inner space – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Con Salgari alle radici del tempo https://www.carmillaonline.com/2021/02/07/un-novello-salgari-in-fondo-al-buio/ Sun, 07 Feb 2021 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64802 di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è [...]]]> di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è lecito pensare che questa esista soprattutto negli occhi di chi guarda al mondo come a un gioco o a una sfida.

Un gioco da bambini, o da uomini e donne che dei bambini non vogliono perdere lo sguardo. Ben distante da quello di coloro che sono invece affascinati dalle utilitaristiche tentazioni legate alla conquista, al dominio, al denaro, al potere. L’avventuriero è così, da sempre, una sorta di suonatore Jones cui, purtroppo, troppo spesso altri si sono accodati per trarre profitto, fama o successo dalle sue imprese.
Chi cerca l’avventura, di solito, esplora nuove possibilità e chi esplora, in fin dei conti, cerca prima di tutto l’avventura. Così luoghi dell’avventura possono essere individuati tanto nelle giungle delle Filippine quanto nelle valli e nelle grotte piemontesi. Illuminati dal sole del nuovo mattino o sprofondati nel buio del tempo geologico del mondo infero esplorato dagli speleologi, ben diversamente scandito e percepito da quello vissuto in superficie.

Andrea Gobetti, novello Salgari dell’avventura moderna, si è sempre mosso tra luce ed ombra, tra pareti verticali da affrontare con vertiginose salite e orridi e pozzi, sul cui fondo non arriverà mai la luce del sole, in cui sprofondare per ri/trovare ciò che la luce del giorno non può nemmeno immaginare. A differenziarlo da Salgari, che come lui visse molti anni della sua vita in prossimità delle colline torinesi, è però il fatto che mentre il padre di Sandokan e del Corsaro Nero visse le sue avventure soltanto attraverso gli occhi dell’immaginazione (e numerosi atlanti squadernati sul tavolo di lavoro), Andrea ha pienamente vissuto ciò che racconta, non importa se ogni tanto con il tono canzonatorio e spaccone dei tall tale che hanno sempre caratterizzato le narrazioni della letteratura e del folklore della frontiera americana.

Speleologo, alpinista, scrittore ed esploratore dei confini reali e immaginari del mondo, l’autore (classe 1952) del testo pubblicato dalla Società Editrice Milanese vive da molti anni in Lucchesia. Nel corso di un’esperienza più che cinquantennale ha conosciuto personaggi straordinari, ha fatto parte dei giovani arrampicatori ispirati dall’amico Giampiero Motti, teorico visionario del “nuovo mattino” ispirato dall’arrampicata californiana e da una diversa interpretazione della Montagna e della Natura; ha percorso abissi ritenuti insondabili ed è stato autore di numerose pubblicazioni e collaboratore nella realizzazione di vari documentari1.

Soprattutto, anche quando in gioventù è stato attivo in una delle formazioni più agguerrite e vituperate della sinistra extra-parlamentare, è sempre stato prima di tutto un militante dell’avventura e del sogno. Un’avventura e un sogno che richiedevano coraggio, ma anche elementi onirici e di autentica estasi, che una volta perduti avrebbero trasformato l’azione dirompente in mera archeopolitica, adatta soltanto ad amministrare l’esistente2. Un’esperienza di cui rimangono tracce significative, sotto forma di ricordi, anche nell’ultimo libro.

Se il titolo di quest’ultima opera offre già motivo di riflessione al lettore in quel guardar le stelle dal fondo di un pozzo, anche la prima opera edita di Andrea Gobetti portava con sé più di una promessa: Una frontiera da immaginare3. Ma quella frontiera, che all’epoca l’autore situava soprattutto tra le cime e le grotte del massiccio del Marguareis, nelle Alpi piemontesi, nel corso degli anni si è allargata e allontanata di un bel po’. Sia verso l’esterno “geografico”, sia in direzione di quell’inner space che è inseparabile da qualsiasi discorso sul sogno e l’avventura moderna.

