Berlino – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Oct 2025 23:01:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Passeggiare a Berlino https://www.carmillaonline.com/2024/09/24/__trashed/ Tue, 24 Sep 2024 05:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84505 di Domenico Gallo

Ogni persona che, a partire dalla Porta di Brandeburgo, si diriga verso Alexanderplatz, percorrendo la storica Unter den Linden, si trova a un certo punto a un crocevia della storia. È un tratto senza i tigli in cui il cortile della Humboldt-Universität fronteggia l’ampio spazio vuoto di quella che oggi è Bebelplatz. Il 10 maggio del 1933, quando ancora la piazza non era stata dedicata ad August Bebel, il fondatore del Sozialdemokratische Arbeiterpartei, si chiamava Opernplatz ed è stato il luogo in cui i giovani nazionalsocialisti della Deutsche Studentenschaft, accompagnati da professori, SA, SS e spettatori eccitati, [...]]]> di Domenico Gallo

Ogni persona che, a partire dalla Porta di Brandeburgo, si diriga verso Alexanderplatz, percorrendo la storica Unter den Linden, si trova a un certo punto a un crocevia della storia. È un tratto senza i tigli in cui il cortile della Humboldt-Universität fronteggia l’ampio spazio vuoto di quella che oggi è Bebelplatz. Il 10 maggio del 1933, quando ancora la piazza non era stata dedicata ad August Bebel, il fondatore del Sozialdemokratische Arbeiterpartei, si chiamava Opernplatz ed è stato il luogo in cui i giovani nazionalsocialisti della Deutsche Studentenschaft, accompagnati da professori, SA, SS e spettatori eccitati, all’apice della campagna di purificazione dalle opere contrarie allo “spirito tedesco”, diedero luogo al rogo dei libri, i Bücherverbrennungen. Nonostante la pioggia, i libri, che erano stati rastrellati nei giorni precedenti dalle biblioteche sulla base di una lista molto accurata, vennero gettati tra le fiamme alimentate dalla benzina all’interno di uno studiato rituale. Fu Joseph Goebbels a dirigere la sceneggiata del Bücherverbrennung di Berlino pronunciando le motivazioni che avrebbero dovuto giustificare la più generale messa al bando di quelle letture.

Contro la lotta di classe e il materialismo, per la comunità di popolo e uno stile di vita idealista!
Consegno al fuoco gli scritti di Marx e Kautsky.  Contro il decadimento e la rovina morale! Per la disciplina e la morale nella famiglia e nello stato!
Consegno alle fiamme gli scritti di Heinrich Mann, Ernst Glaeser e Erich Kästner. Contro l’opportunismo e il tradimento politico, per la dedizione totale al popolo e allo stato!
Consegno al fuoco gli scritti di Friedrich Wilhelm Foerster. Contro la sopravvalutazione delle pulsioni istintive che sfibra l’animo, per la nobiltà dell’anima umana!
Consegno alle fiamme gli scritti di Sigmund Freud. Contro la falsificazione della nostra storia e la degradazione delle sue grandi figure, per l’ossequio al nostro passato!
Consegno alle fiamme gli scritti di Emil Ludwig e Werner Hegemann. Contro il giornalismo nemico del popolo di stampo democratico-giudaico, per la partecipazione responsabile al lavoro di costruzione nazionale!
Consegno alle fiamme gli scritti di Theodor Wolff e Georg Bernhard. Contro il tradimento letterario dei soldati della Grande Guerra, per l’educazione del popolo per la propria autodifesa!
Consegno alle fiamme gli scritti di Erich Maria Remarque. Contro la arrogante adulterazione della lingua tedesca, per la cura del bene più prezioso del nostro popolo!
Consegno alle fiamme gli scritti di Alfred Kerr. Contro l’impudenza e la presunzione, per l’attenzione e l’ossequio allo spirito immortale del popolo tedesco!
Inghiotti, fiamma, anche le opere di Tucholsky e Ossietzky!

Lo scrittore per ragazzi e pacifista Erich Kästner era presente al rogo e sentì scandire il proprio nome mentre i suoi volumi venivano gettati tra le fiamme assieme a quelli di Franz Kafka, Herbert George Welles, Jack London, Joseph Conrad, Aldous Huxley, Ernst Hemingway, Bertold Brecht e molti altri. Le cronache raccontano che furono oltre 20.000 i volumi bruciati e che gli spettatori sarebbero arrivati a 40.000, ma il dato interessante è che nel mese di maggio del 1933 la corposa lista dei libri proibiti comportò che questi vennero capillarmente ritirati dalle biblioteche di tutta la Germania, sopravvivendo solo nascosti nelle case private.

Institut für Sexualwissenschaft, maggio 1033

Il rogo di Berlino fu solo il più noto di una serie di incendi rituali che già si erano diffusi in Germania a partire da Dresda, per essere ripetuti a Monaco di Baviera, Lipsia, Düsseldorf, Heidelberg, Münster, Wuppertal, Magdeburgo, Würzburg e in altri centri più piccoli. I libri bruciati a Berlino provenivano dalla straordinaria biblioteca del vicino Institut für Sexualwissenschaft, l’Istituto di Sessuologia che Magnus Hirschfeld aveva fondato nel 1919 e che si situava sul bordo del Tiergarten, vicino all’attuale Hannah-Arendt-Straße, a un centinaio di metri dal Denkmal für die im Nationalsozialismus verfolgten Homosexuellen, il parallelepipedo opera di Michael Elmgreen e Ingar Dragset che costituisce il memoriale dedicato agli omosessuali vittime del nazismo, e il luogo dove i corpi di Hitler ed Eva Braun sono stati bruciati, oggi un piazzale che funge da posteggio e tra le cui erbacce i cani degli abitanti di questo quartiere elegante lasciano i loro bisogni. Un cartellone molto approfondito e rigoroso di informazione storica intitolato “Miti e testimonianze storiche del bunker di Hitler” marca sobriamente su di un lato del posteggio il luogo in cui la coppia criminale  è stata bruciata con difficoltà da due ufficiali intermedi delle SS.

Bebelplatz che si era ritrovata nel settore sovietico di Berlino, era un grande spazio tra il Teatro dell’Opera e la facoltà di legge che si contraddistingueva per la povertà di segni che ricordavano il rogo. Un monumento quasi invisibile, solo un pannello trasparente collocato da Micha Ullman sul selciato che consentiva di intravedere un sotterraneo di librerie vuote e, poco lontano, una targa con dei versi di Heinrich Heine: “Quando vengono bruciati i libri, alla fine verranno bruciate anche le persone”.

La Humboldt-Universität, al contrario, trabocca del proprio passato. Fondata nel 1810 come Universität zu Berlin, dal 1828 prese il nome di Friedrich-Wilhelms-Universität, anche se i berlinesi la chiamavano familiarmente Universität unter den Linden, e nel 1949, nell’anno in cui venne fondata la DDR, ottenne il nome attuale. Una targa posta sotto una finestra che si affaccia sul marciapiede ricorda gli anni dedicati da Max Planck all’insegnamento e alla scoperta della costante h, mentre davanti all’inferriata, come due leoni di guardia, si ergono le statue marmoree dei fratelli Wilhelm e Alexander von Humboldt; linguista e filosofo il primo, naturalista ed esploratore il secondo. Figure austere dell’aristocrazia prussiana ma progressisti e innovatori, i von Humboldt hanno condiviso l’università con le più importanti figure della Germania, filosofi e intellettuali come Fichte, Hegel, Schopenhauer, Schelling, Benjamin, Marx, Engels, Bismarck, Heine, Döblin, Liebknecht, ma anche il francese de Saussure, fino al dottorato onorario conferito all’attivista afroamericano W.E.B. Du Bois. Nel cortile altre tre statue, il marmo classico per il fisico Hermann von Helmholtz, tra i fondatori della termodinamica, e due bronzi essenziali dalle linee contemporanee per Max Planck e per l’esile figura di Lise Meitner, l’ultima arrivata nel prato. Lise Meitner, austriaca ed ebrea, era stata allieva di Ludwig Boltzmann e collaborò con Otto Hahn agli studi di fisica nucleare che condussero alla fissione dell’atomo e all’assegnazione del premio Nobel per fisica del 1944. Docente di fisica sperimentale fino al 1933, il nazismo le proibì l’insegnamento, e visse nell’università il dramma della nazistificazione della scienza tedesca fino al 1938, anno in cui fuggì in Svezia grazie alla collaborazione di Hahn.

