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I Mille e un incubo

Nell’estate di un paio d’anni fa mi trovavo nell’Hampshire, nel sud dell’Inghilterra. Era il 2018: l’anno precedente in tutto il mondo si erano celebrati i bicentenari della morte di Jane Austen (18 luglio 1817) e della pubblicazione del romanzo Northanger Abbey, scritto sì molto tempo prima (1803, primo suo novel completo) ma edito solo postumo (dicembre 1817). Anzi il frontespizio recava direttamente la data 1818, e insomma l’occasione era ottima, a distanza di duecento anni, per visitare l’ultima delle case abitate dalla scrittrice, nel villaggio [...]]]> di Franco Pezzini

I Mille e un incubo

Nell’estate di un paio d’anni fa mi trovavo nell’Hampshire, nel sud dell’Inghilterra. Era il 2018: l’anno precedente in tutto il mondo si erano celebrati i bicentenari della morte di Jane Austen (18 luglio 1817) e della pubblicazione del romanzo Northanger Abbey, scritto sì molto tempo prima (1803, primo suo novel completo) ma edito solo postumo (dicembre 1817). Anzi il frontespizio recava direttamente la data 1818, e insomma l’occasione era ottima, a distanza di duecento anni, per visitare l’ultima delle case abitate dalla scrittrice, nel villaggio di Chawton: un cottage incantevole e sobrio, tranquillo – sembra impossibile che fino a quarto di secolo prima dell’arrivo di Jane l’edificio avesse ospitato una rumorosa locanda, teatro oltretutto di ben due omicidi – dove la scrittrice passa in pratica l’ultima parte della vita. In queste stanze forse lei rivede i primi romanzi in vista della pubblicazione – Sense and Sensibility, Pride and Prejudice, appunto Northanger Abbey – e qui scrive Mansfield Park, Emma e Persuasion. Però qui stende anche commoventi (senza eccessi, siamo inglesi) ma precisissimi resoconti clinici sulla salute che va precipitando: nonostante tutto continua a lavorare, dedicando la solita ironia anche a personaggi ipocondriaci, e solo in ultimo lascia la casa per cercare cure ormai – diremmo noi – palliative a Winchester, dove muore ed è sepolta. Nella bella giornata di sole di cui parlo, tra anziani turisti britannici, il cottage (adibito a Jane Austen’s House Museum, oggi a rischio chiusura per il taglio introiti legato alla crisi-covid), respirava un po’ questo clima insieme ironico, tenero e vagamente malinconico.

Ma in una vetrinetta spiccava una serie ben rilegata di volumi, sette per la precisione, meglio noti come i Northanger “horrid” novels: cioè quei gotici minori citati ironicamente in Northanger Abbey, a lungo considerati una libera invenzione, finché non erano saltati fuori a testimonianza di tutto un panorama coevo di orrori minori, storie dal fremito facile e dai personaggi ingenuotti. E con tutto ciò degne d’apprezzamento anche a letture odierne, per il fascino anticato di quei sobbalzi e per l’interesse delle relative strutture narrative (nonché per il paragone impietoso, se vogliamo, con taluni testi strombazzati oggi sui social e in fondo assai più indifendibili – ma questo è un altro discorso).

Ad attirare a Chawton quell’estate era in effetti anche un altro motivo: la splendida mostra ‘The art of freezing the blood’: Northanger Abbey, Frankenstein, & the Female Gothic allestita (tra marzo e dicembre 2018) a poca distanza dal cottage di Jane, in celebrazione del bicentenario del romanzo di Mary Shelley e del controcanto gotico-ironico austeniano. La sontuosa magione elisabettiana con ampio parco nota come Chawton House – vi abitava il fratello di lei, l’influente Edward Austen Knight che aveva piazzato liberalmente nel cottage madre e sorelle – esponeva in quell’occasione una splendida raccolta di volumi del primo gotico con un buon corredo di tabelloni esplicativi: a evidenziare la forte vocazione femminile di un linguaggio divenuto a un tratto improvvisamente di moda e destinato a figliare per li rami un po’ tutti i generi “a sensazione” della narrativa popolare. A parte i nomi menzionati, pensiamo soltanto alla grandissima Ann Radcliffe, e poi a Clara Reeve, Caroline Lamb, Regina Maria Roche, Eliza Parsons, Eleanor Sleath…

Ecco, mi piace ricordare questa mostra – allestita con passione, i responsabili erano deliziosi – sia quale cornice virtuale del discorso che segue, sia a ideale pendant alla mancanza di scrittrici sotto la lente di un breve, bel volume a tema gotico che andiamo a esaminare. Una mancanza non dovuta a scarsa sensibilità: a parte che due voci su tre dei coautori dello studio in esame sono femminili, l’obiettivo è puntato su tre scrittori molto particolari – eccentrici, potremmo dire, rispetto a un panorama che lo è già di suo. E proprio per le sue qualità, il volumetto merita attenzione anche a distanza di un po’ di tempo dall’uscita.

A firma di Alberto Castoldi, Franca Franchi e Francesca Pagani, Viaggi al termine del desiderio. Beckford, Potocki, Révéroni Saint-Cyr, Mimesis 2017, è articolato in cinque contributi: a partire da una Prefazione. Tre percorsi nel delirio: Beckford – Potocki – Révéroni Saint-Cyr di Franca Franchi che sintetizza un po’ il senso dell’operazione. A fronte dell’horror turn emerso nella metà del Settecento un po’ in tutta l’Europa, è chiaro che non si può ridurre il tutto al trauma della Rivoluzione francese, che pure avrà un peso di notevole rilievo nello sviluppo del genere gotico. Partiamo dunque dal successo di

 

un immaginario sempre più desideroso di nuovi stimoli all’insegna dell’inquietudine […] La fascinazione per l’orrore diventerà via via un luogo comune, più volte ripreso, nella consapevolezza di trovare nell’inquietudine in cui affonda le radici questo genere di narrazioni una profonda rispondenza con le esigenze dei lettori, che hanno come obiettivo quello di misurarsi con testi in grado di «exciter la terreur».

 

Da ciò la scelta del trittico di romanzi in esame, meritevoli sia per la qualità letteraria in un filone che presenta anche tanta paccottiglia, sia per la ricchezza di implicazioni, sia anche per il tipo di soluzioni narrative adottate. Romanzi oltretutto con la sorte peculiare di essere riscoperti nel Novecento attraverso voci eccellenti – Borges per il Vathek, Caillois per Il manoscritto trovato a Saragozza, Foucault per Pauliska o la perversità moderna (manca solo l’Artaud del Monaco di Lewis) –, ma giudicati particolari rispetto ai connotati più frequenti dello stesso genere gotico, di cui rinnovano il repertorio,

 

collegando la natura al mondo delle emozioni che proliferano a cascata creando una diversa sensibilità, in parte già preromantica. L’ambientazione lascia l’Europa per collocarsi in un mondo più vasto, in un Oriente per lo più immaginario, ma particolarmente congeniale allo spirito che anima queste produzioni, perché, come succedeva già nella Persia di Montesquieu, può ospitare l’espansione indefinita di tutte le pulsioni, di ogni trasgressione.

 

La magia nel primo romanzo, la magia razionalizzata nel secondo e una scienza dai connotati arcani nel terzo offrono così linguaggio adeguato a una comune esaltazione del desiderio, “determinandone le motivazioni profonde, il dispiegarsi pervasivo di un immaginario delirante, strettamente collegato con la volontà di dominio, con un’incessante sfida all’impossibile, con una ricerca dell’estremo della trasgressione”.

La prima opera viene trattata da Alberto Castoldi nel fascinoso capitolo Viaggio al termine del desiderio: Vathek, sul romanzo maledetto e bellissimo di William Beckford (1760-1844). Vero e proprio labirinto autoreferenziale giocato sul piacere dell’intelligenza – il contributo prende le mosse da quella sorta di problematica resa con cui chiude lo studio ormai classico di Giovanna Franci su Beckford quale enigma e puzzle (La messa in scena del terrore, Longo 1982) – Vathek

 

resta irriducibile ad ogni assimilazione. Troppo riduttiva appare l’aggregazione al romanzo gotico perché non si avvale, se non genericamente, dello sfondo e delle problematiche che gli sono specifiche, mentre l’ambientazione orientalistica non si discosta dalla configurazione del racconto orientale settecentesco, risolvendosi in dettagli marginali, non diversamente dai romanzi di Voltaire o dal Rasselas di Samuel Johnson.

 

Si può obiettare (non tanto a Castoldi, quanto al tradizionale giudizio critico) che ciò rimanda a una classificazione del gotico come ormai cristallizzato, che non fotografa la magmaticità originaria del genere. Lo stesso Castello d’Otranto utilizza l’etichetta “gotico” come richiamo soprattutto all’architettura, e soddisfa solo in parte quel che i lettori si abitueranno a considerare proprio del genere, per esempio sulla base di una seriosità alla Clara Reeve e della perdita di tutto un Hellzapoppin’ miracolistico cattolicheggiante: qualcosa che resta presente in tutto un bacino di storie devozionistiche (che da bambino mi facevano un sacco di paura: immagini sacre che sanguinano o parlano, eccetera) mentre latiterà nel romanzo gotico “classico”. D’altra parte già critici come i fratelli Anna Laetitia e John Aikin (Miscellaneous Pieces in Prose, 1773), annettono a una sensibilità in senso lato “gotica” gli spaventi della letteratura orientaleggiante, avvicinando a Walpole Le Mille e una notte, “che presentano parecchi esempi molto notevoli del Terribile congiunto al meraviglioso”: insomma, un certo orientalismo in sé non osterebbe, sia perché quando Vathek viene scritto le categorie sono ancora fluide e il genere non irrigidito, sia perché (in radice) non si vede la ragione di un distinguo. Del resto Beckford non si pone problemi di etichette, a differenza di quanto poi farà – anche comprensibilmente – la critica: ma sembra opportuno considerare, attorno a un gotico “stretto”, rigidamente delimitato a casi con topoi canonizzati, un’assai più ampia costellazione o nebulosa gotica che ne sviluppa le possibilità lungo coordinate diverse. In un’epoca come la nostra in cui i generi, ipercodificati a fini anche di marketing (“vuoi un poliziesco? o preferisci un fantasy?”), vengono poi di fatto continuamente ibridati costringendo all’invenzione di categorie sempre più barocche, una certa elasticità merita d’essere riconosciuta anche nell’analisi teorica all’UR-genere “a effetto”, nonno di una ramificatissima famiglia.

Castoldi riassume dunque il viluppo di nessi tra il giovane William e la sua opera, e soprattutto quel gioco dei desideri che lo lega alla cugina Louisa e a William “Kitty” Courtenay, il ragazzino scandalosamente amato. A partire dal palcoscenico ideale della grande festa di Natale 1781, che del Vathek rappresenta una virtuale anticamera, e un modello di estetizzazione persino del suo inferno (sul tema mi permetto di rinviare a quanto narrato, tra gioco e resoconto rigoroso, in questo precedente articolo); e poi di quella Fonthill Abbey dove il Califfo Beckford radunerà i suoi tesori. Se tutta la fiaba nera del Vathek è nel segno dell’eccesso – compreso quello che rende paradossale la continua crudeltà in scena nel segno del grottesco e dell’ironico – la “vera novità” del romanzo è l’estetizzazione del male che prefigura infiniti esiti nella letteratura moderna: Baudelaire, Artaud (il suo Eliogabalo è “per tanti versi simile a Vathek”, androgino come vari personaggi di Beckford, emblema della trasgressione…) e tanti altri. La riflessione di Castoldi è affascinante:

 

Vathek si muove nel sempre-identico, e questo fa sì che non vi possa essere progressione di eventi, se non il progredire stesso del califfo nel suo viaggio. A differenza dei romanzi gotici non v’è un sopruso da vendicare, non c’è una fanciulla perseguitata da salvare, non c’è un ordine da ristabilire. Si ha, apparentemente, un livre sur rien, il percorso iniziatico appare senza un vero obiettivo, poiché il non-divenire che caratterizza l’avventura del Califfo, lo sottrae di fatto al percorso iniziatico Vathek, esattamente come il giovane Beckford possiede già tutto, non c’è desiderio che non possa essere realizzato, e le promesse del Giaurro nulla aggiungono a questa condizione. La quête del Califfo tende dunque ad un “oltre” dall’esistente, come ben testimonia la sua aspirazione a conoscere anche le scienze che non esistono, affermazione che va accolta in tutta la sua drammaticità, come tensione verso l’assoluto. Non si tratta di una bulimia, di un’ingordigia simile a quella alimentare che consegna Vathek all’eccesso, ma di una hỳbris sconfinata dell’intelletto.

Come l’estremo del desiderio è desiderare di desiderare, la hỳbris di Vathek comporta una trasgressione infinita. Vathek vive nell’eterno presente della pulsione desiderante, al di fuori del tempo e della memoria, e l’accumulo delle esperienze risulta improduttivo. La «pulsione a vedere» che lo spinge sempre più avanti verso i tesori di Isthakar, la scopofilia, una delle «pulsioni costitutive» per Freud della sessualità umana (Tre saggi sulla teoria della sessualità, 1905) è intimamente associata alla «pulsione di vedere» (da Freud: «Wisstieb»).

