immigrati – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 28 Oct 2025 04:14:10 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Imitation of life https://www.carmillaonline.com/2020/08/09/imitation-of-life/ Sun, 09 Aug 2020 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61940 di Alessandra Daniele

Il nuovo ponte di Genova è stato aperto al pubblico, e consegnato alla gestione dei Benetton. Le autorità hanno simulato cordoglio per le vittime, ma l’inaugurazione è stata sfruttata in pieno come mega-spot per le Grandi Opere, con tanto di Frecce Tricolori. I politici nostrani hanno grandi capacità mimetiche, ma c’è qualcosa che gli riesce particolarmente difficile: fingersi umani. Tutte le volte che ci provano, anche di poco, il risultato è agghiacciante e controproducente. D’Alema che cucina il risotto. Monti col cagnolino. Salvini che gioca a biglie sulla spiaggia. Di Maio che limona. Non a caso, il personaggio [...]]]> di Alessandra Daniele

Il nuovo ponte di Genova è stato aperto al pubblico, e consegnato alla gestione dei Benetton.
Le autorità hanno simulato cordoglio per le vittime, ma l’inaugurazione è stata sfruttata in pieno come mega-spot per le Grandi Opere, con tanto di Frecce Tricolori.
I politici nostrani hanno grandi capacità mimetiche, ma c’è qualcosa che gli riesce particolarmente difficile: fingersi umani.
Tutte le volte che ci provano, anche di poco, il risultato è agghiacciante e controproducente.
D’Alema che cucina il risotto. Monti col cagnolino. Salvini che gioca a biglie sulla spiaggia. Di Maio che limona.
Non a caso, il personaggio politico attualmente in ascesa nei sondaggi è quello che fa di meno per sembrare un essere umano, cioè Giorgia Meloni.
Il successo della sua competitor diretta preoccupa molto Matteo Salvini, che cerca di recuperare il terreno perduto continuando ad aggrapparsi al suo unico, sfiatato cavallo di battaglia, l’istigazione all’odio razziale.
Mentre l’altro Matteo (Renzi), in cambio del suo sostegno alla legge elettorale proporzionale concepita proprio per fottere Salvini, pretende un paio di ministeri e uno sbarramento al 3% che il suo microscopico fanclub possa superare col salto della pulce.
Entrambi i Matteo sperano in una ripartenza personale, una seconda occasione per dimostrare la loro utilità al sistema di potere che li ha prodotti come Droni Cazzari, ma sono già modelli obsoleti. Si disfano a vista d’occhio.
Renzi sopravvive nell’atmosfera modificata del parlamento, come un batterio anaerobico.
A Salvini resta il ruolo di logoro spaventapasseri, finché il sistema non deciderà che l’urlo della Meloni terrorizza l’occidente più dei suoi rutti.
Intanto il Movimento 5 Stelle continua a squagliarsi in una decina di diversi rivoli liquamosi, come un gelato misto sulla spiaggia.
Anche per i droni grillini, che in teoria vengono dalla “gente comune”, diventa sempre più arduo simulare umanità.
“Bisogna essere duri, inflessibili”, ha dichiarato Conte sugli immigrati. Perché sono poveracci. Coi cravattari dell’Unione Europea invece, ci vuole flessibilità.
L’accordo coll’UE per il Recovery Fund non sarà sottoposto al voto della piattaforma Rousseau.

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Il Governo Tenco https://www.carmillaonline.com/2018/08/26/il-governo-tenco/ Sun, 26 Aug 2018 17:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47988 di Alessandra Daniele

“Sì, lo so che questa non è certo la vita Che ho sognato un giorno per noi Vedrai, vedrai che cambierà Forse non sarà domani Ma un bel giorno cambierà Vedrai, vedrai Non son finito sai Non so dirti come e quando Ma vedrai che cambierà”.

Dopo averle votate e rinnovate per anni, oggi la Lega non ha nessuna reale intenzione di revocare le concessioni ai Benetton come ha promesso il cosiddetto Governo del Cambiamento. Quindi Salvini ha passato tutta la settimana a fare l’unica cosa di cui è capace: dirottare l’attenzione sul [...]]]> di Alessandra Daniele

“Sì, lo so che questa non è certo la vita
Che ho sognato un giorno per noi
Vedrai, vedrai che cambierà
Forse non sarà domani
Ma un bel giorno cambierà
Vedrai, vedrai
Non son finito sai
Non so dirti come e quando
Ma vedrai che cambierà”.

Dopo averle votate e rinnovate per anni, oggi la Lega non ha nessuna reale intenzione di revocare le concessioni ai Benetton come ha promesso il cosiddetto Governo del Cambiamento.
Quindi Salvini ha passato tutta la settimana a fare l’unica cosa di cui è capace: dirottare l’attenzione sul solito capro espiatorio, l’ennesimo sparuto gruppo di profughi appositamente bloccati su una nave.
Il disumano, infame diversivo ha fatto comodo anche al PD, che ha potuto recitare la parte del poliziotto buono, fingendo di non essere corresponsabile delle torture subite dai migranti nei lager finanziati dalla dottrina Minniti.
La nave coi profughi presi in ostaggio dal governo italiano però era italiana, perciò l’Unione Europea non ha ceduto al ricatto mediatico, e stavolta non ha neanche finto d’accettare di accoglierne alcuni.
L’UE non è migliore di Salvini. E ci ha assegnato il ruolo di buttafuori, non di buttadentro.
Pupazzetto Di Maio ha quindi alzato la posta, impiccandosi – inutilmente – all’ennesima promessa cazzara: smettere di versare i contributi italiani all’Unione Europea. Una vecchia idea di Renzi. “Smetto quando voglio” ha dichiarato. Subito smentito dal ministro degli Esteri.
Intanto Salvini finiva indagato per abuso d’ufficio, arresto illegale, e sequestro di persona.
Alla fine è intervenuta la Conferenza Episcopale Italiana, offrendosi di risolvere accogliendo i profughi ovviamente in Italia.
Salvini ha ceduto, spacciando la terribile figura di merda per una vittoria, ed ha autorizzato lo sbarco.
Adesso il suo governicchio ha un grosso debito pure col Vaticano. Possiamo definitivamente scordarci che gli faccia pagare l’Ici.
Ma ricapitoliamo le principali promesse con le quali i Cazzari Grilloverdi avevano (separatamente) vinto le elezioni:

  • Abolizione totale della legge Fornero
  • Ripristino dell’articolo 18
  • Reddito di cittadinanza o Pensione di cittadinanza per 5 milioni di poveri
  • Flat Tax per tutti
  • Asili nido gratis
  • Internet a banda larga gratis
  • Abolizione delle accise
  • Abolizione degli studi di settore, Redditometro e Spesometro
  • Legge anti-corruzione e mafia degli appalti
  • Blocco di TAV e TAP
  • Legge contro il conflitto di interessi
  • Ministero per le disabilità
  • Rimpatrio immediato di 600 mila immigrati
  • Riconversione ecologica dell’Ilva

Verrà il giorno in cui torturare profughi bloccandoli su una nave non basterà più per distrarre gli italiani dai disastri, e dalle promesse non mantenute. Per quel momento, Salvini e Di Maio hanno un Piano B:

  • Fase uno: Dare la colpa all’Europa.
  • Fase due: Darsi la colpa a vicenda
  • Fase tre: Far cadere il governo, e passare mano a un tecnico che faccia tutto il lavoro sporco, e si prenda tutta la colpa.
  • Fase quattro: Tornare a votare, e rivincere con le stesse promesse irrealizzabili, perché tanto gli elettori italiani hanno la memoria d’un pesce rosso e l’intelligenza d’una spugna di mare.

Funzionerà di nuovo?

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Il reale delle/nelle immagini. Riflessioni sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea https://www.carmillaonline.com/2017/10/07/reale-dellenelle-immagini-riflessioni-sulla-cultura-visiva-politica-nellitalia-contemporanea/ Fri, 06 Oct 2017 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40941 di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano invertirsi e l’atto del guardare diviene sinonimo di controllo e disciplinamento operato dal potere nei confronti degli individui. Oggi, sostiene l’antropologo Paolo S.H. Favero, riprendendo il concetto di “ipertrofia visiva” così come è espresso da Lucien Taylor (Visualizing Theory, 1994), le immagini hanno un ruolo centrale nel modo di vivere dell’essere umano che ne è sia consumatore che oggetto di monitoraggio visivo. Secondo lo studioso la commistione tra visivo e digitale non ha però condotto alla dissoluzione della realtà materiale ma a rendere le immagini parte della concretezza della materialità quotidiana collegando la vita online con quella offline. In sostanza le immagini non avrebbero allontano l’individuo dal reale ma si sarebbero fuse con il quotidiano.

Se Marshall MacLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1967 – orig. 1964) sosteneva che i mezzi elettronici erano diventati protesi del nostro corpo, oggi occorrere «chiedersi se i nostri corpi non stiano diventando protesi dei mezzi di rappresentazione visiva. La progressiva fusione tra tecnologia e corpo e l’immersività che caratterizza il mondo della produzione d’immagini porta a chiederci se forse non siamo entrati nell’era del Plenopticon (una sorta di post Panopticon), un’era nella quale non abbiamo più bisogno di un re che ci osservi, ma in cui siamo noi stessi a osservarci reciprocamente nella nostra orgiastica produzione di co-presenza visiva» (p. 16).

Nel corso del tempo la fotografia sembra aver via via preso il posto della parola come portatrice di testimonianze grazie probabilmente a quel «potere affettivo delle immagini [capace di] generare quel surplus che in qualche modo ci riesce a commuovere, a collocare la nostra sensibilità all’interno di un evento avvenuto in tempi e luoghi lontani da noi» (p. 18). Sull’onda delle riflessioni di Roland Barthes (La camera chiara, 2003 – orig. 1980) che vogliono le immagini fotografiche capaci di evocazione, oltre che di descrizione, nel loro contenere qualcosa (punctum) capace di colpire l’osservatore tirandolo dentro l’immagine, si può allora, secondo Favero, individuare nel visivo una chiave utile a comprendere il contesto politico in cui si vive e il volume Dentro e oltre l’immagine si propone proprio di riflettere su tale questione applicata al contesto dell’Italia contemporanea.

Nel contesto italiano le immagini «sono intrinsecamente politiche e ci offrono soprattutto una possibilità di attuare una decostruzione di rappresentazioni comuni sulle quali si fonda la vita pubblica» (p. 19). Una parte importante dell’analisi dello studioso deriva da una ricerca sul campo attuata a Roma nel quartiere Esquilino tra il 2005 ed il 2007, coincidente con un momento in cui le storie del luogo vanno a collocarsi in un contesto nazionale in cui i media, sotto le vesti dell’intrattenimento celavano messaggi “ri-producenti” «una distanza (a volte proprio ontologizzata) fra “italiani” e “immigrati”, tra “uomini” e “donne”, tra “eterosessuali” e “non-eterosessuali”. Spesso si coglievano anche messaggi apertamente razzisti, omofobici e sessisti» (p. 19). Le strade dell’Esquilino all’epoca abbondavano di scritte contro rom, immigrati, omosessuali e slogan fascisti in diversi casi in onore del boia nazista Priebke mentre i media nazionali sostenevano le politiche ostili ai migranti presentandoli attraverso immagini di orde anonime di invasori e la televisione, a reti unificate, inondava i programmi «di ricchi décolleté e “lati B” di ignote soubrette (la solita riduzione della donna a collezione di dettagli anatomici). Questa era anche l’era in cui la visibilità si affermava come un fine a se stante. Momento nel quale personaggi del Grande Fratello diventavano opinion makers e nel quale una soubrette televisiva (ex partecipante a Miss Italia e protagonista di copertine di riviste per uomini) riusciva a realizzare una vertiginosa carriera “politica” e a diventare Ministro per le pari opportunità. Questi erano anche gli anni dell’ambiguo “sdoganamento” della politica e nei quali ministri e uomini d’affari si inserivano nelle case dei cittadini tramite i programmi di cucina e di calcio» (p. 20).

Presto sarebbero arrivati gli anni in cui Berlusconi avrebbe sentenziato che “in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo campi di villeggiatura”, in cui le battute sui Kapó si sarebbero inserite in un contesto ove termini come “frocio”, “negro”, “terrone” e “zoccola” venivano ormai tranquillamente utilizzati anche dai media come semplici e innocenti “modi di dire”, dove i cori razzisti negli stadi sarebbero stati  indicati come “cori a sfondo territoriale” e dove la Federazione di calcio avrebbe eletto un presidente capace di sostenere, tra le altre cose, che i calciatori di colore prima di far parte delle squadre italiane erano semplici mangiatori di banane.

