Folk Horror – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Volpi danzanti https://www.carmillaonline.com/2024/08/20/volpi-danzanti/ Tue, 20 Aug 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83909 di Franco Pezzini

Cristiano Demicheli, L’anno delle volpi. Un armanàcco da Val Lemûria, pp. 331, € 16,90, Hypnos, Milano 2022.

“Tutto finiva e scorreva via.

Solo il provincialismo era eterno”.

Trovandomi davanti a questo romanzo, edito in realtà da un paio d’anni – tra l’altro con elegante cura grafica (di Ivo Torello), la copertina rossa con due volpi danzanti è bellissima – per i tipi di un editore specializzato in letteratura fantastica, non sapevo bene cosa aspettarmi: ma me n’erano giunti elogi da amici che stimo, e dunque meritava di essere avvicinato. Partiamo da una considerazione: si tratta di un libro [...]]]> di Franco Pezzini

Cristiano Demicheli, L’anno delle volpi. Un armanàcco da Val Lemûria, pp. 331, € 16,90, Hypnos, Milano 2022.

“Tutto finiva e scorreva via.

Solo il provincialismo era eterno”.

Trovandomi davanti a questo romanzo, edito in realtà da un paio d’anni – tra l’altro con elegante cura grafica (di Ivo Torello), la copertina rossa con due volpi danzanti è bellissima – per i tipi di un editore specializzato in letteratura fantastica, non sapevo bene cosa aspettarmi: ma me n’erano giunti elogi da amici che stimo, e dunque meritava di essere avvicinato. Partiamo da una considerazione: si tratta di un libro costruito sulla base di un’idea brillante, ma che in altre mani si sarebbe convertito in un gentile omaggio da ottuagenari o madamine a un mondo passato, con un po’ di blanda, insipida ironia sulla fantasia dei piccoli centri di provincia e qualche venatura di tedio. Invece il risultato, grazie al piglio – autenticamente letterario, ed efficace sia per costruzione che per stile – di Demicheli, è ben diverso: la storia, condita di cultura genuina (che inventa, pázzia, affabula con una lievità incantevole) sa conciliare l’esilarante e il malinconico, il riflessivo e il malizioso con un equilibrio raro. E terminato L’anno, rimpiangiamo che non ne segua subito un altro.

E il fantastico? c’è, non si tema: non solo attraverso richiami fantasmagorici e giocosi a zoologia (il pappagufo, il chimello che è sempre cinque minuti avanti sull’osservatore, il gigantesco verme del racconto di sciô Manoælo, l’elusivo…) e botanica (l’antoninn-a propiziatrice di fecondità, lo spexülin dalle proprietà medicamentose, il fenóggio gràmmo forse identificabile con l’aneto…), affrontate dall’autore con piglio enciclopedico sornione alla Borges, ma nei richiami a un sovrannaturale diffuso, per quanto confinato in racconti, paure e chiacchiere. Di qui paradossi onirici, spettri, demoni come i Desconténti pagani, e poi doppi, inonbràj/umbratili e creature altre di tutto un folk horror – o orrore popolare, visto che l’ambientazione è italiana – surreale e onirico, ai margini degli eventi principali come per antica tradizione sono i mostri: figure spesso bizzarre come l’entità che possiede lo specchio del bagno, il lungo braccio grigio che infesterebbe la camera 4 dell’albergo o i fantasmi dei mugnai Caniggia, uno buono e uno cattivo, ma difficili da distinguere; o talora inquietanti come i negromanti Serpiero capaci di fare “il pellegrinaggio alla rovescia alla città chiamata Corazin” (cfr. qui) o le presenze emerse o perdute oltre le lugubri Porte Migre.

Suggestivo il set, una ipotetica Val Lemuria (dai lemuri spettrali della fede latina, non la Lemuria dei continenti perduti) a cui l’autore ha già dedicato la raccolta Cronache dalla Val Lemuria (Hypnos, 2019): un’area aspra tra le montagne liminale a ogni più determinata nozione geografica, approssimativamente tra Genova – dove Demicheli è nato – e l’Alessandrino. In questo caso, poi, tutto muove attorno al bar-ristorante dell’Albergo moderno di Tolengo, il paese cuore dell’area, e a sua volta perno del volgere della ruota dell’anno – ecco l’almanacco, anzi armanàcco – , scandito mese per mese con eventi, riti, ricette e specificità locali (comprese surreali unità di misura, come il conzo lemuriano, e fortunatissimi giochi tradizionali come la buscagìnn-a), tra neve o solleone, echi di antiche cronache o gossip dell’ultim’ora. Con una differenza: quell’anno – preavverte il vecchio Esmeraldo, l’affabulatore del paese nonché “grandissimo bugiardo” – non è come gli altri, è un ànno da vorpi, da volpi, come se ne verificano ogni cinquanta, con la loro danza scatenata sulle colline. Cioè “un anno fatto per quelli che hanno gli zampini bianchi e le orecchie a punta […] Un anno di miracoli e prodigi”.

Deliziosi i personaggi, a partire dal terzetto attorno al quale tutto ruota: Cap, il bonario proprietario dell’Albergo, il saturnino Bastiano e il vitalistico, furfantesco Zangrandi. Intorno a loro, una piccola folla di caratteristi da (si passi la similitudine) film di Pupi Avati, ciascuno con fisime e chiodi fissi: l’energica Jolanda moglie di Cap, grande cuoca e presunta strega, il figlio Nino e l’aiutante Lella; il burbero parroco don Olindo cultore di storia locale e la sua nemesi anticlericale e illuminista, il professor Molinari; il nuovo medico, la piacente Giuliana Boero che spezzerà qualche cuore, il vecchio Esmeraldo e la sorella Eliana reduce dal tipico “divorzio alla lemuriana” (il marito violento aveva scambiato accidentalmente la candeggina per grappa); lo spiacevole autodemolitore Bellesecche, l’azzimato orologiaio Casaverde repertoriatore di pettegolezzi, il coltivatore Gianni Firpo che fa crescere il basilico a suo di bestemmie… e tanti altri.

E poi la lingua, la voce: pur narrato in ottimo italiano, il romanzo apre da un lato a un vocabolario enciclopedico impregnato di ironia ed echi dialettali (compreso il richiamo a una terminologia locale dove brilla la locuzione polisenso stricciare i marsini), e dall’altro offre una voce autorale propria, delicata e forte, beffarda e saggia, ben riconoscibile dalla prima all’ultima pagina.

Terminata la lettura, ci domandiamo se sia vero quanto Esmeraldo ha prefigurato sull’ànno da vorpi, e forse sì: si tratta di intendere il senso, insieme straordinario e feriale, di quei “miracoli e prodigi” di cui è scandita come un almanacco tutta la nostra vita. Amori – sgangherati o fortunati, almeno in prima battuta – e scomparse, avventure di vario genere, e poi un bonario vivere il proprio tempo tra partite di buscagìnn-a e bicchierini, ipotesi esistenziali, sogni.

Ma forse, detta così dal recensore, suona pedante. “In verità le volpi danzavano perché danzare è ciò che fanno le volpi, in certe notti di certi anni, su quelle colline”.

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Antropocene, Orrore e Postumano. https://www.carmillaonline.com/2023/09/13/antropocene-orrore-e-postumano/ Tue, 12 Sep 2023 22:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78731 di Walter Catalano

Fabio Malagnini, Antropocene Horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, Odoya, pp. 320, euro 22,00 stampa.

Un libro utile e pieno di informazioni quello che Fabio Malagnini ha appena pubblicato per Odoya: non soltanto di cinema e sul cinema, ma testo che usa il cinema per parlare, con competenza e profondità, di molte altre cose: della realtà che abbiamo intorno, di un mondo che sempre più ci si rivela alieno. Per questo le categorie dell’horror e del weird sono le più indicate a [...]]]> di Walter Catalano

Fabio Malagnini, Antropocene Horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, Odoya, pp. 320, euro 22,00 stampa.

Un libro utile e pieno di informazioni quello che Fabio Malagnini ha appena pubblicato per Odoya: non soltanto di cinema e sul cinema, ma testo che usa il cinema per parlare, con competenza e profondità, di molte altre cose: della realtà che abbiamo intorno, di un mondo che sempre più ci si rivela alieno. Per questo le categorie dell’horror e del weird sono le più indicate a cartografarlo. Se leggiamo con attenzione le note in fondo al volume, possiamo constatare quanto vasta e approfondita sia la bibliografia e la messe di riferimenti cui Malagnini ha attinto per definire i contorni del suo percorso. La nozione di Antropocene – l’attuale epoca geologica in cui le attività dell’Homo sapiens hanno drasticamente modificato la struttura, il territorio, il clima del Sistema Terra, terremotando l’Olocene, la cronozona interglaciale, successiva alla Glaciazione Würm, iniziata convenzionalmente 11.700 anni fa, cioè dall’era Mesolitica per quanto riguarda noi sapiens – accostata a quella di horror, rivela una biogeografia perturbante in cui gli ecosistemi per come li conosciamo, o crediamo di conoscerli, e il tradizionale (prospetticamente già difettoso in sé) rapporto uomo-natura, sono ormai sconvolti, alterati, terrificati: il risultato di questi cambiamenti catastrofici non può essere necessariamente (e darwinianamente) che l’estinzione del genere umano o il suo adattamento alle nuove condizioni attraverso la mutazione (e quindi l’avvento del transumano e del postumano).

Malagnini individua una serie di tematiche e di sottogeneri cardinali ad esprimere questa visione decisamente non consolatoria e ogni capitolo ne traccia una singola linea interpretativa sulla base della dettagliata filmografia specifica che viene ricondotta poi al problema complessivo attraverso una parallela disamina di testi critici, saggi scientifici, analisi filosofiche e materiali ben articolati di molteplice provenienza. Dopo aver delineato una mappa generale dell’immaginario dell’Antropocene, i nuclei narrativi principali, gli “incubi ricorrenti”, che ne compongono le traiettorie di speculazione perturbante vengono ordinati in una precisa tassonomia.

Si parte dall’Apocalisse zombie, sottogenere pandemico quanto mai longevo e multistratificato che promana dagli anni ’60 con i Living Dead di Romero, e ancora prima con The Last Man on Earth di Ragona/Salkow, iniziale trasposizione dal romanzo seminale di Richard Matheson, I am a Legend, per arrivare fino ad oggi in un florilegio di titoli: dai videogame divenuti serie, come Resident Evil o The Last of Us, alle trasposizione dai fumetti come The Walking Dead, alle versioni comico-demenziali come Zombieland di Fleischer o The Dead Don’t Die di Jarmush, a quelle survivaliste come It Comes at Night di Shults o sovrannaturaliste come The Harbinger di Mitton, e così via. Come scrive Malagnini è un cinema dello stress pre-traumatico, in cui “Un futuro disfunzionale […] retroagisce sul nostro presente e […] porta a ripensare il rapporto incrinato istituito con l’ambiente e le altre specie”.

Si prosegue con il folk-horror, che, partendo da The Wicker Man di Robin Hardy, traccia una evidente continuità – mascherata da contrapposizione – tra riti e folklore rurale da una parte e realtà capitalistica della modernità industriale: il sacrificio umano rituale celebra la fiducia nello “sviluppo sostenibile”, nell’economia green, illusoria via di mitigazione della catastrofe ecologica, mito dell’eterno ritorno di un Neolitico “accelerazionista” e paleocapitalista, rivisto in film come Midsommar di Aster, The Ritual di Bruckner o, in termini più sociologistici, Eden Lake di Watkins, o ancora nelle varianti delle “famiglie maledette” come in Moloch di van den Brink, dei “culti suicidi” come in The Sacrament di Ti West, o della metaforizzazione della lotta di classe come in Kill List di Wheatley.

Ad un passo troviamo il gotico cannibale, in cui il ritorno alla natura è visto, nella dialettica con l’identità urbana-civilizzata, come revivalismo di impulsi belluini, i capostipiti sono ovviamente Deliverance di Boorman e Southern Comfort di Hill, da lì l’epopea di Wrong Turn e di Wolf Creek, per slittare poi nel contiguo slasher, da Non aprite quella porta di Hooper ad Halloween di Carpenter, e alla subumanizzazione antropofaga di Le colline hanno gli occhi di Craven o di The Descent di Marshall, declinata in chiave pop come in La casa dei 100 corpi di Rob Zombie, fantapolitica come in Frontieres di Xavier Gens, femminista-gourmet-altoborghese come in Fresh di Mimi Cave, rozza come in Raw di Ducournau o sentimental-melenso-romanticheggiante-young adult come in Bones and All di Guadagnino.

Un altro nutrito gruppo di film significativi è quello dell’animal horror, che si dipana da Gli uccelli di Hitchcock, riferendosi a classici letterari come l’omonimo romanzo di Daphne Du Maurier o il racconto lungo The Terror di Arthur Machen, per rappresentare la rivolta di una fauna impazzita che mette in scacco l’umanità. Ora le rane – Frogs di McCowan – i ragni – Kingdom of the Spiders di Cardos, Aracnofobia di Marshall, e decine di altri, anche in dimensioni giganti come in Tarantula! di Jack Arnold – le formiche – giganti, Them! di Gordon Douglas e no, Phase IV di Saul Bass – le api – The Swarm di Irwin Allen – i topi – Willard di Daniel Mann – squali, cetacei e pesci – da Jaws di Spielberg, all’epopea demenziale di Sharknado o a quella più seria di Deep Blue Sea, da L’orca assassina di Michael Anderson, a Piranha di Joe Dante – orsi – Grizzly di Girdler – cinghiali – Razorback di Mulcahy – serpenti – Anaconda di Luis Llosa – cani rabbiosi – Cujo di Teague – coccodrilli – Rogue di McLean, Black Water di Traucki, Alligator di Teague, ecc. – pipistrelli – Bats di Morneau – e perfino pecore – Black Sheep di Jonathan King – si avvicendano a decostruire nell’inconoscibilità dell’”altro” alternativamente la nostra identificazione antropocentrica e/o biocentrica. La specie animale in realtà più letale per gli uomini – Malagnini ce lo mostra in una tabella – non ha ancora avuto un riconoscimento cinematografico: è la zanzara. Ovviamente al secondo posto ci sono gli uomini stessi.

