Gabriele Adinolfi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’Italia nera https://www.carmillaonline.com/2019/08/08/litalia-nera/ Thu, 08 Aug 2019 21:02:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54021 di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra [...]]]> di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra estrema italiana, oltre che a far comprendere quella particolare area politica, le sue idee, i suoi progetti ed il suo operato nel corso degli anni, possa contribuire anche ad approfondire in controluce momenti importanti della storia repubblicana. L’autore sceglie di limitare il più possibile il ricorso alle note e alle citazioni, in tal modo rendendo molto scorrevole ed agile la lettura del libro ed inserisce, distribuendolo in modo omogeneo nel corpo del testo, una sorta di glossario dei termini e dei concetti chiave necessari per la comprensione del fenomeno del neofascismo italiano.

La tesi che Vercelli espone fin da subito nell’Introduzione è che la storia della destra radicale e neofascista italiana sia il “reciproco inverso” della storia della Repubblica, cioè della democrazia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Paradossalmente il neofascismo italiano, dopo la sconfitta del 1945, trova la sua ragion d’essere nel proprio opposto, ovverosia nella natura parlamentare, democratica, pluralista ed antifascista delle nuove istituzioni repubblicane, che prendono in mano la guida di quel paese che era stato la culla del fascismo. Pertanto, riflette Vercelli, nonostante le diverse forme assunte dal neofascismo italiano, dal 1945 – quando prevalgono ancora nostalgia per il passato prossimo e rancore contro i nemici – fino ad oggi – quando le formazioni dell’estrema destra più seguite, come Casa Pound, parlano di “fascismo del terzo millennio” – la «radice comune è la posizione antisistemica, ossia l’intenzione di mutare […] il “sistema” istituzionale, politico e finanche culturale della democrazia contemporanea. Negandone la radice egualitaria, che il neofascismo denuncia come una perversione dell’ordine naturale delle cose» (p. 9).

Nonostante la sconfitta nella guerra ed il crollo subiti tra il 1943 e il 1945, il fascismo ha continuato ad essere un soggetto politico presente nel nostro paese per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, un’esperienza politica e poi un regime così duraturi come quelli mussoliniani non potevano scomparire improvvisamente, poiché troppo profondo era stato il loro radicamento nel paese. In secondo luogo, dopo il ’45 ciò che rimaneva del fascismo attira le attenzioni di quelle componenti conservatrici della società italiana che fasciste non sono, ma che coi reduci del fascismo intendono formare un “blocco d’ordine” capace di arginare i cambiamenti in atto nel paese. Infine, la contrapposizione tra i due blocchi della guerra fredda e la volontà, interna ed esterna al paese, di evitare lo spostamento italiano su posizioni apertamente filocomuniste, produce l’effetto della mancata epurazione e – come insegna Pavone – della netta prevalenza della “continuità” politico-istituzionale dello Stato rispetto al “cambiamento” auspicato dalle forze resistenziali partigiane. A questo si aggiunga che, come cent’anni fa, ancora oggi il neofascismo pretende di essere riconosciuto come forza politica rivoluzionaria: una rivoluzione che assume la forma della “reazione”, o meglio, si potrebbe dire, quella del “ritorno”, del “recupero” di un passato puro (in realtà mitico ed astorico) e di un presunto stato “naturale” sconvolto dalla corruzione della modernità, che avrebbe prodotto la democrazia, l’egualitarismo, il cosmopolitismo, considerati disvalori e perversioni della società. Al materialismo, al pragmatismo utilitaristico, all’economicismo, alla quantità equivalente della democrazia devono contrapporsi la qualità elitaria dell’aristocraticismo, lo spiritualismo, l’eroismo disinteressato del guerriero, la tradizione, il radicamento. Insomma una politica fatta più di evocazione suggestiva del mito e di estetica del gesto e dello stile esistenziale che di analisi razionale della realtà materiale, storica e sociale.

Nella prima parte del libro vengono considerati i primi anni dopo il crollo della Repubblica sociale e l’avvento della Repubblica e della democrazia. Per i fascisti italiani è il tempo del disorientamento, della difficoltà – per i più coinvolti con il regime di Salò – di nascondersi, di scappare, di cambiare identità o anche solo di passare inosservati, aspettando l’evoluzione della situazione interna al paese. Ma è anche il tempo della rivendicazione delle proprie convinzioni e dei primi tentativi di riorganizzazione, così come della accusa di codardia verso i “traditori” del 25 luglio e della elaborazione della figura del “proscritto”, cioè di colui che viene, ma soprattutto vuole, essere messo al margine della nuova società democratica ed antifascista che disprezza. La condizione del proscritto, rivendicata come segno distintivo ed elettivo, è quella che maggiormente accomuna i reduci di Salò e che ne rinserra le file. Figure di riferimento di quel primo periodo sono innanzi tutto Pino Romualdi, collaboratore di Pavolini e vicesegretario del Partito repubblicano fascista, che fin da subito cerca di stabilire contatti con i servizi segreti americani in funzione anticomunista e il “principe nero”, Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas. Il luogo dove il neofascismo inizia ad organizzarsi è Roma, in cui la presenza di un clero disposto ad aiutarli e a nasconderli, permette ai reduci di Salò di sfuggire alla cattura. Le prime azioni sono soprattutto atti velleitari e dimostrativi, che intendono recuperare lo spirito dell’arditismo e delle provocazioni squadriste in stile futurista del fascismo delle origini. Ma poco dopo comincia ad emergere anche un altro atteggiamento, quello che non disdegna l’idea dell’avvicinamento ai partiti conservatori del nuovo arco costituzionale e alla Democrazia cristiana in particolare; indirizzo che poi sfocerà nella fondazione del partito neofascista legalitario, il Movimento sociale italiano (MSI).

Il neofascismo italiano nasce in ogni caso dal trauma della sconfitta, che impone un processo di metabolizzazione e di ripensamento complessivo dell’esperienza del regime, che conduce i neofascisti a giudicare il fascismo regime come una “rivoluzione mancata”, soprattutto a causa delle componenti conservatrici della società italiana, che avrebbero usato solo strumentalmente il fascismo; oppure come “terza via” tra collettivismo comunista e liberismo capitalista; oppure, infine, come “rivolta” contro la modernità. Nel secondo e nel terzo caso c’è evidentemente la volontà di smarcare il fascismo dal suo passato per dargli la possibilità di rappresentare un’opzione politica per il futuro.  Tra il 1945 e il ’46 i neofascisti più disposti ad imboccare la via legalitaria individuano nell’anticomunismo la merce di scambio da offrire alle forze conservatrici in cambio di un allentamento dei provvedimenti penali e punitivi contro gli ex repubblichini. Spiega di seguito Vercelli come gli eventi del giugno 1946, il referendum istituzionale e il varo dell’amnistia Togliatti, mettano i neofascisti nella condizione di tornare ad agire più scopertamente rispetto ai mesi precedenti, separandosi definitivamente dai monarchici (che fondano un loro partito) e avvalendosi della scarcerazione di molti militanti che tornano a fare attivismo politico e si impegnano nella fondazione dell’MSI del dicembre del 1946.

Ma accanto alle iniziative politicamente legali, Vercelli richiama l’attenzione su una miriade di opuscoli, giornali, riviste, semplici fogli, pubblicazioni di ogni genere e tipo, inizialmente clandestini, a cui si aggiungono gruppi, altrettanto illegali, come l’Esercito Clandestino Anticomunista (ECA) o i FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), fondati da Romualdi stesso.  La prolificità editoriale dell’estrema destra neofascista, che si affianca a quella dei gruppi dell’attivismo politico militante, è un tratto costante del neofascismo italiano, dalle sue origini fino ad oggi, anche nei momenti di oggettivo e netto svantaggio, quantitativo e qualitativo, politico, culturale e sociale rispetto alla sinistra parlamentare ed extraparlamentare e attesta la presenza e la permanenza nel nostro paese di un’area politica, di un pezzo di società e di una parte dell’opinione pubblica inequivocabilmente fascisti, che, pur assumendo forme parzialmente diverse a seconda del mutare dei tempi e del contesto sociale, tengono fermo il riferimento al fascismo storico e ai suoi principi fondamentali.

Fin da subito, la prima distinzione interna alla destra estrema si sviluppa sull’alternativa tra l’accettazione «almeno formale e di circostanza, del parlamentarismo e delle istituzioni repubblicane» (p. 43), salvo prefiggersi lo scopo ultimo di sovvertirle se e quando possibile e la scelta eversiva della lotta senza quartiere ed esclusione di colpi contro l’assetto democratico della Repubblica italiana. La distinzione tra “eversione” e “legalità” va poi ulteriormente dettagliandosi, anche all’interno dello stesso partito ammesso alla legalità parlamentare, per esempio nelle posizioni dei reduci veri e propri, dei nostalgici del regime e della repubblica di Salò, i quali andranno via via perdendo posizioni, sia per evidenti ragioni generazionali sia per la passività e l’inconcludenza della posizione sul piano politico. Segue poi la posizione dei sostenitori della sola via legale, che si concretizza nel partito il quale però è chiamato ad affrontare fin da subito evidenti contraddizioni: i suoi dirigenti sono prevalentemente settentrionali e reduci di Salò, mentre l’elettorato è di gran lunga più consistente al Sud e legato al ricordo del «fascismo di regime, quello dai connotati notabiliari, fortemente conservatori» (p. 57). Sul piano ideologico poi, la “sinistra”, che recupera il programma di “socializzazione” di Salò, la suggestione della “terza via” e che si colloca su posizioni “antiamericane”, si scontra con le posizioni moderate aperte all’”atlantismo”, che sfoceranno più tardi nel collateralismo alla DC. Infine si configura anche la posizione, sostanzialmente eversiva, degli “spiritualisti”, ovverosia di coloro per i quali il fascismo come “idea” trascende le sue manifestazioni storiche particolari e si presenta come una “visione del mondo” che valorizza l’aspetto “spirituale” dell’uomo di contro a quello “economico-materiale” e pertanto individua i propri principi fondamentali nella “tradizione”, nella “comunità” e nella “identità” – vale a dire nella “razza” – nel “nazionalismo”, nella “gerarchia” come ”ordine naturale” che si regge sulla “disciplina”, nel rifiuto della modernità e dell’intero suo portato politico e culturale. Si tratta di quella parte dell’estrema destra neofascista che ha gravitato per molto tempo attorno a Julius Evola e che ancora oggi continua a richiamarsi a quel bagaglio di idee e che individua l’essenza e l’eccentricità del fascismo nella figura estetico-esistenziale del “legionario”, cioè del militante disciplinato, virile e combattivo che è «pronto a trasformare la propria esistenza in una continua impresa indirizzata al combattimento» (p. 47). È il “soldato politico”, parte di una élite aristocratica che si distingue dalla massa per destino, prima ancora che per volontà.

