettaglio. Qualunque spazio, una città, un paesaggio, smette di essere agli occhi di un Lettrista un appezzamento di terra, ma un’area contenente svariati codici dettati da un’ideologia dominante, visualizzarli costituisce la prima finalità. Una critica radicale per azzerare la società della merce e rendere l’uomo libero.
Analoga pratica è la Deriva Situazionista, ancora una volta la liberazione dai dispositivi ambientali percepiti come dispotici. Un volontario smarrimento tra il vagare e il cercare senza meta e scopo; il senso di questo sbigottimento, è aprire la mente verso nuovi, inattesi e magari anche, estranianti aspetti della realtà. Una sorta di training sensoriale che consente di avvertire nuove intuizioni, percezioni ed esperienze estetiche attraverso cui i soggetti si relazionano (pp. 23-24).

Arriviamo così al détournement situazionista, pratica che

mira a far deviare chi lo pratica da certi alienanti e dispotici meccanismi culturali, specialmente se legati alla comunicazione di massa, recepiti in forma acritica […]. Il détournement può essere visto come una deriva che procede, però, da un’idea di critica politica o culturale finendo col modificare oggetti estetici già dati (testi, immagini, suoni, ecc.) […] Una pratica combinatoria che, trova un senso inaspettato per “dirottare” il principale intento di quello specifico codice comunicativo. Testi o immagini risultano estranei, inattesi e portatori di una nuova direzione di significato che originariamente non avevano. Il détournement è definibile come un particolare caso di Deriva attivato sul fronte storico-culturale e mediatico della società dello spettacolo (p. 24).

Da tempo Jean Baudrillard insiste nel segnalare come la società contemporanea sia ormai talmente alienata da farsi manifestazione di illusione (le merci), in cui lo spettatore finisce con l’essere un lavoratore a sua insaputa ed i mezzi di comunicazione, a partire dalla televisione, hanno contribuito enormemente a tale trasformazione.

Nel suo saggio, Cutrona sottolinea giustamente come ben da prima dell’avvento della cultura di massa, eventi riguardanti la collettività si erano manifestati tanto nell’antichità, quanto in età medievale e, agli albori della modernità, nel periodo rinascimentale ma, sostiene lo studioso, oggi «l’uomo e i suoi sentimenti, sono ormai ridotti a merce in codici e algoritmi» (p. 25), dunque questi utenti-spettatori vengono costantemente monitorati ed analizzati per vendere loro insieme al prodotto «anche un pezzo di ideologia racchiusa in esso» (p. 25).

Venendo al meccanismo della mise en abyme, ovvero alla questione specifica del volume di Cutrona, secondo Andrè Gide in un componimento si trova la coincidenza «tra il narratore (costruzione letteraria e testuale) con il narratario (il personaggio che compare nel testo come eventuale ed ipotetico destinatario di ciò che il narratore enuncia, il lettore reale, può identificarsi nel personaggio che “legge” fino a coinciderci)» (pp. 27-28); siamo dunque di fronte ad un’esperienza riflessiva che attraverso un procedimento d’identificazione astratta conduce ad un ragionamento. «Una duplicazione interna all’autore, dapprima, che dà vita ad una forma d’arte, che vive una vita propria, come una realtà autonoma, libera ed indipendente. Racchiude in se stessa, in modo univoco, l’opera dentro l’opera. Un soggetto sdoppiato, già connaturato nel proprio sé, decide di creare un oggetto, un’estensione del proprio sé, mediante idee o congetture, più o meno astratte, che seguono un cammino proprio, in un destino temporalmente sconosciuto» (p. 28).

Se la narrazione è un modo di organizzare la realtà, sostiene Cutrona, allora opere come i romanzi ed i film sono da intendersi come delle istruzioni utili per creare un processo immaginativo ed il «meccanismo narrativo che vi è dietro ad una delle forme scelte, ha a che fare con la nostra percezione della realtà. In questo processo, una realtà si trova entro un’altra realtà, la prima, è caratterizzata da precise coordinate: la porzione del suolo di mondo che stiamo occupando, la seconda, è quella che immaginiamo mediante stimolazione, ora illusione, ora realtà» (p. 34). Probabilmente è il linguaggio audiovisivo ad offrire le possibilità più complesse di quella mise en abyme capace di rivoluzionare la percezione, «potenziando la prospettiva di visione, mediante una registrazione del reale, caustica per gli occhi dello spettatore e urtante per la sua sensibilità, creando non a caso, il suo artificio con precisione millimetrica, provocando una vertigine fra illusione e realtà» (p. 47).

A questo punto nel saggio ci si occupa di opere pittoriche, letterarie e cinematografiche a partire da alcuni dipinti di Jan van Eyck e Diego Velázquez a rappresentanza delle tante opere che hanno fatto ricorso alle proprietà di duplicazione proprie dello specchio inserito nella scena o del quadro nel quadro. Ed è proprio nella pittura fiamminga del XV secolo che può essere facilmente rintracciato, suggerisce Cutrona, il principio creativo della mise en abyme. Si pensi ad esempio al celebre ritratto de I coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck, dipinto che ad ogni scansione visiva rivela nuovi particolari e nuove tracce da indagare, per non parlare poi della presenza dello specchio, elemento chiave della mise en abyme, «che raddoppia l’ambiente almeno in due dimensioni, mostrando le spalle dei protagonisti, e non solo» (p. 30). Nel corso del XVII secolo Diego Velázquez è soprattutto attraverso il meccanismo del dipinto nel dipinto, del mettere un’immagine all’interno di un’altra, che costruisce la mise en abyme; si pensi a produzioni come Las Meninas (1656), Le Filatrici (1657) e Cristo in casa di Marta e Maria (1620).