«Dentro e oltre l’immagine entra in questa particolare epoca della storia e vuole offrire una serie di riflessioni sul significato nonché sul ruolo politico e sociale della cultura popolare visiva nell’Italia contemporanea. Basato su ricerche etnografiche in campi quali il cinema, la televisione, il documentario, la fotografia e la cultura (materiale e visiva) di strada, il libro affronta l’arena della visualità come un campo nel quale si possono decodificare continuità e rotture politiche ed ideologiche» (p. 21). Tutto ciò viene indagato dall’autore nella sua posizione di insider/outsider, di colui che conosce bene la cultura e la società italiane essendo di famiglia italo-svedese, ma che vive e lavora all’estero, capace dunque di avere un’osservazione sufficientemente esterna per restare colpito da ciò in cui si imbatte ma anche di trovarsi in una posizione abbastanza interna al mondo indagato per indignarsi e voler cambiare le cose.

Il volume raccoglie sei diversi saggi scritti in momenti diversi, in alcuni casi pubblicati originariamente su riviste internazionali. Gli scritti possono essere divisi in due grandi blocchi con i primi tre che affrontano criticamente quella che viene indicata dall’autore come una delle rappresentazioni fondanti della cultura italiana, ossia la nozione di “italiano buono”. In questi primi tre interventi viene mostrato come tale rappresentazione, oltre ad essere parte della storia della cultura popolare italiana, sia uno strumento fondamentale per la costruzione dell’identità nazionale dell’Italia contemporanea. Nei successivi tre saggi viene invece indagata la cultura popolare visiva italiana focalizzando l’analisi sui rapporti tra società italiana e culture altre con cui questa viene a contatto.

Nel primo saggio Italiani, “brava gente”? l’autore mostra come tale rappresentazione venga oggi evocata per affrontare questioni inerenti i crimini a sfondo xenofobo e la partecipazione militare italiana ai conflitti internazionali. «L’espressione “italiani brava gente”, usata anche in situazioni colloquiali, implica, schiettamente parlando, che a differenza di altri, gli italiani siano per natura brava gente. Non nuocciono mai a nessuno e la loro storia (almeno per come loro stessi la conoscono) ne è apparentemente la prova. “Brutti eventi” sono ovviamente capitati (e capitano) anche qui, ma si tratta solo d’incidenti; altri popoli e nazioni hanno compiuto atti peggiori dei nostri. Ma gli italiani, non hanno mai realmente voluto nuocere. Nemmeno in epoca fascista» (p. 30).

Fino a qualche decennio fa gli stessi libri di testo nelle scuole non mancavano di rappresentare gli italiani come un popolo sostanzialmente di brava gente finito in balia delle follie mussoliniane e soprattutto straniere, quasi inconsapevolmente e involontariamente. L’onda lunga di tale lettura delle cose, sostiene lo studioso, la si rintraccia nelle maldestre affermazioni di qualche anno fa dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quando ha sostenuto pubblicamente che, in realtà, in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo “campi di villeggiatura”. «E, in ossequio alla medesima logica, viene oggi detto agli italiani che le “guerre al terrore” alle quali partecipano, sono in realtà “missioni di pace” e che i loro soldati, riconosciuti ovunque come “brave persone”, non sono mai realmente esposti a minacce […]. Nello stesso modo, viene anche fatto credere che xenofobia e omofobia certamente risiedono altrove ma non nel “nostro” paese» (p. 31).

Insomma, il mito dell’italiano buono si rivela, dal punto di vista storico, uno strumento utile a celare eventi drammatici. A tale mito ricorrono spesso sia quei ragionamenti intenzionati a difendere le idee xenofobe e omofobe che quelli volti a giustificare la partecipazione militare italiana alla cosiddetta “guerra al terrore”. Viene dunque mostrato lo stretto legame esistente tra memoria, politica e identità evidenziando come «il concetto di “italiani brava gente” [sia] alla base della costituzione di un’identità nazionale moderna» (p. 50). Sull’argomento risultano frequenti i riferimenti di Favero agli studi di Angelo del Boca, questi ultimi ripresi più volte su Carmilla [1] [2] [3] da Armando Lancellotti.

Nel saggio Il “soldato buono” viene indagata criticamente la rappresentazione del soldato italiano nel cinema nazionale delle ultime quattro decadi mostrando come sia facilmente individuabile una continuità storica di tale rappresentazione. Lo studioso parte dalla presa d’atto che negli ultimi decenni in Italia si è diffuso, grazie ad un lento ma costante lavoro di costruzione, un orgoglio nazionale prima sconosciuto. «Tale processo vedeva coinvolti molti attori (dai media al sistema scolastico, ecc.) ed era fondato sull’inserimento nella cultura popolare di una serie di figure portanti, capaci di infondere fede e rispetto nella nazione, nello Stato e in coloro che lo rappresentavano. In un’epoca caratterizzata dalla partecipazione dell’Italia alla “coalizione dei volenterosi” e dal suo conseguente coinvolgimento nelle missioni di guerra in Iraq e Afghanistan, la figura del soldato, in una sorta di ricorso storico, sarebbero stata rivalutata. È diventata un pilastro portante nella creazione di un orgoglio nazionale» (pp. 54-55). A partire dalla convinzione che la figura del soldato sia davvero uno dei punti focali della costruzione dell’identità nazionale, Favero passa in rassegna la produzione cinematografica italiana del dopoguerra e i più recenti reportage dedicati al coinvolgimento italiano alle cosiddette “missioni di pace”.

Nelle modalità con cui la cultura popolare italiana ha mantenuto viva l’immagine del “soldato italiano buono” vi sono certamente alcune costanti. «Guidato da amore e altruismo, il “soldato buono”, a volte appare un briciolo egoista, codardo, opportunista e forse un po’ pigro. Ma risulta, comunque, assolutamente incapace di far del male e viene pertanto sempre sollevato da qualsiasi responsabilità storica. Questa rappresentazione, trova ampio riscontro nell’immagine dell’“italiano buono” nata per giustificare la prima (fallimentare) impresa coloniale» (p. 55). Dunque, tale autorappresentazione, che ha svolto storicamente, e continua a farlo, un ruolo di “lavanderia” delle vergogne nazionali, è indicata dall’autore come centrale nella creazione della moderna identità nazionale.

