Caucaso – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 05 Nov 2025 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale /17: storia breve di una débâcle inevitabile https://www.carmillaonline.com/2022/09/07/il-nuovo-disordine-mondiale-17-cronaca-di-una-debacle-annunciata/ Wed, 07 Sep 2022 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73890 di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa [...]]]> di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa a gara con Enrico Letta nel tentativo di dimostrare di essere più servilmente atlantista dello stesso PD, il povero “ex-capitano” de noantri, si è visto messo alla berlina, sia dagli avversari che dagli alleati, per aver ribadito ciò che da mesi è possibile riscontrare sulla stampa economica internazionale e nazionale: ovvero che fino ad ora le sanzioni hanno danneggiato l’economia europea ancor più di quella russa e che la “serrata del gas” da parte di Gazprom e di Putin può costituire un pericoloso innesco per un incendio che potrebbe rivelarsi disastroso sia sul piano industriale che sociale.

Ma, prima che il genio giornalistico di Natalie Tocci accomuni chi scrive agli “utili idioti di Putin”1, proviamo a fare qualche passo indietro e, soprattutto, nella realtà. Partendo proprio dalla questione “gas”, inseparabile dalla condizione di esistenza fondamentale di un sistema che, non ci vuole un genio per capirlo, è sostanzialmente energivoro.

Tale passo, prima di ricondurci alla situazione creatasi a livello globale, come conseguenza della guerra in Ucraina, nel settore dei prezzi e dei rifornimenti di gas e idrocarburi, vede costretto l’autore di questo intervento a ricordare come l’avvento della Rivoluzione Industriale, alla metà del XVIII secolo, abbia visto un passaggio epocale dal consumo di energie che oggi si direbbero “rinnovabili “ (vento, acqua, animali e umane) a quello di un’energia che rinnovabile non era, ma che per il tramite della macchina a vapore prima e del motore elettrico o a scoppio poi, forniva alla nascente produzione industriale, e al suo modello di organizzazione sociale, una continuità e regolarità di utilizzazione che le altre non potevano fornire.

Vento, acqua, fatica dell’animale e dell’uomo dovevano infatti sottostare a limiti “naturali” (di carattere stagionale e di tempi di rinnovo) che la macchina a vapore e tutti i suoi derivati (fino all’uso dell’energia nucleare) non dovevano rispettare. Il vento poteva infatti essere troppo (nel caso della stagione invernale o degli urgani estivi) o troppo poco (come nel caso delle bonacce atlantiche, durante le quali una nave a vela poteva dover attendere per settimane il ritorno di condizioni di vento favorevoli) così come l’acqua che faceva funzionare mulini, macine oppure i primi telai meccanici. L’uomo e gli animali, per quanto messi alla catena per remare oppure far girare una macina oppure ancora per trainare strumenti agicoli di un certo peso (ad esempio aratri ed erpici), oltre a dover interrompere il lavoro per i suddetti limiti fisici naturali (si legga “fatica”), finivano comunque col consumare, per quanto in quantità minime nel caso di schiavitù e maltrattamenti connessi all’uso della forza animale, una parte del prodotto che contribuivano a creare.

Per capirci: gas, petrolio, energia elettrica non consumano il prodotto (ad esempio la farina) che concorrono a realizzare. Inoltre sono fonti di energia o energie sempre disponibili nella giusta quantità necessaria, sia di notte che di giorno, in inverno che in estate, senza forzose interruzioni. Inevitabile quindi che, per il “buon funzionamento” della macchina industriale capitalistica e i suoi ritmi produttivi, la scelta si indirizzasse sempre più verso il loro diffuso e devastante utilizzo.

Sistema che nel divenire “energivoro” ha finito col dar vita a una serie di conflitti sempre più intensi, ravvicinati e distruttivi, per l’appropriazione di materie prime di origine fossile che, se ai tempi di Marco Polo potevano costituire una semplice curiosità o una mercanzia tra le altre2, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e, in particolare, dal Primo macello imperialista diventano il premio di ogni guerra, allargata, coloniale e non3. Prova ne sia il fatto, qui citato a solo titolo di esempio, che la marcia delle truppe dell’Asse verso i territori sud-orientali dell’URSS, interrottasi forzatamente a Stalingrado, poco aveva di “ideologico”, ma molto di pratico vista la cronica fame di risorse energetiche e di petrolio della Germania. Cosa che aveva spinto Hitler a spostare un congruo numero dei tre milioni di soldati inviati sul fronte orientale con l’Operazione Barbarossa sul fronte del Caucaso; nel tentativo di appropriarsi sia delle regioni petrolifere là presenti che delle aree petrolifere incluse dai dominion inglesi in Iraq ed Iran. Come sia andata a finire ce lo dicono i libri di storia. Stesso discorso vale per la campagna d’Africa condotta con l’alleato Mussolini, alla ricerca della conquista o del mantenimento del controllo del petrolio libico e dell’interruzione dei traffici marittimi e commerciali inglesi dall’India e verso la stessa.

Ma è necessario interrompere qui il Bignami della storia del ‘900 e dei suoi devastanti conflitti, per tornare ai problemi attuali, che dimostrano, comunque, come tale secolo sia stato tutt’altro che breve e si prolunghi ancora nel nostro disastrato presente. Compresa la scarsa passione del capitalismo industriale per l’uso delle fonti energetiche alternative, nonostante la predicazione greenwashing dei media falsamente progressisti.

E visto che si parlava di Germania del Reich, proprio dalla (ex-?) locomotiva d’Europa occorre ripartire per la riflessione sulle sanzioni, e poiché il danno causato all’economia europea dalle sanzioni alla Russia e dal taglio delle forniture di gas sembra appartenere, all’interno della propaganda bellico-politica in cui siamo immersi, soltanto alle fake messe in campo dal Cremlino e dalla sua portavoce Maria Zakharova, torneremo al 30 marzo di quest’anno, quando il quotidiano tedesco «Handelsblatt», l’equivalente dell’italiano «Il Sole 24 Ore», scriveva:

L’industria tedesca ad alta intensità energetica avverte con urgenza il rischio di una possibile interruzione della fornitura di gas naturale russo. Anche il razionamento potrebbe portare a perdite di produzione, che avrebbero conseguenze per l’intera industria di trasformazione in Germania, spiegano ad esempio i manager dell’industria chimica. Laddove è necessario molto gas come fonte di energia e materia prima, le aziende sono minacciate di estinzione in caso di restrizioni.
Mercoledì, il ministro federale dell’Economia Robert Habeck (Verdi) ha annunciato il “livello di allerta precoce” del cosiddetto piano di emergenza gas, avvertendo così l’economia di un significativo deterioramento dell’approvvigionamento di gas. L’ industria che sarebbero più colpita da un’interruzione dell’offerta o dal razionamento è quella chimica che per Christian Kullmann è il “cuore dell’economia tedesca”. In questa frase Boss è contenuto un avvertimento: se non batte più, ha gravi conseguenze per tutte le industrie. E questo è uno scenario realistico in caso di fallimento delle forniture di gas all’industria4.

Per poi continuare il giorno successivo con un’intervista al Direttore delle poste tedesche, in cui si affermava:

Un embargo sarebbe devastante per la Germania e l’Europa, ha detto il manager in un’intervista a Handelsblatt. “Ci sarebbe la minaccia di un collasso di parti del nostro settore”.
Un tale passo non garantirebbe in alcun modo la fine della guerra in Ucraina. “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, ha detto Appel. Ha anche accolto con favore il fatto che il governo tedesco non stava saltando immediatamente su ogni questione nel conflitto ucraino, ma stava prendendo decisioni “con calma e chiarezza” […] Frank Appel teme un collasso di parti del settore in caso di boicottaggio e si oppone anche a un disaccoppiamento dalla Cina.5.

