esperienza umana – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 20 Oct 2025 22:01:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale https://www.carmillaonline.com/2023/05/10/lesperienza-umana-nellepoca-dellintelligenza-artificiale/ Wed, 10 May 2023 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76777 di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto [...]]]> di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto quelli votati ad acritici entusiasmi nei suoi confronti, il saggio di Pessina assume la prospettiva del fruitore delle nuove tecnologie indagandone in particolare l’esperienza “dell’essere altrove”. Non si tratta di documentare cosa gli esseri umani possano fare con le tecnologie e cosa queste facciano degli umani, quanto piuttosto di riflettere su come l’“esperienza dell’io” si dia ai nostri giorni in una situazione in cui si intrecciano “presenza” e “assenza”.

L’attuale contesto storico vede infatti l’esperienza degli individui fare i conti con l’irruzione di ciò che è altrove rispetto all’immediato dell’esperienza così come la si vive all’interno dei confini spazio-temporali della biosfera. Occorre perciò pensarsi anche dentro quel nuovo spazio di comunicazioni e relazioni creato dalle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), chiamato infosfera. «Pensare a ciò che facciamo richiede, oggi, di comprendere meglio anche ciò che le ICT fanno della e nella nostra esperienza» (p. 14). Tale contesto tecnologico, insieme a questioni di natura economica, sociale, politica, implica anche questioni di carattere antropologico che per certi versi riscrivono la stessa rappresentazione dell’essere umano.

Riprendendo alcune considerazioni di Hannah Arendt (The Human Condition, 1958) circa l’insoddisfazione dell’essere umano nei confronti della propria condizione originaria, Pessina riflettere sul diffondersi del convincimento che il naturale imperfetto possa trovare un suo modello nell’artificiale.

L’idea che il dato, il naturale sia pensabile come imperfetto rispetto al prodotto, all’artificiale che ne diventano, per così dire, la misura, non è affatto estranea ai progetti dell’altra rivoluzione, non più biologica, ma digitale, oggi impegnata a creare un mondo artificiale in cui imparare a esistere nel mondo reale, secondo i progetti dell’intelligenza artificiale e del cosiddetto Metaverso (p. 17).

A partire dalle riflessioni di Günther Anders (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956) che vedono nel “dislivello” tra condizione umana e potenza degli artefatti tecnologici la perdita di senso dell’umano, Pessina si domanda, a proposito dell’esperienza tecnologica, se ai giorni nostri il “dislivello” più problematico non sia piuttosto di tipo sociale, relativo cioè al possesso delle tecnologie (avere o meno l’ultimo modello di smartphone, disporre delle applicazioni più avanzate, di una connessione veloce ecc.).

Il panorama digitale contemporaneo ripropone con forza la questione del «rapporto tra la realtà e l’immagine che la rappresenta, tra le parole e le cose, ma anche tra somiglianza e similitudine» (p. 29) posto con grande consapevolezza dal pittore surrealista belga René Magritte in diverse sue opere a partire dal celebre La Trahison des Images (1929), dipinto su cui riflette il filosofo francese Michel Foucault.

L’importanza attribuita alla vista […] è sicuramente dettata dal fatto che sembra eliminare la distanza fisica tra noi e le varie forme del reale, ma è solo in base a precomprensioni culturali che possiamo trasformare l’analogia tra il vedere e il conoscere nel primato della vista. L’inganno è sempre facilitato da ogni riduzione delle fonti del conoscere e dalla nostra volontà di giungere, anche per scopi pratici, a rapide conclusioni. La tecnologia, del resto, è velocità e come tale non ci aiuta a prendere tempo per valutare (p. 31).

Da tali considerazioni deriva la necessità di «passare dall’immediatezza della percezione visiva e della conoscenza che ne segue – che fa sempre riferimento a ciò che appare – alla riflessione» (p. 31).

La forza persuasiva delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione raggiunge probabilmente il suo culmine nella loro proposta di ambienti digitali e virtuali in cui si simula un’efficace esperienza plurisensoriale. Al fine di sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di tali tecnologie, sottolinea Pessina, occorre «comprendere e tentare di approfondire quali esperienze e conoscenze si stanno facendo “realmente” quando siamo “altrove”, mentalmente o, come nel caso delle esperienze del virtuale, sensorialmente» (p. 32).

Con la televisione, suggerisce Anders, le tecnologie introducono nell’esperienza umana immagini rimandanti a fatti ed eventi che si collocano in un “altrove” rispetto allo spazio-tempo in cui queste vengono fruite ma queste non possono essere indicate come “rappresentazione”, se con tale termine si intende indicarne la funzione di “simulazione”. Chiaramente le immagini che compaiono sugli schermi hanno una differente ricaduta sul nostro vissuto a seconda che siano interpretate come “fatti” o come “rappresentazioni”, come contenuti “documentari” o di “finzione”.

A proposito dello spettatore posto di fronte alle trasmissioni televisive Anders puntualizza come gli avvenimenti che compaiono sullo schermo siano al tempo stesso “presenti” e “assenti”, “reali” e “apparenti”, come si trattasse di “fantasmi”, nel senso che l’esperienza individuale partecipa di qualcosa che pur non essendo “presente materialmente” è però in sé “reale”, si trova “altrove” rispetto allo spazio-tempo fisico vissuto dal fruitore ma influisce a livello sensoriale, cognitivo ed emotivo, su di esso.