 

Si può però ribattere che proprio il gusto di sberleffo dell’opera – da parte di un autore che vi gioca d’ironia nera a ogni passo, con un ghigno certo diverso ma forse non troppo dal sorrisetto metatestuale di Walpole – contribuisce a farlo riconoscere come beffardamente gotico. Il contesto che poi verrà considerato tipico del genere (a “differenza dei romanzi gotici non v’è un sopruso da vendicare, non c’è una fanciulla perseguitata da salvare, non c’è un ordine da ristabilire”) in realtà qui c’è ma invertito, perché i soprusi sono funzionali alla quest dell’inferno e la vendetta è resa impossibile a una corte di rammolliti, la fanciulla viene salvata al male e contribuisce alla dannazione di Vathek, e a dover essere ristabilito è il caos, non l’ordine. L’obiettivo del percorso c’è, ma è una controiniziazione – e se Vathek non è efficiente neppure in quella, riuscirà comunque a ottenere un posto nel primo inferno per elezione (come ricorda Borges, distinguendolo dagli inferni per condanna) della letteratura occidentale.

Il gotico è del resto un linguaggio che contempla spesso la propria parodia, o almeno un gioco ironico metatestuale su quel premere il pedale dell’eccesso (dal divertentissimo Nightmare Abbey di Thomas Love Peacock appunto a Northanger Abbey, da Metzengerstein di Poe – soprattutto nella prima versione – a certi film con Vincent Price o magari di David Lynch); e persino l’“aspirazione a conoscere anche le scienze che non esistono” è insieme, sì, tensione drammatica, ma anche eccesso grottesco, quasi a prefigurare di lontano la patafisica, scienza delle soluzioni immaginarie… Non dimentichiamo che la saldatura di grottesco/comico e diabolico connota persino certo immaginario streghesco shakespeariano (in un’epoca in cui delle streghe si aveva paura e si prendevano maledettamente sul serio) alle spalle del gotico; ed è in realtà abbinamento di antichissima origine (Petronio, Apuleio…), a considerare come frequente nel “nero” la compresenza straniante di due poli – il serio e il grottesco/ironico/beffardo – che la seriosità moderna tenderà a scindere. Torniamo alle proteste di Clara Reeve contro il sovrannaturale non sufficientemente serio di Walpole.

Del resto Vathek mostra un profilo a tratti non lontano dal bulimico, e non solo per le brutte sorprese che gli gioca il Giaurro: ciò che non nega la tensione verso l’assoluto di cui parla Castoldi, ma la inabissa nel goffo e nel carnale, nel grottesco e nell’allucinato. Vathek è inquietante perché è anche grottesco, e le pose, i vezzi, i tic e i sogni, le beffe, l’ironia e le impennate del suo autore vi si impastano in modo drammatico. Sarebbe assai meno inquietante se fosse solo “serio”.

Molto bello, per contro, è l’accostamento che Castoldi evoca tra la punizione entropica dei dannati descritti da Beckford e l’immagine dell’Uomo della folla di Poe. E quel vero e proprio romanzo autobiografico e familiare che è il Vathek – specchio non di una vita reale, ma di quella “sognata, immaginata, la vie fantasmée, che comporta rifiuti, negazioni, integrazioni, e di cui importano le tracce” – sarebbe per Castoldi rivelativo:

 

La pulsione che ha caratterizzato le giornate trascorse nel palazzo con Kitty Courtenay, costituisce il punto cieco verso cui muove la scrittura di Beckford, ma la pulsione non è dello stesso registro della rappresentazione; le vicende si ripetono perché la narrazione non può crescere, la pulsione non può essere saturata dalla rappresentazione, come il fantasma della gola di Irma nella celebre esposizione freudiana (Interpretazione dei sogni, 1900).

La scrittura, nell’impossibilità di dare forma al desiderio, elabora, dunque, una narrazione in grado di riattivare quell’esperienza nella sua dimensione pulsionale. Un universo infantile mette in scena la propria rivolta contro gli adulti, desacralizza la severità materna nell’incesto e nella pederastia, in un’atmosfera magica tutta improntata all’oriente, non-luogo dove tutto è possibile, al di fuori di ogni regola morale.

 

Con una rivolta soprattutto contro il feticcio dell’ingombrante padre, attraverso il teatro fisico della famosa festa di Natale e quello mentale di una scrittura/arte in cui a quel punto si identificherebbe il Male.

 

L’artista Vathek-Beckford dà voce con la scrittura alla propria pulsione desiderante, e sempre con la scrittura crea un inferno che esiste solo nella scrittura stessa, in cui egli è il colpevole ed il giudice al tempo stesso, come nella Colonia penale di Kafka. […] In questo quadro, il Male di Vathek non ha pertanto una connotazione metafisica, ma coincide con la pulsione desiderante, e con l’arte, che si oppongono a qualsiasi etica, nel senso che ne prescindono.

 

Il discorso avviato del bel pezzo di Castoldi viene proseguito idealmente da Franca Franchi nel contributo Scene di una fantasmagoria: il male nel Manuscrit trouvé à Saragosse su quella sorta di incredibile Decameron nero, allucinato e paradossalmente razionalista, composto lungo un arco di parecchi anni dal conte Jan Potocki (1761-1815), prima di limare un fruttino d’argento della propria teiera fino a renderlo tondo, farlo benedire e usarlo come proiettile per porre fine alla propria depressione. Come l’inglese Beckford, anche il polacco Potocki scrive il proprio romanzo gotico in francese; anche nel suo caso la vicenda filologica è complicatissima, anzi ha trovato anche recentemente nuovi tasselli; entrambi guardano alle Mille e una notte (pure il Vathek doveva essere composito), anche se Potocki occidentalizza e razionalizza. Come ricorda Franchi,

 

Nel singolare universo di Jan Potocki il mondo esiste soltanto come somma di narrazioni, siamo di fronte ad una sorta di bulimia del racconto, in cui ogni protagonista può essere tale solo in quanto depositario non di una vicenda, ma della sua narrazione. A ognuno è specificatamente richiesto di raccontare la propria storia, è una sorta di rito evocatorio cui nessuno può sottrarsi, proprio come avviene nell’Aldilà dantesco. Tuttavia se nelle Mille e una notte, il vero grande modello di Potocki, la narrazione è salvifica, non solo perché consente la sopravvivenza della narratrice, Sherazade, ma anche perché il ricordo di altre narrazioni consente ogni volta al protagonista di una disavventura, come nel caso di Sindibad, di trarsi d’impaccio, qui, invece, la narrazione non ha uno scopo se non quello di testimoniare dell’impossibilità di arginare l’errance. Non a caso uno dei principali protagonisti, fra i depositari di narrazioni, Avadoro, è uno zingaro.

 

Una narrazione insomma di straordinario fascino, che sperde il lettore in una febbricitante matrioska di racconti nei racconti, tra procaci cugine che potrebbero essere demoni succubi, banditi impiccati che forse non lo sono, figure di una Spagna da ossessione gotica (l’inquisitore, l’eremita, l’invasato, il cabalista…) – dove la storia in effetti si ambienta – e appunto affabulatori zingari, in un continuo, vertiginoso misurarsi dell’autore con generi narrativi diversi. Gli smottamenti nella ricostruzione di un testo tanto complesso, di cui l’autore regge prodigiosamente i fili (in seguito alle ultime scoperte ne esistono oggi due versioni differenti, alcune “giornate” hanno cambiato posto eccetera) rendono difficile un’interpretazione, benché la struttura sia in fondo, “paradossalmente, la componente di per sé meno rilevante del testo, quasi una sorta di esoscheletro fine a se stesso, se non come testimonianza dell’adesione ad una tradizione particolarmente significativa” di grandi compilazioni di storie – e il sovrannaturale apparente con cui si apre il cammino iniziatico del protagonista lascia posto a una spiegazione razionale, illuministica, fantapolitica. Infatti a rilevare è semmai proprio il nodo tematico dell’utopia politica, tra le lacerazioni dell’impero spagnolo (nella trama) e quelle della Polonia nei giorni travagliati dell’autore: ma la perdita nel finale della favolosa miniera d’oro che per secoli ha sostenuto la resistenza alla cristianizzazione forzata dell’Andalusia, e che farebbe passare l’eroe da una fedeltà patriarcale a una materna e ctonia, suggerisce (come nota Michel Delon, “La bizarrerie de la nature”, Europe, “Jan Potocki”, marzo 2001, n. 863) la fine di una certezza identitaria.

Però proprio l’immagine del grande disegno legato a una società segreta diventa “metafora dell’autore stesso e della sua scrittura, che di fronte all’éclatement del discorso fungono da elementi gravitazionali”: e si rinvia all’autrice per l’affascinante disamina di un meccanismo a incastro in cui la storia seconda si inserisce nella prima, e così via in termini virtualmente infiniti. Come scrive Todorov (Poétique de la prose, 1971) a proposito del Manoscritto:

 

Raccontando la storia di un altro racconto, il primo raggiunge il suo tema segreto e al contempo si riflette in quest’immagine di se stesso: il racconto incastonato è a sua volta l’immagine di quel grande racconto astratto di cui tutti gli altri non sono che della parti infime ed anche del racconto immediatamente precedente che lo incastona.

 

Osserva Franchi:

 

Il risultato è singolare perché se il percorso è sequenziale di fatto l’insieme è piuttosto una tessitura, in cui tutto si tiene. Ogni personaggio detiene una storia, il cui senso è però sequestrato dalla tessitura delle storie, la quale a sua volta non ha un’origine, e quindi un senso, e non può concedersi di giungere a termine, poiché senza gli «uomini-racconto», interviene la morte della narrazione e quindi il naufragio del logos: la pagina bianca, l’assenza di narrazione significa la morte. All’origine v’era dunque, veramente il logos, la parola senza la quale non c’è senso, ma è poi proprio questo tutto il senso: l’esserci. […] La vertiginosa sequenza delle narrazioni nel Manuscrit è il tentativo di dilazionare e però al tempo stesso prefigurare un senso, sottraendosi al vuoto.

 

Nei fatti, il pluriverso del Manoscritto, con le sue connotazioni e prospettive multiple, presenta una straordinaria modernità: qualcosa che richiama (anche in certe descrizioni macabre) all’illusionismo delle fantasmagorie coeve, recuperando di racconto in racconto spunti canonici del fantastico ma estremizzandoli:

 

i doppi proliferano, all’insegna della gemellarità, le donne sono fedeli amanti o streghe; le figure del desiderio si demoltiplicano all’infinito: omosessualità, incesto, travestitismo, sadismo. L’uso di droghe esaspera ulteriormente questi comportamenti come nella vicenda conclusiva del pellegrino maledetto, che si avvale dell’impiego di pillole contenute in una bomboniera per avere rapporti multipli con due fanciulle e la loro madre […] L’accumulo di elementi stravaganti è tale che il romanzo può essere letto anche come un congedo dal fantastico, dopo averne esibito tutte le componenti ed averle demistificate,

 

ed è una chiave possibile: anche se il finto orrore sovrannaturale e la “vera” spiegazione fantapolitica tramite un’improbabile società segreta finiscono con l’essere entrambi talmente fantastici – almeno in senso generico – che il lettore passa stupefatto e gioioso da un colpo di scena all’altro, beandosi di una propria sospensione dell’incredulità. Eppure in entrambi i testi il tema del desiderio è evocato – assieme agli altri: il potere, la ricerca, l’illusione… – in quella dimensione labirintica che appartiene, lo sappiamo, alla nostra esperienza autentica, concreta. Il gotico ci incalza così sia nelle nostre dimensioni interiori che in quelle esteriori (culturali, sociali, politiche) impastate di implausibili storytelling, di verità coperte spesso in modo grottesco, di oppressioni e inferni.

Una nota aggiuntiva merita ancora però il senso dei due contributi citati, di Castoldi e di Franchi, all’interno del volume in esame: sia il testo sul Vathek che quello sul Manoscritto figurano infatti qui proposti in anteprima (“per gentile concessione dell’Associazione Sigismondo Malatesta che ne detiene i diritti”) rispetto all’opera in due volumi Il Piacere del Male. Le rappresentazioni letterarie di un’antinomia morale (1500-2000) a cura di Paolo Amalfitano, per i tipi Pacini, Pisa 2018, che li contiene. Non così però il materiale successivo del volume a cura di Francesca Pagani, su cui ci soffermeremo in prosieguo, e in abbinamento al quale finiscono col costituire qualcosa di diverso: un mosaico – l’ennesimo – dalle interne tensioni, dalle correnti sotterranee all’insegna del desiderio, che rende autonomo questo volumetto rispetto alla più ampia compilazione Pacini.

Ma torniamo fuggevolmente a due anni fa: quando, proprio il giorno prima di passare a Chawton, percorrevamo le stradette del Wiltshire con una piantina approssimativissima scaricata da Google Map e glossata di segnacci a biro. Della fiabesca Fonthill Abbey di Beckford, avevo letto, non sopravvive solo un meraviglioso portale sulla strada, ma anche un piccolo corpo di edificio: speravo di poterlo avvistare almeno in distanza, chiuso com’è tra proprietà private. Con fatica individuiamo finalmente il non segnalato passaggio che conduce alla costruzione: salvo trovarci davanti la strada sbarrata (eviteremmo l’effrazione) e uno schermo di alberi. Che in origine non avrebbe potuto nascondere quell’incredibile palazzo da Mille e una notte, da Mille e un incubo. Ma che ora, velato dal tempo e dallo spazio e tuttavia , idealmente a pochi passi, pare una buona metafora del desiderio.

[1-continua]

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Cervello nero, invenzione sporca (Nightmare Abbey 15/2) https://www.carmillaonline.com/2020/07/25/cervello-nero-invenzione-sporca-nightmare-abbey-15-2/ Sat, 25 Jul 2020 21:03:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61675 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la prima puntata in margine all’esame del volume Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019).