Se scendi sottoterra, benché vivo e vegeto, subito alcune strane novità ti saltano agli occhi e anche addosso […] Nel buio scopri alcune curiose trasparenze.
La più nota è detta “Guarda la stella dal fondo del pozzo”, distaccati dalle luci del mondo e vedrai più lontano di quanto la massa degli abbagliati per vocazione non voglia né possa immaginare.
Un’altra trasparenza di quel buio primordiale scioglie il velo del tempo, ci mostra reale e presente una parte del mondo rimasta uguale a se stessa da migliaia se non milioni di anni. Nelle grotte il tempo non è più quel mostro furioso che in superficie divora uomini e panorami; pare invece paziente, fiero di sé mentre dedica tutta la sua arte agli arabeschi del vuoto.
Lo puoi accarezzare, tanto pare immobile.
[…] In questo su e giù di visioni spaziali, temporali, umane e fantastiche si eccitano, s’illudono e si consumano gli ardori degli speleologi, spesso mal accompagnati dalle solite scomodità notturnofile: il sonno, l’umido, il freddo, la fatica, la paura.
Perché ci vadano e perché tu li segua non è ben chiaro, ma laggiù nulla lo è. Forse le predette scomodità sono antidoti, vaccini contro mali ben peggiori in libera circolazione superficiale; forse sei matto, cerchi di andare dove il denaro non è mai arrivato4.

Certo, già prima di giungere allo splendore delle architetture sotterranee e prima ancora di poter contemplare l’opera del tempo secondo una differente prospettiva occorre affrontare un mondo esterno che spesso può riservare notevoli sorprese. Dall’apparizione improvvisa di un gruppo di guerriglieri comunisti nella giungla filippina, in cui si dileguano poi come fantasmi, alla cena preparata con un’anguilla da sette chili pescata da un membro di una delle tante spedizioni in un grande lago già in parte sotterraneo che custodisce l’accesso ad una gigantesca e inesplorata grotta tropicale.

Sorprese talvolta marcate dalla violenza, come spesso nel mondo di superficie accade e magari preannunciata dalla visita in sogno dell’amico Grundhal, come durante un viaggio in Albania al tempo delle sommosse popolari (che certo non risparmiarono le violenze ai danni dei rappresentanti del governo) degli anni ’90, oppure dallo stupore di fronte ad una massa di bianco calcare ancora mai sfidata e fino ad allora soltanto sognata.

Alla mia età scopro che si realizzano, a fronte delle delusioni e dei fallimenti riguardanti molti dei progetti in cui ho creduto in età adulta, i veri desideri di gioventù: una montagna di bianco calcare si erge ancora completamente inesplorata.
«Be’, sono qui, tutt’attorno a te» ride lei. «E ora che te ne fai di me, vecchio malvissuto?»
Lei e io siamo due esseri lontani uno sproposito, sia su scala spaziale che su scala temporale. Entrambi però siamo vuoti dentro, abbiamo la pelle traforata da migliaia di buchi grandi e piccini, siamo percorsi da fiumi e battuti dal vento. Tutti e due difendiamo una stabile temperatura interna. In fondo siamo più simili di quel che sembra, potremmo anche diventare amici.
Ogni volta che frequento grotte sconosciute finisce che scopro qualcosa di me, ma loro sono tante, mentre io solo uno.
«Ci vuole la banda» dice dal nulla la voce di un amico perduto.
Icaro, l’amico per vocazione.
Ci siamo mossi insieme in tantissime occasioni, quasi sempre cavandocela benissimo, finché non è caduto.
Ancora mi capita di consultarlo dentro di me, o forse è lui che viene a trovarmi quando non so dove sta il bandolo di una matassa appena avvistata5.

Vale la pena di concludere questo breve excursus, in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura anche a chi non ha nessuna intenzione di affrontare pozzi e sifoni sotterranei e tutta l’umidità, la fatica e, talvolta, la paura che ne conseguono, con un’ultima riflessione dell’autore sulla memoria e sulla fortuna di poter comprendere i segreti delle montagne e delle grotte in esse nascoste, che non tutti, per loro sfortuna e per fortuna delle grotte stesse, che mai potranno diventare luoghi di turismo di massa se non in alcuni e ben delimitati casi, potranno mai comprendere.

