Hawkwind – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 May 2024 00:30:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Buy or Die! Il rock’n’roll non disponibile dei Residents https://www.carmillaonline.com/2017/11/22/buy-or-die-rocknroll-non-disponibile-dei-residents/ Wed, 22 Nov 2017 22:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41570 di Sandro Moiso

Matteo Torcinovich, The Residents. Ralph Records Artworks 1972-2015, GOODFELLAS 2017, Collana Spittle, pp.400, € 39,00

La rivoluzione sarà anonima e tremenda (A.Bordiga)

Uno strano destino sembra collegare, almeno qui in Italia, la ricostruzione delle vicende della lotta armata degli anni settanta e ottanta a quella della cultura underground: in entrambi i casi, troppo spesso, ad occuparsene sono coloro che meno ne hanno avuto esperienza e, soprattutto, conoscenza reale. Così può capitare che la prima sia trattata, anche e soprattutto, in ambienti apparentemente alternativi con gli stessi strumenti e gli stessi parametri, la condanna tout court e il [...]]]> di Sandro Moiso

Matteo Torcinovich, The Residents. Ralph Records Artworks 1972-2015, GOODFELLAS 2017, Collana Spittle, pp.400, € 39,00

La rivoluzione sarà anonima e tremenda (A.Bordiga)

Uno strano destino sembra collegare, almeno qui in Italia, la ricostruzione delle vicende della lotta armata degli anni settanta e ottanta a quella della cultura underground: in entrambi i casi, troppo spesso, ad occuparsene sono coloro che meno ne hanno avuto esperienza e, soprattutto, conoscenza reale.
Così può capitare che la prima sia trattata, anche e soprattutto, in ambienti apparentemente alternativi con gli stessi strumenti e gli stessi parametri, la condanna tout court e il ripudio, che hanno caratterizzato il perbenismo borghese e “democratico” fin dai suoi primi vagiti. Mentre la seconda può essere ridotta, soprattutto da chi si vanta inopinatamente di averla frequentata, a una sorta di giovanilistica nostalgia della cannabis, oppure di qualche altra più perniciosa sostanza, consumata indossando pantaloni a zampa d’elefante in qualche piazzetta dei centri storici del Midwest italiano. Indicativamente tra i navigli e la via Emilia, .

Qualche responsabilità, nei confronti di questa provinciale e riduttiva lettura di un fenomeno culturale complesso, certamente l’ha avuta fin dagli inizi la propaganda fatta nei confronti dell’Underground, da un punto di vista puramente consumistico e commerciale, l’industria culturale o, meglio ancora, l’industria discografica.
Come non ricordare, infatti, il lancio in gran spolvero che la CBS italiana fece, proprio nel 1970 della musica classificata come “underground”. Appiccicando tale etichetta a una serie di dischi che, pur rivestendo una certa importanza nello sviluppo della musica rock successiva e del suo pubblico, di “sotterraneo” avevano ben poco: “Cheap Thrills” dei Big Brother and the Holding Company (alias Janis Joplin con il suo primo gruppo), il primo lp dei Santana (non ancora solo Carlos Santana), “The Family That Plays Together” dei californiani Spirit oppure la clamorosa bufala dei Masked Marauders (gruppuscolo secondario di cui si favoleggiava però, tra i componenti, di una non dichiarata presenza del menestrello di Duluth) e, forse, l’unico disco apertamente underground del gruppo: “The Belle of Avenue A”, quarto long playing dei Fugs. E questo solo per citare alcuni della dozzina di dischi pubblicati tutti insieme all’epoca (anche se appartenenti ad annate diverse e precedenti quella della pubblicazione italiana). Grazie a un concorso collegato a tale iniziativa riuscii nello stesso anno a pubblicare la mia prima recensione discografica su una rivista, tutt’altro che underground, come Ciao 2001 (riguardava proprio gli Spirit mentre io avevo all’epoca 17 anni), ma questa è un’altra e ancora men che secondaria storia.

A proiettare i musicofili e aspiranti poeti armati della mia generazione nell’Underground musicale ci pensò in realtà un libro di un autore tedesco, Rolf-Ulrich Kaiser. Il titolo italiano era banalissimo, come sempre nell’italietta di ieri, di oggi e dell’altro ieri: Guida alla musica Pop. In tedesco il titolo non era molto diverso, Das Buch der neuen Pop-Musik, ma introduceva significativamente, era il 1971, un elemento di significativa differenza: non il libro della musica pop, ma della “nuova” musica pop.

Dopo aver tratteggiato una sintetica storia della rock music dai primi vagiti negli anni ’50 ai Beach Boys passando per i Beatles, il testo di Kaiser scoperchiava realmente il vaso di Pandora di tutti quei gruppi e musicisti che, di qua e di là dell’Atlantico, stavano sotterraneamente minando l’establishment culturale e musicale, ma anche politico dell’epoca. Frank Zappa e le sue benemerite Mothers of Invention, i Fugs con la loro capacità di unire l’esperienza musicale alla poesia dei Beat e alla lotta politica radicale,1 la voce straziata e straziante di Tim Buckley negli album Lorca e Starsailor oppure, ancora i tedeschi e devastanti Floho de Cologne, l’anarchico e spensierato (ma solo apparentemente) David Peel del Lower East Side newyorkese (la sua Have A Marjuana? non fu comunque mai trasmessa da nessuna radio italiana e, tanto meno, The Pope Smokes Dope) e i sognanti e mentalmente dispersi Incredible String Band. Solo per citarne alcuni.

Di quelle autentiche giovani talpe già si favoleggiava precedentemente in Italia, grazie anche ai pochi “eroici” negozianti che avevano iniziato ad importarne i dischi direttamente dall’America o dal resto del mondo, ma Kaiser inquadrava il fenomeno in un contesto di radicalità in cui lotta politica (non obbligatoriamente dichiarata e ossequiata) e cambiamento culturale andavano a braccetto.
Era ancora di là da venire la canzone degli Hawkwind dedicata alla Baader Meinhof e alcuni musicisti dell’Underground giapponesi dovevano ancora o stavano per fare il salto nella lotta armata internazionale aderendo all’Armata Rossa Giapponese che avrebbe agito a fianco dei Palestinesi in alcune occasioni,2 ma finalmente si infrangeva la vulgata commerciale della musica giovanile e contemporaneamente di destrutturava l’immagine di un movimento hippy esclusivamente pacifista e dedito al flower power. 3 Portavoce di tale opposizione culturale e politica si sarebbe poi fatta in Italia, e non senza contraddizioni interne, la rivista Re Nudo, soprattutto a partire dal 1972, poiché l’ancora recente ’68 non aveva contribuito, almeno qui in Italia, a sdoganare del tutto tale inevitabile incontro tra lotta politica e nuova proposta musicale.