Fin qui sulla vertigine dell’opera in esame. Le peculiarità delle Carceri non si esauriscono però nella struttura architettonica per cui Piranesi è diventato tanto noto: se esaminiamo con attenzione il contenuto delle tavole, notiamo infatti qualcos’altro. Qualcosa che richiama sì al “dilettoso orrore”, ma in modo persino più macabro. Infatti, le funi e le macchine notate da De Quincey come evocanti [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la prima puntata in margine all’esame del volume Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019).

Fin qui sulla vertigine dell’opera in esame. Le peculiarità delle Carceri non si esauriscono però nella struttura architettonica per cui Piranesi è diventato tanto noto: se esaminiamo con attenzione il contenuto delle tavole, notiamo infatti qualcos’altro. Qualcosa che richiama sì al “dilettoso orrore”, ma in modo persino più macabro. Infatti, le funi e le macchine notate da De Quincey come evocanti “impiego di enorme forza e superamento di resistenza” – come in una versione fantastica della rivoluzione industriale – sono in realtà finalizzate a usi assai più sinistri. Già nella Carcere oscura del 1743, la didascalia identificava un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”: e nelle Carceri quel che l’occhio non coglie facilmente – ma qualcosa, a studiarle con calma, emerge dal chiaroscuro – è rivelato proprio dalle didascalie, per le quali rimando al volume in esame. È anzi possibile notare l’aumento tra la prima e la seconda serie di strumenti di supplizio e immagini di prigionieri torturati: e se le immagini hanno ben poco a che vedere con le prigioni settecentesche e rinviano piuttosto a quelle dell’antica Roma tanto cara all’artista, si tratta di invenzioni, cioè di una rilettura fantastica. Per la disamina delle tavole presentate dall’edizione in esame ci appoggiamo all’analisi di Malcolm Campbell, Piranesi and Innovation in Eighteenth-Century Roman Printmaking (in Art in Rome in the Eighteenth Century, a cura di Edgar Peters Bowron e Joseph J. Rishel, Philadelphia Museum of Art / Merrell 2000).

La tavola I di frontespizio, dove vediamo anzitutto una fantasia architettonica, mostra nell’edizione definitiva un “Interno di prigione con scale e passerelle, strumenti di tortura, catene; in primo piano, in basso, una ruota ad aculei; in alto una figura urlante in ceppi”. A parte quest’ultima – sorta di versione carceraria dell’Urlo di Munch con tutta la surrealtà di tale posizione appollaiata –, la ruota ad aculei che sembra emergere dall’inventiva di qualche cattivo re ariostesco sarebbe pronta a straziare le vittime o forse a impalarle (gli interpreti sono perplessi), cioè si tratterebbe di un’immagine del tutto fantasiosa delle macchine da supplizio. Certo, può far rammentare alcuni meccanismi rotanti inventati per la corte di Nerone o le stesse deliranti modalità di esecuzione che la fantasia dell’imperatore avrebbe partorito: ma tutto passa al filtro di una fantasia quasi onirica, dove l’enormità degli ambienti e delle stesse macchine è in diretto rapporto con la monumentalità delle rovine nelle tavole antichistiche.

Nella II, si specifica che “due carnefici torturano un condannato” ed è forse l’unica tanto esplicita, nel senso che altrove si tratta di suggestioni sfumate e più di frequente l’immagine dello strumento di supplizio prende il posto della scena in atto. Non a caso, questa tavola – come la V – viene aggiunta soltanto nella seconda edizione: e si è osservato che in entrambe le incisioni le figure più piccole recano abiti settecenteschi, con l’aria perplessa dei turisti inglesi a zonzo tra le rovine di Roma. Alla dimensione cronologica dei ruderi antichi devono invece appartenere torturato e torturatori, raffigurati come più grandi: non tanto quali statue ma – si è ricostruito, con attento scavo filologico – come una sorta di visione o tableau vivant dei supplizi fatti infliggere da Nerone tramite Tigellino ad alcuni oppositori. Un teatro, insomma, della crudeltà, con tutta la dimensione di messa in scena che il concetto suggerisce (compresa la scelta del tiranno paradigmatico, oltretutto famoso persecutore di cristiani): ed è inevitabile ripensare alle dimensioni di teatro paludato di storia offerte dal gotico e dallo stesso Sade.

Continuando l’esame delle tavole a partire dalle didascalie, troviamo nella III, “a sinistra, a mo’ di quinta, una grande forca” (noi l’avremmo identificata con un più innocuo supporto per carrucola, ma un concetto non esclude l’altro); nella IV, “in basso, strumenti di tortura” (ruota da supplizio, pali appuntiti…). Per quanto riguarda invece le tavole V-VII – la V, come già detto, viene aggiunta nella seconda edizione – le didascalie citano solo corde, catene e pulegge: ma, studiandole con un po’ di attenzione, è possibile riconoscere raffigurazioni di prigionieri pronti ad bestias (ci sono anche leoni: V), un fuoco dall’aria molto sinistra (per rogo o abbruciature?: VI) e macchine di tortura (VII).

Le didascalie delle tavole VIII e IX non esplicitano particolari minacciosi, e la prima mostra in effetti enormi panoplie in stile Castello d’Otranto; ma la seconda, sia per i dettagli un po’ sfuggenti in primo piano, sia per l’immane ruota che occupa quasi tutta la scena, non lascia troppo tranquilli. In realtà, non sembra neppure che la struttura possa definirsi propriamente ruota, pare più una cornice circolare o l’angosciosa, titanica versione carceraria di una sfera armillare, con travi curve e ponteggi su cui si affaccendano figure.

Il tema dei prigionieri torna però nella tavola X, con “un gruppo di condannati legati sopra una grande mensola sporgente a sinistra. A destra grosse catene”: a parte la strana figura urlante appollaiata nel frontespizio, questa tavola è l’unica che già nella prima serie mostri dei prigionieri. La didascalia della tavola XI presenta solo una menzione a cordami, ma la XII evoca tra il resto “strumenti di tortura” e la XIII addita “appesa in alto una ruota ad aculei” (a parte “una lanterna pendente da una forca” e varie amenità sparse in giro come arredi). Di nuovo la tavola XIV cita solo i cordami, ma guardando bene si nota appesa a una trave una gabbia per sospendervi i prigionieri: in sostanza si tratterebbe di un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”, come in quella precedentemente citata. La XV non sembra mostrare dettagli disturbanti.

Un discorso a parte va poi fatta sull’ultima, la tavola XVI, che ostenta una “stele con due teste entro nicchie e la scritta ‘Impietati et malis artibus’” – ma in realtà le scritte sono varie, e sia pure con qualche libertà Piranesi le mutua da autori latini. Qui le attrezzature da carcere ci sono, ma sembrano abbandonate, e le persone presenti appaiono piuttosto dei visitatori: si è discusso a lungo sul significato e, quanto ai dettagli, i pareri sono variegati, ma una linea interpretativa di fondo sembra ormai consolidata. Se anche grazie alle due tavole inserite nella seconda edizione – in particolare quella con la scena di tortura – si evocava la barbarie della tirannide neroniana, qui sembra invece esaltata la severa e austera giustizia della res publica “sana” in termini morali, politici (si veda la citazione da Livio su una colonna, che rinvia alla scelta sotto Anco Marzio di edificare la prima prigione di Roma “ad terrorem increscentis audaciae”) ed estetici (l’enfasi anti-greca). Altre frasi in latino più o meno riconducibili a Livio richiamano agli episodi dell’Orazio uccisore della sorella che aveva visto piangere per uno dei Curiazi, e della giustizia rigorosa di Bruto liberatore dai Tarquini contro i suoi stessi figli cospiranti per il ritorno del re tiranno (le teste nelle nicchie). Una specie di lieto fine della serie, insomma, ma fino a un certo punto: i richiami a questo tipo di giustizia inflessibile evocano nel complesso un messaggio altamente repressivo, con cui Piranesi affida le Carceri ai posteri.

Lasciando alla critica specializzata l’indagine su un senso globale di queste tavole quanto a motivazioni dell’artista (anche mutate, eventualmente, dalla prima alla seconda versione), di significati dichiarati o meno, e di pulsioni legate alla sua fantasia, resta il fatto che le Carceri entrano in circolo nel mondo culturale recandovi un impatto impressionante. L’attenzione si sofferma soprattutto, come abbiamo visto, sulle febbri dell’immaginario architettonico; tuttavia, almeno in subordine, emerge l’altro aspetto, ovvero la disturbante festa dei supplizi. Si aprono così tre fronti di riflessione, di cui ci limitiamo a fornire alcune note.

Il primo riguarda più strettamente il linguaggio artistico e ritorna in particolare sul sentimento del sublime, a cui si è già fatto cenno in precedenza a proposito dell’influenza che le Carceri esercitarono su Walpole e sulle sue descrizioni degli interni de Il castello d’Otranto. Lo storico dell’arte Giuliano Briganti, nel suo volume del 1977 dal titolo quanto mai eloquente I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, afferma: “è nell’opera di Piranesi che si manifesta la prima concreta attuazione artistica del Sublime, a cominciare dalle Carceri”. Nell’analisi che ne segue, Briganti mette in luce, con una prosa dalla grande forza immaginifica di cui vale la pena riportare alcuni stralci, le diverse sfaccettature che l’estetica del sublime assume nelle due serie di acqueforti. Ne rileva in primis un aspetto più severo dove il terrore, con la messa in scena di condannati, carnefici e strumenti di tortura, funge da ammonimento, da exemplum virtutis, evocando “la celebrazione della lex romana e dell’idea repubblicana di giustizia” e, più in generale, della “grandezza morale che emana dalla «magnificenza» di Roma”. Insomma, come appena ricordato, tutti quei valori che sembrano essere veicolati e messi in risalto dall’emblematica e conclusiva tavola XVI.

Tuttavia – sostiene Briganti –, l’efficacia di questo “terrore che ammonisce” può attivarsi soltanto attraverso “la distorsione della realtà, l’irrazionale stravolgimento della scala normativa delle proporzioni, il ricorso totale alla funzione rievocativa della fantasia”. Ed ecco irrompere un’altra valenza del sublime, più onirica e cupa, in linea con il contenuto dell’Enquiry di Burke, che si traduce “nella grandiosità vertiginosa, nella fantastica complicazione prospettica e nell’ancor più fantastico stravolgimento architettonico e spaziale delle Carceri, così come nel loro aspetto minaccioso e tenebroso”. Piranesi gioca sulle ambiguità strutturali e su prospettive irreali, generando nello spettatore un disorientamento profondo, angoscioso – che ci riporta all’aspetto più famoso e apprezzato delle sue acqueforti.

In questi spazi immensi, destabilizzanti, a tratti labirintici e potenzialmente infiniti, si aggiunge infine un’altra componente, ovvero “quell’effetto di oscurità che, secondo il Burke, era fondamentale per ottenere la sublimità nell’architettura”, e che interessa in particolar modo la seconda versione delle Carceri, dove l’uso del chiaroscuro viene prepotentemente accentuato.

Si rilevano insomma tre declinazioni di grandiosità: una morale, l’altra spaziale e infine una grandiosità di tenebre, che insieme contribuiscono a delineare nelle acqueforti di Piranesi una predominanza del sublime terrifico. Tuttavia, osservando la tavola IV, ci pare di poter cogliere un’ulteriore suggestione, soprattutto per l’esemplare nel primo stato. Nel fregio scolpito che sovrasta l’arcata, col suo susseguirsi di personaggi che sembrano afferire al mondo bucolico e mitologico, sembra trovare eco il sublime “chiaro” e altrettanto grandioso vagheggiato da Winckelmann di fronte alle vestigia dell’antichità classica. È pur vero che anche qui l’oscurità incombe: i conci in ombra dell’apertura in primo piano diventano un’inquietante cornice per le strutture architettoniche più interne; inoltre, i cordami neri tagliano la continuità del bassorilievo, quasi come metaforici sfregi. Eppure, questa rievocazione dell’antico, per quanto pressata da zone buie poco rassicuranti e, nella seconda versione, minacciata nella sua serena grandezza dalla sinistra presenza di spaventose macchine di tortura, riesce comunque a non essere fagocitata del tutto dal “dilettoso orrore”, conservando un suo spazio luminoso.

Il distacco dalle idee di Winckelmann diventa quindi maggiormente evidente nella seconda edizione delle Carceri; tuttavia, per quanto Burke affermi nell’Enquiry che “tutti gli edifici calcolati in modo da suscitare l’idea del Sublime dovrebbero essere oscuri e tetri”, è altrettanto vero che l’intensità delle tenebre risulta tanto più dominante quanto più deve contrapporsi all’incedere della luce.

Il che traghetta a una seconda riflessione. Osserva Praz che “Con le Carceri il Piranesi è il solo deg’italiani ad affacciarsi sull’abisso del caos – quel caos che di più in più diventerà appannaggio del mondo moderno”. Verissimo, ma in questo caso si tratta di un caos nel segno non dell’anarchia, ma della repressione autoritaria, “tirannica” o meno. Badiamo, la forza critica delle Carceri sta già nella struttura architettonica evocata. Se, come osserva Yourcenar, la vertigine di fronte alle tavole è “provocata non dalla mancanza di misure (perché mai Piranesi fu più geometra), ma dalla molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate”, l’ordine che ne emerge è nel segno dell’assurdo e della perdita, in un mondo privo di centro e angosciosamente, indefinitamente espandibile: un ordine come labirinto privo d’uscita, come affaccendarsi brulicante di omini dalle soggettività incomprensibili, un’immagine insomma – forse persino al di là di quanto l’autore possa concepire con lucidità – profondamente trasgressiva.