Ai suoi esordi il programma dell’MSI si concentra sull’anticomunismo, sul nazionalismo, sul richiamo ai progetti sociali della RSI, sull’idea di Stato forte e sul rifiuto della democrazia. Dopo pochi mesi di segreteria di Giacinto Trevisonno, durante la fase di gestione collegiale del partito e non potendo Romualdi assumere incarichi per ragioni giudiziarie, è Giorgio Almirante che dal giugno del ‘47 ricopre la carica di segretario della giunta esecutiva e di seguito quella di segretario del partito. Almirante intende mantenere un forte legame con l’esperienza della RSI e ripropone i temi dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo. Gli ultimi anni ’40 sono quelli dell’assestamento per l’MSI e nel frattempo i governi democristiani chiudono definitivamente la fase delle comunque blandissime epurazioni. Con la fine della segreteria Almirante (gennaio 1950), che viene sostituito da De Marsanich, è la parte moderata del partito a prevalere, per poi stabilizzarsi definitivamente con la scelta della linea del collateralismo nei confronti della DC, operata tanto dallo stesso De Marsanich, fino al 1954, quanto da Michelini, che guida il partito per ben quindici anni, fino al 1969. Neppure l’ingresso e l’assunzione di incarichi nel partito da parte di Rodolfo Graziani e di Junio Valerio Borghese, salutati con speranze sia dalla sinistra sociale dell’MSI sia dalla destra tradizionalista e spiritualista evoliana, producono un cambiamento della rotta politica moderata, ed è in questo contesto che nel 1956, Pino Rauti, su posizioni di tradizionalismo evoliano, esce dal partito e fonda l’associazione politico-culturale Centro Studi Ordine Nuovo (CSON).

Per Rauti – spiega Vercelli – «si trattava di trovare nuovi riferimenti alla tradizione culturale, ai simbolismi e alla mitografia neofascista. Ne derivarono alcuni risultati, destinati a lasciare un lungo segno. Il primo fu la piena e definitiva nobilitazione dell’impostazione evoliana, quella sospesa tra aristocraticismo, tradizionalismo, ed esoterismo» (p. 75). Il materialismo, l’edonismo, il consumismo, che trovano il loro equivalente giuridico-politico nel parlamentarismo democratico, devono essere combattuti attraverso forme di militanza politica che si richiamano ai movimenti legionari di estrema destra, come quello della Guardia di Ferro di Codreanu, nella Romania degli anni Trenta e Quaranta. Per superare la logica dell’alternativa tra Oriente e Occidente, viene elaborata la teoria dell’”Europa Nazione”, che – fa notare Vercelli – riprendendo l’idea nazista della “Fortezza Europa”, sfocia in una sorta di “europeismo suprematista”, che declina l’idea nazionalistica sul piano continentale europeo. Quando nel 1969, con il ritorno di Almirante alla segreteria del Movimento sociale, Rauti decide di rientrare nel partito, la componente più intransigente di Ordine Nuovo non sposa questa scelta rautiana e fonda il Movimento Politico Ordine Nuovo (MPON). Complessivamente l’esperienza di Ordine Nuovo, riflette Vercelli, costituisce «una pietra miliare nella storia della destra estrema italiana» (p. 75), sia perché molte delle sue idee sopravvivono all’organizzazione stessa e ricompaiono in altre formazioni e gruppi del neofascismo italiano fino ad oggi, sia perché «la sua traiettoria operativa s’incrociò più volte con lo strutturarsi di quel livello parallelo e non ufficiale di attività militare, lo Stay-behind, che in Italia già dal 1956 implicò la nascita dell’organizzazione Gladio» (pp. 78-79). Pertanto Ordine Nuovo è stato parte essenziale ed attore tra i principali di quella “strategia della tensione” che si è poi concretizzata nello “stragismo”, in stretta collaborazione con servizi segreti deviati ed appartati occulti dello Stato, tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, da piazza Fontana alla Stazione di Bologna.

Gli anni Sessanta della destra eversiva italiana si aprono con la fondazione di una nuova organizzazione – Avanguardia nazionale – ad opera, tra gli altri, di un rautiano già coinvolto nelle attività di CSON: Stefano Delle Chiaie. Osserva Vercelli che «Avanguardia nazionale si rifaceva alla RSI come a diversi aspetti del nazionalsocialismo, giudicando fattibile una battaglia contro la democrazia solo attraverso la formazione di militanti tanto disciplinati quanto animati da un fideismo totale, nello “stile legionario” che doveva contraddistinguere le avanguardie della “rivoluzione nazionale”» (pp. 82-83). L’organizzazione di Delle Chiaie e poi di Adriano Tilgher è apertamente favorevole a soluzioni golpiste ed intrattiene rapporti coi regimi militari dell’America latina, di Spagna, Portogallo e soprattutto Grecia. Si impegna negli scontri di piazza e all’interno del mondo studentesco e universitario; il suo coinvolgimento nelle trame eversive e terroristiche di quegli anni è tale che nel 1976 viene dichiarata fuori legge. Altri eventi rilevanti di quel decennio sono il cosiddetto “piano Solo”, ovvero il tentato colpo di Stato ordito dal comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovani de Lorenzo; l’uscita dall’MSI di Junio Valerio Borghese (1968), che dà vita al Fronte Nazionale, che due anni dopo sarà in prima fila nell’organizzazione del cosiddetto “golpe Borghese”. Una formazione politica dai progetti velleitari – tanto quanto il tentativo fallito di sovvertimento dell’ordine costituito – che, osserva Vercelli, ripropone vecchi cliché politici, che non vanno al di là della nostalgia del fascismo storico, proprio in un momento in cui, anche nell’area dell’estremismo di destra, sorgono nuovi fermenti e soprattutto l’esigenza di ripensare la militanza politica neofascista in modo indipendente dal passato.

Proprio per queste ragioni, in quegli anni hanno successo anche in Italia le idee di Jean-Francǫis Thiriart, fondatore nel 1962 di Jeune Europe, teorizzatore del “comunitarismo”, vale a dire di una confusa visione politica che intende proporsi come sintesi e quindi superamento dell’opposizione fascismo-comunismo, che riprende e corrobora l’idea di Europa Nazione, come “terza via” possibile nel mondo della contrapposizione tra blocchi, che, assumendo posizioni di antiamericanismo ed antisionismo, intende tanto opporsi al neoimperialismo, appoggiando i paesi non allineati o simpatizzando per il “guevarismo”, quanto rifiutare il materialismo edonistico ed il meticciato privo di radici, rappresentati dal modello statunitense. Idee che attraggono i giovani italiani cresciuti nell’area della destra radicale, in cerca di idee alternative tanto a quelle del conservatorismo legalitario dell’MSI, quanto a quelle del golpismo vecchio stampo. È da qui che iniziano a dipanarsi i fili di un percorso politico di lungo periodo, che ancora oggi è chiaramente presente nelle posizioni “rosso-brune” variamente espresse di volta in volta da Forza Nuova o da Casa Pound.

Il decennio 1969-1979, che Vercelli definisce “La stagione delle bombe”, è contraddistinto dai tentativi sempre più evidenti della destra estrema italiana di tagliare il cordone ombelicale col fascismo storico vissuto in modo nostalgico, perché «paralizzante rispetto a qualsiasi concreta azione politica» (p. 103). Da queste premesse prendono il via diverse linee di sviluppo politico: una è quella che si rifà al nazionalsocialismo e ad altre forme di fascismo di movimento e di militanza legionaria come le già ricordate Guardie di Ferro rumene o le Croci Frecciate ungheresi, perché ritenuto più capace di fornire una visione globale ed organica del mondo, il primo, e un modello valido di militanza, di fatto molto simile a quello evoliano del “soldato politico”, le seconde. Si tratta di idee che sostanziano le posizioni radicalmente eversive di Franco Freda, che con il suo “La disintegrazione del sistema”, ricorda Vercelli, diviene una figura carismatica di primissimo piano per il mondo dell’ultra destra italiana. Il passaggio successivo è quello della costituzione di nuove formazioni eversive, che prendano il posto delle ormai tramontate formazioni storiche (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), che rompano definitivamente – almeno nelle dichiarazioni – con l’MSI, considerato ormai come un partito di delatori, rinnegati, traditori compromessi col sistema che dovrebbero combattere e infine che, anche nel tentativo di competere con la forza superiore delle organizzazioni della lotta armata comunista, intraprendano la via dell’eversione terroristica, da interpretare nel modo più violento e duro possibile. Da queste premesse nascono sia Terza Posizione, di Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri, sia i Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo eversivo esclusivamente terroristico che in Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti trova l’esponente più rappresentativo della sua essenza criminale.

Sul piano ideologico Terza posizione ripropone la prospettiva “nazionalrivoluzionaria” e mescola idee vecchie e nuove del fascismo e del neofascismo italiani: allo “Stato organico” come superamento dei conflitti di classe, al fascismo come “terza via” e al “socialismo nazionale”, alla difesa della “tradizione”, al ruolo politico delle “avanguardie consapevoli”, si aggiungono la teoria dell’Europa Nazione, il rifiuto dell’atlantismo missino, il coinvolgimento popolare nella lotta rivoluzionaria, l’attenzione per le marginalità sociali e per il mondo giovanile e di conseguenza il radicamento nel territorio e nei quartieri con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione e protesta, il sostegno alle lotte di liberazione nazionale, ma in quanto interpretate come movimenti di salvaguardia delle tradizioni dei popoli. Delle due anime dell’organizzazione, una – precisa Vercelli – più spontaneista e una invece (quella di Fiore e Adinolfi) che ritiene «indispensabile dotarsi di una filiera gerarchica e paramilitare per garantire la continuità organizzativa» (p. 131), è la seconda a prevalere nettamente, mentre lo spontaneismo armato e violento trova nei NAR le condizioni ideologiche e pratiche per la sua realizzazione compiuta. «I NAR, quindi, si svilupparono da subito, di contro all’esperienza di Terza Posizione, come una struttura aperta e acefala, una sorta di sigla-brand sotto la quale potevano riconoscersi soggetti anche molto diversi, ma accomunati dall’identità fascista e dalla disposizione al ricorso alle armi» (p. 134). Fioravanti, la Mambro e tutti gli altri si rifanno, aggiornandola ed adattandola al contesto degli anni in cui i NAR sono operativi (1977-1982), alla tradizionale idea fascista del primato della prassi sulla riflessione, dell’azione che fonda e giustifica se stessa, della violenza come mezzo di lotta politica non solo lecito, ma assolutamente necessario, in quanto atto che permette l’affermazione della forza guerriera degli individui superiori e che pertanto ristabilisce il naturale ordine della disuguaglianza. L’esaltazione della violenza, del ricorso necessario alle armi, della spontaneità autogiustificante dell’atto di forza, da un lato e la debolezza e la labilità ideologiche, dall’altro, conducono i NAR ad intrattenere relazioni sempre più strette con organizzazioni della malavita comune, come la banda della Magliana o la mala del Brenta. Insomma, spiega Vercelli, l’esperienza politico-terroristica dei NAR si sviluppa in direzione di un nichilismo individualistico destinato a concretizzarsi in un bagno di sangue privo di alcun senso, cioè del tutto fine a se stesso. E ancora una volta sono suggestioni evoliane, quelle dell’ultima fase della riflessione del filosofo fascista, che impregnano e supportano l’agire della più violenta tra le formazioni dell’estrema destra eversiva italiana.