L’università di Berlino fu il centro dell’estenuante lotta di Planck contro il dilagare dell’ideologia nazista e la delirante campagna “epistemologica” dei Deutsche Physiker, anche noti come i seguaci dell’Arische Physik. Secondo la critica portata avanti con violenza dal movimento politico nazista creato da due premi Nobel come Philip Lenard e Johannes Stark, gli ebrei praticavano una scienza diversa da quella dei veri tedeschi, una fisica matematicizzata e astratta, mentre la cultura ariana richiedeva un approccio diretto, tipico della fisica sperimentale, in cui il fisico si scontrava con la Natura per carpirne i segreti. Una concezione mistica che facevano provenire dalla “Naturphilosophie” di Goethe e che, pur senza gli eccessi del nazismo, ha oggi ancora molti seguaci tra le culture irrazionaliste e New Age. Fu soprattutto la relatività ristretta, formulata da Albert Einstein nel 1905, a essere stata oggetto di attacchi politici da parte di membri del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, il Partito Nazional-Socialista dei Lavoratori Tedeschi, che la giudicavano il paradigma di una concezione ebraica della scienza. Planck e la e Deutsche Physikalische Gesellschaft, la Società di fisica tedesca di cui era un membro autorevole, si impegnarono nella difesa della relatività anche partecipando a dibattiti organizzati dai Deutsche Physiker, spesso caratterizzati da provocazioni e aggressioni verbali. La relatività generale, ovviamente, non era neppure lontanamente compresa dai detrattori di Einstein, e il “linciaggio” si limitava alla relatività speciale che era, già all’epoca della sua prima pubblicazione nel settembre del 1905 sulla rivista Annalen der Physik, completamente accettata dalla comunità scientifica mondiale, con l’esclusione di pochi casi patologici. La Deutsche Physikalische Gesellschaft, che raccoglieva i fisici tedeschi dal 1845, ha rappresentato un’associazione che con ostinazione e coraggio si è contrapposta al nazionalsocialismo e alle sue leggi, pur agendo sempre all’interno del settore della formazione e della ricerca e senza mai arrivare a una critica politica complessiva del nazismo, ma dal nascere della cultura nazista affrontò e tentò di contenere il gruppo minoritario dei Deutsche Physik. La legge per il ripristino del servizio civile professionale, traduzione della norma nota come “Gesetz zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums”, in vigore dal 7 aprile 1933, e quindi quasi contemporanea al Bücherverbrennung, aveva stabilito che ebrei e oppositori politici dovevano essere licenziati dalla Pubblica amministrazione. Inizialmente le facoltà di fisica tedesche e gli enti di ricerca ritardarono l’applicazione della norma, mentre la Deutsche Physikalische Gesellschaft impiegò anni a espellere i fisici affiliati di origine ebraica. Per il presidente dell’Associazione Max von Laue, la persecuzione di Galileo e la censura delle sue teorie basate sul sistema eliocentrico equivalevano agli attacchi che i Deutsche Physik portavano alla presunta “fisica ebraica” e alla teoria della relatività speciale. Plank, presidente della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft per la scienza dal 1930 al 1937, consentì segretamente a ebrei e antifascisti di lavorare all’interno degli istituti per molti anni. Intanto Stark e i Deutsche Physiker continuavano ad attaccare Plank, ma anche, Arnold Sommerfeld e Werner Heisenberg, definito come un tedesco portatore del pensiero ebreo. Nel 1944, a seguito del fallito l’attentato a Hitler da parte dei sui sostenitori delusi della classe dirigente e militare tedesca, meglio noto come il tentativo di colpo di stato Operazione Walkiria, il figlio di Planck, Erwin, fu arrestato dalla Gestapo, processato, condannato a morte e impiccato nella prigione Plötzensee di Berlino.

Max Plank alle celebrazioni per il 25° anniversario della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft, 1936

Il sacrificio di Planck, con il suo tanto dibattuto “rimanere al proprio posto”, consisteva in una lotta per consentire che i posti di comando dell’università e delle società scientifiche rimanessero saldamente in mano a fisici che non erano nazisti affiliati ai Deutsche Physik. Per salvare la fisica tedesca, nella speranza di giorni in cui sarebbe stata nuovamente libera, menomata dalla fuga e dall’arresto degli scienziati ebrei e degli oppositori politici, Planck, in prima persona, sacrificò tutta la sua autorevolezza in un processo di mediazione durato anni. Significativo è il racconto del fisico Paul Peter Ewald riportato da John L. Heilbron nella biografia di Planck I dilemmi di Max Planck che descrive cosa accadde durante una cerimonia ufficiale. “Planck, che era in piedi sul palco, sollevò la mano a mezza altezza e poi la lasciò cadere. Tornò a sollevarla e a lasciala cadere. Poi, alla fine, la mano si decise a sollevarsi e Planck disse: ‘Heil Hitler’”. Tuttavia l’apparente cedimento al nazismo di Planck non era neppure lontanamente sufficiente ad accontentare la fazione degli Deutsche Physik e Stark, da una testata come Das Schwarze Korps, il settimanale delle SS, lo accusava di essere un “weiße juden”, un “ebreo bianco”, ovvero un tedesco che è ebreo al di là della sua appartenenza genetica alla razza nordica, un ebreo nel carattere, nelle emozioni e nello spirito, colpevole di aiutare gli scienziati ebrei a sfuggire dalla giusta emarginazione in cui li ponevano le norme naziste. Seguendo le indicazioni di Plank e della Physikalische Gesellschaft, la maggior parte dei fisici tedeschi scelse l’atteggiamento di minima concessione possibile per non essere sanzionati, ma non furono esenti da critiche sia da parte degli scienziati in esilio sia nel dibattito sulla denazistificazione iniziato dopo la fine della Guerra.

Entrando nell’atrio della Humboldt-Universität il ribollire di segni si fa ancora più complesso. Sul muro di marmo, in lettere d’oro, spicca la citazione dell’undicesima tesi su Feuerbach redatta da Karl Marx nel 1845. “Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kommt aber darauf an, sie zu verändern”, ovvero la celeberrima sentenza che recita: “Finora i filosofi hanno variamente interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”. L’austerità e la classicità dell’atrio, ora percorso da studenti di tutto il mondo e da professori vestiti in maniera informale, inevitabilmente rimandano alla perversa utopia della DDR, con la sua diretta e inesauribile retorica, le diffuse ammonizioni, le aspirazioni mancate, il controllo totale dei cittadini e delle istituzioni. Berlino è disseminata di icone del socialismo burocratico, dal poco lontano Marx-Engels-Forum, meta delle foto dei nostalgici del comunismo, al Ernst-Thälmann-Park a Prentzlauer Berg, fino al Sowjetisches Ehrenmal di Treptower Park, il sacrario dell’Armata Rossa. La città ha scelto di essere un museo permanente delle proprie ferite, e, laddove ne è rimasto un segno, l’ha cristallizzato, l’ha denudato ed esposto. È come se il tempo rallentasse e accelerasse, prima denso e all’improvviso rarefatto, in modo che Berlino induca ai propri abitanti un continuo esercizio di memoria. Sulle scale della Humboldt-Universität la lunga galleria di ritratti, dipinti e fotografie, che ricordano i molti studiosi celebri che come studenti o professori hanno trascorso i loro giorni in quelle stanze, è un omaggio severo alla dedizione, al sacrificio, all’intelligenza. Oltre ai 29 premi Nobel sono esposti i volti di persone che hanno lasciato segni indelebili nella cultura umana. Solo il ritratto scarmigliato di Einstein richiama qualcosa di frivolo e allegro come le abituali immagini delle t-shirt, ma la collezione più recente è dedicata alle donne della Humboldt. Tra tutte spicca ancora Lise Meitner, evidentemente condannata ai riconoscimenti tardivi, vicino a lei, Marie-Elisabeth Lüders, la militante per i diritti civili che fu la prima donna a ottenere il dottorato in scienze politiche della Germania, e la teologa Liselotte Richter, ma l’ultimo ritratto, verso la fine del corridoio in penombra, è dedicato a una delle figure a cui l’università, nella rilettura di se stessa, rende l’omaggio più importante. Il volto tondo di Liselotte Hermann, camicia bianca e cravatta scura, la frangetta nera e gli occhiali, è quello di una giovane di poco più di trent’anni. Comunista, studente e madre, come è ricordata nei monumenti che le sono stati dedicati durante la DDR, aveva studiato all’università di Berlino mentre era militante del KPD, il Kommunistische Partei Deutschlands. Negli anni che precedono la presa del potere nazionalsocialista, Lotte, chimica e biologa, era sempre stata in prima linea nella difesa di studenti e di docenti ebrei e antifascisti, e firmataria di appelli contro le crescenti discriminazioni che avvenivano all’interno dell’università. Nel 1933 fa parte del gruppo di 111 studenti e lavoratori comunisti espulsi per l’attività politica antifascista, in applicazione della Legge per il ripristino del servizio civile professionale, e Lotte inizia immediatamente a militare nella Resistenza clandestina. Alla fine del 1933, il suo compagno, Fritz Rau, anche lui un “widerstandskämpfer”, un combattente della Resistenza, viene catturato, torturato e ucciso nel carcere di Moabit, mentre lei è incinta. La foto che la ricorda nel Gedenkstätte Deutscher Widerstand, il Museo della Resistenza tedesca di Berlino, dedicato alle centinaia di migliaia di tedeschi antifascisti che non si sono arresi, la ritrae sorridente con il bambino in braccio. Nel 1935 Lilo viene arrestata e il nucleo armato a cui apparteneva smantellato. Il 20 giugno 1938 la studente modello Lilo Hermann viene ghigliottinata nel carcere di Plötzensee. È la prima donna madre a cui la Gestapo riserva il crudele trattamento e il suo corpo verrà inviato ai laboratori dell’università a cui aveva dedicato tanta passione per esperimenti.

La resistenza di Lotte Herrmann ha dato lo spunto a molti ricordi, oltre alla lapide commemorativa allo Stadtgarten di Stoccarda, città dove aveva militato tra i comunisti, Friedrich Wolf è stato autore di un poema dedicato alla sua vita musicato da Paul Dessau nel 1954. Nel 1987 è la volta del film della DEFA, l’istituzione di produzione cinematografica della DDR, Die erste Reihe. Bilder vom Berliner Widerstand, La prima fila, Immagini della resistenza berlinese, trasmesso dalla TV di stato. Per la Repubblica Democratica la figura di Lotte Herrmann è stata l’icona fondamentale di una donna completa, militante eroica e ostinata, comunista, madre al di fuori della famiglia, coraggiosa di fronte alla tortura e a una morte atroce, che non ha tradito i compagni di lotta della Resistenza. E a lei sono state dedicate diverse istituzioni come la Pädagogische Hochschule Liselotte Herrmann, scuole e asili, fino a emettere un francobollo con la sua immagine. Oggi il suo nome ritorna nei circoli politici e tra i collettivi radicali.

