cinema espressionista – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Visum et repertum 4 https://www.carmillaonline.com/2025/05/31/visum-et-repertum-4/ Sat, 31 May 2025 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88641 di Jenő Farkas e Mária Szepes, nota di Franco Pezzini

Dracula è morto, viva Dracula

[Il film muto Drakula halála di Károly Lajthay è la prima pellicola “ispirata” – in modo molto libero – al personaggio di Bram Stoker di cui si abbia concreta documentazione storica (su qualche precedente esistono dubbi). Purtroppo non disponiamo della pellicola originale, considerata perduta (e oggetto di fantasiose ricreazioni apocrife): è difficile dire se in un futuro potrà riemergere, ma è possibile farsi un’idea piuttosto precisa dei contenuti attraverso foto e novelization rintracciati. In Italia la prima persona a occuparsi di Drakula halála in modo dettagliato [...]]]> di Jenő Farkas e Mária Szepes, nota di Franco Pezzini

Dracula è morto, viva Dracula

[Il film muto Drakula halála di Károly Lajthay è la prima pellicola “ispirata” – in modo molto libero – al personaggio di Bram Stoker di cui si abbia concreta documentazione storica (su qualche precedente esistono dubbi). Purtroppo non disponiamo della pellicola originale, considerata perduta (e oggetto di fantasiose ricreazioni apocrife): è difficile dire se in un futuro potrà riemergere, ma è possibile farsi un’idea piuttosto precisa dei contenuti attraverso foto e novelization rintracciati. In Italia la prima persona a occuparsi di Drakula halála in modo dettagliato è stata la scrittrice Cristiana Astori con il romanzo Tutto quel buio (Elliot, 2018), in cui a cercare il lost film era la cacciatrice Susanna Marino, protagonista di una godibile serie di polizieschi cinefili dal profumo fantastico. Un interesse particolare è offerto anche dalla presenza come co-sceneggiatore del film di Mihály Kertész, poi più noto come Michael Curtiz, il cui nome resta legato a capolavori come Casablanca.

In attesa della pubblicazione in italiano della suggestiva novelization espressionista (in dodici brevi capitoli) proponiamo qui alcuni paratesti del ripescaggio a cura del professor Jenő Farkas (1944-) docente del Dipartimento di lingua romena dell’Università ELTE di Budapest, autore dei libri Drakula vajda históriája (La storia di Dracula Voivode, Casa editrice accademica, Budapest, 1989) e Drakula és a vámpírok (Dracula e i vampiri, Palamart, Budapest, 2010). È stato lui a trovare nel 1995 la sceneggiatura del film perduto, ripubblicandola per la prima volta in ungherese nel 2010, proprio all’interno del volume Drakula és a vámpírok, con la prefazione della scrittrice Mária Szepes – importante testimone di una remota stagione cinematografica magiara – che qui si propone. (Franco Pezzini, traduzioni di Agnes Banhidi Agnesoni.)]   

 

La morte di Dracula (1921), di Jenő Farkas

La sceneggiatura del perduto film muto La morte di Dracula (Drakula halála) di Károly Lajthay è stata pubblicata in ungherese nel 1924 a Timișoara. […] Si presenta come trasposizione romanzata della sceneggiatura del film del 1921, scritta da Lajos Pánczél […]. Gli autori della sceneggiatura sono Károly Lajthay e Mihály Kertész (meglio conosciuto come Michael Curtiz).

[…] Su mia richiesta, nel 1999, Mária Szepes scrisse la prefazione per la prima edizione dopo quella del 1924. Ho pubblicato questa versione della prefazione nel mio libro Drakula és a vampírok (2010), pubblicato dalla mia casa editrice Palamart, a Budapest. […]

[…] La morte di Dracula, conosciuta con il titolo originale Drakula halála, è un film muto ungherese del 1921 diretto da Károly Lajthay. È considerato la prima pellicola in cui compare il personaggio di Dracula, anche se spesso viene dimenticato a causa della sua estrema rarità: si tratta di un film perduto, di cui oggi sopravvivono solo pochi frammenti e documenti (fotogrammi, sinossi, manifesti).

La storia non segue direttamente il romanzo, benché sia stato il primo film basato sul Dracula di Stoker. Una giovane ragazza di nome Mary Land ha il padre morente in un manicomio di Vienna, e lo visita ogni giorno. Dopo la morte del padre, per riposarsi, Mary trascorre una notte nell’istituto, dove incontra un uomo misterioso e inquietante. Quest’uomo, il suo ex insegnante di canto, afferma di essere il conte Dracula. L’uomo è ossessionato da lei e sembra esercitare su di lei un’influenza soprannaturale. Mary non sa più se ciò che vede sia reale o frutto della propria follia. Dracula appare, scompare, la perseguita, la minaccia. Lei è intrappolata in un incubo in cui sogno e realtà si fondono.

La trama si evolve in tensione psicologica: Dracula è un vero vampiro o semplicemente un malato in delirio come lei?

Il film gioca più sulla suggestione, sull’atmosfera e sull’incubo a livello psichico che sull’orrore visivo diretto. Dracula non è il personaggio centrale, ma una figura inquietante, simbolica, forse immaginaria. Il film avrebbe avuto un’atmosfera espressionista, con scenografie e luci molto stilizzate, sullo stile del cinema tedesco dell’epoca.

 

Prefazione (1999) di Mária Szepes

Considero interessante e carica di valore simbolico la richiesta di Jenő Farkas di scrivere una prefazione sulla sorte del film di Károly Lajthay Dracula, presentando la sceneggiatura e il suo studio che analizza il fenomeno Dracula.

Per una persona come mi trovo a essere io, nata sotto la monarchia, ancora lucida e viva in quest’epoca strana, di crisi, lo sguardo indietro a un’epoca  incomparabile vede sovrapporsi e connettersi innumerevoli strati di ricordi. Oltretutto con la memoria fotografica di chi è scrittore.

Leggendo il saggio di Jenő Farkas [appunto la presentazione della sceneggiatura] mi tornano in mente nomi, personaggi, ricordi dolenti. So bene cosa il XX secolo, atteso con grande entusiasmo, abbia realizzato delle speranze del popolo e dei grandi cervelli: quasi niente. Mentre ha recato molte delusioni, dolore, lutti, fallimenti. Persino più che esperienze e consapevolezze sulla mancanza di strade da percorrere. E sulle tragiche conseguenze di decisioni sbagliate…

Ma ora parliamo delle reazioni strane dell’Ungheria ‒ sconfitta nella prima guerra mondiale ‒ in tutte le dimensioni della vita comunitaria. La dittatura proletaria rossa di breve durata é stata seguita dalle rappresaglie del “distaccamento” di destra, non meno crudele e senza freni. Il nostro piccolo paese mutilato scelse un governatore imposto dai vincitori, che ballava come i suoi signori comandavano. Il nostro paese dovette affrontare, sotto tremendi pesi, la svalutazione monetaria, l’enorme inflazione, la fame, la miseria diffusa, eppure in qualche modo iniziò ad esistere. E con uno stile nel complesso europeo. Gli scrittori scrivevano. I teatri erano attivi. I caffé lavoravano. E nonostante il loro stato miserabile, a pezzi, Buda e Pest in particolar modo riflettevano la parentela con Vienna. Il “mozi” [cinema] termine così abbreviato da Jenő Heltai dalla lunga parola “mozgòkép” (immagine mobile) uscì dal Luna Park ed entrò nelle caffetterie per proseguire poi in cinema piccoli e grandi, per il momento con i sottotitoli, muto, ma con successi sempre più notevoli. I suoi creatori, tra cui erano anche mia madre e mio padre Béla Balogh [rispettivamente Mária Kronémer (1883-1953), conosciuta con il nome d’arte Margit Kornai, cantante e attrice, e il padre adottivo Béla Balogh (1885-1945), regista: dopo la morte del padre, l’attore Oziás Scherbak (1877-1911), sua madre sposò Balogh nel 1915], al tempo credevano ancora che il genere cinematografico fosse un’arte e non una pura industria, produttrice di profitto. Prima la fabbrica di film Astra fondata da mia madre, poi dal 1920-1924 lo studio di vetro Star a Pasarét producevano all’anno dieci-quindici lungometraggi, in seguito riproposti innumerevoli volte e approdati anche all’estero.

Anche attrici ungheresi, sotto nomi d’arte, si esibivano all’estero. La nostra Sári Megyeri  in seguito diventata famosa, recitava nei film tedeschi come Sacy von Blondel [1897-1983, attrice, scrittrice, poetessa, giornalista, stella del cinema muto, protagonista in quarantanove film ungheresi e tedeschi]. Anche Luci Kovács col nome Lucy Doraine appariva spesso come protagonista in quelle stesse produzioni [nata Ilona Kovács 1898-1989, prese parte a più di venti film tra il 1918 e il 1931 e fu sposata con il regista Michael Curtiz dal 1918 al 1923]. Antonia Farkas, moglie di Sándor Korda [nata Mária Antónia Farkas, poi nota come María Korda o Korda Mária o Maria Corda, 1898-1976, star del muto in Germania e Austria], ebbe un successo mondiale per un breve tempo come la Bella Elena.

Il nostro Mihály Várkonyi [1891-1976, primo attore ungherese a girare un film negli Stati Uniti, ma attivo anche in film britannici e italiani] di bell’aspetto, attore di teatro e di film, firmò contratti con la societá cinematografica di Cecil B. deMille, di fama mondiale. Recitò con il suo bel profilo romano nel ruolo di Pilato [in Il re dei re, 1927], col nome Victor Varconi.

Bela Lugosi [Blaskó Béla Ferenc Dezső, 1882-1956] che era comunista, lasciò il paese nel 1919, dopo la dittatura rossa e andò in America. In Ungheria era considerato un attore mediocre. Arrivò al successo con la presentazione di Dracula […].

Dopo la prima guerra mondiale in Ungheria emergevano circoli spiritisti come in una strana ondata di sovratensione, moltiplicandosi e attirando come magneti senza spirito gli esistenzialisti, i falliti spirituali ed economici. Anche la mia famiglia ebbe un breve periodo di fascinazione, ma eravamo troppo professionali per accettare le produzioni di dilettanti che traghettassero le loro scipite prediche da una forma all’altra di comunicazione. A ripensarci oggi, nel nostro sviluppo questa fase era tuttavia di qualche importanza per i dibattiti a cui ci induceva. Eravamo portati ad occuparci di cose che spaziavano a tutti i rami della filosofia, delle scienze e delle arti. Le sette spiritistiche del tempo, paragonate alle sette dei nostri giorni – alcune anche innocue, ma per la maggior parte pericolose, folli e nate per ingannare ‒ avevano la forza di un contagio.

Conobbi Károly Lajthay nella Caffé House New York quando avevo quattordici anni: eravamo lí con i miei genitori per festeggiare la notte di san Silvestro, organizzata dall’Industria Cinematografica. Disse ai miei genitori di volermi assumere per una parte nel film Leánybecsület (Onore di ragazza, 1923) che stava girando. Non prendemmo sul serio la sua richiesta, ce ne dimenticammo persino. Lui peró tornó sulla carica. Le scene con me andavano riprese nello spazio freddo, gelato di vetro di Pasarét.

Lajthay con la sua abilità vertiginosa prese in mira il capitale e le zone erogene di un produttore di champagne che finanziava il film. La sorella minore della famosa star Ossie Oswalda, Hannie Reinwald recitava come protagonista. È tuttora in uso che sorelle e fratelli attori ricorrano a diversi cognomi d’arte. Con mia grande sorpresa la piacente giovane aveva una lussazione dell’anca. Ma all’uomo danaroso piacque anche cosí, perchè già al primo giorno delle riprese sul petto della ragazza splendeva un fermaglio rettangolare di brillanti. Sopra era scritto Lapa [dal nome degli studi di produzione cinematografica Lapa di Budapest, dove viene girato anche La morte di Dracula]. Naturalmente le malelingue del mestiere immediatamente trovarono nella parola il gioco di parole beffardo: “Lajthay palit fogott” “Lajthay ha preso un pollo” [espressione ungherese che significa: “Lajthay ha preso un perdente, un fallimento”].

Come già accennato, Lajthay era un tipo da Pest, di buon aspetto, vocione, nervoso, dinamico, vigoroso. Furfante e originale. Dirigeva gli uomini urlando, una mano nella tasca, l’altra alla bocca, mangiando le unghie. La moglie-bambina guardava con sorpresa il suo uomo adorato, che era una preda simile all’anguilla sgusciante, uno tsunami per le donne. L’attuale sposa-bambina stava seduta tutta la notte come un coniglietto stregato nei club “Fészek” (Nido) o “Otthon” (Casa), mentre il marito giocava a carte, quasi sempre perdendo. Non mi ricordo se questo film abbia avuto successo. Non avevo visto neanche Dracula. […].

Dopo tanto tempo, nel 1989 mi cercarono da Los Angeles a proposito di un mio libro strano, su cui avevo lavorato cinque anni, e iniziato da ventinovenne. Era stato pubblicato nel 1946 diventando un bestseller. Ma finì cestinato e bruciato con tanti altri libri nell’età Rákosi. Il titolo era: A vörös oroszlán (Il leone rosso), sottotitolo: Az öröklét bájitala (L’elisir della vita eterna). Il fuoco gli fece bene. Volò da fenice dalle suoi ceneri. Nel 1984 venne pubblicato da Heyne Verlag di Monaco, dove lo ristamparono otto volte […].

Una coppia ungherese di psicologi e il loro gruppo s’erano innamorati del tema. Mi avevano cercata per anni. Credevano fossi morta. […]. Poi mi trovarono, tutti contenti. Ricevetti un invito solenne da parte loro e dalla loro compagnia per Upland da dove usavano scendere ogni giorno a Los Angeles, nella clinica neurologica in cui lavoravano. Fu con loro che trovammo la casa a Hollywood di Mr. Forester [Forrest J Ackerman]. Aveva il soprannome Mr. Forry, come lo chiamavano i suoi amici. Editava una rivista horror. Era anche il primo che pubblicava la science fiction-T. Ovviamente aveva un sacco di soldi. Teneva corrispondenza con tutto il mondo della fantascienza. Adorava l’horror. Ma più di tutti Bela Lugosi. Conservava ogni pezzo di abito, ogni effetto d’uso, come un reperto da museo. Scriveva di lui in ogni sua rivista. Purtroppo alla mia povera amica, la psicologa signora Bondor, era capitato di dover tradurre in inglese, secondo la richiesta di Mr. Forry, l’unica poesia ungherese incredibilmente lunga di Lugosi. Grace Bondor sudava sangue durante il lavoro, perchè la poesia era molto brutta.

Invece Mr. Forry si rivelava un padrone di casa amorevole. Nella sua casa enorme – dove a volte in cucina preparavano il pranzo anche per quattrocento persone – mi fece sedere nella poltrona di Abraham Lincoln. Mi permise di provare anche l’ascensore che serviva per sua madre novantenne a raggiungere il piano superiore. L’ascensore era l’esatta copia di quello famoso presentato nel film Testimone d’accusa.

Per quanto riguarda il personaggio Dracula, non solo il romanzo di Stoker raggiunse un inaspettato, enorme successo, ma lo incassarono anche gli innumerevoli film, tra i quali molti davvero di valore e dignità artistica. Sul tema il regista danese Carl Theodor Dreyer creò un capolavoro pieno di simboli meravigliosi, dall’atmosfera indimenticabile e dalla bellezza straordinaria: Vampyr – Il vampiro. La strana avventura di David Gray. I tedeschi, per non usare il nome sotto diritti di Dracula, fecero il miglior film sui vampiri con il titolo Nosferatu. Il protagonista principale di nome Max Schreck riuscí a creare un capolavoro unico con il proprio personaggio paurosamente credibile.

Non mi meraviglio affatto che alla fine della nostra epoca critica il mito di Dracula torni a risorgere. Perché proprio lui avrebbe dovuto restar fuori dai drammi tremendi del palcoscenico mondiale del nostro pianeta?

                                                                                                            Budapest 1999

 

Note sulla scrittrice Mária Szepes, di Jenő Farkas

Nel 1997 chiesi a Mária Szepes, grande studiosa di letteratura esoterica e occultismo, di scrivere la prefazione per la riedizione della sceneggiatura del film Drakula halála (La morte di Dracula) di Károly Lajthay, e lei accettò con entusiasmo. Il suo testo sul regista e sull’atmosfera della prima industria cinematografica ungherese fu pubblicato per la prima volta nel libro Drakula és a vámpírok, 2010.

Nel 1995 scoprii la sceneggiatura (filmkönyv in ungherese) di Drakula halála con l’aiuto di un amico, Béla György, storico e bibliotecario-ricercatore presso la Biblioteca Nazionale Széchényi di Budapest. Quest’opera di piccolo formato risultava così deteriorata da non essere più accessibile al pubblico. Il mio amico ne fece una fotocopia, poiché il testo era completamente consumato e lacerato. Dopo aver incontrato l’autrice nella sua casa di Budapest, le presentai in dettaglio la sceneggiatura e ne pubblicai due importanti estratti sulla rivista Filmvilág (1997/12), tredici anni prima della traduzione inglese di G. Rhodes, che ridurrà questo contributo a un semplice “rapporto”.

Tuttavia non fu colpa di G. Rhodes. Un anno dopo, nel 1998, l’americano Lokke Heiss dedicò un articolo al film di Károly Lajthay nel numero di ottobre della rivista newyorkese Cinefantastique, basandosi sulle informazioni che avevo fornito a József Pocsai, collaboratore del documentario La strada per Dracula.

Come si evince anche dalla prefazione di Mária Szepes, l’autrice conobbe personalmente Károly Lajthay durante la sua giovinezza e, in qualità di attrice bambina, recitò in uno dei film del regista. Fu l’ultima testimone oculare a parlare con autenticità di Lajthay e della sua personalità. Allo stesso tempo, lo scritto è un documento molto prezioso sulla fase iniziale della storia della produzione cinematografica muta ungherese.

La scrittrice Mária Szepes è morta all’età di 99 anni il 3 settembre 2007. Con la ristampa di tale prefazione desideriamo rendere omaggio all’eccezionale carriera di questa romanziera, poetessa, attrice e maestra spirituale. Il suo romanzo A Vörös Oroszlán, Il leone rosso, pubblicato nel 1946 con lo pseudonimo di Mária Orsi, le portò fama mondiale. Tuttavia, poco dopo, con la nazionalizzazione delle case editrici sotto il regime comunista di Mátyás Rákosi, molte copie del romanzo furono sequestrate e distrutte.

Solo poche vennero salvate dal filosofo Béla Hamvas, che lavorava alla Biblioteca Nazionale Széchényi, perseguitato dal regime. Dal 1984, Il leone rosso fu pubblicato negli Stati Uniti in ungherese, e successivamente in tedesco e in inglese. Der Rote Löwe, pubblicato nel 1985, fu eletto Libro del mese in Germania e acclamato come un “capolavoro della letteratura esoterica”. Altri romanzi, come I sette adepti di Raguel (Raguel hét tanítványa in ungherese), furono pubblicati in tedesco nel 1993 in due volumi: Das Buch Raguel: Der Berg der Adepten e Weltendämmerung, riflettendo un universo che mescola fantastico, esoterismo e occultismo.

Mária Szepes era nata a Budapest con il nome di Magdolna Scherbach, in una famiglia di ebrei ungheresi legata al mondo del teatro. Suo padre, Sándor Papir (vero nome: Scherbak Oziás), era un bon vivant e una celebre stella del palcoscenico di Budapest, ma morì giovane. Sua madre, Mária Kronémer (nome d’arte: Margit Kornai), era anch’essa attrice. Dopo la prematura scomparsa del marito, sposò Galánthay Béla Balogh, un rinomato attore e regista appartenente a una nota famiglia teatrale. Insieme fondarono la casa di produzione Astra Filmgyár, un’impresa a conduzione familiare. Furono tra i primi a produrre con successo film muti e sonori. G. Béla Balogh diresse 50 film muti e 17 film sonori.

Dal 1916 al 1933, Mária Szepes intraprese la carriera di attrice cinematografica, spesso con lo pseudonimo di Magda Papir. Dopo il matrimonio con Béla Szepes, la coppia si trasferì a Berlino, dove visse fino all’Anschluss dell’Ungheria, alla fine della guerra. A Berlino, Szepes studiò letteratura, storia dell’arte e biologia. Tornata in Ungheria, lavorò inizialmente come giornalista, sceneggiatrice e scrittrice. Il suo primo romanzo, Il leone rosso. L’elisir della vita eterna, scritto in segreto durante la Seconda guerra mondiale, divenne un bestseller mondiale di letteratura esoterica. In seguito scrisse anche libri per bambini, tradotti in diverse lingue. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta in ungherese nel 1946, sotto la guida di Mária Orsi, dalla casa editrice Hungária; successivamente è stato riproposto negli Stati Uniti dalla Püski Publishing nel 1984 e poi a Monaco dalla Heyne Verlag (1984). È stato poi pubblicato in altre edizioni ungheresi: (con testo censurato) da Kozmosz Könyvek di Budapest nel 1984 e Háttér Lap- és Könyvkiadó nel 1989, (nel testo originale) dalla casa editrice Édesvíz Kiadó nel 1994. Il romanzo è stato proposto inoltre in diverse edizioni e-book.

Le opere di Mária Szepes appaiono influenzate da vari temi di fantascienza e di filosofie orientali (reincarnazione, teoria del karma…).

 

Il primo film su Dracula al mondo, di Jenő Farkas

Guardando l’ultimo remake di Nosferatu di Robert Eggers, mi trovo a pensare che se non fossero andate perdute le copie del film Drakula halála di Károly Lajthay, oggi la lista degli interpreti indimenticabili inizierebbe con il nome dell’austriaco Paul Askonas e non con Max Schreck. Dopo vengono Bela Lugosi, Christopher Lee, Boris Karloff, Lon Chaney, Klaus Kinski e Bill Skarsgård. La loro esibizione drammatica resta memorabile per il loro particolare aspetto. Anche Károly Lajthay ritenne così importante la prima maschera cinematografica del vampiro che nel 1920 lanciò un bando con una cifra enorme per prepararla. Secondo la rivista Színházi élet (Vita del Teatro) “non si può neanche immaginare una cosa più sorprendente e mistica”. E da allora la maschera è l’emblema inconfondibile dei film su Dracula. Quando Lajthay  alla fine del 1920 fece le riprese esterne a Melk, Wachau e Steinhof in Austria, e quelle interne a Budapest, F.W. Murnau ancora cercava le località di Nosferatu a Wismar  nel Nord della Germania e nei magazzini del sale di Lubecca. È da escludere che Murnau non avesse conosciuto il progetto del film di Lajthay e Kertész che stavano a Vienna, tanto di più che Bela Lugosi  ‒ andando da Vienna a Berlino ‒  fu interprete in film di Murnau e avrebbe potuto informare il regista del progetto cinematografico ungherese.