Mentre, sempre negli stessi giorni, «Die Welt», un altro importante quotidiano tedesco equivalente del «Correiere della sera» italico, occupandosi dell’inflazione, scriveva:

Un mese dopo lo scoppio della guerra, i tedeschi stanno vivendo uno shock storico dei prezzi: al 7,3%, l’inflazione a marzo è stata più alta che mai nella Germania riunificata. Secondo l’Ufficio federale di statistica, la vita nei vecchi Stati federali era aumentata così tanto solo nel novembre 1981.
[…] La Repubblica Federale ha registrato l’inflazione più forte nel dicembre 1973 con il 7,8 per cento. E questo segno potrebbe presto essere rotto se la guerra in Ucraina dura ancora più a lungo o la disputa energetica con la Russia si intensifica.
Perché è l’improvviso aumento del prezzo dell’energia che farà salire il tasso di inflazione nel 2022. “È principalmente energia, ma anche cibo, che ancora una volta si è rivelato un driver di prezzo. L’aumento di quasi il 40% dei prezzi dell’energia spiega più della metà dell’inflazione attuale”, afferma Sebastian Dullien, direttore dell’Istituto per la macroeconomia e la ricerca economica (IMK). […] “Non si prevede che i mercati dell’energia allenteranno le tensioni nei prossimi mesi: i prezzi all’ingrosso del gas e dell’elettricità indicano che l’energia domestica in particolare rischia di diventare ancora più costosa per i clienti finali”. Nel caso del carburante, c’è un certo sgravio, anche perché temporaneamente le tasse su di esso devono essere ridotte.
Tuttavia, queste riduzioni sono matematicamente troppo piccole per compensare l’aumento dei prezzi dell’energia delle famiglie nel tasso di inflazione. “Tutto sommato, l’inflazione rimarrà alta per il resto dell’anno”, è certo Dullien.
L’IMK ha aumentato le sue stime in risposta agli eventi. […] “Se l’energia dovesse diventare ancora più costosa, ad esempio in caso di interruzione della fornitura di energia russa, l’inflazione potrebbe essere di nuovo significativamente più alta”, afferma Dullien.
[…] E oggi non sono solo i prezzi dell’energia a guidare l’inflazione in questo paese. Ad eccezione degli affitti, l’intero carrello della spesa dei tedeschi sta diventando più costoso della media.
“Il rollover a tutti i settori possibili è in pieno svolgimento. Aggiungete a ciò i ricarichi aggiuntivi nei settori dell’ospitalità, della cultura e del tempo libero, una volta terminato l’attuale ciclo di restrizioni, ed è difficile immaginare che l’inflazione diminuirà in modo significativo nel prossimo futuro “, afferma Carsten Brzeski, capo economista di ING.
[…] Gli alti tassi di inflazione stanno mettendo sotto pressione la Banca centrale europea (BCE). Perché mentre gli economisti aumentano le loro previsioni di inflazione, tagliano le loro previsioni di crescita. Il Consiglio tedesco degli esperti economici ha più che dimezzato le sue previsioni di crescita economica quest’anno all’1,8%.
Nelle loro precedenti previsioni di novembre, gli esperti economici avevano promesso una crescita del 4,6% per il 2022. Una tale combinazione di stagnazione economica e alta inflazione (chiamata anche stagflazione) è temuta perché getta le autorità monetarie in un dilemma.
“Per la BCE, questo alto rischio di stagflazione nell’eurozona metterà sotto pressione la prevista normalizzazione della politica”, afferma Brzeski. Mentre la crescita è recessiva, almeno nella prima metà dell’anno, l’inflazione complessiva sarà significativamente più alta nel lungo termine.
In un tale contesto macroeconomico, l’attenzione della BCE sembra spostarsi dalla crescita all’inflazione. “Ma per quanto la BCE possa contribuire a far arrivare i container dall’Asia più velocemente e più a buon mercato in Europa o ad aumentare la produzione di microchip a Taiwan, non può porre fine alla guerra o abbassare i prezzi dell’energia”, afferma Brzeski.
Quanto sia profondo il dilemma è reso chiaro da un’altra cifra: quando l’inflazione in Germania era del 7,3 per cento, il tasso di interesse di riferimento fissato dalla Bundesbank era dell’11,4 per cento. In questo modo, le autorità monetarie volevano contrastare massicciamente ulteriori aumenti dei prezzi. Oggi, d’altra parte, il tasso di interesse di riferimento in tutta Europa è pari a zero.
Gunther Schnabl, professore di politica economica all’Università di Lipsia, critica la BCE. A differenza della Federal Reserve statunitense, l’istituzione di Francoforte ignora il fatto che la stabilità valutaria è minacciata a lungo termine.
[…] Secondo la sua stima, le radici sono più profonde che nella crisi attuale. “Indipendentemente dalla ragione dell’inflazione, la BCE deve agire per contenere i cosiddetti effetti di secondo impatto”, afferma l’economista.
Gli effetti di secondo impatto si verificherebbero se i sindacati chiedessero una compensazione salariale a causa delle pressioni inflazionistiche, che a loro volta costringevano le aziende ad aumentare i prezzi. “Tali spirali salario-prezzo osservate nel 1970 manterrebbero alta l’inflazione per lungo tempo. Ciò sarebbe rischioso a causa della crescita negativa e degli effetti distributivi dell’inflazione dei prezzi al consumo e degli asset” 6.


La citazione può apparire troppo lunga, ma è importante perché rivela come tutto quanto sta accadendo a livello europeo e italiano fosse ampiamente prevedibile fin dall’inizio del conflitto in Ucraina. Non solo, ma anche che i paletti per la risposta all’inflazione erano già stati messi dalla BCE, insieme alla necessità, per il capitale, di contrastare qualsiasi richiesta proveniente dai sindacati o da movimenti sociali auto-organizzati per aumenti salariali o aiuti di altro genere, non alle imprese, ma alle famiglie e ai lavoratori in difficoltà.

Ma anche su altri quotidiani europei, in quei giorni si sottolineavano le conseguenze, presenti e future, dei processi inflattivi messi in atto a partire dal conflitto e dalle politiche adottate dall’Unione Europea e dell’Occidente per “contrastarlo”. Ad esempio il quotidiano spagnolo «Cinco Días», sempre in data 31 marzo, scriveva:

L’inflazione si rivela sempre più come una tassa per i poveri e i lavoratori. I prezzi hanno iniziato a salire in Spagna a cavallo dell’estate del 2021, trainati principalmente dal prezzo dell’energia, con il quale l’IPC medio annuo ha chiuso lo scorso anno al 3,1% […]. Ma quello che sembrava un aumento molto congiunturale i cui effetti sarebbero scomparsi in primavera, secondo i primi calcoli degli analisti, è diventato un vero incubo per il paniere della spesa, a causa degli effetti della guerra in Ucraina, che ha già completato un mese.
I dati sull’inflazione anticipata pubblicati dall’Istituto Nazionale di Statistica (INE) per il mese di marzo, sono arroccati ad un tasso su base annua del 9,8%, molto vicino al livello psicologico delle due cifre, dopo un aumento mensile del 3%, che colloca questa cifra tra le più alte da quella registrata nel maggio 1985. Ci sono voluti 36 anni per vedere questa mancanza di controllo dei prezzi in Spagna, anche se tutto indica che questa escalation non si fermerà qui, in quanto potrebbe persino raggiungere due cifre a breve e persino superarle.
[…] Dietro questa evoluzione continuano a pesare fattori geopolitici esterni come la durata della guerra in Ucraina e la tensione nei prezzi di prodotti strategici come il petrolio o il gas, che distorcono completamente i prezzi della componente energetica, che si manifesta in aumenti dei prezzi di elettricità, combustibili e per effetto indotto cibo e bevande analcoliche. […] Da qui la continuità dei messaggi del governatore della Banca di Spagna per raggiungere un patto di reddito che mitighi questa escalation.
Il tasso sottostante, che misura l’evoluzione dei prezzi, eliminando i prodotti alimentari freschi ed energetici, ha raggiunto un tasso su base annua del 3,4% a marzo, aumentando di quattro decimi in più rispetto a febbraio. Un fatto che lungi dall’essere rassicurante sull’evoluzione futura, anticipa le tensioni rialziste nell’indicatore generale per tutti i prossimi mesi.
Lo tsunami a cui sono sottoposti i prezzi di tutti i prodotti del carrello ha come effetto più diretto sui cittadini una netta e sempre più profonda perdita di potere d’acquisto. […] Questo calo del potere d’acquisto è particolarmente sentito nei redditi salariali e nei risparmi delle famiglie e delle imprese.
Quindi è relativamente facile fare un’approssimazione quantificabile del denaro che potrebbe supporre questo impatto dell’escalation inflazionistica in questi redditi e che potrebbe essere di circa 70.000 milioni di euro di riduzione del potere d’acquisto di salari e depositi. Come ci si arriva?
La prima cosa che bisogna specificare per fare questo calcolo è quanto i prezzi siano diventati più costosi e per questo, la cosa più giusta è prendere non solo i dati del mese – in questo caso marzo, 9,8% – ma determinare quanto i prezzi sono aumentati in media negli ultimi dodici mesi. Ciò produrrebbe un aumento misurato dell’IPC che tocca il 4,9% tra aprile 2021 e marzo 2022.
Una volta calcolata questa domanda, vengono presi i dati sul reddito salariale inclusi nei dati dei conti nazionali trimestrali, anch’essi preparati dall’INE, e mostrano che la massa salariale annuale del paese ammonta a circa 600.000 milioni di euro. Tenendo conto che l’aumento salariale medio concordato nei contratti collettivi alla fine dello scorso anno per 8,3 milioni di dipendenti – che salirà a circa 10 milioni nel corso di quest’anno a causa dei ritardi nella registrazione dei contratti – è stato dell’1,47% e che finora quest’anno questo aumento supera leggermente il 2%, si potrebbe dire che questi lavoratori secondo l’inflazione media degli ultimi dodici mesi (che sfiora il 5%) stanno perdendo tra i 3 e i 3,5 punti di potere d’acquisto. Ciò si traduce in una perdita di potere d’acquisto compresa tra 18.000 e 21.000 milioni di euro.
Inoltre, le prospettive salariali non sono molto migliori e, nel migliore dei casi, se i datori di lavoro e i sindacati raggiungessero l’accordo pluriennale di accordi di cui stanno parlando, la raccomandazione di un aumento salariale per quest’anno sarebbe di circa il 3 per cento, in modo che di fronte all’incertezza di come si evolveranno i prezzi, se la spirale inflazionistica continua, quel piccolo miglioramento dei salari potrebbe essere azzerato già nel corso di quest’anno. Pertanto, la suddetta perdita vicina a 20.000 milioni di reddito salariale a causa dell’impatto dell’inflazione sarebbe possibile anche nella fascia bassa di perdite.
Il conto successivo è ancora più semplice, la Spagna ha poco più di un trilione di euro di risparmi depositati in conti correnti. Questo denaro non è praticamente remunerato, quindi l’impatto vicino al 5% sarebbe completo, riducendo un importo approssimativo a 50.000 milioni di euro della capacità di acquisto dei risparmi degli spagnoli. Con la somma di entrambi gli importi, si ottiene il suddetto costo di 70.000 milioni di reddito e risparmio salariale.
[…] Jakob Suwalski e Giulia Branz, analisti di Scope Ratings, prevedono entro il 2022 che il tasso di inflazione supererà il 5% “anche in uno scenario di graduale convergenza verso l’obiettivo della BCE del 2% entro la fine dell’anno”. Se lo scenario è quello di una continuazione delle pressioni sui prezzi, il tasso annuo sarebbe in media dell’8%. Ritengono che un rialzo dei tassi da parte della BCE non affronterebbe direttamente gli effetti inflazionistici7.