Lilo è ricordata anche nel monumento collocato nel cortile settentrionale della Humboldt-Universität, un gruppo marmoreo dedicato “a coloro che sono caduti nella lotta al nazismo: la vostra morte per noi è un impegno”. Gli altri membri della Resistenza antifascista tra studenti e dipendenti della Humboldt-Universität sono: Arvid e Mildred Harnack, Liane Berkowitz, Ursula Goetze, Eva-Maria Bruch, Rosemarie Terwiel, Horst Heilmann, Ferdinand Thomas, Dietrich Bonhoeffer, George Graoscurth, Walter Arndt. Erano zoologi, economisti, studiosi di scienze politiche, chimico-fisici, teologi e studenti, alcuni di loro era membri dell’organizzazione comunista clandestina Rote Kapelle, nota come Orchestra Rossa, altri vennero arrestati e uccisi per l’attentato incendiario alla mostra antisovietica Das Sowietparadies che era stata allestita a poche centinaia di metri dall’università.

Das Sowietparadies, ironicamente Il Paradiso sovietico, era il titolo di una grande mostra pubblica di propaganda anticomunista allestita nel Lustgarten, lo spazio aperto tra la cattedrale di Berlino e il colonnato dell’Altes Museum.  Oltre un milione di visitatori si mise in coda tra l’8 maggio e il 21 giugno 1942 per entrare nelle tende che costituivano i padiglioni della mostra voluta da Goebbles. Basata su ricostruzioni artefatte che utilizzavano per interpretare i cittadini dell’Unione Sovietica i prigionieri di guerra imprigionati nel lager di Sachsenhausen, posizionato a nord di Berlino, la mostra intendeva dimostrare lo stato di arretratezza e povertà in cui versava la popolazione sovietica.

Il giorno 17 maggio, un gruppo della Resistenza guidato da Harro Schulze-Boysen e Fritz Thiel, collegato all’organizzazione comunista Rote Kapelle, aveva attaccato in tutta Berlino manifestini che riportavano “Mostra permanente / Il PARADISO NAZISTA / Fame di guerra Bugie della Gestapo / Per quanto ancora?”.

Il giorno successivo il gruppo della Resistenza ebraico-comunista Herbert Baum, guidato da Herbert e Marianne Baum, tenta di incendiare i padiglioni di Das Sowietparadies danneggiandoli solo parzialmente. L’immediata reazione a queste due azioni della Resistenza fu durissima. La settimana successiva cinquecento ebrei berlinesi furono trasferiti al campo di concentramento di Sachsenhausen dalle strutture di detenzione diffuse in città. Dopo pochi giorni 250 prigionieri del lager vengono uccisi per vendetta. Herbert Baum viene catturato e torturato a morte nel carcere di Moabit, sua moglie ghigliottinata a Plötzensee, altri membri uccisi in una vasta azione di repressione.

La Humboldt-Universität ha scelto di celebrare quelle eccezionali generazioni di scienziati e umanisti, prussiani ed ebrei, conservatori come Planck e progressisti come Einstein, che hanno trasformato la visione del mondo e della realtà sottolineando l’enorme sacrificio di sangue versato durante gli anni plumbei del nazismo. Sono proprio gli anni di cui parla Margaret Von Trotta nel suo film Die bleierne Zeit, frettolosamente tradotto in italiano come Anni di piombo. Forse Gli anni plumbei avrebbe offerto un maggiore rigore filologico alle intenzioni della regista, ovvero un riferimento diretto a quei pesanti e soffocanti anni Settanta in cui la Germania ancora viveva le conseguenze dell’oppressione della società nazionalsocialista a causa di una denazistificazione solo parziale di cui la guerriglia urbana era una delle conseguenze della diffusa autoassoluzione politica e personale. Quando nei primi giorni del 1933 la classe dirigente tedesca aveva consentito ai nazionalsocialisti e a Hitler di prendere il potere, anche  con un aperto appoggio al Reichstag, illudendosi di poterli manipolare per il proprio egoismo e la propria sete inesauribile di profitto, investendo sulla loro capacità di esercitare una violenza spropositata come elemento determinante per soffocare le richieste di emancipazione sociale e politica della classe operaia, il potente blocco conservatore, aristocratico e militarista si era cinicamente alleato con l’aggressività dei movimenti fascisti di natura populista per soggiogare  i sindacati e una frammentata sinistra tedesca. Il 30 gennaio del 1933, quando Hitler viene nominato Cancelliere, milioni di tedeschi erano comunisti e socialisti, aderenti ai sindacati, antifascisti, e subirono una repressione terrificante, esecuzioni, torture e reclusioni nei lager che, per alcuni sopravvissuti, durarono tutti i dodici anni di dittatura. La repressione contro oppositori e membri della Resistenza tedesca è stimata oggi in 350.000 caduti, che ne fa il più pesante contributo di vite umane nella lotta nazionale al fascismo. Molti oppositori erano studenti, tecnici, ricercatori e professori delle discipline scientifiche, dipendenti delle università e delle industrie. Molti ripareranno all’estero, come Einstein, ma, in contrasto con una visione storica che pretende di vedere una Germania unita in un consenso fanatico, anche se il consenso ci fu, furono molti gli oppositori e i membri della resistenza al fascismo più lunga della storia, uomini e donne coraggiosi e che, in molti casi, pagarono con la vita le loro idee e le loro attività. Per questo non è possibile parlare del periodo d’oro della fisica del Novecento senza sottolinearne i motivi della successiva rovinosa decadenza, proiettando gli avvenimenti della ricerca scientifica sullo schermo della repressione e della dittatura.

Nomi. Date. Luoghi. Marc Bloch, in Apologia della storia o il mestiere di storico, scrive che la storia è come la pellicola di un film in cui i fotogrammi sono legati tra loro, posti uno dopo l’altro in sequenza temporale. Il fotogramma più recente è intatto, ma procedendo a ritroso sono sempre più deteriorati perché più lontani nel tempo, e il compito dello storico assomiglia a quello del restauratore di pellicole, che lavora per riportare quel fotogramma alla nitidezza originale. Per quanto sia bella questa immagine, e io l’abbia sempre amata soffermandomi a pensare a un Bloch che somiglia ad Eisenstein mentre controlla concentrato la pellicola, credo che il presente non sia affatto nitido e che lo storico che indaga sul passato, esattamente come flȃneur benjaminiano durante il suo passagen-werk, si trovi nelle condizioni di chi sia in bilico tra la mancanza di segni di Bebelplatz e la sovrabbondanza della Humboldt-Universität. La storia è forse un itinerario tra segni presenti e mancati, ma un itinerario cibernetico e che si realizza mentre si procede, con assestamenti continui e indotti dalla sua stessa evoluzione. Un’immagine che ricorda la potente metafora di Otto Neurath nella quale siamo come marinai che devono riparare la nave della scienza in mare aperto, navigando, senza potersi fermare per farlo. Tutti questi segni, mancanti e presenti, che richiamano a situazioni e periodi molto differenti tra loro, evocano immancabilmente i ruoli della storia e della memoria.

 

Il giardino della Humboldt-Universität

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Il nuovo disordine mondiale / 12: Vittorie perdute*. https://www.carmillaonline.com/2022/04/28/il-nuovo-disordine-mondiale-12-vittorie-perdute/ Thu, 28 Apr 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71617 di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo) “Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata. Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del [...]]]> di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo)
“Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata.
Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del mondo “autoritario”.

Ma guai a parlare di imperialismo, se non è quello russo-putiniano; guai a parlare di pace se non è quella dettata dai cannoni e dall’invio di armi; guai ragionare; guai uscire dal coro; guai smontare la propaganda bellica di entrambi le parti in conflitto.
Guai, guai, guai…
Basti invece cantare come i sette nani disneyani: Andiam, andiam, andiam a guerreggiar… (i nanetti di allora cantavano lavorar, ma che importa ormai ai nano-burocrati rappresentanti del capitale internazionale?). Oppure “Bella Ciao”, contro qualsiasi commemorazione della Resistenza che non si limiti ad esaltare l’unità nazionale e interclassista con i fascisti di un tempo e con quelli di oggi.

Così, nei libri di Storia futuri (stampati, online oppure semplicemente scolpiti nella pietra), come data di inizio vero del Terzo conflitto mondiale potrebbe essere ricordata non quella del 24 febbraio 2022 per l’invasione russa dell’Ucraina, ma quella del 26 aprile dello stesso anno. Giorno in cui, a Ramstein in Germania, il vertice Nato allargato ha, di fatto, dichiarato ufficialmente guerra alla Russia. Zelensky (autentico Renfield del vampirismo occidentale, ma tutto sommato personaggio secondario della catastrofe mondiale cui stiamo andando incontro), Boris Johnson (a caccia di una riabilitazione politica per la propria carriera e di un nuovo ruolo imperiale per il Regno Unito, costi quel che costi) e Sleepy Joe Biden (l’esibizione concreta del sonno della ragione che guida le scelte occidentali e della Nato) hanno scelto per noi, per la specie e l’umanità intera: basti leggere i titoli dei maggiori quotidiani del giorno successivo, il cui significato può essere sintetizzato con una frase di antica memoria: Alea iacta est (il dado è tratto).

Così mentre i russi avanzano poco a poco, conquistando i territori orientali ucraini e procedendo nell’opera di accerchiamento dei quarantamila soldati delle forze armate di Kiev attestati su quel fronte, i leader occidentali promettono, già intravedendola attraverso gli occhi spiritati di Zelensky, una vittoria in realtà piuttosto difficile da raggiungere e, in compenso, gravida di rischi già contenuti nelle stesse scelte che dovrebbero favorirla. Come, a solo titolo di esempio, l’ulteriore stanziamento di 33 miliardi di dollari richiesto da Joe Biden al congresso americano per la fornitura di altre armi all’Ucraina. Richiesta che fa inevitabilmente pensare alla previsione di una guerra di “lunga durata”.

Non tanto e soltanto per le parole già pronunciate in precedenza dal ministro degli esteri russo Lavrov a proposito del rischio di deflagrazione di una terza guerra mondiale e neppure per le minacce contenute nel discorso tenuto da Putin, a Pietroburgo il 27 aprile, con il riferimento al possibile ricorso ad armi per ora impreviste o sconosciute per l’alleanza occidentale. Ma anche, e forse soprattutto, per le crepe sempre più evidenti che tale dichiarazione di guerra aperta alla Russia rischia di aprire non soltanto tra i presunti alleati, ma anche con le altre potenze presenti sul pianeta. Cina e India in testa.