È il cinema italiano del dopoguerra ad essersi fatto carico della divulgazione di una rappresentazione del soldato edulcorata e familiarizzata: «Spostato dal contesto del belligerante patriottismo fascista, egli venne introdotto, a volte in modo ironico, nello spazio quotidiano della vita di famiglia» (p. 62). L’analisi di Favero si sofferma su tre film che hanno promosso un’immagine iconica del soldato capace, visto anche il successo di pubblico, di lasciare tracce importanti nella cultura popolare nazionale: Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, La Grande Guerra (1959) di Mario Monicelli e Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores. «Nei tre film, il soldato è sempre un uomo semplice e un po’ ingenuo, nonché un amante del divertimento. I soldati protagonisti di questi tre film sembrano tutti piuttosto inconsapevoli di quel che succede intorno a loro e di conseguenza, sono staccati e deresponsabilizzati dalla storia. Hanno in comune la vicinanza e l’affetto delle popolazioni locali che incontrano durante le loro missioni e dimostrano anche una particolare devozione nei confronti delle donne e delle madri. Anche se in alcune occasioni vengono presentati come ipocriti, opportunisti ed egoisti, in realtà sono “brave persone” il cui unico desiderio è quello di tornare a casa e vivere serenamente insieme ai loro cari. Incapaci di agire, questi soldati sono pertanto indubbiamente anche incapaci di fare del male» (p. 64).

Venendo ai recenti reportage relativi a quelli che vengono descritti come “buoni soldati italiani”, martiri contemporanei, lo studioso individua in tali rappresentazioni l’intero armamentario retorico volto a presentarli non tanto come soldati impegnati in azioni di guerra, ma come brave persone andate a portare aiuto, amate da donne bambini locali, in trepidante attesa di tornare a casa dalla propria famiglia, martiri vittime di atrocità sempre e solo straniere. Insomma il soldato italiano è un soldato diverso dagli altri, per certi versi non sembra nemmeno un soldato.

La seconda parte di Dentro e oltre l’immagine è dedicata, come detto, all’analisi della cultura popolare visiva nazionale a proposito dei rapporti tra la società italiana e le culture altre. Nel primo saggio di tale sezione, Perché Sanremo è Sanremo, lo studioso si occupa della questione di genere soffermandosi sulla rappresentazione dell’omosessualità nel contesto del Festival sanremese del 2012. L’edizione indagata era stata preceduta da alcuni interventi pubblici di Adriano Celentano volti a criticare duramente la stampa cattolica nazionale, in particolare «Avvenire» e «Famiglia Cristiana», accusata dal cantante di subordinare le tematiche religiose a quelle politiche. Con tali premesse prendeva il via un’edizione della manifestazione canora fortemente segnata dalla presenza di riferimenti a Dio e alla Fede. «È nel testo della canzone vincitrice del festival, cantata da Emma, che la “fede” si mette esplicitamente in dialogo con la “patria” proponendo una sorta di consolidamento “pop” del concordato tra Stato e Chiesa. Per raccontarci una storia di disoccupazione e precarietà, la cantante pugliese sceglie la figura di un soldato e un testo (peraltro criptico, scritto da Kekko dei Modà) che recita: “Ho dato la vita e il sangue per il mio paese e mi ritrovo a non tirare a fine mese, in mano a Dio le sue preghiere” e poi “ho giurato fede mentre diventavo padre, due guerre senza garanzia di ritornare, solo medaglie per l’onore”. Questa commistura di fede, patria e guerra ri-propone, oltre un possibile tentativo di provocazione dell’autore, la figura del “soldato buono” una delle rappresentazioni più forti e longeve (nonché politicamente ed eticamente dubbie) della cultura popolare italiana» (p. 81).

Se poi al testo della canzone si aggiungono le dichiarazioni della cantante alla stampa che parlano della sua volontà di diventare madre come di una “missione” a cui tutte le donne sono chiamate, allora il patriottismo dispensato dalla canzone può essere interpretato come il «segnale di un nuovo conservatorismo giovanile all’interno di un paese ormai culturalmente invecchiato in modo irreparabile» (pp. 81-82). Di certo, sostiene lo studioso, l’immagine «della donna procreatrice, cui fa riferimento Emma, funziona paradossalmente bene in un contesto quale quello del festival, in cui le donne (con piccole dovute eccezioni) appaiono come la somma di parti anatomiche messe a servizio degli uomini, di cui fungono da spalla silente» (p. 82).

L’arretratezza italiana nell’affrontare la diversità di genere (o d’identità sessuale) emerge in maniera eclatante quando viene affrontato il tema dell’omosessualità. In questo caso la kermesse sanremese non manca di mettere in scena tutti gli stereotipi più scontati. L’immagine dell’Italia offerta dal festival è quella di un paese «dominato da uomini (maschi) eterosessuali e vecchi, chiuso su se stesso e con poca voglia di cambiare. Questo è un paese autoreferenziale, trincerato dietro una fede cattolica, che appare sempre più oggetto di opportunismo e molto raffinato nella sua capacità di mettere all’angolo (tramite, paradossalmente, la sua spettacolarizzazione) ogni forma di diversità culturale» (p. 84).

Nel saggio Lo spettacolo del multiculturalismo viene offerta una lettura critica del documentario L’Orchestra di Piazza Vittorio (2006) di Agostino Ferrante mettendo in rapporto l’idea di multiculturalismo suggerita dall’opera con il dibattito politico che ha caratterizzato le lezioni comunali romane del 2008. Alla realizzazione di Ferrante dedicata all’orchestra multiculturale dell’Esquilino, viene rimproverato di non approfondire i temi lanciati dalle sue immagini e di non giungere mai a un confronto paritario con l’Altro” dandogli realmente voce. «Il film sembra risentire della mancanza di un dialogo critico con lo stesso “Altro” che intende rappresentare e viene penalizzato dalla scelta di evitare di approfondire il contesto che ha reso possibile la realizzazione dell’Orchestra. Il fatto, per esempio, che la band abbia, nel corso degli anni, rinunciato a fare dichiarazioni apertamente politiche, temendo comprensibilmente di non essere poi in grado di creare una struttura solida che potesse pagare regolari stipendi ai musicisti (come spiegatomi da Mario Tronco durante un’intervista), delinea una situazione di fondo piuttosto critica che testimonia anche i paradossi che segnano le ideologie multiculturali contemporanee. Il film avrebbe potuto trarre dei benefici dall’approfondire queste tematiche, piuttosto che dal smorzarle in nome della rappresentazione dei “musicisti immigrati” come persone simpatiche» (p. 92).