Dopo gli animali le piante, il plant horror ha una lunga tradizione: la natura vegetale, vivente ma inerte e passiva, priva di movimento e riflessione – concezione ormai superata, radicalmente smentita dalle più recenti ricerche biologiche – è da tempo diventata protagonista delle inquietudini del nostro subconscio materializzate dal cinema. Siano queste incarnate da specie aliene, trifidi e ultracorpi, come nei classici dell’invasione negli anni ’50 – La cosa da un altro mondo, L’invasione degli ultracorpi, L’invasione dei mostri verdi – riprese dai classici della fantascienza di John W. Campbell, Jack Finney e John Wyndham, e dall’infinità dei loro celeberrimi sequel, o evocate in eco-horror in cui le piante terrestri per qualche ragione mutano e reagiscono violentemente all’aggressione umana, come in E venne il giorno di Shyamalan, Nell’erba alta di Natali, The Hallow di Corin Hardy, il percorso ci conduce nei pressi di una fiction climatica derivata dal disaster movie che vede nel global warming la radice del cataclisma incombente. Un climatic horror in cui lo scioglimento dei ghiacci e dell’ancestrale permafrost scatena incubi lovecraftiani come in The Thaw di Lewis, Blood Glacier di Kren, Harbinger Down di Guiles, The Last Winter di Fessenden. Un “soprannaturale” lovecraftiano quindi perchè nasce dal rifiuto del pregiudizio antropocentrico e scatena forze ctonie a contrastare l’espansione predatoria che i sapiens travestono da umanismo. Così in The Feast di Lee Haven Jones, dove un’entità folklorica si incarna per preparare un catering mortale contro la famiglia di avidi speculatori che vorrebbe usurpare i diritti minerari su una zona rurale del Galles, così per le entità fossili nate dal petrolio ispirate al Cyclonopedia di Negarestani, o le entità fungine quasi uscite da un libro del micologo Merlin Sheldrake, come in Unearth di Lyons e Swies, In the Earth di Wheatley e Gaia di Bouwer.

Un passo ulteriore è quello nell’uncanny valley, la “valle perturbante”, termine coniato dal ricercatore in robotica Masahiro Mori per definire lo spiazzamento cognitivo in cui l’identificazione passa bruscamente dall’empatia alla repulsione quando siamo messi di fronte ad una imitazione realistica ma non abbastanza convincente delle sembianze umane. Tutta la filmografia delle “bambole assassine”, l’eredità dell’Olympia di Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann, da The Devil Doll di Tod Browning a Megan di Gerard Johnstone, appartiene all’uncanny valley. Questa dissonanza di fronte ad un familiare alieno, un heimlich unheimlich, si può applicare però anche ad un paesaggio, uno scenario ordinario stravolto dalla riemersione di un “inconscio collettivo” e dallo scatenamento degli archetipi in esso celati: per esempio i villaggi sommersi sotto le acque di una diga in Dal profondo delle tenebre di Brian Yuzna o La casa in fondo al lago di Maury e Bustillo. Il ritorno del rimosso che percorre Fog di Carpenter o i Candyman di Bernard Rose e di Nia Da Costa, o la distorsione prospettica lovecraftiana di Colour Out of Space di Richard Stanley o de Il seme della follia di Carpenter e quella di Annientamento di Alex Garland, tratto dal primo volume della trilogia di Jeff Vandermeer. Un paesaggio perturbante in cui il mostro è il panorama stesso, l’ambiente, in genere la wilderness, come in Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir o The Blair Witch Project di Eduardo Sánchez e Daniel Myrick, dove la strega non appare mai (o solo di sfuggita come nel sequel Blair Witch). Anche l’espediente del mockumentary e del found footage, materiale filmato che appare vero e si dichiara tale, divenuto moda dopo il successo di Blair Witch ma che risale a molti anni prima, al Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, procede dallo stesso meccanismo visivo, in questo caso apertamente dichiarato dall’onnipresenza esplicita della macchina da presa. Così per una numerosa serie di film, dal Diary of the Dead di Romero al ciclo molteplice di Paranormal Activity, o a quello assai più sperimentale di V/H/S di Brad Miska e David Bruckner.

Il capitolo finale riguarda il postumano e il sottogenere che lo introduce, il body horror. A questo gruppo appartengono anche quei film in cui relazioni parentali e conflitti generazionali vengono risolti impossessandosi di corpi e volontà, in genere un vampirismo dei più anziani verso i più giovani, come in The Visit di Shyamalan, The Dark and the Wicked di Bertino, Relic di James, e in qualche caso dei figli verso i genitori come in Goodnight Mommy e nel successivo The Lodge di Franz e Fiala o Hatching di Hanna Bergholm: così famiglie modello, fisicamente, vanno in frantumi come in Speak no Evil di Christian Tafdrup, Noi di Jordan Peele o Sinister di Scott Derrickson. Il body horror canonico resta però quello di David Cronenberg, in tutta la sua filmografia culminata nella surgery art di Crimes of the Future e del figlio Brandon Cronenberg con Antivirus e Infinity Pool: il rapporto tortuoso fra tecnologia e modificazioni corporee in un deflagrare di perversioni feticistiche che derivano tutte, in modo più o meno esplicito, dal Crash di James Ballard. In parallelo le degenerazioni lovecraftiane di Re-Animator e From Beyond di Stuart Gordon o Society di Brian Yuzna, e gli imbestiamenti delle numerose isole del Dottor Moreau, della licantropia da L’ululato di Joe Dante in poi, o degli scambi genetici de L’esperimento del Dottor K di Hedison fino al remake di Cronenberg, il tutto riproposto in versione anestetizzata e scompaginata nel recente e stralunato Lamb dell’islandese Johannsson.

A conclusione del suo percorso Malagnini pone tre film come baluardi annunzianti, ognuno in modo diverso, l’anelito inquietante e imperioso verso l’avvento del postumano: Jacob’s Wife di Travis Stevens, Non sarai sola di Goran Stolevski e Titane di Julia Ducournau. Come conclude l’autore: “prototipi e sperimentazioni di un immaginario in formazione, ibridazioni che alludono a una diversa, ‘mostruosa’ allenza che riguarda oggi umani e non umani […] non modelli politicamente corretti, metafore d’affezione attraverso cui possiamo già percepire una parte di noi stessi”.

 

 

 

 

 

 

 

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Il patto del lupo (Nightmare Abbey 22) https://www.carmillaonline.com/2023/07/15/il-patto-del-lupo-nightmare-abbey-22/ Sat, 15 Jul 2023 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78190 di Franco Pezzini

Alexandre Dumas, Il signore dei lupi (Le meneur de loups), ed. orig. 1857, trad. dal francese di Camilla Scarpa, introd. di Max Baroni, nota finale di Léon Thoorens, pp. 392, € 16, Agenzia Alcatraz, Milano 2022.

La grande critica può continuare a considerare Dumas (padre) estraneo all’“alta” letteratura o addirittura alla letteratura in quanto tale, confinandolo nel paraletterario, ma credo che l’interessato se ne faccia ampiamente una ragione: e sicuramente ce ne facciamo una ragione noi, consegnando allo sgabuzzino dei giudizi inutili un certo tipo polveroso di lettori con la [...]]]> di Franco Pezzini

Alexandre Dumas, Il signore dei lupi (Le meneur de loups), ed. orig. 1857, trad. dal francese di Camilla Scarpa, introd. di Max Baroni, nota finale di Léon Thoorens, pp. 392, € 16, Agenzia Alcatraz, Milano 2022.

La grande critica può continuare a considerare Dumas (padre) estraneo all’“alta” letteratura o addirittura alla letteratura in quanto tale, confinandolo nel paraletterario, ma credo che l’interessato se ne faccia ampiamente una ragione: e sicuramente ce ne facciamo una ragione noi, consegnando allo sgabuzzino dei giudizi inutili un certo tipo polveroso di lettori con la molletta sul naso e deliziandoci ai capolavori che invece, diavolo di un uomo, Dumas è riuscito a sfornare e restano letture di intatta freschezza. Oltre che narrativamente solide e magari profonde.

D’accordo, aveva i suoi ghost writer a preparargli una base con ricerche storiche mirate; e d’accordo, a volte giocava sul concetto di autoralità nei termini molto disinvolti in uso nel primo Ottocento – si pensi solo al suo L’assassinio di rue Saint-Roch, che copia la Rue Morgue di Poe adattandola spudoratamente, o invece ai romanzi su Robin Hood che ancor oggi vengono stampati a suo nome, mentre si tratta di un noiosissimo romanzone storico di  Pierce Egan il Giovane (serializzato nel 1838 e riunito in volume nel 1840, Robin Hood and Little John: or, The Merry Men of Sherwood Forest, tradotto in francese da Marie de Fernand con lo pseudonimo Victor Perceval, e costituente quasi in toto il contenuto dei due pseudodumasiani Le Prince des Voleurs, 1872 e Robin Hood le Proscrit, 1873). Insomma, le trappole non mancano: e ciononostante parliamo di un autore di due secoli fa – rendiamoci conto – che, quando sui testi lavora davvero, quando vi lascia il “tocco Dumas”, si fa leggere a tutt’oggi con piacere assoluto, complice, irriducibile a qualunque critica acida. Un piacere del racconto, del prendersi tempi per parentesi che non sono mai off topic ma ci richiamano al gusto dell’evocazione di un mondo, ci fanno parteggiare accanitamente per un personaggio o per l’altro, ci fanno uscire diversi da come siamo entrati a contatto col volume. Solo in queste pagine, meravigliose per il piacere con cui Dumas affabula sono la scena della pesca in stagno, della cena dal balivo Magloire (narrata con un senso del gusto – nell’accezione più propria – che fa ricordare come lo scrittore abbia varato anche un incredibile Grand dictionnaire de cuisine, apparso postumo nel 1873), della tentata seduzione di Madama Magloire, del clima della raffinata camera della contessa di Montgobert… E insomma, come suol dirsi, avercene oggi, di scrittori tanto capaci di spalancare mondi a ripetizione, di donarci storie che accedono – letteralmente – al mito (I tre moschettieri, Il conte di Montecristo…).

Di nuovo: d’accordo, non tutto Dumas presenta la stessa vitalità vorace delle opere precedenti il 1848-1850. Come scrive Léon Thoorens nella bella appendice biografica Dumas, cent’anni dopo in coda a questo volume:

 

Dumas rientrò a Parigi nel 1853 e non si sentì mai più a suo agio nel mondo nuovo che nasceva, così diverso da quello che aveva sognato. Perché Dumas è il tipico uomo del diciannovesimo secolo – del primo diciannovesimo secolo, quel secolo che scoppia in lacrime nel 1848 e va in frantumi nel 1851. Quel diciannovesimo secolo è naïf, magniloquente, talvolta verboso, ma anche generoso, pieno di linfa giovane e di fede nell’avvenire. Sarà la seconda parte del secolo a essere stupida, puritana e matematica. Gli anni tra il 1848 e il 1850 segnano una cesura, un taglio netto. Si sa che ci sono due Hugo, e che, se avessero potuto incontrarsi, non avrebbero avuto simpatia l’uno per l’altro. Ebbene, anche i Dumas [si intende Dumas padre] sono due, e il secondo ha nostalgia per il primo, ma si distacca da lui sempre di più, mano a mano che gli anni passano. Non è per pura noia che uno scrive le proprie memorie, e le completa indefessamente con divagazioni e ricordi (Causeries, Souvenirs) e romanzi a sfondo autobiografico (Ange Pitou, Il signore dei lupi). Non è mai un caso neppure che un romanziere, limpido nello sguardo e nel riso come lo era l’autore de I tre moschettieri, si converta alla letteratura fantastica. Il fantastico, come la poesia (esso ne è, d’altra parte, una forma), è sempre un canto di sconcerto, di una ferita.

 

Di una crisi identitaria, potremmo dire, o della trasfigurazione di una vita cui cerchiamo di riconoscere nuove dimensioni: e Le Meneur de loups, 1857, fa proprio parte di questa seconda fase. Certamente un gioiello, ancora vivo a tratti d’ironia scintillante, ma non privo di connotati malinconici: una di quelle opere minori che restano una festa per il lettore e in fondo per il critico, con un ottimo ritmo, storie gustose che non permettono al romanzo di languire, un continuo rilancio di trovate fantastiche e non… insomma, riproporlo oggi in un catalogo di belle sorprese come quello di orrore e fantastico francofono di Agenzia Alcatraz, resta meritorio.

Da un lato, un’uscita come questa aiuta a fare chiarezza su affermazioni totalmente infondate che talora vediamo circolare. Secondo le quali, per esempio, l’influenza di Hoffmann in Francia si rifletterebbe in una serie di imitazioni per lo più derivative, i capolavori scarseggerebbero, il naturalismo la farebbe da padrone… il tutto sulla base di giudizi maldigeriti (o forse mal interpretati) di Lovecraft nel suo pur interessante L’orrore sovrannaturale in letteratura che però riflette i suoi gusti, i suoi pregiudizi – ai francesi mancherebbe “l’innato misticismo dello spirito nordico”, motivazione che odora di vecchiume – e anche le sue mancate conoscenze. Peccato che da allora la critica sia andata avanti e, da parte di chi vi attinge senza distinguo e con parecchia naïveté, la devozione fideistica verso un autore pur grande come HPL non faccia parte dei suoi strumenti utili.