Ma non occorre qui dilungarsi in un discorso ancora più ampio e complesso, basti piuttosto qui segnalare che la sempre meritoria Goodfellas ha pubblicato, nel corso degli ultimi mesi, un autentico capolavoro dedicato ai veri principi dell’anonimato e dell’Underground culturale e musicale americano: i Residents.
Perché attribuire ai Residents un tale titolo? Perché sono stati gli unici musicisti a conservare nel corso degli oltre quarantacinque anni di attività un anonimato totale, rifiutando di rivelare i loro nomi, di farsi fotografare o vedere senza le maschere monoculari spesso indossate durante i concerti e senza mai concedere interviste; se non attraverso le dichiarazioni di un loro portavoce, Hardy Fox, che stava al gruppo, visto che ha recentemente lasciato la Cryptic Corporation, come i vari portavoce del Mullah Omar stavano ai Talebani.

D’altra parte il collettivo musicale, non mi sentirei di definirlo diversamente visto che di solito suonano in quattro ma spesso sono aumentati da altri musicisti, cantanti e ballerini (soprattutto durante le esibizioni dal vivo), si è sempre e soltanto espresso attraverso i suoni e le proprie canzoni oppure attraverso i testi pubblicati sulle o all’interno delle copertine e, soprattutto, la grafica, meravigliosamente provocatoria ed inquietante, delle stesse.

Proprio per questo la scelta operata dall’autore di presentare la raccolta integrale, o quasi, delle opere grafiche realizzate tra il 1972 e il 2015 per la Ralph Records, la casa discografica che da sempre distribuisce e produce le opere dei Residents e di alcuni altri convitti del loro apparente manicomio sonoro, finisce col costituire anche il modo migliore per narrare la storia e le vicende di un gruppo disperso che storia non ha. Intendendo quest’ultima come storia ufficiale, quella che piace tanto ai cultori del rock e ai giornalisti delle riviste e dei siti musicali specializzati.

Assenza che se da un lato costringe i maniaci dell’ingegneria della ricostruzione biografica ad affidarsi a fonti che affidabili non sono, dall’altra ha preservato il gruppo dal diventare un mero prodotto di consumo. Destino che nel tempo ha accomunato tutti gli altri, ancor da vivi oppure da morti, eroi dell’Underground di cui prima si parlava.

In realtà negli ultimi anni è comparsa un’antologia, dal titolo Before They Were The Residents, They were the Delta nudes, che in maniera molto ambigua, è curata dal misterioso N.Senada, oscuro compositore bavarese autore di “Theory of Obscurity” e “Theory of Phonetic Organization”, il cui nome potrebbe significare “in sè nulla” (en se nada), scomparso nel 1986 e molto probabilmente frutto di un’invenzione degli stessi Residents, traccia un fittizio collegamento tra disordinati suoni registrati alla fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta dal suddetto complesso, Delta Nudes (i cui membri in copertina fanno generosa esposizione dei propri genitali), e i successivi Residents. Quel Delta sta forse a indicare che alcuni membri del gruppo sono, probabilmente, originari della Louisiana, ma ogni altra informazione sembra perdersi in un labirinto simile a quello dei canali del delta del Mississippi.

D’altra parte quel Buy or Die! Che compare nell’immagine di copertina riassume il principio ispiratore dell’aggressione dei Residents alla cultura e alla morale degli ultimi cinquant’anni: una critica spietata e feroce dell’assunto principe della società dei consumi.
Vivi per consumare oppure muori, anche solo socialmente, se non sei in grado di acquistare ogni nuovo prodotto, sia esso materiale o immateriale.

Le vite si consumano infatti, sembrano suggerire i Residents, attraverso il desiderio di sussumere in se stesse le merci siano esse auto, telefonini, sesso a buon mercato praticato da altri sugli schermi, “nuove idee” politiche nate morte e ammuffite già al loro primo apparire, etiche buoniste che nascondono i baratri della miseria reale e delle contraddizioni che si muovono nel sottobosco delle lotte di classe mai apertamente dichiarate. Idee falsamente laiche che si ispirano alla peggiore carità cristiana, un’etica immorale che si traveste di moralismo, una riscoperta delle società altre in chiave new age e perbenistica e idoli ristilizzati che salgono sui palchi già vecchi e consunti e che nascondono il ghigno del loro teschio consumato sotto uno strato di cerone, gossip e sex appeal degno di uno zombie.

Tutto questo i Residents non ce lo trasmettono soltanto attraverso i suoni ma anche, e forse soprattutto, attraverso le immagini delle loro copertine: inquietanti, spesso sgradevoli, oscene e provocatorie. Cover che risultano esse spesso armi più pericolose di quelle vere che talvolta possono essere impugnate da mani incerte e tremanti. La mano dei grafici che hanno costruito nel tempo l’unica immagina reale dei Residents sembra invece non tremare mai. Il colpo, che sia sparato da voci distorte, chitarre elettriche o tastiere elettroniche, arriva sempre a segno.

Sia che si tratti di dare a Hitler il volto di un noto presentatore televisivo americano e di trasformare il vero Hitler in una figurina degna di un fumetto casalingo sullo stile di Blondie e Dagoberto o litigioso come Andy Capp o di sottolineare il folle sogghigno di chi si accinge ad accoltellare una indifesa papera di gomma oppure, ancora, di mettere in bella vista corpi nudi e deformi, le copertine prodotte dal collettivo di grafici che di volta in volta si è definito come Porno/graphics, Pore No Graphics, Poor Know Graphix, Poor No Graphics e con infinite altre declinazioni del tema ha sempre mantenuto alto, oppure se si vuole molo basso nel senso della morale perbenista, lo spirito iconoclasta che lo ha animato.

Tutto ha inizio a San Francisco, in un edificio in Sycamore Street dove agli inizi degli anni settanta avrà sede la Ralph Records e, a partire dal 1976, anche la Cryptic Corporation porrà la propria sede.
Come afferma l’autore:

Il laboratori Ralph va ben oltre la mera e semplice pubblicazione di vinili. Infatti, pubblicare un disco, è un espediente pe poter creare azioni mediatiche, teatrali artistiche, legate e ispirate ad un prodotto discografico. Nei primi dieci anni di vita l’etichetta oltre i dischi dei Residents pubblica anche vari musicisti americani e inglesi (Snakefinger, Art Bears, Yello, Tuxedomoon, MX-80 Sound, Chrome, Renaldo and The Loaf), ma solo con The Residents la Ralph Records sfrutterà al meglio tutte le risorse e le idee creative di Sycamore Street.4

L’edificio comprendeva infatti, oltre agli uffici dell’etichetta e uno studio di registrazione, un’enorme sala insonorizzata per realizzare film e video, una camera oscura e lo studio grafico in cui verranno prodotti molti dei lavori grafici di cui si è già parlato. Oltre ai video e, in anni più recenti, alla grafica digitalizzata che sempre più spesso accompagna la musica degli invisibili avanguardisti della provocazione.

Ispirati dalle avanguardie novecentesche, dal Dadaismo al Situazionismo, i nostri eroi sotterranei produrranno dischi dai titoli espliciti e allo stesso tempo detournanti: Commercial Album (40 brani in 40 minuti), Not Available, Third Reich Rock’n’Roll, Eskimo (con una fasulla e allo stesso tempo apparentemente veritiera descrizione di strumenti, tradizioni e proverbi eschimesi) e molti altri ancora che il lettore, nello sfogliare le 400 pagine del libro, avrà modo di scoprire, se non conosce, oppure di riscoprire.