In ambito letterario la tecnica della mise en abyme è indagata da Cutrona in opere come Questo non è un racconto (1772) di Denis Diderot, romanzo breve caratterizzato dal meccanismo del racconto nel racconto, L’idolo delle Cicladi (1965) di Julio Cortázar, che narra le vicende di tre archeologi alle prese con un manufatto dai poteri magici e della raccolta di racconti di genere fantastico Finzioni (1944) di Jorge Luis Borges. Di quest’ultima raccolta Cutrona indaga i racconti in cui si palesa la mise en abyme più esplicitamente: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (1940), ove l’immaginazione è «il solo ed unico medium che riflette una realtà, dentro una realtà, che non esiste materialmente ma idealmente» (p. 36), La Biblioteca di Babele (1941), in cui il gioco della «ripetizione, o ri-presentificazione della realtà si manifesta in un “collocato all’infinito”, da qui: en abyme» (p. 36), e Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), racconto ove libri e labirinti «offrono al lettore continue e infinite possibilità: di creazione, proiezione e duplicazione della realtà» (p. 36). Questi scritti di Borges, sostiene Cutrona, rappresentano una dimostrazione di come siano infinite «le possibilità, i livelli, le strutture, che danno vita ad un ordine: finito e infinito, reale o virtuale, scritto, dipinto o rappresentato, che fonda radici su un caos apparente ed ermetico» (p. 37).

Per quanto riguarda la produzione cinematografica il riflesso allo specchio rappresenta la mise en abyme per eccellenza e tale gioco di riflessi può offrire allo spettatore parecchi suggerimenti circa i protagonisti; dal riflesso allo specchio è possibile cogliere la loro vanità o il disgusto che provano per se stessi, il volere identificarsi nel riflesso o il timore provato nei suoi confronti.

Nel saggio vengono affrontati diversi film a partire da Lo studente di Praga (Der student von Prag, 1913) di Stellan Rye, ove «il doppio, possiede una consistenza autonoma e diviene un doppio persecutorio per il giovane studente. Si tratta della fuoriuscita di una parte del sé, e indica forse, l’esistenza di una dimensione inaccessibile» (p. 40).
In Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1931) di Rouben Mamoulian, lo specchio svolge un ruolo importante nel gioco di riflessi, duplicazioni ed identificazioni di Jekyll/Hyde ed in Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, Cutrona si sofferma sulla celebre inquadratura in cui, sul finire del film, la solitudine di Charles Foster Keane viene suggerita attraverso un gioco di riflessi infiniti ottenuti dal riflettersi del protagonista su uno specchio posto di fronte ad un altro specchio.
In Fino all’ultimo respiro (À Bout de souflle, 1960) di Jean-Luc Godard, non mancano giochi di sguardi e riflessi tra i protagonisti davanti allo specchio e per quanto riguarda Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, lo studioso si sofferma inevitabilmente sul celebre monologo allo specchio del protagonista interpretato da Rober De Niro.
Per quanto riguarda Femme Fatale (2002) di Brian De Palma, l’analisi fa riferimento all’inquadratura costruita sul film nel film in cui vediamo la protagonista intenta a guardare alla tv La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder.
In Secret Window (2004) di David Koepp, il protagonista, in preda al suo alterego, si trova riflesso “in maniera surreale” allo specchio come nel dipinto La riproduzione vietata, (1937) di René Magritte ed in Harry Potter e i doni della morte (Harry Potter and the Deathly Hallows – Part 1, 2, 2010) di David Yates, lo studioso fa riferimento tanto alla suddivisione dell’anima del signore oscuro Lord Voldemort in varie parti che al meccanismo generale proprio dell’intero ciclo Harry Potter in cui è possibile «riscoprire nuove interpretazioni come un gioco che cambia le sue regole di continuo, anche a distanza di anni; soffermandosi, i livelli di finzionalità espletati nella saga non lasciano traccia di alcun artificio, piuttosto, richiamano l’attenzione in un percorso rocambolesco tra realtà e finzione» (p. 45).
Infine, un doveroso esempio di cinema d’animazione conduce Cutrona ad affrontare Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki, film in cui «lo specchio non riproduce solamente la realtà, ma la altera, la manipola» (p. 45).

La mise en abyme, però, sostiene Cutrona, oltre che come un artificio, una mistificazione del reale, dovrebbe essere intesa come estensione del pensiero, come strumento utile per indagare «una porzione di tempo, spazio, privo di fondo e temporalità» (p. 92). Per certi versi la mise en abyme può essere paragonata ad un sogno che «attinge dal reale ma lo ricrea in uno spazio mobile, vicino ma distante al contempo, lasciando un’impronta senza alone alcuno» (p. 92).