Tuttavia, il problema si ripropone con l’oggetto, con quei supplizi. Intendiamoci, tutta l’arte della prima età moderna gronda simile gore, e si può immaginare che gli osservatori delle tavole lo notino fino a un certo punto – tanto più che il tipo di evocazione dice e non dice, mostra e nasconde, denuncia asciuttamente nelle didascalie e infratta coi chiaroscuri. Ma è chiaro che i riferimenti al supplizio nelle incisioni di Piranesi sono qualcosa di molto diverso dal “macabro con santi” ostentato con compiacimento nelle chiese, o dagli infiniti orrori presentati nelle stampe correnti d’epoca. Qui c’è una monumentalità laica, prekafkiana delle scene, e oltretutto una serialità. Piranesi conosce certamente la ferocia della giustizia veneziana, ha potuto senz’altro vederla amministrare (si pensi solo agli omosessuali impiccati in Piazzetta) ed è al corrente almeno in parte di ciò che avviene nel chiuso di quelle carceri terribili. Altra giustizia la vede a Roma, gestita dai boia del papa re, col ricordo oltretutto (appannato ma non certo rimosso) dell’epoca “d’oro” dell’Inquisizione: non c’è bisogno di riesumare Nerone, anche se ovviamente il suo mondo lontano si lega a stretto filo al resto della produzione piranesiana sulle antichità dell’Urbe. In ogni caso, qualunque significato – di presa d’atto o di critica velata dell’esistente – si attribuisca al livello soggettivo dell’artista, quel che salta agli occhi è il teatro di un’istanza repressiva forse mai resa nell’arte con altrettanta forza. Rendendo infinito il labirinto, crudeli i particolari, stranianti quelle tavole dove i distinguo tra supplizi in nome di una o dell’altra giustizia non sono immediatamente percepibili allo spettatore (che, anche informato sul senso della tavola XVI, non si sente troppo sollevato), e a denunciare tra opposte e angosciate vertigini “che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, Piranesi fa delle Carceri l’immagine mitizzata, archetipica del rapporto del mondo nuovo con la repressione.

Anche se è improbabile che possa desiderarlo, Piranesi diventa così un ideale “precursore della Rivoluzione con quell’ossessione di colossali bastiglie”, aiutando a vederne l’intollerabile mostruosità. Del resto, nello stesso 1764 del Castello d’Otranto, Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, che nel 1766 finisce all’Indice per la distinzione tra reato e peccato: è chiaro che discorsi improntati a una dimensione – diremmo oggi – di innocuo umanitarismo presentano al tempo una carica provocatoria diversa e considerata sovversiva. Ma al di là dello specifico di quella stagione storica, nella chiave monumentale, esagerata e ambigua di una provocazione nata come estetica (il “Capriccio”) e poi forse evoluta in altro, le Carceri pongono in scena in termini mitici – cioè esemplari, di macchina per pensare – il teatro degli orrori autoritari di tutte le possibili realtà storiche, e in particolare di quell’età moderna che lì sta nascendo. Denunciandoli come roba vecchia, anticaglia tirannica, un Mondo Vecchio che però insidia e corrode qualunque Mondo Nuovo: dove quella vecchiezza è più una connotazione intrinseca che un dato cronologico – e i caratteri retrivi, retroflessi dell’istanza repressiva riemergeranno e riemergono a tutt’oggi di continuo. In questo senso, le antiquarie Carceri di Piranesi inscenano il teatro della sopravvivenza nell’oggi di un certo tipo di istanza sanzionatoria, dei suoi piccoli uomini, del labirinto sociale attraverso cui si perpetua, nonché una sfida alle società via via succedute a verificare lì i propri paradigmi punitivi. Perché non accada che, come di fronte alla tavola XVI, si fatichi a tirare un sospiro di sollievo.

Fin qui sulla provocazione artistica e su quella ideale, potenzialmente giuridica, politica. Ma c’è un terzo fronte: lo scavo nel passato evocato dal mix di suggestioni delle Carceri è anche lo scavo in dimensioni labirintiche dell’interiorità. Già dice qualcosa che Piranesi lo avvii come un Capriccio: non tanto quelli dei decori rococò (del resto si è già visto come tratta le sue Grottesche) quanto altri più algidi, i terribili capricci della tradizione libertina. All’apollineo di Winckelmann, Piranesi oppone un dionisiaco rabbioso, estatico ma aggredito dalla malinconia libertina (quella che l’ottocento riverserà sui vampiri letterari): il vedo/non vedo dei supplizi da lui posti in scena in un apparato grandioso finisce con l’usare i chiaroscuri come uno spioncino. Se nei coevi mondi novi – macchine ottiche di intrattenimento popolare – proprio su uno spioncino si poneva l’occhio, uno solo, in quella ben diversa macchina ottica a scene mutanti che sono le Carceri, Piranesi permette di puntare idealmente il “solo” occhio ciclopico dello spettatore sul Mondo Vecchio dei supplizi in scena.

In un’incisione allegorica che nel 1764 Piranesi trae da un disegno del Guercino, al centro si può riconoscere una tavolozza da pittore con la scritta tra i colori: “col sporcar si trova” (cfr. Francesco Dal Co, “Piranesi e la malinconia”, in La Rivista di Engramma, gennaio 2001, n. 5). Nel dialogo tra Didascalo e Protopiro, gli interlocutori della sua principale opera teorica, il Parere sull’architettura (1765), si comprende cosa intenda: lo sporco è anzitutto il risultato dell’azione corrosiva del tempo e per afferrarne l’essenza chi inventa deve sporcare, usare l’impurità e giocarvi, avventurarsi con audacia tra “ornamenti tutti stranieri” per trovare correttivi. Sporca e impura è appunto l’architettura, dove la magnificenza si trova accompagnata costantemente da un polveroso decadere, e sta all’architetto tentare di mitigarlo confrontandosi di continuo con esso (come hanno fatto, secondo lui, i romani con la magnificenza ormai corrotta e sporca dell’arte greca). Qualcosa del genere riguarda il torbido delle Carceri, uno sporco di chiaroscuri fatto mordere alla lastra di rame dallo sguardo ciclope dell’artista melanconico – uno sguardo ciclope che è anche quello di un’epoca che va scoprendosi moderna, tra diversi tipi di Lumi e d’illuminazioni, talvolta molto livide.

Così Piranesi inserisce quei corpi prigionieri in un carcere sporco di secoli e di magnificente grandezza; osserva con freddezza quelle formiche umane torturate o torturanti, senza prender parte ai loro drammi sul palcoscenico di un mondo dove regnano il caso e l’assurdo (merita ricordare quell’amico di Walpole, George Augustus Selwyn, 1719-1791, nato solo un anno prima di Piranesi e appassionato cultore di scene di morte, sui patiboli e non solo); connette i supplizi ad attrezzature d’invenzione dall’ingombro quasi steampunk, a un passo dal corpo-macchina dei libertini e prefigurando le macchine di Sade. Se la vita è metafora del tempo, anch’essa e il corpo stesso tendono alla corruzione, allo sporco: e l’invenzione ha per Piranesi il posto che l’immaginazione ha per Sade. Il chiaroscuro a quel punto non è solo un effetto d’acquaforte, ma forse qualcosa nella morsa acida dell’animo, uno spioncino che gioca col suo sporco. Di Piranesi, con tutti i suoi misteri, e in fondo del mondo moderno.

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Cervello nero, invenzione sporca (Nightmare Abbey 15/1) https://www.carmillaonline.com/2020/07/18/cervello-nero-invenzione-sporca-nightmare-abbey-15-1/ Sat, 18 Jul 2020 21:12:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61502 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019.

Lo sappiamo, esistono artisti il cui linguaggio impatta viralmente, indelebilmente sull’immaginario, con una stupefacente capacità di “presa” e intervento anche e persino di più su quello di epoche successive: sia per l’efficacia di prefigurazione (nei contenuti, cioè sogni, paure, desideri…), sia per l’ottimale adattabilità delle opere a mezzi tecnici in seguito maturati. Per dire, Jane Austen non poteva immaginare il cinema, eppure i suoi romanzi risultano sceneggiature persino più perfette per il linguaggio filmico che [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019.

Lo sappiamo, esistono artisti il cui linguaggio impatta viralmente, indelebilmente sull’immaginario, con una stupefacente capacità di “presa” e intervento anche e persino di più su quello di epoche successive: sia per l’efficacia di prefigurazione (nei contenuti, cioè sogni, paure, desideri…), sia per l’ottimale adattabilità delle opere a mezzi tecnici in seguito maturati. Per dire, Jane Austen non poteva immaginare il cinema, eppure i suoi romanzi risultano sceneggiature persino più perfette per il linguaggio filmico che non per il teatro del suo tempo. William Blake si impone con migliaia di richiami al giorno tra web e social, certo per la bellezza abbacinante delle sue tavole ma anche per la loro efficacia mediatica, che le vede valorizzabili (più delle opere di tanti colleghi magari eccellenti) anche e in particolare attraverso lo schermo. Certo, si può obiettare che in ciò entra uno specifico rapporto coi miti pop, usi al continuo recupero nel segno del postmoderno, ma il fenomeno non nasce nel ventesimo secolo.

Un caso emblematico riguarda un altro artista, oggi richiamato per la straordinaria potenza iconica e per la stessa agevole riproducibilità delle sue incisioni in infiniti poster, copertine, spazi grafici dei più vari generi e naturalmente sul web: Giovanni Battista Piranesi (1720-1778). Il suo lavoro influisce con potenza fin dal proprio tempo ma soprattutto sui posteri, offrendo suggestioni efficaci non solo all’arte figurativa, ma alla letteratura e in realtà all’intero orizzonte dell’immaginario moderno, con un impressionante ventaglio di implicazioni. Da quelle teoriche, contenutistiche sulle icone del potere – affronteremo le sue Carceri, che proprio tale dimensione riguardano con forza provocatoria – a quelle pratiche, formali: qualcosa che prelude a tutta una serie di sviluppi tecnici sul teatro degli spazi tra vertigine e claustrofobia dall’immaginario grafico (immediato pensare a Escher), del design e del fumetto (per esempio Druillet) a quello su schermo, computer grafica e non solo. Una prova provata è lo splendido cortometraggio che Grégoire Dupond ha costruito nel 2010 permettendo di esplorare gli ambienti delle Carceri (è possibile vederlo qui), ma la forza d’ispirazione di Piranesi va ben oltre lo specifico dei temi da lui trattati.

A offrire il destro per la riflessione sul tema è l’uscita di un piccolo libro per i tipi Ghibli, che meritoriamente ripropone appunto Le carceri nelle due versioni storiche con introduzione di Mario Praz (da un’edizione non dichiarata ma post-1966). Il sommo critico avvia il tutto con una nota biografica.

Piranesi nasce (pare) a Mogliano Veneto, ma nei fatti l’avvio della sua vita è a Venezia. Una città al tempo fastosissima e ricca, dove il Nostro – figlio di un capomastro, forte di una buona formazione sia tecnica che culturale, ma non sufficientemente introdotto – comprende di avere poco spazio. Appena ventenne parte dunque per Roma (1740): un’esperienza eccitante, che gli riempie gli occhi dell’incredibile teatro di un’Urbe decaduta fitta ovunque di rovine. Il soggiorno risulta fertilissimo quanto ad apertura di rapporti e comunque di apprendimenti (scenografia, acquaforte, studio dell’arte barocca come di quella antica, da Roma agli scavi di Ercolano), ma un po’ deludente dal fronte dei riconoscimenti concreti. Il giovane è quindi costretto a tornare con la coda tra le gambe a Venezia. Almeno per il momento.

Qui produce dei Grotteschi ispiratigli da Tiepolo, che “invece dei nastri e dei cupidi consueti in tal genere di decorazione rococò mostrano una farragine di colonne fatiscenti, di teschi, di aspidi sotto bare sventrate: un’arcadia lugubre, insomma”, già interessante per quelli che presto saranno gli sviluppi del gotico. Per carità, il grottesco e l’orrido non hanno mai latitato nell’arte, e nel caso di Piranesi si tratta di fantasie variamente interpretate – in ogni caso iniziamo a tenere sotto osservazione questo filone di suggestioni.

D’altra parte, il Nostro prende a lavorare anche su un’altra opera che quanto a tenebrosità non scherza: quella che inizialmente titola Invenzioni capricciose di Carceri, ma è meglio nota con il titolo della seconda edizione del 1761, Carceri d’invenzione. Ispirate sembra da un progetto di scenario di Daniel Marot (Prison d’Amadis, 1702) che Piranesi ha ampliato in una Carcere oscura compresa nella Prima Parte di Architetture e Prospettive (1743): la didascalia suona “Carcere oscura con Antenna pel suplizio de’ malfatori. Sonvi da lungi le Scale, che conducono al piano e vi si vedeno pure all’intorno altre chiuse carceri” (quest’immagine è in controfrontespizio nell’edizione Ghibli). Nota Praz:

 

Nelle Carceri la scenografia barocca si carica di suggestioni romantiche, come se le intricate cupole geometriche di un Borromini e di un Guarino Guarini che dovevano avviare l’occhio alle infinità dei cieli trovassero una controparte in un intricato labirinto senza centro destinato a dissolversi negli abissi del Marchese di Sade.