So che non vale la pena di impegnarsi mezz’ora per ricordare un nome, un posto, una data che chi ci ascolta dimenticherà in pochi secondi.
La mia memoria è sempre stata bella strana, conserva un’infinità di cose inutili sin da quando ero ragazzo, ma già allora era incapace di dirmi dove stavano il quaderno, le scarpe da football, le chiavi della macchina.
«Non trovi niente!» si infuria mio padre nei miei ricordi più antichi.
«Non trovo gli occhiali!» mugolo adesso.
Per giunta sono trasparenti, e non li avrei comprati se ci vedessi bene.
Insomma, sono in forte disagio con le cose che si spostano, che vagano insieme a me or qui or là; con quelle ferme mi trovo meglio.
Le grotte non si muovono mai; si modificano all’interno, ma non fuori. La loro fissità è proverbiale. Credo che diffondano attorno a loro una certa qual aura di presenza antica, una stabilità temporale anomala che alcuni riescono a captare. Pare che io sia tra i fortunati6.

La conquista dell’inutile costituisce il titolo del diario tenuto da Werner Herzog nel corso dei due anni trascorsi nella foresta amazzonica per le riprese di Fitzcarraldo7, mentre I conquistatori dell’inutile è quello del diario, pubblicato per la prima volta nel 1961, dall’alpinista francese Lionel Terray8. Una definizione che va benissimo per definire l’avventura dell’esplorazione in qualsiasi contesto: infatti là dove inizia la ricerca dell’utile, come mi insegnò un certo amico fraterno ed istruttore del corso di speleologia del CAI – Uget di Torino ormai più di quarant’anni fa, finisce il divertimento.


  1. Qui alcuni titoli dei tanti libri pubblicati: Andrea Gobetti, Le radici del cielo, Centro Documentazione Alpina Torino 1986; L’Italia in grotta. Guida alle più belle grotte d’Italia , Gremese 1991; Drammi e diaframmi. Immagini e storia dei film di montagna (con Fulvio Mariani), Corbaccio 1997; L’ombra del tempo. Gli esploratori delle caverne, CDA & Vivalda 2003; Animalia Tantum (con Andrea Micheli), Skira, Milano 2000; L’uomo che scala, Visentini 2008; Le omelie del diavolo, Diffusione Immagine 2014  

  2. Forse è bene, a questo punto, ricordare come, pur partendo da ipotesi politiche diverse, un certo Lenin, in Stato e rivoluzione, abbia sostenuto che «il primo dovere di un rivoluzionario è quello di sognare»; mentre Paul Mattick, il teorico tedesco-americano del comunismo consigliare, avrebbe a sua volta successivamente riconfermato il concetto proprio nel titolo della sua autobiografia: La rivoluzione. Una bella avventura (a cura di Antonio Pagliarone, Asterios Editore, Trieste 2020)  

  3. A. Gobetti, Una frontiera da immaginare, prima edizione dall’Oglio editore 1976; seconda edizione CDA, Centro Documentazione Alpina, Torino 2001; terza edizione Alpine Studio, 2014  

  4. A. Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle, SEM 2020, pp. 5-6  

  5. A. Gobetti, op. cit.. p. 77  

  6. op. cit., p. 53  

  7. Werner Herzog, La conquista dell’inutile, Mondadori, Milano 2018  

  8. L. Terray, I conquistatori dell’inutile. Dalle Alpi all’Annapurna, Hoepli, Milano 2017  

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Processi di ibridazione. Il demone (è) sotto la pelle https://www.carmillaonline.com/2020/09/05/processi-di-ibridazione-il-demone-e-sotto-la-pelle/ Sat, 05 Sep 2020 21:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61968 di Gioacchino Toni

Sin dagli inizi degli anni Ottanta, David Cronenberg afferma di essersi reso conto durante la realizzazione dei suoi primi film di essere più interessato a quanto accade all’interno dell’individuo, mentalmente e fisicamente, rispetto a ciò che avviene al di fuori di esso ed è per tale motivo che, secondo il regista canadese, si può dire che nelle sue opere il mostro coincida con il corpo stesso.

La produzione cinematografica di Cronenberg è sicuramente influenzata dalla letteratura di William S. Burroughs e James G. Ballard, anche al di là dei film [...]]]> di Gioacchino Toni

Sin dagli inizi degli anni Ottanta, David Cronenberg afferma di essersi reso conto durante la realizzazione dei suoi primi film di essere più interessato a quanto accade all’interno dell’individuo, mentalmente e fisicamente, rispetto a ciò che avviene al di fuori di esso ed è per tale motivo che, secondo il regista canadese, si può dire che nelle sue opere il mostro coincida con il corpo stesso.