All’interno dell’attuale epoca caratterizzata dall’ipertrofia visiva, l’individuo-voyeur tende a credere a – e sentirsi rappresentato da – tutto ciò che passa davanti ai suoi occhi come si trattasse di verità indiscutibile. Meglio sarebbe, sostiene Cutrona, «tenere ben presente i punti di vista critici dei Lettristi prima e Situazionisti dopo, i quali, teorizzavano una certa libertà da ogni dispositivo percepito come dispotico e controllato, annullando di fatto, il pensiero umano; come ha sostenuto del resto anche Baudrillard, affermando che il soggetto non esiste, e al suo posto invece vi è un sistema capitalistico avanzato nel quale è inevitabile rispecchiarsi» (pp. 92-93).

Ciò che fa del «manovratore di emozioni la divinità di una società dello spettacolo fatiscente andrebbe criticamente contrastata», suggerisce lo studioso, in quanto «si limita esclusivamente a mimare la vita, inseguendo l’arte per il gusto dell’arte, piuttosto che provare interagire con essa, al fine di impreziosirla, mediante un osmotico processo di parole e immagini» (p. 93). È a partire da tale ragionamento che si analizzano I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1983) e L’ultima tempesta (Prospero’s Books, 1991) di Peter Greenaway. La prima opera, strutturata su complesse stratificazioni narrative, «ha instillato l’idea che la mise en abyme non enfatizza esclusivamente la percezione visiva, ma giustifica in un certo qual modo, la propria esistenza per il solo fatto di essere portatrice del frammento di un originale» (p. 93). Il secondo lavoro di Greenaway preso in esame, invece, secondo lo studioso dimostra come il cinema possa ricorrere ad artifici «per dimostrare che un testo non è mai soltanto un testo, bensì, l’inizio di un percorso che produce effetti nella mente dello spettatore. Un viaggio ipertestuale che si serve continuamente di mise en abyme per tracciare l’esistenza di un legame tra la ripresentificazione di un contenuto e la stimolazione di un processo immaginativo appena iniziato, omaggiando l’estetica che ha sempre garantito un senso alla struttura diegetica rappresentata» (p. 93).

I film Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002), diretto da Spike Jonze e scenggiato da Charlie Kaufman, e Synecdoche, New York (id., 2013) scritto e diretto da Charlie Kaufman, rappresentano un esempio di come le trovate narrative della sceneggiatura siano traducibili in racconto audiovisivo. «È evidente la sintesi che la mise en abyme o più precisamente in questo caso la metalessi, risulti utile a sintetizzare le silhouette psicologiche di un personaggio, e quindi la sistematica coincidenza tra autore, regista, sceneggiatore, attore protagonista. Ben distante da ogni rigore logico, la sostituzione di un’istanza narrativa con un’altra comporta una forte tematizzazione di ruoli e figure nel quadro-film» (pp. 93-94).

Il metalinguaggio al quale si perviene attraverso l’opera nell’opera – il teatro, il romanzo o il dipinto all’interno di un audiovisivo – mostra che un film non è semplicemente una serie di fotogrammi e, soprattutto, come bene esplicitato da Synecdoche, New York di Kaufman, che risulta impossibile rappresentare il reale a causa del suo essere in continuo divenire. Dunque, la mise en abyme deve essere intesa «come un’entità mutaforma che rende possibile il trasferimento di una proprietà in un’altra, plasmando continuamente struttura (dalla pittura alla sceneggiatura sino al film e alla videoarte) non compromettendo mai, quel principio auratico racchiuso in un’opera» (p. 94).

Consapevole di come i nuovi media abbiano rivoluzionato le modalità percettive dell’individuo, Cutrona, nella parte finale del libro, si sofferma anche sul computer game  The Sims (1999) sviluppato da Will Wright, mostrando «le potenzialità di una realtà riprodotta su scala, selezionando dall’interno storie di tutti i giorni, che si intrattengono col reale mediante relazioni […] Giocare a The Sims consegna all’utente o spettatore, una visione corredata di illustrazioni mediante l’uso di una Gestalt che si serve di un’identificazione unitaria» (p. 95). Dunque, il volume, oltre a concentrarsi sulla «mise en abyme come modello di coincidenza, sovrapposizione o ripresentificazione di storie tra personaggi come avviene nella metalessi» (p. 10), si occupa anche del ritratto del reale visto da un particolare angolo di prospettiva e visione: «il metagaming, grado evoluto ed espanso di percezione, sperimentazione e comprensione» (p. 10). In questo ultimo caso lo studioso si concentra su The Sims, gioco che deve il suo successo alla particolare capacità di trasporre il proprio sé in una dimensione altra ricca di aspirazioni e sogni. «Una sessione di gioco può rappresentare un modo per fronteggiare i problemi del reale, transitando dentro la propria vita non solo come spettatore, mediante un percorso virtuale e interpersonale» (p. 81).