Dalla visione dell’opera, sostiene ancora Favero, si individua come unico vero protagonista l’organizzatore italiano Mario Tronco mentre le vite dei musicisti sono soltanto sfiorate in superficie: «ci vengono presentati come personaggi abbastanza gioiosi, distaccati, bizzarri e divertenti, ognuno di essi rappresentante di quella “pittoresca” parte di mondo da cui proviene […] i musicisti ci vengono subito presentati (nel film e durante il concerto) in associazione alla loro nazionalità (mentre gli italiani alle loro città di provenienza). Ciò li rende principalmente “rappresentanti di un’etnicità” piuttosto che “musicisti professionisti”» (pp. 92-93). Insomma, secondo lo studioso il film «manca, da un punto di vista politico, di un riflessivo esporsi e dialogare con l’“Altro” che intende rappresentare. Questo forse riflette anche il destino dell’orchestra che, malgrado il suo intento originario, con gli anni si è trovata intrappolata a rappresentare la diversità e l’alterità, di fronte a un pubblico prevalentemente “bianco” e di classe media (partecipando ai loro concerti ho potuto notare la netta minoranza di stranieri presenti tra il pubblico) invece che a creare un ponte a cavallo di categorie razziali ed etniche […] Qui i migranti diventano oggetto dell’intrattenimento altrui invece che produttori di musica e di un film-denuncia a difesa dei loro diritti. La sensazione è che non sia stata sfruttata a dovere la splendida opportunità di mettere in discussione le categorie ferree che dividono gli “italiani” dagli “stranieri”» (pp. 93-94).

Gli ultimi due saggi sono dedicati rispettivamente all’immaginario italiano sull’India – Bello e distante. La politica dell’esotismo e la rappresentazione visiva dell’India nella cultura popolare italiana – e al mito del Nord nella cultura popolare italiana – ’O Sole mio: turisti charter italiani in visita al Sole di Mezzanotte di Capo Nord (Norvegia). Lo studioso indaga qui le esperienze turistiche di italiani a Capo Nord, la costruzione del Sole di Mezzanotte come oggetto mitico.

Dentro e oltre l’immagine decostruisce criticamente alcuni dei miti e delle rappresentazioni che hanno contribuito a costruire l’identità nazionale italiana e lo fa con gli occhi di un antropologo, Paolo S. H. Favero, che si trova nella particolare, e per certi versi privilegiata, posizione di insider/outsider.


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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Bello FiGo, Immigrato medio!? https://www.carmillaonline.com/2017/06/28/bello-figo-checazzomenefregamme/ Tue, 27 Jun 2017 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39016 di Mauro Baldrati

Non sono rappers. Non lo sanno fare, né si intendono di produzione. Sembrano quello che sono: dilettanti autodidatti, alcuni piuttosto geniali, e per questo, forse, hanno successo. Sono i cosiddetti youtubers, giovani artistici che si autoproducono pezzi musicali che poi caricano su youtube e su FB. Probabilmente senza saperlo hanno messo in pratica i due meta-enunciati degli anni Sessanta (Do it!) e Settanta (Do it yourself!). Alcuni di loro, per il misterioso e imprevedibile meccanismo del passaparola, che deflagra in maniera scalena, senza logica pparente, raccolgono migliaia di like e [...]]]> di Mauro Baldrati

Non sono rappers. Non lo sanno fare, né si intendono di produzione. Sembrano quello che sono: dilettanti autodidatti, alcuni piuttosto geniali, e per questo, forse, hanno successo. Sono i cosiddetti youtubers, giovani artistici che si autoproducono pezzi musicali che poi caricano su youtube e su FB. Probabilmente senza saperlo hanno messo in pratica i due meta-enunciati degli anni Sessanta (Do it!) e Settanta (Do it yourself!). Alcuni di loro, per il misterioso e imprevedibile meccanismo del passaparola, che deflagra in maniera scalena, senza logica pparente, raccolgono migliaia di like e di contatti.

Milioni, addirittura. E’ il caso di Bello FiGo, che ne totalizza più di cinque. Ma chi è? Intorno a questo caso mediatico, già esploso circa un anno fa, alcuni hanno parlato di “fenomeno”. In effetti il livello della sua operazione è decisamente più alto di quello dei suoi “colleghi”, che spesso si riducono a team di adolescenti agitati che tentano di “rappare” con risultati abbastanza imbarazzanti. Stiamo parlando di un ragazzo del Ghana di 21 anni, Paul Yeboah, a Parma da 12 con la famiglia. E’ (era, e lo è tutt’ora) un tipo sveglio, con poche smancerie né scrupoli morali. Un ragazzino che guardava la Tv e, forse coi genitori, finiva per approdare ai programmi di gossip politico, detti “talk show”. Qui, tra il cicaleccio, le finte risse, i telepolitici di professione cavalcano la nuova versione della politica moderna: lo slogan, la predica, l’invettiva, la farsa dell’indignazione. E l’argomento immigrati è sempre stato un formidabile tappabuchi per i media mainstream, quando scarseggiano le storie “forti”: disordini di piazza, atti di terrorismo, tutto il materiale che costituisce la forza motrice per influenzare le masse. Si applica l’antichissimo e sempre efficace gioco della paura seguita da rassicurazione; annunci trionfalistici sulla “crescita” spesso seguiti da smentite della tal agenzia di rating che ci declassa, e allora eccoli di nuovo in video ad “ammettere” che il tutto è “al sotto delle aspettative”, ma “stiamo lavorando e le prospettive sono buone”.

E qui, in questo “teatrino”, gli androidi tele-politici inanellano i loro facili, martellanti slogan, che si insinuano toccando corde emotive e, naturalmente, le eterne paure, di una strisciante guerra tra poveri. Proprio come gli operai precari americani e i disoccupati che si scagliano contro i negri, accusati di essere le cause dei loro guai.