Si è continuato citando giornali stranieri e titoli di diversi mesi or sono proprio per dimostrare come quanto recentemente affermato sul peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione dell’Europa e dell’Italietta, sempre falsa e buonista, non appartenga ad un immaginario distorto dovuto soltanto alla abilità russa nel produrre disinformatja, ma alla realtà di ciò che era ampiamente prevedibile fin dall’inizio del confronto militare, economico e politico con la Russia di Putin. Non un imprevedibile svolto di una situazione altrimenti normale, ma una conseguenza “certificata” per tempo delle scelte operate a livello politico ed economico dalla UE e dagli USA.
I quali ultimi, con il loro ruolo nel settore del controllo, produzione e vendita del petrolio e del gas, non potevano mancare in questo excursus a ritroso. Come affermava infatti il «Financial Times», giornale notoriamente filoputiniano, nei primi giorni di aprile di quest’anno:

Prima la crisi finanziaria, poi la pandemia globale e adesso la guerra in Europa spingono i governi a cambiamenti inediti, che prima sembravano impensabili. L’ultimo in ordine di tempo è costituito dalla decisione degli Stati Uniti di attingere a 180 milioni di barili di greggio dalle loro riserve petrolifere strategiche: il più grande ricorso alle scorte nazionali mai avvenuto nella storia. Tuttavia, la reazione del mercato suggerisce che anche una mossa di così ampia portata potrebbe non essere sufficiente a ridurre la spirale dei prezzi del carburante come era nelle intenzioni di Biden.
[…] Un problema della decisione di Washington è che rischia di apparire come disperata, e quindi ottenere il risultato opposto di quello desiderato. Questi sei mesi di utilizzo delle riserve nazionali lasceranno le scorte petrolifere di emergenza più grandi del mondo ai livelli più bassi dal 1984, per di più in una fase in cui l’offerta di greggio è in una situazione di grave instabilità.
Questo milione di barili in più al giorno non basterà a risolvere la crisi, comunque. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha segnalato che la produzione russa potrebbe diminuire di tre milioni di barili al giorno, a causa non solo dell’embargo statunitense sul greggio e delle altre sanzioni stabilite dai Paesi occidentali, ma anche di quella sorta di “auto-sanzione” applicata indirettamente dagli acquirenti cominciano a rifiutarsi di comprare i prodotti russi. C’è anche il rischio che il prolungamento della guerra spinga definitivamente l’Ue a limitare i suoi acquisti di petrolio russo.
Biden ha anche rivelato un piano per fare pressione sui produttori statunitensi e spingerli a pompare di più, imponendo tasse su quelli che non trivellano dove hanno licenze sulle terre federali. Affermare che le scorte torneranno a essere riempite quando i prezzi scenderanno a 80 dollari al barile è un tentativo di fissare un prezzo minimo a lungo termine per il greggio più alto di quello degli scambi futures attuali. Ma gli addetti ai lavori ritengono che gli azionisti potrebbero cercare prezzi ancora più alti prima di portare i nuovi flussi a regime. Ci sono poi dei vincoli oggettivi all’aumento della perforazione americana da considerare, non da ultimo la carenza di materiali, mezzi e uomini per comporre le squadre addette al fracking (la perforazione idraulica delle rocce).
Se gli Stati Uniti intendevano scalare posizioni per diventare il produttore di greggio più importante del mondo, in realtà il loro annuncio potrebbe avere l’effetto di rinforzare ancora di più il peso dell’Opec. Secondo le stime, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti insieme avrebbero una capacità inutilizzata di oltre 2 milioni di barili al giorno. Ma il cartello mediorientale si è mantenuto prudente rispetto alla guerra e non ha dato seguito alla richiesta di Biden di aumentare l’offerta.
[…] La Casa Bianca affronta anche un altro dilemma. Biden ha cominciato il suo mandato assumendosi l’impegno di portare avanti una politica vigorosa sul clima, ma rischia di perdere entrambe le camere del Congresso alle elezioni di mid-term di novembre. Il balzo del 50% dei prezzi della benzina in un anno fa arrabbiare soprattutto gli elettori repubblicani8.

Escluso il fallimento dei rapporti tra USA e Opec, messo in risalto anche dal rifiuto degli ultimi giorni da parte dei principali produttori di gas e petrolio di incrementare l’offerta per abbassarne i prezzi9, e sconfitta la speranza di coinvolgere Cina e India nelle sanzioni alla Russia10 non è difficile vedere che quanto previsto dal Ministro Cingolani per affrontare la prossima crisi nell’autunno-inverno 2022/2023, non è affatto lontano da quanto prospettato dalla BCE o desiderato dagli USA. Indipendentemente dall’uso che farà di tutto questo la propaganda russa.

D’altra parte, va ancora qui ricordato che una parte degli aumenti del costo del gas è da attribuire alle manovre speculative in atto sul mercato di Amsterdam, tanto da far pensare, alla Commissione europea di mettere il Ttf olandese sotto il controllo dell’Esma (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati)11, confermando così l’analisi marxiana del fatto che «l’unico limite del capitale è il capitale stesso». In questo caso inteso non come controllo sulla libera definizione dei prezzi in Borsa, ma per l’intralcio che gli interessi del capitale finanziario e della rendita finiscono col creare alla produzione industriale, peggiorandone le condizioni incrementandone i costi.

Infine, per non fare troppo torto alla stampa nazionale, val la pena di ricordare che già in data 18 marzo 2022, poco più di venti giorni dopo l’inizio delle operazioni militari in Ucraina e delle prime decisioni prese in ambito europeo e atlantico, il «Sole 24 ore» titolava in prima pagina: Ocse: la guerra costa all’Ue l’1,4% del Pil. Dal neon al grano, l’Italia più esposta.

Mentre ancora pochi giorni or sono, poteva denunciare i paesi della Nato che guadagnano con la crisi del gas, dalla Norvegia agli Usa12. Sottolineando come gli Stati Uniti esportino in Europa il triplo di Gazprom e come la Norvegia abbia scalzato la Russia come primo fornitore. Ma non solo, poiché anche la Cina starebbe facendo affari d’oro rivendendo all’Europa Gnl, mentre la Russia ha visto aumentare i profitti sul gas nonostante, e forse grazie, le sanzioni13.

La ciliegina sulla torta del disastro l’ha messa però Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, che nel corso di un’intervista concessa a Rai News24 il 7 settembre ha esordito affermando seccamente: «Noi ormai siamo sconfitti».
Giustificando tale affermazione col fatto che se non ci sarà una “rcessione” i prezzi del gas e del petrolio, e perciò dell’energia, continueranno a crescere. Anche l’incremento dell’utilizzo delle centrali a carbone, ha continuato lo stesso Tabarelli, non porterà a decisivi miglioramenti, poiché non solo la maggior parte del carbone utilizzato in Italia proviene comunque dalla Russia, ma anche perché pur utilizzando le stesse al massimo si passerebbe da un 6 al 13% dell’energia elettrica prodotta. Concludendo poi col dire che, questo inverno, se la Russia continuerà a tagliare o azzerare le forniture di gas, si dovranno fare sacrifici da tempi di guerra e che, se non ci saranno significative riduzioni dei consumi e i prezzi continueranno a salire, ci saranno inevitabilmente chiusure di stabilimenti industriali e licenziamenti.