La produzione cinematografica di Cronenberg è sicuramente influenzata dalla letteratura di William S. Burroughs e James G. Ballard, anche al di là dei film in cui si confronta direttamente con le loro opere. Dal primo scrittore il canadese sembrerebbe derivare “l’onirismo visionario” e la convinzione di un’umanità avviata a una vera e propria metamorfosi. Nei confronti di quest’ultima, così come Burroughs, anche Cronenberg pare essere al tempo stesso affascinato quanto spaventato.

Con Ballard, invece, il regista condivide un analogo allontanamento dalle etichette “di genere” della prima ora (scrittore di fantascienza l’inglese, autore di film horror il canadese) che conduce entrambi a ripiegare su un tipo di metamorfosi che riguarda lo spazio interiore dell’individuo, il corpo e la mente. Insomma, i demoni non vengono da fuori ma alloggiano e proliferano sotto la pelle e all’interno della mente, avendo non di rado a che fare con un processo di ibridazione tra essere umano e tecnologia capace di mettere in crisi ogni certezza identitaria e il confine stesso del corpo.

Spesso nella produzione cronenberghiana il diastro prende il via da qualche esperimento scientifico che determina negli esseri umani trasformazioni che questi non sono in grado di fronteggiare e quasi sempre nella cinematografia del candese le mutazioni dei personaggi non sono collocabili entro la netta distinzione hollywoodiana tra Bene e Male.

Nonostante il regista sia stato per comodità a lungo associato ai b-movie di genere horror, nelle sue opere vengono affrontate tematiche complesse che hanno a che fare con le facoltà percettive della mente, con l’identità, la sessualità e il rapporto dell’essere umano con i media e, più in generale, con la tecnologia e tutto ciò fa di Cronenberg uno degli autori che maggiormente hanno saputo mettere lo spettatore di fronte ai suoi demoni anticipando persino le riflessioni sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo proposte dalla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), tanto che la studiosa Claudia Attimonelli coglie nel titolo stesso della serie espliciti rimandi al finale di Videodrome (Id., 1983)1.

Diego Altobelli, nel suo recente volume Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), propone un interessante viaggio attraverso i luoghi/non luoghi del regista della “nuova carne”, mostrando come i suoi film, pur distanti tra loro nel tempo e nella forma, siano legati da rimandi e connessioni su cui l’autore ha costruito una poetica di cui non si può che cogliere la sorprendente portata anticipatoria.

Ogni storia, nel cinema di David Cronenberg, è caratterizzata da un luogo che è sia narrativo sia figurativo, immaginifico o reale, proiezione dello sguardo o introspezione della psiche, e che diventa metafora della condizione umana, trappola scientifica, pura rappresentazione altra, immagine visionaria. Sono i luoghi, nel cinema di Cronenberg, a unire il suo discorso autoriale. Tratteggiano un percorso che lo spettatore è obbligato a percorrere per arrivare a comprenderlo. Tutto il cinema del regista canadese è caratterizzato dal rapporto luogo/azione/significato2.

Si tratta di spazi e luoghi particolari che possono condurre alla destrutturazione del rapporto personaggio-immagine nell’indistinguibilità tra realtà e immaginazione di Videodrome ed eXistenZ (Id., 1999), alla distruzione degli ambienti di Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) e Brood – La covata malefica (The Brood, 1979), al caotico spazio mentale di La zona morta (The Dead Zone, 1983) e Spider (Id., 2002), ai rapporti tra corpo e mente di Inseparabili (Dead Ringers, 1988) o all’ibridazione con o attraverso le macchine di Crash (Id., 1996) e La mosca (The Fly, 1986), ai luoghi-allucinazioni de Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991) fino agli spazi orientali abitati da identità sessuali inquiete di M. Butterfly (Id., 1993) ecc.

I luoghi nel cinema del regista canadese sono spesso metafora di altro […]. Sono percezioni, proiezioni della mente. È uno dei modi con cui Cronenberg distrae, disorienta, altera la percezione dello spettatore. […] I luoghi in Cronenberg divengono alterazione del percepire il cinema […] un preciso strumento per catturare l’attenzione dello spettatore. In qualche modo, costringerlo a fidarsi3.