Le tecnologie allargano decisamente la sfera delle esperienze cognitive, emotive e sensoriali ma ne modificano il significato originario. Di fatto manca un linguaggio adeguato a definire le esperienze portate dalle nuove tecnologie; se da un lato non si può infatti ricorrere al termine “rappresentazione”, dall’altro la nozione di “fantasma” a cui ricorre Anders appare poco intuitiva e rischia di produrre fraintendimenti.

L’individuo ha l’impressione di poter governare le “presenze” offerte dalle nuove tecnologie ma si scontra con una “passività costitutiva” che non è venuta meno con la svolta digitale; le architetture tecnologiche con cui interagisce non sono di certo neutre.

Se poi pensiamo a come i cosiddetti “social” tendano a farci inserire nelle comunicazioni dei vari utenti, facendoci credere di “partecipare” alle loro esperienze, ci rendiamo conto di come la dilatazione delle “immagini” del mondo e della “realtà” portino con sé, in modo paradossale, una specie di radicale impoverimento dell’esperienza in prima persona singolare, di quell’esperienza diretta, non mediata da altri punti di vista umani, che pure continuiamo a vivere (pp. 39-40).

Se tutto diviene informazione, se corpo vissuto e corpo conosciuto, corpo visto e corpo toccato diventano indistinguibili, allora «scompare anche la differenza tra una realtà presente e attuale e una realtà non attuale ma presente sui nostri schermi solo grazie al primato del “visivo”» (p. 40).

Il modello dell’apprendimento e dell’emancipazione, nell’epoca della tecnologia, sembra, allora, invertire il processo indicato da Platone. Se si vuole conoscere e comprendere la realtà non si deve dare le spalle al gran teatro del mondo che appare sugli schermi ma, al contrario, occorre voltare lo sguardo dalla realtà immediata e cercare nella rete la conferma della sua stessa consistenza, del suo significato (p. 44).

Tanto nel mito platonico, quanto in quello tecnologico, sottolinea Pessina, il mondo delle immagini si trasforma nel “tradimento delle immagini” soltanto se si espelle dall’esperienza cognitiva ogni livello riflessivo.

Nell’era digitale il server è “altrove” rispetto all’apparecchiatura tecnologica utilizzata, “altrove” sono gli eventuali interlocutori con cui si può interagire e “altrove” sono le fonti dei contenuti di cui si fruisce. Nell’immergersi mentalmente in un contesto sensoriale isolante (online), si resta con il corpo senziente in un luogo determinato (offline). «Essere qui e altrove, occupare, con il nostro corpo, un luogo fisico determinato ed essere, con la mente, altrove, è un’esperienza tutt’altro che insolita per gli esseri umani: forse ne è, addirittura, il carattere distintivo. Trascendere l’immediato è, infatti, l’originaria esperienza del pensare, dell’immaginare e del fantasticare» (p. 59).

L’epoca ipertecnologica contemporanea, sottolinea Pessina, appare fortemente votata alla disincarnazione dell’umano.

L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della gioia e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie e sembra far perdere il senso del tragico, che appartiene alla problematizzazione dell’esistere e del suo senso ultimo. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione. Le intelligenze umane esprimono la complessità dell’esistenza corporea, che deve confrontarsi con la contingenza che si annuncia sempre dentro la temporalità di tutte le esperienze personali, individuali; l’intelligenza artificiale, invece, esprime la possibilità della semplificazione e dell’individuazione delle risposte univoche a tutte le domande e le esigenze che possono essere tradotte in una universalità formale (p. 122).

L’indifferenza contemporanea nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non deriverebbe dal suo essere disincantata, ma dal suo essere disincarnata, dunque «non più capace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone. L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione» (p. 123).

Se il processo di “familiarizzazione” della tecnologia ha finito per integrarla nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, occorrerebbe però, sottolinea lo studioso, «un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità» (p. 123). Una tale riflessione sull’esperienza umana nell’epoca tecnologica permette di approfondire cosa si ritenga esservi di “originale” e di “irriducibile” nell’umanità. Se davvero si vuole “restare umani” tale riflessione risulta imprescindibile.

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WestWorld: la valle della disrupzione / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/03/westworld-la-valle-della-disrupzione-2/ Mon, 03 Apr 2023 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76559 di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade [...]]]> di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo.
Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade Runner” (1982). Neppure rappresenta una novità la capacità degli hosts di mostrare facoltà cognitive autonome.

Nel WestWorld di questo millennio, in effetti, il test di Alan Turing ci rimanda a un passato remoto, così come era percepito già nel secolo scorso nell’opera di Dick appena menzionata. Nell’impossibilità di distinguere morfologicamente un umano da un androide, e avendo anch’esso raggiunto delle capacità cognitive percepite come intelligenza, lo scrittore americano immaginò come ultima spiaggia dell’essere umano la capacità di sviluppare empatia per un altro essere vivente. Essendo questa una facoltà esclusiva degli umani, un semplice test capace di misurare tale capacità sarebbe anche capace di rivelare chi fosse androide, perché questo sarebbe ovviamente incapace di soffrire la sofferenza dell’altro (ma, anche, ovviamente di provare la gioia o la tristezza dell’altro). Questa problematica sollevata da Dick ci porta naturalmente a riflettere sulla capacità, o incapacità, di provare i sentimenti dell’altro, e su come questa esclusiva facoltà umana sia continuamente modificata dal diffondersi delle tecnologie.