Ma allora perché sforzarsi di spiegare ad ogni costo che le cose «andranno bene», come nei primi giorni della pandemia per gli Italiani e gli Europei e male per i Russi14? Forse in grazia di un accordo stilato da Draghi con uno stato, l’Algeria, che è in attesa di entrare a far parte dei Brics e che nei giorni scorsi ha affiancato Russia, Cina, India, Corea del Nord e altri partner ancora nelle manovre militari Vostock 2022 tenutesi nelle vicinanze del Mar del Giappone?

Non è che tutta questa propaganda militar- parlamentare sia destinata soltanto a tenere buona quella parte di opinione pubblica che prima o poi sarà portata ad esplodere imprevedibilmente per le conseguenze coincidenti di pandemia, guerra, crisi ambientale ed energetica? E’ così che i governi dei migliori o dei peggiori, fa lo stesso, pensano di poter affrontare la crisi sociale, politica ed economica che inevitabilmente verrà? Con bonus ridicoli, ristori indirizzati solo alle aziende, la promessa della riduzione di un solo grado delle temperatura domestiche e il ritardo nell’accensione dei riscaldamenti privati e pubblici? Senza mai parlare seriamente dell’inevitabile disoccupazione e miseria che conseguirà a tutto ciò? Oppure, come è successo in questi ultimi giorni a Torino con la società Iren, accontentandosi di staccare il teleriscaldamento a coloro e ai condomini che sono già in difficoltà con il pagamento delle bollette arretrate15?

Speriamo di sì, a patto che chi rifiuta il nefasto modo di produzione attuale rinunci a qualsiasi illusione parlamentaristica e voglia tornare all’organizzazione dal basso e alla lotta di strada. In modo da poter rivendicare, ancora una volta con forza, come negli anni ’70: le bollette e la crisi le paghino i padroni!


  1. Si veda: Natalie Tocci, Lo Zar, le sanzioni e gli “utili idioti”, «La Stampa» 6 settembre 2022  

  2. Nel XIII secolo Marco Polo narrava di cammellieri che esportavano un liquido nero e puzzolente, da Baku, nella zona del Mar Caspio, una regione al centro di contese belliche fin dai tempi di Alessandro Magno. Una sostanza densa, non raffinata, esportata in tutto il Mediterraneo e fino a Baghdad, per essere usata come mezzo di illuminazione e come balsamo o unguento. Sostanza che in quella localita’ era particolarmente abbondante, fino al punto di sgorgare naturalmente dal terreno, formando autentici laghi.  

  3. Si veda in proposito: Daniel Yergin, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Biblioteca Agip, Sperling & Kupfer Editori, 1996  

  4. Livello di allerta precoce dichiarato: queste industrie sarebbero le più colpite da un congelamento della fornitura di gas. Le imminenti strozzature di approvvigionamento di gas stanno allarmando l’economia. Per molte aziende, un arresto delle forniture dalla Russia minaccerebbe la loro esistenza, «Handelsblatt», 30 marzo 2022  

  5. INTERVISTA A FRANK APPEL: Il capo delle poste avverte dell’embargo sul gas: “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, «Handelsblatt», 31 marzo 2022  

  6. Daniel Eckert e Holger Zschäpitz, Inflazione senza fine? Siamo intrappolati nella trappola dei tassi di interesse chiave, «Die Welt» 30.03.2022  

  7. JESÚS GARCÍA – RAQUEL PASCUAL CORTÉS, L’inflazione inghiotte 70 miliardi di euro di salari e risparmi in 12 mesi, «Cinco Días», 31 marzo 2022  

  8. Citato in Financial Times: effetto Ucraina, gli Usa vogliono diventare il primo produttore di petrolio, «il Fatto Quotidiano» 4 aprile 2022  

  9. Matteo Meneghello, L’Opec+ taglia la produzione, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  10. Sissi Bellomo, Sfida dell’India sul gas: noi con Mosca, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  11. Gas, la Ue vuole mettere la piattaforma Ttf sotto l’ombrello dell’Esma, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  12. Sissi Bellomo, Gas, emergenza ma non per tutti. Eldorado per alcuni paesi della Nato, «Il Sole 24 ore» 2 settembre 2022  

  13. Riccardo Sorrentino, In sei mesi l’Ue ha versato 85 miliardi alla Russia, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  14. Si veda ancora Natalie Tocci, cit., «La Stampa» 6 settembre 2022  

  15. cfr. PIER FRANCESCO CARACCIOLO, L’incubo di un inverno al freddo: a Torino boom di morosità nelle bollette e LODOVICO POLETTO, Termosifoni chiusi per morosità, la rabbia di Mirafiori contro l’Iren: “Questi rincari sono un salasso”, entrambi su «La Stampa», 8 settembre 2022  

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Artsakh https://www.carmillaonline.com/2021/05/03/artsakh/ Mon, 03 May 2021 20:40:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66139 di Sandro Moiso

Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del [...]]]> di Sandro Moiso

Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del capitale nazionale e internazionale.

Si tratta della guerra esplosa nel Nagorno Karabakh, apparentemente tra le forze azere e armene ma, sostanzialmente, in nome dell’espansione del novello impero turco verso Oriente e del controllo militare, politico ed economico di una delle zone cerniera comprese tra il Medio Oriente e l’Asia centrale: il Caucaso. Ma non solo, poiché, l’opuscolo edito da Tabor mette bene in luce che:

nonostante lo scenario sia contraddittorio e intricato, nonostante non ci siano i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ciò nonostante la posta in gioco è chiara e inequivocabile. Due ragioni si affrontano sul campo: da una parte (quella azera e turca) c’è il diritto di uno Stato nazione
all’integrità del proprio territorio e all’imposizione dei propri confini; dall’altra (quella armena) c’è il diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa di un popolo che resiste a secoli di oppressione e di tentativi di genocidio1.

Poco dopo aver conseguito la propria indipendenza nazionale, all’inizio degli anni Novanta, il popolo armeno riuscì a conquistare anche l’indipendenza de facto dell’Artsakh, o Nagorno Karabakh, enclave armena montanara incastrata dentro i confini dell’Azerbaijan.
Oggi, dopo trent’anni, fomentato e sostenuto dall’espansionismo turco, l’Azerbaijan ha scatenato una nuova guerra di aggressione che, oltre a migliaia di morti e di sfollati, ha gettato le basi di una nuova pulizia etnica ai danni del popolo armeno, costantemente minacciato di genocidio. Così, mentre l’“Occidente” mostra la sua totale irrilevanza, la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin – come già in Siria e in Libia – si spartiscono le rispettive aree di influenza in quella vera e propria “linea di faglia” tra imperi che tornano a essere i monti del Caucaso.

Naturalmente, per comprendere a fondo le ragioni di questo conflitto e di questa resistenza all’oppressione che motiva il popolo armeno, occorre fare un excursus, per quanto breve, nella storia plurimillenaria di un territorio e di un popolo che passa attraverso la formazione ed espansione dell’impero ottomano, la sua dissoluzione con la prima guerra mondiale, lo scontro tra quell’impero e quello zarista sulla frontiera del Caucaso, le trasformazioni avvenute con le conseguenze della rivoluzione bolscevica e di quella nazionalista dei Giovani Turchi di Kemal Atatürk, i maneggi di Stalin per conservare il controllo della regione creando conflitti territoriali tra gli abitanti dello stesso e, infine, gli interessi legati oggi allo sviluppo delle vie del gas e del petrolio che vedono, per ora, Erdogan e Putin sostanzialmente alleati in gran parte dello scacchiere mediorientale e nordafricano, mentre l’Occidente è costretto ad assistere, anch’esso soltanto per ora, a ciò che avviene a causa delle proprie divisioni e della propria fame di gas e combustibili fossili.

Senza dimenticare che anche l’italietta entra indirettamente nel gioco, grazie agli accordi per il TAP, mentre la società turca Yildirim si è di recente assicurata il controllo del porto di Taranto in nome del controllo di quella Patria Blu con il cui nome la Turchia di Erdogan definisce tutto il quadrante del Mediterraneo orientale (e forse non solo).

Al centro, naturalmente, rimane il tema del genocidio del popolo armeno portato avanti a più riprese dall’impero ottomano prima e dallo stato turco poi, tra il 1870 e la fine della prima guerra mondiale, che ha visto non solo milioni di armeni cadere a causa delle iniziative militari e repressive, oltre che oppressive turche, ma anche costretti ad emigrare a causa delle stesse. Un “olocausto minore” avvenuto nell’Asia Minore che coinvolse in quanto vittime anche gli assiri e i greci dell’ Anatolia e del Ponto, soprattutto tra il 1914 e il 1923. Genocidio che per alcuni autori è possibile additare tra quelli ispiratori della Shoa proprio a causa del coinvolgimento o almeno dell’assenso dato allo stesso dagli alleati tedeschi2.