Al contrario, il fantastico di Dumas costituisce una rilettura estremamente originale di quello alla Hoffmann: si pensi solo a La donna dal collier di velluto (dove Hoffmann addirittura è l’attonito protagonista, 1849) o ad altri di quei Mille et Un Fantômes (sempre 1849) che Dumas regala ai lettori stanchi delle tristezze della realtà. Con questo Signore dei lupi attinge per esempio a un sottofondo cupissimo, quasi un senso di colpa latente e comunque un peso greve sull’immaginario francese in chiave folk horror: ormai lontani dai licantropi gentili della narrativa cortese o dagli altri eroici & furenti delle compagnie guerriere germaniche, quelli che emergono tra il XIV e il XVII secolo soprattutto tra Francia e Germania sono creature miserabili, vittime innocenti di accuse comunitarie, profili psicopatologici di marginali della storia e dell’immaginario, malati sessuali – in qualche caso presunti serial killer – o comunque devianti che i roghi inceneriscono a grandi numeri (tra i ventimila e i centomila casi, a seconda di stime certo imprecise ma impressionanti). Quest’eccesso colloso di ombra si collega poi a tutta una mitologia del lupo che resta sottotesto dai miti antichi alle fiabe, e che oggi non siamo più in grado di comprendere: il predatore per antonomasia, congiunto di re e fondatori, magari nemico degli stregoni che danneggiano i campi (il rinvio agli studi di Carlo Ginzburg è d’obbligo), è ammirato fino all’invidia e insieme oggetto di inarginabile sadismo in pratiche di caccia condotte con caratteri di crudeltà superiore a qualunque giustificazione razionale.

Collegato o meno alla licantropia, il lupo si acquista dunque fama di animale del diavolo: e a parte le predazioni ordinarie, condotte talora da singoli esemplari, talora da branchi in inverni di fame, un fenomeno diverso è quello consacrato alla pubblica notorietà con il celebre caso della Bestia del Gévaudan, 1764-1767 (circa 210 attacchi, con 113 vittime e 49 feriti), la cui esatta natura resta oggetto di discussione. Che si tratti di un lupo non è certo – potrebbe essere una bestia feroce d’importazione, fuggita da qualche circo, poi ulteriormente trasfigurata per isteria collettiva e meccanismi immaginali (in alcune caratteristiche di lupo-leone sembra richiamare certe Tarasque del tardo periodo di La Tène, in un’apparente e spiazzante sopravvivenza di elementi iconografici arcaicissimi su creature infere). Ma l’aspetto meno noto al grosso pubblico è che parecchie altre “bestie” lupesche infestino la Francia tra il Sei e il Novecento: da Evreux 1633-34 all’Auxerrois 1731-34 e di nuovo 1817, a Brive 1783, nel Vivarais 1809-16, nella Gargaille 1819, a Tendu-Mosnay 1878, persino nel Cézallier 1946-51… Vogliamo proprio liquidare questo sovraccarico di ombra, sorta di straniante doppio fondo della saga del Signore dei lupi, come un accidente di un immaginario non altrettanto mistico di quello nordico?

D’altra parte, senza spoilerare il godibilissimo intreccio, è un fatto che Dumas riesca a giocare il tema con estrema libertà e in modo molto libero: non pensiamo dunque di trovarci davanti la classica storiella cinematografica tipo Universal – a volte gustosamente arredata, ma fin troppo lineare – di uomini-lupi ammazzatutti. La narrazione qui è molto sottile perché ci racconta anche altro. Facciamo un passo indietro.

Nel 1851, appesantito da pesanti debiti e problemi politici (il golpe di Luigi Napoleone Bonaparte lo vede tra gli oppositori), con la prospettiva della galera davanti, Dumas ripara frettolosamente in Belgio e lì riprende a scrivere come un forsennato, iniziando anche questo romanzo: lo chiuderà nel 1856 per pubblicarlo l’anno dopo. Possiamo stupirci che egli, quale cornice, vi racconti vividamente, gustosamente, nostalgicamente qualcosa della propria infanzia? Soprattutto quando la vita va avanti a scossoni, non siamo un po’ tutti bisognosi di riprenderne i fili, di raccontarci chi siamo o siamo stati, per capire meglio cosa potremo ancora essere?

Ma già tra le pieghe di quel narrare, su come si sia trovato a fronteggiare il lupo archetipico che c’entra sempre un po’ coi nostri inferi, c’è anche altro materiale fantastico. In un esilarante dialogo (1805) con il padre dello scrittore nel preambolo-cornice, il vecchio custode Mocquet se ne esce nella dichiarazione d’essere stato incubato – cioè oggetto di oppressione onirica – dalla presunta strega ma’ Durand, da giovane amante di Thibault, il signore dei lupi. Dunque ecco incubi, streghe… il panorama notturno si allarga. Dodici anni dopo (1817), ecco un Mocquet invecchiato affrontare con Alexandre quindicenne un lupo che sfugge alle pallottole normali ed è toccato solo da quelle contrassegnate con la croce (ma non ferito o ucciso: occorrerebbero d’argento o d’oro – variante meno nota rispetto alla vulgata sui licantropi). Conclude dunque trattarsi del lupo di Thibault, cioè del diavolo…

Il protagonista Thibault di cui ora Mocquet racconta la storia viene collocato storicamente attorno al 1780, in una Francia Ancien Régime che in provincia cova ancora strascichi di medioevo. La zona in cui vive dipende dal barone Jean de Vez, grand louvetier (cioè ufficiale caccialupi) di Luigi Filippo d’Orléans IV, dunque grande cacciatore non solo per vocazione ma per incarico, che cerca invano di stanare e abbattere un certo lupo nero che fa un po’ pensare a una sua balena bianca. E di nuovo, come spesso nel fantastico, un elemento chiave è quello identitario: in grazia di “un’istruzione superiore a quella propria della sua condizione” il malinconico, neppure trentenne Thibault – zoccolaio, cioè fabbricatore di zoccoli – vive con sofferenza il suo status sociale tanto umile, vorrebbe fare un salto verso classi ben più elevate. Il linguaggio conservativo di fiabe e leggende mette in guardia contro desideri di cambio di classe e sottolinea il prezzo livido che l’invidioso dovrà pagare, ma l’impressione è che qui si tratti soprattutto di un modulo narrativo: “«Oh! Maledetto sia il giorno», gridò Thibault, «in cui ho desiderato qualcosa di diverso da ciò che il Buon Dio ha posto a portata di mano per un onesto artigiano!”. Qualcosa che certo condurrà il transfugo sociale a un ben diverso status identitario sotto l’egida del Grande Scimmiottatore, il diavolo: il tutto attraverso una serie di assunzioni di identità una più falsa dell’altra, ma anche via via più compenetrate in carne e sangue, fino a fargli smarrire la stessa natura umana. Eppure la solidarietà del narratore – e dello stesso lettore – verso Thibault non si esaurisce nel topos romantico di simpatia per i maledetti. In effetti, “non si sceglie un personaggio, sono i personaggi a scegliere noi; e che fosse buono o malvagio, io fui scelto da quel personaggio”. Un caso? Difficile non vedere, almeno in parte, il profilo di Dumas, l’uomo che si fa da solo (giunge a Parigi ventenne con il solo bagaglio di una bella scrittura), diventando, da incolto che era, un intellettuale e un autore tanto celebre, sia pure al prezzo che lo porta all’esilio…

Ovviamente il primo incontro tra zoccolaio e barone è destinato a finir male, e in realtà anche i rapporti con gli altri personaggi: l’angelicatissima e noiosina Georgine Agnelet, detta Agnelette; la birichina e sensibile mugnaia di Coyolles di cui si invaghisce con un occhio ai proventi della sua attività, e il cugino di lui invaghito della mugnaia; il balivo Magloire e sua moglie, ai quali Thibault si presenta come benestante; il giovane barone Raoul di Vauparfond, che permetterà al Nostro un altro e più viscerale scambio identitario; la stessa contessa di Montgobert, che di nuovo può richiamare il Dumas lettore di Poe (L’appuntamento, nel racconto 1834 dell’americano: qui, “Vi trovò un biglietto su cui erano scritte queste sole parole: Fedele all’appuntamento”)… ma il gioco è scoperto, il lettore è solo incuriosito su come falliranno i vari rapporti, dopo essere stato accompagnato in giro dall’esuberante cicerone Dumas. Che riesce a rendere fiabescamente divertente anche il dialogo col lupo nero che sarebbe il diavolo (o almeno un diavolo), ed evidenzia che gli apparenti vantaggi recati dal suo aiuto presentano tutti un retrogusto dannoso.

 

«Allora, dicevamo», riprese il lupo, come se nulla fosse accaduto, «che non posso garantirti che avrai tutto ciò che de­sidererai di buono».

«Dunque non posso aspettarmi nulla da voi?».

«Al contrario, perché io posso garantirti che tutto ciò che di cattivo desidererai per il prossimo, si avvererà».

«Beh, e a me che ne verrà in tasca?».

«Sciocco! Un moralista ha detto: “C’è sempre, nella sventu­ra del nostro amico più caro, almeno un granello di soddisfa­zione per noi”».

«L’ha detto un lupo, questo? Non sapevo che tra i lupi vi fossero dei moralisti».

«No, era un uomo».

«L’hanno impiccato?».

«No di certo, l’hanno nominato governatore di una pro­vincia del Poitou. È ben vero, però, che in quella provincia ci sono parecchi lupi. Ora, se nella sventura del nostro miglio­re amico c’è sempre qualcosa di soddisfacente, capirai bene quanto di soddisfacente ci possa essere nella sventura del tuo peggior nemico!».

«C’è del vero in questo», disse Thibault.

«Senza contare che c’è sempre modo di approfittare della sventura del prossimo, che sia amico o nemico».

«In fede mia, voi avete ragione, signor lupo», rispose Thibault dopo qualche attimo di riflessione. «E voi mi accordereste questo potere in cambio di cosa, esattamente? Andiamo, do ut des, non è così?».

«Sì. Ogni volta che esprimerai un desiderio che non ti arrecherà profitto, io voglio che mi sia ceduta la proprietà di una piccola parte della tua persona».

 

E più tardi, in quella che difficilmente può essere letta come un’edificante esortazione alla virtù:

 

«Oh, quanto a invidia appartieni all’angelo caduto, che è il mio padrone e anche il tuo; solo che, mancandoti l’intelligenza per desiderare, tra i mali, un male che potesse giovarti, forse sarebbe stato più vantaggioso per te rimanere onesto».

 

Per proseguire:

 

Da quando gli uomini hanno inventato il battesimo, non si sa più come prenderli, e c’è bisogno che, in cambio di qualche concessione da parte nostra, essi ci cedano una parte dei loro corpi su cui noi possiamo metter mano.

 

Una parte che in fondo si limita, scoprirà lo zoccolaio, a qualcosa in apparenza molto contenuto: “Un capello per il primo voto, due per il secondo, quattro per il terzo, e così via di seguito, sempre raddoppiando”. Con tanto di scambio d’anelli (un sogghigno che sfugge a Dumas, impoverito dalle richieste economiche dell’ex moglie Ida Ferrier, proprio a seguito dello scambio di anelli matrimoniale)…

Ad aggiungere nuovi danni ai guasti dettati dai desideri diabolici sono gli stessi sensi di colpa del goffo Thibault, che non è un cattivo diavolo. In compenso si ritrova – ed è una delle soluzioni più affascinanti del romanzo – a capo di un branco di lupi con cui condurrà una propria guerra privata agli uomini desiderosi di ucciderlo.

“Meglio piuttosto che io incominci subito a narrare la mia storia. / Dico la mia, sebbene forse dovrei dire la storia di Mocquet”: un rapporto di innovazione narrativa che non ha nulla a che vedere con le presunte imitazioni derivative accusate da una critica superficiale. Così come in La donna dal collier di velluto Dumas riportava – a suo dire – la voce di Nodier, rimodulando genialmente una leggenda metropolitana d’epoca: che però nelle sue trovate e mezzetinte, nella sua geniale rielaborazione, diventa assolutamente sua. A ricordarci che le storie consegnateci dobbiamo riprenderle noi in mano – sapendo che tanto quelle sciabordano tra gli uomini dall’inizio della storia. È come noi le riprendiamo in mano che fa la differenza: fino a metamorfizzarle in qualcosa di unico. “E a Thibault parve di vedere il lupo nero crescere, allun­garsi, piantarsi sulle due zampe di dietro e allontanarsi in forma d’uomo, mentre gli faceva un cenno di saluto con la mano”.

 

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Conosciuta non riconosciuta https://www.carmillaonline.com/2022/04/12/conosciuta-non-riconosciuta/ Tue, 12 Apr 2022 20:39:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71348 di Franco Pezzini

Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, pp. 336, € 24,00, Odoya, Città di Castello 2022.

Seguito ideale dell’Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano degli stessi curatori Camilletti e Foni e per gli stessi tipi Odoya, questo nuovo Almanacco – il termine è importante, a suggerire una varietà di temi da compendio popolare – torna anche a riproporre la dialettica del volume precedente tra Folk Horror e Urban Wyrd. Soffermandosi qui maggiormente su questo secondo aspetto, per cui l’inurbarsi [...]]]> di Franco Pezzini

Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, pp. 336, € 24,00, Odoya, Città di Castello 2022.