In linea con l’ipotesi di una singolarità tecnologica, nella serie, le capacità cognitive degli androidi sembrano ormai superare quelle degli umani. Inoltre, l’esistenza degli hosts, inserita in percorsi narrativi ben definiti, è capace di abbracciare un ipotetico passato dove essi provano sentimenti che finiscono per dotarli – sempre apparentemente – di empatia. Emerge qui, a mio avviso, una differenza sostanziale rispetto alla precedente figura di androide. L’androide proposto dalla serie sembra non posizionarsi mai nella valle perturbante; e, dunque, esso non genera mai repulsione in quanto macchina con sembianze umane. Inoltre, esso manifesta non solo capacità intellettive, ma anche una solida identità plasmata attraverso ricordi traumatici, che sono condivisi e sofferti.

Possiamo notare come nel WestWorld attuale, gli androidi, grazie alle facoltà umane appena menzionate, siano diventati nodi dello spazio sociale, e, di conseguenza, siano entrati pienamente nel processo percettivo degli umani. Così come i soggetti fondano il processo percettivo attraverso gli oggetti1, attraverso gli host gli umani pensano, percepiscono ed esistono. Inoltre, si potrebbe affermare che in una sorta di processo speculare, la violenza scatenata sugli hosts non sia altro che la necessità dell’umano di percepire e di sentire il proprio corpo, ormai scomparso per via dei processi tecnologici digitali: qui, ormai abbiamo a che fare con un corpo non solo incapace di diventare luogo dell’esperienza sensibile che rende possibile l’incontro tra soggetto e oggetto, ma, soprattutto, di sentire il prossimo2.
Nel secondo episodio della seconda stagione questo fenomeno speculare emerge chiaramente in un dialogo tra William e Dolores, dove William, un umano, si rivolge all’androide con queste parole:

Sei davvero solo un oggetto. 
Non posso credere di essermi innamorato di te. 
Sai cosa mi ha salvato? 
Ho capito che non si trattava affatto di te. 
Non mi hai fatto interessare a te, mi hai fatto interessare a me. 
È venuto fuori che non sei nemmeno una cosa.
Sei un riflesso. 

Attraverso gli hosts, la serie sviluppa un’analisi del modo in cui certe tecnologie digitali cominceranno a far parte del processo percettivo degli umani, cioè, cominceranno a diventare nodi su cui si sviluppa lo spazio sociale. Inoltre, la serie fonda la figura dell’androide sulla natura flessibile degli oggetti digitali. Di conseguenza, l’androide del WestWorld di questo millennio non rappresenta più una semplice entità intelligente dotata di facoltà considerate esclusive agli umani, ma diventa luogo di conquista transumanista.

La figura dell’androide presente nella prima stagione della serie è sostanzialmente un luogo di migrazione dove teoricamente l’essere, ormai privo di un corpo integro, sarebbe in grado di ritrovare un corpo dove può avvenire nuovamente l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto. Questa nuova figura di androide ci riporta ad un dibattito che si considerava ormai (quasi) concluso con l’opera di Maurice Merleau-Ponty, che si pensava esaurito nel concetto di Dasein heidegeriano, e che aveva trovato conferma proprio nell’introduzione di questo concetto – quest’ultima portata avanti da Hubert Dreyfus – in seno alle riflessioni sullo sviluppo della intelligenza artificiale.

In effetti, come Dreyfus ha dimostrato nella sua fondamentale ricerca – fondata su un’analisi approfondita ed esaustiva della grande opera di Heidegger – sull’era dell’informatica, il dualismo cartesiano ha trovato dei meccanismi analoghi nell’ipotizzare che i supposti biologici e psichici si rispecchiavano rispettivamente nel hardware e nel software. Come dimostrato da Dreyfus, questa riformulazione cartesiana non solo presupponeva che la condotta umana fosse priva di contesto, ma anche, e soprattutto, che l’intelligenza, seguendo sempre questa logica, non fosse altro che un semplice compimento di regole formali che si esaurivano in una relazione biunivoca e catalogabile secondo un’analisi quantitativa. In altre parole, il concetto di intelligenza si esaurirebbe in un ruled-based algorithm. Ciononostante, questo approccio, criticato con veemenza da Dreyfus, e che cadeva con la semplice introduzione del Dasein heideggeriano nella discussione, portava di nuovo a galla la questione cartesiana che, in linea con il paradigma meccanicista, aveva in passato generato una serie di analogie tra l’uomo e la macchina. Da qui sono poi derivate discussioni attorno alla questione se il pensiero potesse essere diviso dal corpo; se la sensibilità, una chiara condizione della conoscenza, potesse fare astrazione del corpo.

Possiamo dunque notare come la serie costruisca la figura dello host su un processo di riduzione dell’essere nella formulazione tradizionale oggetto-soggetto. Ma questa riduzione non si effettua attraverso la natura tradizionale dell’androide, cioè, attraverso apparenti facoltà cognitive autonome sviluppatesi al di fuori del corpo, con piena esclusione dell’esperienza vissuta. La figura dello host ci riporta alla riduzione oggetto-soggetto attraverso la componente transumanista, la quale esclude il corpo come luogo in cui avviene l’esperienza e finisce così per escludere la sensibilità della conoscenza, poiché ipotizza che l’esperienza possa essere ridotta a sua volta in computi ricombinati e traducibili. Seguendo questa logica, si ipotizza che l’esperienza possa essere trasmessa, o meglio, scaricata (downloaded) in altro supporto o device tecnologico; questo, a sua volta, può essere un altro corpo o un semplice hardware.