Così, ecco gli italiani ridotti in povertà dalle catene di fallimenti di un sistema predatorio di per sé fallimentare, indignarsi per gli immigrati ospitati negli alberghi, mentre loro sono sfrattati; quelli invece hanno pure lo stipendio, e non devono neanche fare la spesa.

Paul li guardava, li ascoltava, probabilmente si divertiva, magari si arrabbiava, insieme a qualche coetaneo, finché un giorno ha avuto una illuminazione: prendere quegli slogan e quegli aggettivi e, senza alcuna lavorazione, farne oggetto di video musicali. Si è ispirato, – qualche commentatore ha sostenuto – allo stile Swag (sarebbe la nuova tendenza cool), cioè voglia di stile, di soldi, di vestiti eleganti e macchine di lusso.

Nascono così, nell’immaginario (è tutt’ora valida la parola alquanto abusata “narrazione”), i giovanissimi immigrati che “noi non paghiamo affitto”; eccoli affermare che “non faccio opraio” e non si sporcano le mani perché “sono negro”. Sono venuti in Italia su invito di “Mattarella”, e appena sbarcati dai barconi sono andati in “alberghi a 4 stelle”, con annesso stipendio. “Ce l’ha detto anche Matteo Renzi”, per cui “votiamo tutti PD” (cosa probabilmente vera, visto che in uno dei primi video Bello FiGo di fatto invitava a votare Sì al referendum, a modo suo ovviamente: “Vogliamo votar sì al referendum perché Matteo Renzi ci dà la figa bianca”).

A questo punto, una volta ben sistemati in albergo e tutto il resto, ci si occupa degli opzional: “Vogliamo il Wi-Fi”, e anche “fighe bianche da scopare”.

Potrebbe anche essere finita qui, un’operazione di costume, genialoide, amorale, cinica, trollesca quanto basta. Fatto sta che la venuta alla luce di questi video – soprattutto il più famoso, Non Pago Affitto (dicembre 2016), dal quale sono prese quasi tutte le citazioni – ha causato un mezzo putiferio nei media. Gli androidi di tele-politica sono andati, apparentemente, fuori di testa. Una provocazione frontale, arrogante, insostenibile perché reca in sé l’offesa di basarsi sui loro stessi slogan, usati come vanteria.

Un esempio significativo è la leggendaria puntata del dicembre 2016 di Dalla vostra parte, nel quale anche solo ascoltare Belpietro che dice “Qui con me c’è Bello FiGo”, fa morire dal ridere. Una delle capo-androide della destra, Alessandra Mussolini, è furibonda. Ma come si permette costui? Emette urla apparentemente scomposte, gridando tutta la sua indignazione, che è l’indignazione degli italiani in difficoltà, presi ignobilmente in giro da quel soggetto. In realtà è controllata, perché il suo professionismo le impedisce di scendere al livello degli avvinazzati da Bar Sport, con gli insulti pesanti, il turpiloquio ecc. Il suo compito è stimolarli, gli avvinazzati, è sedurli. Per cui, a parte una invocazione a “prenderlo a calci”, appare attenta a non superare il limite. Lui intanto la “dabba”, fa delle facce strambe. C’è anche un gruppo di sfrattati, offesi dalle vanterie di “un deficiente”. E un altro immigrato che lo attacca perché li sputtana tutti.

In realtà Bello FiGo, col suo cazzeggio, il suo “vaffanculismo” non ha voluto causare un bel niente. Solo avere visibilità. Provarci. E gli è andata bene. Continua ancora oggi, anche se con molto meno smalto. Forse il quarto d’ora warholiano è passato.

L’elemento più significativo, ancora attuale, è che la sua irruzione nei media ha portato alla luce il vuoto, il qualunquismo, il populismo di una politica morta, ridotta a slogan, a marketing, a falsificazione della realtà. E ha interessato entrambi gli schieramenti (divisi soprattutto a beneficio dei media, in realtà interscambiabili). La destra fascio-leghista, con la “narrazione” degli immigrati come parassiti, finti profughi imboscati che fruttano gli italiani per bene. E d’un tratto gli salta fuori questo negretto che gliele “canta”: “Nel mio paese in realtà non c’è nessuna guerra, volevo solo farmi una vacanza”. E col cavolo che fa “l’opraio” se può sfangarsela come mantenuto.

In quanto alla “sinistra” (di stampo filogovernativo) vede sbeffeggiato il proprio atteggiamento romantico-pietista-utilitarista, per cui gli immigrati fuggono dalle guerre, dalla fame, ed è nostro dovere accoglierli, perché tra l’altro portano benefici economici, le pensioni, i lavori scomodi e così via.

Si aggiunge la Chiesa, fedele al suo ruolo plurisecolare di assistenza e consolazione dei rifiuti una società classista che riduce in miseria enormi masse di popolazione. La Chiesa non mette in discussione le cause, non sarebbe molto cristiano. Chi ci ha provato, i padri della Teleologia della Liberazione, è stato ridotto al silenzio.

E infine c’è un altro dato interessante. Queste ondate di immigrazione, pur nel binomio contraddittorio accoglienza-respingimento, pietà-odio, sta comunque producendo delle comunità, a volte integrate, a volte no; sta segnando dei territori, creando degli stili, l’abbigliamento, i capelli, i linguaggi.

Allora perché queste comunità non dovrebbero avere il loro eroi, i loro scrittori, i loro giornalisti, la Wi-fi e il loro Maccio Capatonda?

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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Accoglienza https://www.carmillaonline.com/2015/09/13/accoglienza/ Sun, 13 Sep 2015 18:45:25 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25129 di Alessandra Daniele

isolaIl segretario sale sul podio. La folla lo accoglie con un lungo applauso. Il segretario indica l’enorme scritta “Stop Invasione” alle sue spalle. – Siamo stati accusati d’essere capaci solo di protestare, senza avere una soluzione pratica da mettere in atto contro la minaccia dei clandestini. È falso. In realtà ce l’abbiamo, pronta da realizzare appena saremo al governo. La folla applaude energicanente. – Sappiamo quanto sia difficile fermarli come si dovrebbe prima che partano, perché la Libia e gli altri paesi di partenza sono controllati dai tagliagole dell’ISIS, [...]]]> di Alessandra Daniele