Come si afferma nell’editoriale del primo numero della rivista «Domino»:

Per gli esseri umani cogliere la profondità del momento storico che abitano è esercizio assai complesso. Travolti dalle circostanze, impegnati a sopravvivere, non percepiscono il frangente vissuto. Nel 476 d.C. nessuno si accorse che la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo avrebbe decretato la fine dell’impero romano d’Occidente – ammesso che sia accaduto sul serio1.

Così, se in Europa la questione delle forniture di gas ha già aperto un divario non secondario tra le richieste americane di sanzioni e gli effettivi interessi economici e produttivi di paesi come la Germania, l’Ungheria, la Slovacchia, la “neutrale” Austria e, anche, della timorosa e confusa italietta draghiana (in cui il peso dell’ENI, che avrebbe già deciso di pagare in rubli le forniture, non può affatto essere considerato secondario sia dal punto di vista economico che politico)2, nonostante le dichiarazioni dell’imperturbabile e insignificante Ursula von der Leyen, secondo la quale «l’Europa non si piegherà al ricatto (russo)», nel resto del mondo l’Occidente, per fingere una sua presunta aumentata influenza, ha dovuto accontentarsi di invitare al vertice di Ramstein paesi come la Liberia, la Tunisia, la Giordania, il Kenya e poco altro ancora.

Atterriti dall’aggressività russa, nei prossimi mesi i principali paesi europei aumenteranno grandemente la spesa militare. Su tutti, la Germania. Massimo esportatore relativo al mondo, tra i più capaci soggetti esistenti, da decenni Berlino è priva di reali forze armate – nelle parole dello Stato maggiore britannico, «i soldati tedeschi sono soltanto campeggiatori aggressivi». Dimensione innocua, utile per tranquillizzare i vicini, prossima a scomparire.
[…] Così il Regno Unito vorrà inserirsi nell’estero vicino della Germania, tornando a ergersi a principale sodale di polacchi e rumeni, come capitato in altri drammatici passaggi della storia.

Sebbene in questa fase salutino con soddisfazione il suo nuovo corso, presto gli Stati Uniti inizieranno a sospettare del satellite berlinese, troppo ingombrante per diventare bellicoso. Fino ad accendere la vecchia competizione bilaterale, soltanto parzialmente sopita con la seconda guerra mondiale. Al di là dell’appartenenza al medesimo fronte, Washington conserva una latente ostilità nei confronti della Repubblica Federale, memore d’aver faticosamente avversato ogni crescente potenza teutonica3.

Sbandierando poi la dichiarazione cinese che «nessuno vuole la terza guerra mondiale», i media italiani guerrafondai fingono una sorta di presa di distanza della Cina dalla politica russa, mentre è evidente che, pur nella sua ovvietà, la Cina non condivide l’attuale politica di aggressione verbale e militare portata avanti dai maggiori rappresentanti della Nato (USA e Gran Bretagna) nei confronti dei governanti e dei territori russi.

L’altro tema su cui si glissa, poi, è il fatto che il nazionalista Modi, in India, abbia di fatto respinto per ben tre volte la richiesta portata avanti, al più alto grado di rappresentanza politica, da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea affinché il suo paese abbandonasse la posizione astensionista nei confronti della condanna della condotta russa, tenuta fin dalla prima votazione alle Nazioni Unite nei primi giorni del conflitto russo-ucraino.

Rifiuto che pone l’India, una delle principali potenze economiche del globo e membro più che importante dei BRICS, in una situazione di attesa che, senza manifestare soverchie simpatie per Putin e la sua politica, si rivela comunque minacciosa per la tranquillità occidentale, la cui politica di intervento militare sempre più esteso si accontenta di giustificarsi attraverso la pretesa di un cambio della guardia in Russia, magari con la speranza di tornare ai tempi di El’cin, senza tener conto dell’autentico tsunami geopolitico che sia le scelte di Putin che proprie hanno e stanno contribuendo a sollevare su scala planetaria.

Ha dunque perfettamente ragione chi ponga l’esiziale domanda, al nostro governo come a quelli occidentali coinvolti, talvolta controvoglia come quello tedesco, nelle decisioni prese a Ramstein: quale vittoria si vuole perseguire? Ma, soprattutto: sono state messe in conto le conseguenze di una possibile sconfitta? A quanto pare, come per l’alterigia che accompagnò il generale Custer al disastro del Little Big Horn, NO.

Sconfitta che potrebbe derivare non soltanto dal differenziale bellico intercorrente tra l’arsenale nucleare russo e quello occidentale in Europa (qualcosa come dieci a uno, 2000 armi tattiche contro 200, secondo Lucio Caracciolo), ma anche dal fatto, che pur in caso di pareggio, le condizioni del continente europeo, soprattutto, potrebbero uscirne radicalmente modificate al ribasso (sia sul piano economico che sociale) a causa delle distruzioni che ne conseguirebbero.

Se tali distruzioni potrebbero già essere, in forma minore, anticipate dalla crisi economica derivante da un embargo del gas russo, paventata dalla gran parte degli imprenditori europei4, e dalle proteste sociali che ne deriverebbero, mentre già una parte significativa dei paesi mediorientali o affacciantisi sul Mediterraneo meridionale vede già accrescersi le spinte delle proteste di piazza per le difficoltà alimentari derivanti dal medesimo conflitto5, le conseguenze reali e finali potrebbero andare oltre qualsiasi previsione politica, economica o militare.

In questo senso, nonostante le minacce reiterate dell’Occidente ai due paesi che continuano ad acquistare il 70% delle loro armi dalla Russia e ad approfittare, oggi e in futuro, della necessità della stessa di vendere le risorse energetiche non più richieste da una parte dei paesi occidentali, India e Cina potrebbero uscire vincitrici da un conflitto destinato probabilmente a indebolire fortemente l’Europa, la Russia e, seppur con qualche differenza se riusciranno ad approfittare delle distanza dal teatro bellico, gli Stati Uniti stessi. Vincere senza muover un dito e senza sparare un colpo costituirebbe la massima realizzazione del pensiero militare orientale e cinese in particolare. Mentre, al contrario, si rivelerebbe un’autentica catastrofe per il capitalismo occidentale, i suoi apparati, le sue società, i suoi sistemi produttivi e le sue dottrine belliche.

Ipotesi non così peregrina se si considera come la Cina ha potuto sostituire gli americani in Afghanistan, dopo la loro precipitosa ritirata, occupandone le basi militari più importanti, come quella aerea di Bagram, oppure accaparrarsi i diritti di sfruttamento degli enormi giacimenti di terre rare, di cui quel paese è ricco, senza colpo ferire.

La minaccia poi contenute nelle dichiarazioni della von der Leyen durante il suo recente viaggio in India, nel tentativo di smuovere Modi dalle sue posizioni, ovvero quella che un embargo dei microprocessori prodotti a Taiwan, che realizza in proprio o su licenza più del 60% della produzione mondiale degli stessi, nei confronti della Russia potrebbe far sì che l’India, insieme alla Cina, potrebbe non più ricevere gli armamenti più sofisticati prodotti dall’industria bellica russa proprio per mancanza di quelli, potrebbe ottenere un effetto contrario a quello desiderato. Ovvero spinger la Cina, con l’avvallo indiano cosa impensabile fino a poco tempo fa, ad affrettare i preparativi per un’invasione dell’isola contesa all’influenza occidentale fin dal 1949.

Mentre, con una certa forzatura nel ragionamento, si continua ad affermare che Putin con la sua azione è riuscito a rendere più forte e collaborativa l’alleanza occidentale, ci si nasconde che in realtà è proprio l’azione occidentale a rendere possibili, magari anche solo momentaneamente, alleanze fino ad ora imprevedibili, come quella tra i due colossi asiatici. Soprattutto in un momento in cui, lo capirebbe anche il più asino degli strateghi, gli USA, nonostante la baldanza dei suoi rappresentati e del suo svanito presidente, non potrebbero impegnarsi su tutti i fronti destinati a svilupparsi a seguito del precipitare della situazione attuale. In cui anche il pesante riarmo giapponese, il più importante dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, esattamente come per quello tedesco, non significa soltanto allineamento agli ordini americani e occidentali, ma piuttosto l’apertura di una partita in proprio e a tutto campo.

Come sonnambuli, i rappresentanti occidentali riuniti a Ramstein, si sono avviati sul loro viale del tramonto, contenti oppure inconsapevoli di essere destinati a precipitare nel dimenticatoio della Storia, ma, esattamente come il loro avversario Putin, vilipeso, insultato e demonizzato insieme a tutto il popolo russo, ben determinati a cercare di difendere la propria posizione egemonica anche a costo della rovina e distruzione dei propri governati o di buona parte della specie umana.

Così come l’attorucolo Zelensky persegue orgogliosamente, stupidamente e neppure in nome dei reali interessi del popolo che si è trovato ad amministrare.
Con buona pace di tutti coloro in tutto ciò vogliono cogliere, ad ogni costo, un esempio di Resistenza, piuttosto che la demoniaca competizione imperialista che la sottende. Su ogni fronte.

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale. […] Nell’enunciazione di concetti primitivi, l’onore, il dovere riaffiora soprattutto una perfida tradizione irrazionalistica, uno sconclusionato dannunzianesimo fuori tempo: con la voluttà dell’esser eroe, il culto della morale guerresca, il vivo foco della lotta, e altri intrugli che infiammano i piccoli ribellismi borghesi di ogni tempo6.