Il primo disco nel 1974, Meet The Residents, rivelava, fin dalla copertina l’intento terroristico del quartetto con un devastante e infantile sfregio alla copertina del primo album dei Beatles pubblicato negli Stati Uniti dalla Capitol Records: Meet The Beatles. Motivo per cui la potente major americana fece causa ai Residents e alla Ralph Records, costringendoli a modificare la copertina (altrettanto irriverente con i quattro di Liverpool trasformati in scampi e “stelle” marine). Lo stesso sarebbe accaduto qualche anno più tardi in Germania, dove il solito bigottismo tedesco, che già tanto aveva fatto infuriare il Moro di Treviri, condannò la copertina di Third Reich Rock’n’Roll, facendolo ritirare dal pur ristretto mercato. La risposta dei porno/grafici? La stessa copertina con i volti di Hitler e le svastiche coperte dalla scritta censored.

Copertine e dischi, grafica e suoni ci chiariscono comunque subito lo spirito autentico e le caratteristiche irrinunciabili dell’Underground inteso come arma di distruzione della cultura e delle coscienze massificate: l’invisibilità di chi opera, il perturbante del contenuto, il terrorismo nei confronti di ciò che è dato per scontato e del famigerato comune buon senso .
Per riassumere in breve: Signori, ecco a voi The Residents!

Il primo quarantacinque giri a nome loro fu pubblicato dalla Ralph nel 1972 e si intitolava Santa Dog. Proseguirono poi straziando Satisfaction e saccheggiando in nome del caos e del detournement l’American Songbook di Elvis, James Brown, Hank Williams e Duke Ellimgton. Si arresero soltanto davanti a Sun Ra che si era già straziato da solo, insieme al jazz di quegli anni.
Hanno sempre colpito al cuore, non si sono mai pentiti, non hanno mai deposto le armi, non si sono mai scissi sulla linea di condotta, non hanno mai litigato sulla proprietà del logo e non hanno mai rivelato l’identità di alcun complice. Scusate se è poco.


  1. Per averne un assaggio si legga il testo scritto da uno dei fondatori del collettivo: Ed Sanders, Racconti di gloria beatnick, Shake 2013  

  2. Per la prima si tratta di Urban Guerilla del 1972, seguita nel 1976 da Hassan I Sahba scritta, sempre da Robert Calvert, nel 1976 e dedicata al terrorismo mediorientale, mentre per i secondi si consulti Julian Cope, Japrocksampler. Come i giapponesi del dopoguerra uscirono di testa per il rock’n’roll, Arcana 2008  

  3. Così, tanto per schiarire le idee ai nostri moderati nostalgici, va ricordato che numerosi gruppi americani radicali (MC5, Up e altri) non mancarono in quegli anni di comparire sulle copertine dei loro dischi armati di tutto punto e di rivendicare il loro impegno rivoluzionario mentre il mitico Ron “Pigpen” McKernan, voce e tastierista dei primi Grateful Dead, si faceva spesso fotografare con la sua fedele Colt al fianco.  

  4. pp.10-11  

]]>
So Long Lemmy https://www.carmillaonline.com/2015/12/31/lemmy/ Thu, 31 Dec 2015 18:49:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27708 di Dziga Cacace

HRC401Aveva ancora una splendida faccia da schiaffi, con basette importanti e un vistoso neo sulla guancia sinistra mai toccato, neanche per le prime pagine delle riviste musicali… ma in fondo che gliene fregava a lui? Lemmy Kilminster se n’è andato pochi giorni fa e all’improvviso il mondo – addirittura con la copertina dedicata da Libération – s’è reso conto di cosa ha perduto. Era universalmente conosciuto solo come Lemmy, nato Ian Fraser la vigilia del natale 1945 da un reverendo farfallone che lo abbandonò ancora in fasce alla madre. Son [...]]]> di Dziga Cacace

HRC401Aveva ancora una splendida faccia da schiaffi, con basette importanti e un vistoso neo sulla guancia sinistra mai toccato, neanche per le prime pagine delle riviste musicali… ma in fondo che gliene fregava a lui? Lemmy Kilminster se n’è andato pochi giorni fa e all’improvviso il mondo – addirittura con la copertina dedicata da Libération – s’è reso conto di cosa ha perduto. Era universalmente conosciuto solo come Lemmy, nato Ian Fraser la vigilia del natale 1945 da un reverendo farfallone che lo abbandonò ancora in fasce alla madre. Son cose che segnano e non a caso uno dei suoi primi gruppi, come chitarrista, si chiamava Rockin’ Vicars, band che durò poco ma che gli diede la soddisfazione di cenare con il maresciallo Tito durante una rocambolesca tournée in Jugoslavia. Poi si barcamenò facendo il roadie per Jimi Hendrix e per Keith Emerson nei Nice (cui regalò i pugnali nazisti con cui accoltellare l’Hammond, per dire). Con siffatto curriculum – dopo la parentesi nei psichedelici Sam Gopal – percosse il basso negli acidi e spaziali Hawkwind – cantando anche Silver Machine – e si dedicò infine alla sua paciosa creatura, i Motörhead: atteggiamento punk (“Ma avevamo i capelli lunghi!”), apparentamento col nascente heavy metal e rivendicazione rock ‘n roll, ma suonato duro, spedito e cattivo.
In cinquant’anni di carriera (e decine di album, tra cui l’ultimo buon Bad Magic), Lemmy ha mangiato anfetamine come bon bon, s’è tirato una collina di coca e il suo fegato ha filtrato tanto bourbon da riempirci una piscina olimpica. Ma non importa, tanto aveva dichiarato che lui avrebbe sempre avuto 24 anni. Per capire come li ha passati consiglio vivamente la lettura dell’autobiografia White Line Fever che qualche geniaccio ha scelto di tradurre come La sottile linea bianca: sottile, Lemmy!? Mah!
Tra invettive e atti d’amore nei confronti di giornalisti, groupies, promoter, musicisti, droghe e alcol, scoprirete la cinica filosofia del nostro eroe, lo zio biker un po’ picchiatello che tutti avremmo voluto avere, quello che non si arrendeva e continuava a combattere le sue battaglie, con grande ironia, nessuna autoindulgenza e qualche soddisfacente vittoria, tra figli sparsi per il mondo (lui ne conosceva uno, ma chissà…) e la passione (solo) estetica per i cimeli del Terzo Reich.
Lemmy ha attraversato (abbastanza) indenne mode, trend e nuove ondate: era un “classico” fin dagli esordio, fedele solo all’ideale rock di velocità e sballo, e ci ha lasciato senza che lo vedessimo sconfitto. Non ci resta che onorarlo con un brindisi.