 

Sulla preferibilità tra le due edizioni delle Carceri gli studiosi discutono. Arthur M. Hind, grandissimo critico britannico, preferisce la prima in quattordici tavole, “creata [da Piranesi] con il fuoco della sua passione giovanile”. A celebrare invece la seconda, rielaborata e con due acqueforti in più (ma con profonde differenze: le tavole sono a volte quasi irriconoscibili per l’aumento di figure e di macchine e per la violenza nuova dei chiaroscuri), è Henri Focillon, mattatore francese degli studi piranesiani, storico dell’arte, poeta e a sua volta incisore. Parlando di “rami dove vibra una strana luce, [che] sembrano essere stati battuti dal martello di qualche Ciclope e conservare il riflesso della fornace in cui furono forgiati”, va ben oltre la mera spendita di un compiacimento classicheggiante. Quell’unico occhio virtualmente antropofago (visto che i Ciclopi collaboratori di Efesto sono almeno parenti di Polifemo), quell’occhio che manca del compagno a contrappuntarlo nello spessore tranquillizzante di una quotidianità che maschera e attutisce, quell’occhio che vede direttamente e senza veli nella forgia incandescente può ben evocare la terribilità interiore che Piranesi porta alla luce: Praz citava Sade e vi torneremo.

Del resto, può risultare interessante un po’ di calendario. Nel periodo 1739-1741 Horace Walpole (nato nel 1717) è in Italia per il Grand Tour, raccogliendo le impressioni gotiche che importerà nel Castello d’Otranto, e si trova a Roma tra febbraio e luglio 1740: lì nel settembre arriva Piranesi (nato nel 1720, dunque sono quasi coetanei), che inizia a lavorare alle Carceri nel 1745 e vara la prima edizione in data discussa, in genere fissata al 1749-1750. La seconda edizione è come accennato del 1761, e nel 1764 esce Il castello d’Otranto. La staffetta tra incubazione e realizzazione delle due opere, l’una pittorica ma dalla strabordante suggestione letteraria, l’altra letteraria ma tanto pittoricamente evocativa, l’una e l’altra a vocazione onirica e insieme fortemente teatrali, già sembra dirla lunga su cosa stia preparandosi a livello di impatto sull’immaginazione collettiva. E la cifra delle invenzioni e dei capricci nel titolo delle Carceri rimanda proprio a un gioco fantastico sul macabro come nei Grotteschi, ma persino più estremo.

Comunque Piranesi è nel frattempo riuscito a tornare a Roma, aprendo bottega sul Corso di fronte a Palazzo Salviati: lavora come agente del mercante veneziano di stampe Giuseppe Wagner e, non trovando spazi come architetto o scenografo, aggira il problema proponendosi quale incisore delle infinite rovine punteggianti l’Urbe. Badiamo a questo passaggio di straordinaria inventiva: armato di cognizioni tecniche e culturali, Piranesi inventa – plasmandola sul proprio profilo – una nuova professione. Invece che edificare, ripiega “sulla professione d’anatomista d’architetture”, crea “tavole anatomiche di rovine”: pensiamo al Settecento degli anatomisti, col teatro di corpi umani sventrati che nelle tavole degli atlanti marciano come automi d’epoca, danzano o si contorcono prefigurando la creatura di Frankenstein – ed ecco che lui ricalibra il discorso sull’architettura, trasformando quelle rovine in qualcosa di altrettanto esemplare, meraviglioso e folle. In “un’epoca in cui i parchi si popolavano di finte rovine e di fabbriche capricciose, le cosiddette follies, eresse la più monumentale delle rovine, Roma, la più bizzarra delle follies, le Carceri” facendo rivivere il passato all’Italia “non più come azione, ma come sogno”.

Da piccole vedute per pubblicazioni di vario genere passa così, tramite giri e maneggi vari, all’enorme, prodigioso Antichità Romane (1756) con cui esplode la sua fortuna in Europa. Certo, le critiche non mancano, sia di sprezzo verso “un matto” (così Luigi Vanvitelli), sia di critica per come tratta “il vero” e “il bello”: emblematica la sua contrapposizione a Johann Joachim Winckelmann, giunto in Italia nel 1755 e divenuto bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, in una villa che è un vero e proprio museo. La voluttuosa nostalgia winckelmanniana per la bellezza antica e specialmente greca – che nutrirà un’intera stagione dell’arte occidentale – è lontana anni luce dalla melanconia che vedremo propria di Piranesi, ammiratore saturnino di una Roma ispirata dagli etruschi. Almeno fino a un certo punto, del resto, sembra che l’artista stesso si trovi diviso tra i freni razionalizzanti e le sue tendenze visionarie. Queste ultime, però, a un tratto rompono gli argini: e lui difende anche teoricamente, a suon di citazioni latine inserite nelle incisioni, il diritto a innovare come fa la Natura che continuamente muta le forme.

Non seguiamo di lì la lunga serie di opere straordinarie con cui Piranesi mapperà i fasti di un mondo perduto, dell’Urbe e non solo – dalle rovine che al filtro del suo sguardo acquistano monumentalità persino quando non l’avrebbero, a singoli oggetti tratti da scavi che quasi necromanticamente fanno sorgere i morti. E non si può che rinviare all’introduzione di Praz alla presente edizione quando si sofferma da par suo sul gusto delle rovine, sulla Roma di Piranesi quale – appunto – città di rovine circonfusa di un mito peculiare, e sulla tecnica dell’artista.

Ciò che Piranesi propone è qualcosa di totalmente nuovo che fa impazzire i cultori d’arte – non solo e non tanto romani, di quei circoli in cui fatica a entrare, ma francesi e soprattutto inglesi. Se poi l’influsso delle Carceri sarà piuttosto limitato sulle scenografie teatrali ottocentesche nostrane (ma c’è un gotico italiano, magari minore, che in qualche misura potrà trarne linfa), trova maggior fortuna nel mondo ispanofono – da Goya fino ai claustrofobici, babelici labirinti di Borges. Pure nel Novecento presentano un altro specifico, perché Piranesi è testimone eminente “di quella ‘perdita del centro’ che segna una frattura capitale nella storia del pensiero e dell’arte”. Le Carceri strappano fuori dal mondo presettecentesco delle armoniose simmetrie, rendono impossibile (come osserverà Marguerite Yourcenar, in “Le cerveau noir de Piranèse”, 1961, 1963) discernere un piano d’insieme suggerendo il senso di un universo asimmetrico: un mondo privo di centro ma in espansione perpetua, che dietro gli spiragli delle scene chiaroscurate addita altre sghembe estensioni in tutte le direzioni possibili.

Quale però sia il significato delle Carceri è discusso e Praz non si pronuncia: non si può che rinviare alla critica più recente, divisa tra il richiamo di immagini deliranti, disturbanti legate ai sotterranei psichici dell’autore, e – soprattutto nella seconda edizione, con tavole assai più scure e sinistre, forme più razionali e definite, meno capriccio e più invenzione – la chiave della provocazione illuminista nell’eco di un dibattito d’epoca (si rinvia per esempio al magnifico studio di Silvia Gavuzzo-Stewart, Nelle Carceri di G.B. Piranesi, Routledge 1999). Non è chiaro per esempio se Piranesi possa aver aderito alla Massoneria, infiltratasi in Italia anche attraverso la via del Grand Tour, anche se col suo pessimo carattere e le difficoltà con l’ambiente (che non  gli impediranno un certo quieto vivere e in ultimo una sepoltura d’onore) si sarebbe trattato di una scelta almeno rischiosa.

Piranesi muore il 9 novembre 1778, dunque dopo l’inizio della rivoluzione americana ma prima di quella francese, e in particolare prima della caduta del più celebre carcere avvicinato all’archetipo delle sue tavole, la Bastiglia. Il paragone potranno meditarlo i figli Pietro e Francesco che vent’anni dopo, nel 1798, porteranno a Parigi i rami incredibili di quel padre ingombrante e dispotico, iniziando a pubblicarli.

“L’illogico, l’enorme: ben colpirono questi due elementi del Piranesi la fantasia di Horace Walpole”, puntualizza Praz. E Il castello d’Otranto – visto sempre dall’interno, e da sale e cortili digradanti in sotterranei labirintici e passaggi segreti – deve parecchio a quelle Carceri che

 

sembravano illustrare l’analisi (contenuta nell’Enquiry del 1757) di Edmund Burke dell’effetto dell’infinito e delle “cose moltiplicate senza fine”: “L’infinità ha tendenza a riempire la mente con una sorta di dilettoso orrore, che è l’effetto più genuino e il più certo banco di prova del sublime”.

 

“[…] una sorta di dilettoso orrore”: tratteniamo l’espressione. Non è strano che Walpole ammiri con entusiasmo quel Piranesi che, scrive nell’Advertisement al quarto volume dei suoi Anecdotes of Painting in England (stampato nel 1771, viene pubblicato solo nel 1780),

 

sembra aver concepito visioni di Roma al di là di quanto essa vantava perfino all’apogeo del suo splendore. Selvaggio come Salvator Rosa, violento come Michelangelo, ed esuberante come Rubens, egli ha immaginato scene che farebbero sussultare la geometria ed esaurirebbero le Indie se dovessero venir tradotte in realtà. Egli ammassa palazzi su ponti, e templi su palazzi, e scala il cielo su montagne di edifizi. Eppure quanto gusto nel suo ardire! Quanto travaglio e pensiero nella sua impetuosità e nei suoi particolari!

 

Per cui Praz ha senz’altro ragione quando immagina che l’enorme elmo “caduto come un meteorite” nel cortile del castello dell’usurpatore Manfred nel Castello d’Otranto sia in realtà mutuato da qualcuno dei similmente ciclopici elmi di Piranesi (“uno rincorre in una fantasia architettonica in Opere varie, nei propilei d’un anfiteatro gigantesco, un altro in una scena delle Carceri” e lo vedremo).

 

Così la fantasia del Piranesi, “le noir cerveau de Piranèse”, come scrisse Victor Hugo, aprì la strada al “romanzo nero”, la cui scena preferita fu una tenebrosa, labirintica prigione, gli in-pace [terrificanti carceri monastiche di cui parla anche Hugo nei Miserabili], le segrete dell’Inquisizione, e poi gli spaventosi appartamenti dei romanzi di Sade, isolati dagli occhi e dagli orecchi del mondo, ove l’infinità degli spazi ha fatto luogo all’infinità delle torture.

 

Attenzione a questo cervello nero: è la nerezza della melanconia, il dono prezioso di Saturno che però è anche pericoloso e morboso, con la demenza che ammicca dietro l’angolo. Il melanconico/saturnino e il morboso inabitano tutta l’opera di Piranesi – Carceri comprese, tanto più nella seconda e più pessimistica versione.

Praz ricorda anche che saranno Coleridge e De Quincey “a rendersi conto per primi di tutta la terribilità delle Carceri”, a prescindere – come qualcuno commenta – dalle loro consuetudini all’oppio. È vero che mentre De Quincey conosce direttamente le Antichità Romane, il suo ricordo delle Carceri in Confessions of an English Opium-Eater, 1820, è di seconda mano, riferito a una descrizione di Coleridge che sembra chiamarle Sogni (invece che Capricci o Invenzioni): e su quell’imperfetto ricordo lui sovrimprime gli stigmi del romanzo nero. Evocando “vast Gothic halls” sul cui pavimento giacciono “potenti ordegni e macchine, ruote, canapi, catapulte, e via dicendo, che esprimevano impiego di enorme forza e superamento di resistenza”; nonché vertiginose scale senza balaustre spalancate sull’abisso, e che verso l’alto si perdono una rampa dietro l’altra – angosciosamente, come all’infinito – entro la tenebra sovrastante. De Quincey innesta nella lettura delle Carceri il topos di un’ascesa di scala in scala angosciosamente infinita: un motivo che dai Punica di Silio Italico viene ripreso nel Settecento inglese a emblematica metafora della conoscenza che non conosce limiti, e più avanti nell’Ottocento francese in riferimento a un’esplorazione interiore, ed eventualmente al montare dell’angoscia (si veda per esempio la riflessione offertane da Nodier in Piranèse. Contes psychologiques, à propos de la monomanie réflective, 1836).

Ovvio, di fronte alle Carceri la nostra prima emozione è la vertigine architettonica. Nostra e di infiniti spettatori eccellenti a tanto teatro: per esempio, Gautier (Victor Hugo, ed. postuma 1902) accosterà le scene di Piranesi a quelle degli incubi di Ann Radcliffe, Maturin e appunto Hugo quanto a “terrore tenebroso e architettonico, se si può usare tale espressione”. Evocando l’incisore come

 

questo dèmone dell’incubo architettonico, lui che sa inarcare delle volte così nere, così sudanti, così prossime al crollo, che fa nascere nelle sue rovine delle piante che han l’aria di serpenti, e che contorce così orribilmente le gambe deformi della mandragora tra le pietre screpolate e i cornicioni sconnessi.

 

Più avanti un altro veggente tra vertigini dell’interiorità, Aldous Huxley (Prisons. With the “Carceri” Etchings by G.B. Piranesi, 1950), porrà in rapporto Piranesi e le ispirazioni cubiste – dove non sembra improprio ricordare che queste, a loro volta, troveranno ricadute sull’horror cinematografico coevo. Huxley definisce le tavole dell’incisore come “il più vicino approccio settecentesco a un’arte puramente astratta”; ma tali che rispetto

 

alle astrazioni dei Cubisti […] hanno il vantaggio di combinare pura geometria con abbastanza contenuto, abbastanza letteratura, per esprimere, più efficacemente che possa fare un mero disegno, gli stati oscuri e terribili della confusione spirituale e dell’accidia.

 

In effetti, quel che ci raggiunge al primo colpo d’occhio è proprio questo incredibile labirinto architettonico di ascese e voragini che ben prefigura Escher e specchia con “dilettoso orrore” e impressionante efficacia i babelici labirinti di una vita interiore.