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Nel nome del coniglio di Stephen Graham Jones https://www.carmillaonline.com/2017/06/02/nel-nome-del-coniglio-stephen-graham-jones/ Thu, 01 Jun 2017 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38228 di Mira Costanzo

COP_JONES-1I grandi racconti, diceva Julio Cortázar, nascono da un lavoro verticale, «tanto verso l’alto quanto verso il basso dello spazio letterario», e producono una «profonda risonanza» in noi. Ci ho ripensato dopo aver letto Nel nome del coniglio, presente nella raccolta Albero di carne di Stephen Graham Jones (Racconti edizioni, 2016, traduzione di Chiara Vatteroni, pp. 336, € 16,00) perché, a distanza di settimane, i suoni percepiti vibravano ancora, con una forza che merita di essere esplorata. Questo racconto, in realtà, contiene tre racconti e mi pare che arrivi perfino [...]]]> di Mira Costanzo

COP_JONES-1I grandi racconti, diceva Julio Cortázar, nascono da un lavoro verticale, «tanto verso l’alto quanto verso il basso dello spazio letterario», e producono una «profonda risonanza» in noi. Ci ho ripensato dopo aver letto Nel nome del coniglio, presente nella raccolta Albero di carne di Stephen Graham Jones (Racconti edizioni, 2016, traduzione di Chiara Vatteroni, pp. 336, € 16,00) perché, a distanza di settimane, i suoni percepiti vibravano ancora, con una forza che merita di essere esplorata.
Questo racconto, in realtà, contiene tre racconti e mi pare che arrivi perfino a suggerirne un quarto, dai contorni incerti, la cui composizione è affidata ai lettori.

«Al terzo giorno mangiavano la neve. Anni dopo sarebbe ritornato in mente al ragazzo, di colpo, durante un colloquio di lavoro: il padre che si sputava in mano pezzetti di semi o aghi di pino. O quello che c’era nella neve. Il ragazzo aveva guardato i rimasugli marroni sul palmo della mano del padre, che alla fine annuì, se li rimise in bocca e girò la faccia dall’altra parte per mandarli giù».

La frase d’apertura, per quanto breve, solleva diverse domande: al terzo giorno di cosa? Perché qualcuno dovrebbe mangiare la neve? Chi c’è dietro quel “loro”? E la frase successiva è un affondo magistrale, che sottintende qualcosa di sinistro. Se il ricordo di un’esperienza passata si riaffaccia all’improvviso, in una situazione che dovrebbe assorbire totalmente la concentrazione, vuol dire che ha lasciato il segno.
Proprio il colloquio di lavoro rappresenta la cornice in cui viene inserito il primo racconto, quello in apparenza principale: un padre e un figlio rimangono isolati in un bosco sommerso dalla neve e mentre aspettano i soccorsi, riparati da un albero, cercano di sopravvivere mangiando un coniglio che è sempre lo stesso ma che al contempo non lo è.
Quando l’animale fa la sua comparsa, potremmo credere che sia una propaggine onirica (il ragazzo «[…] vide un’immagine che si portò dietro dal sonno») oppure un’allucinazione causata dagli stenti. Quasi subito ci accorgiamo che non ha valore solo perché potrebbe essere mangiato:

«Il padre piangeva, così il ragazzo gli parlò del coniglio, del fatto che non era neppure bianco come avrebbe dovuto essere, bensì marrone, smarrito come loro».

Ha una funzione consolatoria. Forse è una di quelle clamorose bugie che abbiamo bisogno di raccontare a noi stessi, prima ancora che agli altri, per alleviare uno stato di grave sofferenza. Il padre però va a cercarlo e, al ritorno, crolla contro il fianco dell’albero:

«[…] Il ragazzo lo fece rotolare e gli sfregò la schiena, la faccia e il collo e poi vide che era rannicchiato intorno a qualcosa che forse aveva protetto per miglia: il coniglio. Aveva la punta dei peli della pelliccia marrone, il resto era bianco».

Questo coniglio esiste per davvero. Non possiamo dubitarne, anche perché troviamo un passaggio che di fantasmatico ha ben poco:

«Con il coltello, il padre aprì il coniglio lungo una linea che partiva dallo stomaco, ne fece uscire la carne. Fumava. […] Tirarono fuori tutto quello che c’era di rosso dentro, lo mandarono giù a tocchi interi perché se lo avessero masticato avrebbero sentito il sapore di quello che stavano facendo. Restò solo la pelle».

Il ragazzo rimette, ma si sente in colpa e allora ringoia tutto, «il braccio piegato sulle labbra in modo da non perdere di nuovo il cibo». Viene dunque ripresa, in una forma estremizzata, la sequenza mangiare-sputare-rimangiare proposta nell’incipit, con l’aggiunta di un altro elemento che avrà sviluppi rilevanti: trattenere.
Quando il padre parla ancora del coniglio, il ragazzo dice «tornerà» − intanto non si vedono arrivare elicotteri o uomini sugli sci − e gli dà un nome, Slaney, perché le cose che hanno un nome sono reali.
Strada facendo, riceviamo ulteriori conferme del potere salvifico attribuito all’animale, che viene ucciso e divorato ma anche idealmente addomesticato: è una possibile ricompensa se ci si comporta bene, una sagoma da cartone animato incisa sulla corteccia dell’albero e un esserino da coccolare (il ragazzo invoca più volte il suo nome «non per mangiarlo di nuovo, ma solo per tenerlo tra le braccia»).
L’autore racconta gli allontanamenti e i ritorni del padre, che all’inizio si presenta a mani vuote ma che poi ha sempre il coniglio con sé, «sanguinante e meraviglioso, già aperto». Ci offre una serie di dettagli che non destano particolari sospetti, perché sembrano rispondere a un’ordinaria esigenza descrittiva e in linea di massima risultano comprensibili, considerato il contesto: la pelle del coniglio è sparita; il padre si appoggia a un bastone «per stare dritto»; si siede «con le gambe distese»; va a caccia appoggiandosi a due bastoni – è debole e affaticato, supponiamo − che lo fanno assomigliare a «un quadrupede coperto di stracci»; barcolla e vomita; è macchiato di sangue «per aver cacciato e mangiato»; non riesce a sedersi; cade su un fianco; si addormenta profondamente.
Ma tutto ciò nasconde qualcos’altro, ossia un secondo racconto. All’arrivo dei soccorsi, infatti, saremo colpiti da una terribile rivelazione che ci costringe a reinterpretare quanto letto finora: nella pelle del coniglio non c’era la carne del coniglio. Slaney è stato nutrito da un sacrificio.
Questo twist è così forte che relega tutto il resto sullo sfondo, ma nel frattempo viene aggiunto un riferimento ai futuri tic – non uno soltanto − del ragazzo:

«[…] distolse lo sguardo, le palpebre inferiori gli si serrarono a bloccare il campo visivo. Negli anni sarebbe diventato uno dei suoi tic, uno sguardo fisso che poteva suggerire pensosità a un potenziale datore di lavoro, ma in quel preciso momento […] era stato solo un modo per offuscare l’albero sotto il quale il padre stava ancora dormendo».

La narrazione potrebbe anche concludersi – e nella prima versione si concludeva − con la morte del padre e con il salvataggio del figlio. Se è vero che in un buon racconto ci sono sempre due racconti, uno visibile e l’altro segreto, noi lettori ci riterremmo soddisfatti.
Eppure all’autore non bastava, come ha spiegato in un’intervista pubblicata su “Cemetery Dance Magazine”: «[…] il racconto faceva il suo dovere, perlomeno secondo le mie intenzioni: mostrare fino a che punto un padre può amare il figlio; una storia che mi portavo dietro da anni […], però non andava oltre, mostrava solo quello. E le storie devono essere di più, devono fare effettivamente qualcosa».
Ignoriamo cosa sia accaduto dopo il rientro a casa. Sappiamo però che, durante il colloquio, il ragazzo ormai adulto, pieno di tic non specificati eccetto uno, ripensa a suo padre, alla neve e ai semi. Una parte di lui non ha mai lasciato il bosco.

«Perché sarebbe stato un tradimento, aveva fatto in modo di non rigettare quello che gli aveva dato il padre, non in quel momento e nemmeno anni dopo – qualche secondo fa – quando l’uomo dall’altra parte della scrivania si infila tutta intera una manciata di semi di girasole in bocca, poi tiene la mano lì per assicurarsi che non ne esca nessuno […]».

Si tratta della scena che ha innescato l’associazione iniziale: mangiare-trattenere, per evitare di sputare e quindi di perdere. Quando l’uomo dall’altra parte della scrivania chiede cosa ci sia scritto sul modulo − «Slade? Slake? Slather, slalom?» −, intuiamo che il ragazzo si è trasformato in ciò che ha mangiato e trattenuto. Appena vede fuori dalla finestra un coniglietto marrone che lo osserva («Tra poco sarà bianco»), non manifesta stupore né spavento, ma fa finta di niente e sorride.
Questo nuovo twist disvela il terzo racconto, che parla di un trauma non elaborato e ormai intrapsichico. La necessità di non tradire il genitore, di tenerlo con sé, nel tempo è sfociata in un mascheramento difensivo − come lo era il coniglio −, la trasfigurazione accettabile dell’inaccettabile; una condizione che influenza spesso i processi associativi, organizzativi e sintetici che sostengono l’autocoscienza e l’auto-conoscenza, alterando le funzioni integratrici della memoria.
Veniamo trasportati ancora più in alto – o più in basso – rispetto allo spazio letterario fin qui attraversato. Sulle prime, il sacrificio del padre ha un impatto schiacciante, anche perché suscita una reazione complessa da gestire, un misto di commozione e di orrore, due sentimenti stridenti, se non antitetici. Tuttavia il fatto che il figlio subisca le conseguenze – degenerate − di quell’esperienza, ha un peso maggiore, che richiede una successiva messa a fuoco per essere riconosciuto; scardina l’idea di normalità presupposta dalla ricerca di un lavoro e ci autorizza a muovere un altro passo, verso l’alto o verso il basso: se la mente del protagonista, con cui siamo stati chiamati a identificarci, è disturbata, forse quello che abbiamo letto non è del tutto vero.
Affiora così la possibilità di un quarto racconto, inquietante perché inesistente, che ognuno di noi immaginerà come vuole.
Qualunque sia la direzione scelta, Nel nome del coniglio è un grande bosco narrativo dal quale non si esce, a meno che non si accetti di restare dentro, per guardare nella pelle, sotto la neve, oltre la fame.