***

Dziga Cacace, su Twitter, è @DzigaCacace, comunque

]]>
Hard Rock Cafone #3 https://www.carmillaonline.com/2015/11/26/hard-rock-cafone-3/ Thu, 26 Nov 2015 21:31:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26581 di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta [...]]]> di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop
Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta disintegrato un piccione con la violenza del suo muro di amplificatori. Gli ZZ Top, da buoni bifolchi texani, si son portati il bestiame sul palco, in un classico corral, mentre Alice Cooper ha giochicchiato alla noia con un boa meno fortunato di quello strapazzato da Cicciolina (morto comunque male). Più facile approfittare di animali finti: Justin Hawkins dei cafonissimi Darkness ha recentemente sorvolato il pubblico a cavalcioni di una tigre siberiana di peluche. Decisamente più gore è invece risultato Blackie Lawless, dei poco ortodossi W.A.S.P., che ai bei tempi squartava un maiale di gomma inondando di sangue finto il pubblico festante (beh, simulava anche la violenza su delle suore, il gentleman). Ma la migliore spetta a Iggy Pop, anche se per una volta come vittima, non come perpetratore. Siamo nel dicembre 1973 e l’Iguana ha già abituato il suo pubblico a uno stage-act sconvolgente: autolesionismo con cocci di vetro, sodomia con microfoni assortiti (poi uno dice “cantare col culo”) e frequenti esibizione del pendaglio (routine che, per la cronaca, continua tuttora). Ma la sua carriera autodistruttiva è in declino e il non ancora parrucchinato Elton John, per lanciare la sua nuova etichetta Rocket Records, pensa a lui. Detto fatto: va ad ascoltarlo ad Atlanta a un concerto dei decotti Stooges. Il futuro sir ha del genio ed estroso come sempre si presenta allo spettacolo con un costume da gorilla, tipo Dan Aykroyd in Una poltrona per due. L’Iggy annata ’73 è scimmiato forte e quando, annebbiato e carico di PCP, speed e coca, si vede un gorilla festante venirgli incontro per abbracciarlo, non pensa che sia per offrirgli un Crodino: panico! L’Iguana fugge terrorizzato dal palco, con Elton John che lo insegue per spiegarsi, ingenerando ulteriori misunderstanding. Pubblico attonito, Stooges increduli e concerto completamente in vacca. Di Iggy Pop si avranno notizie due anni dopo grazie a Bowie, ma sicuramente non ha mai più suonato con Elton John. Bestiale.

hrc302Derek & the Dominos e altre canzoni d’amore assortite
Se avevate sette anni negli anni Settanta, un cavallo bianco in tivù, che galoppa felice sulla spiaggia al suono di un riffone per chitarra, per voi significa subito Layla, il capolavoro di Eric Clapton. Ma per arrivare al Doccia Schiuma, quel cavallo ne aveva fatta di strada. Provo a farla semplice e voi – vi assicuro – finirete con 4 o 5 album splendidi da procurarvi subito. Dunque: lui, Clapton, fino a 9 anni ha creduto che i suoi nonni fossero i genitori. Per cui ha e suona il blues, talmente bene che sui muri di Londra lo hanno definito God. È una rockstar riluttante, stufo di supergruppi come Cream e Blind Faith e per decomprimere va in tour nell’inverno ‘69 con Delaney & Bonnie, coppia canterina dixie che si accompagna a una band che urla gioiosamente soul, gospel, blues e rock sudista. Con la stessa compagnia e Leon Russell, Eric incide anche il suo primo album (omonimo, bellissimo). Poi Russell porta la band in tour con Joe Cocker (altro che il pelatone spompo che duettava con Zucchero; qui, live capolavoro: Mad Dogs and Englishmen). Invece Clapton torna a casa a piangere sul suo amore impossibile per la moglie dell’amico George Harrison, Pattie Boyd. Alcuni reduci di Cocker lo raggiungono e sono Bobby Whitlock (organo), Jim Gordon (batteria) e Carl Radle (basso): c’è da accompagnare Harrison nel suo All Things Must Pass (opera d’arte; il migliore e più venduto album di un ex Beatle). A questo punto, però, la ricetta è cotta a puntino: il quartetto si battezza Derek & the Dominos – come un gruppo doo wop anni Cinquanta – e va a Miami per incidere. Tra agosto e settembre 1970 Eric e amici s’imbottiscono di droghe e cazzeggiano in studio, sinché si unisce alla cumpa anche il chitarrista eccelso Duane Allman (diversi capolavori da procurare con la formidabile Allman Brothers Band, cari: troppi per elencarli, ma se non avete mai ascoltato At Fillmore East avete avuto una vita miserevole), che agisce da catalizzatore biologico dell’opera: nasce Layla and Other Assorted Love Songs, il miglior disco mai pubblicato da Clapton e un’enciclopedia del rock: ballate e sfuriate, tra riff e improvvisazioni. Seguirà poi un live micidiale e la fine prematura del gruppo, col leader che ci metterà un po’ prima di tornare in pista, tra alcol, amorazzi, canzoni pop da classifica e la consueta trafila di belinate tipiche delle rockstar. Ma così vitale, inventivo e selvaggio come su Layla non lo avreste ascoltato mai più. Raccontarlo in 2500 battute e rotti è stato come compilare un codice fiscale, lo so, ma adesso avete tutti gli elementi per capire come nasce un capolavoro, riedito anche in edizione super deluxe: doppio vinile, 4 cd, dvd, pop-up e memorabilia assolutamente inutili e perciò irrinunciabili. Pensateci. (Luglio 2011)

hrc303Prigioniero di Black Widow
In via del Campo a Genova non ci sta solo una puttana, ma anche Black Widow, un negozietto che può dare altrettanti orgasmi a ripetizione. Altro che Palermo New York Marsiglia: il triangolo della droga discografica passa da Genova e lo gestiscono Massimo, Giuseppe e Alberto, che conciliano la passione con il mercato. Qui i bluff dei gruppettini alla moda non hanno cittadinanza, ma tutto ciò che è hard, metal, psych, fuzz, acid, grunge, doom, punk e le altre pecore nere della famiglia del rock, beh, c’è. Per dire: trovate i dischi di gruppi clamorosi come i Black Merda (da Detroit, con inconsapevole infortunio nominale per il mercato italiano). Così come i magnifici specchi con l’effigie dei vostri idoli, una cafonata unica per il bagno di casa. I dischi si ascoltano e si commentano come al bar e quando si tratta di pagare c’è sempre uno sconto, parola che è oltraggioso riscoprire a Genova. E poi siccome a chi ha più di quarant’anni il panorama rock appare desolante, quelli di Black Widow pubblicano anche, e con successo: buona musica e confezioni eleganti, ovviamente nei limiti estetici di generi come il rock sepolcrale o la psichedelia da tavolette di acido come un Toblerone. L’apice s’è raggiunto con Not of This Earth, cofanetto di quattro CD in cui artisti hard rock and heavy hanno dato la loro lettura musicale del cinema storico di fantascienza. Nel catalogo della vitalissima etichetta, oltre a gruppi storici come High Tide, Hawkwind, Black Widow e Pentagram, anche nuove proposte, come l’ottimo Witchflower dei Wicked Minds. Un esuberante mix di prog e hard, con echi di Deep Purple e Pink Floyd. Praticamente l’album che andavate cercando da anni e che le vostre band preferite non hanno saputo licenziare allora. E il disco non esce dalla macchina del tempo, ma arriva da Piacenza (con annesso dvd e pacioccone video lesbo degno di una tivù privata, ma albanese). Se passate di qui, insomma, Black Widow merita una vista. Però attenti a non lasciarci la carta di credito. (Novembre 2006)