* Il riferimento è a Vittorie perdute (Go Tell the Spartans), un film di Ted Post del 1978. Ambientato in Vietnam, nel 1964, narra le vicende di un contingente di soldati sud-vietnamiti e americani che si accingono a occupare la base abbandonata di Muc Wa. Dopo aver affrontato attacchi notturni di piccoli contingenti di Vietcong, vengono sterminati. Se sul Vietnam, fino al 1990, sono stati prodotto negli USA più di 100 film, questo, interpretato da un cinico e disincantato Burt Lancaster, è scritto benissimo, con divertito distacco, da Wendell Mayes, ed è uno dei meno noti, ma dei più sottili e dialettici tra tutti quelli realizzati sull’argomento.

(12 – continua)


  1. Punto di svolta in Ritorno al futuro, «Domino» n° 1, aprile 2022, p.7  

  2. Si veda: Vanessa Ricciardi, Putin comincia a togliere il gas e spacca l’Unione europea, «Domani», 28 aprile 2022  

  3. Punto di svolta, op. cit. p.9  

  4. Si veda anche soltanto il tentativo di tenere aperti i rapporti col mercato russo da parte dei maggiori calzaturifici italiani, che nei giorni scorsi in barba ai divieti hanno inviato una loro nutrita delegazione di rappresentanti in Russia  

  5. Si veda: Francesca Mannocchi, La guerra, la carestia e le rivolte del pane, «La Stampa» 23 aprile 2022  

  6. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

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I muri oltre Berlino https://www.carmillaonline.com/2019/12/05/i-muri-oltre-berlino/ Thu, 05 Dec 2019 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56246 di Gioacchino Toni

Ad un decennio di distanza dalla sua prima uscita nel 2009, torna in libreria, in un’edizione rivista e soprattutto aggiornata, il libro di Christian Elia Oltre i muri. Storie di comunità divise (Milieu, 2019). La pubblicazione esce nel pieno della retorica politico-mediatica – più o meno miope, più o meno di comodo – che celebra l’anniversario della caduta del muro di Berlino, presentando  materiale e testimonianze che l’autore ha raccolto in anni di reportage in giro per il mondo, soprattutto nell’Europa dell’Est ed in Medio Oriente, al fine di raccontare [...]]]> di Gioacchino Toni

Ad un decennio di distanza dalla sua prima uscita nel 2009, torna in libreria, in un’edizione rivista e soprattutto aggiornata, il libro di Christian Elia Oltre i muri. Storie di comunità divise (Milieu, 2019). La pubblicazione esce nel pieno della retorica politico-mediatica – più o meno miope, più o meno di comodo – che celebra l’anniversario della caduta del muro di Berlino, presentando  materiale e testimonianze che l’autore ha raccolto in anni di reportage in giro per il mondo, soprattutto nell’Europa dell’Est ed in Medio Oriente, al fine di raccontare “storie di confine”.
L’autore presenta tanto racconti riferiti ai muri più conosciuti – Cipro, Belfast, Israele, Palestina, Sahara Occidentale, Ceuta, Melilla, Iraq –, quanto alle barriere più recenti proprie delle aree più calde delle rotte migratorie tra Serbia-Ungheria, Bulgaria-Turchia e Grecia-Turchia. Nell’introdurre la nuova edizione, Elia spiega come il libro sia nato dall’urgenza di raccontare e dalla necessità di spiegare la situazione vissuta da chi si trova a fare i conti quotidianamente con quelle barriere artificiali poste tra esseri umani.

Se di per sé già lo scrivere dei muri risulta importante, sostiene l’autore, ancora di più lo è raccontare del “filo rosso” che li collega tutti. «Un filo rosso che unisce vicende differenti, che intreccia periodi storici lontani tra loro, che si arrotola su problematiche molto disomogenee. In ogni occasione, però, finivo sempre per incappare in fattori costanti, che si ripetevano, come in una roulette truccata. Sequenze. Fatte non di numeri, ma di storie. Vite di persone che, all’improvviso, hanno trovato un muro sul loro cammino». E ciò, continua Elia, accade quando «l’animale sociale diffida a tal punto del suo vicino da ritenere il muro, la barriera, la divisione l’estrema ratio. Non c’è più tempo per dialogare, litigare e dialogare ancora. Non c’è più fiducia. Meglio chiudere fuori l’altro, senza rendersi conto che allo stesso tempo finisci per chiuderti dentro anche tu». Ed a quel punto le motivazioni storiche, religiose, politiche dei diversi casi diventano del tutto relative e le storie finiscono con l’assomigliarsi tutte.

Se, rispetto alla prima edizione del libro, oggi i muri si sono di gran lunga moltiplicati, il filo rosso che legava le storie di allora è però tutto sommato il medesimo che lega anche le attuali e quel filo rosso è fatto di storie di persone comuni, di esseri umani che vivono all’ombra dei muri senza che nessuno abbia mai chiesto loro un parere prima di chiuderli dentro. A dieci anni dalla prima edizione tante cose sono cambiate ed ora il «muro più grande di tutti» sembra essere divenuto il Mediterraneo. «La strage di questi dieci anni», continua Elia, «ne ha fatto per me, il muro più alto di tutti». Nel solo 2016, secondo la ricercatrice Reece Jones, hanno perso la vita a causa di un muro o di una barriera ben settemiladuecento esseri umani. Da quando è caduto il muro di Berlino «sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Cambiano i materiali, il livello di militarizzazione, gli itinerari, le motivazioni politiche, ma non sono mai stati così tanti».

Metà delle barriere costruite dopo il Secondo conflitto mondiale, racconta Elia, sono sorte dopo il 2000, con buona pace della retorica che vuole che con la caduta del muro berlinese nel mondo gli esseri umani si siano liberati dello spettro dei muri divisori. E proprio a proposito della caduta di quella barriera divisoria tedesca, Nicola Sessa, nella postfazione al volume, racconta la frustrazione provata del regista Andreas Dresen e dello scrittore Ingo Schulze di Berlino Est, poco meno che trentenni nel 1989, attraverso le loro parole: «I tedeschi dell’est hanno dovuto accettare le regole della Germania Federale, fare presa di coscienza che tutto ciò in cui avevano creduto, l’eguaglianza, la solidarietà e il rispetto reciproco fossero tutte cose da mandare al macero. Non è bello dirlo, ma è come se fossimo stati invasi dall’altra Germania che ci ha imposto il loro sistema senza salvare ciò che di buono noi avevamo». Non è passato molto tempo, chiosa Sessa, prima che «le politiche sociali venissero immolate sull’altare del capitalismo rompendo quel delicato equilibrio su cui muovevano in perfetto sincrono le fabbriche, l’istruzione, la sanità e una certa qualità di vita che, a detta di molti, era superiore a quella di oggi. Certo, si dirà, quando su un piatto della bilancia c’è la libertà, nessun altro valore messo sull’altro piatto avrà lo stesso peso. Ma molti tedeschi, dell’est si chiedono oggi se siano davvero liberi: sognavano di viaggiare, ma le condizioni economiche e la disoccupazione non lo permettono a tutti; sognavano di dire liberamente la loro, ma chi li ascolta?».

Se però esiste un luogo ove la caduta del muro di Berlino svela tutta la sua ipocrisia, afferma Elia, questo è l’Europa orientale. «Proprio quell’Europa che, per anni, ha celebrato l’idea stessa di una libertà negata per anni dai regimi del blocco orientale. Una retorica uguale e contraria a quella dell’Europa, che nel 1989 festeggiava la caduta dei muri che tenevano prigionieri milioni di persone. La grammatica era quella dell’accoglienza, l’alfabeto quello del diritto a essere liberi. Cercare una vita diversa era un’aspirazione umana degna del massimo rispetto. Fuggire da una dittatura era un dovere morale, almeno quanto quello di accogliere. Perché oggi tutto questo non vale per siriani, afgani, iracheni, curdi?».

Negli ultimi anni, parallelamente allo sbiadire della retorica europeista ed alla montante disillusione presto trasformatasi in rabbioso malcontento di qui settori sociali che hanno pagato i costi dell’ennesima giravolta politico-economica, ha finito con l’avere buon gioco una montante ondata di demagogia fascistoide che ha fatto dell’edificazione delle barriere “protettive” il proprio cavallo di battaglia. Dal governatore del Friuli Venezia Giulia che promette la costruzione di una barriera al confine con la Slovenia, all’edificazione promossa da Orban di barriere in filo spinato e lamette anti-immigrati sia lungo i confini con con la Serbia che con quelli con la Croazia, o al muro che il Montenegro intende edificare lungo il confine con l’Albania, passando per il Kosovo, fino alla Macedonia del Nord e alla Bulgaria, che a sua volta si è adoperata per costruire una barriera al confine con la Turchia, che si tiene ben separata dalla Grecia sfruttando il fiume Evros. Ed è a questo nuovo scenario europeo che è dedicata l’ultima parte del volume in cui Elia, attraverso una serie di reportage, racconta cosa è accaduto in questi dieci anni che separano le due edizioni del libro, con storie di persone che «hanno perso la vita i questi luoghi di negazione. Negazione dei diritti, delle promesse del 1989, in buona sostanza, di noi stessi».

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Nessuna voce dentro. Un’estate a Berlino Ovest di Massimo Zamboni https://www.carmillaonline.com/2017/06/13/nessuna-voce-dentro-unestate-berlino-ovest-massimo-zamboni/ Mon, 12 Jun 2017 22:01:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38684 Einaudi i Coralli, Torino 2017, pp. 195,  € 17,00

di Mauro Baldrati

Luglio 1981. L’onda lunga degli anni Settanta, coi suoi furori, i suoi conflitti, si sta ritirando. La risacca porta con sé molti ideali, scoprendo un fondale fin troppo colorato, sgargiante e, a detta di molti, inutile. Superfluo. Deperibile.

Un ragazzo di 24 anni, di Reggio Emilia, inquieto, curioso, dopo avere viaggiato a lungo per il pianeta, decide di completare il suo percorso di straniero nomade visitando, e abitando, una delle metropoli-mito che porta in sé tutti i segni della storia: Berlino, [...]]]> Einaudi i Coralli, Torino 2017, pp. 195,  € 17,00

di Mauro Baldrati

Luglio 1981. L’onda lunga degli anni Settanta, coi suoi furori, i suoi conflitti, si sta ritirando. La risacca porta con sé molti ideali, scoprendo un fondale fin troppo colorato, sgargiante e, a detta di molti, inutile. Superfluo. Deperibile.