In quegli stessi anni, nell’area dell’estrema destra legale e in collegamento con il partito, si sviluppano però anche altre iniziative, che, di fronte alle difficoltà di conseguire concreti risultati politici, spostano l’asse della loro azione sul piano sociale e soprattutto culturale, cioè “metapolitico”, secondo l’espressione usata a destra e in questo contesto rientrano le esperienze dei tre Campi Hobbit (1977, 1978, 1980), che per la prima volta promuovono il fenomeno della musica e dei gruppi musicali di destra, oppure di esperienze e sperimentazioni artistiche, grafiche e comunicative che possano rappresentare forme nuove di aggregazione e mobilitazione per i giovani dell’estrema destra, stanchi delle modalità tradizionali missine e che in qualche modo possano emulare le forme aggregative dell’estrema sinistra, per competere con esse.

Con il passaggio al decennio successivo, in un quadro complessivo di riflusso e declino generalizzato della partecipazione e della militanza politiche, è proprio il piano “metapolitico” quello su cui a destra si lavora con più convinzione, attraverso un consistente numero di iniziative editoriali, spesso di bassissima tiratura e di effimera durata, ma che dimostrano in ogni caso una certa vivacità dell’area politica del neofascismo italiano, che si avvale anche delle idee della cosiddetta Nuova Destra di Alain de Benoist, che dalla Francia approdano in Italia. Il bagaglio ideologico rimane sostanzialmente sempre lo stesso degli anni e dei decenni precedenti, ma si lavora soprattutto sul piano “metapolitico” e “culturale”, anche attraverso il filtro della letteratura e dell’immaginario del genere fantasy e con il fine ultimo di conquistare una posizione di “egemonia culturale”, «intesa come capacità di influenzare in maniera decisiva l’opinione pubblica, orientandone gli atteggiamenti, le preferenze e, in immediato riflesso, le scelte» (p. 156).

L’ultima parte dell’interessante saggio di Vercelli è dedicata al periodo 1992-2019, dalla fine della prima Repubblica ad oggi, in cui va profilandosi lo scenario di un nuovo neofascismo, con la diffusione innanzi tutto del fenomeno dei gruppi skinhead (Azione Skinhead, Circolo Ideogramma, Veneto Fronte Skinhead, ecc) e con la loro capacità di infiltrazione delle tifoserie calcistiche ultras e poi con l’attivismo via via crescente delle due formazioni politiche più dinamiche in questi anni: Forza Nuova e Casa Pound Italia. La prima, nota Vercelli, è più evidentemente legata all’ex militanza e all’esperienza politica di Terza Posizione di Fiore ed Adinolfi e mantiene un’impostazione ideologica decisamente più dogmatica ed ortodossa che si incentra su tradizionalismo, vetero cattolicesimo, antisemitismo, omofobia, identitarismo, sovranismo, avversione per lo straniero e rifiuto del meticciato, antimondialismo, anticapitalismo, ma da intendersi non tanto come messa in discussione delle strutture del modo di produzione capitalistico, quanto piuttosto come avversione nei confronti del sistema bancario e finanziario internazionale (associato al sionismo). La seconda, seppur il suo armamentario ideologico non si discosti poi più di tanto e in modo sostanziale da quello di Forza Nuova, si propone come una formazione politica meno rigida e dogmatica, più capace di muoversi sul piano “metapolitico” e su quello del radicamento nel territorio e nei quartieri, con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione sociale. Nonostante che sul piano elettorale nazionale, entrambe le formazioni politiche abbiano raccolto esiti del tutto irrilevanti (diverso è il discorso riguardante le aree tradizionalmente di maggior radicamento), anche grazie alle recenti e sempre più frequenti relazioni di Casa Pound con la Lega di Salvini, gli obiettivi dei neofascisti di ottenere una posizione di maggiore visibilità e rilevanza e di “occupare” un’area dell’opinione pubblica e dell’immaginario diffuso con alcune delle idee fondamentali dell’estrema destra, sembrano purtroppo essere stati conseguiti. Ma questo è un discorso che merita maggiori approfondimenti e più accurate analisi, essendo una pagina ancora aperta e in fieri della storia “nera” italiana che dura esattamente da un secolo.

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Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente/4 https://www.carmillaonline.com/2015/06/06/prosperare-sul-disastro-cronache-dallemergenza-sociale-permanente4/ Sat, 06 Jun 2015 01:00:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23081 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Ponte MammoloRoma 11 maggio 2015. Mentre al Teatro Brancaccio si attende l’arrivo di Salvini, a Ponte Mammolo va in scena un altro spettacolo: a quasi undici anni di distanza dallo sgombero dell’Hotel Africa si replica lo stesso consunto copione.

Questa volta è il turno della “Comunità della Pace”, dimora precaria di centinaia di persone tra richiedenti asilo e migranti economici, provenienti in prevalenza da Ucraina, Eritrea e America del Sud. Un insediamento “storico”, che stava lì da dieci [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Ponte MammoloRoma 11 maggio 2015. Mentre al Teatro Brancaccio si attende l’arrivo di Salvini, a Ponte Mammolo va in scena un altro spettacolo: a quasi undici anni di distanza dallo sgombero dell’Hotel Africa si replica lo stesso consunto copione.

Questa volta è il turno della “Comunità della Pace”, dimora precaria di centinaia di persone tra richiedenti asilo e migranti economici, provenienti in prevalenza da Ucraina, Eritrea e America del Sud. Un insediamento “storico”, che stava lì da dieci anni senza creare grossi problemi. Come dicevo, il copione dello sgombero è sempre lo stesso, anzi peggio: mezz’ora di preavviso, polizia in assetto antisommossa, gente che piange e si sente male, altri che si affannano a portare via le proprie povere cose mentre la Municipale tenta di impedirglielo. Non c’è rispetto per nessuno: famiglie, bambini, donne anziane. Poi arrivano le ruspe a spianare ciò che era stata chiamata casa da tanta gente, sbattuta in strada priva di tutto e senza che nessuno si sia preoccupato di fornire alternative.

L’assessora ai servizi sociali della giunta Marino prima rivendica l’operazione (“stiamo smantellando un ghetto) poi, davanti alle associazioni inferocite, fa finta di cadere dalle nuvole, tentando di scaricare le responsabilità sul nuovo prefetto, che le rimanda al mittente (“è stato il Comune a chiederci lo sgombero“). Anche il prefetto Franco Gabrielli, arrivato fresco fresco dalla guida della Protezione Civile, non garantisce per gli sfollati né protezione né civiltà. All’atto dell’insediamento aveva dichiarato “Non sarò un prefetto col manganello“, e invece i manganelli la mattina dell’undici maggio vengono usati assai. Nel vuoto completo di qualsiasi assistenza da parte istituzionale, le associazioni e le realtà di movimento corrono a portare aiuto ai migranti, medicine, vestiti, cibo, acqua, tende da campeggio.

“Io ho visto tanti sgomberi, ma uno sgombero del genere non l’ho visto mai, proprio per la crudeltà, per il fatto che le persone non avevano avuto nessun avviso di questo sgombero… Sono state rase al suolo le loro baracche. Ho visto delle persone con problemi di cuore accasciarsi, piangere, donne, signore anziane.”1

Dopo lo sgombero, i rifugiati eritrei “transitanti”, che avevano fatto sosta alla “Comunità della pace” nel loro viaggio verso il Nord Europa, si avviano verso la stazione per riprendere il cammino. Gli “stanziali” vengono indirizzati dal passa parola verso il Baobab, il centro di via Cupa. Molti si rifiutano di andarci, perché sanno cosa li aspetta. Quello che una volta era la location per le cene di Mafia Capitale oggi è ridotto oltre i limiti del collasso: più di 500-600 migranti per 194 posti letto. Molti dormono per terra nei corridoi, nel piazzale di fronte allo stabile2, e manca il cibo.

A Ponte Mammolo rimangono accampate nel parcheggio davanti alle macerie della “Comunità della pace” un centinaio di persone che non sanno più dove andare. Il Comune, graziosamente, due giorni dopo tenta di togliergli anche l’acqua della fontanella pubblica3.

Le ruspe ai tempi di Veltroni. Sopra: le ruspe ai tempi di Marino.

Luca Odevaine e le ruspe ai tempi di Veltroni. Nella foto in alto: le ruspe ai tempi di Marino.

Ai tempi dello sgombero dell’Hotel Africa, i DS romani sbandieravano sui muri della città: “Alemanno fa demagogia, mentre la giunta Veltroni ha trasferito 4.000 persone in cinque anni” (“trasferimento”, nel lessico veltroniano, era sinonimo di sgombero)4. Marino si inserisce dunque nell’alveo di una lunga tradizione, che non suscita lo stesso scandalo dei proclami di Salvini ma in compenso li mette in pratica su larga scala.

C’è però una discontinuità rispetto ai tempi di Veltroni e di Alemanno: per gli sfollati non viene previsto neanche più lo sbocco nei centri di accoglienza del sistema corrotto e clientelare delle cooperative di Mafia Capitale. Per gli sfollati non viene previsto più niente.

Migranti sgomberati da 5 giorni vivono per la strada.

Ponte Mammolo: ciò che rimane.

Nell’ansia di accondiscendere alle pulsioni, ai patemi ed ai livori più beceri espressi in questi mesi da comunità escludenti, che trovano nella xenofobia l’unico motivo di coesione, Marino sembra abbracciare, fuori tempo massimo, la logica della “tolleranza zero”, nonostante che da anni essa abbia dimostrato il suo palese fallimento. Chissà se ne saranno soddisfatti i cittadini “anti degrado” di Ponte Mammolo, ora che hanno ottenuto, al posto del borghetto dei migranti, il bel risultato di una nuova immensa discarica.