È qui che lo scopo dell’androide costruito dal WestWorld di questo millennio emerge più chiaramente. Gli hosts diventerebbero in una prima fase ricettori d’informazione, codificatori dei comportamenti umani, e in una seconda fase, semplici ospiti (hosts) che accolgono l’essere codificato in bits. In particolare, seguendo l’ipotesi transumanista, la figura dell’androide proposta dalla serie inciampa nell’errore di non distinguere l’Erlebnis (esperienza come fatto, avvenimento) dall’Erfahrung (esperienza come familiarità) e, di conseguenza, la serie finisce per ipotizzare con leggerezza la possibilità tecnologica di immagazzinare, riprodurre ed installare l’esperienza umana in un altro ‘dispositivo’.

Con il dipanarsi di una narrazione strutturata e vissuta quotidianamente dagli hosts, la serie ipotizza che attraverso l’analisi e la registrazione della differenza introdotta da variabili rappresentate dai comportamenti umani si potrebbe compiere pienamente l’opera di codificazione, e rielaborazione, dell’esperienza umana. Questo non solo permetterebbe di migliorare sostanzialmente la tecnologia che avrebbe portato in vita gli hosts ma, soprattutto, finirebbe per permettere a noi umani di trovare un luogo dove migrare; un corpo non deperibile dove trovare la vita eterna. Vediamo come la figura del host proposta da questa serie ignori dunque la lezione fenomenologica laddove teorizza che è il corpo a creare le cose, a trasformare gli oggetti in cose e, dunque, che è proprio nel corpo che converge quello che chiamiamo vita, conoscenza e intelligenza. Infatti, è nel corpo che avviene l’esperienza, intraducibile (non-codificabile) conoscenza. E sebbene l’esperienza si trasformi in continuazione, e sia determinata dal contesto tecnologico, il corpo rimane il territorio in cui essa viene vissuta. Il corpo è dunque il luogo dove il presente si declina, perché è proprio lì dove la realtà si manifesta3.

Nonostante ciò, forse sotto l’effetto dell’ebrezza dell’utopia distopica del transumanesimo, la serie, benché denunci la nostra condizione attuale di soggetti incapaci ad afferrare l’oggetto con un copro dilaniato dall’invasione tecnologica, per ben due stagioni ipotizza una possibile migrazione in un luogo in cui poter sviluppare l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto; un luogo, cioè, dove poter essere (Dasein), ed essendoci, dove poter sperimentare un presente, dove poter esperimentare il regno del reale.

Non è tanto sorprendente che la figura dell’androide di questo millennio possa diventare quel luogo così ingenuamente ricercato, ma la cui ricerca è così terrificante. Ed è terrificante proprio per la sua condizione di entità facente parte del processo percettivo umano, condizione che gli androidi acquisiscono progressivamente. Lo si nota chiaramente con il procedere della serie verso la terza stagione, quando l’androide trova i suoi limiti come luogo di migrazione dell’esperienza e rimane nodo portante del processo comunicativo degli umani. L’uso dell’androide è limitato all’osservazione e registrazione di comportamenti umani, ricordando, in un certo modo, i meccanismi della interveglianza (interveillance) che si sono sviluppati con la diffusione dei social media e dell’interazione quotidiana tra umani e oggetti digitali in rete. Allora, l’impressione che se ne ricava è che, alla fine, l’androide disegnato dalla serie non riesce a diventare luogo d’immigrazione transumanista, ma rimane e si perfeziona nella registrazione e nell’interveglianza dei comportamenti umani. In altre parole, la serie si arrende all’evidenza della complessità e intraducibilità dell’esperienza umana mostrando l’impossibilità della metamorfosi dell’androide in un ricettacolo dell’essere; l’androide rimane un oggetto in più del dispositivo di profilazione e interveglianza.

(2continua)


  1. Si veda Esposito R., (2014), Le persone e le cose, Einaudi, Torino.  

  2. Zoja L., (2009), La morte del prossimo, Einaudi, Torino.  

  3. Bachelard G., (1931) L’intuition de l’instant, Stock, Paris, p. 14.  

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Il reale delle/nelle immagini. L’evento visivo nel mutante rapporto tra visione e realtà https://www.carmillaonline.com/2021/06/16/il-reale-delle-nelle-immagini-levento-visivo-nel-mutante-rapporto-tra-visione-e-realta/ Wed, 16 Jun 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66750 di Gioacchino Toni

Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 422, € 24,00

Nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando le tecnologie digitali, i media interattivi, i sistemi di realtà virtuale e di visione aumentata iniziavano a riscrivere quel rapporto tra visione e realtà che, sebbene tutt’altro che immutato nel corso dei secoli, avrebbe condotto ad una trasformazione la cui portata era stata forse soltanto parzialmente percepita, negli ambienti accademici cresce il bisogno di non limitare gli studi [...]]]> di Gioacchino Toni

Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 422, € 24,00

Nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando le tecnologie digitali, i media interattivi, i sistemi di realtà virtuale e di visione aumentata iniziavano a riscrivere quel rapporto tra visione e realtà che, sebbene tutt’altro che immutato nel corso dei secoli, avrebbe condotto ad una trasformazione la cui portata era stata forse soltanto parzialmente percepita, negli ambienti accademici cresce il bisogno di non limitare gli studi a qualche specificità mediale o allo statuto di alcuni tipi di immagine ma di estendere il campo di interesse all’intero spettro degli eventi visivi focalizzandosi magari sulle strategie con cui la vita quotidiana viene messa in immagine.