DCIM101MEDIAIl pantheon induista dei R.E.M.
Campane a morto per i R.E.M. e riposi in pace il loro soft rock studentesco venato di psichedelia e talvolta mandolini, okay. Però, senza malizia, vi consiglio di risentirvi il loro miglior esito che è una nota a margine in discografia: l’omonimo album sfornato a fine 1990 dagli Hindu Love Gods, cioè i R.E.M. senza Michael Stipe ma con Warren Zevon. Nulla contro la voce di Everybody Hurts, figuriamoci (semmai qualcosa contro i fighetti che conoscevano solo Shiny Happy People o Losing My Religion) ma in quest’album politeista di cover gli altri ¾ della band si divertono con chitarra, batteria, basso, coglioni e la voce catarrosa di un amico che ha avuto meno successo di loro. Funzionava così: i compagnoni si vedevano in coda a session dei loro progetti principali e lasciavano libero sfogo alla creatività, reinventandosi – buona la prima – i classici del blues in versioni elettriche senza fronzoli, urlate in yo’ face. E se c’era qualche sbavatura, dava solo muscoli, sangue e sudore. Vita, insomma, che poi è l’essenza del rock che ci piace. Peter Mills non si accontentava del suo jingle jangle e sfoderava anche qualche pentatonica cattiva, mentre gli altri pestavano duro e Warren era sempre lì lì vicino a scaracchiare (gli senti proprio il bolo verdastro sull’epiglottide, giuro), ruggendo i testi sacri di padrini come Muddy Waters, Robert Johnson e Willie Dixon. E pure Prince (la magnifica Raspberry Beret)! Warren Zevon, cantautore rock sottovalutato e bravissimo, con una carriera piagata da armi, alcol ed epic fails clamorose, è stato poi portato via nel 2003 da un tumore veramente maligno, ma non prima di averci lasciato un altro album magnifico a suo nome, The Wind, e averci ricordato – ospite al Late Show di David Letterman (di cui era fraterno amico) – il segreto per vivere meglio: “Enjoy every sandwich!”. Bene, dategli retta e cercate Hindu Love Gods, fondamentale per qualunque band che oggi si chiuda in garage per affondare i denti nella carne del rock. Il Cd è impossibile da recuperare ma per rigorosi e leciti motivi di studio magari ve lo scaricate da un blog della Rete, anche se io non vi ho detto nulla, eh? Del resto siamo o no tutti studenti del rock, noi eterni Trofimov? (Novembre 2011)

hrc305Glenn Hughes sta bene, anche troppo
“Dillo ai lettori di Rolling Stone! Glenn Hughes dovrebbe essere morto!”. L’ultima cosa che avrei pensato di sentire da un artista in giro da quarant’anni e che parla di sé in terza persona… Ma riavvolgiamo il nastro della memoria: già in cima al mondo nel 1973 come basso tuonante e cristallina seconda voce dei Deep Purple, il ventunenne Glenn imprime alla band una svolta nera molto funky. Del resto il suo idolo è Stevie Wonder che incontra casualmente nei cessi di uno studio di registrazione di L.A.: dopo la pisciata lo raggiunge e per Hughes “è il momento più alto della carriera!”. Ma arriva anche la mazzata: nel 1976 un’overdose si porta via il prodigioso chitarrista Tommy Bolin, spirito gemello subentrato nella band a Ritchie Blackmore. “Ero fattissimo di coca e avevo davanti Tommy, morto”, mi racconta. Riprendersi è dura e seguono anni di progetti interessanti, ma sfuocati, e Glenn indulge nelle polveri tanto che “dal 1977 al 1991 non ricordo niente, nebbia totale”. Finché non ci rimane quasi stecchito. Da lì riparte la sua carriera: blasonato dal titolo di Voice of Rock, Hughes compone, suona e canta una riga impressionante di dischi che diventano sempre migliori. L’amicizia fraterna col batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith è determinante e gli ultimi esiti – Soul Mover, Music for the Divine e F.U.N.K. (tutti con un’etichetta italiana, la Frontiers) – sono scariche di adrenalina che ormai il quartetto californiano si sogna, e dove Glenn ulula con un’estensione che sembra di sedici ottave. Oggi è in formissima, irsuto, loquace e felice. Introduce ogni risposta con un “Listen, Filippo from Rolling Stone!” e mi parla della sua vita spirituale: fa yoga, ascolta jazz, lavora come un matto e aborrisce droghe, alcol e nostalgia. Una reunion con i Deep Purple metterebbe a posto due generazioni di eredi (“Parliamo di milioni di euro, credimi”), ma non ne vede il senso. Ora vende bene e suona per un pubblico di tutte le età e di ambo i sessi, non è inscatolato in un genere per quarantenni panzuti, e in concerto a Milano dimostra un’energia che neanche un sedicenne sotto anfetamine. Ai nostalgici (pochi) regala solo due brani storici dei Deep Purple, per il resto fa ballare tutti con un repertorio funkyissimo, con vocalizzi, melismi e gorgheggi, passando dal borbottio grave fino al miagolio all’ultrasuono da incrinare il cristallo. A un certo punto annuncia che “Stasera Stevie Wonder non ce l’ha fatta!”, ma francamente Glenn se l’è cavata da dio anche da solo. (Maggio 2008)

hrc306Premiata Forneria Marconi: buon sangue…
Franz Di Cioccio ha due occhi chiarissimi, sinceri, vivi. Da oltre trent’anni è il batterista shaolin e il frontman della Premiata Forneria Marconi, per comodità PFM (acronimo che negli anni Settanta dei tour nordamericani veniva gabellato alle groupies credulone per Please Fuck Me…). Ma quest’uomo dal multiforme ingegno è stato ed è anche tante altre cose: scrittore, showman tivù, indimenticabile attore in Attila, Figlio di Bubba a Sanremo e pure autore assieme al bassista Patrick Djivas della sigla del Tg5. Un pomeriggio di quasi estate mi racconta cosa stanno preparando i ragazzacci della sua band, ancora inquieti dopo aver attraversato tutta la storia del rock che conta in Italia: Battisti, De André, Mina (“E anche Al Bano!”, aggiunge Franz). Hanno realizzato un sogno che risale a quando volevano far recitare Storia di un minuto – il loro primo splendido album – al Living Theatre di Julian Beck: finalmente hanno composto la loro “rock opera”, nella tradizione di Jesus Christ Superstar e Tommy. Il tema? Sanguigno: Dracula, da Bram Stoker ma con qualche sorpresa… Per ora esce un album (scusate, ma è bello chiamarli ancora così) con gli highlights interpretati dalla band; nella prossima primavera uscirà l’opera completa, cantata dal cast che la porterà in tournée nei teatri italiani. E opera rock mica tanto per dire: Franz mi fa ascoltare orgoglioso, sottolineando con l’air drumming il tripudio di pieni e vuoti orchestrali, i temi che si intersecano, le performance strumentali che volano alto sulla mediocrità pavida della musica d’oggi. La sfida, raggiunta, è di ottenere in studio il suono del live: questa è musica progressiva nel vero senso della parola, che si muove e che trova nel recupero di certe sonorità la sfida verso il futuro; in un mondo che divora immateriali mp3 e ha perso il valore del disco come oggetto, non rimane altro che “suonare suonare”. E mentre alcuni “autori” diventano nel frattempo Cavalieri della Repubblica (e in che compagnia!), alla PFM niente, perché il rock puzza di sudore e la signora Franca Ciampi non conosce Celebration. Del resto Franz mi rivela che quando un cantautore non fa niente, si tratta di una pausa di riflessione; se invece è un gruppo a star fermo per un po’, allora è una crisi creativa… Nel paese del melodramma, l’energia rock fa fatica a trovare un accreditamento culturale, ma piaccia o no, la PFM è il nostro marchio musicale più conosciuto all’estero, dagli States al Giappone, conquistati con concerti dirompenti. Ma per il sempre positivo Franz oggi è meglio che in passato: “Non abbiamo più il problema di dimostrare nulla”. E ci mancherebbe. (Ottobre 2005)