La logica degli sgomberi è devastante per la vita delle persone e delirante dal punto di vista politico. Nuovi sgomberi, infatti, generano nuove emergenze e nuovi conflitti che si allargano in maniera esponenziale nella città, ogni volta che le vittime delle ruspe affluiscono nell’uno o nell’altro quartiere. Rincorrendo la destra sul suo terreno, Marino non fa che espandere il brodo di coltura nel quale la destra prolifera, e nemmeno si accorge dell’accurata regia che da un anno a questa parte unisce le “rivolte spontanee” contro gli immigrati con un unico filo nero. Vediamo di dipanarlo.

Un filo nero

La messa in scena inizia a Settecamini nell’aprile 2014, quando in piena campagna per le europee, un volantino aizza alla protesta contro l’ipotesi di apertura di un centro per richiedenti asilo. E la protesta inizia giusto in tempo per fare da sfondo alla prima passerella romana della campagna elettorale di Borghezio, scortato dai neo alleati di Casa Pound. È l’inaugurazione di un nuovo sodalizio, di un progetto di espansione che ha trovato una sua sponda

Mario Borghezio e Stefano Delle Chiaie alla convention romana.

Mario Borghezio e Stefano Delle Chiaie alla convention romana neofascista.

istituzionale. L’alleanza si rinsalda in giugno, quando Borghezio partecipa alla convention romana neofascista, assieme a vecchi arnesi come Stefano Delle Chiaie, Gabriele Adinolfi, ex fondatore di Terza Posizione  ora “ideologo” di Casa Pound, e Adriano Tilgher.

A maggio l’estrema destra si organizza nel Caop (Coordinamento azioni operative Ponte di Nona) per cercare di alimentare tensioni xenofobe in quel quartiere, senza riuscirci più di tanto. A luglio il filo nero si dipana a Torre Angela, dove la rivolta dei residenti scoppia sulla base di voci completamente infondate sull’apertura di un centro di accoglienza per 1200 rifugiati. La notizia è falsa, e non si capisce chi l’abbia messa in giro, ma serve a tenere “ben caldo” il quartiere. Intanto ai presidi, appaiono striscioni con le svastiche del gruppuscolo Azione Frontale. Sempre a luglio il comitato Fenix 13, vicino a Casa Pound, comincia a Casalotti la campagna contro il centro Enea, struttura di accoglienza dell’Arciconfraternita. A settembre a Torpignattara soggetti di chiara connotazione destrorsa indicono un’assemblea per soffiare sul fuoco. Un fuoco pericoloso, che porta due mesi dopo al pestaggio a morte di Shahzad, un giovane pachistano. Poi è la volta di Corcolle, dove il racconto mooolto strano5 di un attacco  da parte di immigrati a due autobus di linea scatena la caccia al nero nel quartiere, alimentata anche dalla notizia, del tutto infondata, del tentativo di stupro di una quindicenne. Viene pestato un brasiliano che risiede a Corcolle da 20 anni, amico di tutti. I picchiatori non lo hanno riconosciuto, perché vengono da fuori6.

Giorgia Meloni a Tor Sapienza

Giorgia Meloni a Tor Sapienza.

E’ un’escalation che culmina a Tor Sapienza, con tre giorni di scontri, pestaggi di immigrati e l’assalto al centro per minori e richiedenti asilo gestito da “Un Sorriso”, che guarda caso è l’unica cooperativa refrattaria al monopolio degli appalti di Mafia Capitale. L’attacco è condotto da una settantina di soggetti incappucciati ed addestrati allo scontro. Dice un residente: “Gente che non è del quartiere c’è dietro a questa cosa. C’è una regia dietro, li ho visti con i miei occhi. Sono arrivati qui e hanno cominciato a istruire, hanno preparato. Io stesso li ho sentiti dire alle donne di parlare di ‘sti tentati stupri, di furti, di calcare la mano, di fare più pesante quella che è la situazione reale. Gente che non è de qua. De Casa Pound per esempio. So’ dieci giorni che vengono.”7.

Gramazio a un corteo di Casa Pound- 2014.

Luca Gramazio a un corteo di Casa Pound- 2014.

Il resto è storia nota. Nei giorni che seguono, Tor Sapienza diventa il palcoscenico per eccellenza, sfilano Borghezio e l’immancabile Giorgia Meloni a uso e consumo di microfoni e telecamere.

Il disagio delle periferie romane conquista sui teleschermi il suo momento di notorietà, ora che la rabbia ha un obiettivo facile. Il forzaitaliota Giordano Tredicine chiede a gran voce la chiusura della struttura gestita da “Un Sorriso”, mentre Luca Gramazio, capogruppo Pdl alla Regione e figlio di Domenico (fascista pesante della storica sezione di piazza Tuscolo), accusa Marino di abbandonare le periferie a degrado e insicurezza. Salvini imperversa contro l’immigrazione a reti unificate.

Giorgia Meloni

Ops !

Fino a che l’inchiesta su Mafia Capitale non mette, almeno per un attimo, tutti a tacere. Gramazio perché è un indagato della prima ora, Tredicine perché forse sospetta di diventarlo molto presto.  La Meloni, temporaneamente, si eclissa, sepolta dalla montagna di merda piovuta sul suo fratello d’Italia Gianni Alemanno. Diventerebbe un po’ dura per lei tornare, a botta calda, fra gli abitanti delle periferie a spiegare dove sono sparite, durante l’era Alemanno, le risorse che potevano alleviare i loro problemi, o sbraitare contro gli immigrati “che prendono 40 euro al giorno“, ora che è diventato palese chi se li intasca.

Riccardo Mancini e Gianni Alemanno

Riccardo Mancini e Gianni Alemanno

Ma è solo un attimo. Grazie al vasto coinvolgimento nell’inchiesta del PD,  Giorgia può tornare a pontificare alla grande contro la sinistra corrotta. Glissando magari su un paio di cosette: come per esempio le 854 assunzioni clientelari all’Atac di Alemanno, o l’inchiesta sul fedelissimo Riccardo Mancini, un altro ex Avanguardia Nazionale, inquisito (e ieri condannato in primo grado) per estorsione e tangenti nell’acquisto dei filobus per il Comune di Roma.

Oppure sul fatto che nel comminare ad Alemanno (assieme ad un pezzo della sua vecchia giunta) l’avviso di garanzia per associazione a delinquere di stampo mafioso,  venga ravvisato nella sua amministrazione un salto di qualità del sistema corruttivo, poiché “molti soggetti collegati a Carminati da una comune militanza politica nella destra sociale ed eversiva e anche, in alcuni casi, da rapporti di amicizia, avevano assunto importanti responsabilità di governo e amministrative nella capitale”.

Ma Giorgia confida nella memoria corta dei romani, così come vi confida Salvini, che imbarca fra le sue truppe le seconde file di Alemanno … almeno quelle ancora a piede libero. Gente che fino a ieri faceva il portaborse degli inquisiti di Mafia Capitale, come dimostra un gustosissimo servizio di Gazebo (guardalo qui).

Nel frattempo i fasci, forse stanchi delle borgate, si spostano nelle periferie più chic, fra i ricchi di La Storta che si oppongono all’apertura di un centro di accoglienza per i profughi in mezzo alle loro ville e campi da tennis. La protesta si arricchisce di nuove retoriche “contro gli speculatori delle cooperative che ci fanno i soldi sopra“, ma mantiene vive anche vecchie pratiche: in attesa di poterlo fare con i rifugiati, le ronde si allenano aggredendo gli operai stranieri che lavorano alla ristrutturazione del centro (vedi il servizio di La 7 qui).

Va detto, a onore del vero, che con innegabile capacità la destra romana è riuscita più di altri a prosperare sul disastro, prima contribuendo notevolmente alla sua creazione e poi cavalcandone gli effetti.

Corruzione e Liberazione

San Trifone

San Trifone

Sin dai tempi della segreteria Piccoli, vicesegretario De Mita, Cl aveva petulantemente chiesto (e in parte ottenuto) di accreditare una sua cooperativa, La Cascina, nel mercato dei servizi di ristorazione. Non c’era alcunché di illecito: solo che La Cascina, non contenta di essere stata ammessa nella mensa universitaria romana [.] intese proporsi anche per l’affidamento del servizio di mensa autogestito dall’ente comunale di consumo per i numerosissimi dipendenti del comune, retto dal democristiano Pietro Giubilo. Dietro quei servizi, come altri organizzati presso enti pubblici, proliferavano interessi economici d’ogni sorta“.

Era il 2004, e Giovanni Di Capua così descriveva nel suo libro “Delenda Dc le attività della cooperativa finita in questi giorni sotto  i riflettori per l’inchiesta sulle tangenti del C.A.R.A. di Mineo. La Cascina affondava dunque saldamente le sue radici  nelle logiche e nelle pratiche della prima repubblica, ancor prima di accogliere sotto il suo ombrello consortile altre cooperative del settore sociale: Domus Caritatis, Tre Fontane, Osa Mayor, raggruppate nel consorzio Casa della Solidarietà

Queste ultime erano strutture nate grazie all’impegno di Francesco Ferrara, un volenteroso ragazzo della parrocchia della Natività di via Gallia, regno dell’influente monsignor Pietro Sigurani. A questo volenteroso ragazzo il cardinale Camillo Ruini, all’epoca presidente della CEI, affidò nel ’94 le sorti dell’antica Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone.

Camillo Ruini

Camillo Ruini.

Gli disse: “Caro Francesco, ti affido una scatola vuota…“. E Francesco quella scatola gliela riempì di cooperative, di appalti e di soldi. Le coop erano strettamente controllate da San Trifone, dato che le loro posizioni apicali venivano ricoperte, all’epoca, dal presidente e dal camerlengo dell’Arciconfraternita. Questo almeno fino all’ottobre 2012, quando il Vicariato di Roma impose la separazione fra la struttura religiosa e le sue filiazioni commerciali. Nel novembre scorso il Vicariato attivò la procedura di estinzione della San Trifone, giusto poco prima che l’inchiesta su Mafia Capitale divenisse pubblica8. Vedi mai che lo Spirito Santo non gli abbia fatto una soffiata dell’ultimo momento ?

Ma qualche dubbio il Vicariato avrebbe potuto averlo pure prima, visto che i metodi di aggiudicazione degli appalti e l’accordo di cartello fra le cooperative di San Trifone e quelle di Buzzi e Carminati erano palesi da anni, denunciate più volte da giornalisti, dai compagni ed anche da voci interne al mondo cattolico.