È di fronte a quella che già sul finire dello scorso millennio si presentava come una vera e propria proliferazione inarrestabile del visivo, alla consapevolezza dell’insufficienza degli strumenti di cui si disponeva per comprendere e governare la trasformazione in atto e all’urgenza di creare nuove tattiche focalizzate sul visuale come luogo in cui si creano e dibattono i significati, che si è sviluppata la visual culture. Tra gli esponenti di spicco nell’ambito di tale approccio figura Nicholas Mirzoeff di cui recentemente è stato riproposto in italiano, dopo alcune precedenti edizioni, la sua celebre Introduzione alla cultura visuale (Meltemi, 2021) stesa allo scadere del vecchio millennio.

«La nostra vita ha luogo sullo schermo», sostiene Mirzoeff, la quotidianità è vissuta sotto la sorveglianza di telecamere, i ricordi sono affidati a strumenti di cattura delle immagini, il lavoro e il tempo libero – ammesso si tratti ancora di due ambiti distinguibili – sono imperniati sui media visivi, mai l’esperienza umana è stata «più visuale e visualizzata» di ora. Questo è il contesto già percepibile sul finire del Novecento. «In questo turbinio di immagini, vedere è molto più che credere. Non è solo una parte della vita quotidiana, è la vita quotidiana stessa» (p. 41). Sono parole di Mirzoeff anche se sembrano uscite da Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, film che, in ampio anticipo rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), ricorrendo ad una marcata instabilità enunciativa, si proponeva come film-riflessione sulle potenzialità e sulle aberrazioni insite nel desiderio di consumo tecnologico [su Carmilla].

La prima parte di Introduzione alla cultura visuale spiega come la logica formale Settecentesca, con qualche anticipazione nel secolo precedente e prolungamento nei primi decenni del successivo, abbia aperto la strada alla logica dialettica dell’immagine nell’epoca moderna, a sua volta messa poi in discussione dall’avvento dell’immagine virtuale nell’ultimo scorcio del Novecento.

L’immagine tradizionale obbediva a regole proprie, che erano indipendenti dalla realtà esterna. Il sistema prospettico, ad esempio, si basa sull’osservatore che esamina l’immagine da un unico punto di vista, usando soltanto un occhio. Nessuno effettivamente fa questo, ma l’immagine risulta coerente al suo interno, e perciò credibile. Mentre la pretesa della prospettiva di rappresentare la realtà perde terreno, il film e la fotografia creano un rapporto nuovo, diretto con la realtà, così da farci accettare la “verità” di quello che vediamo nell’immagine. […] La prospettiva cercava di rendere il mondo comprensibile per quella figura che si trovava nel punto specifico da cui era stata tracciata la prospettiva stessa. Le fotografie offrivano una mappa visuale del mondo molto più democratica. Oggi, l’immagine fotografica o filmica non indica più la realtà, perché tutti sanno che può essere manipolata dai computer senza che nessuno se ne accorga ((p. 51).

La virtualità dell’immagine contemporanea sembra invece produrre una crisi del visuale:

il postmodernismo segna un’era in cui le immagini visive, e la visualizzazione di cose che non sono necessariamente visive, hanno subito un’accelerazione così drastica che la circolazione globale dell’immagine è diventata fine a se stessa, svolgendosi a grande velocità nella Rete. Il concetto di immagine-mondo non è più in grado di analizzare questa situazione mutata e in via di mutamento. La straordinaria proliferazione di immagini non può essere racchiusa in un’unica immagine per essere osservata dall’intellettuale. La visual culture, in questo senso, è la crisi dell’overload informativo e visivo nella vita quotidiana e cerca di trovare il modo in cui lavorare all’interno di questa nuova realtà (virtuale). […] la visual culture esplorerà le ambivalenze, gli interstizi e le aeree di resistenza, nella vita quotidiana postmoderna, dal punto di vista del consumatore (p. 54).

Mirzoeff si proporne pertanto contribuire alla ricostruzione delle modalità con cui la visualità ha finito per assumere centralità nella vita moderna. Allo studioso non interessa però andare alla ricerca delle “origini” della visualità moderna nel passato; il suo obiettivo è piuttosto quello di giungere a «una reinterpretazione strategica della storia dei moderni media visivi concepita collettivamente, piuttosto che frammentata in unità disciplinari come cinema, televisione, arte e video» (p. 59). Non è lo specifico mezzo ad interessare la visual culture, quanto piuttosto l’evento visivo, cioè l’interazione tra il segnale visivo, la tecnologia che origina e supporta quel segnale, e l’osservatore.

Nel corso della trattazione Mirzoeff nota come l’esperienza del sublime, del piacere nel dolore derivante dal tentativo fallimentare dell’immaginazione di rappresentare l’irrappresentabile, si adatti alla visualizzazione inarrestabile e ubiqua postmoderna intenzionata a catturare l’intera esistenza compresa quella che ancora sfugge al visibile, conducendo così, come sottolinea Giancarlo Grossi nell’introduzione, la visione tanto al suo apogeo quanto alla sua crisi. A proposito dei processi di visualizzazione, Mirzoeff individua tre paradigmi: tradizionale, moderno e postmoderno.