Seguito ideale dell’Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano degli stessi curatori Camilletti e Foni e per gli stessi tipi Odoya, questo nuovo Almanacco – il termine è importante, a suggerire una varietà di temi da compendio popolare – torna anche a riproporre la dialettica del volume precedente tra Folk Horror e Urban Wyrd. Soffermandosi qui maggiormente su questo secondo aspetto, per cui l’inurbarsi dell’orrore popolare legato alla civiltà rurale a seguito dei fenomeni di migrazione interna al Paese, e lo stesso imprevisto innesto di storie perturbanti sul tessuto cittadino, conducono all’assorbimento di inquietudini specifiche della vita metropolitana. Ne emergono paure dai connotati arcaicissimi ma in realtà sempre presenti – magari con disagio, vergogna o strappando ironie forzate – al nostro orizzonte interiore, irruzioni dell’occulto, dell’insolito e dello strano che in un’indagine di questo tipo (in gran parte saggistica e memoriale, con modiche dosi di fiction) permettono di svelarsi anche a noi quale conosciuto non riconosciuto: in sostanza, perturbante. Il volume richiama anche uno studio precedente di Camilletti, Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto (Lang, 2018), virato su editoria, cinema e televisione nei Sixties: in questa coppia di Almanacchi ne troviamo l’ideale sviluppo cronologico con una fase topica negli anni Settanta e strascichi fino all’oggi.

Articolato in tre parti, dopo la bella introduzione Storie arcane di Fabrizio Foni (qui maestro di cerimonie, come Camilletti lo era stato del primo volume), il volume presenta ricche spigolature dai rotocalchi e incomparabili amarcord, con storie altrimenti destinate a perdersi. Teniamo presente il ricchissimo fondo di storie familiari che nutre gli annali dei fantasmi nostrani: sarebbe davvero prezioso che si prendesse l’abitudine di trascrivere tali storie, con tutte le ricchezze e le trasversalità delle appartenenze sociali. Come ricorda Pupi Avati,

 

La tavola veniva sgombrata, tutti si sceglievano una sedia e mia zia Laura tirava fuori da non so dove un tabellone con le lettere e un piattino: era il momento della seduta spiritica. Non avendo televisione né altri passatempi, la grande passione di quel periodo era l’evocazione dei defunti, praticata come gioco, senza alcuna titubanza in una famiglia cattolica come la mia, malgrado la tassativa proibizione della Chiesa.

 

A casa mia non si usava (lo faremo noi, da ragazzi, negli anni Settanta, con un ruspante spirito sperimentale che oggi mi appare piuttosto naïf), però ricordo il fascino e il brivido quando questi temi venivano evocati, magari alla venuta dei parenti, a casa di mia nonna. Storie spesso legate alla guerra: dall’amica che pettinandosi al mattino allo specchio se n’era uscita nel raggelante e incomprensibile epiteto “vedova” senza sapere che il marito era appunto caduto su qualche fronte, al conoscente di mio zio angosciato perché sapeva quali dei compagni d’armi non sarebbero tornati dalle missioni, doveva resistere alle loro pressioni sul tema e rientrando in casa si vedeva accogliere dal tavolino – tanto gonfio di medianità da muoversi sua sponte, lasciando tracce di sporco dove la gamba andava a battere sulle imbottiture circostanti… Prendeteli come mi sono arrivati: ma io li trovavo – e li trovo, ancora – terribili e meravigliosi.

La prima parte del volume riguarda – inevitabilmente, diremmo – Fantasmi d’oggi e leggende nere dell’età moderna: dopo una gustosa introduzione sul tema tra Leo Talamonti e le leggende metropolitane, vediamo così sfilare in spettrale processione i contributi di Francesco Scimemi, Via Principe di Scalea, 42, tra sedute spiritiche e riti crowleyani in quel di Palermo; Alessandro Scarsella, Nord e magia. Buzzati e altri reporter dell’occulto (Barzini, Pitigrilli, Angela, Bevilacqua); Tommaso Braccini, Culti innominabili. Percorsi popolari di sette diaboliche, rapimenti e sacrifici tra cronaca, leggenda e narrativa; Ivan Cenzi, SHOCK! Mezzo secolo di ‘Cronaca Vera’; Irene Incarico, Un devil dietro la schiena. Dalle leggende delle Tre Strade alla storia dei tre santerenzini in Brasile; Bruna Dal Lago, La Salwarìa (straordinario il tema della defunta strappata alla morte per altri sette anni, come attraverso certi rituali documentati in magia cerimoniale).

La seconda parte, Nel mezzo sta l’orrore, presenta – debitamente incorniciata dai cenni dei curatori – una lanterna magica di temi orrifici dove il folk traghetta al pop. Vi troviamo, a firma del leggendario Tony Binarelli, Alfredo: il Maestro; le ricognizioni di Antonio Tentori, La paura viene dal profondo. I film gotici di Pupi Avati (su un regista di importanza capitale per il recupero di queste tradizioni) e di Howard David Ingham, Tè, biscotti e satanismo, sull’immaginario nero di una serie di thriller cinematografici anni Settanta; i contributi di Felice Pozzo, «Chi l’ha vomitato? L’Inferno!». Superstizioni, spiritismo, magnetismo e tafofobia in Emilio Salgari, di Stefano Curreli sulla storica collana horror popolare I Racconti di Dracula, di Moreno Burattini, Nostra Italia degli Orrori. Breve cronistoria dell’horror nel fumetto italiano da Virus a Dylan Dog, di Luigi Cozzi, Horror: un ricordo (sullo storico mensile a fumetti 1969-1971, edito da Gino Sansoni), di Fabio Camilletti & Paolo Di Orazio, Splatter. La rivista che faceva incazzare i genitori (molto più tarda, compare nel 1989) e di Stefano Marzorati, Party on, dudes. Le stagioni del Dylan Dog Horror Fest; i testi dello iamatologo Massimo Soumaré, Guerrieri leggendari e creature soprannaturali del folclore italiano (e un confronto con le loro controparti del Sol Levante) e di Davide Bosco (già Davide Tarò), Suta la pàuta la carta campa, suta la pàuta la carta crepa, “un racconto di terrore e nostalgia, atto d’amore verso i periodici che ci piacciono” (dall’introduzione alla parte II).

La terza parte, Trilli del diavolo, da Tartini & Paganini di nuovo a folk e pop, denuncia già nel titolo come una certa musica strappi brividi d’epoca. Vi troviamo i testi di Claudia Padalino, Il fantastico viaggio del bagarozzo Goblin. Ovvero come la musica di ‘Profondo rosso’ (ma anche di altri film) si è infiltrata nel nostro immaginario; Eduardo Vitolo, Paranormal rock. «…e tu vivrai nel terrore!»; Antonello Cresti, Il black metal alla ricerca delle oscure radici; e il racconto di Maso Bisi (all’anagrafe Tommaso Bisi), Il violino di zio Bruno, apparso nel 1906. Il tutto con una quantità di ricchissime schede di approfondimento dei curatori.

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Un po’ di Folk Horror per Aleister Crowley https://www.carmillaonline.com/2021/11/22/un-po-di-folk-horror-per-aleister-crowley/ Mon, 22 Nov 2021 21:45:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69342 di Franco Pezzini

Aleister Crowley, I ramoscelli d’oro, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Luca Baldoni, pp. 234, € 14,00, Arcoiris, Salerno 2021.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita da pochi giorni la prima traduzione italiana di questa godibile raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

Per noi oggi può esser difficile percepire quanto a fondo e pervasivamente l’opera mitografica dell’immenso vittoriano Sir James George Frazer (1854-1941) abbia potuto influire fin dai suoi [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister Crowley, I ramoscelli d’oro, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Luca Baldoni, pp. 234, € 14,00, Arcoiris, Salerno 2021.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita da pochi giorni la prima traduzione italiana di questa godibile raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

Per noi oggi può esser difficile percepire quanto a fondo e pervasivamente l’opera mitografica dell’immenso vittoriano Sir James George Frazer (1854-1941) abbia potuto influire fin dai suoi tempi sulla cultura dell’immaginario, quello “alto” come poi quello pop. Con il suo seminale, monumentale Il ramo d’oro (1890), l’antropologo scozzese impatta infatti da un lato su tutta una percezione collettiva del passato: offre al progresso degli scavi archeologici nuove profondità, nutre di echi inquieti le fantasie di bellezza dei quadri romantici fin de siècle evocanti antichi mondi, vivifica con suggestioni scientifiche lo stesso movimento simbolista tra Otto e Novecento – con le sue storie estetizzanti su ritorni degli dei e le torbide/torpide fantasie di estenuati sacrifici ed estasi (nutrite all’epoca, va detto, da pulsioni immaginali ben dipinte da un altro grande repertoriatore di demoni e dei, Richard von Krafft-Ebing). Fino a dar sostanza alle più tarde provocazioni dei maliziosi romanzi storici di Robert Graves e magari alle pagine critiche di Camille Paglia in Sexual Personae, memori di tutta la scandalosità dell’eminente vittoriano Frazer nell’aver riconnesso la stessa fede cristiana a una storia di culti più antichi. Mostrando come arcaiche credenze di popoli diversi presentino documentabili contiguità tra loro e svelino tracce persino nel folklore di casa, Frazer offrirà basi robuste – anche tramite letture molto discusse dei decenni successivi, come i saggi sulle streghe di Margaret Murray – addirittura a un genere cinematografico, il Folk Horror.

Frazer mostra un passato diverso da quello neoclassicista algido di Bellezze marmoree: il suo è un passato di paglia e vimini, di legno e fuochi e capanne e feste, di comunità in movimento coronate di fiori e di preti-assassini che sgozzano rivali nei boschi avvolti nella notte. Già, perché lui non si limita a offrire i dati, ma li racconta con abilità di narratore navigato: attraverso le sue pagine il bosco di Nemi fa davvero rabbrividire di sacro raccapriccio. Poi certo, la critica successiva lo bersaglierà di obiezioni, ma ciò nulla toglie all’importanza del suo influsso. E del resto partire da lui è necessario per inquadrare la febbricitante raccolta che un altro dei suoi affezionati lettori, Aleister Crowley, in arte Bestia 666, gli dedica – e qui presentiamo.

Non è un caso. A differenza di altri occultisti dell’epoca – come Dion Fortune, che raccomanda di restare nell’alveo delle esperienze simboliche, mistiche e magiche della propria cultura di provenienza – Crowley non teme di ibridare forme diverse di conoscenza con apporti anche esotici. La sua fascinazione per l’alterità, che spesso rivela tratti sincretistici, non può che farlo sentire a casa tra le contiguità comparatistiche del Ramo d’oro; gli aspetti torbidi e selvaggi della repertoriazione di Frazer devono stregarlo, oltretutto per la “magica prosa” con cui sono resi; si aggiunga quel fascino per la cifra della summa (corteggiata dal baronetto con il varo di un’opera immensa, in progressiva crescita, che nella terza edizione raggiunge i dodici volumi), e riproposta dalla Bestia con la propria summa, Magick.

Di Frazer, Crowley scrive nel Liber 888, Jesus: “sono orgoglioso di essere il membro più umile del collegio di cui lui costituisce tanto onorevole vanto”. In realtà Frazer non funge da tutor né da instructor al Trinity College di Cambridge dove Aleister studia – limitandosi a tenervi lezioni – ma la futura Bestia si imbatte nel lavoro di lui probabilmente nei tre anni in cui si trova lì undergraduate (1895-1898). Lo menziona comunque per la prima volta nel poema drammatico The God Eater (1903), probabilmente – con la sua fame di libri – possiede varie edizioni del Ramo d’oro e al tempo dei racconti qui riuniti deve avere a disposizione l’immensa terza edizione. Ovviamente Frazer può non essere altrettanto lusingato, considerando la fama montante dell’“Uomo più malvagio del mondo”: ma nei fatti la breve raccolta che qui si va a presentare – Golden Twigs, Ramoscelli d’oro, in ossequio al Ramo d’oro frazeriano – rappresenta una sorta di omaggio all’antropologo, sia pure da un punto di vista compiaciutamente pagano (e anzi neopagano). Non è strano che, molto più avanti, Crowley vada a iniziare al suo Ordo Templi Orientis Gerald Gardner, considerato il fondatore della neostregoneria pagana Wicca (che, almeno all’inizio, dai materiali della Bestia prenderà qualcosa).

Quando Crowley scrive i Ramoscelli si trova in America (fine 1914-fine 1919) – più precisamente a Hebron, New Hampshire. Il periodo americano è molto rilevante per la sua produzione narrativa, e a muovere il Nostro a comporre racconti – questi e altri, in particolare per il mensile letterario The International, di cui diverrà di fatto l’editor-in-chief – è, senza giri di frase, un’urgenza economica. Tuttavia i Ramoscelli non costituiscono un’operazione meramente alimentare, e restituiscono traccia del vero Crowley, delle sue passioni e dei suoi sogni, del suo autentico modo di fantasticare tra humour malizioso e sensualità crudele. Certo, non ci troviamo davanti a un narratore di speciale eleganza letteraria e i racconti – in sé garbati, comunque godibilissimi anche a distanza di più di un secolo, al di là di un preciso valore documentale – risentono di uno stile da prosa minore abbastanza diffuso nel primo Novecento estenuato e visionario. A connotarli specificamente è altro: da un lato una cultura ricca e varia, che non si esaurisce nella semplice spigolatura erudita da Frazer – visto che Crowley l’ha studiato a fondo, e comunque vanta a supporto un impressionante panorama di altre letture, ruminate criticamente – e dall’altro un’ironia spesso pungente, sorniona, che è tutta sua.