La prima del Dracula di Lajthay si ebbe nel marzo del 1921. “Si è svolta adesso la presentazione del film alla stampa ed ha avuto un enorme successo” (Színház és Mozi / Teatro e Cinema, 17.03.1921,) ma verrà proiettato nei cinema solo nel 1923. Al contrario, la creazione iconica di Murnau Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu, una sinfonia dellorrore) fu proiettato dal marzo 1922 nei cinema ungheresi con grande successo.

Avete capito bene: nel 1921 Károly Lajthay varò in coproduzione austro-ungarica, la prima volta al mondo, il film Dracula (più tardi La morte di Dracula) con i protagonisti principali Paul Askonas e Margit Lux.

La presentazione visuale del vampiro Dracula non fu un pensiero fortuito, infatti la storia del vampiro in inglese aveva conquistato i lettori ungheresi.  La traduzione del romanzo di Bram Stoker, Drakula, fu la prima ad accompagnare il conte vampiro dall’Inghilterra al Continente. Dopo due settimane dall’uscita del romanzo a Londra, 1897, lo scaltro proprietario  del Budapesti Hírlap (Giornale di Budapest) lo pubblicò in ottantaquattro puntate sul suo quotidiano. Il traduttore, il proprietario del giornale di buona fama, aggiornò il testo e lo adattò, mantenendo solo il cinquanta-sessanta per cento del testo originale “per una miglior comprensione”. Lo stesso giornale in maggio pubblicò il romanzo in un libro di seicento pagine, completando le parti mancanti; ancora tre edizioni lo seguirono all’inizio del secolo, poi cinque nuove traduzioni fino ai giorni nostri.

Károly Lajthay e Mihály Kertész (in seguito premiato con l’Oscar come Michael Curtiz) furono i primi a riconoscere le possibilità di fare un film dal romanzo di Stoker e insieme scrissero il dramma horror Drakula. Károly  Lajthay realizzò il film Drakula tra fine 1920 e inizio 1921 (poi  con il titolo La morte di Dracula). Lajos Pánczél [1897-1971, giornalista, scrittore, critico cinematografico] ne offrì la novelization e la pubblicò a Timișoara nel 1924. Panczél seguì con attenzione il lavoro del regista e come redattore del giornale Ujsàg in un articolo elogiò l’importanza del film e la visita del regista nel 1931 a Budapest:

 

Károly  Lajthay a Budapest. Il regista eccellente degli anni del dopoguerra che in Ungheria e anche all’estero ha diretto molti film di grande successo – tra l’altro è stato lui a portare sullo schermo per la prima volta Dracula – da alcuni giorni è in visita a Budapest e sta trattando per preparare due film sonori. (Újság, 01.10.1931.)

 

Purtroppo le copie del film di Lajthay sono andate perdute. Molti ricercatori hanno provato a cercarle. Scegliendo una strada diversa, io, seguendo le orme del film, ho raccolto le annotazioni ufficiali rimaste dell’epoca, articoli dei giornali, report illustrati delle riprese, interviste con il regista e con i protagonisti, comunicati, manifesti, inserzioni e pubblicità. Il passo successivo è stato la ricerca del copione. Nel 1995 il bibliotecario-storiografo, mio amico Béla György, mi preparò la riproduzione di una copia della novelization pubblicata a Timișoara, il cosiddetto romanzo dal film che era in pessimo stato. Lo conservo tuttora [nel mio articolo “A magyar Drakula” (Filmvilág / Il mondo del film, 1997, n. 12) parlo dettagliatamente della storia della nascita del film-libro di Lajthay, La morte di Dracula. Cfr. anche Lokke Heiss:  Dracula Unearthed... Digging up details on the lost 1921 silent film, the first inspired by Stoker’s Count, in Cinefantastique (1998, ottobre, 90-92.)].

Sulla  base di queste preziose reliquie seguiamo passo passo la nascita del Dracula ungherese. Guardiamo dunque – con precisione giornaliera – i più importanti documenti (per la prima volta nella loro interezza) ed eventi, possibilmente in tutta la loro ampiezza per offrire ai professionisti internazionali informazioni di prima mano.

Anzitutto, l’estratto dell’atto di nascita autentico e inoppugnabile del film muto La morte di Dracula si legge nel Belügyi Közlöny (Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Interno):

 

Il Comitato Reale Nazionale Ungherese per la Revisione Cinematografica ha trovato  accettabile, in base all’ordine 66/1923, la proiezione dei seguenti film: 40. La Morte di Dracula (Lapa) dramma in 4 atti prodotto nella fabbrica di film Lapa nel 1921 e lungo 1448 metri (Belügyi Közlöny,  25.03.1923)

 

Nei giornali appare così per la prima volta il titolo La morte di Dracula per il film conosciuto fino a quel momento semplicemente come Dracula. Lo stesso Comitato darà permesso solo agli spettatori sopra i sedici anni di guardare il Nosferatu di F.W. Murnau.

La prima notizia ufficiale di stampa del film di Dracula viene da Károly  Lajthay. Finalmente vi si chiarisce la questione dell’autore: Lajthay scrisse la storia con Kertész Mihály. I protagonisti principali erano esclusivamente degli attori austriaci o tedeschi, le riprese invernali furono fatte nel 1920. Attori ungheresi per ora non sono citati. Il titolo Dracula è menzionato anche da Komödie di Vienna. Ecco la risposta di Lajthay nella rivista Színházi Élet (Vita del Teatro):

 

Registi ungheresi a Vienna. La produzione cinematografica a Vienna è quasi interamente in mano ungherese, perché qui predominano i registi ungheresi. Korda e Kertész hanno avuto un successo senza precedenti. Il Seine Majestät das Bettelkind [Il principe e il povero, 1920], diretto da Sándor Korda, è poi uscito a Budapest. L’avete visto alla presentazione stampa di oggi e avete potuto constatare senza ombra di dubbio che è perfetto. Kertész ha ora completato il suo ultimo film, intitolato: Cherchez la femme. Il film è stato proiettato oggi “in casa”, davanti a un pubblico invitato. Chi ha avuto la fortuna di assistere a questa presentazione ha parlato con autentico entusiasmo di questo nuovo capolavoro di Kertész. Il ruolo femminile principale in questo film è ovviamente interpretato da Lucy Doraine. Korda e Kertész vengono costantemente bombardati da offerte provenienti da Italia e Germania, non ultima quella secondo cui Kertész dovrebbe dirigere l’ultimo film di Henny Porten, che non sarebbe altro che un sequel di Anna Boleyn [regia di Ernst Lubitsch, 1920]. Korda ha anche iniziato a recitare nel cinema, con la moglie Antónia Farkas e l’italiano [Alberto] Capozzi. Anche i film di Szöreghy erano brillanti. Io sto facendo la regia del mio film Dracula, che abbiamo scritto insieme con Mihály Kertész. Con le riprese esterne sono quasi pronto. Sono state girate vicino a Helimental Melk. Le riprese interne le voglio fare nello studio della Fabbrica del film Corvin perché uno studio simile cosi perfetto non esiste a Vienna. Il 2 gennaio verrò a Budapest, con i protagonisti principali. Hanno avuto una parte ottima nel film Magda Sonja, Anna Marie Hegener, Lene Myl, Paul Askonas. Porto con me l’operatore migliore di Vienna, Hösst [Eduard Hoesch]. Il film è grande, pieno di motivi d’interesse. I plen air invernali sicuramente offriranno uno spettacolo di prim’ordine. (Színházi Élet, 1920)

 

La presentazione alla stampa viennese di Dracula  avvenne nel febbraio del 1921 con grande successo, scrive la rivista Színház és Mozi (Teatro e Cinema):

 

Károly Lajthay, l’eccellente regista che vive a Vienna, ha terminato qualche settimana fa le riprese interne del dramma intitolato Dracula nello studio della fabbrica Corvin… È stato ora presentato alla stampa viennese e ha avuto un enorme successo. (Színház és Mozi, 1921)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/09/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-3/ Sat, 09 Nov 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85113 di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia [...]]]> di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia (Lago di Garda, Praga, Berlino, Svizzera) e produce in varia forma. Tra il 1909 e il 1914, per necessità alimentari, traduce opere di Charles Dickens (Nikolas Nickleby, David Copperfield, Oliver Twist, Il circolo Pickwick), Rudyard Kipling, Lafcadio Hearn e Camille Flammarion. Legittimo pensare che l’immersione in Dickens possa giovare ai suoi progetti di romanzo: in questa fase si ha infatti l’incubazione del capolavoro Der Golem, avviato a Monaco fin dal 1907. Intanto, in collaborazione con lo scrittore Alexander Roda Roda (1872-1945), incontrato in un cenacolo viennese frequentato da Eckstein e pure autore del “Simplicissimus”, vara diverse commedie, via via rappresentate: Bubi (Schuster & Loeffler, Berlino 1912), Il Consiglio medico (Schuster & Loeffler, 1912), Lo schiavo di Rodi (un adattamento dall’Eunuchus di Publio Terenzio Afro, Schuster & Loeffler, 1913), L’orologio (Ahn & Simrock, Berlino 1914). Le annotazioni scenografiche di Gustav rivelano l’influenza delle concezioni artistiche degli studi viennesi, e questi testi (assieme alla sua trasposizione teatrale di varie novelle, in particolare L’albino) rivelano un genuino interesse per il teatro, dove inietta le sferzanti satire dei racconti. Se l’insuccesso riscontrato raffredderà le cose, Gustav inizierà a guardare alle ricche possibilità di un’altra arte più di recente emersa, il cinema; e d’altra parte, come mostra l’esperienza del cinema ungherese (brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori, a interagire coi propri personaggi: cfr. qui) i due mezzi mostrano al tempo anche interessanti ibridazioni.

Gustav vagheggia anche la fondazione di una rivista “di pura bibliofilia”, contro il gusto che imperversa a Monaco: titolo previsto, “Gent”, e dovrebbe uscire nel settembre 1913 – ma nei fatti il progetto non decolla. Nel marzo 1913 e poi fino all’anno successivo riprende anche un vecchio progetto (1907-08, con Richard Teschner) di teatro di marionette, ma anche questo senza seguito. Negli anni che precedono la Grande guerra, è poi coinvolto dall’amico Hans Ludwig Held, direttore della Stadtbibliotek di Monaco, quale potenziale collaboratore di una vagheggiata Accademia tedesca di Letteratura e Arte “per evitare il tramonto della letteratura tedesca”: una sorta di risposta ai livorosi attacchi dei circoli nazionalisti tedeschi, iniziativa che però non trova concreti sviluppi.

Nel 1913 esce in tre volumi per Langen di Monaco la grande raccolta di suoi racconti Des deutschen Spiessers Wunderhorn per i tipi Langen di Monaco (malizioso fin dalla copertina, parodizza il romantico Des Knaben Wunderhorn di Achim von Arnim e Clemens Brentano, ma Il corno magico – cioè la cornucopia – del titolo non è del fanciullo bensì del piccolo borghese tedesco); e il volume Der Kardinal Napellus. Erzählung seguirà per Bachmair sempre di Monaco nel 1915. Ma Gustav non smette di scrivere testi brevi, seppur meno numerosi.

Così troviamo anzitutto L’imperatore segreto. Frammento (Der heimliche Kaiser: Fragment), scritto nel 1907 e pubblicato nel 1909 come cap. XII dello scherzo letterario a più mani Der Roman der XII di “Peter Squentius Vindobonensis” (uno pseudonimo collettivo per con Hermann Bahr, Otto Julius Bierbaum, Otto Ernst Schmidt, Herbert Eulenberg, Hanns Heinz Ewers, Gustav Falke, Georg Hirschfeld, Felix Hollaender, Gabriele Reuter, Olga Wohlbrück, Ernst von Wolzogen più appunto Meyrink: il sottotitolo Fragment appare però nella riedizione nella raccolta Fledermäuse: Ein Geschichtenbuch, 1917). L’aspetto forse più interessante dell’esperimento è dato dalla partecipazione di Meyrink assieme a quell’Ewers – brillante ed equivoco visionario e pornografo – che in fondo è una sorta di suo ideale contraltare.

Per racconti veri e propri, Il cardinale Napello (Der Kardinal Napellus, “Süddeutsche Monatshefte” 1913), presenta la storia di Hieronymus Radspieller – forse un ex-monaco, che ormai scrive eruditissimi libri contro fede, speranza e promesse bibliche – residente nel piano affittato e sontuosamente arredato di un castello, e che passa molto tempo nella sua barchetta sul lago. Ha messo a disposizione alcuni locali a un gruppo di quattro amici pescatori: tra loro è il botanico Eshcuid, che un giorno arriva con una pianta velenosa strana e altissima, il napello. A un certo punto Radspieller li raggiunge, ma la situazione è stranamente tesa: la sua sonda di piombo ha raggiunto finalmente il fondo del lago, “il punto più profondo della Terra che uno strumento abbia mai raggiunto!”.

Beninteso, l’evento non gli interessa dal punto di vista dell’astratta scoperta scientifica: “la scienza per noi è solo un pretesto per compiere qualcosa, qualsiasi cosa, non importa cosa”, visto che la vita ha prosciugato loro l’anima. Col risultato di far loro inseguire “capricci infantili per dimenticare quanto [hanno] perduto” e solo per quello. Ma quei capricci hanno anche un altro senso, “Non c’è nulla che possiamo fare che non sia magico”: il suo scandagliare nelle ombre è stato solo un atto esteriore, “ma colui che sa vedere e interpretare, già dall’ombra informe sulla parete sa riconoscere chi si è posto davanti alla lampada…”. Poi, alla domanda di uno dei pescatori su quale evento di vita gli abbia inflitto una ferita tanto amara da lasciarlo così rabbiosamente scettico, spiega di non essere mai stato prete ma suo padre era morto in preda al delirio religioso e lui ne aveva ereditato le angosce.

Nella valle dov’è nato, i membri della setta dei Fratelli azzurri cui lui è appartenuto a lungo, all’approssimarsi della morte si fanno seppellire vivi: e nello stemma del loro monastero spicca una pianta velenosa, il cui petalo superiore somiglia al cappuccio di un monaco – è l’aconitum napellus, il napello blu… Nel giardino del monastero cresce quest’erba azzurra, annaffiata con il sangue delle piaghe che i monaci si autoinfliggono a frustate. All’ingresso nell’ordine si pianta un esemplare che riceve il nome del nuovo adepto. Anzi, sul tumulo del fondatore della setta, il leggendario cardinale Napello, sarebbe cresciuta in una notte di plenilunio una pianta mentre il cadavere di lui scompariva, trasformato in essa, e di lì sarebbero venute le altre. I confratelli si alimentano dei semi tossici del napello, che li portano in uno stato tra vita e morte alla mutazione dei loro cuori… ma dopo un po’, resosi conto dell’effetto di accumulo del veleno per assurde speculazioni misticheggianti, Hieronymus aveva distrutto la pianta che recava il suo nome. La notte aveva poi avuto una visione del cardinal Napello con in mano la pianta dai fiori azzurri, i tratti cadaverici – solo gli occhi erano vitali – e spaventosamente uguale a lui… Allora s’era recato di soppiatto al refettorio, aveva forzato l’urna con le reliquie del cardinale e vi aveva trovato solo il mappamondo che ora è lì nella nicchia, ma l’aveva accompagnato nella fuga dal monastero. Per profanare maggiormente la reliquia l’aveva venduta, donando il ricavato a una prostituta: ma il mappamondo era in seguito tornato in suo possesso in modo casuale tramite un amico…

Ora lì tra vette montane e profondità del lago si era liberato di una religiosità necrotica e della “menzogna che la vita avrebbe uno scopo profondo”, mentre non c’è che terra… Ma a quella confessione tutti sono angosciati, e il botanico cerca di reagire studiando il mappamondo, evidentemente una falsa reliquia moderna che riporta i cinque continenti perfettamente tracciati – c’è persino riportato il piccolissimo lago locale… Hieronymus sta sbeffeggiando il cardinale che non gli appare più nei sogni, ma all’improvviso si accorge con orrore e un rantolo strozzato del napello portato lì dal botanico stesso: il quale nel frattempo ha staccato con un ago la pergamena a copertura del mappamondo, che rivela all’interno una sfera di cristallo dov’è fusa “la figura eretta di un cardinale con mantello e cappello che teneva in mano, quasi fosse un cero ardente, una pianta con i fiori a cinque petali dal colore dell’acciaio”.

A quel punto Hieronymus, similmente immobile e con il napello in mano, precipita nella follia. I quattro amici abbandonano il castello e si separano, per non incontrarsi più; ma tornato sul luogo molti anni dopo, il narrante trova solo rovine del castello, con un’enorme aiuola di fiori ad altezza d’uomo. “[…] era l’aconitum napellus”.

Scritto nel 1913, I miei tormenti e le mie gioie nell’aldilà: comunicati attraverso suoni di colpi spiritici (Meine Qualen und Wonnen im Jenseits: Durch spiritistische Klopflaute mitgeteilt, “Simplicissimus”, 13, 1914) è una farsesca storiella sullo stesso Meyrink, in ipotesi suicida per impiccagione, che racconta scene dell’aldilà dopo il passaggio sulla “chiatta, guidata dal primo presidente del club di canottaggio Caronte” e l’incontro con un’angelicata figura femminile dall’“odore pungente di latte di capra” (un odore, ricordiamo L’anello di Saturno, associato alle beghine) che si rivela Emmeline Pankhurst, la leader delle suffragette. In seguito la sua strada si incrocia con quella di Anubi, Torquemada e Lucrezia Borgia… e il tutto si risolve in una satira sulle rivelazioni degli spiritisti.

“Che cosa siamo noi esseri umani se non burattini indifesi, guidati dai fili da un destino crudele – qua e là, solo per poi abbandonarci all’improvviso senza capo né capo, come per un capriccio infantile?”: La storia del rapinatore-assassino Babinski (Die Erzählung vom Raubmörder Babinski, “Die Ernte”, 3, 1915) è narrata da un uomo che sente ormai estranea la sua casa e prende a peregrinare come un wanderer in una Praga nebbiosa sotto monumenti incombenti. Il testo, che troviamo quasi completamente assorbito nel Golem (capitolo “Donna”), vede la comparsa di tre vecchi amici del protagonista, il burattinaio Zwakh (ispirato all’amico pittore e scultore Richard Teschner, 1879-1948, con cui Gustav ha vagheggiato un teatro di marionette), il pittore Vrieslander (l’amico illustratore John Jack Vrieslander, 1879-1957) e il musicista Prokop. “‘Si siederanno nella locanda del ‘Vecchio Ungelt’ con un bicchiere di grog’, immaginai, ‘e si racconteranno storie grandiose e grottesche’”. Ma la sorpresa maggiore per il lettore del racconto è quando il protagonista entra nel locale dove si ritrovano gli amici e viene chiamato Pernath, come appunto il protagonista del Golem: i tre prendono a raccontargli la storia del truce Babinski.

 

“A poco a poco nelle migliori famiglie si cominciò un bel giorno a registrare la scomparsa di questo o quel congiunto, atteso per il pranzo e invece mai più rincasato. Per quanto in principio nessuno dicesse nulla, perché la cosa aveva in certo modo un suo aspetto positivo, dovendosi così durar meno fatica attorno ai fornelli, non si poté d’altra parte passar sopra al forte rischio che ne venisse a soffrire la propria reputazione e si divenisse oggetto di spiacevoli chiacchiere tra la gente.”

 

Babinski, curiosamente, vive nell’idilliaco di Krtsch presso Praga, in una casetta dal giardino fiorito di gerani: e prende a seppellire le vittime sotto un tumulo erboso che attira sospetti con la sua crescita progressiva. Infine arrestato, viene condannato a un’economica impiccagione, ma allo spezzarsi della corda del cappio la pena è commutata in ergastolo. Viene apprezzato dai funzionari dell’istituto, e infine, amnistiato, è assunto come portinaio nel monastero delle Sorelle della Misericordia. Si emenda, e dalla locanda il sabato sera torna sempre presto, rattristato dalla bassa morale degli avventori. Indignato che a Praga si vendano sue statuette in cera come pericoloso assassino, biasima il fatto che si continuino a sottolineare gli errori di giovinezza di una persona – ed espressosi così sul letto di morte otterrà il divieto di quel commercio.

Come il dottor Hiob Paupersum portò rose rosse alla figlia (Wie Dr. Hiob Paupersum seiner Tochter rote Rosen brachte, “Simplicissimus”, 20, 1915), ambientato a Monaco, è un apologo di critica a una società cinicamente indifferente alle sofferenze dei poveri (il protagonista ha il nome parlante di Giobbe – in riferimento al personaggio biblico – “Pauper sum”, “Sono povero”): dopo aver portato un mazzo di rose alla tomba della figlia, Hiob si taglia le vene, conficca le mani nella terra e il sangue cola “giù verso colei che riposava là sotto”. La scena richiama la morte di Charousek nel Golem, ma, nel caso del povero padre, “Sul suo volto bianco […] era dipinto lo splendore di una pace superba che nessuna speranza era più in grado di turbare”.

Il gioco dei grilli (Das Grillenspiel, “Simplicissimus”, 23, 1915) richiama invece una visione avuta dall’autore nel 1915 sulle cause occulte che starebbero dietro alla Grande guerra. Apparentemente si ambienta nel mondo degli entomologi: in questione è “la scoperta di una nuova specie di grillo bianco” nel luglio 1914 in Bhutan, allora Tibet sud-orientale e oggi stato autonomo, “usato dagli sciamani per pratiche magiche ed è chiamato Phak, una parola che è anche un epiteto ingiurioso per tutto ciò che ha somiglianza con un europeo o con un individuo di razza bianca”. A turbare l’autore della scoperta, lo studioso Johannes Skoper, è l’incontro con un Dugpa, un sacerdote-diavolo della religione Bön che sostiene di discendere dal demone dell’Amanita muscaria (ricordiamo le commistioni umane/vegetali dei racconti e i personaggi che si chiamano come vegetali tossici) ed esperto nel sentiero della Mano Sinistra: ha “il volto dai bagliori verde-olivastri come non avevo mai visto in nessuna creatura vivente” (cfr. il successivo romanzo Il volto verde), un cappuccio rosso in testa ed è addirittura un Samtscheh Mitschebat, “un essere che non è più lecito definire uomo” con illimitati, allarmanti poteri,. Tanto più dopo una scena che mostra l’influsso strano del Dugpa sulla specie di grilli sconosciuta: al comando magico del sacerdote-diavolo, in grado di sciogliere e legare, gli insetti hanno preso a combattere furiosamente e dilaniarsi in modo ripugnante.