Un ragazzo di 24 anni, di Reggio Emilia, inquieto, curioso, dopo avere viaggiato a lungo per il pianeta, decide di completare il suo percorso di straniero nomade visitando, e abitando, una delle metropoli-mito che porta in sé tutti i segni della storia: Berlino, l’isola lussureggiante circondata dal freddo mare grigio, immobile. Berlino, la città dove tutto sembra possibile, dove tutto si trasforma, quasi come una favela stratificata; un territorio liberato dove le regole non esistono, eppure sono rispettate da tutti, leggi non scritte che generano la forza motrice di una macchina sociale e politica esuberante.

A Berlino hanno già cercato ispirazione – e non solo, anche avventura, forse rifugio – David Bowie, che gli ha dedicato una trilogia, Brian Eno, Lou Reed. E poi Iggy Pop, a Berlino con Bowie anche per disintossicarsi da droghe e alcol, benché non cercassero certo riposo e quiete (quando mai a Berlino?), visto che “battevano” la città “a caccia di drag queen”.

Anche Massimo Zamboni suona, la chitarra, ma non ha ancora nessun progetto definito. Ma quale città più di Berlino si poteva definire “piena di musica?” Quale formazione migliore? Quale laboratorio più proficuo?

Nella parte più narrativa del libro racconta come la musica fosse ovunque, in strada, nelle case con le porte spalancate (o senza porte), nei locali. Gruppi di ragazze e ragazzi ballavano sui marciapiedi al ritmo dei Daf, o avvolti nelle sonorità cosmiche dei Tangerine Dream. Ma non erano particolarmente all’avanguardia. La musica era qualcosa di naturale, di fisico, non oggetto di ricerca intellettuale. Per esempio non conoscevano i Tuxedomoon, mentre “a Reggio Emilia eravamo molto più avanti”.

Così ogni strada, ogni palazzo, ogni suono costituiscono uno stimolo. Anche il desolato, enorme quartiere desertificato dai bombardamenti che l’accoglie all’arrivo, stanco, solo, mostra la reversibilità di un territorio sgargiante sbocciato sulle devastazioni della guerra, che lascia le sue tracce come installazioni permanenti di morte e distruzione.

A Berlino tutto sembra avvenire per caso, con velocità sbalorditiva. Nessuna discussione, nessuna verifica. Le regole-non regole sono infallibili, perché tutti le rispettano. Massimo trova immediatamente una stanza in una casa occupata, senza domande, senza conoscenze, e poco dopo anche un lavoro, cameriere in una pizzeria di italiani.

Esplora la città, penetra in profondità nella materia in continua trasformazione, incontra un ragazzo col quale fa amicizia, Giovanni Lindo Ferretti (la versione emiliana della coppia Bowie-Iggy Pop?). Insieme navigano per la città, osservano, ascoltano, finché, nel quartiere turco, notano la scritta murale “Punk Islam.” Si fermano, la contemplano a lungo. Diventerà il titolo del loro primo pezzo di musica italiana punk-sperimentale, quando fonderanno i CCCP

Berlino, riserva inesauribile di energia, di sfida alla morale, di libertà; ma Nessuna voce dentro. Un’estate a Berlino Ovest non è un libro d’avventura, o di aneddoti, come forse ci si aspetterebbe. Troppo facile? Troppo scontato? E’ uno scritto denso, con riflessioni di carattere antropologico sulla storia, la musica, le dinamiche della vita; il narratore è uno straniero che non si ferma mai, entra, osserva, riflette, descrive; non indugia nell’estetica, non si sofferma sullo spettacolo, anche se non può mancare qualche doveroso cameo, come la ragazza punk con la pantegana sulla spalla.

Questo aspetto, per alcuni, può costituire il suo limite. Qua e là le riflessioni e le descrizioni sembrano rallentare la lettura, smorzando il desiderio di storie forti, di colori che esplodono, di follie creative che deflagrano. Ma non è necessariamente un difetto. Si tratta semplicemente di qualificare un’opera secondo una determinata tendenza, e per quello apprezzarla, o criticarla.

E la tendenza principale di questo libro è la scrittura. E’ un testo scritto straordinariamente bene. Ne girano pochi di questa qualità. Lo stile è estroso, raffinato quanto basta per non scadere nel virtuosismo. Possiamo dire che una trama a tratti sacrificata, viene riscattata dal ritmo ipnotico dello stile.

Ci fu chi, sintetizzando la sintesi, classificò le opere unicamente come “belle” e “brutte”. Noi potremmo ampliare questa storica riflessione in opere “utili” e opere “inutili”.

Nessuna voce dentro. Un’estate a Berlino Ovest si colloca orgogliosamente tra quelle utili.

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Hard Rock Cafone #2 https://www.carmillaonline.com/2015/09/10/hard-rock-cafone-2/ Thu, 10 Sep 2015 20:36:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24770 di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways  California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in [...]]]> di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways 
California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in tempesta ormonale. E non solo: etero e omo, rimangono tutti soggiogati dallo sguardo strafottente e dai corpi in fiore della band, in un’epoca in cui la maggiore età non era considerata un vincolo sessuale. Dopo gli assestamenti iniziali le Runaways presentano in formazione la superdotata (anche tecnicamente) Lita Ford, che secondo il dittatoriale producer è “Ritchie Blackmore e Sophia Loren fuse in un’unica persona”. Alla voce c’è Cherie Currie, una minorenne che sale sul palco vestita soltanto di sottoveste e calze con giarrettiera. All’altra chitarra Joan Jett che tutti conosciamo per l’inno universale che ha regalato qualche anno dopo: la cover di I Love Rock’n’Roll. Completano basso e batteria di Jackie Fox e Sandy West. L’impatto visivo e musicale è clamoroso e anche le polemiche e le virgulte rispondono alle accuse di bieco marketing sessista con un rock semplice e trascinante: vagamente punk e con la schitarrata hard quando serve. Vanno in tour coi grandi dell’epoca, fanno le cattive ragazze e finiscono in carcere in Gran Bretagna e diventano big in Japan dove registrano anche il loro album migliore, un live. Poi la rottura col maligno produttore guru, che sarà anche accusato a più riprese di abusi sessuali (con le ex Runaways reticenti o mute, anche se la violenza carnale sulla Fox, drogata, sembrerebbe inequivocabile) e il via alle defezioni, a partire dalla Currie. Che oggi fa la scultrice con la motosega (potete verificare su chainsawchick.com) ma è stata anche attrice e ha scritto un’autobiografia che non le ha però evitato di essere mandata a cagare dalle altre ex compagne. La band va in malora nel 1978 e Joan Jett prova la carta solista. Deve insistere un po’ ma poi ottiene successo con i suoi Blackhearts e ancor oggi – da autentica icona – è spesso in tour. Intanto la chitarrista Lita Ford, da ragazzina che era, diventa una bella donna con abnorme testata di capelli vaporosi e orecchini simili a lampadari, e si dedica al metal per scalare le classifiche col disco di platino Lita dove duetta con Ozzy Osbourne. Oggi omaggiate da biopic vezzose e assurte a status di superstar post-mortem, durarono poco, le Runaways, ma ruppero apparentemente il tabù machista del rock, anche se esattamente plagiate da quell’atteggiamento. La recente morte della batterista Sandy West sembra aver riavvicinato quelle che fecero da battistrada a tutto il rock femminile di là da venire, buono o cattivo, Bangles, Hole, L7 e Bikini Kill comprese, ma ci sono ancora troppi scheletri nell’armadio e non c’è da temere alcuna reunion nostalgica.
(Marzo 2007)

hrc202Milano imbevibile 
Milano la cosmopolita, Milano al centro dell’Europa, Milano ombelico del Mondo. Ha il traffico di Calcutta, l’inquinamento di Shangai, l’allegria di Bucarest e i servizi di Kinshasa. Senza offesa (per gli abitanti di Kinshasa, ovvio). È amministrata da decenni da gente che non ha mai preso un tram in vita sua e che pensa solo a riempire i vuoti urbanistici e gli ultimi residui di verde (avete capito di cosa canta Elio in Parco Sempione?) per fare felici palazzinari, archistar cialtroni e complici e pure i poveri muratori che, se non muoiono prima in cantiere, almeno hanno un po’ di lavoro. Avrà le sue ragioni Manuel Agnelli degli Afterhours a dirci che Milano è una città vitale, ma, sarà che non porto pantaloni attillati di pelle e non uso creme di bellezza, io l’unica vitalità che vedo è quella del sacco edilizio continuo di questa metropoli. A scapito di spazi, anche musicali. Nel mio isolato hanno appena riempito un vuoto tra due case e abbattuto una costruzione aerea ed elegantissima di fine anni Sessanta. Adesso ci sono un 5 piani terrazzato come se fossimo a Miami e un 6 piani monolitico che starebbe bene a Berlino. Gli stessi che grufolano contro le moschee, autorizzano poi questi scempi. L’ultimo assessore all’urbanistica, tal Milko Pennisi assurto a gloria nazionale, ha patteggiato due anni e dieci mesi per tangenti: ma chi patteggia i reati contro la logica e l’estetica? Ma il vero problema è che a un isolato dal mio hanno chiuso il vecchio Transilvania che, dopo un’agonia di neanche tre anni come MusicDrome, tornerà ad essere un’autorimessa. Nessuno mi ridarà la comodità di intervistare un artista e invitarlo a casa a prendersi un caffè, magari avendo nascosto prima i bootleg e i cd masterizzati. Non vedrò più aggirarsi nel mio quartiere gli ultimi dark con gli occhi cerchiati come opossum o i metallari tutti borchie e catene (ed educatissimi). Mi mancherà anche l’invasione degli springsteeniani di tutta Italia come la sera in cui suonò Southside Johnny con gli Asbury Jukes. E per la strada, davanti al cancello del locale, non incontrerò più J. Mascis o Ed Wynne, impegnati a bersi una birra e a parlare coi fan venuti a sentire il soundcheck. Oggi su quel cancello c’è solo un malinconico cartello: ultimi box in vendita. Riposa in pace, Transilvania, garage eri e garage tornerai a essere. Intanto è evaporato anche lo storico Rolling Stone, perché lì conviene tirarci su sei piani, altro che concerti. E prima o poi toccherà al Palasharp, perché anche là c’è la sua convenienza (e pure dell’amianto da smaltire). E in compenso allo stadio di San Siro non si può far casino se non per le partite di calcio, una ogni quattro giorni. Ma il rock no, perché fa rumore. Sporca. Non so cos’abbia in testa il sindaco Moratti – a parte la cofana catarifrangente simil-Mirigliani – ma nella metropoli dell’Expò gli spazi da concerto ormai si contano sulle dita di una mano e il Comune, figurarsi, non ne ha uno suo. Tutto questo mentre il promoter Claudio Trotta rischia una sanzione pesantissima, grazie a fantomatici comitati di quartieri guidati da invasati che lamentano insonnie e crisi di panico per i 22 minuti di rock extra, regalatici dal Boss una sera del 2008, alle 23 e 30, mica alle 4 del mattino. La Milano da bere, decennio dopo decennio, è solo un bel bicchiere di merda.
(Giugno 2010)