In questo la poetica cronenberghiana sembra davvero non molto distante da quella ballardiana dell’inner space che lo scrittore inglese deriva dalla convinzione che ciò che si è soliti chiamare realtà oggi coincida con l’immaginario creato dai media e che dunque ormai realtà e sogno siano indistinguibili4.

Pur attraversate da tematiche tra loro diverse, le opere di Cronemberg, sostiene Altobelli, sono contraddistinte da una comune importanza assegnata allo spazio. Se luogo e mente appaiono in continua mutazione dall’essere all’apparire, il corpo è invece, secondo lo studioso, il motore del racconto e dell’immagine. «Il cinema di Cronenberg è […] un organo a sé stante che genera continui impulsi percettivi allo stesso tempo visivi e narrativi. Luoghi del racconto sempre nuovi, mutevoli, pavimenti instabili che però si poggiano saldamente sull’unicum che è il discorso autoriale del regista. La sua idea di cinema.»5 È dunque di questi luoghi, di queste percezioni e mutazioni che tratta il libro Human Fly e lo fa proponendo sei itinerari che si dipanano lungo l’opera del canadese.

Il primo percorso – Da Toronto a Londra. La negazione dell’Io in Spider – prende il via con Stereo (Id., 1969), una storia ambientata nei locali asettici di un istituto di ricerca, uno spazio isolato dal mondo esterno abitato da individui alienati alla ricerca ossessiva di contatti fisici e intenti a portare avanti misteriose sperimentazioni scientifiche. Lo spazio geometrico e labirintico dell’ambientazione rimanda alla situazione mentale dei personaggi che vivono una condizione claustrofobica priva di sbocchi esterni.

Se gli esperimenti in questo film non conducono a vere e proprie alterazioni corporali, le cose cambiano con Crimes of the Future (Id., 1970), opera che, sin dal titolo, si riferisce a quelle perversioni, devianze e patologie che affliggono la popolazione maschile in un futuro distopico, e che hanno a che fare con malattie infettive e disturbi sessuali. Qua il regista non pare però intenzionato a muovere accuse nei confronti della società; ad interessarlo, sostiene Altobelli, è piuttosto il topos mente-corpo che caratterizza buona parte della sua produzione.

Si osserva il tentativo della mente di rimodellare il corpo e creare una specie di nuova rappresentazione dell’essere umano: una nuova razza, se così possiamo intenderla, che, pare suggerire il regista, dovrebbe nascere dai crimini che la vecchia generazione si porta dietro […]. È una mutazione dell’essere, più che dell’apparire, ma che non potrà (mai) avere un lieto fine. […] Cronenberg è distruttivo nel raccontare l’evoluzione della specie. Il sacrificio fa parte della prosecuzione del percorso6.

Per certi versi è come se la negazione dell’identità in cui versano gli uomini, dominati dalle loro perversioni, rimandasse alla negazione di un sguardo univoco dello spettatore, questione che torna prepotentemente nel film La zona morta, derivato da un soggetto di Stephen King. Qua, risvegliandosi dal coma procurato da un incidente stradale, il protagonista si trova improvvisamente in grado di percepire nella propria mente il passato e il futuro di tutti coloro che tocca. Ecco allora che strade, sentieri, luoghi di passaggio diventano allegorie del destino verso cui va incontro il protagonista.

Mai come in questo film David Cronenberg mette alla prova la percezione del racconto, lo modella, costituendone il corpo che lo ospita. Avviene nel film una mutazione continua di luoghi che “ospitano” il racconto, che a sua volta muta. È la rappresentazione del microcosmo canadese, alieno e allucinato, con la neve che si poggia sulle fredde architetture delle città che lo compongono e che fa da sfondo al primo vero “film letterario” del regista. È il primo momento nella filmografia di Cronenberg in cui agli shock visivi vengono preferiti quelli emotivi, giocando in modo ambivalente sia con il dramma che con il thriller.7

Si diceva dell’impossibilità per lo spettatore di un sguardo univoco su quanto viene mostrato da Cronenberg; se per buona parte della sua durata il film fornisce all’osservatore prove della veridicità dei poteri visionari del protagonista, sul finale viene introdotto un caso in cui la controprova manca e ciò non può che insinuare il dubbio di trovarsi di fronte a una percezione alterata. É così che il pubblico viene condotto all’interno di una “zona morta” della percezione.