 

[1-continua]

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Gotico torinese, ovvero: una vigilia di Natale con Horace Walpole (Nightmare Abbey 14) https://www.carmillaonline.com/2019/12/23/gotico-torinese-ovvero-una-vigilia-di-natale-con-horace-walpole-nightmare-abbey-14/ Mon, 23 Dec 2019 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56889 di Franco Pezzini

Un po’ più di duecentocinquanta anni fa, la vigilia di Natale, una tipografia privata dà alle stampe quasi alla chetichella un piccolo libro destinato però a recare nella narrativa l’effetto di un terremoto. O piuttosto di una valanga, visto che – sia pure in modo in gran parte indiretto – muterà il modo di leggere e di scrivere, e influenzerà a livello profondo attraverso la filiazione di un intero ventaglio di generi il modo di sognare della modernità.

A vedere una delle cinquecento copie di quella prima edizione, di primo [...]]]> di Franco Pezzini

Un po’ più di duecentocinquanta anni fa, la vigilia di Natale, una tipografia privata dà alle stampe quasi alla chetichella un piccolo libro destinato però a recare nella narrativa l’effetto di un terremoto. O piuttosto di una valanga, visto che – sia pure in modo in gran parte indiretto – muterà il modo di leggere e di scrivere, e influenzerà a livello profondo attraverso la filiazione di un intero ventaglio di generi il modo di sognare della modernità.

A vedere una delle cinquecento copie di quella prima edizione, di primo acchito non si direbbe un testo tanto esplosivo. Sfogliandolo, troviamo anzitutto un frontespizio in carta giallina che annuncia sornione:

 

THE

CASTLE of OTRANTO,

A STORY.

Translated by

WILLIAM MARSHAL, Gent.

From the Original ITALIAN of

ONUPHRIO MURALTO,

Canon of the Church of St. NICHOLAS

at OTRANTO.

LONDON:

Printed for THO.[mas] LOWNDS in Fleet-Street.

MDCCLXV

 

In realtà 1764, ma essendo la vigilia di Natale lo stampatore può portarsi avanti; quanto a Thomas Lownds è effettivamente un attivissimo bookseller d’epoca, con sede presso Salisbury Court, appunto in Fleet Street che già allora è la via della carta stampata. Notiamo poi l’etichetta – l’ambiguo “a story”, a suggerire genericamente una narrazione – e gli altri due nomi citati, del gentiluomo William Marshal presentato come traduttore, e del canonico Onuphrio Muralto della chiesa di San Nicola a Otranto che risulta l’autore della storia.

Procedendo nell’esame, troviamo una prefazione di alcune pagine: priva di firma, è vero, ma il tenore la attribuisce in modo univoco al gentiluomo Marshal. L’opera è stata rinvenuta, ci informa,

 

nella biblioteca di un’antica famiglia cattolica, nel nord dell’Inghilterra. Venne stampata a Napoli, in caratteri gotici, nell’anno 1529. Quanto tempo prima fosse stata scritta, non è specificato. I principali avvenimenti sono quelli in cui si poteva credere nei tempi più bui della cristianità, ma il linguaggio e la redazione non hanno nulla che sappia di barbarico. Lo stile è l’italiano più puro.

 

Si tratta insomma un avvio erudito che rende conto del luogo di ritrovamento, della data di stampa – a Napoli e nel 1529 –, del problema della data di redazione e di quello della datazione dei fatti, evidentemente assai più antichi di quanto il raffinato tenore letterario possa denunciare. E in queste poche righe già emergono due dimensioni fondamentali dello sguardo rivolto da Marshal al documento. Da un lato c’è l’approccio colto, pacato e ragionevole del filologo, che sottolinea l’interesse culturale di un testo in termini adulti e intrigantemente problematici, al di là di ogni ingenuità ravvisatavi. Ma dall’altro, più implicitamente, troviamo la fascinazione di una distanza culturale (l’antica famiglia cattolica, l’esotico set italiano) declinata attraverso un sistema di cornici che sfuggono sempre più indietro nel tempo: all’elemento concreto dell’edizione seguono infatti quello discutibile di epoca e contesto di stesura, e l’altro misterioso di una collocazione storica almeno virtuale degli eventi narrati. Cornici che finiscono col determinare una sostanziale incontrollabilità, e patteggiano col lettore una qualche sospensione dell’incredulità – uno stare al gioco che apre al visionario e all’improbabile.

Non procediamo oltre – almeno in questa sede, la lettura meriterebbe – nell’esame della prefazione: anche perché nella seconda edizione (11 aprile 1765), sempre stampata dalla Strawberry Hill Press con la dicitura “Printed for William Bathoe in the Strand and Thomas Lownds in Fleet Street”, le cose appaiono molto diverse. Il frontespizio sottotitola ora infatti “A Gothic Story” e soprattutto fa sparire i nomi dell’ottimo Marshal e di Onuphrio Muralto. Non è uno sgarbo: il fatto è che il traduttore gentiluomo non è mai esistito, non è mai esistito neppure il presunto canonico e il testo non costituisce una filologica traduzione da un originale cinquecentesco italiano, ma un romanzo gotico – il primo etichettato per tale, anche se l’aggettivo non ha ancora il senso che oggi gli attribuiamo e si riferisce al contesto medievaleggiante. A vararlo con approccio da brillante semiologo è, scopriamo, un esponente del bel mondo inglese, Horatio o Horace (come è più noto) Walpole, uomo di lettere e storico dell’arte, antiquario e politico del partito Whig, e in seguito quarto conte di Orford; un signore nato il 24 settembre 1717 – secondo almeno l’old style del calendario britannico, all’epoca quello giuliano, volto poi dal 1752 con l’aggiunta di undici giorni al calendario gregoriano – e che morirà alla fine del secolo, il 2 marzo 1797, dopo aver assistito ad almeno una parte del drammatico travaglio tra due epoche.

Figlio dell’importante politico Sir Robert Walpole – il primo a incassare il titolo di Prime Minister of Great Britain – Horace si era trovato compagno a Eton di tutta una squadra di ingegni vivaci, organizzando anzi due gruppi di interlocutori per coltivare i comuni interessi in arte e letteratura, la Quadruple Alliance e il Triumvirate. Tra questi amici spicca fin d’ora il futuro poeta e storico Thomas Gray, che Walpole ritrova nei successivi studi a Cambridge e con cui negli anni 1739-1741 vive l’esperienza classica dei rampolli del bel mondo, il Grand Tour: i due a un certo punto litigano malamente – Walpole biasimerà in seguito con umile saggezza la propria responsabilità giovanile nell’accaduto – e solo nel 1745 riprenderanno i contatti. Citare il Grand Tour in questo contesto, come vedremo, non rappresenta solo un dato biografico o di costume, per quanto culturalmente significativo: è legittimo pensare che quel viaggio di tanti anni prima lasci precisi strascichi nella fantasie papiste di The Castle of Otranto.

Rientrato comunque in patria, con l’appoggio del padre Horace è eletto in Parlamento, e vive con una rendita; ma al ritiro dalla scena politica dell’augusto genitore, 1742, deve seguirlo a Houghton, nel Norfolk, dove combatte la noia scrivendo lettere – l’ha sempre fatto e lo farà sempre, producendo una massa epistolare imponente e di piacevolissima lettura – e catalogando i quadri di famiglia. Dove l’attenzione ai quadri è certo quella del cultore d’arte, assetato di una bellezza che inseguirà tutta la vita; ma insieme, in termini assai più liberi e visionari, quella di chi forse ha coltivato fin da piccolo, con febbrile fantasia, la suggestione per gli spettri in cornice che tutto paiono occhieggiare, poi vaganti nella sua opera più celebre.

Tre anni dopo, 1745, Sir Robert Walpole muore lasciandogli il conforto economico di varie patenti regie e sinecure; e Horace, che l’anno dopo affitta una piccola casa a Windsor, nel ’47 decide di trasferirsi a Twickenham – ai nostri giorni un rione del quartiere londinese di Richmond upon Thames nella Greater London, all’epoca un’area di campagna – affittando il cottage cui attribuisce il nome di Strawberry Hill. In quell’anno pubblica anche come prima opera proprio il catalogo dei beni artistici di famiglia, con il titolo Aedes Walpoliana; l’anno seguente fa apparire tre sue liriche in una raccolta, ma soprattutto avvia la pratica di acquisto di Strawberry Hill – che nel 1749 inizia a restaurare trasformandola in un incredibile castelletto gotico. Visitarlo oggi, con restauri letteralmente ricostruttivi in corso, e che restituiscono (si perdoni il bisticcio) il genuino senso di fasullo dell’originale, è un’esperienza di straordinario fascino.

I ritratti di Walpole – numerosi – ci restituiscono un volto intelligente e arguto, meditabondo e a volte birichino. Da quello della pittrice veneziana Rosalba Carriera, circa 1741, che lo vede elegante ventiquattrenne in giacca di gala, un po’ sostenuto e ironico; al più famoso dei ventisei dedicatigli dall’artista anglotedesco da lui protetto John Giles Eccardt, circa 1755, che fotografa quei suoi grandi occhi pieni di curiosità, la bocca piccola, la mano sinistra posata su un libro come quella di un condottiero sulla spada, e l’aria più matura dei trentott’anni di anagrafe – con uno scorcio di Strawberry Hill alle spalle sulla destra. Fino al ritratto forse più frequentemente associato al suo nome, del 1756 per mano del grande Joshua Reynolds: di tre quarti in abito scuro, con gli amatissimi progetti davanti. La vivacità – ma non l’intelligenza – si appanna semmai nei ritratti più tardi, come il bozzetto di Thomas Lawrence, circa 1795, due anni prima della morte di Walpole: ma quei giorni sono, a questo punto della nostra storia, ancora lontani.

Mentre tra studi e arricchimenti (vetri lavorati, porcellane, quadri, armature) dirige i lavori per la villa dei suoi sogni, Horace non dismette comunque le passioni letterarie. Con lo stile frizzante che lo caratterizza contribuisce a una rivista londinese, ‘The World’ – raccontando per esempio la sua disavventura con l’highwayman John Maclean, che nel 1749 ad Hyde Park (zona all’epoca pericolosa) lo deruba e quasi l’ammazza. D’altra parte nel 1757 il Nostro impianta a Strawberry Hill, in un edificio separato dalla villa, anche una stamperia inventandosi editore (Officina Arbuteana, o The Mayflower Workshop), e pubblica per prima cosa due poemi dell’amico Gray. Per quelle presse appariranno negli anni, insieme a opere di altri, una serie di lavori a sua firma, a partire dal Catalogue of the Royal and Noble Authors of England, with Lists of their Works, 1758. E sempre lì appunto, la vigilia di Natale 1764, è stampato The Castle of Otranto, scritto in meno di due mesi: però Walpole, preoccupato dei giudizi critici che in fondo traducono le opinioni di un pubblico ristretto in grado di sborsare tre scellini per un libro, lo fa passare come detto per una traduzione dall’italiano.

In seguito, in una lettera all’amico reverendo William Cole (9 marzo 1765), il Nostro ricorderà che a monte di tutto vi era stato un sogno: inaugurando così una tradizione che attraverso Mary Shelley, Bram Stoker (almeno si favoleggerà) e naturalmente Lovecraft associa la genesi di opere orrifiche all’eruzione di fantasie oniriche – stimolate, ovviamente, da letture e passioni. Certo in The Castle si possono intravedere, fin dalla prefazione, alcune connessioni con fatti e rapporti della vita di Walpole: Napoli, presentata come luogo di stampa dell’opera e destinata a diventare in prosieguo una delle più celebrate location del gotico, era stata la tappa estrema del suo Grand Tour; la “ancient Catholic family” presentata nella prefazione quale detentrice dell’ipotetico originale italiano può essere la famiglia Percy, quella di Sir Hugh primo duca di Northumberland che Walpole dovrebbe conoscere; e così via. Anche se più intriganti sono in fondo le connessioni con la vita interiore, quelle appunto che il sogno trasfigura e suggella.

Ma in queste primissime pagine del testo che abbiamo davanti sedimentano anche altre provocazioni. Anzitutto il fatto che il primo romanzo gotico nasca nel segno dell’apocrifo: un finto vero, insomma, che si presenta come gioco erudito e che figlierà una lunga serie di epigoni, compreso l’Anonimo manzoniano – e idealmente fino al finto vero di età postmoderna. Dove il divertimento colto, complice il teatro – particolarmente quello elisabettiano coi suoi spettri e le tinte forti – gioca però con la messa in scena di emozioni anche molto facili, diremmo popolari: e in effetti l’opera di Walpole, con l’Otranto/Disneyland di un medioevo farlocco pieno di servi fifoni e tunnel degli orrori, fantasmi e prodigi, rappresenta l’antenato ideale dei generi popolari moderni, in prima fila horror e scritture di “sensazione”.

E ancora: il presunto autore, ricordiamo, si sarebbe chiamato Onuphrio Muralto, e sarebbe stato canonico della chiesa di san Nicola – la stessa chiesa che vedremo fin dall’inizio coinvolta nelle prodigiose vicende narrate, quasi un’estensione del castello che scopriremo contiguo. Ma a sua volta il cognome Muralto evoca visivamente la gran massa dell’arcicastello, le sue alte mura ripiegate sul cortile di eventi spaventosi, attraversate da passaggi segreti, labirintiche nell’alludere ai rovelli dell’eroe nero protagonista. È insomma un narratore-castello quello che confida i suoi tremendi segreti, con un occhio alla corte di Manfred e un altro alla chiesa vicina: dove l’edificio rappresenta una sorta di calamita dell’attenzione del lettore ben oltre le bizzarre, non sempre trascinanti vicende di trama, e in rapporto di compenetrazione ideale con il mattatore Manfred. Una sorta insomma di ossessione architettonica per quel Walpole che a sua volta si costruisce attorno il proprio castello d’Otranto nell’altrettanto fasullo medioevo di Strawberry Hill.