isolaIl segretario sale sul podio. La folla lo accoglie con un lungo applauso.
Il segretario indica l’enorme scritta “Stop Invasione” alle sue spalle.
– Siamo stati accusati d’essere capaci solo di protestare, senza avere una soluzione pratica da mettere in atto contro la minaccia dei clandestini. È falso. In realtà ce l’abbiamo, pronta da realizzare appena saremo al governo.
La folla applaude energicanente.
– Sappiamo quanto sia difficile fermarli come si dovrebbe prima che partano, perché la Libia e gli altri paesi di partenza sono controllati dai tagliagole dell’ISIS, che si mescolano ai clandestini per infiltrarsi in Europa. Sappiamo anche però che non possiamo lasciarli arrivare sulle nostre coste.
Il segretario indica il nome stampato sulla sua felpa.
– Nel canale di Sicilia esiste un’isola chiamata “Ferdinandea”. Attualmente è sommersa, ma può periodicamente riemergere a causa di un’eruzione vulcanica. Il nostro progetto è semplice. Primo: minare il vulcano sottomarino per provocare l’eruzione e la scossa tellurica necessarie a far riemergere l’isola. Un terremoto che la Sicilia dovrà accettare come sacrificio necessario per la sicurezza dei nostri confini. Secondo: impiegare la Marina Militare per dirottare sull’isola Ferdinandea tutti i barconi carichi di clandestini. Così nessuno potrà dire che li affondiamo, e non rispettiamo le quote d’accoglienza imposte dall’Europa.
La folla mugugna.
Il segretario alza la voce.
– Terzo: fare esplodere un’altra scarica di mine piazzate sull’isola, e farla inabissare di nuovo con tutti i clandestini sopra!
La folla prorompe in un boato d’entusiasmo.
Il segretario sorride.

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La minaccia https://www.carmillaonline.com/2015/09/06/la-minaccia-2/ Sun, 06 Sep 2015 18:42:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24995 di Alessandra Daniele

Flag of european unionÈ ormai quasi un quarto di secolo che il cosiddetto Scontro di Civiltà ha sostituito nella narrazione globale la Guerra Fredda. Proprio mentre si sgretolava la Cortina di Ferro, partiva la prima Guerra del Golfo, con l’operazione Desert Storm. Dal punto di vista strettamente narrativo, la semplificazione è stata subito evidente: la Guerra Fredda era uno scenario articolato e complesso. Lo Scontro di Civiltà è molto più schematico e bidimensionale perché ogni sfumatura viene brutalmente cancellata dall’immagine. Non a caso, mentre i combattenti delle prime linee sul terreno  mediatico della Guerra Fredda avevano spesso una doppia identità, [...]]]>
di Alessandra Daniele

Flag of european unionÈ ormai quasi un quarto di secolo che il cosiddetto Scontro di Civiltà ha sostituito nella narrazione globale la Guerra Fredda. Proprio mentre si sgretolava la Cortina di Ferro, partiva la prima Guerra del Golfo, con l’operazione Desert Storm.
Dal punto di vista strettamente narrativo, la semplificazione è stata subito evidente: la Guerra Fredda era uno scenario articolato e complesso. Lo Scontro di Civiltà è molto più schematico e bidimensionale perché ogni sfumatura viene brutalmente cancellata dall’immagine.
Non a caso, mentre i combattenti delle prime linee sul terreno  mediatico della Guerra Fredda avevano spesso una doppia identità, quelli dello Scontro di Civiltà sono da entrambe le parti letteralmente senza volto: tagliagole incappucciati e droni bombardieri telecomandati.
Una narrazione binaria ed elementare, che ha per questo bisogno di essere costantemente alimentata da shock: attentati sanguinosi, kamikaze minorenni, decapitazioni collettive, distruzione di monumenti e siti archeologici millenari.
Nonostante tutto questo però, in Europa il pericolo continuava perlopiù ad essere percepito come distante.
Serviva una minaccia che sembrasse realmente incombente sulla vita quotidiana di tutti: gli sbarchi dei migranti, amplificati e moltiplicati dai media, stanno servendo perfettamente allo scopo. Una popolazione che non si senta abbastanza minacciata diventa più difficile da controllare, e le classi dirigenti non possono permetterselo, specialmente durante una crisi strutturale del sistema come quella che stiamo attraversando, e che, nonostante le promesse dei cazzari, potrà soltanto peggiorare.
Se gli europei non hanno abbastanza paura di un attentato dell’ISIS, ne avranno d’una rapina in villa.
L’importante è che continuino a cedere libertà e sovranità ai governi centrali, ad approvare i bombardamenti umanitari, e ad incolpare di tutti i loro problemi lo Straniero.
Questa settimana, la Merkel recita il ruolo del poliziotto buono.
Fra qualche anno, anche lo Scontro di Civiltà avrà esaurito la sua spinta propulsiva, e sarà sostituito da un’altra Contrapposizione Epocale che molto probabilmente comprenderà la Cina fra i due principali contendenti.
La parte della barricata dalla quale si troverà l’Italia dipenderà dal maggiore offerente.
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Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (sbarca in Messico) https://www.carmillaonline.com/2013/05/26/scontro-di-civilta-per-un-ascensore-a-piazza-vittorio-sbarca-in-messico/ Sat, 25 May 2013 22:00:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5968 di Fabrizio Lorusso

choque amara

Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (Choque de civilizaciones por un ascensor en Piazza Vittorio), edizioni e/o, 2006, pp. 192, € 10,20 [Versione in spagnolo: Editorial Elephas, Mexico City, 2012, pp. 160, pesos MXN 199]

L’anno scorso ho curato la traduzione dall’italiano allo spagnolo di questo romanzo dello scrittore algerino Amara Lakhous  per Elephas, piccola editrice indipendente messicana, e questa è la recensione per il quotidiano messicano La Jornada che ho tradotto per Carmilla. Le civiltà [...]]]> di Fabrizio Lorusso

choque amara

Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (Choque de civilizaciones por un ascensor en Piazza Vittorio), edizioni e/o, 2006, pp. 192, € 10,20 [Versione in spagnolo: Editorial Elephas, Mexico City, 2012, pp. 160, pesos MXN 199]

L’anno scorso ho curato la traduzione dall’italiano allo spagnolo di questo romanzo dello scrittore algerino Amara Lakhous  per Elephas, piccola editrice indipendente messicana, e questa è la recensione per il quotidiano messicano La Jornada che ho tradotto per Carmilla. Le civiltà possono scontrarsi in molti modi diversi. E se al posto di farlo in politica o nella storia, lo fanno in un semplice condominio popolare o addirittura nell’angusto spazio di un ascensore, la situazione può complicarsi. Lo scrittore algerino Amara Lakhous, che vive a Roma da molti anni ed è autore di Le cimici e il pirata (1999) e Divorzio all’islamica a Viale Marconi (2010) ci immerge nell’Italia dei migranti con un romanzo poliziesco corale.