Appunto su The International la Bestia pubblica sei degli otto racconti di Golden Twigs: in genere sotto lo pseudonimo di Mark Wells (tranne Il Vecchio dell’albero di Pippal accreditato a tal James Grahame, forse perché sul numero c’è già un altro testo attribuito a Wells, o piuttosto perché Il Vecchio mostra un registro inusualmente lieve e fiabesco). E sulla rivista (ottobre 1917) non manca di presentare con un certo compiacimento la serie in termini generali:

 

Le storie dei tempi pagani di Mark Wells sono tutte storie vere nel senso più alto del termine. Cioè fanno rivivere questi periodi davanti agli occhi del lettore. I costumi e le credenze che descrivono sono autentici, secondo l’autorità del più grande di tutti gli archeologi, il dottor J. G. Frazer, Lilt. D., il cui classico, Il ramo d’oro, è la principale fonte di informazioni di Mr. Wells.

 

Chiaro che la verità di queste “storie vere” è anzitutto potenziale: e del resto le ricostruzioni di “Wells” pongono in scena siparietti dove i personaggi svelano psicologie del tutto coeve all’autore. Ciò che non dovrebbe stupirci: sia perché Frazer stesso (come critica Wittgenstein) non sarebbe “in grado di immaginarsi un sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza”; sia perché il paradosso e l’ironia hanno ruolo rilevante nel magistero crowleyano, e l’effetto di spiazzamento del lettore di fronte a questi teatrini – dove ritrova buoni borghesi anglosassoni del suo tempo camuffati da greci, fenici o anatolici – rientra in un effetto voluto. Tanto più che la caleidoscopica varietà di sfondi dei Ramoscelli riflette idealmente quella, tanto più ampia, dell’atlante di viaggi e soggiorni dell’autore in giro per il mondo.

Di Golden Twigs verrà annunciata un’edizione Mandrake Press nel 1930, che non decollerà (esiste però il testo che doveva costituirne la base, lievemente arricchito rispetto agli originali dei racconti), e una seconda edizione sfumerà nel 1947 alla morte di Crowley. La prima effettiva edizione della raccolta apparirà dunque solo nel 1988 negli Stati Uniti (Teitan Press di Chicago), e questa è la prima italiana.

Rivelativa è già la dedica, approntata per l’abortita edizione Mandrake: a Frazer, definito “Maestro degli Dei”, e ai “suoi discepoli, i Bezbozhniki, che mettono in pratica il suo Lavoro di Lustrazione”. Dove il termine russo attribuito ai medesimi significa “senzadio”, atei – termine certamente un po’ troppo forte per i discepoli di Frazer della cosiddetta “scuola di mito e rituale”, come Jane Ellen Harrison e Gilbert Murray, e che si richiama piuttosto alla rivista antireligiosa sovietica di fine anni Venti Bezbozhnik. L’interesse di Crowley per il regime sovietico come ideale estirpatore del cristianesimo e promettente via di diffusione del Thelema è del resto ormai dimostrato. Quanto a un altro dedicatario, il “Merlin” citato non è quello arturiano, ma si tratta del nome rituale dell’occultista – nonché cantante di music hall, giornalista, forse agente segreto… –  tedesco Theodor Reuss (1855-1923), che ha arruolato Crowley nell’Ordo Templi Orientis (1910) e ne verrà oscurato, lasciandolo quale successore. Mentre David Herbert Lawrence è come ovvio lo scrittore (1885-1930), a sua volta pubblicato all’epoca da Mandrake Press e morto nel marzo dell’anno dell’abortita edizione dei Ramoscelli.

Tentando di non spoilerare indebitamente sui contenuti della raccolta, Il re del bosco (The King of the Wood, scritto il 30 agosto 1916, originariamente titolato The Priest of Nemi, e pubblicato su The International, aprile 1918) richiama un tema-chiave dell’opera frazeriana, il racconto sull’arcaico istituto del re del bosco di Nemi, con tanto di ammiccamenti e fremiti al torbido di età simbolista (la padrona amante dello schiavo che gli mormora sensuale «“Ti sto condannando a morte […] Sono la tua assassina. Bevo il tuo sangue. Ti amo!”»). La pietra di Cibele (The Stone of Cybele, scritto 6-7 settembre 1916, originariamente titolato The Priestess of Cybele, edito solo tardivamente su The Equinox, vol. III n. 10, 1986) è forse il racconto più spudoratamente crowleyano, con la contrapposizione – di nuovo, molto simbolista – tra cristianesimo e un paganesimo pronto a tornare in possessioni e febbri interiori. Il ritorno degli dei pagani è del resto un topos letterario a cui il ruolo profetico consacrato per Crowley dalla rivelazione del Cairo (il Libro della Legge presuntamente trasmessogli appunto da un messaggero del dio egizio Horus, 1904) offre sostanza anche esperienziale. Poi certo, si tratta di uscire un po’ dalle allusioni roboanti: il “rituale più tragico e abominevole di tutta l’antichità” è quello dei sacerdoti di Cibele, che in estasi orgiastica si eviravano. Non mancano sberleffi, come nel richiamo «in un greco tonante […]: “Destatevi, o porte, e che siate aperte, voi porte eterne, perché deve entrare la Regina della Gloria!”», trascrizione al femminile e paganizzata del versetto assonante del Salmo 24 (23), 7, che i lettori d’epoca riconoscevano senza difficoltà e un po’ perplessi in questa forma alterata; e comunque nel finale, dove la soave signorina inglese un tantino repressa diventa nientemeno che una scatenata sacerdotessa della Grande Dea. Plausibilmente qui lo scrittore si ritrova a proprio agio nel personaggio del neopagano Claude de Crillon, sorta di Calibano in quella Parigi incantata dove Crowley fu a più riprese; l’istituzione di riti pagani a Londra sembra richiamare quelli crowleyani di Eleusi (1910), mentre il presunto cardinale apostata può essere modellato su Mariano Rampolla del Tindaro (1843-1913), Segretario di Stato di Leone XIII dalla politica antiaustriaca e filofrancese, che per questo al conclave del 1903 incassò il veto di Francesco Giuseppe (in grazia dello ius exclusivae concesso al tempo all’Austria-Ungheria e ad altre due nazioni cattolicissime). L’opposizione francese di estrema destra alla Terza Repubblica vociferò di un’appartenenza di Rampolla alla massoneria, o piuttosto a un ordine templare, donde probabilmente la fantasia di Crowley.

Sempre sulla base di pagine di Frazer, L’oracolo dell’Antro Coricio (The Oracle of the Corycian Cave, scritto 3-4 settembre 1916, edito per la prima volta nella prima edizione della raccolta nel 1988) è ambientato nell’antica Cilicia, e mette in scena la disinvolta e beffarda sapienza di un profeta locale: ma solo tenendo conto del ruolo dell’ironia e della beffa nel magistero di Crowley riusciamo a capire come Ruh (altra maschera dell’autore?) sia in fondo un vero profeta. Di nuovo un finale inatteso ma non troppo è quello di Il rogo di Melcarth (The Burning of Melcarth, scritto il 2 settembre 1916, pubblicato su The International ottobre 1917), sulle disavventure di un corinzio a Tiro: se avesse potuto conoscerlo, Crowley avrebbe amato appassionatamente il genere cinematografico Folk Horror, e in particolare film come il capolavoro The Wicker Man di Robin Hardy (1973). In generale, questi suoi racconti mostrano connotazioni almeno contigue alla nebulosa mitica del Folk Horror: il riemergere di istanze pagane in contesto moderno (sia perché la storia è effettivamente ambientata in età contemporanea, come La pietra di Cibele, sia perché comunque emerge un conflitto di fasi culturali tra alcune più arcaiche e “selvagge” e altre più recenti e “civili”, come nel Rogo di Melcarth), e una loro minacciosità accettata come crudelmente inevitabile. Nessun idillio New Age, insomma: il mondo pagano evocato con fascinazione resta – come nella migliore tradizione Folk Horror – rigorosamente, estaticamente feroce.

Il focolare (The Hearth, scritto 13-14 settembre 1916, con manoscritto dedicato alla carismatica violinista e collaboratrice magica Leila Waddell, qui ispiratrice della figura di Giulia, e prima edizione su The International novembre 1917) si svolge invece nel Lazio antico dei Silvi, e nuovamente vi hanno parte istituti crudeli e arcaici. Mentre rientriamo nel Novecento con Il Vecchio dell’albero di Pippal (The Old Man of the Peepul-Tree, scritto 10-11 settembre 1916, pubblicato su The International aprile 1918 come appunto di tal James Grahame), sorta di fiaba gentile dove due gemelli di famiglia decaduta, ma risalente – si dice – a Wotan, ricevono un aiuto inatteso dall’entità di un “grande albero di Pippal, il fico sacro dell’India”.

Il Crowley più malizioso torna con La messa di Saint Sécaire (The Mass of Saint Sécaire, scritto tra il 31 agosto e il 1° settembre 1916, pubblicato sotto gli pseudonimi Barbey de Rochechouart, autore e Mark Wells, traduttore, su The International febbraio 1918), storia di magia nera dal finale sornione e inatteso. La blasfema inversione di riti cristiani ricordata nel titolo – è in sostanza una messa nera, con profanazioni aggiunte come la crocefissione di un rospo di cui al Liber 70, Stauros Batrachou  – risulta a Frazer documentata in Guascogna, anzi l’antropologo ne importa la descrizione quasi letteralmente dal volume Quatorze superstitions populaires de la Gascogne di Jean-François Bladé (1883). Ovviamente il contesto francese finisce col richiamare al celebre Là-bas di Huysmans (1891) e a storie connesse che Crowley deve ben conoscere, come a proposito del prete/occultista Joseph-Antoine Boullan (1824-1893), su cui gravavano accuse di blasfemia, eresia e satanismo, sorta di modello del cattivo prete in scena. Se Crowley marca nettamente la propria differenza dai satanismi di cui viene accusato dai tabloid (e che considera piuttosto un sottoprodotto deviato del cristianesimo), alcuni nerissimi rituali non sono sconosciuti né alla sua teoria né (pare) alla sua prassi.

L’ottavo racconto, Il Dio di Ibreez (The God of Ibreez, scritto 8-9 settembre 1916, dedicato nel manoscritto a Ida Nelidoff, cioè a quanto sembra la danzatrice Lydia Nelidova, e pubblicato su The International gennaio 1918), è centrato sulla figura di Krasota, “vergine sacerdotessa di uno dei templi minori di Tarso”. Dopo aver domato con le proprio argomentazioni il terribile El-gebel conquistatore della città e avergli civilizzato il regno praticamente sotto i piedi con una serie di trovate, Krasota sceglierà la morte come esperienza estetica/estatica da eroina simbolista. A ispirare la protagonista sarebbe la stessa dedicataria Ida Nelidoff, l’iniziata dell’Ordo Templi Orientis cui si attribuisce il conio di un termine tecnico – Eroto-Comatose Lucidity, lucidità erotocomatosa – per una pratica abbastanza diffusa nei circoli crowleyani (e in altre comunità rituali, il rito sembra precedere Crowley): uno stato di coscienza raggiunto attraverso una stimolazione sessuale ripetuta con ogni mezzo conosciuto, fisico o anche eventualmente chimico, anche se non vi è accordo sulla necessità di raggiungere o meno l’orgasmo e le modalità mutano da un interprete all’altro. In un primo tempo l’iniziato stravolto scivola verso il sonno senza addormentarsi del tutto, ma poi la stimolazione successiva lo fa riaffiorare a una sorta di veglia: in tale condizione di consapevolezza trascendente sarebbe possibile sperimentare realtà separate. Come il povero El-gebel, restiamo perplessi di fronte a tanta dottrina.

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Augusta Wampyrorum https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/augusta-wampyrorum/ Sat, 19 Jun 2021 21:23:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66804 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di un successivo volume dei curatori al momento in preparazione. In questo, tra storie di lupi e fantasie su Lovecraft in Italia, etruscologia metapsichica e teatri della morte, anime pezzentelle, bambole sinistre, sopravvivenze sciamaniche, massoni a Trieste e tanti diavoli, è apparso anche un contributo di chi scrive sulla genesi di un fortunato mito pop da giornali della sera emerso nella Torino degli anni Settanta e ormai assurto a brand: The Wicker Town. Torino magica & orrore popolare. Se ne riporta uno stralcio.

 

[…] Nella galleria di Haining & Parker [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, I colibrì Mondadori 1972, a poca distanza dall’originale inglese Witchcraft and Black Magic, 1971, con un meraviglioso corpus d’illustrazioni di Jan Parker – cfr. qui] non manca uno spazio sui vampiri: e la bellissima raffigurazione di un volto inquietante con occhi azzurri, capelli rossi e labbro leporino, la consistenza incorporea venata però da una circolazione malsana, che emerge in un cimitero con aria maligna e assetata, è accompagnata da una spiegazione (un po’ banalizzante, ma tant’è) deliziosamente vintage.