Una lotta infine che per svolgimento e ruoli non può che rinviare a quella del popolo curdo e, soprattutto, al Rojava. In un crocevia dove gli inteeressi di Russia e Turchia incrociano quelli dell’Iran e anche di Israele, visto soprattutto l’appoggio militare dato dalle armi israeliane all’azione turca sotto forma di droni killer. Una questione lunga e complessa, ma non per questo meno chiara, che questo saggio, apparso, in due puntate e in versione leggermente ridotta, su «Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna» (nei numeri 58 e 59, autunno e inverno 2020-2021), aiuterà il lettore a comprendere ancor meglio.

N. B.

Per eventuali contatti e per ordinare delle copie:

tabor@autistici.org – www.edizionitabor.it


  1. Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, p.4  

  2. Si veda in tal senso: Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, edizione italiana a cura di Antonia Arslan e Boghos Levon Zekiyan, Edizioni Guerini e Associati, Milano 2003, in particolare pp. 279-330  

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Come la Rivoluzione giunse in Oriente tra cavalieri, banditi, spie e baroni sanguinari https://www.carmillaonline.com/2021/03/31/come-la-rivoluzione-giunse-in-oriente-tra-cavalieri-banditi-spie-e-baroni-sanguinari/ Wed, 31 Mar 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65560 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente” (Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente”
(Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi del lettore un susseguirsi di vicende degne dei migliori romanzi d’avventura, oltretutto ambientate in territori in cui a dominare erano, e spesso ancora rimangono, paesaggi sconfinati, deserti spietati, aspre montagne e una natura che definire selvaggia è ancora soltanto un blando eufemismo.

Scorrendone le pagine è inevitabile riandare con la memoria alle magnifiche tavole di Hugo Pratt, in particolare a quelle della sua storia, anche se sarebbe meglio definirla romanzo, migliore: Corte sconta detta arcana. Appartenente al ciclo di Corto Maltese, il testimone scomodo più che eroe di tante vicende narrate dal disegnatore italo-argentino di origini veneziane, la storia si dipanava proprio negli immensi spazi compresi tra Asia centrale, Russia e Cina negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre e dava vita a personaggi ripresi dalla o appartenenti alla realtà di quel periodo. Non ultima la figura del barone Ungerer, di cui avremo ancora modo di parlare più avanti.

Il fatto che l’avanzare della rivoluzione bolscevica in Asia si accompagni, nel titolo, alla possibile realizzazione di un impero sovietico in quelle regioni, è dovuto al fatto che il testo chiude una serie di ricerche condotte dallo stesso Hopkirk sul tema del “Grande Gioco” svoltosi, tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, in quegli stessi territori che andavano dal Caucaso alla Mongolia e dai confini della Cina imperiale all’Oceano Indiano e ai confini dell’impero coloniale inglese in India, che vide come protagonisti soprattutto gli agenti e i generali agli ordini di Sua Maestà Britannica da un lato e quelli al servizio dello Czar dall’altro.

Tali opere formano una quadrilogia di cui il testo sull’azione bolscevica in Asia costituisce l’ultimo volume. I precedenti sono, infatti, Il Grande Gioco (Adelphi, Milano 2004), Diavoli stranieri sulla Via della Seta (Adelphi, 2006) e Alla conquista di Lhasa (Adelphi, 2008). Ai quali, come corollario, andrebbe ancora aggiunto Sulle tracce di Kim (Settecolori 2021) dedicato al romanzo di Rudyard Kipling incentrato proprio sulle vicende della grande partita asiatica tra Impero Britannico e Impero Zarista.
Peter Hopkirk (1930 – 2014) è stato un giornalista britannico che ha lavorato come reporter e corrispondente per l’Indipendent Television News, il «Times» e il «Daily Express» e per molti anni ha viaggiato e vissuto nei paesi in cui si ambientano i suoi libri: Russia, Asia centrale, Turchia, Caucaso, Cina, India, Pakistan e Iran. Sulle tracce di vicende e personaggi che sono entrati tutti nelle sue ricostruzioni e ai quali, per qualche verso, ha finito col rassomigliare idealmente.

I militanti del bolscevismo giurarono di incendiare l’Oriente usando come innesco la nuova, inebriante dottrina del marxismo. Il loro intento era liberare l’Asia intera, partendo però dall’India britannica, il più ricco di tutti i possedimenti imperiali. Lenin, infatti, considerava l’Inghilterra, la maggiore potenza imperiale di allora, il principale ostacolo al suo sogno di una rivoluzione mondiale. “L’Inghilterra” dichiarò nel 1920 “è il nostro peggior nemico. È in India che la dobbiamo colpire con forza”.
Se l’insurrezione avesse strappato l’India dalla morsa della Gran Bretagna, quest’ultima non avrebbe più potuto tenere a bada i suoi cittadini – inconsapevoli azionisti dell’imperialismo – con la manodopera sottopagata e le materie grezze a buon mercato dall’Est. Ne sarebbe seguito il collasso economico e la rivoluzione in patria. Se si fosse riusciti a fomentare sommosse simili in tutto il mondo coloniale, l’agognata rivoluzione avrebbe segnato il suo percorso attraverso l’Europa. “L’Oriente” proclamava Lenin “ci aiuterà a conquistare l’Occidente”1.

Questo il prologo teorico e politico della vicenda narrata che, come in ogni libro di avventure ben congegnato, porterà ad esiti imprevisti dagli stessi protagonisti. Con svolte improvvise e rivolgimenti, per tutte le parti in lotta, dipendenti sia dalle personalità ed intenzioni che dalle contraddizioni sviluppatesi nel frattempo e dal comportamento, anche questo, non sempre prevedibile delle “masse” messe in movimento. Oltre che dal tradimento degli intenti iniziali messo in atto da Stalin e dai suoi accoliti già ben prima della morte di Lenin nel 19242.

In realtà la propaganda bolscevica in Oriente aveva preso forma in un’assemblea che si era riunita a Baku durante il settembre del 1920. Zinoviev e Radek, Presidente e Segretario del Comintern, e Bela Kun giunsero espressamente da Mosca a questo «Congresso dei Popoli dell’Oriente». Ma fu quella una strana adunata, un museo di costumi orientali, una Babele linguistica, una confusione di idee e di fini: Indù, Turchi, Uzbechi, Ingusci, Persiani, Ceceni, Turcomanni, Armeni, Baschkiri, Calmucchi, Ucraini, Russi, Tagiki, Georgiani, in tutto 1891 delegati, appartenenti a trentasette nazionalità erano presenti, mentre una schiera di interpreti urlava dal palco.

Lenin aveva preso in mano una matita e calcolato che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia ed il Giappone, con una popolazione di circa un quarto di miliardo, dominavano paesi e colonie con una popolazione di due miliardi e mezzo: questo fu il messaggio che gli inviati del paese dei Soviet portarono al Congresso di Baku.
La politica del Comintern venne esposta da Zinoviev la sera del 1° settembre: «L’Internazionale Comunista», egli annunciò, «si rivolge oggi ai popoli d’Oriente e dice loro: Fratelli, vi invitiamo ad una Guerra Santa innanzi tutto contro l’imperialismo britannico». «Jihad, Jihad » tuonarono, secondo un osservatore dell’epoca, i delegati. Ognuno saltò in piedi; pugnali tempestati di pietre preziose vennero branditi, spade damascate vennero sfoderate dalle loro guaine, pistole uscirono dalle loro custodie e vennero levate in alto, mentre i loro possessori urlavano: « Lo giuriamo, lo giuriamo ».

Quella riunione passò alla storia sotto il nome di «Primo Congresso dei Popoli d’Oriente ». Esso istituì un’organizzazione permanente nell’idea che sarebbero seguite adunate annuali o periodiche. Malgrado, però, il giuramento sulle armi, la Guerra Santa venne concepita come un’offensiva non militare diretta dal Consiglio di Propaganda ed Azione creato dal Congresso sul tipo del Consiglio d’Azione dei Sindacati Britannici. «La fanteria d’Oriente rinforzerà la cavalleria d’Occidente», come si affermò allora.

Le nazioni orientali, che interessavano il Congresso, erano soprattutto la Turchia, la Persia, 1’Afghanistan e l’India; in esse la parte che aveva l’Inghilterra era la più importante; l’Inghilterra era la più disprezzata; l’imperialismo britannico si offriva quindi in primo piano all’attenzione dell’assemblea. In ciò si manifestava la continuità con la politica zarista che dell’Impero britannico, almeno fino all’alleanza anti-tedesca nel corso del primo macello imperialista, aveva fatto la sua bestia nera in Asia, poiché ne bloccava ‘espansione sia verso l’Oceano Indiano che verso il Pacifico, oltre che averne bloccato l’espansione verso il Mediterraneo già all’epoca della guerra di Crimea (1853-1856)3. Anche se, per paradosso della Storia, a bloccare definitivamente la corsa imperiale zarista verso il Pacifico era stato, nel 1905, il piccolo ma agguerrito e tecnologicamente già più avanzato Giappone imperiale.