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Dall’America Latina al Tav https://www.carmillaonline.com/2015/11/23/dallamerica-latina-al-tav/ Mon, 23 Nov 2015 21:24:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26780 di Alberto Prunetti

cortazar2Julio Cortázar, Così violentemente dolce, Lettere politiche, Roma, Sur, 2015, pp. 303, euro 16 (a cura di Giulia Zavagna)

E’ forse la perla di quest’uscita di Sur, dedicata sia agli aficionados dell’autore argentino come a chi abbia a cuore la storia politica del continente latinoamericano (in genere, i due profili tendono a sovrapporsi). Nelle lettere tradotte sfila un pezzo di storia intellettuale: l’amore per la rivoluzione cubana, i dubbi in occasione del controverso caso Padilla, la collaborazione con la Casa de las Americas, una polemica con l’intellettuale argentino [...]]]> di Alberto Prunetti

cortazar2Julio Cortázar, Così violentemente dolce, Lettere politiche, Roma, Sur, 2015, pp. 303, euro 16 (a cura di Giulia Zavagna)

E’ forse la perla di quest’uscita di Sur, dedicata sia agli aficionados dell’autore argentino come a chi abbia a cuore la storia politica del continente latinoamericano (in genere, i due profili tendono a sovrapporsi). Nelle lettere tradotte sfila un pezzo di storia intellettuale: l’amore per la rivoluzione cubana, i dubbi in occasione del controverso caso Padilla, la collaborazione con la Casa de las Americas, una polemica con l’intellettuale argentino David Viñas (che non inclina i loro rapporti, come testimonia una lettera successiva); il sostegno al Cile di Allende e la lotta contro Pinochet, l’involuzione della situazione politica in Argentina, il Tribunale Russell, l’ansia per un tentativo di intrusione dei servizi argentini nella camera dell’autore di Rayuela. Poi la dittatura militare, la desaparición di amici, come il poeta Paco Urondo, le accuse insinuanti dei giornali argentini vicini ai militari, le preoccupazioni per i parenti rimasti in Argentina. Che altro ancora? La complicità con Gabo, le polemiche per il suo (tardivo) passaporto francese, l’ipocrisia degli intellettuali che partorirono la teoria dei due demoni… L’amore e la rivoluzione, la poesia e la militanza. Sta tutto dentro a questo bel libro, da leggere immaginandosi il timbro della sua voce, quello strano castigliano d’Argentina con un erre un po’ debole che faceva tanto francese. Pensandosi magari a bere un cortado in un caffè della plazoleta Julio Cortázar, nel quartiere Palermo, a Buenos Aires, sotto un murales che riproduce la celebre foto che gli scattò la bravissima fotografa Sara Facio.

 

Juan Villoro, C’è vita sulla terra?, Roma, Sur, 2015, pp. 171, euro 15 (traduzione di Maria Cristina Secci)

Bellissimi questi racconti giornalistici di Juan Villoro, maestro messicano di giornalismo narrativo. In parte mi ha ricordato qualcosa di un’opera assolutamente diversa (per timbri, per latitudine geografica) che è Reality di Mariusz Szczygieł: l’idea di partenza è quella di raccontare con i mezzi del giornalismo narrativo l’ordinario, il comune, il quotidiano, i piccoli tic, le storie d’infanzia, gli aneddoti, le cose insignificanti. E il quadro che ne esce assieme è potente e costruisce una sorta di antropologia eccentrica della vita quotidiana nel Defe, la capitale del Messico.

 

César Aira, Come imbalsamare animaletti mutanti, Roma, Sur, 2015, pp. 104, pp. 105, euro 14 (traduzione di Raul Schenardi)

Questo è invece l’ultimo libro del tris di Sur: Aira è autore di una miriade di libri pensati in un formato che amo, quello del racconto lungo o del romanzo breve. Purtroppo non ho trovato ancora l’opera di Aira di cui innamorarmi ma rimango in attesa.

 

Merritt Tierce, Carne viva, Roma, Sur, pp. 220, euro 16,50, traduzione di Martina Testa

Ho lavorato nella ristorazione qualche anno e ricordo quei giorni come estremamente duri e alienanti. Il lavoro tra i tavoli, la cucina, poi al lavello come sguattero; le pulizie, i ritmi furiosi del doppio turno pranzo-cena… sono memorie che sto trasferendo sulla carta. Assieme agli scherzi pesanti, agli stimolanti che servono a tenerti in piedi e scattante fino a tardi, agli alcolici che ti arrivano dal bar sotto gli sguardi censori dei proprietari. Volentieri ho letto questo libro che mi è piaciuto molto e che racconta una storia dura di una giovane donna che infila la sua vita nei ristoranti, mentre la maternità, gli amori e gli studi le scivolano sulla pelle. (Il libro esce nella collana che BigSur, dedicata alla letteratura anglofona).

 

Mauro Ravarino, Terzo Valico. L’altra Tav, Round Robin, pp. 127, euro 12,

Ravarino è un giornalista del Manifesto che copre le notizie dal Piemonte e la Liguria, in particolare ha scritto su tematiche di profondo impatto sociale come l’amianto e la lotta contro il Tav in Val di Susa. Nessuno meglio di lui poteva raccontare un altro inutile e dispendioso progetto di costruzione di una linea a alta velocità, un progetto che forse sta meno sotto i riflettori dei media ma che deve essere bloccato per evitare che un flusso di soldi pubblici finisca nelle tasche dei soliti nomi dell’acciaio e del cemento e delle trivelle italiane. Soldi pubblici (il privato si fa vedere solo quando c’è da incassare), come spiega bene Ravarino, destinati ad aumentare, visto che i piani di fattibilità non hanno tenuto conto delle rocce amiantifere che devono essere perforate e che bisogna smaltire a prezzi vertiginosi. Il tutto per mobilitare un po’ di treni merci che trasporteranno merci dal porto di Genova, risparmiando qualche manciata di minuti, a fronte di certi danni economici e probabili danni ambientali. Mentre l’Unica Grande Opera da fare, in tutto il territorio e soprattutto nella debole (da un punto di vista idrogeografico) Liguria, è quella della messa in sicurezza del territorio, che è sempre più soggetto a smottamenti e alluvioni.