hrc203Frate Metallo: pace e bene 
Un anno fa, Frate Metallo non se l’è fatto mancare nessuno, la stampa italiana, quella straniera e perfino il perfido Lucignolo televisivo. Ma messi da parte sensazionalismo e bigottismo musicale, che fine ha fatto il fratacchione? Lo chiamo e scatta la segreteria telefonica, la meno ansiosa che abbia mai sentito: “Sono Frate Cesare, pace e bene!”. Qualche giorno dopo sono nel convento dei frati minori a Musocco, Milano. Gli occhi chiari, sinceri, le mani robuste, una certa somiglianza col Santa Claus della Coca Cola, Fra Cesare ha l’entusiasmo di un ragazzino e la saggezza di un uomo che è stato operaio, bersagliere, vagabondo scalzo e infine missionario e cappuccino francescano. Riavvolgiamo il nastro: come giovane assistente spirituale dei tranvieri milanesi capisce che dove non arriva una predica può arrivare la musica. Lui ha una bella voce e un certo orecchio e comincia a scrivere canzoni, alcune religiose, ma perlopiù laiche (nel senso che può intendere un religioso, eh?). Quando canta raccoglie un sacco di offerte ma in cambio dei soldi preferisce dare delle cassette prima e dei Cd poi. 10 anni fa Costanzo lo chiama al suo show e l’esperienza è salutare: da allora rifiuta qualunque apparizione televisiva, rifiutando il ruolo della scimmietta. Ha le idee chiare su tutto: sulla beneficenza (“Vado al concerto se mi piace, non per aiutare qualcuno”), sugli autori musicali cattolici (“Che cosa significa, scusa?”) e sul successo (“Non me ne frega niente: sai quante volte mi hanno offerto Sanremo?”). È sanguigno e pacifico e il rock lo fa scattare in piedi, roteando il cingolo che gli stringe il saio, in estasi metallica. Ma ha cantato anche altri generi, ammettendo il fallimento solo quando ha sperimentato anche il liscio (!). Il suo disco metal è un’opera curiosa dove non senti il Padre nostro o l’Ave Maria al contrario, bensì Cesare che incattivisce la voce su ritmiche hard. Quando ringhia il growl sembra una parodia fatta da Elio, però lode al tentativo, senza pretese e senza presunzione, per divertirsi. Mangiamo assieme (e in modo parco) al refettorio del convento. I confratelli di Cesare sono tutti sorprendentemente simpatici, più o meno coinvolti dalla sua attività canora e c’è chi lo sfotte amabilmente in nome di altri credo musicali. Da questo incontro esco con la convinzione che Frate Metallo non è un furbetto, tutt’altro. Quelli sono gli artisti indie nerovestiti, che poi a Sanremo ci vanno eccome facendo la faccia contrita, o i giornalisti che non potevano credere di avere per le mani un francescano metallaro, due freak in uno. Il top sarebbe stata anche una disgrazia fisica, ma per fortuna Cesare è perfettamente integro. In tutti i sensi. Pace e bene.
(Giugno 2009)

HRC204Aphrodite’s Child: tzatziki rock!
Caldo. Spiagge. Massì, vi racconto due o tre cose della Grecia diverse da quelle che rimbalzano dai giornali, ma prima faccio un brevissimo ma palloso preambolo: il rock progressivo è un’astrazione terminologica. Per alcuni – detrattori ma anche ammiratori – significa solo supergruppi con assoli lunghissimi e clamorose capacità strumentali; per altri critici più elastici è quella musica che progrediva, nel senso che bruciava tappe e superava i confini temporali dei 3 minuti e quelli stilistici del beat. All’origine di tutto ciò ci sono pionieri come Moody Blues, Colosseum o Procol Harum e quando la sbobba non s’è allungata o è diventata autocelebrativa, si sono avuti autentici colpi di genio dove il rock incontrava tempi dispari, nuovi strumenti e contaminazioni coraggiose. Tra i pionieri di questa musica, nel bene e nel male, prima con singoli smielati poi con un’opera epocale, ci sono gli Aphrodite’s Child, trio di figli d’Afrodite che nasce nella Grecia dei Colonnelli e subito si trasferisce a Londra. Vi consiglio di cercarne delle foto, perché per sottolinearne la provenienza ellenica un P.R. in acido fece conciare i tre corpulenti e irsutissimi musicisti come delle comparse di Troy, con tuniche, foglie d’acanto in testa e cetre in braccio. Il gruppo conquista la Francia in rivolta del Sessantotto con Rain and Tears, singolo con più di un’assonanza con A Whiter Shade of Pale. Anche questa è una rilettura di un’aria barocca (là Bach, qui Pachelbel; e – scoop! –gli stessi accordi di Albachiara!) e l’effetto in classifica è immediato. Dopo altri singoli pop di successo, si decide per l’opera definitiva, turgidamente rock: l’album 666, prima bloccato dalla casa discografica, infine uscito a gruppo sciolto nel 1972. Affascinante, eterogeneo e inventivo, spazia dai Beatles a momenti pesanti come un capitello dorico sulle palle: è un sinistro concept sull’Apocalisse che nel tempo otterrà un successo clamoroso, diventando uno dei capisaldi del prog, altro che il sirtaki. E ora la carrambata per i meno avveduti: degli Aphrodite’s Child erano leader il romantico Demis Roussos che ha poi venduto 50 milioni di dischi in Francia, e soprattutto Evangelios Papathanassiou, cioè Vangelis, l’uomo che ha scritto score immortali per Momenti di gloria e Blade Runner o jingle ipnotici per la Barilla. E forse era meglio l’Apocalisse. Ah: se volete altri greci rock settantini, consiglio i santaniani (!) Peloma Bokiou. Buone vacanze.
(Agosto 2010)