In seguito comunque al subitaneo successo del testo, sei mesi dopo Horace lo ripropone in seconda edizione con la propria firma: e nella nuova, ampia prefazione, Walpole si scusa con i lettori per l’inganno dell’apocrifo – motivato unicamente, chiarisce, da scarsa fiducia nelle proprie capacità e dal carattere sperimentale dell’approccio. E tuttavia, forte della buona accoglienza con cui il pubblico ha voluto premiarlo, spiega: “Il mio è stato un tentativo di fondere i due tipi di romanzo: l’antico e il moderno”, il primo (gli ormai illeggibili romanzi fantastici seicenteschi di origine francese) all’insegna dell’immaginazione, il secondo (la fortunata linea di Defoe, Fielding, Richardson) di aderenza alla realtà e imitazione della natura. Conciliare i due generi, come lui ha inteso fare, ha comportato da un lato di lasciar libero corso all’immaginazione, e dall’altro il “dirigere i personaggi della sua storia secondo le regole del verosimile” facendoli “pensare, parlare e agire come avrebbero fatto uomini e donne comuni, messi in situazioni straordinarie”. Mentre negli scritti ispirati i beneficiati dei più straordinari fenomeni

 

non perdono mai di vista la loro natura umana, […] nelle storie fantastiche un evento improbabile è sempre accompagnato da un dialogo assurdo. Si direbbe che, al venir meno delle leggi della natura, i personaggi perdano la capacità di ragionare

 

– osservazioni che costituiranno in fondo un ammonimento perenne a chi intenda scrivere narrativa fantastica. Anche se, leggendo The Castle, ci accorgiamo che l’argomentazione portata da Walpole a manifesto della propria operazione va interpretata al di là della lettera. Da un lato infatti il polo del fantastico sembra interessargli assai più dell’altro di realtà & natura; ma, d’altro canto, proprio l’inabissamento nell’onirico gli permette di richiamare porzioni di una realtà diversa, interiore e disturbante, di cui i narratori del fantastico delle generazioni successive proseguiranno l’esplorazione. In effetti, prosegue il Nostro, considerato il successo ottenuto, la sua scelta non pare inadeguata: e può a quel punto considerarsi soddisfatto se altri la faranno propria con doti migliori delle sue. Infine dedica l’opera con un sonetto “alla molto onorevole Lady Mary Coke”, scrittrice aristocratica sua amica ch’egli definisce qui in grado di apprezzare il suo scritto fantastico contro “le aspre rampogne della ragione”. Peccato che in altre fonti stigmatizzi la presunzione e la mancanza di ironia della signora, arrivando a definire poco carinamente lei e le sorelle “le tre furie”.

Per questa storia folle le cui immagini oniriche e sovreccitate fanno pensare al surrealismo (l’elmo incongruamente enorme che casca dal cielo affettando l’erede del tiranno sembra prefigurare Une semaine de bonté) il punto di partenza è come detto un sogno: la visione di una gigantesca mano armata di ferro, a metà tra le visioni teatrali degli spettri del Macbeth e gli accumuli di anticaglie da rigattiere per il castello fintomedievale dell’autore. Dietro il sogno, dunque, passioni e letture. Ma un’altra fonte determinante d’ispirazione, come detto, era stato tanti anni prima il viaggio in Italia durante il Grand Tour: e una certa tappa potrebbe avere avuto assai più peso di quanto gli studiosi di Walpole abbiano finora rilevato. Cioè quella di Torino, dove Walpole, passate le Alpi, ha un primo assaggio dell’Italia papista.

Per la sua posizione peculiare, Torino coi suoi alberghi è una tappa fissa per qualunque viaggiatore attraversi questa porzione della cinta alpina, dalla Francia o verso essa. A parte il giovane Mozart, che però non mirava a varcare le Alpi (1771) si pensi ai grandi viaggiatori-avventurieri del Settecento come Casanova (più soggiorni, 1761-1763) e Sade (1775); o ai viaggiatori fittizi come Alvaro di Le diable amoureux di Jacques Cazotte (1772) che vede una scena-chiave con la bella diavoletta consumarsi in un albergo torinese. Non è strano che anche Walpole passi di qui.

Da Torino infatti scrive all’amico Richard West (11 novembre 1739), che la sera prima si è recato ad assistere a una

 

specie di tragedia eroica, dal titolo La rapprentatione dell’Anima Damnata. Entra una donna, una peccatrice, e rivolge una preghiera solenne alla Trinità: entrano Gesù Cristo e la Vergine: lui la rimprovera, ed esce: lei dice alla donna che suo figlio è molto arrabbiato, ma lei non sa, vedrà cosa può fare. Dopo la rappresentazione siamo stati presentati all’assemblea, che chiamano la conversazione [in italiano nel testo]: c’era molta gente che giocava a ombre, faraone, e ad un gioco chiamato Tarocchi [“taroc”], con carte così alte [e nell’originale lo scrive allungando le lettere], in numero di settantotto.

 

Il che significa che Walpole s’imbatte a Torino non solo nei cosiddetti Arcani minori, cinquantasei carte nelle quattro serie di semi tradizionali (denari, coppe, spade e bastoni), ma nel mazzo completo coi ventidue Arcani maggiori. E, tra questi, in quella torre colpita dal fulmine che attraverso archetipi biblici e arturiani lui stesso riproporrà nel crollo finale del castello d’Otranto, consacrando la scena a topos gotico (da opere di Poe come Metzengerstein, 1832 e The Fall of the House of Usher, 1839, alle prime previsioni del Dracula che vedevano il crollo finale del castello).

Si noti poi che di quella “sort of an heroic tragedy” ci parla un altro degli inglesi presenti a Torino negli stessi giorni, il Reverendo Joseph Spence, in una lettera alla madre:

 

A dispetto dell’eccellenza degli attori, la maggior parte dello spettacolo era rappresentata per me dalle espressioni della gente nella platea e nei palchi. Quando i diavoli facevano per portar via l’Anima Dannata, tutti precipitavano in un’estrema costernazione; mentre quando san Giovanni si è rivolto a lei in modo tanto affabile erano lì lì per gridare di gioia. Allorché la Vergine è apparsa in palcoscenico, tutti hanno mostrato rispetto; e a diverse battute dagli attori si sono tolti i cappelli facendo segni di croce. Cosa puoi pensare di un popolo presso il quale persino le farse sono religiose, e vengono così religiosamente accolte? Fu da una rappresentazione come questa (intitolata Adamo ed Eva) che Milton, trovandosi in Italia, pare prendesse il primo suggerimento per il suo divino poema sul Paradiso perduto. Quali modeste origini ci sono talvolta per le più grandi cose!

 

A differenza però di Spence, interessato all’atteggiamento del pubblico, le (poche) battute di Walpole riguardano ciò che avviene sul palcoscenico; e il riferimento dell’amico al valore seminale di una simile rappresentazione per l’opera di Milton introduce un’intrigante questione. Visto che questo passo con anime, santi e vicende sovrannaturali si colloca all’inizio dell’epistolario di Walpole, è almeno lecito domandarsi se proprio tale passaggio a Torino non possa aver avuto un peso significativo per il gotico grottescamente iperdevoto e ipercattolico del Castello d’Otranto: qualcosa insomma come la prima scaturigine e il pulsante d’accensione – certo seguito da tutto ciò che il Nostro incontrerà in Italia, e da infinite letture e visioni successive – verso le fantasie sovrannaturalistiche del romanzo di un quarto di secolo dopo. Parafrasando l’ottimo Spence: “Fu da una rappresentazione come questa (intitolata La rapprentatione dell’Anima Damnata) che Walpole, trovandosi in Italia, pare prendesse il primo suggerimento” eccetera eccetera.

Questa torinese connection può non stupire. Certo altre città italiane verranno considerate set più pittoreschi per narrazioni gotiche: si pensi solo a Venezia o a Napoli, o appunto a quell’Otranto che Walpole sceglie per suono esotico del nome (per anni ignora persino che vi sorga un vero castello, lo scoprirà con sorpresa). Ma per esempio in The Orphan of the Rhine di Eleanor Sleath (1798), citata da Jane Austen tra le sette “horrid novels” nel suo ironico Northanger Abbey, parte della vicenda si svolge proprio a Torino, che nel Settecento mostra dunque un certo appeal gotico. Una tradizione che non sparirà nel secolo successivo, anche se messa in ombra da altre dimensioni simboliche. Fino a riapparire – sappiamo che il gotico è il linguaggio del rimosso che emerge, del simulato/dissimulato, di un teatro dai fondali illusionistici su ciò che siamo come individui e come società, sberleffi compresi – inaspettatamente negli anni Settanta del Novecento. E cioè con il mito affabulatorio, goticissimo della Torino magica: in fondo l’ennesima maschera, tra passati reinventati e brividi costruiti su incubi autentici, di un gioco iniziato una vigilia di Natale di duecento anni prima.

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Dylan il trasfigurato https://www.carmillaonline.com/2018/02/01/dylan-il-trasfigurato/ Wed, 31 Jan 2018 23:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43025 di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato [...]]]> di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato agli anni compresi tra il 1988 e il 2012, che si intitolerà “Un nuovo inizio e la maturità” e comprenderà al suo interno gli indici delle canzoni, degli autori citati, dei temi, dei simboli e dei personaggi oltre a quelli delle Scritture citate in tutti e tre i volumi.

Più ancora che di fronte a un testo sulla presenza della Bibbia nell’opera del premio Nobel per la letteratura, ci troviamo davanti ad un’autentica Bibbia sull’opera di Bob Dylan, poiché per portarla a termine Giovannoli, ricercatore indipendente nel campo dei cultural studies ed autore di numerosi studi sul rapporto tra cultura popolare e cultura “alta”, ha osato fare ciò che nessun altro studioso aveva osato fare: analizzare l’intero corpus dylaniano sia mettendolo in rapporto con le sue radici popolari e dotte, sia andando ad identificare ogni possibile riferimento (frasi, canzoni, testi sacri) da cui il menestrello di Duluth ha tratto spunto per i suoi testi.

Una simile operazione era stata svolta in maniera sistematica soltanto da Greil Marcus nel suo Invisible Republic –Bob Dylan’s Basement Tapes nel 1997,1 che però si occupava esclusivamente delle circa 130 canzoni, scritte o rielaborate da Dylan e dai membri della Band durante il primo allontanamento dalle scene nel 1967, da cui sarebbero state poi tratte quelle che avrebbero dato vita nel 1975 all’omonimo album: The Basement Tapes.

Sempre Greil Marcus aveva scavato a fondo in una singola canzone di Dylan, Like a Rolling Stone, in un altro suo testo,2 ma nonostante le numerose opere dedicate all’autore americano, in Italia e all’estero, nessuno aveva mai osato spingersi così lontano e così in profondità nell’esegesi dell’opera dylaniana.

Come afferma Alessandro Carrera, un altro importantissimo studioso dell’opera di Dylan, 3

“Questo libro di Renato Giovannoli […] è una cosmologia di riferimenti, agganci, colpi di sonda, esplorazioni, ipotesi e dimostrazioni che stringono l’intera opera di Dylan in un solo covone, legato troppo bene per essere portato via da qualunque colpo di vento. Tante introduzioni sono possibili a Dylan; musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l’accesso privilegiato, e questa mia premessa alla più generale introduzione articolata da Giovannoli non ha altro scopo se non inquadrare la religione secondo Dylan nel contesto dell’immaginazione spirituale della sua terra, in relazione ai tempi e al clima culturale che lo hanno formato come artista. Per l’esplorazione vera e propria, avrete a disposizione la mappa/territorio che Giovannoli ha approntato – un’opera unica, mai tentata finora in nessun’altra lingua, e che sarà molto difficile, se non impossibile, eguagliare.”4

Non a caso Carrera incrocia immaginario americano e religione, poiché se vi è una cultura che fin dalle sue origini, nel bene e nel male, sia a livello popolare che “colto”, è stata influenzata dalla narrazione biblica questa è stata sicuramente quella dell’America Settentrionale. In cui la data più appropriata per indicare simbolicamente il tempo dell’arrivo delle Sacre Scritture sembra essere quella dell’11 novembre del 1620, quando i Padri Pellegrini imbarcati sulla Mayflower, una nave partita da Plymouth in Inghilterra due mesi prima, sbarcarono erroneamente sulle coste del Massachusetts, essendo in realtà diretti verso la prima colonia del Nord America, Jamestown in Virginia fondata nel 1607.

Si trattava di rigidi puritani che si proponevano di purificare il culto della chiesa ed erano del parere che non bastasse separarsi dalla Chiesa di Roma, ma che si dovesse eliminare ogni traccia del cattolicesimo romano.
Perseguitati sia sotto il regno di Giacomo I Stuart che, successivamente, in Olanda, dove inizialmente avevano trovato rifugio, decisero di lasciare l’Europa e di iniziare una nuova vita in Nord America. Da qui è facile comprendere come il discorso biblico della Terra Promessa, e successivamente del Popolo eletto, avrebbe finito con l’influenzare le comunità che andarono istituendosi lungo le coste dell’Atlantico.