hrc307Megadeth: una band di carattere. Orrendo
Arrivano in questi giorni – il 4 marzo a Milano, il 5 a Pordenone – i Megadeth, gruppo che da più di vent’anni lascia il segno nella musica dura. E sempre nonostante il leader Dave Mustaine abbia fatto di tutto per rendersi la vita impossibile. Molti non sanno che nella formazione originale dei Metallica, alla chitarra c’era proprio lui, del resto co-autore di molti brani dei loro primi due album. Viene fatto fuori per abusi diversi – alcolici, chimici e verbali – e la ferita non sarà mai rimarginata, come dimostra il docu Some Kind of Monster dove Mustaine appare come un frignone (e Lars Ulrich come uno stronzo). Il desiderio di rivalsa è fortissimo e Dave nel 1984 mette su la sua band (possibilmente “più veloce e pesante dei Metallica”), caratterizzata da formazioni volatili come il suo caratteraccio. Resiste per più di vent’anni solo il bassista. Con gli altri si rapporta come fa con gli allenatori un Gaucci on speed: le cacciate sono sempre per i motivi soliti (divergenze e dipendenze varie) oppure francamente sorprendenti, tipo “capelli troppo corti”. Ma questo non impedisce a Mustaine di vendere milionate di dischi (siamo oltre la quindicina) e sfornare capolavori del thrash metal, genere che per l’ascoltatore non aduso è come una bocconata di cocci di vetro e ghiaia. So Far, So Good… So What! ebbe qualche effetto anche sulla prova di maturità del sottoscritto. Purtroppo. Ad ogni modo, intossicato e disintossicato più volte, passato indenne tra arresti e cause miliardarie e pure cacciato da un tour con gli Aerosmith (sul palco li sfotteva: “Matusa!”), Dave è metallaro dentro e la militia dei suoi fan gli crede ciecamente e lo tradisce solo quando lui tradisce loro, come con il molliccio Risk del 1999. Poi dopo il ritorno all’abituale durezza, nel 2002 l’annuncio che lascia tutti costernati: basta Megadeth, Dave non suonerà più la chitarra. Nel più fantozziano degli incidenti s’è lesionato un nervo del braccio sinistro dormendoci sopra in una posizione assurda. Ma il nostro è cocciuto: impara nuovamente a suonare e i Megadeth tornano in classifica più tosti che mai, mentre si vocifera di una (temuta) conversione a cristiano rinato: se non altro due anni fa Mustaine ha minacciato di annullare delle date in Grecia e Israele se avesse dovuto dividere il palco coi Rotting Christ (che dal nome…). L’ultimo United Abominations è andato bene anche da noi e ospite in duetto c’è la nostra bravissima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. Chissà che a Milano, tra qualche sera, non salga anche lei sul palco. Però occhio all’acconciatura. (Marzo 2008)

hrc308Tolo Marton: Italians do it better
La Blues House, ai confini di Milano, dove la metropoli si confonde in quel tumore urbanistico che arriva fino al confine svizzero, è un juke joint frequentato da appassionati agée e giovani già preda del virus delle dodici battute. Stasera le suona uno dei migliori: Tolo Marton, italiano e bluesman per modo di dire, perché questo trevigiano sorridente e timido non suona il consueto shuffle, blaterando in cattivo inglese. Per Tolo il blues è la grammatica principale, ma la sua musica spazia dal progressive delle Orme (dove esordì giovanissimo) al country, al rock senza confini. E il concerto è com’è lui: parte piano, con delicatezza. Poi la pennata si fa più decisa e l’ampli urla, con la band che lo asseconda. Tolo non è mai diventato una rockstar per scelta sua: oltre trent’anni di carriera alle spalle, tutta improntata all’onesta intellettuale e alla ricerca artistica, a dispetto di qualunque piano di successo. E infatti per diversi anni ha svernato ad Austin, Texas, più apprezzato là che da noi e non ci vuole il pasoliniano Orson Welles de La ricotta per ricordarci che l’Italia ha la borghesia più ignorante d’Europa. Sentire quali suoni tira fuori dalla sua Strato è umiliante per chi come me non ha rinunciato all’idea di diventare un guitar hero: Tolo arpeggia, gioca col volume, percuote le corde, fa fischiare le note, coglie armonici e dipinge straordinari affreschi chitarristici lontanissimi dall’onanismo di altri virtuosi. E non è un caso che la sua versatilità l’abbia portato a collaborare con Marco Paolini a teatro e Alessandro Baricco in radio: Tolo scrive pezzi che potrebbero accompagnare bertolucciane scene madri o leonini spaghetti western e la passione per il cinema viene fuori anche attraverso omaggi alla Pantera Rosa e ai Blues Brothers o con un incredibile medley morriconiano: “Io il mio Oscar gliel’ho dato nel 1971!”. E dopo averti stupito con l’Almanacco del giorno dopo, Tolo annienta il pubblico con una serie di rock blues dove fonde Jimi Hendrix, Rory Gallagher, Jeff Beck e Doors in una sintesi personalissima. Dopo, a cena, parliamo di Siae (“E’ un blues tristissimo!”), di cover band che uccidono la musica live e di tutti i suoi progetti. Ha appena licenziato il bellissimo Guitarland con altri 5 amici chitarristi, è pronto Giubbox con “le cover di quando eravamo piccoli” e intanto lavora a un nuovo album solo strumentale. Nell’attesa vi consiglio di recuperare i suoi primi tre album riuniti in un doppio, Reprints, ricco di bonus e live tracks: sarà amore, credetemi. (Dicembre 2008)

(Continua – 3)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace

]]>
Vic Vergeat story https://www.carmillaonline.com/2013/12/19/vic-vergeat-story/ Thu, 19 Dec 2013 22:06:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11431 di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock. Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia [...]]]> di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock.
Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia suonato – disco, concerto o turno in sala che fosse – ha lasciato il segno, umano e artistico.
Per raccontare la sua storia ho girato assieme al mio collega Riccardo un centinaio di ore di interviste e di concerti, anche se poi la vita ha preso il sopravvento e il documentario non l’abbiamo fatto. Ma la storia c’è e non dipende dal fatto che ci sia sfuggita di mano.
La storia c’è ed è questa, così come me l’ha raccontata il protagonista.