 

Non riuscivo a liberarmi da quelle parole: Egli scioglie e lega. A poco a poco esse venivano ad assumere nella mia mente un significato spaventoso e nella mia fantasia quel mucchio di grilli sussultanti si trasformava in milioni di soldati morenti.

Mi mozzava il respiro l’incubo di un senso di responsabilità inspiegabile e mostruoso che era tanto più tormentoso tanto più ne ricercavo invano dentro di me la causa.

 

Lo studioso non torna vivo dal Tibet, mentre si rivela vivo l’esemplare di grillo creduto morto, e chi si appresta a conservare. Invano inseguito dagli studiosi:

 

Scuotendo la testa, il vecchio [Demetrius, il custode] li osservava da dietro la grata della finestra inseguire il grillo con i retini per le farfalle, poi volse lo sguardo verso il cielo serale che imbruniva e mormorò: “Che strane forme assumono le nuvole in questi terribili tempi di guerra! Quella nuvola là ha le sembianze di un uomo, il volto verdastro e il cappuccio rosso, se gli occhi non fossero così distanti avrebbe quasi un aspetto umano. È proprio vero che anche in veneranda età possiamo diventare superstiziosi”.

 

Sempre nel filone delle storielle maliziose con animali, Amadeus Knödelseder, l’incorreggibile avvoltoio degli agnelli (Amadeus Knödlseder, der unverbesserliche Lämmergeier, “Simplicissimus”, 30, 1915) è una favola satirica fino allo sberleffo sui compatrioti bavaresi (ma ce n’è anche per gli italiani).

Racconti insomma nel complesso interessanti, anche se il periodo va soprattutto ricordato come quello di incubazione e presentazione del capolavoro di Meyrink, Der Golem. Il romanzo è apparso serializzato su “Die Weißen Blätter” tra dicembre 1913 e agosto 1914, e dopo vari rifiuti viene edito infine a Lipsia per i tipi Kurt Wolff, 1915. Che la stampa decisa di duemila copie venga realizzata in ventimila per un errore editoriale pare ovviamente una leggenda: ma il risultato è un bestseller che esaurisce le copie in pochi mesi (145.000 copie vendute in due anni) e a oggi continua a essere riedito e ristampato, anche in Italia.

Tradotto in italiano nel 1926 (in due volumi, per i tipi Campitelli di Foligno, dal goriziano Enrico Rocca, amico di Stefan Zweig, sull’onda del successo per la scrittura modernista che – come vedremo – connota l’opera), in ceco, inglese e francese alla fine degli anni Venti, il romanzo presenta la storia di Athanasius Pernath, un restauratore e intagliatore di pietre preziose che vive nel ghetto di Praga. Ma la presenta facendola vivere con uno stratagemma narrativo molto interessante, che già conduce sulle vie sottili dell’interiorità: all’inizio del Novecento un giorno, nella Cattedrale, l’innominato narrante – uno scrittore che legge un libro sulla vita di Siddhartha Gautama prima di andare a letto, virtualmente Meyrink stesso – scambia per errore il suo cappello con quello dell’ormai anziano Pernath, e ne rivive la vita da trent’anni prima, la sua ricerca identitaria nonché la rete di vicende di una serie di persone a lui connesse. Risvegliatosi dopo un inquieto dormiveglia nei panni del quarantenne Pernath, si vede dunque commissionare da un misterioso sconosciuto (il golem?) il restauro di un antico, fatale libro, Ibbur, che gli spalanca le dimensioni dell’interiorità. Accanto a Pernath e idealmente alle sue spalle, come i geni antitetici del male e del bene del Faustus di Marlowe, sono due personaggi del ghetto: il ricco, spiacevole rigattiere Aaron Wassertrum, uomo dell’Ombra e forse assassino – sorta di repellente precipitato di tutti gli stereotipi razzisti antiebraici – fronteggiato dalla sua nemesi e figlio naturale, lo studente di medicina tisico Innozenz Charousek, di cui ha sfruttato sessualmente la madre (il personaggio pare ispirato a Meyrink dallo scacchista ungherese Rudolf Charousek, 1873-1900); e il luminoso, saggio mistico Hillel, impiegato al municipio ebraico, mentore di Pernath sulla via del Talmud e della Cabala, della cui compassionevole figlia Mirjam, la ragazza che crede ai miracoli, il Nostro s’innamora.

Circondato da presenze deliziose (i tre impagabili amici Zwakh – il burattinaio suo padrone di casa –, il pittore Vrieslander e il musicista Prokop) o torbide (la ripugnante prostituta quattordicenne dai capelli rossi Rosina, in apparenza parente di Wassertrum; i gemelli Loisa e Jaromir; l’ambiguo adultero seriale dottor Savioli e la contessa Angelina sua amante…), tra cadute morali e aspirazioni alla luce, Pernath viene accusato falsamente di omicidio e finisce in carcere – come Gustav anni prima. Peccato che durante quel periodo lo sventramento urbanistico del quartiere ebraico e una serie di convulse vicende cancellino il suo mondo e facciano sparire gran parte dei personaggi… Così quando il Nostro viene liberato si mette alla ricerca di Mirjam. La restituzione del cappello alla fine (teniamo presente che Meyrink stesso vede alla luce del passato e della distanza la Praga da cui è partito tanto tempo prima) ha il sapore di un lieto fine e di un riposizionamento spirituale, di un recupero identitario su un piano più alto.

La stile onirico, ellittico e febbricitante – ma anche, a tratti, surrealmente vignettistico e caricaturale, in un legame mai perduto con la produzione breve dell’autore – si collega anche con la genesi editoriale e la forma a puntate della narrazione che deve ogni volta rilanciare sia nel segno del mistico che degli effetti di “presa” sul lettore. Merita ricordare che le illustrazioni inizialmente varate da Alfred Kubin per Il golem (la corrispondenza risale al 1907), a fronte dei ritardi di Gustav, finiranno nel romanzo kubiniano L’altra parte: e in effetti, senza alcuna necessità di denunciare imprestiti tra l’una e l’altra opera, tra l’onirica Praga di Meyrink e la straniante Perla di Kubin emergono interessanti analogie.

A questo quadro sfuggente pertiene la stessa figura del golem: qui non un gigante d’argilla sollevato misticamente dai rabbini a tutela della comunità del ghetto, come nelle leggende, ma una creatura sfuggente, perturbante (emblematico il volto attribuitogli da Hugo Steiner Prag nell’edizione originaria, oggi riprese in quella italiana per Tre Editori, 2015) che vediamo di rado ma pare evocare gestalticamente spirito e psiche collettiva del ghetto – dove appare con regolarità – e dei suoi abitanti, prendendo consistenza dalla sofferenza storica dei medesimi. E che, come un doppio, rispecchia anzi qualcosa dell’anima della singola persona che lo incontra, delle sue ossessioni e angosce. Insomma,

 

La leggenda dell’essere formato da polvere o argilla che prende vita attraverso l’evocazione rituale di una combinazione di lettere per aiutare la comunità nel testo di Meyrink assume da subito sfumature moderniste. […] La rappresentazione del golem, più che essere la figurazione mistica della tradizione, in Meyrink si lega perciò già all’inizio del romanzo a una riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico. [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, “Ticontre. Teoria Testo Traduzione”, 18 (2022)]

 

D’altra parte, così come rende interiore e psicologica la funzione del golem, allo stesso modo Gustav compone un intreccio che – descrizioni d’ambiente a parte – è tutto interiore. Hillel spiega a Pernath che Sapere e Memoria sono identici, trascendendo le polarità di razionale e irrazionale. I momenti di sogno sono sempre più numerosi, il racconto ne viene via via saturato e la coscienza (lo si veda nell’uso stesso dei tempi) viene inghiottita dal subconscio.

Vano dunque porsi il problema dell’oggettività delle esperienze di Pernath e in fondo dell’anonima voce narrante: il tutto si traduce a sogni, visioni, allucinazioni o eventi interiori, trascendenti, che ritmano la vicenda lungo il suo corso. Tra l’altro emerge che Pernath ha avuto in passato un crollo mentale per mal d’amore, ed è stato a lungo ricoverato in manicomio prima di un blocco della memoria indotto dall’ipnosi – ma il tutto resta sfuggente e rimosso, come il suo stesso pregresso giovanile, per riemergere all’incontro con Angelina, oggetto del suo antico sentimento. Da perfetto narratore inaffidabile, guardato con perplessità dagli amici nella sua stabilità mentale, il protagonista sfida così il lettore a capire quanto gli eventi siano reali – almeno su un certo piano – ma, appunto, il problema rischia d’essere malposto.

Freddino sull’insieme, Kafka vedrà in Meyrink e nella Praga del Golem anzitutto la forza di una pittura d’atmosfera: e certo l’ambientazione resta uno straordinario punto di forza dell’opera. A dispetto di ogni banalizzazione turistica odierna sulla Praga “magica”, l’attenzione dei lettori può così focalizzarsi su quello storico quartiere ebraico di Praga che al momento della pubblicazione è ormai completamente ridisegnato.

Il risultato è un enorme successo editoriale. Presentato in modo un tantino forzato: un “sensazionale romanzo poliziesco” sul “Demone di Praga”, che insieme crea suspense e stimola una riflessione etica sui temi dell’anima del destino. Se non manca chi lodi la dimensione filosofica e teosofico-religiosa del romanzo, molti vi vedranno semplicemente un fantastico tout court dalle caratteristiche un tantino cervellotiche, o magari un semplice, per quanto suggestivo, romanzo dell’orrore. Per quanto Meyrink flirti talora con le sirene della Schauerliteratur, con le sue perversioni e le forti tinte tanto vivide nei colleghi Ewers e Strobl, dove “il compiacimento nell’orrore si allea ad una segreta accettazione dell’ordine costituito” (Jean-Jacques Pollet), il suo posto è piuttosto in un altro filone di inquietudine, dove l’espressionismo traduce il turbamento in una visione apocalittica e imposta l’interrogativo identitario nella domanda radicale: “Chi è adesso ‘io’” con cui si chiude il primo capitolo del Golem. Quel che nasce qui è un nuovo tipo di fantastico, prettamente novecentesco. virato sullo sguardo di chi vede piuttosto che sull’oggetto visto.

Altro equivoco, la mancanza di filologicità di Meyrink rispetto alla tradizione sapienziale ebraica: da cui critiche ingenerose e dogmi interpretativi infondati. Scholem, grande studioso di Cabala, pur apprezzando del testo la forte suggestione d’ambiente, criticherà l’uso fantastico fino al grottesco delle idee teologiche ebraiche, le forzature sincretiste nel segno del pensiero indiano e di un certo confuso esoterismo alla Madame Blavatsky: il golem diventa nel romanzo una sorta di ebreo errante, lontanissimo dal profilo della tradizione. Ma se, proprio a Scholem, Meyrink chiederà allegramente di spiegargli alcuni aspetti del romanzo che lui stesso non avrebbe capito bene, sembra di vedervi un ridimensionamento del peso dell’elemento mistico – pur presente – a favore di quello narrativo e psicologico. Non è un caso che, incontrando il golem, i personaggi vi ritrovino qualcosa come una rifrazione oscura di sé, almeno parziale: a rinnovellare col modernismo la grande riflessione letteraria sul doppio.

Tanto più che in realtà inizialmente il titolo generale non faceva affatto riferimento alla figura mitica ebraica, e suonava Der Stein der Tiefe. Ein Guckkasten (La pietra del profondo. Un mondo nuovo) – così il frammento pubblicato sulla rivista di letteratura e arte “Pan” nel 1911 –, con Golem come titolo del quinto capitolo. Il cambio viene suggerito dall’editore: ciò a ridimensionare non la simpatia di Meyrink verso la cultura ebraica ma il peso della medesima nell’economia del romanzo, che – com’è stato osservato – va letto piuttosto nel segno dell’attenzione modernista alla psicologia (la pietra del profondo in questione, che somiglia a un pezzo di grasso, è un oggetto delle ossessioni di Athanasius, e non c’entra con il pensiero cabalistico). Torniamo così alla citata “riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico”. Semmai qualcosa della tradizione ebraica – ma non solo – può emergere nel sottotitolo: il Guckkasten è il mondo nuovo o mondonovo nel senso della macchina ottica anticipatrice del cinema, e nel romanzo si ricorda come Rabbi Löw avrebbe proiettato con una lanterna magica immagini paurose di defunti alla corte di Rodolfo II. Ma ciò finisce con l’evocare anche le ombre del cinema al tempo in evoluzione (inevitabile pensare ai film espressionisti sul golem poi varati con grande successo), e comunque un tipo di visione narrativa a base di giochi d’ombre inseguita in tutto il testo. Come sintetizza Fossaluzza, “Il risultato è una dimensione narrativa in cui sogno e realtà, psicologia e mondo reale si fondono completamente”. E il golem si rivela in fondo una figura umbratile e sfuggente da lanterna magica, oggetto di una “narrazione prolifica” (la leggenda udita invade il racconto): “Né sveglio né dormiente, scivolo in una sorta di sogno in cui ciò che ho vissuto si mescola a ciò che ho letto e sentito”. La coscienza collettiva afferra l’Io, l’Io è un Altro. Ma dunque il golem è insieme anche doppio e revenant (il ritorno del rimosso, il Perturbante): la sua apparizione è un ritorno, conduce alla stanza proibita dove incontrare il Subconscio. La sostituzione dei cappelli non è un semplice artificio buffo, ma rimanda a uno sdoppiamento. E il finale garantirà della fondatezza del sogno, almeno fino a un certo punto: l’imbarazzo del fantastico resta, e l’Io appare in scena – e questo è autenticamente espressionista – attraverso il teatro del mito.

L’equivoco condurrà peraltro alle critiche più stolide, livorose e incarognite al romanzo, quelle da parte dell’estrema destra nazionalista. Sui relativi giornali Meyrink viene accusato di propaganda a favore della “politica e cultura ebraica”: su “Deutsches Volkstum” e nell’opuscolo Gustav Meyrink und seine Freunde, Albert Zimmermann manifesta i suoi sospetti che Meyrink debba essere ebreo, tanto è interessato ai temi ebraici, e avvicina le satire antimilitariste dell’autore agli scritti critici del poeta ebreo tedesco Heine. Per Carl Gross, l’obiettivo principale del Golem sarebbe senz’altro “promuovere la politica e la cultura ebraica”. Invano interverranno a difesa di Gustav l’Associazione degli autori tedeschi e letterati come Heinrich Mann ed Hermann Hesse; e più tardi, alla salita al potere dei nazisti, i libri di Meyrink verranno pubblicamente bruciati come espressioni di “uno spirito non tedesco” (maggio 1933), con la distribuzione delle sue opere vietata. Ma al tempo lui è già morto (4 dicembre 1932), e mentre si avviava alla fine della vita sentiva l’approssimarsene come una grazia.

Mentre l’enfasi squilibrata sugli aspetti esoterici, a detrimento delle altre dimensioni presenti – compresa una che potrebbe definirsi pre-surrealistica – renderà il libro gradito agli estremodestri italiani, il sottomondo del Gruppo di Ur e i loro eredi anche odierni.

 

Su un piano poetologico, la concatenazione di “realtà”, “psicologia” e “magia”, […] non è tuttavia solo lo sfondo tematico del romanzo. “Realismo”, “psicologia” e “magia” sono anche le categorie estetiche su cui esso si fonda. Letto in questo senso, Il Golem non appare più solo come il manifesto letterario delle correnti mistico-esoteriche di quegli anni, ma si rivela essere un romanzo genuinamente modernista. Il Golem è infatti uno dei pochi testi della letteratura di lingua tedesca riconducibile ante litteram alla corrente estetica che nel 1925 il critico d’arte Franz Roh (riferendosi alla pittura) proprio in Germania definirà «realismo magico». [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, cit.]

 

Col che non si intende, come ovvio, che nel Golem la dimensione esoterica manchi, ma che sia stata sopravvalutata in modo deformante a danno di altre, meno rispondenti alla facile chiacchiera e meno facilmente prone a fantasie e ossessioni di alcuni critici predatori e dei relativi bacini di lettori (l’esoterico piace e intruppa sotto labari che conosciamo). Sul tema dovremo comunque tornare.

(3-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 2 https://www.carmillaonline.com/2024/10/26/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-2/ Sat, 26 Oct 2024 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84989 di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Innesti da raccapriccio e mamozzi di cera (racconti 1905-1908)

Abbiamo lasciato Meyrink a Vienna: nel frattempo si è risposato con Philomena Bernt, ma per evitare tre anni di galera in Austria per le sue posizioni antimilitariste si trasferisce con la moglie a Montreaux in Svizzera (1905-1906, dove nasce la figlia Sibylle Felizitas). In qualche modo all’Austria renderà la pariglia rifiutando di considerarsi uno scrittore austriaco: come chiarirà a Korfiz Holm della casa editrice Langen (lettera 2 aprile 1915), Gustav non accorda alcun valore al criterio della nazionalità. Altro schiaffo, in fondo, alle letture [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Innesti da raccapriccio e mamozzi di cera (racconti 1905-1908)

Abbiamo lasciato Meyrink a Vienna: nel frattempo si è risposato con Philomena Bernt, ma per evitare tre anni di galera in Austria per le sue posizioni antimilitariste si trasferisce con la moglie a Montreaux in Svizzera (1905-1906, dove nasce la figlia Sibylle Felizitas). In qualche modo all’Austria renderà la pariglia rifiutando di considerarsi uno scrittore austriaco: come chiarirà a Korfiz Holm della casa editrice Langen (lettera 2 aprile 1915), Gustav non accorda alcun valore al criterio della nazionalità. Altro schiaffo, in fondo, alle letture ultradestrorse dell’autore.

Continua a scrivere racconti, anche se ha in testa l’idea di un romanzo. La sua scrittura si consolida coi connotati che abbiamo imparato a riconoscere – una vena fortemente visionaria, immaginifica: spesso i suoi racconti si reggono su alcune immagini di forte impatto, che fanno pensare alle trovate del futuro espressionismo cinematografico tedesco. Del resto a Praga Gustav era stato amico di artisti (pittori, scultori), a Vienna di Adolf Loos, uno dei pionieri dell’architettura moderna, e di Fritz Wärndorfer, banchiere e mecenate di studi artistici – che l’aveva aiutato economicamente dopo l’uscita di prigione – e le concezioni artistiche di quegli ambienti, per esempio lo Jugendstyl, influiranno la sua scrittura. Importante sarà poi anche la lunga amicizia e la stima per Alfred Kubin, poi richiamato in uno dei suoi racconti. Come spiegherà Gustav stesso nel saggio Immagini nello spazio aereo (Bilder im Luftraum, “Berliner Tagblatt”, 1927) il suo pensiero è costituito principalmente da immagini, e questa caratteristica sarà poi evidentissima anche nei romanzi.

È questa la stagione di alcuni racconti molto noti, a partire dall’inquietante Bal macabre (Bal macabre, “Simplicissimus”, 12, 1905) che in tono grottesco alla Poe evoca un ritrovo in una sorta di locale notturno da fantasia di Otto Dix, il Club Amanita: qualcuno vi affabula di una comunità di soggetti considerati morti ma conservati in stato di catalessi dall’inquietante gobbo Arum Maculatum – il nome di una pianta velenosa – che con un certo procedimento permetterebbe alle loro anime di vagare e darsi ai vizi più corrotti, attaccandosi come zecche ai viventi per causarne la degradazione, e derubando “le masse delle loro sensazioni per arricchirsene esse stesse”. In un clima delirante, i presenti finiscono tutti intossicati: il narrante sembra l’unico a salvarsi, ma sospetta che gli altri siano finiti, solo apparentemente morti, sotto le cure di Arum Maculatum. Il fatto che personaggi e gruppi richiamino al mondo vegetale è di nuovo parallelo alla presenza di vegetali senzienti come quelli di Cinderella o in qualche modo la tossica Mercedes di Lacrime bolognesi.

Seguono un paio di deliziose favole con animali largamente antropomorfizzati (come peraltro spesso nelle favole). Chitrakarna (Tschitrakarna, das vornehme Kamel, “Simplicissimus”, 17, 1905) vede in scena alcuni predatori (Pantera, Leone, Volpe, Corvo) intenti a giocare a carte, domandandosi perplessi il senso di quella moda del bushido – intesa come eleganza cavalleresca – giunta dal Giappone. Arriva tra loro, prima preoccupato e poi sussiegoso, Enrico S. Chitrakarna, il Cammello comme il faut, che dopo aver letto Oscar Wilde importa tra gli animali proprio quella moda: diventa tanto fastidioso che, con la stagione delle piogge a esasperare i carnivori, troveranno un modo molto beneducato di mangiarselo. “Già, Bushido non è proprio roba da cammelli”.