Probabilmente da questo mondo, in forma anonima, deriva il primo dossier del 2009 sui “manager del sociale”, che fa i conti in tasca all’Arciconfraternita, descrivendone la posizione quasi monopolistica sul mercato dei rifugiati e volumi di affari poco consoni ad una propensione caritatevole9. Già da allora, gli anonimi, svelano la correlazione poco cristiana fra la politica degli sgomberi e gli affari delle cooperative del San Trifone: “E’ evidente come dietro la strategia degli sgomberi pesi un giro d’affari imponente, un business che nel silenzio e sotto traccia si fa sulle spalle di occupa spazi abbandonati con il fine di avere il più semplice dei diritti, un tetto dignitoso sotto cui stare“.

Il Centro Enea.

Il Centro Enea.

Nel 2010 il giornalista Enrico Campofreda sul settimanale Terra prova a scavare negli affari dei “manager di Dio”, cercando invano i documenti di gara di alcuni servizi, dispersi nelle stratificazioni cartacee degli uffici dell’era Veltroni e dell’era Alemanno. Niente da fare: spariti quelli della convenzione con il “Centro Enea” per l’accoglienza dei richiedenti asilo, gestito dall’Arciconfraternita, e quelli (relativi allo stesso Centro) per la mediazione linguistica, l’assistenza psicologica e legale, l’animazione, le pulizie e le manutenzioni, in parte affidate all’Eriches e in parte alla Cooperativa Arte Integrale dove lavoravano Mambro e Fioravanti. All’Arciconfratenita tutti giuravano che le gare c’erano state, ma nessuno riesciva a dimostrarlo.

Campofreda riscontrava altre stranezze nell’appalto della Sala Operativa Sociale, un servizio per l’assistenza ai senza fissa dimora che valeva 2.108.000 euro l’anno (dati 2007). Assegnata all’Arciconfraternita dai tempi di Veltroni, con Alemanno la Sala Operativa venne sottoposta a nuova gara. E benché i dirigenti dell’Arciconfraternita si affacciassero irritualmente alle riunioni della commissione aggiudicatrice, le cooperative più amate da Ruini non riuscirono a vincere. Una volta accertata la loro sconfitta … venne annullato il bando10.

Nel 2011 apparve su “Redattore sociale” la notizia dell’epurazione, in atto nei servizi per le tossicodipendenze, del terzo settore non allineato con gli orientamenti della giunta Alemanno, e della sua sostituzione con associazioni e cooperative “di area”. Strutture con lunghissima esperienza nel settore delle sostanze vennero rimpiazzate da altre prive di qualsiasi curriculum specifico. Neanche a dirlo, fra queste vi era pure la Domus Caritatis11.

Gli illegali siete voiNel 2012 Antonio Sanguinetti, di Esc-Infomigrante, denunciava la concentrazione anomala dei progetti di assistenza in mano a pochi vincitori, rilevando come la Domus Caritatis e il consorzio Casa della solidarietà gestissero  più della metà dei rifugiati della provincia di Roma: “Una nuova forma di monopolio o in ogni caso di accaparramento di fondi pubblici, il tutto convive con una qualità dei servizi erogati a dir poco irrispettosa dei diritti umani”12.

Ma forse le cooperative del Santo Trifone vincevano perché offrivano un servizio di eccellenza ?

Non proprio.  La notte del 31 ottobre 2009 via Pietralata venne svegliata dalle sirene delle ambulanze dirette al  Centro per richiedenti asilo gestito dall’Arciconfraternita. Questo è il racconto di Margherita Taliani, all’epoca coordinatrice del Centro: “Alle due di notte ricevetti la telefonata dell’operatore che allarmato mi parlava d’uno stato di malessere diffuso, molti rifugiati lamentavano forti dolori addominali, vomitavano e svenivano. Era preoccupatissimo e ripeteva “Margherita che facciamo?” Che vuoi fare? avvisa immediatamente il 118… Si erano sentiti male in una quarantina e undici furono ricoverati nei Pronto Soccorso del Pertini, San Giovanni e Policlinico Casilino. Qualcuno finì addirittura al San Andrea. Il mattino seguente ho contattato i responsabili dell’Arciconfraternita riferendo dell’intossicazione alimentare che s’era verificata dopo la cena consumata come sempre fra le 22 e le 23, col cibo fornito in confezioni cellophanate dalla mensa del Centro Enea. Fui aggredita telefonicamente da Tiziano Zuccolo (camerlengo dell’Arciconfraternita) urlava come un ossesso “Chi ha chiamato il 118? … La diagnosi per i ricoverati, comunque dimessi nel giro di 12-24 ore, fu intossicazione da cibo, esaminai io stessa i referti”. Ma la versione ufficiale diede la colpa a una infezione virale13.

ambulanzaEvidentemente le coop sociali dell’Arciconfraternita avevano mutuato il menù da La Cascina, già assurta ai disonori della cronaca per aver somministrato a scuole ed ospedali baresi “cibi scaduti, putrefatti o con alta carica batterica”, e per l’infezione da salmonella di 182 bambini nelle mense scolastiche romane. La qualità del cibo imposto ai rifugiati (che nella maggior parte dei centri non possono cucinare) spiega il perché spesso venga buttato via, con sommo gaudio della propaganda razzista che può così titolare: “i clandestini ospiti nei centri di accoglienza buttano il cibo nei cassonetti“.

Ad una gastronomia degna di Lucrezia Borgia, l’Arciconfraternita affiancava una gestione alloggiativa ancor meno brillante. Nel 2012 Fabrizio Santori, esponente del Pdl e presidente della commissione capitolina per la sicurezza, dovette occuparsi della comunità di via Arzana, vicina all’aeroporto di Fiumicino, perché dava fastidio al vicinato. Scoprì che la struttura gestita dalla Domus Caritatis stipava 10 persone in alloggi di 35 metri quadri. Peggio di un carcere. Eppure per quel servizio incassava 12 mila euro al mese14.

Perché il trucco stava lì: i 40 euro al giorno per ogni rifugiato adulto e gli 80 per ogni minorenne venivano incassati a prescindere dalla qualità dell’accoglienza, senza nessun controllo. Il profitto delle cooperative derivava dall’acquisto di materie prime alimentari scadenti, dall’affitto di strutture abitative inadeguate, dall’assenza dei servizi educativi, medici o legali per i migranti, promessi solo sulla carta. E come per ogni capitalista del sociale che si rispetti, dallo sfruttamento e dalla precarietà dei propri lavoratori.

E’ questa la situazione descritta dagli operatori dei centri creati per l’emergenza Nord Africa, nelle interviste raccolte da Infomigrante:

(Continua)


  1. Testimonianza di Raffaella Federichino di “Medici per i Diritti Umani“. Ascoltala qui. Altre cronache dello sgombero su Radio Onda Rossa, e video qui e qui

  2. Redattore sociale, L’odissea dei migranti di Ponte Mammolo, in Comune.info, 27 maggio 2015. 

  3. C’era un brutta epidemia di scabbia … la situazione era già grave da diversi giorni. Ma soprattutto la cosa più grave, vista questa situazione, è una sola: che in teoria lo sgombero è stato ordinato proprio per risolvere il problema epidemico della scabbia. Pur sapendo che l’acqua, la pulizia, l’igiene personale, è il primo meccanismo, assieme a quello farmacologico che è il benzoato, per sconfiggere la scabbia. Lì attorno ci sono i bagni del parcheggio, chiusi da sempre… e una fontanella pubblica. La seconda giornata, dopo che i ragazzi di Casale Alba2 avevano portato delle docce solari, rimanendo attaccati a questo … la mattina del giorno successivo, dopo che per fortuna i ragazzi si erano lavati e cambiati e preso il benzoato, era stata chiusa l’acqua. Chiamato le istituzioni nessuno sapeva nulla”. Testimonianza di Raffaello Cosentino, medico di “Ambulanti”. Ascoltala qui

  4. Federico Bonadonna, Mafia Capitale: c’erano una volta Veltroni e il modello Roma, Popoff Quotidiano, 24 dicembre 2012. 

  5. Una trentina di immigrati in attesa – sostiene l’autista Elisa De Bianchi – scagliano una bottiglia sul finestrino laterale dell’autobus rompendolo. Succede, su quel tratto di linea, perché gli autobus spesso non si fermano quando vedono gli immigrati, costringendoli a fare lunghi tratti a piedi. La De Bianchi, prosegue la corsa. Ma all’altezza del capolinea si trova la strada sbarrata dagli africani che a suo dire l’avrebbero inseguita. Evidentemente volano, o sono tutti atleti con uno scatto degno di Ben Johnson dopo il doping. La De Bianchi dice che gli immigrati spaccano tutto, ma non chiama la polizia: chiama invece un suo amico fascista che arriva in motorino e mette in fuga, da solo i trenta aggressori. In seguito, l’autista non presenterà alcuna denuncia del fatto alle autorità competenti. La dinamica viene spiegata in: Riccardo Staglianò, Una settimana a Corcolle, in “Il Venerdì di Repubblica”, 28/11/14. 

  6. Leonardo Bianchi, Come i neofascisti provano a prendersi le periferie romane, Internazionale dicembre 2014. 

  7. Servizio di Piazza Pulita/La 7 del 18 novembre 2015 

  8. Vicariato “estraneo” all’attività di Domus Caritatis e Casa della Solidarietà, Romasette, 9 dicembre 2014 

  9. Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone. Il business dei manager del sociale arriva agli sfratti e agli sgomberi

  10. Enrico Campofreda, Il business dei rifugiati, Parte I, Terra, giugno/luglio 2010. 

  11. I finanziamenti del settore tossicodipendenze

  12. Antonio Sanguinetti, Vite in emergenza, tra cricche, isolamento e indeterminatezza, MeltingPot, 31 marzo 2012. 

  13. Enrico Campofreda, Il business dei rifugiati, Parte II, Terra luglio 2010. 

  14. Michele Sasso, Francesca Sironi, Chi specula sui profughi, L’Espresso, 15 ottobre 2012. 

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Trieste libera https://www.carmillaonline.com/2013/09/30/trieste-libera/ Mon, 30 Sep 2013 21:55:25 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9638 di Claudia Cernigoi

fintadoganaMTLTrieste si è dimostrata una volta di più una città particolare: in Italia si vuole cacciare via la “casta”? noi di più, a Trieste c’è un movimento che vuole direttamente mandarla via, l’Italia. Si tratta del Movimento Trieste Libera (MTL), che domenica 15 settembre ha portato in piazza, in nome del ripristino del Territorio Libero di Trieste, così come sancito dal Trattato di pace del 1947, 5.000 persone (stima della scrivente, la Questura ne ha stimate 3.500, così riportate dal quotidiano locale “il Piccolo”, mentre gli organizzatori [...]]]> di Claudia Cernigoi

fintadoganaMTLTrieste si è dimostrata una volta di più una città particolare: in Italia si vuole cacciare via la “casta”? noi di più, a Trieste c’è un movimento che vuole direttamente mandarla via, l’Italia. Si tratta del Movimento Trieste Libera (MTL), che domenica 15 settembre ha portato in piazza, in nome del ripristino del Territorio Libero di Trieste, così come sancito dal Trattato di pace del 1947, 5.000 persone (stima della scrivente, la Questura ne ha stimate 3.500, così riportate dal quotidiano locale “il Piccolo”, mentre gli organizzatori hanno parlato di 6.000 ed anche 8.000, a mio parere non molto credibili), comprese delegazioni della Liga Veneta e dall’ex Zona B.