Il primo si fonderebbe sulla prospettiva rinascimentale, «un sistema di organizzazione percettiva dello spazio coerente in sé stesso ma slegato tanto dalla realtà quanto dall’effettivo funzionamento fisiologico della visione umana» (p. 14). Il secondo andrebbe a coincidere con l’avvento della fotografia e del cinema, sistemi in grado di carpire e registrare gli eventi del passato per poi presentarli come attuali mentre l’avvenuta “presenza” dell’evento funge da causa e da referente delle loro immagini. Con l’avvento del digitale la relazione dell’immagine con il reale si farebbe invece decisamente problematica potendo l’immagine essere “costruita” prescindendo da enti esterni. In tale statuto della visione, scrive Grossi nella prefazione, «a essere espulsa è la stessa possibilità del sublime: i dati non possono più infatti sottrarsi alla visualizzazione e, al contempo, l’eccesso di immagini rende sempre più intricata una comprensione immediata dell’evento » (p. 15).

Il voluminoso libro, a riprova di come Mirzoeff affronti complessivamente l’evento visivo, è suddiviso in tre parti distinte seppure per certi versi intrecciate: la prima, di estremo interesse, è dedicata alla “visualità” e qua vengono passate in rassegna le specificità della cultura visuale incentrata sulla prospettiva rinascimentale, dunque dell’epoca cine-fotografica e, infine, della nascente epopea del virtuale (la sezione più bisognosa di aggiornamenti). La seconda parte, dedicata alla “cultura”, presenta una serie di acute riflessioni relative a produzioni audiovisive su questioni di ordine transculturale e identitario. L’ultima parte è invece dedicata alla visual culture all’interno del rapporto “Globale/Locale” a partire dal “caso Diana” che ha a lungo infestato i media audiovisivi inglesi ed internazionali.

La visual culture proposta da Mirzoeff rispondeva a un’urgenza tattica: quella di ritrovare il senso delle immagini in un contesto culturale dominato da una visualizzazione tanto imperante quanto paralizzante. È questa stessa impostazione a riconoscere come alla mutevolezza di paradigmi, contesti, tecnologie e rappresentazioni debba corrispondere, di necessità, una continua rimodulazione degli strumenti interpretativi dell’evento visivo. Vent’anni dopo, in un orizzonte radicalmente mutato, rimanere fedeli al metodo di Mirzoeff significa comprendere quali siano i paradigmi di visualizzazione dominanti oggi e quali le tattiche più efficaci per renderne conto (p. 15).

Così scrive Giancarlo Grossi nella prefazione al volume. Tante, davvero tante, cose sono cambiate da quando è stato steso il testo: nel frattempo la cultura visuale ha subito la sorprendente portata omologante della globalizzazione, si è data un’accelerazione nel processo di convergenza mediale forse inaspettata un paio di decenni fa, la serialità televisiva e le sue modalità narrative si sono sviluppate secondo modalità diverse da quelle indagate dall’autore, i social media hanno proiettato la vita sociale degli individui sempre più atomizzati all’interno di uno schermo popolato da “immagini-ambiente” che separano e connettono con il mondo, l’interattività dell’immagine attorno a cui si imperniava il ragionamento sulla realtà virtuale a fine anni Novanta ha nel frattempo lasciato il posto al concetto di immersività.

Alla luce del “progetto tattico” di Mirzoeff di «creare nuovi strumenti di alfabetizzazione visiva per gestire strategie di visualizzazione» (p. 19) viene da interrogarsi, alla luce della repentinità dei mutamenti, circa la reale possibilità di fornire in tempo utile strumenti di lettura critica del visuale prima che tutto cambi nuovamente. Torna allora alla mente l’efficace paragone proposto dallo studioso Andrea Rabbito [su Carmilla] tra la situazione dello spettatore al cospetto delle “nuove immagini” e quella di un surfista costretto contemporaneamente a concentrarsi per mantenere l’equilibrio e ad assecondare le onde. In effetti si è in una situazione in cui l’eccessiva attenzione all’analisi critica delle immagini rischia di compromettere il necessario lasciarsi trasportare da esse al fine di trarne godimento ma l’assecondarne il flusso comporta il rischio di accettare passivamente la nuova cultura visuale. Se tentare di “guardare da fuori” l’attuale sistema visuale è impraticabile, resta da trovare il modo per esserne al contempo parte di esso, godendo del godibile, e contro, nel contrastare quanto occorre contrastare. Insomma, nel domandarsi “Che fare?”, a maggior ragione ora, occorre contemplare anche il visuale.


Il reale delle/nelle immagini – serie completa 

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Nemico (e) immaginario. Surveillance capitalism https://www.carmillaonline.com/2020/09/10/nemico-e-immaginario-surveillance-capitalism/ Thu, 10 Sep 2020 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62552 di Gioacchino Toni