Ma i britannici, seppur sfiancati dalla guerra[…] Avevano ancora i più temibili servizi segreti del mondo, i cui tentacoli si estendevano ovunque. Ne seguì una lotta clandestina per il controllo dell’India e dell’Oriente, la cui storia è narrata in questo libro. Ambientato perlopiù in Asia centrale, nel punto di incontro di tre grandi imperi, britannico, russo e cinese, esso è un intreccio di macchinazione e tradimento, barbarie e terrore e, a volte, di vera e propria farsa.
Laddove possibile, lo racconterò attraverso le avventure e disavventure di coloro che, da tutti i fronti, presero parte a questa guerra mai dichiarata. Dalle più remote postazioni d’ascolto, ben oltre il confine dell’India, gli ufficiali dei servizi segreti anglo-indiani sorvegliavano ogni mossa dei bolscevichi contro l’India per riferirla ai superiori, a Delhi e Londra. I loro nomi sono ormai dimenticati da tempo, sepolti negli abissi degli archivi segreti dell’epoca, ma è proprio dai loro rapporti e dalle loro memorie che ho ricostruito gran parte di questa narrazione4.

I protagonisti, spesso dimenticati tra le pagine polverose del libro della Storia, sono un pugno di ufficiali inglesi5, l’indiano M.N. Roy (rivoluzionario di professione e teorico del marxismo, ai primi posti tra i ricercati dai servizi di intelligence britannica) e il russo Michail Borodin, che condivideva con Roy l’idea che la liberazione dei lavoratori oppressi d’Oriente potesse avvenire soltanto per mezzo di un’insurrezione violenta.

Accanto a questi ve ne sono almeno altri tre che val la pena di segnalare, il cui obiettivo era però ricollegabile ad una sete di potere e, almeno in un caso, ad una crudeltà che solo la lunga guerra combattuta senza regole su quei fronti avrebbe potuto soddisfare.

Quello di gran lunga più famoso fu un generale psicopatico dell’Armata Bianca, Ungern-Sternberg, “il barone pazzo”, le cui spaventose atrocità, in Mongolia, vengono ancora oggi ricordate con orrore6,
L’altro che tentò la fortuna fu Enver Pasha, esuberante generale turco, sconfitto in tempo di guerra e poi esiliato in Asia centrale. Dopo aver fatto il doppio gioco con il suo ospite Lenin, cercò di fomentare una guerra santa contro i bolscevichi senza Dio, facendo appello alle masse musulmane dell’Asia sovietica. Inferiore per numero e per armamenti rispetto all’Armata Rossa, l’affascinante turco andò incontro alla fine, con spregiudicato coraggio, ai piedi del Pamir. Si dice che ancora oggi alcuni suoi connazionali si rechino in pellegrinaggio segreto alla tomba solitaria del loro eroe.
L’ultimo ad ambire a un impero fu un giovane ma carismatico signore della guerra di nome Ma Zhongying, noto anche come “grande cavallo”. Un idealista musulmano cinese poco più che adolescente, che lasciò una scia di sangue attraverso il deserto del Gobi prima di fuggire a ovest lungo la Via della Seta su un autocarro rubato, inseguito dai bombardieri sovietici7.

Gli altri protagonisti anonimi di queste vicende furono i cavalleggeri dell’Armata rossa, i pastori guerrieri e guerriglieri delle montagne e dei deserti compresi tra il Caucaso, l’India e la Cina, oltre che mercanti, banditi, signorotti locali e signori della guerra, tutti travolti in un flusso di eventi che portarono, molto spesso, ad altri risultati rispetto a quelli previsti dalle parti in lotta.

Infatti il primo congresso dei popoli d’Oriente rimase anche il solo. Lo stabilimento di relazioni diplomatiche normali fra i Governi dei paesi orientali e quello russo incominciò ad aver la precedenza sulle relazioni fra i movimenti rivoluzionari dei paesi orientali ed il movimento rivoluzionario russo e le possibilità rivoluzionarie vennero sacrificate sempre di più al desiderio dei Sovietici di aver contatti, sulla base di trattati, con gli stati non rivoluzionari.

Là dove, invece, i bolscevichi riuscirono a prendere in mano la situazione, come ad esempio nel Caucaso e nei territori limitrofi, si ridiede vita ad un atteggiamento di governo “Grande Russo” che richiamava alla memoria la politica di dominio zarista. Alimentata dal georgiano Stalin e dai suoi fedelissimi, come ad esempio l’altro georgiano Grigorij Konstantinovič Ordzonikidze, fu al centro di una delle ultime, disperata battaglie di Lenin per impedire la degenerazione della Rivoluzione che aveva contribuito a realizzare.

Anche il progetto di mobilitare il proletariato occidentale a seguito della rivoluzione in Oriente era destinato a fallire anche se oggi si può affermare che l’unico vero risultato permanente della rivoluzione russa e dei suoi tentativi di esportarla fu conseguito con il risveglio dell’Asia, già immaginato da Lenin, e la conseguente liberazione della Cina dal dominio occidentale e il suo successivo sviluppo come grande potenza economica e commerciale (oltre che tecnologica e, probabilmente, militare).

Nel documentatissimo libro di Hopkirk non è soltanto contenuto in nuce tutto ciò, ma anche le radici politiche, sociali, religiose ed economiche delle altre e più recenti vicende cecene e afgane. Una lunga scia di sangue, di speranze infrante, di odi etnico-religiosi e tribali e, soprattutto, di giochi imperiali che ancora oggi non si è interrotta.


  1. Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme, Mimesis 2021, pp. 15-16  

  2. Si veda in proposito Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari 1969  

  3. Sul problema storico della mancata espansione russa verso i mari e gli oceani si veda: Toti Celona, La Russia sul mare, Longanesi & C., Milano 1968  

  4. P. Hopkirk, op. cit., p. 16  

  5. Il colonnello Bailey, il colonnello Percy Etherton e Sir Wilfrid Malleson, personaggio tutt’altro che piacevole, precursore nella specialità del gioco sporco, che gestiva una vasta rete di spie e agenti segreti nel nord-est della Persia, la cui maggiore soddisfazione fu quella di far scannare fra loro bolscevichi e afghani, lasciando sapientemente trapelare presso l’uno il doppio gioco dell’altro (inventandolo, là dove era necessario).  

  6. Sulla sua fosca figura si veda: Vladimir Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi, Milano 2012 e Renato Monteleone, Il Quarantesimo Orso. La saga di un “barone pazzo” tra le rovine dell’Impero Zarista, Gribaudo 1995  

  7. P. Hopkirk, op. cit., p. 20  

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I diari di Raqqa https://www.carmillaonline.com/2017/10/08/40996/ Sat, 07 Oct 2017 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40996 di Giovanni Iozzoli

Samer, I diari di Raqqa. Vita quotidiano sotto l’Isis (a cura di Gianpaolo Cadalanu), Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 114, € 15,00

Samer è lo pseudonimo di un’attivista di Raqqa che, per alcuni mesi, ha raccontato al mondo la vita quotidiana degli uomini e delle donne di Raqqa, sotto il governo dello Stato Islamico, che aveva fatto del centro, a nord della Siria, la sua capitale-simbolo. In una città chiusa e occupata da un controllo asfissiante delle comunicazioni, i messaggi, poco più che post, viaggiavano clandestinamente in forma criptata e venivano [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Samer, I diari di Raqqa. Vita quotidiano sotto l’Isis (a cura di Gianpaolo Cadalanu), Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 114, € 15,00

Samer è lo pseudonimo di un’attivista di Raqqa che, per alcuni mesi, ha raccontato al mondo la vita quotidiana degli uomini e delle donne di Raqqa, sotto il governo dello Stato Islamico, che aveva fatto del centro, a nord della Siria, la sua capitale-simbolo. In una città chiusa e occupata da un controllo asfissiante delle comunicazioni, i messaggi, poco più che post, viaggiavano clandestinamente in forma criptata e venivano poi raccolti e diffusi dalla BBC. Quest’ultimo dettaglio potrebbe rendere meno credibile la narrazione (tra la Siria e l’Iraq, la quantità di bugie, cinismo e disinformazione messa in campo dall’Occidente non ha precedenti nella storia), se non fosse che il racconto è assolutamente verosimile e corroborato da molte altre testimonianze giunte dalle zone occupate.

Del resto l’Isis ha fatto delle ferocia il suo brand pubblico ed esibito, e quando Samer racconta del clima di terrore imposto in città, non ci vuole molta immaginazione per credergli. La vita di questo “cronista per caso” assomiglia probabilmente a quella di centinaia di migliaia di siriani ed iracheni che tra il 2013 e il 2016, si sono ritrovati a vivere dentro un fosco incubo: truppe d’occupazione multinazionali, guidate da fanatici, sadici e criminali, avevano occupato i loro territori e le loro comunità, forti di logistica, arsenali e risorse economiche di enorme efficacia. Com’era potuta materializzarsi, questa specie di invasione aliena?Cosa stava accadendo, tra il disfacimento dello Stato iracheno e l’inizio dei tumulti anti-Assad in Siria?