Vittorio Vergeat, di famiglia della Val Vigezzo, nasce nel 1951 a Domodossola e rimane presto folgorato dal rock’n’roll, ottenendo a dieci anni la sua prima chitarra.
È il classico bambino prodigio: ribelle, insofferente alle regole e alla disciplina, ma con le idee chiare su come e cosa suonare. Per tenerlo a freno i genitori lo mandano in collegio, da cui fugge: il suo liceo lo frequenta tra Como e Chiasso (nomen omen) suonando nei beat Black Birds. Dolce Delilah nel 1967 è il battesimo su vinile, che sul retro presenta anche la sua prima composizione, l’ingenua Torna verso il sole che però sfodera un distorsore acidissimo (“Il tecnico del suono, in camice bianco, si lamentava: si è rotto qualcosa!”). All’epoca Vic non è ancora iscritto alla SIAE e la canzone viene accreditata al produttore: “La prima inchiappettata”, termine tecnico conosciuto da molti musicisti.
La “vecchia” musica pop è intanto soppiantata dal rock e il chitarrista studia sui Beatles prima e su Hendrix poi: Jimi rompe ogni schema e il suo strumento lo fa cantare, piangere, urlare. Anche per l’esuberante Vergeat la chitarra diventa un simbolo fallico da masturbare, un corpo femminile da accarezzare e una mitragliatrice da far deflagrare. Lo fa con gli Underground a Lugano, assieme all’uomo orchestra Hunka Munka. Diventano un’attrazione che riempie i locali, al punto che i gestori temono la fuga di Vic, cosa che fa puntualmente, scappando una notte con la sua chitarra e la fidanzatina alla volta di Londra.
Siamo nel 1969 e la capitale britannica è la sua università. Per 7 mesi Vic è tutte le sere prima a mangiare al Ritz – perché è un dandy viziato – e poi al leggendario club Marquee per imparare dai maestri.
vvs02bArmato della sua Les Paul ’58 frequenta gli Hawkwind, un gruppo di storditi profeti dello space rock: “Loro erano drogatissimi e io ero pulito e innocente. Perlomeno ancora!”, e finisce subito, dopo alcuni giorni in sala di registrazione. Il leader Dave Brock oggi nega, ma della sua lucidità di allora francamente dubiterei molto.

Vergeat torna a casa nell’ottobre 1970, in Italia, e assieme alla sezione ritmica della cult band psichedelica Brainticket (Cosimo Lampis alla batteria e Werner Fröhlich al basso, due mastini) forma i Toad, che registrano il primo omonimo album due mesi dopo, a Londra. Suonano spesso in Svizzera, anche al festival di Montreux (nel gennaio 1971) dove in diretta televisiva Vic rompe tre volte le corde della sua chitarra… In Italia le date sono invece sporadiche (lo Space Electronic a Firenze, il Piper a Roma, ovviamente a Domodossola) e la band “frontaliera” viene – e verrà sempre – equivocata come esclusivamente elvetica, con conseguente poca considerazione. Sbagliando.

vvs02Grazie anche al lavoro del sound engineer Martin Birch (mastermind produttivo di Deep Purple, Iron Maiden, Blue Oyster Cult, Rainbow, Whitesnake e tanti altri), il primo disco è bello e inventivo, con la Firebird straripante del leader in evidenza, e si muove con originalità tra le coordinate stabilite da Grand Funk Railroad e Led Zeppelin. Il cantante Benji Jaeger si chiama fuori frustrato (“Non si divertiva molto quando improvvisavo per quindici minuti. E quindici minuti era un assolino!”) e i Toad diventano un power trio che nel 1972 sforna il perfetto Tomorrow Blue, capolavoro riconosciuto hard rock e progressive, dove l’ascendenza heavy blues è stemperata nella capacità melodica di Vic e dalla varietà di ritmi e atmosfere, aggiungendo alla ricetta anche un violino indemoniato.
I Toad partecipano ai classici raduni italiani dell’epoca (Palermo Pop Festival nell’agosto 1971, assieme a Black Sabbath e Colosseum; Villa Pamphili a Roma, nel 1972) ma i grandi riconoscimenti li hanno in Francia, Germania e Svizzera, con buoni riscontri di vendite – specialmente con il singolo Stay! – accolte con tipica spocchia giovanile: “Quando eravamo tra i primi in classifica ero incazzato nero! Volevo essere il 33!”.
Succede anche di aprire per i Deep Purple o per i Genesis in un tour francese (e in questo caso di diventare dopo alcune date gli headliner), ma il momento non viene sfruttato. Il gruppo si prende una pausa e Vergeat va a vivere a Roma.

vvs03In attesa di realizzare un album solista, presta la sua chitarra alla RCA (facendo turni per Renato Zero e Morricone) e si butta in grandi jam, complice l’amicizia con i membri del Rovescio della Medaglia. Addirittura interpreta un cantastorie hippie nella truffaldina riedizione di uno spaghetti-western, Sparate a vista a Killer Kid, anonima pellicola jugoslava e tedesca di metà anni Sessanta con l’unico merito di avere come protagonista secondario Mario Girotti. Che a inizio Settanta diventa Terence Hill e sfonda grazie ai film di Trinità… e allora vai di riciclo. Ma il pubblico – non sembra senza motivi – non abbocca.
Nel 1974, mentre tutto il rock commerciale si divarica e va verso l’hard o il pop e finisce quella magia per cui si poteva suonare tutto, Vic diventa l’unico biancuzzo in una scatenata band soul nera, quella di Wess, gli Airedales: è il suo master in una piccola facoltà.
Dopo Dreams, un disco di rock’n’roll a nome Toad, gradevole ma un po’ sfocato e che non ha alcun riscontro commerciale, Vic torna a Londra in piena esplosione punk e collabora con Pete Sinfield (già paroliere di Emerson Lake and Palmer e della Premiata Forneria Marconi), con Mitch Mitchell (il batterista della Experience di Hendrix) e John Giblin (bassista sessionman extraordinaire, avrebbe poi suonato con Peter Gabriel, Paul McCartney e i Simple Minds). Non ne viene fuori nulla.

vvs04Si torna sulla strada ancora con i Toad che dal vivo sono un calderone ribollente, dove confluiscono blues, hard e funk, in naturale combustione. Una scelta musicale istintiva che il business (a differenza del pubblico dei concerti) non capisce e non asseconda. I manager vogliono un Vic guitar hero, truce, tutto pelle e borchie e la Capitol prova a lanciarlo sul mercato statunitense con un’immagine tamarrissima. Lo cura Dieter Dirks, deus ex machina del successo degli Scorpions, e Vergat (come viene rinominato per facilitare la pronuncia yankee, roba da chiodi) pubblica un album, Down to the Bone, dalla terribile copertina metallara: “Mi chiedevano di fare la faccia cattiva, sul palco o davanti ai fotografi…”. La cosa pare funzionare (il disco entra nella classifica di Billboard) e in realtà sotto la scorza della produzione c’è la consueta varietà di generi, spaziando dal boogie al funky al soul. Seguono diverse date in giro per gli USA, aprendo per Nazareth, Scorpions, Rory Gallagher e Joe Perry Project (del chitarrista degli Aerosmith), ma Vic è una rockstar irrisolta e non è il tipo che la manda a dire. E così, all’interno delle major losangeline, diventa il musicista genialoide da tenere a distanza, da trattare con le pinze perché poco controllabile. La sua sezione ritmica diventerà multimilionaria nei Ratt, gruppaccio hair metal, mentre il nuovo album solista, Weapon of Love, non esce, dopo epocali scazzi col produttore.