Nel 2016 viene commercializzato Pokemon Go, un videogioco di tipo free-to-play funzionante con i principali sistemi operativi mobili, basato su realtà aumentata geolocalizzata tramite GPS, che prevede la cattura di personaggi virtuali all’interno dell’ambiente reale. La piattaforma dissemina nell’ambiente quotidiano le prede a cui i giocatori devono dare la caccia recandosi sul posto armati del proprio smartphone. Attraverso il ricorso a meccanismi di gratificazione Pokemon Go non manca di indirizzare i cacciatori verso quelle attività commerciali che pagano i produttori del gioco affinché vengano inserite all’interno dell’itinerario imposto ai giocatori [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel 2016 viene commercializzato Pokemon Go, un videogioco di tipo free-to-play funzionante con i principali sistemi operativi mobili, basato su realtà aumentata geolocalizzata tramite GPS, che prevede la cattura di personaggi virtuali all’interno dell’ambiente reale. La piattaforma dissemina nell’ambiente quotidiano le prede a cui i giocatori devono dare la caccia recandosi sul posto armati del proprio smartphone. Attraverso il ricorso a meccanismi di gratificazione Pokemon Go non manca di indirizzare i cacciatori verso quelle attività commerciali che pagano i produttori del gioco affinché vengano inserite all’interno dell’itinerario imposto ai giocatori ottenendo in cambio un afflusso di potenziali clienti.

Ricorrendo a meccanismi propri del mondo digitale, a dinamiche di confronto sociale e a sistemi di gratificazione, esattamente come in Pokemon Go, da tempo equipe di esperti del trattamento dati sono al lavoro per orientare il comportamento degli esseri umani in direzione dell’ottenimento di maggiori livelli di profitto aziendale. Attraverso l’esempio di Pokemon Go è possibile percepire con immediatezza una delle caratteristiche di quello che Shoshana Zuboff – Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (Luiss University Press, 2019) – definisce “surveillance capitalism”: la capacità dei detentori dei dati di prevedere e indirizzare i comportamenti umani.

Secondo la studiosa, nel contesto contemporaneo, le esperienze umane sono divenute “materia prima gratuita” trasformabile in “dati comportamentali” vendibili come “prodotti di previsione” all’interno dei “mercati comportamentali a termine” in cui operano imprese commerciali desiderose di conoscere il comportamento futuro degli individui.

Il capitalismo della sorveglianza, sostiene Zuboff, nasce in concomitanza con l’avvio del nuovo millennio, quando alcuni settori del sistema economico operano scelte che si rivelano una accelerazione sulla via della trasformazione degli individui in merce: l’esperienza umana privata viene tradotta in dati comportamentali che, una volta elaborati, permettono una sempre più sofisticata previsione comportamentale. I dati elaborati possono essere venduti alle aziende che così posso dispiegare le loro strategie di produzione e vendita in base a ciò che l’individuo intende fare nel breve e lungo termine, agendo attivamente sulle sue intenzioni e sui suoi comportamenti.

Secondo la studiosa, Google rappresenta per il capitalismo della sorveglianza ciò che imprese come Ford e General Motors hanno rappresentato per il capitalismo industriale e mentre il lascito di quest’ultimo è stato il disastro ambientale, il modello introdotto dal colosso del web, sostiene drasticamente Zuboff, potrebbe compromettere le tradizionali modalità di pensiero e di comportamento degli esseri umani minando la loro autonomia e dignità.

Con l’avvio del nuovo millennio gli strateghi di Google non si accontentano più di utilizzare i dati ricavati dall’uso del motore di ricerca per migliorare il prodotto in termini di efficienza ma, associando un’incredibile capacità di immagazzinamento ad altissimi livelli di elaborazione dei dati, decidono di utilizzare questi ultimi per offrire agli inserzionisti il pubblico a cui mirano. Successivamente, lavorando sull’offerta di spazi di pubblicità mirata, gli analisti del colosso del web si rendono conto che, grazie all’enorme quantità di dati raccolti, diviene possibile stilare previsioni precise sull’utente.

L’analisi dell’uso del motore di ricerca e le modalità con cui vengono dispensati like sui social, sono soltanto alcuni degli ambiti di applicazione di un metodo che ha consentito di avviare quella che l’autrice descrive come “l’estrazione del surplus comportamentale”. I colossi del web, grazie anche al crescente ricorso ai dispositivi portatili smart, si sono trovati nella possibilità di: localizzare l’utente in qualsiasi momento; monitorare le sue abitudini di spostamento; verificare l’orario e la durata della permanenza in un luogo; desumere gli stati d’animo attivati durante le digitazioni; monitorare le sue preferenze e necessità più impellenti ecc.

È così che i dati personali diventano quel valore aggiunto che Zuboff definisce “surplus comportamentale”, uno degli assi portanti del modello economico di Facebook. Insomma, quello che la studiosa definisce capitalismo della sorveglianza trova il suo motore di crescita nei mezzi di analisi e modificazione dei comportamenti e nella trasformazione dei consumatori in lavoratori senza che questi ne siano (o ne vogliano essere) consapevoli e, soprattutto, senza che possano davvero sottrarsi a ciò, dipendenti come sono divenuti dal mondo digitale così come esso è strutturato.

Alla base di questo “surveillance capitalism” – che, al momento, si è affiancato al capitalismo tradizionale senza sostituirvisi – c’è la trasformazione dell’esperienza umana in una materia prima gratuita per le imprese commerciali. Ciò, sostiene Zuboff, comporta un sistema economico parassita che subordina la produzione di merci e servizi alla trasformazione comportamentale degli esseri umani e un livello di concentrazione di ricchezza, sapere e potere mai visto prima nella storia dell’umanità.

Questo specifico tipo di capitalismo, agente direttamente sui desideri e sui comportamenti, continua la studiosa, rende obsoleta qualsiasi distinzione tra mercato e società, tra mercato e persona. Non si tratta più di affermare che “se è gratuito, tu sei il prodotto” ma, secondo Zuboff, occorre piuttosto prendere atto che è il nostro “comportamento futuro” a essere divenuto il “prodotto” acquisito dalle aziende e immesso sui nuovi mercati.