La storia del leone Aligi (Die Geschichte vom Löwen Alois, “Simplicissimus”, 31, 1905) è una fiaba lieve e sottilmente beffarda: in Afghanistan, un leoncino – è il leone asiatico, meno noto dell’africano – rimasto senza madre viene adottato da un branco di pecore. L’incontro con un vecchio leone starebbe per convincerlo della verità, ma “il dottor Simulans, il signor Pastore” lo convince trattarsi di un inganno del Nemico e lo esorta a sposare la pecorella che gli piaceva, Scolastica Ceterum. Segue lieto fine…

Di nuovo agghiacciante, Le piante del dottor Cinderella – o Cenerentola (Die Pflanzen des Doktor Cinderella, “Simplicissimus”, 43, 1905) prende le mosse dall’ossessione per una statuetta egizia in bronzo dissepolta accidentalmente a Tebe, che un vecchio collezionista arabo spiega essere imitazione di un geroglifico a indicare “un ignoto stato d’estasi”. Il narrante è colto dall’intuizione di dover imitare la postura della statuetta: dopo aver provato a lungo finisce in stato catalettico e vive un’esperienza di uscita dal corpo, ma da allora soffre di sempre più frequenti accessi tormentosi di una forma simile alla follia. Ode suoni strani, vede luccicare colori, gli appaiono esseri enigmatici e la sua anima viaggia di continuo nell’oscurità. Come una notte, strappato dal letto da qualcosa che lo spinge nelle tranquille, sinistre stradine della Kleinseite. Lì avverte di essere occhieggiato da qualcuno – dal basso, come farebbe un cane – e poi si scopre a spingere la porta accostata di una misera casa asfittica, dove attraversa un corridoio e scende in cantina come fosse casa sua. Qualcuno è seduto su un gradino, ma con le mani piegate in modo stranissimo, quasi fosse un cadavere; lui riprende a camminare a tentoni e si trova a sfiorare un graticcio per piante rampicanti: tocca anzi “un oggetto tondo della grandezza di una noce, freddo al tatto e che subito si ritrasse”. Ma un balenio di luce plausibilmente dall’esterno gli permette l’orrenda visione del muro completamente “coperto da una rete di tralci di vene turgide di sangue da cui sporgevano, come acini, centinaia di occhi spalancati”. Non spoileriamo oltre sugli orrori della cantina – “Chi poteva essere il diabolico giardiniere che aveva concepito quell’orrenda creatura?” – ma alla fine eccolo portato al commissariato e interrogato per il suo comportamento sospetto. Biascica qualcosa circa “un assassinio in una cantina della Tuschengasse”, ma il commissario gli ribatte che è assurdo, “il dottor Cinderella è un grande studioso, un egittologo e coltiva molte piante nuove che si nutrono di carne”… finché un personaggio con l’aria da ibis d’un dio egizio non appella il protagonista stesso come dottor Cindarella. Tutto ciò tre settimane prima: da allora, a scissione ormai consumata della sua identità, si trova “il volto diviso in due parti differenti e trascin[a] la gamba sinistra”. Ma non ha più trovato quella casa, e al commissariato nessuno sa niente di quella notte.

È a questo punto che Meyrink si trasferisce a Monaco (1906) dove l’anno dopo pubblica la sua terza raccolta e inizia la stesura del Golem. Sta continuando a scrivere racconti, ancora spesso per il “Simplicissimus”. Non è che ne condivida in toto le vedute, in particolare politiche, che in fondo gli interessano fino a un certo punto: del resto, sui suoi obiettivi non ci sono equivoci.

Castroglobina (Schöpsoglobin, “Simplicissimus”, 7, maggio 1906) vede il batteriologo di fama mondiale professor Domiziano Dredrebaisel, che ha appena fatto una scoperta sbalorditiva, convocato dal ministro della Guerra. In realtà di invenzioni in giro ce ne sono varie, compresa quella del capitano di fanteria Gustavo Comodini in tema di parola d’onore, “un codice automatico d’onore per gli ufficiali, ad acqua compressa” che semplifica in chiave meccanica le speculazioni sul tema. Ma dell’invenzione di Dredrebaisel, spedito apposta in Borneo, non si sa nulla. Finché un telegramma non giunge ad annunciare che lo studioso e molti membri della sua spedizione sono stati fatti a pezzi dagli orangutan. Da una lettera a un collega di tale dottor Egon Ipse emerge che questi ha conosciuto l’ex-assistente del morto, che ha anzi cercato invano di piazzarne la scoperta. La sintesi di un vaccino, la Castroglobina, per far montare l’istinto di difendere la patria, e la somministrazione agli oranghi li ha spinti a cercarsi un capo – l’esemplare che in cattività s’era fatto notare per cretineria –, a marciare in cupa estasi, a costringere un renitente ad allinearsi e a ornarsi di carta dorata il sedere. Le offerte del vaccino agli stati europei conducono qualcuno a rifiutare per osservare l’azione degli altri o invece a declinare perché i propri cittadini sarebbero già attestati a quel livello di patriottismo. In attesa di vaccinare un rinoceronte, hanno comunque badato a non correre più rischi con le scimmie ornandosi a loro volta il sede con carta dorata e avendo “cura di sopprimere ogni dimostrazione d’intelligenza”, il che li ha resi molto considerati.

Clima ben diverso è quello di “Buddha è il mio rifugio” (Der Buddha ist meine Zuflucht, “Simplicissimus”, 16, 1906), ispirato alla lunga immersione dell’autore nei filoni del pensiero orientale: lì un vecchio musicista impoverito, abbandonato dalla moglie e privato del figlio da una malattia non curata proprio per la sua povertà viene a conoscere le parole di Buddha sul distacco dagli oggetti d’amore e da ogni tipo di desiderio, pena o gioia. Prima cupo, poi più sereno prende allora a mormorare tra sé “Buddha è il mio rifugio”. Raccoglie anzi i soldi per recarsi nelle terre dell’asceta Gautama, ma a una raccolta di fondi per bambini privi di sostentamento versa tutto quanto ha guadagnato. Visitato dalla visione del Buddha e poi dalla luce della Conoscenza, realizza – lui musicista – che tutto è stato originato dal suono, dal battito nascosto dell’universo a quello del proprio cuore, e finalmente trova la pace. Il racconto, come vedremo, si proietta idealmente nel futuro dell’autore, che proprio in Buddha troverà rifugio ancora nelle ultime sofferenze della vita.

Hilligenlei (Hilligenlei, “Simplicissimus”, 24, 1906) è un’altra parodia farsesca – “Da leggere con i guanti di cotone e con la voce stridula” – di un romanzo del corrucciato Gustav Frenssen (Hilligenlei, 1905).

Il cervello svaporato (Das verdunstete Gehirn, “Simplicissimus”, 33, 1906) parla delle disavventure dell’inventore Hiram Witt, capace di produrre da cellule animali, tramite campo magnetico e rotazione meccanica, dei cervelli umani perfettamente formati. Dopo aver tentato invano di far riconoscere alla scienza le sue scoperte, deve contentarsi di fornire i cervelli (o per meglio dire le cervella) a una trattoria. Dopo una notte di accanite sperimentazioni, riesce infine a produrre un piccolo cervello con un inizio di midollo spinale: il cervello si comporta rispetto a esso come la gravitazione rispetto alla forza centrifuga, e Witt intuisce che dietro tutto ci siano astratte quantità matematiche. Serviva poco, come pure lui ha fatto in una versione aggiornata delle teorie di Frankenstein, produrre un intero corpo da piccole cellule. Una serie di convulsi avvenimenti – prima l’arrivo di un vagabondo e del suo babbuino in uniforme da ufficiale, poi l’irruzione, con alcune guardie e un cannone, di un ufficiale che posa il proprio elmo sul cervello sopra la tavola – precede la bizzarra scoperta che mettendoci l’elmo sopra il cervello sparisce e si muta in una bocca spalancata. Forse effetto, chissà, della punta metallica dell’elmo chiodato…. L’inventore finirà con l’impazzire, intonando l’inno tedesco al manicomio.

Se, com’è stato detto, il grottesco di Meyrink è legato allo scetticismo e alla disperazione, l’ironia all’angoscia, non è però così vero che “la sua satira, politica non lo era affatto” (Gianfranco de Turris). Il modo corrosivo di Meyrink di vedere le istituzioni, la società e quei feticci che una certa politica conservatrice – e diciamo pure di destra – sorreggeva, pur non essendo satira politica nel modo più banalmente inteso, ha direzioni ben precise – inevitabile pensare alle tavole terribili dello spartachista George Grosz contro gli stessi obiettivi – e una forza critica che a Gustav causerà anche qualche problema.

Meyrink sarà per esempio contrario alla prima guerra mondiale, il che lo porterà ad essere denunciato dai nazionalisti tedeschi; il giornalista tedesco “Völkisch” Albert Zimmermann (1873-1933) lo definirà “uno degli oppositori più abili e pericolosi dell’ideale nazionalista tedesco. Influenzerà – e corromperà – migliaia e migliaia di persone, proprio come fece Heine”. E questo riguarda anche i racconti: nel 1916 Des deutschen Spießers Wunderhorn verrà bandito in Austria. Satira non politica?

Per venire a un registro diverso, davanti all’angosciosissimo L’urna di San Gingolph (Die Urne von St. Gingolph, “Simplicissimus”, 42, 1906) verrebbe da pensare che Meyrink conoscesse L’innocente di D’Annunzio (1892, edito in tedesco nel 1896). Ma certo qui la situazione – un sogno angoscioso del narrante, non sappiamo quanto fondato – richiama più il gotico o il romanzo d’appendice, con il terribile coniuge che confermato nella scoperta della colpa della moglie dalle sue stesse manifestazioni di disperazione ai piedi di una croce, chiude il figlio adulterino a morire in un’urna di pietra – e le ne coglie solo vagamente il pianto.

Il segreto del castello di Hathaway (Das Geheimnis des Schlosses Hathaway, “Simplicissimus”, 48, 1906) combina invece il tema del sonnambulismo – poi di grosso successo nell’espressionismo – con un montare di cupezze gotiche che volge infine in beffa sulle grandi famiglie squattrinate. In un dialogo davanti al sonnambulo Ezechiele von Marx, si discute lo strano caso della famiglia dei conti di Hathaway: il giorno in cui ciascuno di loro compie il ventunesimo anno, all’improvviso una melanconia invincibile gli piomba addosso. Lo scozzese che parla ha conosciuto l’attuale erede, Viviano, un giovane pieno di vita e la madre Lady Ethelwyn, afflitta che il marito passi tanto malinconicamente e da solo il suo tempo a caccia sui monti. Ed è lei che narra la storia della stanza segreta – nota solo al conte e al vecchio, sinistro custode – dove il giovane erede dovrebbe restare dodici ore al fatale compleanno per uscirne pallido, distrutto. La dama aveva fatto appendere capi di bucato a ogni finestra e quella che resta senza biancheria doveva corrispondere alla stanza irreperibile. Ma si parlava anche di un ospite invisibile del castello: e una notte di plenilunio la dama aveva visto il custode condurre “in giro segretamente una figura spettrale, scimmiesca, d’una bruttezza raccapricciante che emetteva delle specie di rantoli”. Quando poi si inizia ad avvertire la presenza dell’invisibile ospite si diffonderebbe un’esalazione che un servo aveva avvicinato all’odore di cipolla…

Ma alla fine anche Viviano ha dovuto soccombere alla malinconia. E mentre i presenti s’interrogano sulla natura del problema, il sonnambulo cade in trance e viene posto in comunicazione magnetica (per permettere d’interrogarlo su tali misteri, sulla base delle presunte abilità che a lungo sono state atribuite a sonnambuli e magnetizzati). Eccolo dunque citare un primo nome, che risulta un banchiere di Budapest; poi identifica la creatura scimmiesca come il dottor Max Lederer (in apparenza quello dell’altro racconto), che risulta essere l’avvocato socio del banchiere. E in ultimo spiega che nel luogo fatale gli eredi vengono iniziati ai conti di famiglia…

Nel 1907 Meyrink riceve la cittadinanza bavarese. Lo strappo la suo passato è ormai sempre più netto.

Ne L’automobile (Das Automobil, “Simplicissimus”, 11, 1907) Tarquinus Zimt, divenuto progettista di automobili, di passaggio a Greifswald va a trovare il suo vecchio professore di fisica e matematica, ottusamente ripiegato in conoscenze soltanto teoriche che gli fanno rifiutare le novità della tecnica. La surreale esplosione di tre cilindri dell’auto confermeranno il vecchio arcigno nelle sue posizioni.

Il racconto intitolato Il libro di Giobbe (Das Buch Hiopp : oder wie das Buch Hiob ausgefallen wäre, wenn es Pastor Frenssen und nicht Luther übersetzt hätte, “Simplicissimus”, 22, 1907) è tutto scritto in un tedesco dialettale, e reca il sottotitolo Come sarebbe riuscito il “Libro di Giobbe” se l’avesse tradotto il pastore Frenssen e non Lutero. Si tratta di una divertita parodia del libro biblico, con qualche frecciata al solito razzista Gustav Frenssen e ammiccamenti al mondo contemporaneo.

Anche più nel profondo di una suggestione espressionistica ci conduce il racconto Il baraccone delle figure di cera (Das Wachsfigurenkabinett, “Simplicissimus”, 35, 1907): non solo in grazia del film che diciassette anni più tardi il regista tedesco Paul Leni dirigerà, appunto Il gabinetto delle figure di cera (Das Wachsfigurenkabinett, stesso titolo con trama differente), 1924, ma per il nesso classicamente espressionistico, prima fiabesco e poi cupamente onirico tra un baraccone, figure-manichini più o meno perturbanti (la narrativa di Meyrink ne sarà piena), il topos del Tiranno e un materiale, la cera, che – come in fondo l’argilla del Golem di altri film del filone, o il gesso del terribile racconto L’albino – permette di plasmare simulacri d’uomo. Nel racconto troviamo di nuovo degli amici preoccupati – il chimico Christian Sebaldus Obereit, Sinclair (forse quello già apparso ne “Il preparato anatomico”) e Melchior Kreuzer chiamato da loro – nonché il terribile persiano Daraschekoh alla terza apparizione, stavolta proprietario di un Panokticum al Baraccone presentato da “Mr. Congo Brown”.

Il colpo d’occhio è inquietante fin dall’ingresso, di fronte al quale una figura femminile di cera muove la testa e ogni tanto si contorce per effetto di un meccanismo elettrico. Scopriamo un’orribile storia pregressa: alla deriva di una malattia mentale, tal Thomas Charnoque tormentava con scenate di gelosia la moglie Lucrezia; era nato loro un figlio, ma Charnoque l’aveva rapito ed era scomparso con lui. Avvistato in compagnia di Daraschekoh – e poi più volte anche del bambino – Charnoque era stato infine trovato impiccato, e i suoi accompagnatori s’erano defilati. era stato plagiato dal persiano? Costui comunque, a detta di Charnoque, sarebbe stato “l’unico essere vivente iniziato agli orribili misteri di una specie d’arte segreta preadamitica, in base alla quale (gli scopi sono incomprensibili) si può decomporre l’uomo in diverse parti viventi”.

Lo spettacolo inizia, e dopo il numero “Fatme, la Perla dell’Oriente” la gente vaga esaminando il materiale in cera, dal turco morente che attraverso un sistema di molle mostra un respiro pesante, agli Obeah Wanga, i teschi magici del Vudù – tre orrende teste umane che potrebbero non essere di cera (i due termini obeah e wanga hanno in realtà un significato assai più complesso nel panorama dei culti sincretisti afroamericani). Gli amici pensano di interrogare l’artista che si è appena esibita, ma ecco c’è un nuovo numero, i gemelli magnetici Vayu e Dhanándschaya di otto anni. Mentre Kreuzer comunica di aver scoperto che “il persiano vive a Parigi sotto altro nome” ed esorta a recarvisi, davanti al pubblico raccapricciato si esibisce cantando una sorta di cadavere d’affogato vestito da paggio, mentalmente ritardato, alto come un adulto a dispetto degli otto anni, con un fagotto in mano: è Vayu e nel fagotto compare Dhanándschaya,

 

una testa grande quanto un pugno con occhi penetranti: un viso attraversato da una rete bluastra di vene, un viso da neonato, eppure un’aria senile con un’espressione così malignamente malvagia e deformata dall’odio, così colma di una viziosità indescrivibile che gli spettatori istintivamente indietreggiarono.

 

Kreuzer sta per svenire e viene portato fuori: il neonato ha il viso di Charnoque buonanima. Kreuzer esorta i due amici a partire per Parigi e far arrestare il persiano.

Si ritroveranno a distanza di tempo, e Kreuzer dovrà dare lunghe spiegazioni. I due non sono riusciti a mettere le mani sul persiano, ma Lucrezia è morta e Congo Brown è scappato di prigione portandosi dietro i propri misteri. Il fatto è che i medici legali non potevano credere a quanto emerso, parlando di mere suggestioni e menzogne. Congo Brown aveva rivelato di aver ricevuto in regalo dal persiano tutto il baraccone delle attrazioni per i suoi precedenti servigi. I gemelli sarebbero “una doppia creatura prodotta artificialmente da un unico bambino”, appunto quello di Charnoque, “preparato” dal persiano otto anni prima con l’uso di “diverse correnti magnetiche che ogni essere umano possiede”, e che si potrebbero separare, scomporre e manipolare con surrogati animali, fino a trarre da un corpo due con coscienze diverse. Anche le teste Obeah Wanga erano state vive per molto tempo; mentre Congo Brown a tratti si immedesimava nel persiano fino a mutare i tratti del volto (lo spunto di una sinistra plasticità di connotati ritornerà ne La notte di Valpurga), irradiando una forza magnetica tale da mietere vittime tra i più piccoli, far perdere i sensi al giudice istruttore che lo interrogava e rivelare nel corpo di Brown un’elasticità senza pari. Anzi il tipo teorizzava che la vita dell’uomo sia composta di diverse correnti magnetiche interne ed esterne, il cui predominare spieghi le diverse caratteristiche psichiche… Comunque i raccapriccianti gemelli sono ora morti: il liquido in cui uno dei due era immerso per parte del giorno si era prosciugato.

Di nuovo a cavallo tra occulto e satira, L’anello di Saturno (Der Saturnring, “Simplicissimus”, 44, 1907) vede un gruppo di discepoli d’un professore, il Maestro, arrivare di soppiatto nel suo osservatorio astronomico. Uno tra loro, più sensibile, nota senza neppure porre l’occhio al telescopio che questo deve puntare verso Saturno, il cui influsso soffocante satura la stanza.

 

Chi – come io faccio da molto tempo – chi vigila la notte coi sensi in agguato, non impara soltanto a sentire il lieve, inafferrabile respiro degli astri, ed a distinguerli; non percepisce soltanto il loro fluttuare, il loro ondeggiare, e come si impadroniscono del nostro cervello con tacita presa annullando i nostri propositi e cacciandone altri al loro posto – e come queste forze maligne, piene d’odio, lottano in silenzio per avere il predominio nel dirigere il vascello della nostra sorte…; egli impara anche, vegliando, a sognare ed a vedere come in certe ore della notte i fantasmi inanimati dei morti corpi celesti si insinuino, avidi di vita, nel regno della realtà, e illudano misteriosamente l’intelligenza per mezzo di strane mimiche esitanti, che destano un vago, indicibile raccapriccio nell’animo nostro…

 

Con i discepoli, preoccupati, c’è il medico alienista Mohini: dovrà osservare di nascosto se il loro Maestro sia impazzito o invece in una condizione di spirito ignota. Gli indicano la grande boccia che due poli metallici alle pareti avvolgono in un campo elettrico (si rammenti la goccia tra due punte d’argento del racconto La goccia di verità), dove il Maestro avrebbe a lungo conservato un’anima umana, affinandone le forze e scoprendo poi che è fuggita… il dottore è perplesso, li sente “parlare dei misteri d’un regno verde, occulto, e di abitanti invisibili d’un mondo violetto”… ma a questo punto si accorgono grazie al telescopio che Saturno ha un nuovo anello.

Arriva però il Maestro, spengono la luce e si nascondono, lo sentono borbottare che l’anello cresce, “ha persino formato dei denti, è spaventoso”. Poi sposta la boccia vicino al telescopio, posa a terra tre oggetti e si inginocchia “prendendo con le braccia e col petti delle posizioni strane, simili a figure geometriche ed a triangoli”, mormorando frasi monotone con singole “vocali strascicate come ululi”. I discepoli comprendono che sta cercando di rimprigionare l’anima sfuggita, se non riuscisse si suiciderebbe. Ha smesso di litaniare.

 

Poi, improvvisamente, un molleggiare a tentoni traverso la stanza, come d’un corpo floscio, invisibile, che sfuggisse in fretta, a corti rapidi salti.

Sul suolo comparvero delle palme di mano violette, luminose; sdrucciolarono incerte, brancolando, di qua e di là, vollero stendersi dalla superficie verso i corpi, e ricaddero senza forza. Degli esseri sbiaditi, fantomatici – resti macabri, senza cervello, di uomini – s’erano staccati dalle pareti, ed erravano in giro, senza senso, senza meta, semicoscienti, con le mosse barcollanti, a strattoni, dei cretini storpi, gonfiando le gote fra risate misteriose da mentecatti – adagio e furtivamente, come se volessero mascherare qualche perfido, inesplicabile progetto – o guardavano con fissità maliziosa in distanza per lanciarsi avanti all’improvviso – fulminei come vipere – di qualche passo.

Senza rumore, cadevano dal soffitto dei corpi vescicosi, si svolgevano e strisciavano in giro: gli orribili ragni bianchi che popolano la sfera dei suicidi, e tessono, dalle croci mutilati, la rete del passato che cresce incessantemente d’ora in ora.

 

Ma mentre spira quest’orrore, l’alienista piomba a terra morto. e la situazione precipita: la sfera si frantuma, “le pareti proiettano ombre fosforescenti. / Sul bordo dell’abbaino e nel vano delle finestre, per un strano processo di putrefazione, la pietra dura si cambia in una massa tumida, come di esangui gengive degenerate, e questa putredine” si allarga velocemente a mura e tetto. Il Maestro balza in piedi, e si pianta in petto un coltello sacrificale. I discepoli accorrono, ma la ferita è mortale: in compenso tutte le stranezze che hanno visto sono scomparse. A quel punto il Maestro morente prende a confortarli: ancora un istante, e tutto sarebbe divenuto putredine, mentre le tracce di bruciato a terra sono state lasciate dagli abitanti dell’abisso che hanno tentato di afferrare la sua anima. L’intervento dei discepoli ha spezzato il fenomeno,

 

“Poiché tutto ciò che è ‘durevole’ sulla terra, come dicono gli stolti, prima è stato fantasma – fantasma visibile o invisibile – e non è altro che fantasma ‘immobilizzato’.

“Perciò qualunque cosa, il Bello o l’Odioso, il Sublime, il Bene o il Male, la Serenità con la morte nascosta in cuore, o la Tristezza con la serenità nascosta in cuore, tutto conserva sempre qualcosa del fantasma.

“Se anche pochi nel mondo sentono il lato fantomatico, pure esso c’è, continuo ed eterno.

 

Per acquistare una più alta sapienza ed esaminare un’anima, il Maestro ha cercato un essere umano da sacrificare – ma ne cercava, bontà sua, uno “proprio inutile sulla terra”. Dopo aver indagato tra avvocati, medici e militari, aveva quasi afferrato un professore di liceo ma alla fine si risolveva a lasciar perdere. Finché non ha messo a fuoco l’esistenza di un’intera categoria che soddisferebbe la sua ricerca, “Le beghine!”. Ne ha tenuta d’occhio tutta una serie:

 

le ho viste continuamente “rendersi utili”, tenere riunioni “per il progresso dei domestici”, fare delle orribili calze calde per i poveri bimbi negri che si godono la divina nudità, distribuire regole di buona condotta e guanti di cotone protestante; e molestarci, noi povera travagliata umanità: su via, raccogliete pezzi di stagnola, sugheri vecchi, ritagli di carta, chiodo storti e altre porcherie, perché “niente vada perduto”!