 

Recentemente fantasiosi romanzi e films (specialmente quelli su Dracula, personaggio creato da Bram Stoker) hanno reso molto popolari questi “mostri” che molto probabilmente erano solo persone che soffrivano di disturbi mentali, bandite a causa della loro brama morbosa per il sangue [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, cit., p. 93]

 

Tra le concause del revival magico si può senz’altro identificare – si è detto – il decennio di successo capitalizzato dai film gotici Hammer, a partire dai primi a fine anni Cinquanta con i quattro moschettieri Cushing, Lee, Fisher, Sangster (due attori, un regista, uno sceneggiatore) a innesco di una straordinaria operazione di mitopoiesi: e Haining pensa proprio a quelli. Non è questa la sede per un’analisi del fenomeno, dove la riappropriazione di un’eredità gotica inglese già sfruttata e buttata oltre oceano, ristrutturata film dopo film in chiave di sistema mitologico, si accompagna alla vera e propria liturgizzazione di misteri pagani: e tutto ciò attraverso storie che sempre più innervano i classici del fantastico di concessioni a una cultura del magico (riti, culti, sette…) covata nelle Isole Britanniche fin dall’Ottocento, poi rinverdita dai fasti popolari delle tesi negli anni Venti/Trenta di Margaret Murray sul presunto “dio delle streghe” e dal successo popolare dei romanzi di Dennis Wheatley. La provocatoria saldatura tra tutto questo e una Swinging London per una breve stagione tornata centro del mondo offre una nuova marcia all’horror popolare saldando nostalgie e nuove provocazioni. E incentivando lo sviluppo di filoni dall’origine autonoma come la (grande) stagione del gotico italiano su schermo.

Certo il pantheon (o pandemonium) Hammer comprende un’estrema varietà teratologica: ma altrettanto certamente i vampiri vi vantano un ruolo e un fascino particolare. Sia quelli della vecchia generazione – in particolare Dracula/Lee, vero mattatore dell’epoca nonostante le continue frenate dell’interprete che teme di restare confinato nella parte – sia le sempre più disinibite nipotine del ciclo Karnstein, Carmilla & Co. In rapporto da un lato, del resto, con un boom vampiresco nel segno della trasgressione, a cavalcare un’euforia sessuale d’epoca che vede ammorbidirsi drasticamente le maglie della censura: si pensi alle belle succhiatrici di Jean Rollin e Jess Franco, a La novia ensangrentada di Vicente Aranda, 1972, allo stesso recupero filmico di una figura amata dai surrealisti fin dagli anni sessanta, la Contessa sanguinaria Erzsébet Báthory, da cui la definizione per i primi anni del nuovo decennio come “the Golden Age of the Lesbian Vampires”. E dall’altro con l’entusiastica divulgazione da parte di Raymond T. McNally e Radu Florescu dell’esistenza di un Dracula storico, Vlad III Țepeș, argomento presto amato dalle riviste anche italiane [cfr. qui].

Inevitabile che il successo della creatura liminare per definizione – tra vita e morte, materiale e spettrale, umano e bestiale, ripugnante e seducente – influisca anche sui miti di una città liminare quale Torino. Dove fantasie vampiresche sono attestate in realtà da parecchio tempo, sia pure in forme liberissime: si pensi all’opera lirica Il vampiro di A. De Gasparini rappresentata per la prima volta proprio in città nel 1801; alla commedia satirica in cinque atti Il vampiro del torinese Angelo Brofferio, 1827; allo sfarfallare vampiresco attorno a due veronesi eccellenti insediati a Torino, cioè Emilio Salgari (che ben prima della truce saga uruguayana Il Vampiro della foresta, 1902, aveva messo in scena un Sandokan “che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi” in La Tigre della Malesia, 1883-1884, protoversione a forti tinte del poi rielaborato Le tigri di Mompracem, 1900) e Cesare Lombroso (che definisce il serial killer Vincenzo Verzeni “Sadico sessuale, vampiro e divoratore di carne umana” e viene omaggiato da Luigi Capuana della sua novella Il vampiro, 1904). Anche non in presenza di un nesso diretto, la pratica (barocca, ma perpetuata a lungo) di conservare nelle chiese corpi santi sotto cera che riempiva d’orrore me bambino traghetta a quella dimensione di cadaveri inquietantemente conservati che trova qualche eco anche nella mitologia vampiresca.

Un discorso a parte andrebbe poi condotto sulle pratiche di assunzione di sangue per via orale: a volte per mantenere un aspetto giovanile (come nel caso della “vampira di Torino” Agnese Draghetti, originaria di Serralunga d’Alba e morta novantottenne nel 1785 a Villadeati, nell’Alessandrino, ma vissuta a lungo nella Contrada degli Angeli, poi chiamata Contrada della Dogana, attuale via Carlo Alberto, al n. 2, che girava i sobborghi pagando giovani donatrici di piccole quantità ematiche); a volte a fini di cura dell’anemia, anche se in quel caso si ricorreva normalmente al sangue animale dei macelli, e la pratica è attestata diffusamente nell’Italia dell’Ottocento.

È una fiaba scherzosa la storia dell’uomo vampiro catturato nel 1863 in città: riportata sul sito del C.A.U.S. – Centro Arti Umoristiche e Satiriche, racconta di questo tipo enorme tenuto agli arresti domiciliari in uno spazio annesso alla caserma di San Salvario onde svolgere con più efficacia il compito di salassare secondo prescrizioni mediche (al tempo normalmente gestito con sanguisughe). Alla sua morte, così vien detto, la municipalità lo ricorderebbe favorendo l’inserimento sulle case di San Salvario di immagini vampiresche (ovviamente i mascheroni sulle facciate degli edifici torinesi presentano spesso fattezze più o meno richiamabili a tali tipologie). Vera e propria leggenda metropolitana è invece quella del vampiro di San Mauro Torinese che nell’autunno 1947 semina il panico soprattutto in due frazioni confinanti con Torino, Cascina del Molino e Barca, guadagnandosi gli onori della cronaca. Occhi fosforescenti, vestito di nero, cappa e cappello da montanaro, morderebbe il collo a donne sole e soprattutto giovani; ma presto emerge che la voce è stata messa in giro per frenare un po’ le figliole in un momento in cui, terminata la guerra, sembra più difficile trattenerle da fughe serali. E tuttavia un’aggressione vera e in apparenza analoga – almeno secondo la vittima, che però non ha il tempo di perdere sangue – si verificherebbe poco dopo in corso Matteotti, pieno centro di Torino. Impossibile ormai stabilire la consistenza dei fatti.

Ma coi nuovi tempi il richiamo assume un altro peso. È difficile non cogliere un nesso in chiave di sogghigno colto tra le pellicole vampiresche Hammer e un’opera-chiave del fantastico torinese, L’ultima notte di Furio Jesi (1941-1980), eminente studioso del rapporto tra miti e storia: un romanzo di vertiginosa erudizione e scintillante, divertita intelligenza composto tra il 1962 e il 1970 – in due versioni piuttosto diverse – e pubblicato solo postuma da Marietti nel 1987 (riedizione per Nino Aragno, 2015). Jesi, autore anche della voce “Vampiri” nel Grande Dizionario Enciclopedico Utet e della fiaba vampirica La casa incantata (Vallardi, 1982, poi Mondadori 2000), mette in scena nel romanzo il tentativo di rivincita dei vampiri, stirpe altra un tempo dominatrice della Terra: Dio concede loro, stanco dei guasti prodotti dagli uomini, di riprendersi quanto hanno perduto. Conquisteranno quasi tutto il pianeta, ridando spazio alla natura che gli uomini hanno violato in tutti i modi – torniamo insomma al fiato apocalittico di un’epoca – e proprio a Torino, dove i vampiri hanno installato il quartier generale nella Torre littoria sovrastante Piazza Castello, avverrà lo scontro definitivo. Tra scontri in piazza, piccoli eroi e profittatori, affannati conciliaboli coi santi e giochi anche di piccolo cabotaggio tra Cielo e mondo umano, il risultato lascerà intravedere la fine della Terra…

Con lo sguardo pure alle nuove provocazioni e insieme a una Torino-osservatorio è il film fantastico, visionario e ironico di Corrado Farina Hanno cambiato faccia, 1971, dove il dipendente di una grande azienda torinese dell’auto, Alberto Valle, viene invitato – novello Jonathan Harker – nella villa di campagna del presidente, l’ingegner Giovanni Nosferatu interpretato da Adolfo Celi. Nel parco si aggirano come lupi delle Fiat (pardon, Auto Avio Motor) 500, e il povero Valle dovrà constatare la natura vampiresca dell’industriale e del suo potere sui mezzi di produzione e di comunicazione.

Negli anni che seguono, l’icona del vampiro è molto presente nell’immaginario, veicolata a Torino attraverso pubblicazioni popolari, giornali, proiezioni del Movie Club – piccolo ma importante, sul tesserino figurava l’immagine di Dracula/Lee – e programmazioni sulle prime minuscole televisioni private locali: dove con molta fortuna, in assenza di segnalazioni dei palinsesti, ci si poteva imbattere in quei film horror ancora banditi dalla tv di Stato (la mia prima visione di Dracula il vampiro, incontrato al tempo su una di queste reti, parte in effetti da metà film). La ribellione magica dei Settanta trova nel vampiro eversore di ogni punto fisso di natura e cultura un’icona eminente, e nelle fantasie dei miei anni di liceo (conclusi nel 1980) si tratta di uno degli archetipi fantastici più amati; anche se sul tema non compaiono al tempo e per qualche decennio altri romanzi o produzioni di rilievo torinesi. Negli anni Ottanta, con l’inabissarsi dell’icona vampirica al cinema, si sviluppa però in Italia una vera e propria critica in tema di fantastico, iniziano a moltiplicarsi edizioni di autori introvabili (come Le Fanu, per esempio la bella edizione Sellerio di Carmilla, 1980, o la proposta di altri suoi testi per Serra e Riva e soprattutto per Theoria); e con il revival gotico dei Novanta e nuovi mezzi come i VHS anche la cinematografia sul tema inizia a essere più avvicinabile.

 

Vampiri di passaggio

Un discorso a parte può poi valere per alcuni dei citati (presunti) visitatori a Torino abbinati a storie vampiresche. Si parte naturalmente dall’esorcista di protovampire Apollonio, antenato virtuale di Van Helsing & Co.; mentre il vampiro Nostradamus interpretato da Germán Robles in alcune pellicole messicane (1960-62) sarebbe un solo ipotetico figlio del veggente. Quanto all’immortale Saint-Germain capace a sua volta – secondo alcuni racconti – di cacciare parassiti sovrannaturali, lo troviamo assurgere a vampiro buono nei romanzi di Chelsea Quinn Yarbro: a partire da quell’Hôtel Transylvania, 1978, proposto in Italia agli esordi (2005) della breve gloriosa stagione gotica della Gargoyle di Paolo De Crescenzo, a sua volta grande fucina editoriale di storie di vampiri.  

 

Una svolta si ha a Torino con il nuovo millennio, che vede uscire a breve distanza il film Io sono un vampiro di Max Ferro, 2002 – dove il non-morto attraversa i secoli dall’assedio del 1706 alla nuovissima movida – e il romanzo erotico/ironico L’ultima ceretta di Anna Berra per Garzanti, 2003: quest’ultimo avrebbe anzi dovuto intitolarsi Bevimi, a saldare suggestioni da Alice in Wonderland con le suzioni di una setta (umana) praticante il vampirismo in una villa di zona Crocetta. Qualche suggestione vampiresca emerge anche nella sua bella raccolta Piume di sangue. 69 racconti noir, Enrico Casaccia/Co.RE Editrice, 2009 [per un suo lavoro più recente in tema vampiri, cfr. qui]. In Quarto di luna per i tipi SBC, 2008, il musicista Marco Gallesi inscena invece l’arrivo a Torino di un vero vampiro, il soldato tedesco Rutger Haussman, trasformato durante la battaglia di Stalingrado; e vampiri vi porta Carla Oddoero/Blake B (Blink), che nel 2010 inizia a raccontare la saga di Zora von Malice, ventisettenne non-morta svegliatasi all’improvviso in una villa decadente della collina, edita in due volumi per i tipi Golem, La curiosità uccide il gatto e Il silenzio è dorato (l’autrice è purtroppo mancata prematuramente nel dicembre 2017). Più avanti nella città inizia e termina – anche se gran parte è ambientata a Budapest – il romanzo Tutto quel buio di Cristiana Astori per Elliot, 2018, nuova avventura della cacciatrice di film perduti Susanna Marino: la ricerca della prima pellicola su Dracula di attestata produzione, Drakula halála di Károly Lajthay, 1921, conduce a confrontarsi con le dimensioni vampiresche dell’uomo e della Storia. E ancora è chiaramente Torino la città non identificata della storia fantasiosissima e lugubre, e soprattutto vampiresca, narrata da Ade Zeno in L’incanto del pesce luna per Bollati Boringhieri, 2020.

Ma ormai e sempre più i vampiri sono raggiungibili via internet, mentre fioriscono iniziative aperte al tema come il TOHorror Film Fest, fondato nel 1999 e in progressiva crescita, alcuni eventi sgranati negli anni (per esempio la mostra Diversamente vivi al Museo Nazionale del Cinema, tra settembre 2010 e febbraio 2011) e spazi nell’ambito di realtà museali come il MUFANT – MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza. Non stupisce peraltro che proprio a Torino, tra Centro, Borgo Medievale e Valentino vengano girate scene della seconda stagione di A Discovery of Witches (Il manoscritto delle streghe), produzione televisiva britannica – 2018-in produzione  – ispirata alla Trilogia delle anime di Deborah Harkness, fitta di fattucchiere e appunto vampiri.