Considerando che la manifestazione per Trieste italiana del mattino (organizzata da un Comitato Trieste Pro Patria, supportato da destre di vario tipo, più o meno radicali e più o meno moderate, dalla Lega nazionale e dalle associazioni degli esuli giuliano-dalmati, più i redivivi PLI e PSI) ha mobilitato non più di 300 persone (sempre stima della scrivente, le stime ufficiali ne davano intorno ai 200), ciò dovrebbe quanto meno aprire delle perplessità sul sentimento patriottico della Trieste di oggi nei confronti dell’Italia.

Un movimento che si definisce “né di destra né di sinistra” e che comprende per lo più “gente della strada”, l’Uomo (e la Donna, ovvio) Qualunque sono stati resuscitati, merito dei guru dell’indipendentismo che hanno convinto i triestini che l’unica soluzione per ridare vita alla città sia staccarsi dall’Italia.

Con i dovuti distinguo, che approfondiremo poi, l’idea non è originale, anche la Lega Nord, la Liga Veneta, le Leghe meridionali, quanti altri erano e sono tuttora convinti che la panacea per il rilancio delle economie locali sia uscire dal controllo di “Roma ladrona”? sarà casuale che negli ultimi mesi una sessantina di comuni del Veneto abbiano chiesto un referendum per uscire dall’Italia? (referendum che, va precisato, non può svolgersi legalmente, dato che costituisce reato la propaganda per staccare parti d’Italia dal territorio nazionale).

Il caso del TLT è però diverso, perché il Territorio Libero di Trieste era stato costituito dal Trattato di pace del 1947, firmato anche dall’Italia, che quindi aveva accettato il distacco delle allora Zone A e B dal territorio italiano. In sintesi, il trattato di pace, oltre a delimitare i confini tra Italia e Jugoslavia, aveva creato un piccolo stato autonomo amministrato provvisoriamente (in attesa della nomina di un Governatore da parte delle Nazioni Unite) da governi militari Alleati; lo staterello comprendeva l’attuale provincia di Trieste (Zona A con amministrazione angloamericana) ed una parte dell’Istria, fino alla linea del fiume Quieto (Mirna, oggi in Croazia), amministrata dalla Jugoslavia (Zona B). In tutto un territorio di poco più di 700 kmq., con capitale Trieste.

Successivamente, con il Memorandum di Londra del 1954, i due territori erano stati affidati in amministrazione fiduciaria ad Italia e Jugoslavia, che poi con il Trattato di Osimo del 1975 avevano sancito il ritorno definitivo della sovranità italiana e jugoslava sulle due zone in amministrazione; e qui facciamo subito chiarezza anche su un’altra bufala che viene fatta girare (non solo dal MTL ma anche dalla destra irredentista che non ha mai accettato che l’ex Zona B sia passata alla Jugoslavia – oggi Slovenia e Croazia): non è vero che il Trattato di Osimo non è mai stato ratificato, la ratifica è avvenuta con la Legge n. 73/77 d.d. 14/3/77.

Ora, prima di prendere in mano i documenti per capirne di più, facciamo un breve excursus storico.

L’origine storica del progetto di un Territorio Libero intorno alla città di Trieste può essere fatto risalire alla primavera del 1944, quando, in preparazione di un convegno con i dirigenti dell’Osvobodilna Fronte (OF, il Fronte di Liberazione sloveno a Trieste), il Comitato di Liberazione Alta Italia (CLNAI) era intenzionato a chiedere, come da indicazioni britanniche, che Trieste fosse dichiarata “città libera” e non che ritornasse all’Italia, perché questo era l’unico modo per impedire che passasse alla Jugoslavia. Tale progetto (“Trieste città libera”) era stato concepito dopo colloqui tra il conte Carlo Sforza (ministro degli esteri nel governo Badoglio) e gli azionisti Leo Valiani e l’avvocato triestino Emanuele Flora. Nello stesso periodo un ambiguo personaggio triestino, Giorgio Bacolis, massone e sedicente pastore metodista (della Chiesa wesleyana, collegata alla massoneria) aveva dato alle stampe un pamphlet intitolato “Libera Trieste” e cercato contatti con il CLNAI proprio su queste basi, ma si rivelò poi essere un informatore dell’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia, pagato dal commissario Gaetano Collotti per fare arrestare diversi esponenti del CLN giuliano e di un “Comitato Trieste città libera”, del quale troviamo notizie proprio tra i documenti conservati da Collotti nella sua fuga da Trieste e sequestrati dai partigiani di Treviso che lo arrestarono (e fucilarono) negli ultimi giorni di guerra. Copia di questi documenti si trova ora presso l’Archivio dell’ANPI di Trieste (Busta 10) ed in essi leggiamo che il “Comitato Trieste città libera” era stato costituito in città da elementi azionisti italiani e da antifascisti sloveni che intendevano “mettersi sotto la protezione degli angloamericani, che li aiuterebbero affinché Trieste diventi porto franco”, non avevano preclusioni a collaborare con l’OF, ed avevano contatti con il CLNAI e gli angloamericani a Milano, che nel novembre 1944 li finanziarono con ben 25 milioni di lire per la loro attività.

corteo15settembreTrieste Tra gennaio e febbraio 1945 Collotti operò diversi arresti e nel corso delle sue indagini venne a scoprire che in città esisteva un (citiamo dai suoi rapporti) “gruppo austriacante che sotto gli alti auspici del Gauleiter Rainer – traditore del Reich – tendevano ad una Trieste rientrata in seno all’impero Austriaco risorto sullo sfacelo del Reich”. In pratica le autorità naziste (di nazionalità austriaca e non germanica), in collaborazione col prefetto (di nomina nazista) Bruno Coceani avrebbero avuto il progetto (del quale facevano parte anche industriali triestini come gli armatori Cosulich) per salvare il salvabile contattando gli angloamericani al momento della caduta del Reich, progettando per Trieste una sorta di protettorato austriaco con il beneplacito degli Alleati occidentali.

Tale progetto, come visto, non si è mai realizzato, ma negli anni è sempre esistito a Trieste un Movimento indipendentista, dal vecchio Movimento TLT fondato da Giovanni Marchesich (più volte eletto al Consiglio comunale), alle variazioni sul tema del figlio Giorgio Marchesich, che dopo avere tenuto in piedi il movimento per alcuni anni aderì prima alla Lista per Trieste e poi alla Lega Nord; successivamente rifondò il movimento indipendentista come Nord Libero e poi come Fronte Giuliano; negli ultimi anni si è dedicato alla formazione dei Volontari Verdi del Triveneto (presidente, nel 2009, Mario Borghezio) “ovvero la componente indipendentista della Lega Nord” (qui).

Interessante connection nel 1997 quella che vide come portavoce del Fronte Giuliano l’attuale direttore del periodico neoirredentista L’Arena di Pola nonché asserito “segretario” di un sedicente Libero Comune di Pola in esilio, il giornalista radicale (in passato radicale antiproibizionista, poi radicale trasversale) Paolo Radivo, quando tra Fronte Giuliano e vari esponenti dell’associazionismo degli esuli istriani vi fu un’unità di intenti sulla proposta di ricreare il Territorio Libero, come testa di ponte per (si legge in un loro volantino dell’epoca) il “resto dell’Istria, a Fiume e alla Dalmazia, se diventassero delle Repubbliche indipendenti, gli esuli potrebbero tranquillamente farvi ritorno assumendone anche la rispettiva cittadinanza, finalmente liberi dal giogo colonialista zagabrese”.

Nella memoria e nell’immaginario triestino il mito del TLT è rimasto vivo e presente, considerando anche il fatto che da quando l’Italia è ritornata a Trieste ha fatto di tutto per affossare l’economia locale, relegando una città che era stata il porto della Mitteleuropa, industriosa e commerciale, ad una città costretta a vivere di commercio al minuto e di assistenzialismo, con le fabbriche che chiudevano una dopo l’altra, la dismissione dei cantieri e l’abbandono della portualità, che provocarono l’emigrazione di migliaia di triestini negli anni ’50, diretti in America e soprattutto in Australia (si parla tanto dell’esodo istriano dai territori ceduti alla Jugoslavia, ma nessuno parla dell’esodo dei triestini costretti ad emigrare per il ritorno dell’Italia – “la madre ritorna, i figli partono”, si diceva a quei tempi).

È sempre esistito quindi uno zoccolo duro di filo indipendentisti, in ricordo del periodo tutto sommato positivo del Governo Militare Alleato, alimentato dal sogno di una Trieste come Montecarlo o come Singapore (!), ma il Movimento Trieste Libera stavolta sembra essere riuscito ad andare oltre a tutto quanto si è visto nel passato. Un fenomeno curioso, da analizzare.

Dopo alcune iniziative di carattere ambientalista organizzate dal movimento Greenaction Transnational di cui Roberto Giurastante era il portavoce, il gruppo iniziò a parlare di non sovranità italiana sul TLT e pertanto della non legittimità delle scelte in materia ambientale dello Stato italiano. Nel 2011 il Comitato per il Porto Libero di Trieste (Free Port Trieste) diede vita ad una serie di iniziative pubbliche per contestare la sovranità italiana sul TLT soprattutto in riferimento all’uso del Porto vecchio, e successivamente si costituì il Movimento Trieste Libera, che vide il sostegno stampa del settimanale La Voce di Trieste diretto dal giornalista Paolo G. Parovel.

Un paio di anni fa si svolse la prima festa di “Trieste Libera”, con un’interessante mostra sul periodo del Governo Militare Alleato, ed un buon successo di pubblico, che faceva la fila per farsi rilasciare le carte d’identità del Territorio Libero.