Ma quando le vidi disporsi a procreare nuove società di missionari, e ad assottigliare, con lo spurgo di delucidazioni “morali” i misteri dei Sacri Libri, allora la coppa della mia collera fu colma.

 

Sta per sacrificarne una, “una bestiola ‘tedesca’ d’un biondo stoppa”, ma desiste quando si accorge che è incinta. Così “una seconda, una decima, una millesima”, tutte incinte. Finché non ne becca una che ha appena partorito, “una lepretta sassone coi capelli lisci e spartiti e degli occhi azzurri da oca”: la tiene imprigionata nove mesi per scrupolo, e quella riesce a scrivere di nascosto un grosso volume Parole del cuore come dote per le fanciulle tedesche al loro entrare nel numero delle persone adulte… che lui brucia subito. Separata poi l’anima dal corpo e isolatala nella boccia, un giorno sente “un odore indistinto di latte di capra andato a male” e capisce che l’anima è fuggita: cerca allora di recuperarla coi più “potenti mezzi d’attrazione”, piazzando alla finestra “un paio di mutandine di fustagno rosa (marca di fabbrica ‘Lama’), un raschiaschiena d’avorio, persino un album da poesie in velluto azzurro con borchie dorate”, invano.

 

Ora, essa vive libera nell’universo, e insegna agli ingenui spiriti planetari l’arte infernale dei lavorini donneschi.

E oggi persino attorno a Saturno… essa ha fatto un nuovo anello all’uncinetto!!!

 

Realizza così che se sull’essenza di una beghina agisce uno stimolo, lei lavora all’uncinetto, se lo stimolo non c’è si moltiplica soltanto. Poi il Maestro si spegne. Come spiega un discepolo: “Egli è entrato nel regno della pace; sia l’anima sua eternamente beata!”. Dove attenzione, in questione in questa feroce satira impastata di fantastico allucinatorio non è tanto l’umanitarismo contro cui si scaglia Evola, ma un certo moralismo borghese, che svilisce la spiritualità ad asfittici discorsi moraleggianti e buonistici. Per Meyrink una certa mania religiosa è del resto un fenomeno parallelo al materialismo, sorta di Scilla e Cariddi.

Sapienza del bramino (Die Weisheit des Brahmanen, “Simplicissimus”, 48, 1907) è un’esilarante parodia, condotta con un ritmo cantilenante fintoindiano a base di continue ripetizioni, dei racconti sapienziali dell’oriente. Quale il significato del lugubre grido che echeggia e terrorizza tutti, e si suppone vada attribuito a una temuta effigie del demone Madhu? Gli eremiti attendono di rivolgere la domanda agli Swami, i santi pellegrini, attesi per celebrare la festa del Bala Gopala; ma quando questi arrivano – quattro Swami “senza gioia, senza pena, che hanno respinto da sé i pesi dell’emozione” – tre di loro si rivolgono al “quarto, vecchissimo, della casta dei Brahamini, del quale nessuno sapeva più il nome. Della casta dei Brahamini, del quale nessuno sapeva più il nome”. A più riprese gli pongono la domanda su chi stia urlando, finché lui spiega che non si tratta del demone, ma di un “penitente, cui manca la conoscenza. Cui manca la conoscenza”. Passa un anno, ma il grido continua senza interruzione e dunque si chiede al sapiente Brahmino di intervenire. Lui allora parte, viaggia fino a trovare il penitente urlante, la cui mano “stringeva spasmodicamente una pesante palla di ferro irta di punte, e quanto più le dita la stringevano, tanto più profonde penetravano nella carne le punte. Nella carne le punte”. Il Brahmino si ferma lì per cinque giorni, con l’altro che continua il suo ululato. E finalmente, chiedendogli scusa con un piccolo colpo discreto di tosse, il Brahmino gli domanda cosa lo spinga “a dare al suo dolore uno sfogo incessante?… ehm, a dargli uno sfogo incessante?”. Il penitente indica la palla di ferro, allora il sapiente si immerge in una riflessione lunghissima, attraverso i Veda, poi sempre più profonda – intanto viene l’autunno. E la salamandra spiega alla forbicina e a sua moglie che lo conosce, quel maestro tanto sapiente, nel centro della terra ha letto il suo “certificato di vaccinazione, tutto ingiallito” ed è vecchissimo… poi la salamandra si mangia i due piccoli interlocutori. Ma il sapiente si è riscosso ed esorta l’asceta “La… la… lasci andare la palla, Signore!”, quella rotola via e il dolore finisce. “Juch-hu, gridò il penitente, alla tirolese, e tutto contento, diritto e libero dal tormento si allontanò a salti. Si allontanò a salti”.

Ma Meyrink continua a scrivere su varie testate: e i suoi Orienti tornano per esempio richiamati su due numeri di “März”, un mensile letterario con cui collaborerà fino al 1908, in Fachiri (Fakire, “März”, 1907, dove polemizza con le letture banalizzanti dei maestri orientali in Germania) e Sentieri del fachiro (Fakirpfade, “März”, 1907, una serie di chiarimenti su iniziazione e yoga).

Nel segno dell’orrido, si dipana invece  L’albino (Der Albino, prima pubblicazione invece nella raccolta Das Wachsfigurenkabinett, 35, 1907): nella sede di un Ordine esoterico – una massoneria di frangia? – nell’attesa di celebrare festosamente alla mezzanotte i cent’anni dalla fondazione, il Gran Maestro Ariost vive i propri rovelli: l’Ordine è in declino, i confratelli commentano ironicamente la cosa ma Ariost soffre. A gravare sul tutto è anche un’oscura profezia sulla terribile punizione di chi aprirà l’ultima reliquia dell’Ordine, la Lettera sigillata di Praga, prima che l’ora sia compiuta: “Il suo volto sarà inghiottito dalle tenebre da cui non si libererà più […] cancellato dal mondo dei contorni […], simile al gheriglio nella noce”. A confortare il vecchio è il giovane Corvinus, fidanzato con sua figlia, che poi si allontana con gli altri giovani per farsi fare una maschera di gesso – per una burla, dice – da uno strambo scultore albino che lavora solo la notte, lo straniero Iranak-Essak.

Trovatosi solo con gli altri vecchi, Ariost confida allora un suo vecchio peccato: trent’anni prima Gran Maestro era il dottor Kassekanari, un nero di Trinidad, mentre lui era il suo primo Arcicensore. Ariost aveva tradito il superiore assieme alla di lui moglie Beatrice, e uno dei figli di Kassekanari, Pasqual, era in realtà figlio suo. Scoperta l’infedeltà della moglie, Kassekanari aveva lasciato Praga assieme ai due figli, meditando una tenebrosa vendetta e lasciando sprofondare nella follia la bellissima Beatrice. Kassekanari  aveva poi inviato ad Ariost una lettera in cui si diceva convinto che, dei due figli, fosse suo il più piccolo Pasqual, e che invece Manuel fosse figlio di Ariost – che inizialmente è sollevato. Salvo inorridire quando prendono ad arrivargli resoconti e foto di terribili “esperimenti fisiologici e di vivisezione” a carico del piccolo Manuel, non figlio del dottore come Ariost aveva tacitamente ammesso. Tormentato da orrore, sensi di colpa e sordido sollievo che così il dottore si accanisse contro il proprio figlio, Ariost non si suicida solo per la speranza di liberare un giorno la vittima. Gli esperimenti – proseguiti fino alla morte di Kassekanari  – comprendono “trasfusioni con il sangue di animali bianchi degenerati, di quelli che schivano la luce del giorno”, a sbiancare la pelle nera, ed estirpazioni di particelle di cervello fino a rendere il paziente un “essere spiritualmente morto”.

Alla fine le disperate ricerche di Ariost lo portano a rintracciare il figlio, che però si fa chiamare Emanuel Kassekanari – non era Pasqual? sostiene di non essersi mai chiamato così – cioè il giovane Corvinus. Col risultato che da allora perseguita Ariost il dubbio che la vittima degli esperimenti sia stato Pasqual e non Manuel… ed emerge il sospetto che gli esprimenti con gli animali bianchi possano aver condotto all’albinismo. Quello magari dello scultore Iranak-Essak…

Intanto Corvinus e i suoi compagni sono andati da Beatrice, si fanno passare per burla la famosa Lettera sigillata di Praga di cui poi fantasticherebbero gli effetti con gli anziani, e con la ragazza si recano dallo scultore , “che aveva fatto una preziosa invenzione, una maschera di gesso che all’aria diventava immediatamente dura e indistruttibile come granito”. Arrivano infine a una casa tra viuzze storte e palazzi in rovina ed entrano nella tenebra assoluta di una dimora labirintica. Beatrice ha paura, e non migliora la situazione la voce atona, sinistra di Pasqual Iranak-Essak. Comunque Corvinus scompare dietro una porta, e gli amici spiegano alla ragazza come si prepari un maschera, con cannucce per bocca e narici che fuoriescono dal gesso. Solo pochi minuti, li informa come da lontano l’albino con un tono tanto spiacevole e sinistro da lasciarli paralizzati: ma si rendono conto che ha citato il giovane con il suo nome massonico, Corvinus, che non potrebbe conoscere. E in quel momento echeggia una violenta scossa come per la caduta di un enorme peso, che fa precipitare calchi di gesso e maschere mortuarie appese alle pareti; quindi gran fracasso di porte abbattute, qualcuno che corre – e da uno squarcio nella stoffa alla parete spunta una figura con la testa coperta di gesso, “il corpo e le spalle trattenuti da sbarre e da assicelle incrociate”. Gli amici riescono a farlo entrare, è Corvinus, agonizzante per il soffocamento – l’albino (nel frattempo dileguatosi) ha tolto le cannucce e coperto di gesso la bocca: i giovani tentano invano di spezzare quella materia pietrificata. Corvinus muore soffocato e Beatrice si dispera. Nell’impossibilità di sfondare quella ricopertura, la vittima della vendetta che rimonta alla generazione prima finirà sepolta – come diceva la profezia – con “il volto invisibile e racchiuso, / simile al gheriglio nella noce”.

Dell’anno dopo è A cosa serve la merda di cane bianca? (Wozu dient eigentlich weißer Hundedreck?, “Simplicissimus”, 15, 1908), ancora uno scherzo surreale. Febbre (Das Fieber, “Simplicissimus”, 44, 1908), dai toni nuovamente concitati e surreali, è coronato da un incipit alchemico. Parte in modo vagamente fiabesco, “C’era una volta un uomo che odiava talmente il mondo che decise di non levarsi più dal letto”: ma finirà con l’alzarsi per inseguire nella città un sembiante di ala di corvo visibile in cielo. Dialogherà di temi esistenziali con un corvo nero e con uno bianco (qui la simbolica alchemica è ben avvertibile), prenderà coscienza della propria avidità, e poi, tornato a letto, si vedrà prescrivere da un medico un farmaco antifebbre. Il cinghiale Veronika (Das Wildschwein Veronika, “Simplicissimus”, 52, 1908), porta invece in scena il successo artistico di una scrofa, in spirito ancora una volta beffardo.

E ancora, L’assalto a Sarajevo (Die Erstürmung von Sarajewo, “März”, 1908) è un sarcastico racconto su una fantomatica guerra nei Balcani: ovviamente Meyrink non può sapere che pochi anni dopo proprio Sarajevo vedrà accendersi la Grande Guerra. Come al solito, oggetto di frecciate parodistiche sono i militari, come quello che conclude ineffabile:

 

Da parte mia, non vorrei per nulla al mondo perdere il ricordo del periodo trascorso durante la guerra. Quando penso a me stesso in questo modo e mi accarezzo i baffi marziali, mi sento sempre così speciale, non puoi davvero esprimerlo a parole. – Sei semplicemente qualcuno, e se un capo dei vigili del fuoco o qualcosa del genere ti incontra da lontano e vede la decorazione più alta, ti farà un forte saluto o ti dirà “Attenti!”. E se calpesti l’erba in un luogo pubblico o qualcosa del genere, nessuno osa dire nulla. No, e soprattutto i vermi!

 

(2-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 1 https://www.carmillaonline.com/2024/10/19/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-1/ Sat, 19 Oct 2024 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84933 di Franco Pezzini

Tra le spire dell’orchidea (racconti 1901-1904)  

Mentre scrivo, ho davanti una foto di Meyrink ormai anziano: il cranio lucido, gli occhi grandi, febbrili di visioni, i baffi curati nel viso ben sbarbato. Porta un cravattino a farfalla su una giacca di tessuto spesso. Un uomo della Mitteleuropa, un mistico dalla presenza carismatica, una persona perbene, dagli interessi certamente curiosi ma neppure troppo considerando l’epoca.

In Italia ha fatto il possibile per lottizzarlo l’estrema destra evoliana, con cui in realtà Gustav Meyrink ha ben poco a che vedere. Per lui l’esoterismo non è ricerca di poteri (interiori/psichici o [...]]]> di Franco Pezzini

Tra le spire dell’orchidea (racconti 1901-1904)  

Mentre scrivo, ho davanti una foto di Meyrink ormai anziano: il cranio lucido, gli occhi grandi, febbrili di visioni, i baffi curati nel viso ben sbarbato. Porta un cravattino a farfalla su una giacca di tessuto spesso. Un uomo della Mitteleuropa, un mistico dalla presenza carismatica, una persona perbene, dagli interessi certamente curiosi ma neppure troppo considerando l’epoca.

In Italia ha fatto il possibile per lottizzarlo l’estrema destra evoliana, con cui in realtà Gustav Meyrink ha ben poco a che vedere. Per lui l’esoterismo non è ricerca di poteri (interiori/psichici o esteriori/politici), che miri a influire sulla storia e sulla politica, come teorizzato loscamente dal nostrano Gruppo di Ur di Evola & soci, che a suo tempo propone Meyrink in traduzione italiana per la prima volta. Una di quelle scoperte che sarebbe stato meglio rimandare in attesa di promotori migliori: commovente il sussiego con cui in certe realtà si enfatizzi il tema della lotta (anche di Meyrink) contro i materialismi cattivi, da parte di persone e gruppi crociati dello spirito che però mirano a risultati di potere grettamente materiali e materialistici. Come peraltro i loro eredi ultradestri, tra lottizzazioni di spazi e giochi di poltrone, che con lo spirito c’azzeccano poco. Al contrario l’esoterismo, per Meyrink, è essenzialmente linguaggio congruo a una crescita interiore: niente insomma di facilmente arruolabile sotto i labari di una rivoluzione conservatrice che troppo spesso simpatizza proprio coi mondi poliziotteschi-militari da lui disprezzati con vigore.

Anzirazzista e anzi affascinato dalla cultura ebraica (cui pure non appartenne per lignaggio, come spesso si crederà in grazia del nome di sua madre, la bella attrice Maria Wilhelmina Adelaïde Meyer, destinata a divenire una delle interpreti tragiche favorite da Ludwig II di Baviera) in anni di antisemitismo acceso, nemico di ogni tentazione totalitaristica in un mondo germanico in cui incubava il totalitarismo di destra, antimilitarista in un momento in cui le sirene di nazionalismo aggressivo, militarismo e libido da uniforme connotano non solo l’estrema destra militante ma la borghesia industriale e finanziaria con cui essa flirta e la “pancia” popolare che vi garantisce assenso nella ricerca di capri espiatori delle proprie frustrazioni, Meyrink (1868-1932) va collocato nel suo tempo anzitutto per le forme (pre)espressioniste che offre alle narrazioni. Il grottesco, l’onirico, l’orrido sono chiavi di una sensibilità che troverà epifania collettiva nell’arte di Weimar, ma già in lui mostra i primi frutti.

Figlio illegittimo di un ministro del Württemberg, il barone Karl von Varnbüler und zu Hemmingen, e dunque cognominato Meyer come la giovane madre, Gustav nasce protestante nella cattolica Vienna – probabilmente perché la sorella maggiore, Dustmann-Meyer, nata nel 1841, era cantante presso il Vienna Court Opera fin dal 1857. Certo, la sorella si muove nel mondo scintillante dello spettacolo, ma la Vienna del tempo non si esaurisce in quella stereotipa dell’Opera e dei valzer di Capodanno, delle serate al Grinzing o delle fantasie alla Sissi – La giovane imperatrice: il paese, coinvolto in tensioni internazionali su vari fronti ma con un’identità sempre più divorata dal vicino tedesco, esperisce dimensioni di tristezza e inquietudine, soffocato com’è – come rilevano per esempio osservatori britannici – da una greve burocrazia, dall’ingombrante presenza dell’esercito e da un moralismo che trova ideale contrappunto nell’eros convulsivo di bordelli e parafilie. Quello in particolare repertoriato da Richard von Krafft-Ebing nel suo enorme affresco idealmente dalle stelle alle stalle dell’impero… Quanto tutto ciò influisca sulla produzione di colui che dopo Hoffmann e Paul Scheerbart resterà il terzo grande autore di romanzi fantastici di lingua tedesca possiamo solo immaginare, ma certo è un’eredità che arriverà in forma frenetica alle fantasie di Weimar.

Fino a tredici anni Gustav vive a Monaco, vi completa gli studi elementari, quindi passa per un paio d’anni ad Amburgo con la nonna materna e infine si trasferisce con la madre a Praga (1883), dove studia in una scuola commerciale, per poi iniziare a lavorare da impiegato in una ditta di esportazioni. È la città in cui vivrà vent’anni, fino al 1904 (ma non seguirà a San Pietroburgo la madre, peraltro indifferente a lui): la città a cui il suo nome rimarrà associato, di cui parlerà continuamente con pagine bellissime, e non è inopportuno ricordare che Kafka (del 1883, quindici anni in meno) nasce a Praga nello stesso anno in cui Gustav vi trasloca. Ma con Praga (e con la stessa Monaco) Meyrink intrattiene sentimenti di amore & odio ben più complessi di quanto suggerisca la facile cartolina da “Praga magica” che si troverà appioppato con la fama popolare sulla città rudolfina.

Nel 1889, assieme al nipote del poeta Christian Morgenstern tenta anche l’avventura nel campo finanziario diventando titolare del Primo ufficio del cambio cristiano Meyer und Morgenstern, una piccola banca aperta in Piazza San Venceslao nel 1889 con un capitale lasciatogli dal padre e svincolato alla maggiore età. Depresso, come vedremo, in questi anni tenta il suicidio. Nel 1892 si sposa una prima volta, con Hedwig Aloysia Certl, ma anche se il matrimonio sarà disastroso lei acconsentirà al divorzio solo nel 1905, quando poi lui si risposerà (in Inghilterra, per non creare scandali) con Philomena Bernt, figlia di un banchiere e cugina di Rilke. Dal 1895 prende a far parte dell’Associazione degli artisti visivi tedeschi in Boemia, assieme, tra gli altri, allo stesso Rilke, a Emil Orlik, Oskar Wiener e Hugo Steiner: su questa dimensione in lui della visione e dell’immagine dovremo tornare. E finalmente nel 1901, prende a scrivere e pubblica il suo primo racconto sulla rivista “Simplicissimus”.

Tra vita privata, frecciate narrative e attività finanziaria pesta qualche piede, guadagnandosi l’ostilità di burocrati di pochi scrupoli che gliela giurano; inizia a soffrire (1900) di diabete e tubercolosi al midollo spinale, e viene ricoverato in sanatorio per un periodo (1901). Nel 1902, attaccato su tutti i fronti – dal corpo al lavoro –, vittima di una campagna delatoria orchestrata a base di falsità, arriva a sfidare a duello l’intero corpo degli ufficiali di un reggimento praghese, ma deve chiudere la banca, i cui conti pure sarebbero a posto, e viene imputato ingiustamente per frode. Passerà due mesi e mezzo in prigione prima dell’assoluzione (dell’esperienza offre conto il suo romanzo più celebre, Il Golem, 1913-14), ma la carriera finanziaria è stroncata e tenterà invano di essere riabilitato. La salute sta cedendo, e si riprende con la pratica accanita dello yoga. Però – come dice il proverbio – quando si chiude una porta, si apre un portone, e proprio la scrittura ne sarà lo strumento. Nel 1903 esce la sua prima raccolta di racconti, Der heiße Soldat und andere Geschichten, con satire al vetriolo, tratte dai racconti pubblicati su rivista.

Fino al 1891, ammetterà lui stesso, è stato un uomo senza qualità con soltanto tre interessi nella vita, cioè donne, scacchi e canottaggio. L’esperienza negli affari non sembra offrirgli esistenzialmente nulla: e nonostante alcuni aspetti della sua vita giovanile facciano pensare a quella di un connazionale che nella Trieste asburgica cercherà soluzioni nella psicanalisi come poi Gustav nell’esoterismo, lo Zeno Cosini del quasi coetaneo Svevo (sei anni di più, nato nel dicembre 1861 e Gustav è del gennaio 1868), il tentato suicidio che per il cognato di Zeno termina goffamente in tragedia avrà esito diverso per Gustav. Afflitto da taedium vitae e da ripetuti fallimenti sentimentali, probabilmente oppresso dalla pessima avventura finanziaria, un giorno d’estate 1891, il Nostro banchiere ventiquattrenne è in piedi accanto al tavolo e sta per farsi saltare le cervella, quando all’improvviso un commesso di libreria gli fa scivolare sotto la porta un opuscoletto con il titolo L’Aldilà. Racconterà: “Presi il fascicolo e cominciai a sfogliarlo. Contenuto: spiritismo, occultismo, stregoneria” – tutti temi di cui ha sentito parlare. Jung non ha ancora elaborato la categoria della sincronicità, ma quella coincidenza fatale intriga il giovane che abbassa la pistola, la chiude nel cassetto e inizia a occuparsi di occulto. Cioè teosofia, Kabbalah, misticismi d’Oriente, la sofiologia di qualche successo nella Russia coeva… tutti temi che torneranno nei suoi romanzi.