 

Monica Tozzi e Andrea Fantacci, Noi non saremo mai come loro, Arcidosso, Effigi, 2015, pp. 171, euro 16 (con dvd allegato)

Un libro (anche) di storia orale in cui i due autori lasciano continuamente la parola al soggetto della ricerca, che diventa quasi un terzo-coautore: la storia del partigiano Aristeo Biancolini di Chianciano è raccontata sul filo dei ricordi e della canzone popolare. Con momenti commoventi e testimonianze molto forti: i ricordi dello squadrismo che arrivano dalla memoria del padre di Aristeo, Priamo, che subì la violenza degli schiavisti neri; la cartolina spedita a lui, piccolo Balilla figlio di antifascisti che disertava le adunate del sabato fascista, con toni da legge marziale; il rifiuto di entrare nell’esercito repubblichino, lanciandosi da un mezzo in movimento. Una memoria da difendere e da raccontare, perché il racconto impedisce alle storie di morire. Così hanno fatto gli autori del libro: hanno ascoltato una storia orale, l’hanno rielaborata in un libro, poi ne hanno fatto uno spettacolo musicale (sono musicisti che ripropongono il canzoniere politico italiano). Quale maniera migliore che ripartire dall’aia e arrivare a un libro e al teatro, per rilanciare il testimone della memoria popolare? Un libro per guardare al passato ma anche al presente, perché il fascismo torna con forme nuove ma sempre puzza di schiavismo, di sopraffazione, di razzismo. (Meraviglioso il corredo grafico del libro, che si deve a un grande muralista, Francesco Del Casino, noto al pubblico per i lavori eseguiti sui muri di Orgosolo).

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Segnalazioni di titoli freschi di lettura https://www.carmillaonline.com/2015/05/18/segnalazioni-di-titoli-freschi-di-lettura/ Mon, 18 May 2015 20:24:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22383 di Alberto Prunetti

cantalamappaWu Ming, Cantalamappa, Milano, ElectaKids, 2015, pp. 125, € 14,90

Bellissimo. I Wu Ming riescono a tradurre il loro immaginario per riproporlo ai lettori di nove anni. Due fricchettoni in perpetuo movimento aprono il loro quadernone di viaggi pieno di mappe. Chi ha letto Q troverà nella storia di Margherita e Dolcino la sua riproposizione per bambini. Chi ama Stevenson scoprirà il segreto de L’isola del tesoro. E chi pratica l’alpinismo molotov potrà raccontare ai propri figli la scalata di Point Lenana. E poi c’è, stupenda, la storia del cinema nel deserto [...]]]> di Alberto Prunetti

cantalamappaWu Ming, Cantalamappa, Milano, ElectaKids, 2015, pp. 125, € 14,90

Bellissimo. I Wu Ming riescono a tradurre il loro immaginario per riproporlo ai lettori di nove anni. Due fricchettoni in perpetuo movimento aprono il loro quadernone di viaggi pieno di mappe. Chi ha letto Q troverà nella storia di Margherita e Dolcino la sua riproposizione per bambini. Chi ama Stevenson scoprirà il segreto de L’isola del tesoro. E chi pratica l’alpinismo molotov potrà raccontare ai propri figli la scalata di Point Lenana. E poi c’è, stupenda, la storia del cinema nel deserto e delle opere inutili che ci ricordano la Tav nella loro insensatezza. E se infine volete parlare ai bambini di mitologia nordica o di ecologia, avete sottomano l’atlante che vi serve. Quanto ai biechi neri, sappiate che in questo libro c’è una delle migliori spiegazioni del fascismo per le giovani generazioni. E intanto, lassù, sulla nuvola dei narratori dell’infanzia ribelle, Gianni Rodari approva e saluta a pugno chiuso.

Lello Saracino, Il tenore partigiano, Roma, Alegre, pp. 206, € 15

La collana di oggetti narrativi ibridi di Alegre si arricchisce di un terzo titolo. Un saggio che è un romanzo storico che è una biografia del tenore comunista Nicola Stame, con il plot che si intreccia tra Foggia e Roma. Notevole è la leggerezza con cui l’autore sbroglia un filo storico in digressioni che lo portano ora all’hotel de los inmigrantes, che si trova nei pressi di uno dei porti di Buenos Aires; ora a Bariloche, dove il vecchio Priebke ha ancora i suoi fedeli estimatori; ora in Etiopia, dove gli italiani brava gente hanno dimenticato di aver sganciato un po’ di bombe all’iprite. Tutto questo con grande capacità dell’autore di alternare il primo piano (la vicenda di Stame) con lo sfondo (i grandi eventi storici). Un libro che ci fa scoprire il bel canto di Nicola Stame, interrotto da una pallottola alla tempia degli assassini nazifascisti. (Di questo libro Carmilla si occuperà di nuovo in maniera più estesa a breve).