I nomi degli attuali organismi dirigenti non si trovano nel sito Trieste Libera, ma si trovano in un articolo pubblicato l’estate scorsa: presidente Stefano Ferluga (già nella Lega Nord ma uscito perché “deluso”), vicepresidente Sandro Gombač (con un passato in 5 Stelle, e con una candidatura con la lista dei comitati di quartiere  La Tua Trieste), segretario Vito Potenza “e poi ci sono Arlon Stok, Adriano Ciacchi, Roberto Giurastante” (qui).

L’exploit però si è visto da circa un anno in qua, dopo una manifestazione contro il previsto insediamento di un rigassificatore nel Golfo di Trieste (problema che sussiste tuttora, sia detto per inciso) che ha visto un migliaio di persone marciare una domenica mattina del novembre scorso, e (sarà casuale?) dopo l’inizio della campagna contro il pagamento dei tributi (imposte e tasse) all’Italia, in quanto la stessa non avrebbe sovranità sul TLT.

A questo punto prendiamo in mano i documenti.

Nello Statuto del TLT (D.L. del C.P.S. 28/11/47, pubblicato in Supplemento alla Gazzetta Ufficiale n. 295 d.d. 24/12/47) leggiamo che dall’art 21 del Trattato di pace “la sovranità italiana sulla zona costituente il Territorio Libero di Trieste (…) cesserà con l’entrata in vigore del presente trattato” (va precisato che in Italia è entrato in vigore appena il 25/11/52) e che “dal momento in cui la sovranità italiana (…) avrà cessato di esistere il TLT sarà governato in conformità di uno Strumento per il regime provvisorio redatto dal Consiglio dei ministri degli esteri e approvato dal Consiglio di Sicurezza (…) resterà in vigore fino alla data che il Consiglio di sicurezza determinerà per l’entrata in vigore dello Statuto permanente”.

Nel frattempo “fino all’assunzione dei poteri da parte del Governatore” (Governatore che avrebbe dovuto essere nominato “dal Consiglio di sicurezza dell’Onu”), il TLT “continuerà ad essere amministrato dai Comandi militari alleati, entro le rispettive aree di competenza” (cioè gli Angloamericani nella Zona A e gli Jugoslavi nella Zona B).

In pratica è successo questo. Cessata la sovranità italiana sul TLT (comprendente sia Zona A sia Zona B), l’amministrazione è passata ai Comandi alleati in attesa che l’ONU nominasse il Governatore, nomina che non è mai avvenuta, finché, con la firma del Memorandum del 1954 l’amministrazione della Zona A è passata all’Italia (la Zona B è rimasta amministrata dalla Jugoslavia, con amministrazione civile) e poi con il Trattato di Osimo sono state ripristinate la sovranità italiana e jugoslava sui territori amministrati. Che tale situazione assomigli ad una appropriazione indebita aggravata (non sembra molto corretto che l’amministratore si pappi i beni che amministra) è un dato di fatto, ma sta di fatto anche che se il TLT non è mai stato realizzato, perché mai è stato nominato il Governatore, la responsabilità è esclusivamente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la tanto conclamata ONU che dovrebbe tutelare i diritti degli indipendentisti triestini. E considerando che uno Stato non può rimanere amministrato fiduciariamente all’infinito, per uscire dalla situazione di impasse che era stata creata per la mancata nomina del Governatore e di tutto il resto che avrebbe dovuto dare vita al TLT (l’Assemblea costituente che doveva redigere la Costituzione del TLT), non ci si può neppure scandalizzare troppo se a trent’anni dalla fine della guerra le Zone A e B siano state inglobate definitivamente dagli Stati che le amministravano, per dare una certezza giuridica al tutto.

Un altro problema sollevato dagli indipendentisti è che se l’Italia non ha la sovranità sul TLT non ha neppure diritto di riscuotere i tributi in questo territorio. Di norma, però, quando uno Stato amministra un territorio, deve poter avere delle entrate per fornire i servizi di cui il territorio ha bisogno, dalle scuole alla sanità, dal personale amministrativo alle forze di sicurezza, alla manutenzione delle strade eccetera. Ciò non è mai stato messo in discussione da nessuna normativa, e pure lo Statuto che abbiamo citato prima prevede che fino al momento in cui il TLT non sarebbe stato in grado di battere moneta propria, la moneta corrente sarebbe stata la lira italiana.

Ma se oggi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu nominasse finalmente il Governatore (in altre occasioni il diritto di veto esercitato da alcune potenze ha impedito la discussione in materia), il TLT potrebbe essere realizzato? In questi giorni si parla molto di uno scambio di mail con gli uffici dell’Onu (che però non sembrano essere risoluzioni ufficiali), dalle quali risulterebbe che l’ONU avrebbe riconosciuto la sovranità italiana su Trieste, circostanza smentita dai portavoce del MLT.

Il problema in ogni caso non è solo italiano, il TLT dovrebbe comprendere anche territori oggi compresi nella Slovenia e nella Croazia: e ci domandiamo se Italia, Slovenia, Croazia rinuncerebbero così facilmente ad un pezzo consistente del loro territorio nazionale (soprattutto la Slovenia, che dovrebbe rinunciare al suo sbocco sul mare, Koper), oppure se manderebbero le truppe (se l’Italia lo fa in Val Susa non si vede perché non potrebbe farlo a Trieste), e ci troveremmo in una situazione kosovara, con la necessità di fare intervenire i caschi blu (ammesso che questi siano disposti ad intervenire).

O, se per ipotesi i tre Stati dovessero accettare serenamente questa scelta, come pensa il MTL di gestire questo territorio? Che fine farebbero le centinaia di impiegati pubblici, dagli insegnanti agli ospedalieri, agli amministrativi, che non sarebbero più dipendenti italiani? E le poche industrie rimaste, spesso foraggiate dallo Stato, che fine farebbero? Per non parlare del fatto che “cittadini originari” del TLT (stando allo Statuto sopra menzionato) sarebbero soltanto coloro che erano domiciliati il 10 giugno 1940 nell’area compresa nei confini del Territorio Libero, e i loro figli nati dopo questa data”; e dopo avere acquisito la cittadinanza del Territorio Libero “perderanno la loro cittadinanza italiana”. E tutti gli altri? Se non opteranno per la cittadinanza italiana (e di conseguenza dovranno andare via dal territorio), potranno diventare cittadini del TLT solo in seguito a richiesta specifica, dove le condizioni per ottenere la cittadinanza potranno essere determinate dall’Assemblea Costituente del Territorio Libero ed inserite nella Costituzione, cioè con criteri ancora tutti da decidere, dato che prima della nomina del Governatore non può essere costituita alcuna Assemblea. In pratica, considerando l’attuale composizione della popolazione triestina, ci troveremmo davanti o ad uno spopolamento del territorio, oppure alla situazione grottesca di una maggioranza di persone che non avrebbero diritti civili nella zona in cui vivono da decenni. E ci domandiamo se le migliaia di sostenitori del MTL sono tutti “cittadini originari”, dovee nel contesto non è del tutto peregrino quanto sostiene il Prefetto di Trieste, che se i cittadini del TLT non riconoscono la sovranità italiana in materia fiscale non dovrebbero neppure incassare stipendi e pensioni pagati dallo Stato italiano…

Infine, per quanto concerne la supposta rinascita economica, siamo sicuri che ci sarebbe immediatamente qualcuno che verrebbe qui ad investire in chissà che cosa, dato che il Porto necessita comunque di modifiche sostanziali di adeguamento ai canoni moderni?

manifestazione_MTL_a_ViennaTorniamo a parlare dei militanti del MTL che sono peculiari anche per altri motivi. Colpisce infatti che a fronte di una perfetta organizzazione di “eventi” (feste, manifestazioni, cortei), che richiede una regia di esperti in materia, il Movimento non abbia dei leader politici veri e propri (non ce ne voglia Giurastante, che stimiamo per le sue battaglie ambientaliste e di legalità, ma non ce la facciamo a definirlo un leader, né pensiamo che lui ci tenga ad una definizione del genere); non presenta (almeno pubblicamente) delle persone che delineano una linea politica ed economica che vada oltre alla dichiarazione di indipendenza, dicendo che al resto si penserà dopo.

Ciononostante il 15 settembre in piazza sono scese 5.000 persone che hanno marciato per due ore, inneggiando all’indipendenza e al mandare via l’Italia, una massa eterogenea di persone di tutte le età, moltissimi giovani, famiglie coi bambini, con i cani, anziani in carrozzina, quasi tutti nelle loro magliette “d’ordinanza”, pronti a gridare gli slogan al momento giusto (variazioni sul tema di “Trieste! Libera!”, “Libertà, libertà”, “TLT! TLT!”, con un attacco, abbastanza comprensibile, per il Piccolo, i cui articoli invece di informare, magari criticamente, i lettori sull’attività del MTL, sono piuttosto basati sullo sfottò gratuito), diretti da persone che sembravano responsabili della coreografia dei vari settori del corteo, con una banda ed un gruppo di percussioni a ritmare il passo; con un sistema organizzativo impressionante, i moltissimi striscioni tutti perfetti, serigrafati su plastica (del tutto diversi da quelli di stoffa dipinti a mano cui siamo abituati noi residuati della vecchia sinistra), un vero e proprio shopcenter tra bandiere, magliette e gadget di vario tipo, dagli adesivi ai megafonini personalizzati; ed infine il servizio d’ordine, dotato di radiotelefoni e perfettamente in grado di controllare una tale moltitudine di gente (e diciamo che visto il fisico dei personaggi che chiudevano il corteo, tutti in rigorosa maglietta nera, non ci piacerebbe incontrarli in un momento in cui non sono di buon umore), che ci dicono sia stato fornito dal promoter di arti marziali Alessandro Gotti, con un passato in autonomia operaia ed oggi (dopo una breve parentesi legata a questioni di cocaina) convinto sostenitore dell’indipendenza di Trieste.

Tutto questo richiede una regia: infatti una delle domande che si sentono in città è “ma chi gli sta dietro?”. “Nessuno”, rispondono loro, “siamo noi e basta, ci autofinanziamo”. Sì, per l’autofinanziamento ci possiamo forse anche stare, considerando (oltre agli introiti delle feste e la vendita dell’oggettistica) la proposta che troviamo nel loro sito (forse unica proposta di un certo spessore): Il Movimento Trieste Libera ha ritenuto opportuno creare al proprio interno un ramo dedicato appositamente all’imprenditoria, denominato Trieste Libera Impresa, allo scopo di consentire agli imprenditori associati di poter far valere i propri diritti di Imprenditori del Territorio Libero di Trieste, in virtù del diritto internazionale vigente. (…) Anche attraverso il tuo contributo economico, di idee, proposte ed operatività, è possibile fin d’ora garantire a te ed a quanti come te operino imprenditorialmente nella Zona A del Territorio Libero di Trieste il superamento di quell’illegittimità che perdura da quasi sessant’anni (…).