Tutti gli anni Ottanta passano all’insegna della frenesia tipica dell’artista valvigezzino: diventa padre due volte, si sposa, divorzia, sembra formare un supergruppo con Rick Wakeman e Carl Palmer, ha un nuovo successo in Svizzera con una band pop rock (i Bank, assieme a Hugh Bullen, già bassista di Battisti e Pino Daniele), perde un ingaggio milionario con la MCA e incide con il cantante dei Krokus, Marc Storace, una bella cover di When a Man Loves a Woman. Ma il singolo viene bloccato dalla casa discografica finché lo stesso arrangiamento – come per magia – viene fuori nel successo planetario di Michael Bolton…
Gli anni Novanta vanno però meglio, anche se non nel modo più prevedibile: infatti nel 1993, assieme alla figlia Neve, Vic scrive la sigla di Pingu, un cartone animato elvetico venduto in tutto il mondo: canta David Hasselhoff, il bel tomo di Supercar e Baywatch e la canzoncina ottiene un buon successo. Ma soprattutto Vic riforma i Toad e fa uscire un album intenso e roccioso, Hate to Hate in cui si scaglia contro la guerra in Iraq (ed era solo la prima guerra in Iraq). Torna in tour col suo gruppo storico e poi – come ospite di lusso – assieme a una band svizzera che sta andando benissimo, i Gotthard, partecipando al vendutissimo D-Frosted.

vvs0xNel 1998 incontra Gianna Nannini grazie alla conoscenza comune del manager Peter Zumsteg e con lei scrive parte dell’album Cuore (e anche un’altra sigla che funziona, quella di Lupo Alberto!). Dopo oltre un anno di concerti assieme, Vic decide di dedicarsi di nuovo alla sua carriera solista: nel 2002 licenzia un buon album dal vivo, No compromise, e partecipa anche a due tributi hendrixiani che rilanciano il suo nome tra gli appassionati e i critici.
Qualcosa però si blocca: dopo anni e anni di tentativi, il guerriero è stanco di combattere.
Ed è qui che arrivo io.

Curando da qualche tempo una rubrica per Rolling Stone, chiamo incuriosito una piccola ma agguerrita etichetta discografica di La Spezia, la Akarma, che lo produce e distribuisce. Mi dicono: “Attento! È diffidente coi giornalisti, il Vergeat!”. Gli telefono, ci annusiamo e finiamo a parlare di Mike Bloomfield e Peter Green, due perdenti nella logica mercantile dell’industria musicale, due geni per noi e per tutti quelli che la musica la ascoltano sul serio.
Per capirci al volo: Mike Bloomfield è la chitarra di Highway 61 Revisited di Bob Dylan mentre Peter Green è il fondatore dei Fleetwood Mac, prima che abbandonassero il blues per tirare dune di coca su per il naso… Due musicisti che hanno saputo mettere in musica con sincerità estrema tutta la loro ansia e difficoltà di vivere, senza mai sembrare dei semplici imitatori della tradizione black.

Vic accetta che lo intervisti e vado a trovarlo a casa sua, a Domodossola. E scopro che se gli piacciono i beautiful losers come Green e Bloomfield, allo stesso modo non ama chi è riuscito ad avere un successo trasversale, come Prince o Springsteen, per esempio.
vvs05La sua storia è decisamente interessante: come ha fatto uno così, mostruosamente dotato in termini compositivi, esecutivi e spettacolari, a non avere avuto un riconoscimento unanime?
Perché, tutte le volte che il successo sembrava dietro l’angolo, qualcosa s’è messo di traverso?
Con il mio collega Riccardo decidiamo di realizzare subito un dvd-concerto, a budget zero e con attrezzature di fortuna. E ci viene anche molto bene: Live at Music Village ottiene recensioni positive in modo imbarazzante, però la distribuzione è difficoltosa se non nulla e il dvd rimane una chicca per appassionati.

Negli anni di frequentazione che seguono vediamo Vic suonare a festival e feste di piazza, in pub, teatri e (letteralmente, in esibizioni sempre clamorose) per la strada, acustico ed elettrico, al Blue Note di Milano come all’Hard Rock Cafè di Mosca. Sempre a fianco del pazientissimo e talentuoso bassista Michi e con amici vecchi e nuovi (Mel Collins, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, tra le collaborazioni più recenti), inseguendo ogni volta progetti artistici inediti, talvolta strampalati, più spesso generosamente incoscienti.
Cosa abbiamo capito di lui? Vic ha una voce chitarristica unica, non fa prove (“Un pittore dipinge la tela una volta sola, no?”) e improvvisa sempre la scaletta del concerto (facendoci impazzire quando si tratta di filmarlo). Consulta gli I-Ching, odia il calcio ma tifa Valentino Rossi peggio di uno hooligan; dimentica ovunque occhiali e cellulare, non sopporta Emilio Fede e le zanzare, gli piacciono il Tenente Colombo, il vino rosé e la sua Ducati è sempre l’ultimo e più prezioso modello esistente (adesso è una Panigale R, in recente sostituzione di una Desmo 16). E poi Vic fa esattamente quello che non bisognerebbe fare quando si suona la chitarra. Cioè: arti marziali e roccia…
È un vanitoso (con un gusto sartoriale tutto suo), un pasticcione e un lamentoso, è logorroico e “tra l’altro” è la sua formula per allargare all’infinito ogni discorso. È idealistico e incoerente, sicurissimo fino al momento in cui non cambia idea. Lo sa e non può farci niente. Perché è vero e non sa mentire, nel bene e nel male.

vvs06Il documentario che volevamo dedicargli non ha trovato committenti: le case discografiche non avevano più un euro e la sua storia, per me paradigmatica di un mondo che sta scomparendo, non sembrava interessare nessuno.
Però quella che mi era sembrata una carriera senza la fortuna che meritava, oggi la vedo in modo molto differente e mi pare che contino di più i risultati ottenuti di quelli che si poteva sognare di realizzare. Del resto Vic è stato ambizioso, sí, ma mai abbastanza da dover accettare delle imposizioni: dopo una partenza fulmicotonica a neanche vent’anni, è come se avesse attuato una lenta ritirata dalle trappole e dalla fatica dello stardom, che può vincolare a una formula e diventare un obbligo. Non senza qualche legittima frustrazione, è ovvio, ma il successo di questo ragazzino di sessant’anni, oggi, sono la moglie Carmen, i figli e i tantissimi amici, la musica che ha scritto e la gioia che regala ogni volta che imbraccia una chitarra.
E non è poco.

Da ascoltare
Toad – Toad (1971)
Toad – Tomorrow Blue (1972)
Vic Vergeat – No Compromise (Live, 2002)
Vic Vergeat – Just the Two of Us (acustico, 2011)
Vic Vergeat – Live (acustico, 2012)

Da vedere
Vic Vergeat Band – Live at Music Village (2006)

]]>