José Revueltas, Le scimmie, Roma, Sur, pp. 59, € 7, traduzione di Alessandra Riccio

Se non è questo un romanzo lumpen… scritto in carcere dall’autore che per tutta la vita è stato un personaggio conflittuale, in rivolta, come il suo nome imponeva. José Revueltas, ribelle anche alla disciplina del partito comunista a cui apparteneva, nella letteratura messicana è una cometa, una stella solitaria da seguire. Il suo racconto è una storia carceraria cruda, scritta senza rimandi di capoverso, che parla di eroina e di abiezioni, di corpi umani che si fanno ricettori di una comunicazione tra il dritto e il rovescio dell’universo carcerario, in un mondo chiuso in cui non c’è alternativa alla reclusione. Non importa se sei detenuto o scimmia, ovvero carceriere.

Daniele Pepino, Nell’occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione, Valle di Susa, Tabor, pp. 31, € 2

Una rivoluzione autogestionaria in corso; una resistenza popolare, organizzata dal basso, contro un nuovo volto del fascismo, quello dell’Isis. Quello che colpisce è come un gruppo marxista-leninista curdo, il PKK, si sia trasformato in un movimento diffuso che pratica una forma di federalismo libertario, che presta particolare attenzione alle dinamiche ecologistiche e al ruolo di primo piano, anche sul fronte della guerriglia, delle donne. Tutto questo in un contesto socialmente complesso e catastrofico. La zona libera del Rojava ci ricorda insomma che la rivoluzione prende di sorpresa tutti, finanche i rivoluzionari.

Loredana Lipperini, Quel trenino a molla che si chiama cuore, Bari, Laterza, pp. 166, € 12

E’ un libro molto diverso dai precedenti di Lipperini. Stavolta l’autrice si proietta dentro al testo e lo fa con una maestria di stile spericolata. Il risultato è funambolico. Una derive psicogeografica da un angolo a un altro del paesaggio marchigiano e del paesaggio interiore, dai ricordi d’infanzia fino alla devastazione del terremoto e dei cantieri stradali. Questo è anche un ibrido, un oggetto narrativo che alterna piani e generi espositivi, mescolando il memoriale e la geografia, il racconto di finzione e l’invettiva, il romanzo e il reportage. Con una riflessione potente, dolorosa e necessaria sul tema della morte, del doppio e dell’eteronimia (Loredana è stata anche Lara Manni per un certo periodo, come Pessoa è stato Bernardo Soares e tanti altri ancora). Chapeau.

Wolf Bukowski, La danza delle mozzarelle, Roma, Alegre, 2015, pp. 158, € 14

Ben scavato, vecchia talpa! Wolf conduce un’inchiesta con una lucidità analitica che non si vedeva da tempo (eguagliato solo dal saggio dei Clash City Workers, Dove sono i nostri?). Oggetto: la retorica e la pratica capitalista del cibo feticizzato, una nicchia di mercato per ricchi che contribuisce alla devastazione culinaria e agricola del nostro paese, nell’epoca della riproduzione meccanica dei sapori. Ce n’è per tutti: Slow Food, Eataly, cooperative rosse, circuiti distributivi di presunta alta qualità che si rovesciano in caporalato, facchinaggio a turni massacranti, nuovo elitismo dei consumi. Alla fine chi mangia davvero è sempre il Capitale, che sussume ogni alternativa per poi disporla in fila sui banchi dei supermercati.

Andrea Staid, I senza stato, Bologna, Bébert edizioni, 2015, pp. 107, € 10

Ottimo strumento di cui si sentiva il bisogno. L’autore compie una  prima sintesi, una rassegna della letteratura etnografica sulle società di raccoglitori e cacciatori. Si tratta di un corpus che ha sorretto alcune tesi di antropologia radicale, dall’antropologia statunitense degli anni Settanta fino alle tesi primitiviste di John Zerzan, sviluppatesi a partire dagli anni Ottanta. Purtroppo gran parte di quel materiale è ancora non tradotto in italiano. Questo libro colma una lacuna su un dibattito antropologico che è ancora rilevante oltreoceano e che non è stato ancora recepito nelle aule italiane.

Julio Cortázar, Correzione di bozze in Alta Provenza, Roma, Sur, pp. 57, € 7, traduzione di Giulia Zavagna

Un libro affascinante che ci mostra il dietro le quinte della scrittura di Cortázar in un periodo in cui lo scrittore argentino stava per chiudere uno dei suoi libri più “politici”. Dopo il successo di Rayuela, Cortázar si infila in una sorta di magic bus nelle campagne dell’Alta Provenza e si lancia in una deriva che unisce senza soluzione di continuità il suo statuto di argentino in esilio e la tensione ambivalente e problematica tra narrativa, politica e finzione pura.

Roberto Arlt, I lanciafiamme, Roma, Sur, pp. 375, € 15, traduzione di Luigi Pellisari,

La riscoperta editoriale di Arlt ha permesso di accedere in traduzione a opere minori, come i suoi reportage di viaggio in Patagonia. A maggior ragione celebriamo la riproposizione di uno dei suoi capolavori, la seconda parte del romanzo iniziato con I sette pazzi. Un dittico dedicato al tema di una inquietante rivoluzione che mescola odio per il mondo piccolo borghese, crudeltà, violenza, gruppi estremisti segreti, culto dei bassifondi e dei postriboli e alchimie magiche. Viene da chiedersi se l’autore non abbia prefigurato i rovesci continui di un potere golpista, che ha esercitato negli anni un influenza nefasta e controrivoluzionaria sul paese australe, da metà anni Cinquanta fino al 1983.

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