Non si tratta di un totalitarismo orwelliano, quanto piuttosto di un tipo di dominio che Zuboff indica come “potere strumentale”; è l’ambiente tecnologico nel suo insieme a essere preso in ostaggio dall’economia per influenzare il comportamento umano in un’epoca digitale in cui l’ansia di partecipazione sociale ha generato una propensione alla concessione dei dati personali senza intravedere gli aspetti negtivi che ciò comporta. La rete relazionale digitale si presta alla modificazione comportamentale; dai dati che si ricavano dall’elaborazione di quanto viene immaginato e desiderato, risulta possibile per le aziende agire su beni predittivi.

Il capitalismo della sorveglianza entra nel reale attraverso le applicazioni e le piattaforme che si utilizzano quotidianamente e lo fa sfruttando: i tempi ristretti imposti agli individui dalla “società della prestazione”; la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso percepiti come neutri; la parcellizzazione dell’apprendimento; l’accesso selettivo alle informazioni utili a immediate esigenze di relazione; il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali a partire dalle informazioni sul surplus comportamentale degli individui.

Le analisi della personalità con fini commerciali si basano sul surplus comportamentale – i cosiddetti metadata, o mid-level metrics – perfezionati e testati da ricercatori, e pensati per contrastare chiunque ritenga di poter controllare la “quantità” di informazioni personali che rivela nei social media. […] Non è la sostanza che viene esaminata, ma la forma. […] Non conta cosa c’è nelle nostre frasi, ma la loro lunghezza e complessità; non che cosa elenchiamo, ma il fatto che facciamo un elenco; non la foto che postiamo, ma il filtro o la saturazione che abbiamo scelto; non cosa riveliamo, ma il modo i cui lo condividiamo o meno; non dove abbiamo deciso di incontrarci con gli amici, ma come lo faremo […] I punti esclamativi e gli avverbi che usiamo rivelano molto di noi, in modo potenzialmente dannoso. […] L’imperativo della previsione scatena i propri segugi per dare la caccia al comportamento nei recessi più profondi.1

La mole di dati raccolti e il livello di elaborazione a cui sono sottoposti appaiono del tutto spropositati rispetto alla mera vendita di spazi pubblicitari tradizionali per quanto mirati; si è di fronte al più sofisticato strumento di monitoraggio e predizione comportamentale mai visto all’opera nella storia e tali pratiche di controllo e manipolazione sociale non sono in possesso di un un “tradizionale” stato di polizia, ma di aziende private, le vere nuove superpotenze2. Mentre ci si preoccupava delle derive totalitarie intraprese dagli stati, il golpe sembrerebbe averlo compiuto l’economia, agendo non solo indisturbata ma anche col supporto di un certo entusiasmo popolare; dopotutto queste accattivanti piattaforme pianificate da giovani creativi sembrano offrire gratuitamente ciò che tutti vogliono, compresa una sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità, di protagonismo.

Quello analizzato da Zuboff è un universo in cui la digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto prospera grazie a una tendenziale propensione alla “servitù volontaria” scambiata volentieri con un buon motore di ricerca e qualche piattaforma social attraverso cui supplire a una sempre più marcata carenza di rapporti sociali fuori dagli schermi.

Nel volume sono riportate e analizzate numerose dichiarazioni (auto)celebrative espresse tanto dai vertici delle aziende che detengono il monopolio di questo mercato di dati, quanto da chi si occupa della trasformazione di questi ultimi in “marcatori predittivi” del comportamento degli individui. Tali dichiarazioni danno il senso di come i padroni del web abbiano potuto agire indisturbati senza dover rendere minimamente conto alle leggi della democrazia, del tutto disinteressati anche solo a a garantire un minimo di trasparenza o di preoccuparsi della partecipazione e della reciprocità informativa. Da parte sua la politica ha dimostro di non aver saputo/voluto agire prontamente per riconfigurate in un tale contesto questioni come il diritto alla privacy e la segretezza delle comunicazioni.

Il capitalismo della sorveglianza risulta un testo prezioso in quanto offre una meticolosa mappatura di una parte dell’esistente ancora poco conosciuta e studiata. L’autrice non pare però propensa a “far saltare il banco”; non è il sistema economico capitalista a essere da lei messo in discussione. Anzi, l’invito della studiosa alla resistenza nei confronti del “surveillance capitalism” pare votato alla difesa e alla preservazione dell’economia di mercato, considerata essa stessa una vittima di tale deriva.

Come dimostrato dalla recente pandemia, i peggiori scenari distopici possono uscire dalle pagine e degli schermi della fiction invadendo la quotidianità. Quanto tratteggiato dalla studiosa ha tutta l’aria di essere un golpe attuato con le app al posto dei carri armati; quanto ciò comprometta l’economia di mercato, o ne sia semplicemente figlio, interessa relativamente a chi continua a ritenere che sia il sistema intero a essere marcio, sin dalle radici.


Nemico (e) immaginario – serie compelta


  1. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019, pp. 290-291. 

  2. Sul concetto di “superpotenza digitale” si veda A. Giannuli, A. Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura (Mimesis 2019) e G. Toni, Guerrevisioni. Cyber war: prossimamente su/da questi schermi, “Carmilla”. 

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