L’incapacità dello spettatore di districarsi in questo mescolarsi di piani di realtà e onirismo visionario è decisamente evidente ne Il pasto nudo, film che, come sottolineato dallo stesso regista, non è un adattamento cinematografico di un’opera letteraria, quanto piuttosto un film su Burroughs stesso, sulla mutazione psichica e sulla pericolosità del creare. Qua, gli spazi in cui è ambientata la vicenda, così come i personaggi che li abitano, contribuiscono a suggerire stati di allucinazione.

Ogni luogo qui è un’interzona, un non luogo […]. La qualità onirica di una messa in scena così allusiva è un’estensione (evoluzione) delle allucinazioni percettive di Videodrome. […] Tra l’altro, ad aggravare questo senso di smarrimento, è la sensazione di trovarsi in un altro tempo. Il pasto nudo è di fatto un film in costume, un noir ambientato negli anni del post-proibizionismo americano […]. Si può quindi affermare che alla componente spaziale Cronenberg aggiunga anche un altro elemento di smarrimento che è quello temporale, in questo senso non lontano dal disorientamento che si prova, ad esempio, vedendo eXistenZ8.

Gli spazi urbani, così come gli interni, sembrano qua essere proiezioni della stessa mente di chi li abita. Il pasto nudo è un film che miscela l’universo cronenberghiano con la mente di Burroughs, è un’opera che, sostiene Altobelli, si presenta come «l’allucinata rappresentazione della parola (verbo) che si fa corpo (carne) […] alla ricerca di Annexia, meta del Creatore [che] esiste nella mente del protagonista. E a quella mente, ancora una volta, noi spettatori siamo costretti a credere e a fidarci, come in La zona morta»9.

Dalla Toronto di Stereo il primo percorso proposto dallo studioso conduce alle ambientazioni londinesi di Spider, film che si presenta come un’immersione psicotica nella mente del protagonista che, una volta dimesso dall’ospedale psichiatrico, si incammina dalla stazione ferroviaria lungo un meandro di strade attorniate da abitazioni che si ripetono sempre uguali, così come gli interni in cui si troverà ad abitare: tutto si ripete in maniera ossessiva agli occhi del personaggio, al pari dei suoi pensieri.

Cronenberg vuole rappresentare una condizione umana irrappresentabile: dall’interno (le stanze) invece che dall’esterno (le strade), privandosi della luce (l’illuminazione razionale) e basandosi su rebus insondabili. Per fare ciò Cronenberg rinuncia all’horror visionario e carnale per proporre quello psicologico privo di un corpo (forma), pur se interno al corpo stesso (la mente di Dennis). È il corpo di Dennis – Spider – Cleg a contenere i suoi ricordi […] Difficile (anche per noi) capire dove dirigersi con un protagonista che si muove stancamente nei sentieri dei ricordi che vede con altri occhi, ma che sono pur sempre i suoi10.

Altobelli individua nel film anche la rappresentazione meta filmica della poetica dell’autore: al pari di come proietta se stesso nel passato, il personaggio proietta i suoi pensieri sulla carta così come ne Il pasto nudo lo scrittore diviene parte del racconto che egli stesso scrive. In Spider, però, continua lo studioso, il parassita è l’uomo stesso che distorce e altera i ricordi per poter sopravvivere nella realtà esterna al proprio corpo.

Il secondo percorso – I rigurgiti di passato in A History of Violence – proposto da Altobelli prende il via da Scanners (Id., 1981), film ambientato all’interno di grandi e inquietanti strutture architettoniche che contribuiscono, insieme al resto degli scenari urbani, a creare un clima caotico e ostile ove il pericolo è dietro l’angolo e può manifestarsi all’improvviso. In un sovrapporsi di voci, visi, personaggi e luoghi si struttura la percezione di un altro sentire e di un altro vedere, questione che torna anche nel film La mosca, che riprende L’esperimento del dottor K (The Fly, 1956) di Kurt Neumann.

Qua Cronemberg mette in bocca al protagonista una frase che Altobelli indica come centrale: «Questa non è la storia di un uomo che sognava di essere una mosca, ma di una mosca che ha sognato di essere un uomo, e ora è sveglia». In maniera del tutto simile il fratello del protagonista di A History of Violence (2005) sul finale chiede a quest’ultimo: «Cosa hai sognato in questi anni? Hai sognato come Tom o come Joey?»11. In entrambi i casi, sottolinea lo studioso, il regista ci parla di un problema di percezione, di come il corpo sente se stesso.