Prende a sperimentare alcune droghe (in particolare l’hashish, le relative allucinazioni lo interesseranno molto) e a praticare appunto lo yoga; partecipa con Karl Weinfurter alla costituzione della Loggia Zum blau Stern (Allo stella blu) e aderisce a vari ordini esoterici. Ha qualche contatto con la teosofa e socialista Annie Besant (1847-1933), si interessa al lavoro di un esperto di tradizioni esoteriche, il viennese Fritz Eckstein (1861-1939), e intraprende gli studi mistici con l’occultista rosicruciano e medium Alois Mailänder (1843-1905), frequentando anche i giri spiritisti: per esempio, come Thomas Mann, partecipa agli incontri con il medium austriaco Willi Schneider, organizzati dal barone Albert von Schrenck-Notzing a Monaco – ecco di nuovo Zeno, con le sedute spiritiche tanto divertitamente descritte da Svevo… – ma come molti cultori di un esoterismo profondo resta deluso dalla superficialità e dalla poca affidabilità degli interlocutori attorno al tavolino, contribuendo anche a smascherare falsi medium. La sua è un’ansia genuina di sapere, che gli fa approfondire una serie di temi e tecniche, anche se i suoi esperimenti di occultismo e discipline mistiche proseguiranno – si è detto – a tentoni. Per mesi mangia solo legumi, assorbe due volte al giorno gomma arabica diluita nella minestra, dorme solo tre ore per notte e pratica pericolosi asana che gli fanno rischiare la morte per soffocamento. Tentato più volte di mollare, prosegue con cocciutaggine e ha anche esperienze di veggenza. Diventa così il Meyrink “ciarlatano mistico” di cui parlerà con divertita sufficienza Angelo Maria Ripellino, giudizio che però non gli rende giustizia: negli scritti di Meyrink, al di là del linguaggio esoterico, c’è molta più interiorità e profondità umana di quanto gli enfatizzatori del magico saranno pronti a riconoscergli. D’altronde, critico tagliente, Meyrink lo è pure sugli ambienti dell’esoterismo: non solo quelli di fanatici e truffatori, ma la teosofia – che considera religiosità di gente di scarsa cultura – e il pensiero di Rudolf Steiner (1861-1925), che pure mostra rispetto per lui, cui rivolgerà qualche frecciata.

È comunque l’occultismo che gli offrirà la fama come narratore, permettendo al dandy di mutare in asceta e scoprire una genuina, febbricitante dimensione visionaria della scrittura: e assume lo pseudonimo Meyrink. Ci si attenderebbe anzi che prendesse a scrivere subito di esoterismo: e invece il primo frutto di quella alchimia interiore sono racconti, talora angosciosi ma più spesso grotteschi, di critica sociale, precipitato delle sue delusioni e del suo disgusto. Diventa così una delle firme più apprezzate della rivista umoristica viennese “Der liebe Augustin” e soprattutto del “Simplicissimus” di Monaco, la più importante rivista satirica tedesca (con una lunga storia, fondata nel 1896, sospesa 1944-54 per poi trovare la fine nel 1967 – nel complesso relativamente moderata). E va detto che le sue relazioni con i circoli rosicruciani sembrano allentarsi fin dall’epoca dei primi testi editi sul “Simplicissimus”.

L’esperienza in carcere, ma forse più ancora l’esperienza umana del mondo triste da cui ha cercato di smarcarsi e le brutture ideologiche che ha visto suppurare offrono materia ai suoi racconti in tanti casi sferzanti. Obiettivi la Germania prussificata e un’Austria-Ungheria che ha perso la propria identità, e vivacchia all’ombra del potente vicino; una borghesia filistea e ottusa; il militarismo dilagante. L’atteggiamento nazionalistico della borghesia tedesca lo spinge dalla parte dei cechi, la cui critica letteraria non gli lesinerà tuttavia freddezze, accusandolo di falsificare la vita praghese – in effetti non gli interessa affatto descrivere storicamente le tensioni tra comunità tedesca e ceca. La sua è una Praga visionaria e fantastica.

Le sue prime storie sono racconti appunto apparsi sul Simplicissimus, e più tardi raccolti in quattro volumi: Der heiße Soldat und andere Geschichten (Monaco 1903, dieci racconti), Orchideen. Sonderbare Geschichten (Monaco 1904, diciannove racconti), Gustav Meyrinks Wachsfigurenkabinett. Sonderbare Geschichten (Monaco 1908, quindici racconti), Jörn Uhl und Hilligenlei (1908, dove parodizza opere dello scrittore razzista Gustav Frenssen, 1863-1945, poi accanito nazista). In seguito li riunirà, assieme ad altri lavori critici sulla borghesia tedesca, in Des deutschen Spiessers Wunderhorn (Monaco, 1913, tre voll., cinquantatré storie). Interessante notare come da racconti inizialmente semplici, basati su una pungente provocazione in cauda, Meyrink costruisca macchine narrative via via sempre più sofisticate.

Sappiamo che Gustav ama il mondo dei caffè, e Max Brod lo ricorderà come la figura centrale (assieme a Gustav Kauder) del gruppo al Caffè Continental, dove si gioca a scacchi e si discute di temi sociali e letterari. Il lavoro “praghese” di Meyrink si collega idealmente al gruppo neoromantico della Giovane Praga (Viktor Hadwiger, Paul Leppin, Richard Teschner, Oskar Wiener) con alcune tangenze stilistiche e ideali. Precede dunque quello dei due gruppi che Max Brod chiamerà il grande e il piccolo circolo di Praga (nati rispettivamente a partire dal 1883 o decisamente più giovani): nel primo figurano Kafka, Felix Weltsch, Oskar Baum, Ludwig Winder che pubblicano a partire dal 1904, nel secondo Franz Werfel, Willy Haas e iniziano a pubblicare quando Gustav ha ormai da tempo lasciato Praga. Da Paul Leppin sappiamo che Gustav, poco prima dello scandalo che lo travolge, esprime davanti agli amici l’intenzione di scrivere un libro. Lo guardano incuriositi.

Se i primi tentativi letterari noti dell’autore risalgono al 1897 (lo studio psicologico Tiefseefische, forse L’albergo delle tre colonne), il primo racconto edito è Il soldato bollente (Der heiße Soldat, “Simplicissimus”, 29, 1901), che sbeffeggia insieme medicina positivistica e mondo militare: in Indocina, in seguito al trattamento di un fachiro, un soldato boemo della Legione Straniera presenta – senza morire – una temperatura corporea così assurdamente alta da spingere i sacerdoti del tempio locale a cuocere il pollo su di lui, e i medici a prodursi in impagabili, spocchiose dichiarazioni.

Izzi Pizzi (Izzi Pizzi, “Simplicissimus”, 5, 1902) è il divertente racconto della tentata seduzione di una chansonette da parte di un perdigiorno. Decisamente più originale, grottesco e divertitamente paradossale, La morte viola (Der violette Tod, “Simplicissimus”, 8, 1902) vede dilagare nel mondo fino al remoto 1950 – anni in effetti di fantascienza scatenata – i paradossali effetti di una magia tibetana, scatenata per effetto dell’impresa di un ardimentoso inglese: al risuonare di una certa parola, non importa se pronunciata senza intenzione, la gente che ascolta si trasforma all’improvviso in forme geometriche solide di muco gelatinoso viola. Iniziamo a capire perché i contemporanei di Meyrink non lo vedano tanto come autore del fantastico, quanto del grottesco.

Tutt’altro è il clima di Terrore (Der Schrecken, “Simplicissimus”, 12, 1902 – lo stesso anno della detenzione per frode), che della claustrofobia del carcere esprime tutto l’orrore. Gran parte dei detenuti sono malati di scorbuto, uno reo di omicidio dovrà essere impiccato (la suggestione tornerà nel Golem) e in seguito al suo sconvolto accesso d’ira è stato legato con cinghie su una panca – “E gli hanno messo addosso un crocifisso!”. In quella situazione da incubo espressionista, il Terrore si presenta incarnato nella forma di una spettrale, gigantesca sanguisuga emersa da una cassapanca per succhiare sangue ai prigionieri, compreso il condannato. Che ha ormai messo distanza dal proprio crimine, non ucciderebbe più – o almeno non la vittima, forse invece il cappellano… salvo svegliarsi la notte e prendere a gridare. Mentre nel cielo, lettere uncinate di nubi in disfacimento sembrano esortare a non giudicare per non essere giudicati.

I toni sono molto vari. Alla satira “Si fa – si fa – principessa” (“Thut sich – macht sich – Prinzeß”, “Simplicissimus”, 18, 1902), con due borghesi in treno che mostrano la loro vuotezza e ipocrisia tra frasi senza senso, estasi culinarie e senso indebito di superiorità morale, segue per esempio lo straziante Tutta la vita è dolore ardente (Das ganze Sein ist flammend Leid, “Simplicissimus”, 24, 1902). Che parte di nuovo da un carcere dove Jürgen, un poveraccio detenuto per otto mesi prima d’essere assolto per mancanza di prove, avvia una triste vita come commerciante di uccellini – nel frattempo è diventato zoppo, gli è stato amputato un piede congelatosi dormendo su una panchina al parco. Ma uno studente ha dimenticato al suo negozio un libro recante una traduzione dall’indiano sul tema della vita come dolore ardente e la spinta alla purificazione: Jürgen pensa allora agli uccellini delle sue gabbie, ed è colto da un tale dolore da trovarsi le lacrime agli occhi. Quando una supponente dama arriva a consegnargli alcuni usignoli per farglieli accecare (“Sì, accecarli… estrargli gli occhi o bruciarli, non so come si faccia. Lei come commerciante di uccelli deve saperlo”), Jürgen non va a dormire e prende una decisione: porta le gabbie sulla Piazza del Mercato, libera i volatili, torna al negozio e si impicca.

Acido di Bock (Bocksäure, “Simplicissimus”, 32, 1902) narra di disinvolte e buffe gesta enologiche in un monastero di Malaga. Più interessante, Petrolio! Petrolio! (Petroleum, Petroleum, “Simplicissimus”, 35, 1902) si ambienta nel futurissimo 1951: Kunibald Jessegrim, uno scienziato deluso che più volte ha avuto la tentazione di farla finita, vuole punire le ottusità del mondo: per far ciò fa esplodere una dopo l’altra le pareti divisorie delle cavità sotterranee della Terra che (calcola) sono colme di petrolio. Arrivato all’ultima esplosione che farà tracimare tutto quelle immense quantità di petrolio nell’oceano, abbandona il Messico dove vive, per recarsi a New York. Agli americani la catastrofe ecologica (a suo modo di terribile bellezza) interessa molto per l’impatto sul prezzo del petrolio, mentre gli europei non sono turbati, presi come sono dal varare una serie di leggi demenziali, come l’“abolizione del nome proprio degli individui maschili […] che avrebbero dovuto stimolare l’amor patrio e rendere gli animi più atti a prestare il servizio militare”. Comunque Jessegrim calcola che in meno di trenta settimane, immaginando un identico flusso, tutti gli oceani della terra saranno coperti di petrolio e l’acqua non potrà più evaporare: e in quella situazione il vecchio ordine delle cose viene messo radicalmente in crisi. Si comincia a gridare “Basta con il militarismo che divora… divora… divora il nostro denaro! Costruite macchine, escogitate mezzi per salvare dal petrolio l’umanità disperata!” e si vagheggia di licenziare le truppe per riconvertire i soldati agli usi civili. Ma ciò che a questo punto preoccupa i governi di fronte alla catastrofe è cosa fare di tutti gli ufficiali…

Tra macabro e grottesco, Il cervello (Das Gehirn, “Simplicissimus”, 44, 1902) racconta la strana storia di un uomo che, in seguito a un trauma subito teme la vista di un cervello – al punto che muore per lo shock a trovarsene uno accidentalmente davanti. Il racconto è un’occasione per mettere nuovamente in luce la supponenza aggressiva dei medici e l’ottusità diffusa. Sempre in tema patologico, “Malato” (“Krank”, “Die Gesellschaft”, 1902) è il resoconto enfatizzato e concitato di un’attesa nella sala di ritrovo d’un sanatorio: in un’“atmosfera […] indicibilmente uggiosa e triste” che pare pronta per un’esplosione di rabbia, con “insulsi motti tedeschi a nere lettere lucide” a campeggiare intorno, di fronte a un ragazzino dall’aria stupida vestito dalla madre con pessimo gusto (impagabili le guarnizioni di pizzo bianco cucite sulle maniche di velluto) e che non riesce a sistemare dei pezzi di domino in una scatola, sempre troppi o troppo pochi rispetto alla medesima, il narrante si sente contagiato e depresso.

 

Presi a sognare tutte le tetre esperienze della mia vita: esse si guardavano l’una con l’altra con occhi neri da domino, quasi fossero alla ricerca di qualcosa d’indefinibile, ed io le volevo allineare in una bara verde… ma ogni volta erano o troppo numerose o troppo poche.

 

“Praga mente e russa come una venditrice ubriaca”: così La morte di Selchers Schmel (Der Tod des Selchers Schmel, “Die Zukunft”, 1903), storia di  Amadeus Veverka, promosso superieur inconnu nell’ordine occulto della Confraternita Ermetica di Luxor. Con le tecniche apprese beneficia di una serie di visioni, come questa:

 

Un corteo imprevedibile avanza ritmicamente a ritmo: la terra trema. Sono maiali – maiali! Maiali che camminano in posizione eretta! – Soprattutto i più nobili tra loro, i primi nel corso della trasmigrazione delle anime, che erano già i più coraggiosi sulla terra – e ora indossano berretti viola e nastri colorati, affinché tutti possano vedere in quale forma un giorno si reincarneranno.

 

Ma dal tipo di risveglio risulta che ha avuto un incubo…

Jörn Uhl (“Simplicissimus”, 2, 1903), come accennato, gioca con le storie di costume della Germania profonda dello scrittore Gustav Frenssen (1863-1945), poi ardente nazista, autore appunto del romanzo Jörn Uhl (1901).

La sfera nera (Die schwarze Kugel, “Simplicissimus”, 5, 1903) evoca il singolare caso per cui una tecnica dei Sikkim che permette di veder ricreati in un’ampolla i pensieri di un bramino – con paesaggi di indescrivibile bellezza –, ottiene risultati deludenti se a pensare è un occidentale, e addirittura apocalittici se è un militare tedesco. Compare una specie di buco nero destinato a inghiottire l’universo…

Ambientato a Praga, “Il preparato anatomico” (Das Präparat, “Simplicissimus”, 12, 1903) è invece un vero e proprio racconto dell’orrore pre-espressionista: due amici, Ottokar e Sinclair, intendono scoprire cosa sia stato di un terzo, Axel, il cui corpo sarebbe nelle mani di un losco anatomista persiano, il dottor Daraschekoh. Questo è stato allievo di tal Fabio Marini che potrebbe trovare ispirazione in Girolamo Segato (1792-1836), virtuoso dei corpi pietrificati: “con questi occhi a Firenze ho visto il cadavere di un bambino preparato da Marini”, e Segato ha lasciato proprio a Firenze una serie di reperti trattati. Il dubbio è che Axel, vendendo anticipatamente al persiano il proprio cadavere, fosse solo addormentato. Allontanato dunque dalla città Daraschekoh con un trucco, i due penetrano nella sua casa: troveranno qualcosa peggiore d’ogni loro fantasia nera. Per quanto l’orrore sia tanto e in alcune immagini paia prefigurare H.R. Giger, resta comunque uno scarto dalle disturbanti, insistite e morbose saghe di corpi di Hanns Heinz Ewers (1871-1943, cfr. qui e qui), ideale e più giovane contraltare di Meyrink.

L’acqua densa (Das dicke Wasser, “Simplicissimus”, 14, 1903) è una storia buffa nel mondo del canottaggio, da Meyrink frequentato appassionatamente; mentre Il dottor Lederer (Dr. Lederer, “Simplicissimus”, 24, 1903) è un apologo grottesco dai connotati fantastici. All’apparizione nel cielo di un disco luminoso con un’immagine – così pare – di camaleonte al centro, la signora Cinibulk incinta di otto mesi partorisce per lo spavento: ma il bambino è talmente orrendo che il marito, il consigliere civico Cinibulk cita in giudizio per adulterio con sua moglie un tal dottor Lederer – che in effetti sembra un camaleonte. Al processo l’avvocato di lui fa osservare che il bambino presenta sulle piante dei piedi delle macchie che possono essere ereditarie: chiede dunque di far controllare i piedi del padre e di Lederer. I piedi malformati di quest’ultimo sembrano zampe di camaleonte, e il difensore domanda in amicizia al medico legale se la malformazione potrebbe far desumere un’alienazione mentale. “Certo che potrei… posso far tutto, visto che una volta sono stato medico del reggimento; ma aspettiamo che rientri il consigliere civico”, che è andato a lavarsi i piedi prima di mostrarli. Insomma, questa del medico del reggimento è una nuova frecciata all’esercito.

E finalmente interviene l’ottico Cervenka: ammette che la colpa è dell’innovativo riflettore da lui inventato, con cui ha proiettato contro il cielo per esperimento una piccola immagine (non di un camaleonte, ma) proprio del singolare dottor Lederer fotografato ai bagni turchi. Ciò ha impressionato la signora che ha partorito un figlio con quei connotati. In compenso sotto le piante del consigliere civico ci sono macchie simili a quelle del figlio, ma si “doveva ancora cercare di vedere se per caso non andavano via lavandole”. L’imputato viene assolto per mancanza di prove. L’apologo presenta grottesche fantasie scientifiche, ed è inevitabile vedervi una sorta di anello di congiunzione tra il mondo delle lanterne magiche e quello del cinema espressionista. L’uomo bestiale di questa e altre fantasie è del tutto speculare alle bestie antropomorfizzate di vari racconti di Meyrink.

Si torna all’horror – quasi surrealista – con L’opale (Der Opal, “Simplicissimus”, 27, 1903), sulla pietra che la signorina Hunt porta al dito nell’ammirazione generale, ereditato dal padre e che avrebbe “in sé un che di mobile, d’irrequieto, come l’occhio di una persona”. A quel punto il signor Jennings legge una storia dagli appunti di viaggio in India del fratello. Meta, Mahawalipur, la favolosa città scavata nella roccia e segue una descrizione molto vivida del loro avvicinarsi e del luogo inquietante con statue riferite “a misteri di inaudita profondità di cui noi occidentali abbiamo appena un’idea”. L’atmosfera è impressionante, c’è anche la statua di Kala Bhairab, la dea del colera: escono nella notte, e a un tratto odono dal tempio un grido raccapricciante e ripetuto. Tornano all’interno, e trovano un fachiro con le collane degli adoratori di Durga in stato di estasi: ai suoi piedi sono i corpi decollati di due dei sepoys della loro spedizione. Il fachiro sfugge alla loro presa con forze inimmaginabili, e dietro l’altare trovano le teste mozze dei due sepoys. Qui al manoscritto manca un foglio, e Jennings completa a voce. L’espressione delle teste era indescrivibile, “sembrava la risata distorta di un pazzo” ma a impressionare erano soprattutto gli occhi: “quando li esaminammo, sembrò che fossero diventati dei veri opali”, e così verrà confermato dalle analisi chimiche.

 

“[…] In che modo i globi oculari potessero trasformarsi in opali, per me rimarrà sempre un mistero. Lo chiesi ad un bramino di grado elevato ed egli sostenne che ciò avviene tramite la cosiddetta Tantrika, una parola magica, e che il processo si compie con grande rapidità e, per precisione, partendo dal cervello: ma chi potrebbe crederci! Allora egli soggiunse che tutti gli opali indiani hanno la stessa origine e che portano sfortuna a chi li possiede, poiché sono offerte per la dea Dhurga, la distruttrice di ogni organismo vivente, e tali dovrebbero restare”.

 

Di nuovo, in sostanza, una mineralizzazione anatomica, cioè un nuovo balzo da un regno a un altro della Natura. Il racconto finisce con la signorina Hunt che chiede a Jennings di frantumare la pietra…

Blamol. Una storia di Natale (Blamol, “Simplicissimus”, 39, 1903), ambientato tra la vigilia e il giorno di Natale in fondo al mare, tra polpi, cavallucci marini e loschi granchi poliziotti, vede una pastiglia di Blamol, farmaco equivoco dal naufragio di una nave, finire ingoiata da una creatura marina: ma “Blamol è stato abbandonato da tempo, è un farmaco di ieri, oggi si usa generalmente il cloro idiotino (la medicina avanza inesorabilmente)”. E anche “La maledizione del rospo – La maledizione del rospo” (“Der Fluch der Kröte — Fluch der Kröte”, “Simplicissimus”, 47, 1903) è un apologo favolistico con animali, stavolta ambientato in India: un rospo riesce a danneggiare l’odiato millepiedi, che in seguito al suo messaggio fintamente cerimonioso, messo in confusione, non riesce più a ricordare in quale ordine muovere le zampe.

Ben più amaro, La regina dei Braghi (Die Königin unter den Breghen, “Simplicissimus”, 51, 1903) racconta del crollo del pragmatico e apparentemente inscalfibile dottor Jorre: forse in rapporto con la caduta di una vecchia rosa appassita accanto al suo letto – il filo consunto si è ormai spezzato – il sogno simbolista di una donna coronata che emerge gloriosa dalla palude gli annuncia che “Colei che una volta fu Regina del tuo cuore, ora è qui Regina dei Braghi!”. Ignora il significato della parola Braghi (Breghen, inventata dall’autore sulla base di bragós, fango/palude), ma la tristezza che gli evoca lo abbatte irreversibilmente. Il richiamo sghembo ed enigmatico a un antico amore rimosso in nome dell’efficienza borghese può abbattere l’uomo più solido… dove quella palude è già indicativa.

Il racconto dal curioso titolo Lacrime bolognesi (Bologneser Tränen, “Deutsche Arbeit”, 1903) – riferite a un tipo di gocce di vetro dalla punta filiforme – è una cupa, potente storia espressionista di dark lady e stregonerie. Il povero Tonio è impazzito, ma era stato un amico. Al tempo, tanto prima, la fatale creola Mercedes – ormai sparita, chissà che ne è stato – era l’amante di un giovane russo: il narrante e Tonio la conoscono a una festa al Club delle Orchidee, con mille fiori strani a velarla e come a “bisbigliarle all’orecchio nuovi ed inauditi peccati”. Queste orchidee espressioniste da fantasie Jugendstyl sono simili a serpenti, come una quasi senziente che poco dopo apparirà e sembra gioire della propria padrona: in Meyrink esiste tutta una botanica da incubo (vedremo presto il famoso Le piante del dottor Cinderella) ma è un tema simbolista diffuso quello della donna-pianta assassina, a invertire in chiave allarmante il mito di Dafne: si pensi solo alla mandragora dell’Alraune di Ewers (1911). D’altra parte Mercedes sarà l’allarmante antesignana di alcune donne fatali dei romanzi più maturi di Meyrink.