Certo, le storie di non-morti come normalmente presentate non sono ascrivibili a un contesto di Folk Horror o Urban Wyrd. E tuttavia attraverso il tessuto della Torino magica si può parlare di una sorta di obliquo genius loci. Che non movimenta ovviamente i Dracula Tour; ma in una città dagli scorci barocchi come le capitali mitteleuropee delle grandi epidemie vampiriche, e dove i non pochi richiami letterari e cinematografici al tema mantengono sottotono un’elusività tutta piemontese, un intero itinerario nel segno del vampiro potrebbe essere agevolmente disegnato sulla mappa urbana. Una Torino/Karlstadt, a dirla con la Hammer, tra gli uffici di grandi aziende e le chiese con corpi stranamente conservati, le palazzine di sette vampiresche e quel certo negozio (ormai chiuso) di San Salvario dove si trovavano un po’ sottobanco i film sulle vampire di Franco e Rollin; tra il pop dei Seventies, dalla vertiginosa saldatura di miti, e quello di oggi, coi real vampires che rilasciano interviste e la stessa domanda che mi è capitato di sentirmi porre (con serietà, e senza citare Emilio de’ Rossignoli) se credo nei vampiri. A un livello più sottile, per capire la natura di Augusta Wampyrorum occorre considerare come detto la circolazione negli anni Settanta dei primi testi di cinema horror, le apparizioni dei film di vampiri sfarfallanti e sgranate sulle prime tv locali, le fantasie di adolescenti che nell’icona dell’arconte dell’indecidibile – anni luce prima del mieloso Twilight – ritrovavano qualcosa delle loro inquietudini. Ma poi, e sempre più mentre crescevamo, emergeva la percezione di un vampirismo come sopravvivenza di dimensioni non-morte nella storia e nella società italiana, che hanno soltanto cambiato faccia: qualcosa certo non esaurito in Torino, ma che sul set della città di passaggio (già prima capitale, già capitale industriale, già città olimpica, eccetera eccetera) trova un teatro eccellente, a suo modo emblematico. […]

 

P.s. Seguendo i consigli di un’amica specializzata in Lingua e letteratura romena, adotto in questo pezzo la lezione  Augusta Wampyrorum invece che Augusta Vampyrorum come nel contributo al volume o in altre precedenti occasioni.

 

 

 

 

 

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (II) https://www.carmillaonline.com/2019/08/26/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-ii/ Mon, 26 Aug 2019 21:05:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54308 di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata serie di comunità o gruppi segreti. Ciò che rileva, infatti, non è tanto un inquadramento “teorico” del soggetto – cosa sia o non sia una setta – ma un contesto narrativo e una serie di stereotipi e dinamiche.

Accanto alle sette vere e proprie, dunque, potremo repertoriare da un lato società e ordini segreti o almeno velati da un silenzio iniziatico come Rosacroce, Massoneria e Illuminati, connotati da un peculiare esoterismo; dall’altro ordini religiosi storicamente riconosciuti ma oggetto di particolare mitopoiesi come i Templari. Ma anche quelle comunità cultuali che per fanatismo, marginalità o vocazione al segreto gli sceneggiatori apparentano di fatto – e con tutti i pregiudizi del caso – alle sette: certi culti esotici, per esempio, non importa quanto fantasiosi (per esempio il culto di Karnak dei film sulla Mummia reviviscente, o i simil-Thug di Indiana Jones e il tempio maledetto).

Per contro non andrebbero comprese nell’analisi (per assenza di un sottotesto magico-religioso dal concreto impatto sulla trama) le società segrete o criminali, anche se connotate nella descrizione filmica da richiami forti a simboli, riti e valori. Al di là di un certo apparato, si pensi solo a quei Beati Paoli di discussa esistenza storica, celebrati all’inizio del Novecento da Luigi Natoli e sul (piccolo) schermo per esempio in un famoso sceneggiato nostrano, L’amaro caso della baronessa di Carini di Daniele D’Anza, 1975.

Ma è l’immaginario a definire i confini. Così, per quanto a rigore le vicende della Family di Manson appartengano all’insieme dei gruppi criminali assai più che alle sette nell’accezione dell’antropologia religiosa, i confusi connotati “filosofici” del gruppo, le orrende modalità del crimine e il tipo di contesto retrostante finiscono con l’avvicinare al tema del diabolismo: solo l’anno prima Roman Polański, marito dell’attrice Sharon Tate – la vittima più nota dell’eccidio, all’ottavo mese di gravidanza – aveva girato quel sulfureo Rosemary’s Baby, 1968 che parlava proprio di una setta satanica e della nascita dell’Anticristo.

In secondo luogo si è accennato al filone delle sette come a un subgenere cinematografico – come, per intendersi, il vampire cinema oppure il cinema demoniaco. Ma anche da questo versante il discorso è più sfumato, visto che nei singoli casi la setta può non rappresentare affatto il “mostro” principale o più evidente. Si pensi ai citati film sulla Mummia reviviscente o a quelli che richiamano gli zombie alla loro origine folklorica: la setta c’è eccome – nel primo caso un sopravvissuto culto egizio, nel secondo un Vudu riletto più o meno fantasiosamente – ma resta in secondo piano o decisamente defilata rispetto al suo alfiere teratologico (che magari si ribellerà, ucciderà l’arci-vilain capo della setta eccetera). Oppure si considerino i film sulla stregoneria: solo in certi casi presentano una collettività streghesca, e a volte le streghe non appaiono affatto, anche se l’inquisitore di turno si mostra molto indaffarato coi roghi e possiamo parlare di setta presunta – che però può avere peso concreto nella trama.

Nel tentativo dunque di porre ordine in una materia tanto sfuggente, un criterio potrà ravvisarsi – con tutta l’elasticità del caso – nella tipologia di setta, in riferimento cioè all’oggetto del “culto” in scena. E una prima e fondamentale categoria riguarderà ovviamente le sette religiose – le più diffuse senz’altro nel tessuto sociale, anche se non necessariamente le più rappresentate al cinema. Da un primo fronte potremo anzi distinguerle in due ampi filoni: le sette emerse dall’interno dell’Occidente che conosciamo, a espressione di ipotetici revival pagani o invece di istanze criptoecclesiali, giocate sul rapporto fanatismo/plagio o sulla resistenza alla chiese dominanti; e le sette venute dall’esterno, connotate in genere da aggressive e pittoresche forme di esotismo. Esotismo geografico, come nel caso di quelle d’importazione dall’Africa selvaggia o dal predatorio Oriente, secondo i più vieti stereotipi transitati attraverso il pelago della cultura popolare tra Otto e Novecento; ma anche esotismo cronologico, in riferimento a realtà del passato evocate nei film in costume, oppure sopravvissute o riemerse dal passato entro il grembo del nostro tempo, come il citato culto di Karnak dei film sulla Mummia.

Un secondo filone, meglio rappresentato su schermo, riguarda la galassia di magia e stregoneria. Le sette insomma dell’occulto, variamente declinato: e se per le streghe, che aprono un orizzonte vastissimo di problemi, occorrerebbe circoscrivere l’esame agli aspetti di un “culto” più o meno recuperato dalla divulgazione popolare (non è detto che un film dov’è in scena una singola strega alluda a una qualche sua collettività di appartenenza), altre comunità emergono in toto dal mondo della fiction. Si pensi ai culti blasfemi ispirati agli scritti di Lovecraft, che con abbondanti forzature troveranno via via spazio nel cinema, o (per dire) allo sfuggente e bizzarro culto dei Pantos delle fantasie horrotiche del regista Jess Franco. A quest’ambito variegato si possono peraltro accostare anche le sette evocate dai film di vampiri – sette di vampiri o comunque legate a vampiri, riti di sangue e ansie d’immortalità – o di licantropi: sottofiloni che negli ultimi anni, attraverso il successo della saga Twilight e le divagazioni di un (com’è stato definito) romanticismo sexy, sia pure al plasma, hanno visto moltiplicarsi nella fiction conventicole sempre più simili alle associazioni adolescenziali da college.

Terzo grande gruppo, di conclamata rilevanza nell’immaginario e dunque ovviamente importantissimo su schermo, è poi quello delle sette sataniche – o più generalmente diaboliste. Varato dal capolavoro non sufficientemente conosciuto di Edgar Ulmer, The Black Cat, 1934, il filone è quello che con più pertinacia ripropone gli stereotipi del modello-setta offrendo materia ogni anno a un numero non compiutamente repertoriabile di pellicole.

A tali macroaree dovranno però aggiungersi altri insiemi filmicamente meno rappresentati e con legami più problematici con il modello-setta, pur trattenendone alcune caratteristiche nelle trame. Troveremo per esempio le citate società segrete “storiche” di tipo esoterico (Illuminati, Rosacroce eccetera…) ovviamente nell’ambito di liberissime riletture; certi gruppi di controllo e cospirazione a carattere sociopolitico (sette votate al dominio, sette di ricchi, gruppi “preoccupati”), o connotati sul piano generazionale (confraternite giovanili, hippies, “sette” di bambini) o sessuale (come certe sette femminili). Oltre ad altri gruppi chiusi che gli stilemi cinematografici riconducono in termini più o meno riconoscibili al modello-setta.

 

1.3. Le stagioni della setta

Nella produzione filmica in tema di sette è possibile individuare quattro periodi fondamentali.

Il primo e più lungo periodo potrebbe essere definito come età del feuilleton. La setta è descritta secondo gli stilemi di tutta una produzione romantica/gotica su società e gruppi segreti: l’arsenale tenebroso e pittoresco, l’esotismo e l’enfasi su un passato tirannico, il dominio arcano su forze misteriose e minacciose, i melodrammi delle eroine sono elementi che sottolineano uno scarto tra l’esperienza mostruosa della setta e la realtà sociale “normale” cui appartiene lo spettatore. Non che manchino, intendiamoci, richiami all’inquietudine; ma la setta è un paradigma dell’estremo che interpella solo in via di eccezione. In questi anni, seminale è l’opera di fiction del “principe degli scrittori thriller” tra i Trenta e i Settanta, Dennis Wheatley (1897-1977): tutti coloro che in seguito immagineranno il theatrum delle sette si rifaranno in modo diretto o indiretto a lui, e una delle ultime grandi opere di questa fase è The Devil Rides Out, 1968, tratto dal suo omonimo romanzo, diretto per la Hammer da Terence Fisher e sceneggiato da Richard Matheson.

La svolta si ha idealmente con il caso Manson, che punta diretto al cuore del cinema ma scatena il panico non solo a Hollywood: altri crimini della Family hanno colpito gente comune, talora con teatrale atrocità, e il combinato di totale devozione dei membri, difficoltà di provare le accuse a Manson e impossibilità di circoscrivere con chiarezza un gruppo tanto sfuggente (ammiratori e fiancheggiatori non si contano) spiazza gli investigatori e alla fine il pubblico. Colpita è una certa immagine dell’America, e il caso finisce col segnare una svolta nell’immaginario già investito dal terremoto simbolico del ’68: la carica di sovversione recata dalla setta sembra sovvertire in chiave satanica i valori di un paese fondato con la Bibbia in mano, minacciare ogni possibile ambito, infiltrarlo in radice (perverte persino il “peace and love” marca hippie), annunciare la presunta apocalisse sociale dell’Helter Skelter. Anche attraverso il sensazionalismo da rotocalco di un’epoca in cui le fonti per comprendere un fenomeno sono limitate e l’esplosione coeva del grande revival magico (che potremmo simbolicamente datare all’uscita nel 1970 di Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural is an encyclopedia of the supernatural a cura di Richard Cavendish, ma ovviamente vede una quantità di tasselli precedenti), il mostro-setta entra così a piedi uniti nel genere horror. Che sta capitalizzando proprio le confuse dinamiche di un’età di ribellione – si pensi agli innumerevoli film sulla persecuzione delle streghe, già avviati dal leggendario The Witchfinder General (Il Grande Inquisitore) di Michael Reeves, 1968 – e trova in quel soggetto teratologico collettivo un tema importante. Al di là di abbondanti concessioni al pruriginoso, i film di questo periodo – che potremo appunto chiamare età dell’Helter Skelter – rivelano ancora a una lettura odierna la propria carica provocatoria. Una dimensione che però alla fine degli anni Settanta tende a esaurirsi.

Se è difficile ravvisare un punto di svolta, pare possibile riconoscerlo almeno a fini convenzionali nel 1978: in corrispondenza cioè con un nuovo terribile evento di forti ricadute sull’immaginario, il cosiddetto massacro della Guyana. A portare alla morte di novecentodiciotto persone, bambini compresi, non è un satanista (come spesso viene imprecisamente definito Manson) votato all’eversione ma un religioso, il reverendo Jim Jones del Tempio del Popolo: e il rapido approdo su schermo di un evento tanto eclatante – Guyana: Crime of the Century (Il massacro della Guyana) di René Cardona Jr., 1979 – è già indicativo di un nuovo modo di raccontare le sette. Potremmo parlare di età dell’ordinaria crudeltà per il periodo che giunge fino all’inizio degli anni Novanta: esaurita la valenza provocatoria del tema – come per molti altri sottofiloni gotici, si pensi al vampire cinema – con l’età del riflusso la tendenza è di confezionare prodotti “sicuri” nel segno di uno stile definito come originalità decorosa. Non che, ovviamente, manchino in assoluto film coraggiosi; ma a livello diffuso, abbandonate le emozioni del classico feuilleton e anche quelle della rivolta lisergica, la setta diviene uno stereotipo mostruoso come altri, in un continuo rilancio all’atroce.