Nel 2012, Al Qaeda in Iraq aveva volto le sue mire verso la Siria, sotto l’input degli Stati Uniti, di Israele, della Turchia e dei paesi del Golfo, tutti ansiosi di scalzare l’arcinemico alawita. In quel momento Abu Bakhr Al Baghdadi era un anonimo detenuto americano nelle prigioni irachene: venne evidentemente prescelto, liberato e ben fornito per ottemperare a un preciso obiettivo, rovesciare Assad e distruggere la Siria.

Dentro questi complessi piani genocidi di ridisegno del medio-oriente, la vita di milioni di ragazzi come Samer finisce stritolata: gli abitanti di Raqqa si ritrovano addirittura sudditi della capitale di un risorto Califfato e devono presto abituarsi a vivere sul un filo del rasoio; sotto il governo dell’Isis il confine tra la vita e la morte è sottile e labile. Basta un sospetto, o l’adozione in pubblico di un comportamento non shariaticamente ineccepibile, per incappare nell’arresto, la tortura o l’eliminazione. Organizzare un canale d’informazione clandestina in questo contesto, richiede un coraggio straordinario.

Mi sono chiesto cosa spinga una persona a raccontare come ha fatto Samer. Lui sapeva che così avrebbe messo a rischio non solo se stesso, ma anche le persone a lui care. La risposta è evidente nei suoi diari. Dopo aver visto amici e e parenti massacrati, la vita della sua comunità a pezzi e l’economia locale distrutta dagli estremisti, il nostro coraggioso diarista ha pensato che raccontare al mondo quello che stava accadendo alla sua amata città potesse essere il modo migliore di reagire (p. 16 , Prefazione di Mike Thompson).

L’incubo di Raqqa comincia ambiguamente, una mattina di marzo 2013, quando la città si sveglia senza i soldati e la polizia siriani – tutti fuggiti – e la città governata, de facto, dai ribelli anti Assad:

Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Corsi fuori e vidi le auto con la bandiera dell’Esercito Libero Siriano. Una si ferma proprio davanti a me. Un uomo si sporse dal finestrino e mi disse di non avere paura. Era venuto insieme ai suoi compagni per liberarci tutti dalla tirannia e dalla corruzione, disse. – Siamo tuoi fratelli -, aggiunse (p. 25).

La festa dura poco. Le formazioni che l’Occidente generosamente definisce “ribelli democratici” (compresi, incredibilmente, i qaedisti di al Nusra) vengono presto liquidate o cooptate da Daesh, che prende il controllo di Raqqa in breve tempo:

in un primo momento incantavano le persone con discorsi suadenti, promettendo loro la luna. Io non la bevvi… I primi che entrarono in città erano davvero convinti di essere venuti lì per salvarci. Gli altri erano molto più violenti (p.26).

Comincia l’oppressione infinita sulla vita quotidiana e i comportamenti degli abitanti: il pretesto della sharia e del rigore religioso, serve a Daesh a legittimare il suo monopolio della forza e la ferocia con cui lo esercita.

Il paradosso è che tale controllo sulla morale pubblica, viene condotto da truppe straniere, provenienti dal Caucaso, dalla Bosnia, dal Magreb, spesso dalle periferie delle metropoli europee; giovanotti di scarsissima formazione religiosa e dall’indole violenta, pretendono di insegnare l’Islam nelle terre in cui esso visse i suoi secoli d’oro. La popolazione, secondo Samer, li percepisce subito come invasori, ignoranti e pericolosi:

I miliziani di Daesh hanno iniziato a vendicarsi di tutti quelli che si oppongono… Li accusano di apostasia, ma è solo un’altra scusa per un’esecuzione. Ogni giorno fanno riunire la folla in piazza, come volessero mettere in scena una commedia. Eseguono anche alcune punizioni brutali nelle rotonde, proprio nel bel mezzo di strade trafficate. Sono decisi a mostrare a più persone possibili cosa accade a chi li delude. Non riesco a credere a quello che accade a chi li delude (p. 29).

L’accusa di apostasia è lo strumento con cui si può eliminare chiunque senza processi o remore umanitarie. È il lascito più venefico del whabismo, l’ideologia saudita, – delle cui derivazioni moderne i jhiadisti di tutto il mondo si nutrono. Fu il wahabismo a porre per la prima volta nella storia dell’Islam la minaccia apostatica sui dissidenti: chi non condivideva una determinata interpretazione teologica (o politica), era considerato “rinnegatore della religione” – mutazione sostanziale nella storia plurale e millenaria di un credo che non aveva mai avuto un’autorità centrale di legittimazione e certificazione di ortodossia.

Daesh costruisce a Raqqa una rete soffocante di spie, controlla la rete delle telecomunicazioni, chiude gli internet point, sanziona ogni comportamento pubblico non ritenuto ortodosso, mediante una “polizia della virtù” che sorveglia abbigliamento, tempo libero ed osservanza religiosa del popolo di Raqqa. L’autore deve subire 40 frustate pubbliche per un sospetto di imprecazione. E dentro questo clima di follia i servizi pubblici e sanitari, chiudono per l’incuria o l’applicazione di regole demenziali.

Il racconto si snoda in un rosario di sofferenze: la città comincia ad essere bombardata – dai russi, dagli americani, dai governativi, anche dai francesi, dopo il Bataclan. Le condizioni di vita peggiorano sempre di più e al sangue versato dalle milizie Daesh si aggiunge la conta delle vittime dei raid aerei, tra cui il padre di Samer.

Alla fine il narratore capisce di essere entrato nel mirino dei miliziani che lo stanno tenendo d’occhio. Non può più tergiversare e decide di scappare dalla città – con modalità tortuose e pericolose, come tutto quello che riguarda questo angolo di Medioriente. Si ritrova a scrivere il capitolo finale in un campo profughi, al confine con la Turchia, in una terra di nessuno piena di tende, mutilati e disperazione:

Nel campo non c’è abbastanza cibo, né medicine, gli aerei da guerra del regime volano sopra le nostre teste. Qui molte persone dicono che preferirebbero essere già morte… Conservo molti dei miei ricordi in una piccola borsa. Foto di persone e di luoghi. Pezzi smarriti, casuali, del mio passato, pezzi che probabilmente non esistono più… C’è una foto di un nostro vicino ucciso, morto accanto ai suoi figli in un raid aereo. Le foto di un mio vecchio amico crocefisso da Daesh. Qui un’immagine della nostra casa distrutta. Altre della nostra strada ormai devastata e vuota (p. 109).

Nella bella introduzione di Cadalanu riecheggia la domanda che spesso ci si pone sul moderno jhiadismo globale: stiamo assistendo a un processo di “radicalizzazione dell’Islam” o all’evoluzione di un radicalismo nichilista che in questa fase storica indossa l’abito dell’ortodossia musulmana – e domani chissà? Cadalanu opta per questa seconda ipotesi – sociologico-esistenziale, per così dire – e racconta della sua esperienza di giornalista a Mosul:

Gli abitanti del quartiere mi hanno raccontato che i miliziani si erano stabiliti poco lontano. I locali li chiamavano i russi: molto probabilmente si trattava di integralisti del Caucaso, ceceni o daghestani. E mi è sembrato ovvio domandarmi: come si fa a lasciare un paesino freddo, innevato con le foreste, per venire a morire sulla sabbia rovente dell’Iraq, in mezzo a gente che parla un’altra lingua e che odia profondamente chi tenta di imporle regole astruse facendo riferimento ad un vero Islam? (p. 8).

E questa deriva nichilista si accompagna allo sforzo massiccio, enorme, epocale di finanziamento, addestramento e armamento di queste milizie jhiadiste, che sono diventate un autentico esercito di complemento di attori statuali in lotta per ridefinire le loro posizioni in un’area strategica del mondo. Il primo “Jhiad” – quello afghano – fu finanziato in dollari e petroldollari. Dopo quarant’anni, siamo ancora dentro quella scia di morte e distruzione, che usa il fanatismo religioso per chiari fini politici di destabilizzazione , sfruttamento e distruzione delle nazioni.

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Homo Sapiens, piante e CO2 https://www.carmillaonline.com/2017/09/21/homo-sapiens-piante-co2/ Wed, 20 Sep 2017 22:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40558 di Sandro Moiso

Luigi Mariani, Origini e viaggi avventurosi delle piante coltivate, Mattioli 1885 2017, pp. 90, € 9,90

L’agile, sintetico e, talvolta, problematico testo di Luigi Mariani, docente di Storia dell’agricoltura presso l’Università di Milano, può costituire un’interessante integrazione al testo di Nikolaj Ivanovič Vavilov sulle origini delle piante coltivate recensito qualche tempo fa proprio qui su Carmilla. Certamente tra le due pubblicazioni sono trascorsi almeno novant’anni, ma i riferimenti che l’autore fa, soprattutto all’inizio del testo, all’opera al genetista e botanico sovietico rende questa pubblicazione di Mattioli 1885 iscrivibile nella grande ricerca iniziata, ormai più di un secolo [...]]]> di Sandro Moiso

Luigi Mariani, Origini e viaggi avventurosi delle piante coltivate, Mattioli 1885 2017, pp. 90, € 9,90

L’agile, sintetico e, talvolta, problematico testo di Luigi Mariani, docente di Storia dell’agricoltura presso l’Università di Milano, può costituire un’interessante integrazione al testo di Nikolaj Ivanovič Vavilov sulle origini delle piante coltivate recensito qualche tempo fa proprio qui su Carmilla. Certamente tra le due pubblicazioni sono trascorsi almeno novant’anni, ma i riferimenti che l’autore fa, soprattutto all’inizio del testo, all’opera al genetista e botanico sovietico rende questa pubblicazione di Mattioli 1885 iscrivibile nella grande ricerca iniziata, ormai più di un secolo or sono, sull’interazione tra uomo, ambiente e sviluppo dell’agricoltura.