Poi un servitore di colore entra e offre delle “lacrime bolognesi”: Mercedes ne passa una al russo, che la trattiene tra le labbra e poi la ridà all’amante. Peccato che, il giorno dopo, il povero giovane finisca ammazzato dall’esplosione di una caldaia, che “lo ridusse in atomi”. Mercedes diventa allora amante – “un amore impetuoso, furioso” – del fratello di lui, Ivan: e a un tratto anche lui muore male, cadendo da una mongolfiera. Ma lei, apparsa in carrozza qualche settimana dopo, è imperturbabile come uno dei colossi di Memnone. Al ritorno del narrante da un viaggio, scopre che l’amante in carica di lei è ora Tonio, totalmente succube: ma un giorno lo trovano sconvolto, distrutto. Alcuni scritti trovati a casa di lei testimoniano che è una strega, e ha fatto morire i due giovani russi con le fatali “lacrime bolognesi”, tenute in bocca dalla futura vittima a stabilire un legame magico e spezzate in chiesa durante la messa… Gli amici tentano di suggerire a Tonio che forse Mercedes lo ama diversamente, ma quando riceve una lettera in cui lei gli chiede una “lacrima bolognese”, il giovane impazzisce.

Un cupo bozzetto espressionista è ancora quello di Sibili alle orecchie (Ohrensausen, Der heisse Soldat, cit., 1903), dove il pozzo chiuso da una botola di ferro, sottostante una certa casa di Praga in cui vive soltanto gente scontenta, è nottetempo ostello e ricetto per le larve della cupidigia attive di giorno nel mondo, e che là sotto, nel mezzo dello spazio, affilano gli artigli su un disco di pietra grigia rotante a folle velocità: “l’ha temprato il Male al fuoco dell’odio, millenni or sono, molto prima che Praga sorgesse”. Tappandosi le orecchie, “si potrà sentirla sibilare dentro di sé”.

Hony soit qui mal y pense (Hony soit qui mal y pense, “Simplicissimus”, 4, 1904) è un ilare bozzetto di costume ambientato alla festa del Capodanno 1929 con il conte Oskar Gulbransson e una serie di convitati orientali.

Nel divertente Ma… allora! (Das—allerdings, “Simplicissimus”, 33, 1904) alcuni spiritisti sottopongono al celebre filosofo svedese Arjuna Zizerlweis il caso di un medium che agirebbe su soggetti in modo tale da permettere una fotografia del loro futuro. Ma il filosofo smonta scetticamente sia il caso del soggetto sano che mostra segni apparsi due mesi dopo per il vaiolo (si tratterebbe, obietta, di pustole in germe riconosciute più acutamente dalla lastra), sia quello del giovane con una macchia nera in mezzo alla fronte come poi la avrà per il colpo di pistola con cui si suicida (ma è chiaro che ha tratto una suggestione dalla foto, probabilmente era una macchia banale). Zizerlweis si convincerà (“Hum, hum – ma allora, ma allora!”) solo con il caso di un commesso in un negozio di verdura la cui testa sparisce nella foto per lasciar posto a luci nella disposizione della Costellazione dell’Ariete – infatti entrerà militare in fanteria…

Di nuovo terribili orientali – quelli reinventati nel cinema espressionista con cerone e bistro sugli occhi – tornano in L’uomo sulla bottiglia (Der Mann auf der Flasche, “Simplicissimus”, 47, 1904): una festa mascherata è occasione per una lussureggiante parata di trovate oniriche, costumi fantastici, marionette sinistre. Come afferma un convitato vestito da Salamandra,

 

“Non credo che questo spettacolo voglia avere un senso vero e proprio. Solamente cose che non rappresentano nulla d’intellettuale sono in grado di trovare l’accesso segreto dell’anima […] E come vi sono individui che alla vista delle secrezioni acquose dei cadaveri dissanguati sono colti da un’ebbrezza erotica ed emettono fioche grida estatiche, egualmente esistono anche…”.

 

Quest’ultima frase sembra evocare fantasie alla Ewers. Ma sull’onda di un più classico gotico ottocentesco, lo spettacolo messo in scena dal principe Darasche-Koh – chiamato come l’anatomista crudele dell’altro racconto, potrebbe essere lo stesso personaggio o piuttosto una figura-funzione, che in effetti tornerà ancora – è in realtà finalizzato a punire atrocemente un tradimento della moglie con il conte de Faast. In modo diverso i due vengono soffocati (rileviamo il tema, dovremo tornarvi).

Stregoneria e satira si abbinano in Coagulo (Coagulum, “Die Zukunft”, 47, 1904), dove il vecchio Hamilkar Baldrian invoca il demone Astaroth, identifica un tesoro sepolto e traccia una mappa per ritrovarlo, ma muore; lo scrittore suo nipote avvia la ricerca, ma nella cassetta rinvenuta nella brughiera e portata trionfalmente fino all’ufficio municipale si trova solo una “molle massa elastica nero-giallastra, dalla superficie luccicante”. Le perizie non riescono a stabilire cosa sia, ma a quel punto la sostanza non ha valore economico; e il mistero resta, finché il nipote non riceva la rivelazione da uno spirito. “[…] si tratta della parola d’onore di un ufficiale, coagulata e fossilizzata” (ecco il senso del titolo Coagulo), di nuovo con una sferzata satirica non da poco.

Nel 1904 Gustav Meyrink si è trasferito a Vienna (iscrizione nel registro 1904 come suddito del regno di Baviera, certificato di residenza agosto 1905), dove è diventato caporedattore – maggio-novembre 1904 – della rivista umoristica “Der liebe Augustin”, che in realtà chiuderà molto presto, ma su cui pubblica alcuni racconti degni di nota.

Alchimia e critica sociale, conoscenza iniziatica e conoscenza di apparato si combinano per esempio in La goccia di verità (Der Wahrheitstropfen, “Der liebe Augustin”, 9, 1904), con la storia grottesca di una goccia d’un misterioso liquido che, collocata tra due punte d’argento a formare una sfera perfetta permetterebbe arcane visioni. Suggestiva l’intuizione del “sottile setaccio costituito da atomi roteanti e [del fatto che] se si fossero trovati i raggi giusti, niente avrebbe impedito di guardarvi attraverso”, precedente l’elaborazione compiuta del modello atomico di Rutheford. Ma alla fine il povero protagonista viene arrestato e “incarcerato sotto l’imputazione di matricidio plurimo” e lo strano fluido confiscato.

Il titolo Decadenza (Der Untergang, “Der liebe Augustin”, 12, 1904) evoca un tema all’epoca molto dibattuto: il termine usato nel titolo di questo racconto è Untergang e non Entartung, “Degenerazione” come nel celebre saggio di Max Nordau datato 1892-1893, ma ci si muove su provocazioni parzialmente simili. Il racconto è fortemente evocativo di un’epoca: ecco il povero, nervosissimo Chlodwig Dohna che vive ogni realtà dotata di limiti e confini – dal corpo umano agli oggetti – come soffocante, al punto da farsi saltare le cervella, quasi un caso da psicanalisi; ecco la località modaiola di cura come luogo d’incontro di personaggi peculiari – a Levico in Trentino, presso il lago di Caldonazzo, il protagonista conosce un bramino; ecco l’alta marea dell’irrazionale, una decadenza che Meyrink biasima e deride. Così ci vengono presentate le speculazioni del bramino su un futuro evento catastrofico in Asia per il 1914; la notizia che a Praga un reincarnato, Jan Doleschal, ne fosse informato tramite vie sottili; la surreale comunità di Doleschal e i discorsi estatici di lui. Il tutto in un’Europa che tra registrazioni di traumi e psicopatologie (eventualmente sessuali, come quelle repertoriate da Richard von Krafft-Ebing, morto nel 1902), stazioni termali e comunità d’illuminati (il Sanatorium del Monte Verità di Ascona, 1902) con transiti su e giù dall’Oriente, offre non poche suggestioni alle narrazioni meyrinkiane. A recare a Dohna un trauma fatale è una scioccante avventura nel tempio di vetro di quella setta, con il rischio di morire soffocato come il conte de Faast è morto soffocato nel vetro del racconto L’uomo sulla bottiglia. Qui – come in altre opere – Meyrink sviluppa la critica a un misticismo d’accatto: non vuole confondere la ricerca interiore seria con le ubbie estatiche al tempo tanto diffuse.

Nel frattempo ha pubblicato (a Monaco, come detto) la seconda raccolta Orchideen. Sonderbare Geschichten; la patologia al midollo spinale si aggrava e viene dichiarato incurabile, ma in un anno si riprende e attribuisce il successo alle pratiche yoga. Ma continua a scrivere.

In Chimera (Chimäre, Orchideen, 1904) la rivelazione a un viandante da parte di un vecchio circa un favoloso filone aurifero sotto la chiesa va a braccetto con la fallacia dell’idea – appunto la chimera –  che quell’oro possa trovare un utilizzo virtuoso in un mondo tanto avido. Sotto testo può esserci l’idea della tanto scarsa attenzione a lui e al suo lavoro nell’ottusa realtà del suo tempo.

Suggestione (Eine Suggestion, Orchideen, 1904) si presenta invece come stralci di diario, blocchetti di indicazioni datate, ma in ipotesi scritte in cifra. A scrivere sarebbe un pluriomicida (ha avvelenato due persone, uno zio e il signor Erben, con un tossico di cui si è sforzato di saper poco, la curarina, per evitare impatti sulla propria immaginazione), convinto che la coscienza esiste solo se ci si crede: ha fatto sparire le tracce, ma anche – vorrebbe – il senso di colpa… Alla data successiva, tre giorni dopo, ammette però di aver sognato i due morti dietro di sé e cerca di rimuoverli; alla data ancora successiva, sono otto notti che li sogna. Medita di andare a teatro, ma è in scena il Macbeth, non proprio la storia migliore in quel contesto… un paio di giorni più tardi mostra di valorizzare al contrario il consiglio di Paracelso: per sognare regolarmente, occorre scrivere un paio di volte i sogni. Dunque non lo farà più. Risolto quel problema, circa una settimana dopo viene spinto da un rumore a guardarsi indietro – da tempo ha la sensazione che qualcuno lo segua dal lato sinistro – e vede una delle sue vittime, certamente un precipitato dei sogni fatti e delle relative emozioni; ma un’altra settimana dopo le vede entrambe. E una decina di giorni dopo (1 novembre, la data pare significativa), avendo continuato a vedere il fantasma di Erben, prende ad arrovellarsi: le figure sono scissioni del suo Io – ma sarebbe orribile pensare di nutrirle con la propria vita – o esseri autonomi, autentici? E la stessa scrittura segreta a cui sta ricorrendo sembra dettargli i contenuti, per cui decide di ricopiare il manoscritto in chiaro…

Passano dieci giorni ed eccolo annotare: “Sono esseri reali. Mi hanno raccontato in sogno la loro agonia” e lo vogliono strangolare. Di più: ha controllato, i sintomi della curarina sono proprio quelli del sogno. “Dio mio, se mi avessi detto che si continua a vivere dopo la morte non avrei ucciso”. Due giorni dopo conclude di essere malato. Intende parlare col medico, e poi impedire che vada a raccontare qualcosa. Ma il giorno dopo il diario reca solo la data e puntini, a far sospettare una drastica interruzione dell’ossessione…

Di carattere completamente diverso, e la varietà è interessante anche se torniamo al Meyrink polemista nel segno del grottesco, G.M. (G. M., Orchideen, 1904) richiama le iniziali con cui l’avventuriero americano George Mackintosh, inventore di una macchina per fiutare rabdomanticamente (si dice) la presenza dell’oro, ritiene sufficiente farsi conoscere a Praga: arricchitosi in modo misterioso, acquista case nel centro città per farle abbattere in cerca d’oro. Ma gli antichi palazzi sono stati spianati, l’oro non si trova e appare sui giornali un messaggio dell’impagabile straniero: è costretto ad andarsene ma dona alla città un pallone aerostatico e il suo biglietto da visita. Si scopre che ha venduto segretamente tutte le aree edificabili, e compare nella vetrina di un fotografo la foto di Praga dall’alto, dove le aree degli edifici abbattuti formano megalomaniacalmente le iniziali del suo nome G M… Il racconto può richiamare quegli sventramenti immobiliari della città vecchia che avranno un rilevante peso ne Il Golem, ma a ben vedere la proiezione delle lettere sulla terra è speculare a quella pre-cinematografica dell’uomo-camaleonte di Il dottor Lederer.

(1-continua)

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Il gabinetto del dottor Lajthay https://www.carmillaonline.com/2018/03/12/il-gabinetto-del-dottor-lajthay/ Mon, 12 Mar 2018 22:18:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44221 di Franco Pezzini

Cristiana Astori, Tutto quel buio, Elliot, Roma 2018, pp. 254, € 17,50

Partiamo da una foto: in un bianco e nero sgranatissimo, ma a suo modo straordinaria, onirica. Al primo colpo d’occhio notiamo una sorta di stilizzato baccanale di figure femminili (tre, a guardar bene) circondate da sagome sfuggenti: occupano due terzi dello spazio verso destra in un contesto di festa pagana tra fiori e musica – il capelluto in primo piano, che ostenta sulla schiena l’immagine di un gatto nero, pare stia suonando. Le tre donne e [...]]]> di Franco Pezzini

Cristiana Astori, Tutto quel buio, Elliot, Roma 2018, pp. 254, € 17,50

Partiamo da una foto: in un bianco e nero sgranatissimo, ma a suo modo straordinaria, onirica. Al primo colpo d’occhio notiamo una sorta di stilizzato baccanale di figure femminili (tre, a guardar bene) circondate da sagome sfuggenti: occupano due terzi dello spazio verso destra in un contesto di festa pagana tra fiori e musica – il capelluto in primo piano, che ostenta sulla schiena l’immagine di un gatto nero, pare stia suonando. Le tre donne e il seguito puntano verso sinistra: dove nel primo terzo della foto, dietro un parallelepipedo che forse è un altare, spicca una ragazza dallo sguardo straniato. Sta fissando quella festa per lei e per l’uomo tenebroso in piedi alle sue spalle con aria soddisfatta. È una festa di nozze.

C’è qualcosa di piuttosto spettrale, nei film che vanno perduti. L’evento triste e magari scellerato della scomparsa di un libro può permettere la sopravvivenza di citazioni (a volte potenziate dall’autorevolezza di chi le tramanda), di interi stralci o di quei riassunti che in fondo costituiscono delle rinarrazioni – infinitamente impoverite, è chiaro – dell’originale, ma almeno nel suo medesimo linguaggio scritto. Mentre è ben raro che di un film perduto sopravvivano sequenze: quando va bene resta qualche foto come appunto l’immagine appena descritta, con uno slittamento però verso un diverso tipo di linguaggio – quello fotografico, degnissimo ma diverso – e la perdita di movimento, luci, eventuale audio. Se i giochi d’illusioni del cinema hanno qualcosa a che vedere con la dimensione del fantasmatico, il film perduto è il fantasma di un fantasma. Anche se talvolta può riemergere.

Di film perduti si occupa Susanna Marino, protagonista di una serie di romanzi di Cristiana Astori. Ora felicemente passati da un altro ambito un po’ fantasmatico – le pubblicazioni da edicola, a volte veri gioielli che però sfarfallano per un tempo breve nel transeunte delle riviste – agli scaffali delle librerie per i tipi Elliot. Un passaggio in realtà attesissimo dopo il successo delle precedenti, scintillanti avventure della cercatrice di pellicole scomparse: testi dove il registro popolare (definizione tecnica, in nessun modo sminuente) svela una ricchezza di vivacità ma anche di cultura nella ricostruzione puntuale di mondi perduti assieme a quei film.

Stavolta è l’ambiguo collezionista torinese Altavilla ad arruolare Susanna alla ricerca di un lost film ungherese del 1921. Un’opera diretta dal transilvano trentottenne Károly Lajthay, già produttore e sceneggiatore, ma soprattutto attore di buon successo (almeno diciassette partecipazioni tra il 1916 e il 1920, a volte come Charles Lederle) e poi regista d’un certo nome (diciotto titoli tra il 1918 e il 1944); ma un’opera sbocciata in un paese il cui cinema nascente è stato travolto dalla Grande guerra. La settima arte in Ungheria si era sviluppata con entusiasmo, in forme anche molto originali: per esempio certe ibridazioni col teatro che vedevano brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori in carne e ossa, a interagire coi propri personaggi. C’era anche una produzione critica di qualità; ma l’impatto della guerra era stato rovinoso, e a proteggere il cinema non erano bastate le misure decise nel breve periodo della repubblica comunista di Béla Kun (marzo-agosto 1919) con la nazionalizzazione del settore contro la forza delle produzioni straniere. Chiuso quel periodo (quando artisti di sinistra come Arisztid Olt, all’anagrafe Béla Ferenc Dezső Blaskó, il futuro Bela Lugosi, sono costretti a lasciare il paese), e nonostante i registi ungheresi come Lajthay finiscano col dominare con la loro effervescenza la stessa piazza di Vienna, i contraccolpi sono stati troppi. Il nostro film viene girato per gli esterni in Austria (Vienna, valle di Wachau e Melk) e gli interni al Corvin Film Studio di Budapest e si parla di una première a Vienna nel febbraio 1921, su cui però grava uno strano silenzio; una prima a Budapest sarà solo nel 1923. Intanto in Ungheria è dilagata la crisi del sistema cinema, dalle produzioni alle sale: e in questo buco nero forse complicato da problemi legali o di censura scompare la pellicola che nel 2015 appunto Susanna è incaricata di ricercare. Inviata in una Budapest che ripiega i suoi innumerevoli passati in una sorta di incubo espressionista, dovrà fare i conti con morti orrende di altri cercatori della stessa reliquia; e in parallelo assistiamo a scorci di quel passato, incontrando Lajthay e l’attrice scelta come protagonista…

Partiamo da un aspetto intrigante di tipo classificatorio. Dal punto di vista “tecnico”, la saga di Susanna (chiamiamola così) presenta storie rigorosamente richiamabili alla nebulosa del poliziesco: delitti, pericoli nell’ombra, voltafaccia e colpi di scena, turbamenti della psiche, parecchia azione nel modo classicissimo del feuilleton (fughe sui tetti, discese per sotterranei, inseguimenti…) e comunque colpevoli umani; le venature nere strizzano l’occhio ora al thriller ora all’horror, ma appunto con una chiave interpretativa di tipo razionale. Eppure esistono forti motivi per considerare questi romanzi come compiutamente fantastici, e non soltanto per l’assunto di Borges che lo è tutta la letteratura.

Il fatto è che, almeno in prima battuta, il “fantastico” non è tanto un contenuto quanto un modo di guardare e di narrare: e ciò spicca in questa saga attraverso due coordinate. Da un lato quella soggettiva di Susanna: che non è la protagonista de Il favoloso mondo di Amélie e la sua vita è tutta un pasticcio, tra attacchi di narcolessia, angosciosi ricordi dell’amatissimo Edoardo di cui ha accidentalmente causato la morte, e un irrisolto problema di definizione personale (familiare, rispetto ai genitori ingombranti; professionale e lavorativa; anche sentimentale). Ogni indagine è anche una quest, in qualche modo di se stessa. Dall’altro lato c’è la coordinata oggettiva della narrazione, perché sappiamo che una storia apparentemente priva di contenuti “altri” può svelare sottofondi, echi, paradigmi del fantastico: pensiamo a uno dei romanzi più famosi della storia del poliziesco e in apparenza epifania di razionalità, Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, in realtà tutto tessuto e sostenuto sottotesto da topoi mitici, visionari e fantastici. Sottotesto, appunto: e anche nella saga di Susanna, di genere essenzialmente poliziesco, il sottotesto è fantastico.

Dal primo punto di vista, soggettivo, dimentichiamo Lara Croft: Susanna non è un’eroina avventurosa per carattere, e all’avventura è in genere trascinata obtorto collo (spesso dal predatore di pellicole perdute Steve Salvatori, sorta di controcanto ironico e dalle mille risorse, complice/rivale e iniziatore – non a caso ha perso un occhio, quasi una mutilazione mitica – con cui lei mantiene una burrascosa dialettica di vaga attrazione e baruffe). Certo la Nostra, messa in gioco, sa mostrare iniziativa e tenacia; ma probabilmente proprio il suo statuto antieroico e autoironico è uno dei motivi del grande successo coi lettori. Accompagnato da una caratteristica che resta un po’ implicita, ma innerva le storie – appunto – sottotesto: un rapporto con il sonno (la narcolessia) e la morte (quella di Edoardo, che continua a portarsi addosso come un’ombra) che finisce con il proiettarla in una dimensione in senso lato sciamanica. È per esempio una costante che nelle sue avventure figuri a un certo punto un incontro con il mago Grey Angel (già il nome richiama a un certo tipo di immaginario da spettacolo pop) di un locale pubblico sui Murazzi di Torino, che però ormai non sembrano rappresentare più un’identità in carne e ossa e un luogo materiale: il lettore li percepisce come parte integrante dell’interiorità di Susanna, della sua vita mentale – una sorta di spazio per rielaborare le cose, una camera stagna con il passato – e dei suoi sogni, e il linguaggio è chiaramente quello visionario/fantastico. Ma qualcosa del genere accade più in generale per quelle sensazioni di Susanna che sconfinano nell’allucinatorio e nello spettrale: medium tra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi di fantasmi – appunto i film perduti – Susanna è confinata quasi di necessità in una condizione liminare.

Però c’è anche un piano oggettivo, della forma-narrazione. Se nel primo volume della saga, Tutto quel nero, 2011, l’autrice affrontava la favola nera di un perduto film della carismatica attrice spagnola Soledad Miranda, richiamando un intero panorama di cinema di exploitation degli anni Sessanta, e il fiato delle sue ombre; se nel seguito Tutto quel rosso, 2012, il mistero e i cardiopalmi riguardavano Dario Argento ed estensioni sconosciute del film-culto Profondo rosso; se nella terza puntata, Tutto quel blu, 2014 (come i precedenti per Il Giallo Mondadori), Susanna si confrontava con un film e un autore ai più del tutto ignoti, cioè quell’enigmatico L’autuomo di Marco Masi, 1984, in cui suggestione fantascientifica e motivo politico si fondevano attraverso il motivo-simbolo dell’androide; se insomma le pellicole perdute e ritrovate rimandano a temi paradigmaticamente aperti al visionario e al fantastico (su Profondo rosso, formalmente thriller, vale quanto detto per il sottotesto), è in realtà tutto l’intreccio – impianto di trama, dinamiche tra personaggi, sapori d’ambiente – a intonarsi al tipo di cinema evocato, in termini che sfuggono ogni gabbia di corrucciato verismo. Perché i generi sono uno spazio di libertà, non gabbie asfittiche, e le relative demarcazioni – preziose per ragionare su alcune costanti o, più pragmaticamente, per capire su quale scaffale collocare un libro – rappresentano la classica scala da utilizzare e poi esser pronti a gettare via.