In The Fly il laboratorio/appartamento del protagonista è mostrato come luogo caotico, ben lontano da quell’immagine di luoghi ordinati e asettici in cui si compiono gli esperimenti scientifici nei primissimi film del canadese. Oltre agli interni ed esterni urbani, l’altro luogo fondamentale ne La mosca è, ovviamente, il pod del teletrasporto nato dall’incontro tra organico e inorganico, tra tecnologia e “intuizione umana”.

Simile a un grande embrione con un cordone ombelicale, la cabina del teletrasporto, la cui forma ovoidale richiama alla mente il ricordo ancestrale della nascita, altro non è che la casa di appartenenza, il punto di partenza. In La mosca David Cronenberg elabora il concetto della metamorfosi attraverso una visione a fasi: la nascita, la vita e la morte; ovvero il pod, il laboratorio e la strada/ città. Sono tutti ambienti connessi tra loro che generano la mostruosità12.

Altobelli individua interessanti linee di continuità tra The Fly e A History of Violence: in entrambi i casi si è di fronte all’impossibilità dell’esistenza di due entità (mosca/uomo o doppia vita di uno stesso individuo). Da tale impossibilità deriva quella rottura che sfocia inesorabilmente nel mostruoso. Ed è proprio sul rapporto Io/doppio che si basa Inseparabili, film tratto dal romanzo omonimo di Bari Wood e Jack Geasland, basato sulla dualità, sull’impossibilità di due individui di condividere il corpo e, soprattutto, il pensiero. A essere mostruoso qua è il distacco dei corpi a cui sono stati condannati i due mentre la mente si ostina a mantenerli uniti.

Se nelle opere cronenberghiane il disastro è determinato da una serie di eventi che tentano di unire figure estranee, in questo caso il canadese sembra suggerire l’impossibilità dell’unione nella condizione umana. Anche la figura femminile che si insinua tra i due – «personaggio che fa passare lo spettatore dall’osservare l’uno al contemplare la trinità, attraverso il doppio (i due gemelli)»13 – non sfugge allo statuto del mostruoso; non a caso buona parte del film è ambientato nell’appartamento dei gemelli e in quello della donna, presentati come opposti e complementari, a metafora della compensazione che i due nuclei vanno cercando nel corso del racconto.

Partito da Scanners, il secondo itinerario proposto da Altobelli giunge così al film A History of Violence, opera derivata da una graphic novel del 1997 di Vince Locke (disegni) e John Wagner (testi). Di nuovo un film costruito su dualismi e scissioni ma stavolta non viene mostrato un corpo in corso di trasformazione: il corpo qua è già modificato. Ancora una volta il mostro si palesa dentro l’individuo; abita già il protagonista, seppure in forma latente. Altobelli individua nel film anche un atto di accusa nei confronti dell’american dream in quanto palesa come questo, per realizzarsi, richieda spargimento di sangue. In A History of Violence la sonnolenta provincia americana è il luogo in cui il protagonista si è rifugiato

per smantellare il proprio Io per proteggere un ipotetico Noi. È il frammento che difende il corpo. È il pezzo di puzzle che non vuole essere associato nell’immagine più grande. La chiave di lettura della pellicola non è, come per altri film di Cronenberg, la creazione di unicum mostruoso e vorace, ma il processo di deterioramento e distacco che quel mostro attua sulla comunità che l’ha generato14.

[continua]


Processi di ibridazione


  1. C. Attimonelli, Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, Rogas, Roma 2018. Si veda a tal prosito anche G. Toni, Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo, “Carmilla”. 

  2. D. Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione, Bakemono Lab edizioni, Roma 2020, p. 21. 

  3. Ivi, p. 23. 

  4. Cfr. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. 

  5. D. Altobelli, op. cit., p. 26. 

  6. Ivi, pp. 37-38. 

  7. Ivi, p. 42. 

  8. Ivi, p. 47 

  9. Ivi, pp. 48-49. 

  10. Ivi, p. 51. 

  11. Ivi, p. 64. 

  12. Ivi, p. 67. 

  13. Ivi, p. 73. 

  14. Ivi, p. 76. 

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Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

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