Il contributo dato da Mariani si fonda soprattutto sulle conoscenze metereologiche sviluppate nel corso del suo precedente insegnamento di Agrometereologia presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Milano e questo lo contraddistingue dall’opera di Vavilov citata,1 per l’ampio spazio dato, nella prima parte del testo, alla metereologia, alle correnti atmosferiche e all’importanza dell’anidride carbonica (CO2) per lo sviluppo della vegetazione sulla terra.

Anche se l’autore si concentra in particolare sull’Olocene, l’ultima fase del Quaternario che ha avuto inizio dai 10 agli 11.000 anni fa e che corrisponde grosso modo al Neolitico, il periodo in cui ha avuto inizio e si è sviluppata l’agricoltura, non manca di spingersi più indietro nel tempo fino a milioni di anni fa per rilevare i ripetuti periodi di riscaldamento e di glaciazione del pianeta che hanno di volta in volta favorito o rallentato lo sviluppo della vita sulla terra.

Utilizzando, fin dove è possibile, le serie storiche e i dati accertati e affidandosi, in altri casi, alle testimonianza degli scrittori antichi oppure dei testi mitologici, non ultima la Bibbia, Mariani riesce, in maniera convincente, a tracciare l’intricata interazione tra ere geologiche, modificazioni climatiche e successive attività umane.

Soprattutto prendendo a modello la vite da uva e la sua diffusione verso il Mediterraneo a partire dal Caucaso come case study , Mariani riesce a riunire tra di loro le comuni memorie mitiche del Diluvio Universale, appartenenti a popoli e culture estremamente diverse e lontane tra di loro, collegandole tutte al momento in cui l’innalzamento di circa 120 metri del livello dei mari e degli oceani ebbe luogo tra i 14.000 e egli 8.000 anni fa al termine dell’ultima grande glaciazione.

Sembra giusto parlare di “grande glaciazione” poiché nei secoli seguenti si alternarono periodi in cui secoli di siccità anticipavano e avrebbero poi seguito periodi di nuove, piccole glaciazioni. L’ultima delle quali, studiata in particolare dallo storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie, sarebbe avvenuta tra la metà del XIV secolo e la metà del XIX.2 Tale periodo, legato probabilmente ad una minore attività del Sole e delle macchie solari,3 seguì infatti ad un periodo in cui sulle Alpi era possibile trovare vigneti fino ad un’altezza di 1250 metri slm, mentre ancora oggi l’altezza massima a cui è possibile rintracciare la viticoltura si aggira intorno agli 800 metri.

La vite coltivata (Vitis vinifera) afferisce al genere Vitis, le cui impronte fossili sono state reperite nel Nord Europa e risalgono al Terziario antico, intorno a 65 milioni di anni fa. Durante il Terziario recente, iniziato 23 milioni di anni fa, la separazione tra l’America e l’Eurasia favorì la speciazione degli antenati della vite, per cui in America e in Asia Orientale si registrò l’evoluzione di diverse specie mentre in Europa e Asia Occidentale si affermò un’unica specie, Vitis vinifera ssp. sylvestris, antenato selvatico della vita domestica.
Nel corso delle glaciazioni quaternarie (ultimi 2,5 milioni di anni) la zona mite a sud del Gran Caucaso fu un’importante zona rifugio per molte specie tra cui la vite. Ciò probabilmente promosse il consumo di uva selvatica da parte dei cacciatori- raccoglitori ponendosi all’origine della successiva valorizzazione di questa pianta da parte delle popolazioni neolitiche insediatesi in ambito sub-caucasico
4 Ecco fin dove si spinge la storia del bicchiere di vino che magari sta accompagnando chi legge queste poche righe.

Il libro di Mariani costituisce una lettura che, nonostante il numero limitato di pagine, farà fare al lettore un’incredibile ed emozionante cavalcata attraverso le culture, le vie (non ultima quella della Seta), i traffici, i contatti, le navigazioni e gli scambi che hanno accompagnato l’interazione tra Homo Sapiens e piante da coltura fin da prima della Rivoluzione Neolitica.
Come afferma l’autore, infatti, “la dispersione delle piante e dell’uomo nel nostro pianeta è un vero viaggio nel tempo5

Oggi siamo per lo più abituati a considerare che sia l’uomo ad «imporre» alle piante i caratteri «domestici» (dimensione, colore, sapore, etc.) ma un ruolo di rilievo può essere stato giocato anche dagli animali consumatori. Un esempio in tal senso è offerto dal melo, che nell’areale di origine (il Kazakistan) sarebbe stato selezionato dall’orso, il quale avrebbe scelto individui con grandi frutti, sapore dolce (accumulo di amido e poi di glucosio), un calendario di maturazione amplissimo e che si estende da luglio a novembre con varietà precoci e medie da consumare in estate e varietà molto tardive che si conservano fino a fine inverno per cui possono essere consumate all’uscita del letargo (le odierne mele invernali da cuocere). Il melo si sarebbe poi diffuso dal kazakistan verso occidente e verso oriente lungo la via della seta, grazie alla diffusione dei semi con le feci degli esseri umani e dei cavalli che si nutrivano di mele passando per il Kazakistan6

Ciò che rende invece il libro problematico, senza per questo renderlo meno interessante, è il fatto che l’autore sembra voler far dipendere l’attuale situazione climatica quasi esclusivamente dai fattori di lungo termine (ad esempio l’attività solare) e troppo poco dalle scelte fatte dall’uomo e dal modo di produzione vigente, anche là dove si afferma che “il trend di crescita delle temperature in atto dalla fine della piccola era glaciale è probabilmente influenzato dalle attività umane. In tal senso Ziskin e Shaviv, applicando un Energy Balance Model, hanno stimato che il 60% del trend crescente delle temperature globali osservato nel XX secolo è di origine antropica ed il 40% sarebbe di origine solare. Al riguardo si deve considerare che nel XX secolo il sole ha fatto registrare uno dei periodi di maggiore attività dalla fine dell’ultima glaciazione, tanto che per trovarne uno analogo occorre portarsi a oltre 8800 anni or sono e cioè all’inizio del grande optimum post-glaciale7

Gli altri due punti, ad avviso di chi scrive, discutibili riguardano l’eccessiva fiducia riposta nell’importanza dell’anidride carbonica per lo sviluppo delle piante, senza tenere sufficientemente conto dei danni provocati da questa a livello respiratorio per la specie umana, anteponendo, probabilmente involontariamente, la redditività degli investimenti nell’agricoltura alla salute. Come pure, sempre anteponendo l’aumento della produttività alle sue conseguenze, la fiducia riposta in quella che l’autore definisce come la decima rivoluzione tecnologica tra quelle che più hanno segnato la storia dell’agricoltura: quella genetica.

Per eccesso di entusiasmo, forse tipico degli ambienti universitari se si prendono ad esempio i suggerimenti dell’Università di Bari a proposito della coltura dell’ulivo nel Salento,8 le modificazioni genetiche introdotte industrialmente per aumentare la produttività (quasi mai la qualità) agraria, vengono messe sullo stesso piano delle modificazioni apportate sì dall’uomo sulle piante da coltura attraverso la loro domesticazione e selezione, dimenticando però che tale processo si è svolto nell’arco di secoli e millenni ed è stato sperimentato sempre a partire da areali ridotti prima di essere riconosciuto come valido, utile e non dannoso per l’applicazione successiva e vantaggiosa in altre aree coltivate.

Detto questo, il testo rimane di grande utilità per chi si interessi, non solo a livello professionale o di studio, di agricoltura, ambiente e dei rapporti che questi intrattengono con la specie umana di ieri, oggi e (speriamo) soprattutto domani.


  1. Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016  

  2. E. Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi 1982 (prima edizione francese 1967)  

  3. Anche se attualmente non è noto nessun collegamento diretto tra basso numero di macchie solari e basse temperature terrestri (Radiative Forcing of Climate Change: Expanding the Concept and Addressing Uncertainties, National Research Council, National Academy Press, Washington, D.C., 2005)  

  4. pag.69  

  5. pag.7  

  6. pag.15  

  7. pp. 42-43  

  8. Cfr. https://www.carmillaonline.com/2017/09/03/guerra-agli-ulivi/  

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