C’è stato un omicidio in un palazzo di Piazza Vittorio, a Roma, e i vicini, uno dopo l’altro, narrano la propria versione dei fatti anche se, allo stesso tempo, ricostruiscono il loro passato, le loro storie e le loro vite quotidiane di migranti, tra gli estremi dell’integrazione e del rifiuto che la capitale gli fa provare alternativamente. Parviz Manssor Samadi è iraniano e Benedetta Esposito è di Napoli. Iqbal Amir Allah è bengalese, mentre Maria Cristina González viene dal Perù. Antonio Marini è nato a Milano, nel profondo Nord nebbioso, e Johan Van Marten viene dall’Olanda e sogna di diventare il “nuovo Fellini” girando un film sui personaggi, così veri e crudi, di Piazza Vittorio.

Sandro Dandini, invece, è di Roma e Abdallah Ben Kadour è algerino. Del Signor Amedeo non sappiamo molto, nemmeno la nazionalità, ma la sua fidanzata è italiana e si chiama Stefania. Elisabetta Fabiani vive col suo cagnolino, ululante e viziato, che si chiama Valentino e infine il tamarro Lorenzo, alias il Gladiatore, è il più odiato del condominio. Tutti loro sono inconsapevolmente i protagonisti a Piazza Vittorio, tutti sanno qualcosa, almeno un tassello.

Nei loro racconti c’è la realtà dura del razzismo e del pregiudizio, degli stereotipi e delle incomprensioni in una società cambiante e contraddittoria, complicata e poco avvezza al dinamismo, alla diversità e al concetto del melting pot, il punto di fusione di popoli diversi, l’integrazione. Ma ci sono anche esempi di solidarietà e avvicinamenti inattesi, casi di tolleranza e di successo nella costruzione del crogiuolo multiculturale dell’Italia nel nuovo millennio.

scontrodicivilta

Il Signor Amedeo, personaggio chiave del libro, rispettato straniero che sembra un italiano, di cui nessuno riesce a indovinare la provenienza, conosce tutti i condomini e ogni giorno appunta nel suo diario i pensieri e le sensazioni della vita migrante, la quotidianità della vita migrante in brevi testi che lui chiama “ululati”, e così ricorda anche il vissuto di tutti i vicini.

Stranieri e italiani, uomini e donne sono sempre sul piede di guerra per quell’ascensore che, secondo il professor Antonio Marini, rappresenta “la barriera tra la civiltà e la barbarie”. Secondo la custode Benedetta è un sacro tempio inviolabile che lei protegge da invitati e forestieri, da ospiti indesiderati e da condomini che giudica maleducati. Al contrario per Amedeo l’ascensore è una scatola claustrofobica insopportabile e, per il cuoco Parviz, si tratta di un luogo di meditazione inuguagliabile. Infine il Gladiatore lo vede come uno spazio ideale per orinare e per morire, visto che qualcuno proprio lì mette fine alla sua esistenza. E saranno pochi quelli che piangeranno la scomparsa del giovane. Cominciano le ricerche. A poco a poco l’incastro dei pezzi del puzzle prende forma grazie alle indagini del commissario di polizia Bettarini che prova a ricomporre le storie del condominio di Piazza Vittorio.

Questo Scontro di civiltà è la storia di una comunità variopinta i cui appartenenti, tuttavia, non hanno niente in comune, tranne il fatto di vivere in un quartiere ormai multietnico in uno dei cuori della città eterna e di essere chiamati a testimoniare in qualità di potenziali testimoni di un crimine. Come farti allattare dalla lupa senza farti mordere? Questo era il titolo della prima versione del libro scritta in arabo. Roma, la lupa, forse non morde, ma fa pensare. Lakhous ci invita a vedere con gli occhi degli altri, a percepire l’alterità con ironia e amaramente allo stesso tempo, in altre parole l’autore ci sfida a comprendere, o almeno captare, le integrazioni e le resistenze delle culture migranti in quest’angolo romano della vecchia Europa, sorniona e troppo spesso chiusa in se stessa.

[N.f.d.t. Nota finale del traduttore]

Nella traduzione allo spagnolo di quest’opera, previo accordo tra il sottoscritto, gli editori e i correttori di bozze, s’è deciso di utilizzare a seconda del contesto i due termini spagnoli “migrante” e “inmigrado” per tradurre la parola italiana “immigrato” e modularne alcune sfumature semantiche. Infatti, distinguere in spagnolo tra un “migrante” e un “inmigrado”, un termine che nella variante messicana risulta piuttosto pesante e burocratico ed è associato automaticamente all’odiato ufficio stranieri, l’INM o la “migración” del Ministero dell’interno, aiuta a rendere più flessibile il concetto. Questo vola così in due possibili direzioni semantiche dalle diverse valenze culturali, politiche e sociali. Una, quella legata al “migrante”, che è un participio presente (vedi articolo “Ser migrante” di Matteo Dean), ricorda viaggi, dignità, sofferenze e avventure, ci parla di una persona in movimento, costantemente, col suo bagaglio culturale e, forse, le sue speranze di tornare un giorno a spostarsi, ma non necessariamente per tornare al suo paese d’origine. Diciamo che incorpora una visione più romantica e dinamica della migrazione. Quella dell’immigrato o “inmigrado”, che è un participio passato, è un’idea che rimanda, invece, a una presenza fissa, più stabile in certi casi o addirittura clandestina e precaria in molti altri, ma che, ad ogni modo, riguarda etichette e stereotipi, si divincola tra leggi e autorità, ricorda codicilli e permessi più che viaggi e costruzioni, incomprensioni più che integrazioni. Dunque abbiamo differenziato in spagnolo il loro uso perché un migrante è diverso da un immigrato.

[Per chi (?) si trovasse dalle parti di Città del Messico, il romanzo verrà presentato alla IV edizione della Feria del Libro Independiente mercoledì 29 maggio alle 17]

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