Anche se tale discorso finì troppo spesso col costituire una giustificazione per le prevaricazioni e le violenze nei confronti dei nativi americani, delle donne, degli schiavi africani là deportati e di tutti i rappresentanti delle ondate migratorie successive non appartenenti al gruppo WASP (White-AngloSaxon-Protestant), va però compreso come tale promessa di realizzazione collettiva ed individuale in una terra libera dalle catene dell’Ancien Régime finisse col tracimare all’esterno della cultura “bianca” e benestante dei commercianti e dei possidenti terrieri ispirati dal calvinismo, per cui l’accrescimento delle ricchezze collimava con il progetto divino di premiare i migliori, e riversarsi anche nell’immaginario degli strati più umili e non solo bianchi della popolazione.

Il gigantesco serbatoio mitopoietico della narrazione biblica, costituito da eroi, profeti, re, fughe dalla schiavitù, malvagi, guerre, traditori, donne dissolute, popoli in cammino nel deserto, vendette, punizioni divine, sacrifici, fede, promesse di salvezza, demoni, sepolcri, cadute dal Paradiso terrestre, redenzioni, diluvi e visioni apocalittiche ed ultramondane fornì quindi un materiale immenso per le narrazioni, le poesie, le canzoni, le ballate e gli insegnamenti per un popolo ancora disperso lungo le pianure del Midwest o della Valle del Missouri. Dalle Montagne Rocciose al Mississippi e alle piantagioni del Sud dove, spesso, padroni e schiavi, privati della loro iniziale identità culturale, finivano con l’attingere ispirazione dalla stessa fonte. Motivo per cui ancora oggi i membri del Tea Party e gli afroamericani appartenenti alle differenti congregazioni religiose possono far riferimento, da sponde opposte e con obiettive diversi, agli stessi inossidabili versetti.

Così mentre i contenuti illuministici della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana sembrarono rimanere relegati alla Costa orientale, lungo la quale si erano diffusi tra i nuovi ceti borghesi, la Bibbia accompagnò gli spostamenti verso Ovest in un contesto in cui la cultura era ancora prevalentemente orale e le forme giuridiche della società traevano ancora spunto dalla consuetudine più che dal diritto scritto. In un contesto naturale e geografico in cui l’uomo bianco cristiano sarebbe andato incontro ai suoi demoni e a quelli suscitati in lui dalle poche letture che si sarebbe portato dietro.

Che poi, di volta in volta, il testo delle Scritture e il significato stesso delle parole potesse essere piegato o storpiato per motivi di interesse o di scarsa comprensione (talvolta anche e banalmente linguistica) non impedì al testo biblico di liberarsi dall’esegesi di carattere religioso per farsi carne e sangue di una cultura umile, rigida e condivisa in cui, probabilmente, a trionfare fu spesso il dio vendicativo del Vecchio Testamento più che quello della salvezza dei vangeli. Motivo per il quale, nella stessa, rimase costante la presenza della morte, del castigo e della lontananza, forse dell’impossibilità, del perdono e della salvezza se non per i pochi predestinati. Una visione drammatica del destino individuale di cui molte canzoni popolari statunitensi costituiscono ancora la testimonianza.

Forse anche per questo, come ebbe a dire D.H. Lawrence: “Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”. Lo prova tutta la grande letteratura statunitense. Dal capitano Achab di Melville ai fantasmi di Edgar Allan Poe (rispetto ai quali i fantasmi europei di Horace Walpole sembrano i personaggi di un innocuo racconto per ragazzi), fino alle inquietanti storie di Nathaniel Hawthorne e ai mostri di H.P. Lovecraft oppure al vitalismo impregnato di morte di Hemingway e alle violente, e prive di speranza, storie western di Cormac McCarthy.

Ma anche nella popular music, da Hank Williams a Elvis Presley, dagli spiritual a Johnny Cash, dal gospel e dal blues a Bob Dylan, dalla musica soul alle murder ballads dell’Ottocento e del Novecento, non vi è ambito che non sia stato in qualche modo investito da quella tradizione. Motivo per cui Dylan, come autorevole rappresentante della cultura americana del ‘900, non ha potuto né tanto meno si è mai sognato di sfuggire a quel pressante imperativo della cultura popolare.

Bob Dylan, vero nome Robert Allen Zimmerman, è come tutti sanno di origini ebraiche ed è chiaro che per molti versi la narrazione biblica del Vecchio Testamento appartiene forse più a quella cultura che non a quella cristiana, ma più che questa supposta, e mai chiarita, vicenda dell’influenza religiosa sulla famiglia Zimmerman,5 certo è che fin dai suoi primi anni il giovane futuro poeta e cantore è stato immerso nella cultura proletaria e provinciale della piccola città del Minnesota che gli ha dato i natali, dove ancora nel 1920 erano stati linciati tre afroamericani accusati dello stupro di una donna bianca (con successiva e relativa vendita della cartolina ricordo dell’evento qui riprodotta). L’incontro non ancora ventenne con la musica di Leadbelly e successivamente dei neri americani e dei folk singer bianchi ha poi fatto il resto. Di cui il lettore potrà trovare tutti i percorsi e le tracce nella dettagliatissima ricerca e ricostruzione filologica condotta da Giovannoli.

Se questa costituisce la parte più copiosa e rimarchevole del testo, ce n’è un’altra, che si sviluppa proprio a partire dalla sua “conversione” dichiarata al cristianesimo evangelico, altrettanto utile per comprendere ed inquadrare quella che è e rimane una delle figura più contraddittorie e sfuggenti della musica e della cultura, non più soltanto popular, americana.
Ed è ancora una volta Carrera ad introdurla quando, ricordando le stesse parole di Dylan a proposito della sua repentina, conversione alla fede cristiana, parla di trasfigurazione ovvero di rinnovamento totale, spirituale e fisico, del neo-convertito. Che dopo essere stato battezzato nel gennaio del 1979, si iscrisse ad un corso trimestrale di lettura biblica in una chiesa di Reseda, in California. “Avevo sempre letto la Bibbia, ma per me era letteratura. Non ero mai stato istruito in maniera tale che per me divenisse significato”, avrebbe ancora affermato in seguito.6

La trasfigurazione nel discorso biblico ha direttamente a che fare che la rivelazione del carattere divino di Gesù agli Apostoli, ma serve anche benissimo a chiarire, credo sinceramente e una volta per tutte, il vero segreto del peregrinare musicale e personale di Dylan. Dal suo incontro col rock’n’roll di Buddy Holly quando non è ancora diciottenne ai dischi di Leadbelly che lo condurranno verso Woody Guthrie e gli altri eroi del folk americano; dalla scoperta del comunismo attraverso la famiglia militante di Suze Rotolo (la ragazza fotografata insieme a lui sulla copertina del suo secondo album Freewheelin’ Bob Dylan) alla rinuncia al suono acustico a favore di quello elettrico che lo farà andare incontro alle ire di Pete Seeger e dei suoi fan tra il 1965 e il 1966. Dalla riscoperta della country music di Nashville attraverso l’amicizia con Johhny Cash alla zingaresca carovana della Rolling Thunder Review che lo vedrà andare ancora in tour con Joan Baez, Ramblin’Jack Elliott, Allen Ginsberg e Sam Shepard (solo per citare alcuni dei comprimari di quella storia) in una sorta di riscoperta dei Medicine Show dell’Ottocento e del vagabondare dei Beat degli anni cinquanta. Dalla riscoperta della musica nera, in tutte le sue forme o quasi, all’attuale passione per il grande American Songbook degli anni Trenta e Quaranta e la senile passione per l’interpretazione delle canzoni di Frank Sinatra.

All’interno di questa storia di continue, vertiginose e inaspettate mutazioni, la vicenda della conversione religiosa tra il 1978 e il 1981 è sicuramente centrale. Da questo punto di vista il cofanetto di 8 cd recentemente pubblicato dalla Sony nella Bootleg Series, di cui costituisce il tredicesimo volume, è particolarmente utile per comprendere l’impeto, la passione, la forza creativa con cui Dylan affrontò questa ennesima e centrale trasformazione. Poiché è proprio attraverso le riprese dei concerti dal vivo tenuti in quel periodo, contenute nel film-documentario Trouble No More che accompagna il cofanetto dallo stesso titolo, è possibile vedere, sentire , comprendere quella autentica energetica e vitale trasfigurazione che accompagnò quel momento.

“Dylan ha attraversato una fase di attivismo predicatorio nel biennio 1979-1980, quando i suoi spettacoli erano diventati una successione di canzoni, prediche e invettive nella più pura tradizione dei preacher afro-americani degli Stati del Sud, che sono pastori e performer allo steso tempo.[…] Il quietismo non è mai stato parte di ciò che Dylan è, qualunque cosa Dylan sia, ma molte altre fasi sono seguite, caratterizzate da un uso a volte confuso ma sul lungo periodo sempre più consapevole, sottile, spesso poeticamente e teologicamente polivalente, delle fonti bibliche e del loro uso nella tradizione musicale americana. E’ qui che abbiamo bisogno dell’aiuto di Renato Giovannoli” 7

Giovannoli ci guida infatti in un’autentica Biblioteca di Babele folk-rock-blues-gospel in cui il fraseggio biblico si accompagna alle voce delle coriste afro-americane che accompagnarono Dylan durante le tournée di quegli anni e al fraseggio delle chitarre elettriche che sottolineavano brani come Solid Rock oppure al suono dell’organo Hammond che sottolinea i versi di Slow Train o Gotta Serve Somebody.

E allora si comprende che tutto il percorso di Dylan è il frutto di una continua trasfigurazione, in cui tutto cambia: le canzoni, la voce, l’aspetto fisico dell’ex-menestrello. Non per calcolo, ma per autentico cambiamento, in cui il protagonista è trascinato da una forza più grande, che di volta in volta si manifesta sotto forma di autentica passione: per il rock’n’roll, la musica nera, il folk, la spiritualità del gospel e del soul, la voce di Sinatra o le parole di Woody Guthrie, ma che ogni volta Dylan deve fare completamente sua per poi esaurirla e passare ad altro. Like a Rolling Stone, come una pietra che rotola.

Ecco allora anche la spiegazione del suo rifiuto di interpretare sempre le stesse canzoni e allo stesso modo (magari quello desiderato dai fan), la sua noia nei confronti dei giornalisti, dei critici e di tutti coloro che lo vorrebbero inquadrato una volta per tutte in un clichè. Da cui rifugge da sempre non come poseur, per snobismo o per amore della trasgressione, ma per semplice desiderio di ricerca e di cambiamento. Mai sazio. Mai finito. Mai definitivamente soddisfatto.

Conscio, come si coglie ancora dal testo in questione, di avere un destino da compiere. Come Dylan stesso ha affermato in un’intervista rilasciata a Ed Bradley della CBS, il 5 dicembre 2004: “E’ la sensazione si sapere di sé stessi che nessun altro sa, di sapere che quell’immagine di te che hai mente si realizzerà. E’ una cosa da tenere per sé, perché è una sensazione fragile, Se la si mette in mostra, qualcuno la ucciderà”8

Verrebbe da dire di Dylan ciò che Glenn Gould, altro genio sfuggente, ebbe a dire di Richard Strauss: “un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene e che parla per ogni generazione perché non si identifica con nessuna”.9 Mentre questa sua inafferrabilità lo avvicina ai personaggi del Mito, che lui stesso ha per così tanto tempo impiegato e rimaneggiato nelle sue canzoni, sempre inavvicinabili e mai completamente comprensibili se non per un simbolo forte e sempre riconoscibile: nel suo caso la canzone popolare in tutte le sue possibili declinazioni.

Vorrei, alla fine di questo excursus, ringraziare sinceramente non soltanto l’autore ma anche la casa editrice Àncora per la coraggiosa scelta di pubblicare un’opera fino ad oggi impensabile, mettendo a disposizione del pubblico una ricerca utilissima per tutti coloro che non solo vogliano avvicinarsi al “mistero” Dylan, ma più in generale ad una migliore, meno superficiale e meno scontata conoscenza della cultura americana. Popolare e non.


  1. Tradotto in Italiano come Bob Dylan. La repubblica invisibile, Arcana Editrice 1997  

  2. Greil Marcus, Like a Rolling Stone. Bob Dylan at the Crossroad, 2005, tradotto in Italia come Like a Rolling Stone, Donzelli 2005  

  3. Alessandro Carrera è professore di Italian Studies e di World Cultures and Literatures all’Università di Houston, in Texas, e ha tradotto per Feltrineli tutte le canzoni di Dylan nel monumentale Lyrics in tre volumi (2004 – 2016 – 2017), il primo volume delle Chronicles (2004) e revisionato la traduzione di Tarantula (2007) sempre di Dylan, pubblicati dalla stessa casa editrice, oltre ad aver pubblicato, sempre per Feltrinelli, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America (2001). Ha inoltre curato un’antologia di articoli e saggi, Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, pubblicato da Interlinea Edizioni nel 2008 e l’edizione italiana della Nobel Lecture di Dylan ancora per Feltrinelli nel 2017  

  4. Alessandro Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, saggio introduttivo a Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan, Volume I, pp. 7- 8  

  5. Lo stesso Dylan avrebbe affermato in un’intervista rilasciata nel 1978: “Non mi considero né ebreo né non ebreo. Non ho una formazione ebraica. Non prendo partito per nessun atto di fede. Credo in tutti e in nessuno”. Cit. in A.Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, pag. 10  

  6. Cit. in A. Carrera, op. cit. pp. 11-12  

  7. Alessandro Carrera, op. cit. pag.19  

  8. Citata in A. Carrera, op. cit. pag. 8  

  9. cit. in Mario Bortolotto, Equivalenze puritane, prefazione a Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Adelphi 1988 (ottava edizione 2013), pag. XXII  

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