Quindi, se gli “imprenditori” triestini hanno ritenuto di aderire anche con il loro “contributo economico”, si può capire come il MTL si possa autofinanziare.

È rispetto alla regia tecnica di tutto l’apparato invece che ci domandiamo chi ci stia dietro: dove e come hanno imparato ad organizzare gli “eventi” in questo modo così raffinato, i sei “dirigenti” di cui abbiamo letto i nomi sopra? Oppure si sono rivolti a qualche organizzazione specializzata, così come hanno noleggiato un aereo per le riprese dall’alto del corteo?

Tornando alle persone che hanno aderito a questo movimento, ci si domanda se questa è un’evoluzione locale del grillismo, dove il “se ne vadano” non è riferito solo alla classe dirigente ma a tutto uno Stato, con i suoi amministratori ed esponenti politici, quindi una rampa in più sul livello dello scontro rispetto alle cose che accadono in Italia; e queste persone, che oggi scendono in piazza in massa, dov’erano finora, per chi hanno votato in precedenza, o forse non hanno votato proprio, e, soprattutto: per chi voterebbero domani?

Perché il MTL non ha ancora chiarito se ha intenzione di presentarsi alle elezioni o no (visto che non riconoscono le elezioni indette dall’Italia), ma nel caso in cui si presentassero per il Comune, ottenendo il governo della città, quali persone ci troveremmo come amministratori, considerando che, come si diceva prima, non hanno esponenti di spessore politico, culturale, amministrativo, ma sono (più che non i seguaci di Grillo) la gente della strada, che non si è mai interessata di politica e finora o ha delegato tutto oppure non è neppure andata a votare?

O forse al momento di andare al voto e di compilare le liste verrebbero finalmente fuori i nomi di chi sta organizzando tutto questo?

Ma c’è un altro punto strano in tutta questa vicenda, e riguarda l’avvocato che il MTL ha nominato come difensore nelle proprie cause contro la sovranità italiana sul TLT: Edoardo Longo di Pordenone, classe 1958, in attività dal 1984. La sua biografia (reperibile in rete oltre che nel suo sito personale  anche in formato pdf qui) è oltremodo interessante, per cui ne stralciamo alcuni brani (gli errori di sintassi ed ortografia sono della fonte).

Difensore senza attenuazioni opportunistiche nei processi politici contro il dissidenti antimondialisti di destra, ha riversato la sua esperienza in materia in alcuni libri e in moltissimi articoli contro le aberrazioni del sistema giudiziario al servizio delle lobbies plutocratiche internazionali. (…) Dalla metà degli anni ‘8O svolge una intensa attività di ricerca culturale e pubblicistica, dapprima in ambito culturale tradizionale (con nette influenze del pensiero di Julius Evola e Domenico Rudatis di cui era amico personale), poi in ambito più marcatamente politico. (…)

Anche la sua attività pubblicistica, molto vasta, merita di essere conosciuta. Ne citiamo le opere più significative.

Nel 1996 per il tipi de il Ventaglio di Roma ha pubblicato Il Fuoco e le Vette. Lungo i sentieri dell’arcaica Tradizione Ariana, un’antologia che raccoglie quasi tutti gli scritti di Edoardo Longo sulla metafisica delle vette (ora esaurita).

librodilongoEd ancora:

Nel 1989 ha scritto un lungo saggio (ora ristampato ne Il Coltello di Shylock) sui rapporti fra Giudaismo e Massoneria in appendice al volume edito da Ar di Malynski, La Guerra Occulta.

Il “giudaismo” sembra essere un chiodo fisso delle problematiche longhiane:

Il Coltello di Shylock. Storie di ordinaria repressione giudaica, edito nel 2002 dalla editrice triestina la Rocca d’Europa è l’ultimo (al momento) testo pubblicato.

E di questo “saggio” (?) ecco la squisita presentazione fatta da Avanguardia (rivista siciliana appartenente alla categoria dei cosiddetti rossobruni) nel n. 198 (luglio 2002):

Una rasoiata in faccia all’ebraismo internazionale, una testa di porco lanciata in sinagoga, ottantotto punti di sutura sulla piaga sionista: questo è il coltello di Shylock.

Proseguendo nella biografia autorizzata del Nostro leggiamo anche:

Molte note sulle vicende politico-giudiziarie dell’avv. Longo possono essere lette nelle note e commenti al libro Contra Judaeos di Telesio Interlandi che Edoardo Longo ha reso pubblico per la prima volta dal dopoguerra.

Interlandi, per chi non lo sapesse, era uno dei teorici della Difesa della razza, e così Longo ha spiegato (molto aulicamente, va detto) il motivo della sua riscoperta di questo fascista razzista:

Quando lessi un anno fa, per caso, che il libro di Telesio Interlandi contra Judaeos dopo la guerra era stato gettato al macero e mai più ristampato perché giudicato il testo più biecamente antisemita pubblicato in Italia durante il ‘bieco ventennio fascista’, decisi che ne avrei trovato una copia superstite e lo avrei fatto ristampare. A costo di farlo a mie spese, vista la penuria di editori coraggiosi esistenti in Italia.
Ecco, ai lettori del web, il libro.
Ho mantenuto la promessa.
Il testo che segue è stato reperito fortunosamente in una sperduta biblioteca di provincia, mentre ammuffiva in uno scantinato. Grazie a un determinato e valido camerata, l’amico Giampaolo Speranza che qui ringrazio, lo abbiamo fotocopiato e digitato nella presente versione elettronica, affinché giri libero e veloce sulle imprendibili rotte del web, lontano dall’Occhio Malefico della giudaica Polizia del Pensiero che sorveglia le case editrice.
Vola, piccolo libretto mordace, vola libero come un vascello pirata, lungo le sterminate rotte della comunicazione del futuro, ancora non imbrigliata dalle catene della ‘democrazia’…

Per non tediarvi ulteriormente, vi segnaliamo ancora solo un’ultima collaborazione:

Nel 1999 ha pubblicato una lunga introduzione dal titolo La Runa del Lupo al volume La rivoluzione è come il vento di Marcello de Angelis, Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi (ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1999).

I tre autori hanno un comune passato in Terza Posizione: de Angelis, oggi giornalista di Area, è stato il cantante del gruppo non conforme “270 bis” (che è l’articolo del Codice Penale sull’associazione sovversiva), di cui rammentiamo la canzone Cuore nero con un testo da apologia di reato (E io ho il cuore nero/e tanta gente/mi vorrebbe al cimitero./Ma io ho il cuore nero/e me ne frego e sputo/in faccia al mondo intero…/Il braccio che si stende calando giù la sbarra/lo schianto delle ossa, lo stridere dei denti/lo sguardo inorridito di mille benpensanti:/ci vuole così poco per essere contenti); Fiore, dopo avere latitato per anni in Gran Bretagna finché non è andata in prescrizione la sua condanna per associazione sovversiva è oggi leader carismatico di Forza Nuova; Adinolfi, dopo le sue vicissitudini legali (nella biografia del suo sito si legge che fu “condannato per reati associativi sia nell’ambito di Terza Posizione che in quello dei Nar – a causa della sua latitanza operativa in Italia, dove è rientrato clandestinamente nel 1982”) collabora oggi con CasaPound e con varie testate comunitariste (i rossobruni) ed ha fondato il Centro Studi Polaris che si occupa di mondialismo e di problemi economici.

Il motivo per cui un movimento, che si dichiara “né di destra né di sinistra” si sia scelto un avvocato dalle chiare posizioni filo nazifasciste e razziste, si può spiegare (forse) solo valutando il fatto che le pur vaghe teorie economiche di Trieste Libera (ma più che di essa, dell’altra associazione indipendentista, il Comitato Porto Libero, che ha negli anni passati organizzato alcune iniziative su questi argomenti) sono simili a quelle esposte da un filone di pensatori della destra antimondialista, Giacinto Auriti in primis (l’ex missino che collaborò con Beppe Grillo nella stesura di Apocalisse morbida nell’ormai lontano 1998), il teorico del signoraggio e della local money, temi purtroppo oggi condivisi in parte anche da chi non fa diretto riferimento alla nuova (per modo di dire…) destra, ma appunto dichiara di voler superare la dicotomia “destra-sinistra” in funzione anticapitalista.

Proprio sulla questione del “signoraggio” e delle “potenzialità del sistema monetario del Territorio Libero di Trieste” il Comitato Porto Libero ha organizzato una conferenza dal titolo “Il Territorio Libero avrà un proprio sistema monetario”, il 2/12/11 con relatore il dottor (è un dentista, in effetti) Antonio Miclavec che ha scritto, assieme a Marco della Luna il libro €SCHIAVI, pubblicato da una casa editrice rosso bruna, l’Arianna editrice; e che si è presentato come candidato sindaco di Udine alle ultime elezioni amministrative, nella lista di Forza Nuova.

Tornando al ruolo dell’avvocato Longo, se può sembrare oscuro che un legale di così chiara fede patriottica difenda il diritto di alcuni cittadini italiani a voler staccare un pezzo di territorio dallo Stato italiano, proviamo a fare mente locale sul fatto che il nazismo, a differenza del fascismo, non aveva alcun interesse a che Trieste rimanesse italiana, anzi l’aveva accorpata a sé dopo l’8 settembre 1943, ed il progetto dei gerarchi locali (austriaci, si badi bene) per la città, una volta convintisi dell’ineluttabilità della sconfitta del Terzo Reich, era la costituzione di una sorta di protettorato austriaco sul territorio triestino, con l’accordo degli Angloamericani, in modo da riacquisire il controllo del porto perduto dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale.

In conclusione un ultimo interrogativo. Abbiamo visto 5.000 persone marciare convinte che l’indipendenza del Territorio Libero di Trieste è una cosa che verrà realizzata a breve. Ma se ciò non dovesse accadere (come probabile che sia), come reagiranno queste persone, di fronte alla prospettiva che le tasse che non hanno pagato verranno loro riscosse coattivamente, che dovranno rifondere le spese di giudizio, o, semplicemente, per coloro che si sono limitati ad aderire al Movimento senza fare disobbedienza civile, che il progetto in cui si sono sentiti coinvolti ed in cui hanno riposto fiducia si è rivelato una bolla di sapone? Perché non è facile, dopo avere convinto migliaia di persone che un cambiamento radicale di questo tipo era cosa fatta, dover ammettere di avere sbagliato tutto e ritornare nei ranghi.

A tutte queste domande probabilmente troveremo delle risposte “solo vivendo”, come cantava Battisti, sperando però che nel frattempo nessuno si faccia male.

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