L’arrivo di Tutto quel buio non può che confermare una formula di successo: tanto più che il film cercato si muove a sua volta su una pista emblematicamente fantastica. Si tratta infatti del Drakula halála (La morte di Dracula), 1921, il primo film vagamente “ispirato” al Dracula stokeriano di cui esistano notizie articolate: il Nosferatu di Murnau uscirà l’anno dopo, 1922, mentre di precedenti Dracula ricordati dai repertori cinematografici – uno russo e forse uno rumeno, entrambi 1920 – sappiamo troppo poco e possiamo solo fantasticare (sarebbe affascinante capire qualcosa di più sul contesto in cui fermentarono, per esempio sulle eventuali metafore politiche di quello russo; tralasciamo invece, perché comportano altri discorsi, i Conti Dracula spuri apparsi in contesti diversi nella cinematografia anni 1910-18). È insomma Drakula halála il primo film su cui gli studiosi di Stoker possono concretamente ragionare dell’estensione di un mito, e che affascina per una quantità di motivi. Anzitutto le implicazioni di immaginario geografico: il Dracula stokeriano non è un voivoda valacco ma un conte – appunto – ungherese, e il rapporto provocatorio del tema con l’Ungheria tramite una protoproduzione filmica risulta particolarmente intrigante anche a prescindere dai successi più tardi di Lugosi (il fatto stesso che anche le altre prime trasposizioni filmiche del romanzo – la russa e la rumena citate, la tedesca di Murnau – non muovano nel mondo anglosassone di Stoker ma nell’Europa centro-orientale pare interessante). In secondo luogo per i soggetti coinvolti, e le loro dinamiche: per esempio con il regista Lajthay collabora alla sceneggiatura quel Mihály Kertész poi meglio noto come Michael Curtiz, dopo il trasferimento in America che lo condurrà a successi come Casablanca; per contro una certa nebbia avvolge le vite degli altri nomi di cast & crew – in particolare la misteriosissima Margit Lux interprete della protagonista Mary Land, ma anche gli altri, noti ai repertori ma in termini più o meno elusivi. Ancora, il taglio prescelto: della pellicola perduta sopravvive infatti una novelization di Lajos Pánczél, 1924, che mostra come la sceneggiatura marcasse una netta distanza dalla trama stokeriana, nel segno di una rilettura del romanzo allucinatoria e psichiatrica (inevitabile pensare a Krafft-Ebing, a Freud…) molto austroungarica. Aggiungiamo che di tutto l’insieme sopravvivono poche locandine e alcune incredibili foto. Come quella di Paul Askonas nel ruolo di Dracula, una vera e propria maschera straniante di deriva psichica; o l’altra descritta all’inizio, in cui Mary sta sognando – ma sogna davvero? – la sua festa di nozze con Dracula nel tripudio delle altre spose e delle creature della notte…

Non spoileriamo qui sulla trama di Tutto quel buio, sulle ricostruzioni necessariamente libere ma ragionevoli e drammaticamente efficaci offerte dall’autrice ai profili sfuggenti di Margit Lux e di Lajthay – e sull’avventura di Susanna che la condurrà, cercando quei sessantacinque minuti di pellicola, sui bordi del pozzo nero del Male del Novecento. Torniamo piuttosto a quanto detto: se il conte Dracula di Stoker – che conosciamo solo attraverso i diari dei suoi nemici, quasi tutti profili psicologici un tantino disturbati – potrebbe persino non esistere e leggersi come mera fantasia di un gruppo di menti sovraeccitate e sessuofobe, un simile rapporto ambiguo tra spiegazioni “razionali” e fantastico investe sia la trama del Drakula halála sia la ricchezza di spunti di un romanzo – certo – poliziesco, che però non si esaurisce in quella formula. E richiama i lettori alla necessità di un approccio più duttile ai generi e a una maggiore problematicità del discorso oggi corrente sul fantastico.

Se il primo modello del Dracula stokeriano era molto più “poliziesco” del risultato finale, è attraverso gli echi di un linguaggio fantastico che lo spazio del vampiro – chiamiamolo così – può svelare una realtà terribilmente seria, che fermenta in modo tragico dal piano dell’interiorità e dei rapporti interpersonali a quelli della grande Storia. È sempre attraverso quel linguaggio che possiamo riconoscere un senso più pregnante e profondo al rapporto di Susanna coi morti, a certi casi fortuiti della trama (se i morti stessi chiamano la sciamana, non c’è più nulla di “casuale”), alla catabasi finale in tutto quel buio in cui Susanna può riordinare gli ultimi tasselli. È la sua solitudine a renderla tanto recettiva e permetterle anche in questa quest di scoprire qualcosa di sé – e qualcosa abbandonare, in modo consapevole. Piccola grande parabola della capacità del cinema di lavorare sulla luce e sul buio per far emergere ciò che altrimenti resta tra le pieghe, Tutto quel buio è – al di là di ogni lettura di superficie, che pure è lecita e persino divertente – un romanzo profondo, poetico e a tratti davvero emozionante, struggente. Con un epilogo cinefilo delizioso.

Quanto detto basterebbe da solo a far riconoscere ottimi motivi di fascinazione nel romanzo di Astori. A rafforzarli è però un altro elemento: il fatto cioè che in parallelo all’indagine di Susanna anche l’autrice finisca col condurne una propria sul film perduto, con risultati – a dispetto del suo understatement o forse anche grazie a quello – piuttosto clamorosi. In seguito alle sue indagini per Tutto quel nero veniva infatti ritrovato il film “impossibile” con Soledad Miranda (in macchina assieme al marito, sulla stessa strada presso Lisbona dove i due avranno anni dopo l’incidente a lei fatale), già considerato pura leggenda da gran parte della critica; in seguito alle ricerche per Tutto quel blu riemergeva il perduto L’autuomo. Per Tutto quel buio l’autrice si è avvalsa della consulenza di una delle massime autorità sul Drakula halála, Gary D. Rhodes dell’Università di Belfast, che le “ha recentemente rivelato di aver trovato altro materiale, proprio in quel di Budapest: la scoperta ci fa sperare che prima o poi venga alla luce anche questa pellicola, o almeno una parte significativa di essa”. Confidiamo in Susanna.

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L’ombra ed i suoi significati simbolici https://www.carmillaonline.com/2015/11/30/lombra-ed-i-suoi-significati-simbolici/ Mon, 30 Nov 2015 22:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24211 di Gioacchino Toni

nosferatu murnau 00Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, 256 pagine, € 16,00

Dal mito pliniano delle origini della pittura all’Incarnazione del Verbo nelle Annunciazioni, dalla demonizzazione secentesca all’iperbolizzazione espressionista, dall’ombranalisi alla vertigine della proliferazione dei simulacri, Victor Stoichita passa in rassegna la storia dell’ombra e dei significati che, strada facendo, ha assunto nella cultura occidentale. Il saggio, ristampato nel corso del 2015, (prima ed. inglese 1997, prima ed. italiana 2000), inizia, inevitabilmente, da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, racconta di come la nascita [...]]]> di Gioacchino Toni

nosferatu murnau 00Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, 256 pagine, € 16,00

Dal mito pliniano delle origini della pittura all’Incarnazione del Verbo nelle Annunciazioni, dalla demonizzazione secentesca all’iperbolizzazione espressionista, dall’ombranalisi alla vertigine della proliferazione dei simulacri, Victor Stoichita passa in rassegna la storia dell’ombra e dei significati che, strada facendo, ha assunto nella cultura occidentale. Il saggio, ristampato nel corso del 2015, (prima ed. inglese 1997, prima ed. italiana 2000), inizia, inevitabilmente, da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, racconta di come la nascita della pittura sia dovuta ad un procedimento “in negativo”: l’atto di circoscrivere l’ombra di un essere umano. Secondo tale approccio la pittura compare sotto il segno di un’assenza (corpo) / presenza (sua proiezione). L’immagine pittorica è, dunque, frutto di un consolidamento della proiezione del corpo; si tratta di una rappresentazione di una rappresentazione, di una copia di una copia (immagine d’ombra). Soltanto quando la pittura finisce con il superare la proiezione piatta ricorrendo al modellato, l’ombra abbandona la funzione primitiva di matrice di immagini e diviene mezzo d’espressione. Il mito pliniano (origine dell’arte) ed il mito platonico della caverna (origine della conoscenza) hanno in comune il fatto di concentrarsi sulla proiezione, su una macchia in negativo, un’ombra: arte e conoscenza consisterebbero nel suo superamento.

L’autore sottolinea come Platone non parli mai direttamente del mito dell’ombra come origine della rappresentazione artistica; per lui è il riflesso nello specchio a spiegare lo statuto mimetico della pittura. Se in Plinio l’immagine è l’ “altro dello stesso”, in Platone l’immagine è il sé allo stadio di copia, lo stesso nello stato di doppio. Se in Plinio l’immagine capta il modello duplicandolo (funzione magica dell’ombra), in Platone l’immagine manifesta la propria rassomiglianza (funzione mimetica dello specchio) rappresentandolo. Sia il simulacro che la copia si rifanno alla magia; magia per sostituzione nel primo caso, magia di somiglianza nel secondo. È il pensiero di Platone a principiare l’idea occidentale che vede lo strumento della mimesis nello specchio e non nella proiezione di corpi frapposti.

stoichita storia ombraAnalizzati i miti fondativi dell’antichità, l’autore passa in rassegna l’età medievale, sottolineando che per diversi secoli, sin quasi a Giotto, l’immagine viene intesa come un’entità priva di corporeità e soltanto con l’introduzione della prospettiva, l’ombra portata inizia ad essere studiata dai pittori. Nella pittura del Trecento l’ombra integrata viene concepita come elemento fondamentale dell’esecuzione a “rilievo” delle figure ma, nel Rinascimento, si assiste ad un cambio di paradigma, tanto che le immagini iniziano ad essere concepite come riflesso nello specchio, prolungamenti della realtà. Con il Rinascimento si ha la prima teoria dell’arte fondata sul paradigma speculare, tanto che Leonardo arriva a cogliere un’analogia tra la tela e lo specchio: in entrambi i casi si tratta di superfici bidimensionali in grado di visualizzare la realtà tridimensionale. A partire dal XV secolo si sviluppa una vera e propria scienza dell’ombra e la rappresentazione delle ombre portate diviene segno di fedeltà mimetica. È con artisti come Masaccio, Leonardo e Dürer, argomenta l’autore, che l’ombra portata diviene un elemento strutturale della pittura prospettica e prova di mimesi.
Particolarmente interessante risulta essere l’uso dell’ombra nei dipinti delle Annunciazioni – nel saggio ne sono analizzate diverse – che deve essere interpretata a partire dal testo evangelico di Luca: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”. Il farsi ombra del Verbo determina una proliferazione di interpretazioni legate all’Incarnazione non di rado ispirate alle riflessioni duecentesche di Jacopo da Varazze, l’autore della celebre Leggenda aurea.

Sappiamo come a partire dal Rinascimento prenda piede l’idea di segnalare la presenza dell’artista nell’opera, a tal proposito Stoichita evidenzia come in alcuni casi, ricorrendo all’espediente dell’immagine che mostra l’atto del dipingere, venga mostrata l’ombra della mano dell’artista che si proietta sulla tela. L’autore sottolinea, inoltre, la portata delle riflessioni di Boileau volte ad indicare, nel corso del XVII secolo, come sia la presenza dell’ombra nel quadro a conferirgli lustro: “Boileau rovescia il rapporto metaforico codificato dalla tradizione tra tenebre e luce, proiettando sull’ombra quanto più radicalmente si oppone (‘lo splendore’)”.
Altro importante rovesciamento di paradigma citato nel saggio riguarda la poetica della fase finale di Monet, ottimamente esplicitata da una fotografia da lui stesso realizzata nel 1905 ove, oltre alle, immancabili, ninfee all’interno dello stagno, compare l’ombra dell’artista. Il francese sembra rovesciare il mito delle origini: sulla superficie riflettente non vi è la sua immagine ma la sua ombra. Attraverso la foto, in linea con la sua poetica pittorica terminale, l’artista compie un gesto radicale: “In rapporto alla tradizione occidentale dell’automimesi, l’ombra di Monet proclama il primato (moderno) dello ‘sguardo’ sulla ‘mano’. Propone la sostituzione del paradigma narcisistico della mimesi occidentale con l’elogio orientale dall’evanescenza dell’ombra”.
Ad essere analizzati dal saggio sono anche diversi autori che, nel corso dei primi decenni del Novecento, in reazione al trionfante mimetismo fotografico, ricorrono all’inserimento del proprio profilo in ombra nelle tele. L’autore si sofferma su alcune opere di Picasso in cui l’artista inserisce spesso la propria ombra di profilo sulle tele, dando luogo, in tal modo, ad un “tentativo di ridefinizione dell’intera tradizione riguardante l’ombra della mano che, nell’ambito dell’estetica classica, designava il segno dell’autore sull’opera, mentre qui viene a concretizzare la definitiva scomparsa dei limiti tra produttore e prodotto. (…) Picasso segna così la fine dell’antica tradizione che vedeva nell’ombra il completamento essenziale dell’incarnato. Per lui più che un mezzo per ‘fare’ il volume l’ombra diventa lo strumento per (dis)farlo”.

Il Seicento risulta essere un secolo particolarmente fecondo per il ragionamento sull’ombra, a tal proposito l’autore si sofferma sulle riflessioni prodotte in particolare da Joachim von Sandrart, Samuel von Hoogstraten ed Athanasius Kircher. L’autore del celebre scritto Accademia germanica di pittura (1675), Joachim von Sandrart, viene citato per aver ripreso il mito classico delle origini della pittura sia di Plinio che di Quintiliano nella convinzione che la “pittura/ombra” sia stata ingenerata sia dalla luce del sole (Quintiliano) sia dalla luce del fuoco (Plinio). Un paio di incisioni attestano tale doppia origine: in una viene mostrato un pastore che traccia con un bastoncino il contorno della propria ombra sul terreno, mentre, nell’altra, la figlia di Butodes circoscrive, attraverso una linea nera, il profilo dell’amante sulla parete servendosi della luce di una lanterna. Hoogstraten Shadow danceIl pittore secentesco Samuel von Hoogstraten pur nella convinzione che “la perfetta pittura è come uno specchio della natura”, non manca di interessarsi alla rappresentazione dell’ombra, come avviene nell’incisione La danza dell’ombra (1675) ove mostra come si deformino le ombre proiettate su parete di diversi personaggi in base alle differenti posizioni assunte rispetto alla fonte di luce: di pari passo all’aumentare dell’ingrandimento dell’ombra si determina un incremento della sua “demonizzazione”. Gli esseri umani proiettati si ingigantiscono e si deformano trasformandosi in creature mostruose con tanto di coda e corna. Il gesuita Athanasius Kircher, nel testo Ars Magna Lucis et Umbrae (1656), descrive un arnese in grado di creare immagini illusorie combinando il principio del quadrante solare e quello della lanterna magica: si tratta di uno strumento finalizzato alla “demonizzazione dell’ombra”.
Visto che nel mito fondatore della pittura, l’ombra non ha nulla di demoniaco, secondo Stoichita occorre capire come mai l’ombra nella pittura occidentale si trovi spesso investita di valenza negativa. Secondo l’autore la risposta ci è data dallo “stato di alterità della rappresentazione per mezzo dell’ombra portata. Era questo un concetto inerente al mito, nel quale (…) si faceva pure riferimento alla creazione di un doppio. L’abbandono di questo aspetto nel pensiero occidentale sull’immagine si traduce in un cambiamento radicale di paradigma, e questo emargina la rappresentazione/ombra nel tempo mitico delle origini, oppure nello spazio, mitico anch’esso, di paesi lontani. In tal modo, la pittura occidentale smette di essere una ‘pittura d’ombra’ per diventare una pittura che fa uso dell’ombra tra i molti altri sistemi di rappresentazione e di simbolizzazione”.
Tra il XVI ed il XVII secolo, l’ombra assume il ruolo di “nemico chimerico” e si assiste ad un’interiorizzazione dell’ombra in quanto proiezione della persona, come “zona oscura” dell’anima in cui la “negatività interiore si materializza”: l’ombra diviene l’emblema del raddoppiamento negativo. A tal proposito viene citata un’incisione di Johannes Sambucus (Cattiva coscienza, 1564), ove un uomo infierisce con la spada contro la propria ombra ritenuta testimone delle sue malefatte. È come se il personaggio infierisse contro se stesso.
Anche nella letteratura romantica non mancano esempi, fondati sul rovesciamento di una situazione narcisitica, in cui la lotta contro l’ombra di se stessi conduce al suicidio. Viene riportato anche un esempio Novecentesco tratto dai fumetti; si tratta del cowboy Lucky Luke, definito “l’uomo che spara più veloce della propria ombra”, che, alla fine di ogni puntata, ingaggia un duello con la propria ombra che risulta sempre in ritardo nel rispondere al fuoco. In sostanza l’eroe spara contro “il nemico chimerico”, che qui ha la forma della sua silhouette nera.

La trattazione concede spazio anche al caso di Johann Caspar Lavater, autore che, sul finire del Settecento, descrive un nuovo strumento per realizzare meccanicamente le silhouette. Lo studioso, riprendendo l’antica tradizione degli studi di fisiognomica, vede nel profilo circoscritto dell’ombra del viso i segni dell’anima ma, a differenza delle analisi tradizionali, non è tanto il volto ad essere il riflesso dell’anima, bensì l’ombra del volto. Il profilo circoscritto diviene un disegno da interpretare in una sorta di “ombranalisi”. Se si associa a tale pratica la vocazione religiosa di Lavater, ecco che, sostiene l’autore, tale metodo di analisi finisce col proporsi come “cura dell’anima”: nato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo avrebbe perso la rassomiglianza a causa del peccato ma ciò che Lavater cerca nell’ombra non è la divinità oscurata dalla carne, bensì il lato decaduto.

wiene dr caligariLa distorsione e l’amplificazione dell’ombra risultano essere tra gli strumenti principali utilizzati dalle arti figurative al fine di evidenziare la carica negativa di un personaggio. L’iperbolizzazione dell’ombra, nei tempi moderni, trionfa nel cinema espressionista. Nel trattare il ruolo dell’ombra nelle produzioni di autori come Friedrich Wilhelm Murnau e Robert Wiene, il saggio sottolinea come sia possibile analizzare la loro poetica filmica sin dall’analisi dei singoli fotogrammi; tali autori, infatti, “sviluppano una retorica dell’immagine filmica basata sulla sineddoche”, nel senso che ogni immagine, ogni inquadratura rimanda per analogia o per contrasto all’intero film. In tali opere le ombre ingigantite e deformate sono spesso un’esteriorizzazione dell’interiorità del personaggio.
Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di Wiene risulta essere l’incarnazione dei fantasmi del folle narratore del racconto che “appare come il doppio del regista e la proiezione delle ombre come un doppio del film in quanto tecnica figurativa”. Nel caso del celebre fotogramma proposto da Stoichita, “il messaggio metapoetico dell’ombra (…) è un’iperbole del mezzo chiave del cinema espressionista: il piano americano (…) L’ombra viene in tal modo a mettere in discussione la natura stessa della creazione filmica e dei suoi meccanismi di fascinazione”.
murnau nosferatuQuando osserviamo la silhouette del vampiro in Nosferatu (1922) di Murnau, siamo di fronte al vampiro stesso o alla sua ombra? Visto che i vampiri non hanno ombra, se ne deduce che si tratti di Nosferatu “in persona”, abitante di un universo sotterraneo labirintico quanto l’inconscio freudiano. L’autore ravvisa in Murnau la figura di colui che “mostra le ombre”, che visualizza la parte oscura della coscienza rendendola racconto attraverso un’estetica che mostra analogie tra “ombra” ed “immagine filmica”. “La prova che a questa lettura meta-estetica è data forma nell’ambito del racconto viene fornita allo spettatore solo alla fine del film, nell’attimo in cui il primo raggio di sole su Brema disintegra Nosferatu, e, soprattutto, nell’attimo in cui la luce elettrica inonda la sala di proiezione e lo schermo torna ad essere bianco”.

L’ultima parte del saggio tratta l’ombra e la sua riproducibilità nell’epoca della fotografia ed i meccanismi di moltiplicazione nell’età del trionfo dei simulacri. Passando in rassegna opere come il Quadrato nero (1915) di Malevič e le fotografie realizzate da Brancusi alle proprie sculture, oltre a prove fotografiche di Duchamp e Man Ray, l’autore analizza il ruolo dell’ombra nella rappresentazione artistica degli anni Venti del Novecento. Una breve ma interessante trattazione viene riservata alle “ombre incoerenti” di De Chirico che, paradossalmente, sembrano quasi un tentativo di conferire un senso a quelli che, altrimenti, rischiano di essere meri esercizi costruttivi da manuale; le ombre, in De Chirico, cessano di essere insignificanti per caricarsi di mistero. La “perturbante estraneità” delle opere dechirichiane sembra davvero irridere il codice della rappresentazione occidentale. La chiusura del saggio spetta a Wharol ed ai suoi autoritratti ove entrano in gioco l’immagine in negativo, la moltiplicazione e la polimerizzazione. A proposito della polimerizzazione dell’immagine, suggerisce Stoichita, a partire dagli anni ’60, Wharol, non solo ricorre alla stratificazione tecnica della rappresentazione/simulacro ma, da un punto di vista simbolico, attribuisce un’unità artificiale ed indistruttibile al multiplo della vita. “l’Autoritratto si trasforma, nel suo complesso, in allegoria dell’io nell’epoca della polimerizzazione dell’individuo”. Con un’opera come Doppio Mickey Mouse (1981) si arriva ad una situazione in cui i due personaggi sono sia l’artificiale che la copia, identici seppure diversi. Si apre così quella “vertigine senza fine” propria dell’età dell’ascesa e del trionfo dei simulacri.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso) :

– Particolare di fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau
– Copertina: V. I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art (2015)
– Samuel von Hoogstraten, La danza dell’ombra (1675)
– Fotogramma tratto da Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di R. Wiene
– Fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau

 

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