Con l’inizio degli anni Novanta, però, l’horror e in genere il fantastico conoscono una nuova primavera: e pare emblematica l’uscita nel 1991 del film La Setta di Michele Soavi. In questa fase la riscoperta dei classici del passato (anche grazie a strumenti come VHS, DVD e comunque il web), l’intento di recuperarne il sapore anche filologico, il dialogo con la cultura neogotica conducono a un’attenzione nuova ai miti neri. In tale età gnostico-gotica (così potremmo chiamarla) che vedrà figure antiche riprendere quota con impreviste impennate le sette ritrovano un ruolo importante nell’immaginario cinematografico. Si diffonde nella cultura popolare una fascinazione un po’ New Age per quel filone criptoecclesiale che già annuncia Dan Brown, e permette di innestare nel vecchio arsenale paleogotico (abbazie dirute, inquietanti segreti, ambigui monsignori…) un nuovo esoterismo di consumo: un fenomeno oggi arretrato ma conservando il valore di un riferimento “eccellente” e un certo target. Emblematico anche il successo di altre fantasie gotiche che con le sette possono trovare connessioni, dal fantasy gotico della saga di Harry Potter – che riporta in circolazione il tema dei gruppi magici – alla variegata offerta (Buffy, Twilight) in tema di vampiri e relative collettività segrete: anche su questo fronte si assiste oggi a un arretramento, ma si tratta di temi ormai entrati nell’immaginario collettivo.

Se, a distanza di quasi trent’anni, i richiami al “mostro plurale” iniziano a sembrare un po’ logori (ma sempre godibili e magari sanamente provocatori se gestiti con intelligenza) non è in questione forse solo la rapidità con cui il nostro mondo usa e getta. Il fatto è che l’età del sospetto ha ormai scoperchiato le cripte un tempo segrete: non perché il segreto in quanto tale non abbia più spazio nel nostro mondo iperconnesso, ma perché quelli che davvero esistono sono affogati nella chiacchiera. Montate come maionese dai social, bufale e crociate antibufale (magari per imbavagliare il web) presentano la stessa assenza di logos. Il cospirazionismo e il suo fratello gemello, l’anticospirazionismo di comodo – quello che inibisce qualunque dubbio sulla realtà come presentata, in nome d’interessi che restano di classe e non equivocamente di casta, nuovo nome della setta – lavorano felici assieme.

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (I) https://www.carmillaonline.com/2019/08/23/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-i/ Fri, 23 Aug 2019 21:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54254 di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo [...]]]> di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo relativamente limitato esplode nei media sparigliando tutte le carte. La società americana è colta alla sprovvista dall’orrore e insieme dal carattere sfuggente della vicenda (la tesi di un apocalittico conflitto sociale che Manson avrebbe inteso scatenare attraverso gli omicidi risulta almeno fantasiosa, e legata – il memoriale Helter Skelter del prosecutor Bugliosi è abbastanza chiaro – alle difficoltà probatorie di sostenere l’accusa al malefico santone); e pur avviando un periodo di forte tensione, l’eccidio perpetrato dalla cosiddetta Family di Manson non porta a una generalizzata caccia alle streghe verso le controculture, come forse sarebbe avvenuto in altri momenti. Ma certo quel caso offre su un piatto d’argento all’immaginario collettivo – tra motivi concreti e stigmatizzazioni di parte, anche a seconda dell’approccio assunto dall’osservatore verso le realtà alternative – un nuovo volto della rivolta beat, ben più imprevedibile e allarmante. Sul tema, estremamente complesso, in questa sede non si entra.

Ciò che invece interessa è un altro contraccolpo immaginale. Il caso Manson influisce infatti in modo irreversibile sull’idea di setta presente in narrativa ma soprattutto sugli schermi, e che perde improvvisamente i connotati da feuilleton conservati fino a quel punto per assumerne di assai più sinistri.

 

1.1. Uomini e topoi

Di fronte all’odierno brulicare nella fiction (horror, storie fantastiche, thriller, polizieschi, e l’elenco potrebbe continuare) del soggetto-setta, di primo acchito si è portati a sospettare una sorta di diffusa pigrizia narrativa. A dirla con malizia, l’entrata in scena della setta di turno – spesso cattivissima – esime romanzieri e sceneggiatori dallo sforzarsi troppo sui moventi dei crimini, dal costruire psicologie complesse ai personaggi buoni e cattivi, dall’intessere dinamiche di eccessiva originalità. E permette di riciclare indefinitamente ingredienti simili, colpi di scena compresi. Ci sarà per esempio il momento in cui l’eroe intuisce di trovarsi di fronte a una realtà oscura collettiva e segreta; ci sarà la messa in scena del controllo che la setta esercita su soggetti più o meno vivi (persone “normali” controllate via plagio, ipnosi o forme di necrosi psicologica, ma anche zombie e mummie); ci sarà la scena del rito tenebroso, magari orgiastico; e ci sarà la solita fanciulla, o più raramente l’eroe o antieroe, davanti alla prospettiva di qualche orrendo sacrificio. Quando poi – come più raramente accade – la setta è invece “buona” e si schiera contro i vilain di turno, dovrà essere comunque circonfusa di un equivoco senso di mistero.

Dunque certo, può trattarsi di pigrizia dei narratori/sceneggiatori. Tuttavia la diagnosi in molti casi dev’essere meno ingenerosa e banalizzante: e la fiction sulle sette – di cui proprio il cinema offre il volto più popolare anche in termini di numeri di fruitori – permette di porre in scena dinamiche di oggettivo interesse. Per dire, a questo tipo di cinema si ricollega uno dei film in assoluto più belli di tutta la storia dell’horror, The Wicker Man di Robin Hardy, 1973. Il distinguo, come al solito, starà insomma nel tipo concreto di spendita del tema di volta in volta.

Vero e proprio mostro plurale, la setta permette di giocare in termini stilizzati e anzi ritualizzati elementi di sicuro successo presso il pubblico. Elementi piuttosto vari: dal più candido gusto per l’avventura e il mistero al richiamo un po’ pruriginoso per la damsel in distress, dal riconoscimento di strutture topiche che con le fiabe hanno molto a che fare – e soddisfano alcune nostre attese profonde in un complesso gioco di sfoghi ed esorcismi – all’evocazione sottile di concreti disagi e crisi d’epoca. Certo la necessità per l’eroe di calarsi in una dimensione di tenebra – il tempio segreto della setta – per strappare la vittima a una collettività senza volto e sconfiggere il male può dirla lunga sul rapporto con quel tempio d’Ombra che sono le pulsioni individuali e collettive in riferimento a valori, stereotipi di genere eccetera. Che ciò poi comprenda anche le peculiari attese dello spettatore postmoderno non può stupire: il richiamo cioè a vedere drammatizzata in scena, in un tessuto insieme provocatorio e gratificante, quella cifra del sospetto che connota – a torto o a ragione, poco importa – la società in cui viviamo.

A livello generalissimo, le trame presentano anzitutto un evento drammatico che porti il gruppo chiuso & segreto all’attenzione di una società più o meno ampia. Un’emersione che si manifesta anzitutto su un piano metatestuale come narrazione: è lo spettatore, prima ancora del protagonista, il soggetto che dev’esserne informato. Ciò innesca dinamiche interessanti: se la setta è il più paradigmatico mostro sociale, una società-mostro ombra e riflesso oscuro di quella più estesa di cui lo spettatore fa parte, il confronto permette di drammatizzare una serie di opposizioni (aperto/chiuso, conoscibile/segreto, libero/non libero eccetera) potenzialmente feconde per una meditazione critica sul nostro mondo di appartenenza. E d’altra parte il modo in cui la crisi su schermo verrà risolta – persino nel caso di una setta che, a un certo punto del film, si riveli “buona” – lascia spesso intravedere un estremo pessimismo degli sceneggiatori.

Se ciò attiene alla visione della setta dall’esterno (il protagonista e in parallelo lo spettatore), la drammatizzazione conduce d’altronde a scrutare – almeno a tratti – l’interno. Con la rivelazione della forte coesione dei membri, a livello interiore/psicologico ed esteriore/organizzativo: qualcosa che si manifesta come legame di sangue – sanzionato magari con terribili giuramenti e maledizioni – ma flirta con l’indifferenziazione, quasi a echeggiare una cifra Legione di identità frantumate e confuse in minacciosa identità collettiva. Ciò che trova la manifestazione culminante nella messa in scena del plagio (usiamo il termine in chiave generica), con gli adepti condotti a perpetrare gli atti più atroci o a subirli. Le potenzialità (melo)drammatiche del meccanismo sono evidenti, ma esso finisce con l’evocare in chiave provocatoria anche le alienazioni, i plagi e le crisi del mondo esterno “libero”.

Strettamente connesso, ed esso pure funzionale al frisson narrativo è d’altra parte il motivo del segreto. La setta vive dinamiche “coperte”, esclusive nei confronti del mondo esterno, e ciò rileva anche in tutto un contesto scenografico: caverne, templi segreti, ville impenetrabili, fattorie nel deserto permettono a registi e sceneggiatori di coinvolgere il pubblico grazie a un arsenale tradizionale di pittoresca efficacia, con riti obliqui il cui arsenale non è sempre chiaro. Ma al contempo proprio l’elemento del segreto – ovviamente da svelare – offre combustibile alla trama, provoca la quest dei protagonisti: e finisce così col manifestarsi come conclamata metafora mitica di quel segreto – l’evoluzione misteriosa di una trama in mano allo sceneggiatore – che sostanzia la curiosità verso qualunque film.

Proprio il segreto, però, topos del gotico classico a cui questo filone richiama, informa nella fiction anche un altro tema, il rapporto col potere. La collettività espressa dalla setta è per definizione minoritaria ma nel segno di un qualche tipo di élite: forte delle sue coperture, essa si impone come presenza irriconosciuta, pervasiva e infiltrante la società. Come espressione di spregiudicate lobby di potere anche ai più alti livelli, o invece di realtà sotterranea tra le pieghe nascoste del mondo cognito. Fino ad accreditarsi a motore segreto di storia, politica, religione e quant’altro, sull’onda di quei cospirazionismi di cui la cultura popolare trasuda nei più vari ambiti.

Fin qui si è accennato alle dinamiche drammatiche offerte dal motivo dell’oppressione psicologica o ideologica all’interno o all’esterno del gruppo; ma il tema di una religio in nero apre a uno spettro di suggestioni assai più ampio. Così da un lato conduce al variegato e febbrile bacino di fiction sui paganesimi: e di qui a sviluppi sui fronti paralleli del rapporto perturbante con il passato (si pensi a quel caposaldo del genere Folk Horror che è The Wicker Man, dove la setta è rappresentata dall’intera comunità neopagana dell’isola), e dell’alienità insidiosa delle culture esotiche in rapporto al civile Occidente (le sette egizie nei film di mummie, caraibiche nelle storie sul Vudu, eccetera). Ma da un altro fronte la religio in nero provoca direttamente, sia pure in termini fantastici, su temi ed elementi di un immaginario “cristiano”: un’evoluzione che trova radice nel primo gotico antipapista, e conosce sviluppi critici via via allargati a istituzioni e ambiguità di un po’ tutte le chiese dominanti, per giungere in fondo al vasto, colloso pelago odierno dell’esothriller alla Dan Brown. A fronte poi di questi poli del religioso si strutturano in funzione dialettica anche i relativi opposti, fino agli estremi dello streghesco e del satanico: e l’evocazione della minaccia – vera o presunta – incarnata dalla setta permette di proiettare come nei giochi d’ombre antesignani del cinema le stesse ambiguità della controparte.

Tutto un mondo simbolico tradizionale – segni, riti, liturgie… – viene così recuperato alla luce del pittoresco e dell’orrido, e la galleria delle brutture storiche liberissimamente rievocata grazie al comodo schermo di conventicole fittizie o poco note. Si tratta ovviamente di una nebulosa molto variegata, che corre dal brivido di certe fantasie criptoecclesiali – tenebrose sacrestie, cappucci, paramenti, angeli marmorei sotto nubi apocalittiche – alla diretta messa in scena del male attraverso topoi come il sacrificio umano e la tensione a un Anti-Avvento satanico. Nelle pellicole si potrà anzi individuare in genere almeno una scena-chiave di carattere specificamente rituale – sacrificale, iniziatica, eccetera: quello che possiamo definire il theatrum proprio della setta, e tale da compendiare idealmente un po’ tutti i topoi in precedenza citati.

La sua messa in scena permette infatti una svolta più avanzata nella conoscenza del mostro-setta da parte di protagonista e spettatore; svela nella coesione della setta la sua realtà di corpo (anti)sociale; sottolinea visivamente la cifra del segreto, anche nella collocazione spaziale della scena in un tempio nascosto, una cripta, una grotta; celebra l’epifania del potere della setta stessa, sia in senso materiale (per esempio nella visione dell’eroina catturata e pronta al sacrificio) che ideale (per esempio nel rivelare sotto i cappucci degli adepti personaggi presentati in precedenza come “importanti” – a vario titolo); e ovviamente ammannisce un ricco arsenale di suggestioni simboliche e rituali d’effetto. Ma anche da questo punto di vista, potremmo dire, la messa in scena riproduce con efficacia un meccanismo sottostante, finendo con l’essere metafora diretta del rito del cinema, con i suoi templi immersi nell’oscurità della proiezione.

E in particolare del cinema nero, recante il theatrum di provocazioni, crisi e contraddizioni del singolo spettatore e della società cui appartiene. Come in una rilettura della fiaba, il protagonista di queste storie dovrà dunque salvare la propria Biancaneve dall’altare-catafalco del sonno della Ragione, presidiato da una collettività nana oscuramente ctonia. Il che conduce verso abissi ben più profondi della cassa di una biglietteria; e il comodo sotterfugio di riparare dietro a una schiera litaniante di cappucci, tra torce, teschi e strani paramenti, finisce con lo svelare allo spettatore dimensioni ulteriori, dall’emersione più o meno imprevista o imbarazzante.

(I – continua)

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