hrc205aL’hard de noantri
Nell’Italietta delle bombe fasciste c’è – tra le tante – anche un’esplosione gioiosa, il corrispondente musicale della meglio gioventù, il cosiddetto “pop” o “progressive” italico, quando, a fianco di formazioni come PFM, Banco e Orme, cresce una generazione di rocker, l’hard de noantri: uno spaghetti-rock casereccio ma energico e senza mandolino, se non pesantemente elettrificato. Qui non si rischia l’orchite ascoltando pensosi concept che parlano di un pinguino (esiste, eccome, e non è neanche male); qui si picchia duro: tra riffoni, schitarrate, power chords e cavalcate solistiche, in 35 minuti di LP trovate idee che oggi coprirebbero cinque anni di carriera. Del resto l’imperativo musicale e ideologico era l’originalità e niente era peggio dell’accusa di “venduto”. E mancando il “venduto”, qualche gruppo durava lo spazio di un album… Il primo vagito è del Balletto di bronzo che con Sirio 2222), disco ricco di chitarre e assoli mordaci, cerca un’ingenua ma personale via italiana all’ombra del dirigibile di piombo. Più o meno contemporaneamente, il virtuoso tastierista Joe Vescovi espande volume e improvvisazioni con i suoi Trip, influenzato dai Vanilla Fudge, gruppo seminale che introdusse il concetto della cover stravolta e dell’utilizzo di pieni e vuoti strumentali. Joe compone album bellissimi (partite da Caronte), tant’è che anni avanti verrà convocato a Los Angeles da sua maestà Blackmore per suonare nei Rainbow. “Ma ero troppo morbido!”, mi confessa telefonicamente.
hrc205bUn altro che il rock duro l’ha sempre costeggiato è Alberto Radius, sia con la Formula 3, sia a fianco di Battisti. Radius (1972), prodotto dal Lucio nazionale sotto lo pseudonimo Lo Abracek, è forse il più compiuto hard rock nostrano, registrato in tre giorni di furiose jam con i futuri Area, la sezione ritmica della PFM e altri amici assortiti: rock senza frontiere attraversato da lampi di psichedelia, jazz e boogie, con la chitarra che fa di tutto. Come avrebbe poi continuato a fare, contribuendo in maniera fondamentale al successo di Franco Battiato a inizio anni 80. A chi dubita dell’essenza rock di quei lavori, solo una dritta: la micidiale outro solistica di Strade dell’Est, ne L’era del cinghiale bianco. Oggi Radius è un giovane molto cool di 62 anni con più capelli di Tina Turner. Lo incontro nel suo studio e mi presenta Please My Guitar, il suo ultimo disco. Lo definisce “Un album stradale!”. Mi fa sentire alcune tracce: canzoni solide, senza troppi assoli; per l’improvvisazione c’è tempo dal vivo e del resto Alberto si fa oltre un centinaio di concerti ogni anno, con la Formula 3 o con la Notte delle Chitarre.
Ora dimenticate certe recenti oxate o alcuni coretti beegeeseggianti: i New Trolls sono stati il gruppo che, a tratti, ha saputo fare l’hard italiano più maturo. Hanno flirtato col sinfonico e col beat, ma a trent’anni di distanza la chitarra del “Piccolo Hendrix” Nico Di Palo e la furiosa carica del gruppo genovese bruciano ancora. L’apice improvvisativo è nel lato live del Concerto grosso (1971) quando i nostri eroi fan profumare di basilico il verbo dei Deep Purple. Diverse spinte (hard contro pop e, si dice, anche divergenze politiche) portarono il gruppo a una scissione durata due anni, nei quali Di Palo diede sfogo alla sua Les Paul nei massicci Ibis, prima della riconciliazione con Vittorio De Scalzi e nuove separazioni.
hrc205cAddirittura heavy erano i Rovescio della medaglia che ci han lasciato una Bibbia (1971) registrata in presa diretta e tostissima. Al virulento chitarrista Enzo Vita si attribuisce l’immortale affermazione: “Mo’ che è morto Hendrix, semo rimasti in tre: Page, Blackmore e io!”. Dimenticava per esempio i Campo di Marte (Lp antimilitarista e durello del 1973) o anche Mario Schilirò, uscito da una cantina romana con i ventenni Teoremi, quartetto di geometrica potenza. Il chitarrista – oggi anche produttore – ha poi suonato a lungo con Venditti e da anni presta servizio con Zucchero. L’album eponimo (1972) è una bella botta, per niente derivativo e con una chitarra potente. Un solo album (1973) anche per il Biglietto per l’inferno ed è probabilmente uno dei più bei dischi italiani di sempre, ripubblicato recentemente con Dvd, album inedito e testimonianza live. Il tastierista “Baffo” Banfi ricorda con ironia i suoi vent’anni, quando “In mancanza di una motocicletta, rimorchiavi solo se suonavi in una band”. La sua era formata da cinque amici, trascinati dall’eccezionale frontman Claudio Canali, oggi frate benedettino ma trent’anni fa, altro che Fra Cionfoli: una furia sul palco e in studio.
C’è poi chi al vinile non arrivò neppure, come gli zeppeliniani Crystals (album del 1974 stampato solo ora dalla Akarma) o i Moby Dick, anch’essi profondamente influenzati dal Martello degli dei. Incontro il loro batterista, Adriano Assanti a Chiasso (e dove, se no, per parlare di hard rock?) e davanti a una pizza Adriano ricorda: c’erano una volta quattro ragazzi di Napoli, del Vomero, stufi marci dei soliti tre accordi e abbastanza matti da lasciar perdere le remunerative serate nei night. Altro che Rose rosse con Ranieri, l’imperativo stilistico del gruppo era suonare così forte da incrinare la ceramica dei water (in lingua: spaccamm’ ‘o cess!). Mica facile però: nel 1968 non ci sono Internet né tutorial. Per imparare la “nuova” musica devi svegliarti alle tre di notte, captare Radio Luxembourg e il giorno dopo affidarti alla memoria. Ma suonare i Led Zep nell’Italia del 1970, è come provare a vendere oggi i libri della Fallaci in Iran. Allo storico festival di Caracalla, per dire, gli staccarono l’amplificazione al secondo pezzo. E un disco? I Moby Dick avevano idee molto chiare: o lo si registra a Londra, come si deve, oppure meglio lasciar stare. E accadde il miracolo: il quartetto volò in Inghilterra e in una settimana incise l’album della vita, potente, bellissimo. Solo che l’abitudine di arrangiarsi e farsi prestare gli strumenti, all’Olympic Studios non funzionava: il conto divenne salatissimo e il manager non riuscì a vendere subito i nastri. Passano giorni, mesi, anni e poi c’è la vita, che è dura, con i membri della band ormai sparsi per il mondo e con altri mestieri, pur senza mai abbassare le chitarre. Oggi l’album dei Moby Dick c’è (di nuovo Akarma) ed è un po’ l’epilogo classico di tutte queste vicende: da metà anni Settanta in poi il rock italiano entrò in crisi, tramortito dalle discoteche, falcidiato dal servizio militare o da micidiali furti di strumenti e amplificazioni (giuro). Ma fu solo una ritirata strategica, credetemi: i dischi son lì ad aspettarvi e i musicisti li trovate ogni sera sui palchi di tutt’Italia. A suonarvele.
(Dicembre 2004)

hrc206aIan Gillan, parla con me
Fuori dal camerino, l’avvertimento: “se vi offende la nudità, non entrate!”. Dentro c’è Ian, vestito attillato di nero, come un mimo, che sorseggia una minestra in bicchiere. 61 anni, la faccia stanca di chi sta facendo un tour di successo ma anche il piacere della rivincita.
Com’è che non ti vediamo mai, in tivù?
Sai, le nuove generazioni cresciute con la tivù, la conoscono bene, sanno usarla. E sono giovani e belli. L’idea di un sessantenne sudato che si agita ha senso in un club, non nel tuo soggiorno. Noi siamo un po’ come gli stand up comedian: se vai in tivù a dire una battuta, la bruci per sempre. In un club puoi dirla quante volte vuoi, c’è un’audience diversa ogni sera. Questo è il bello di un tour.
Starai in giro tanto?
Un anno e mezzo, senza mai tornare a casa. Con mia moglie organizziamo delle vacanze sparse qui e là per il mondo, durante le pause del tour. Mi raggiunge lei.
E ti piace visitare altri paesi?
Sí, è molto educativo! Sono cresciuto nei suburbi di Londra e ho amato l’Inghilterra del dopoguerra. Era un paese ospitale. Ora non sono più tanto sicuro di amarla. La successione dei governi ha portato a una separazione culturale, non c’è più un’unità. Come negli USA: entità diverse, gruppi etnici diversi, fratture sempre più profonde.
Parli mai di calcio con Steve Morse (il chitarrista americano dei Deep Purple)?
E come potrei? Non capisce niente! Del resto io non so nulla di football americano. Cos’è un down? Ma dai…
Tolto Pavarotti, conosci qualche altro rocker italiano?
C’è il tizio ubiquo… quello che ha fatto dei duetti…
Ramazzotti?
Ma no, quello che è sempre in giro con tutti e li invita negli album, dai…
Zucchero?
Zucchero! E beh, come fai a non conoscerlo?
Fai ancora una vita da rocker… che gente frequenti?
Io adoro la gente che incontri di notte. Quando ero giovane finivo di lavorare alle tre del mattino, con cinque show sulla schiena, stanco morto ma pieno di adrenalina. E frequentavo chi era ancora in piedi a quell’ora: camerieri, ballerine, strippers e prostitute… Son cresciuto con loro e sono le persone più eccezionali. Sincere, affidabili, meglio di quelle che incontri di giorno.
I Deep Purple non hanno fama di grande profondità, ma forse è perché nessuno s’è mai messo a leggere i loro testi. L’ultimo album (Rapture of the Deep, il più venduto dagli anni Ottanta) ha una qualità spirituale… sei religioso?
Io non sono religioso ma capisco chi lo è. Il senso di appartenenza, di congregazione. È una ricompensa per soddisfare certe curiosità spirituali. Non vorrei essere blasfemo, ma è come un orgasmo collettivo, la religione. Ricordo che da bambino tornavo a casa, dopo la comunione o la messa, e praticamente volavo sul terreno. Ma non era soddisfacente dal punto di visto intellettuale. All’epoca non me ne curavo perché non ci pensavo, ma ora sí. M’interessa molto la metafisica, adesso…
hrc206bMetafisica, una rockstar?
Sí, mi sono appassionato al lavoro dei poeti metafisici o a Tennyson… e trovo eccezionali anche gli scienziati di fine Ottocento, come Charles Darwin. Quello che ha scritto, ora lo leggiamo non solo come testo scientifico ma anche come commento sociale a una società razzista e classista. Darwin ha ritardato la pubblicazione de L’origine della specie per qualcosa come vent’anni, ma a un certo punto era abbastanza anziano da non aver paura delle reazioni della chiesa… E grazie a dio l’ha pubblicato! Sai, la mia vita è quasi finita (vedendolo così vispo, Gillan doppierà i cent’anni, probabilmente sul palco)… non sono religioso, no, ma esaltatissimo dal futuro!
Senti, ti posso chiedere cosa pensi della guerra in Iraq?
Credo che il nostro primo ministro (non si degna neanche di citarlo) dovrebbe essere processato. Ha preso per il culo il parlamento, i reali, l’opposizione e la gente comune, per trascinarci in una guerra di cui non ha minimamente valutato le conseguenze. Abbiamo imposto artificialmente dall’esterno il nostro credo politico, ideologico e religioso ad un paese… quanto è morta la democrazia, così?
Di solito rispondono “Però adesso abbiamo Saddam Hussein”…
E allora? Con le sanzioni, negli ultimi dieci anni Saddam non ha fatto niente! Lo stanno processando per cose più vecchie, come aver trucidato 170 persone in un villaggio… George W. Bush, quando era governatore del Texas, ha firmato senza neanche leggerle le condanne a morte per 273 persone. Okay, erano stati processati, ma in processi dove le prove erano rifiutate nel dibattimento e cose così…
Non hai grande fiducia nei leader occidentali…
I leader dell’ovest sono cresciuti giocando a Monopoli, quelli dell’est giocando a scacchi e sanno prevedere qualche mossa più in là. Questo oltre ad avere una consapevolezza della vita più profonda della nostra.
E tu l’hai capito il senso della vita?
(Gli si illuminano gli occhi) Certo, assolutamente! Devi avere presenti due cose per essere felice, una fisica e l’altra metafisica: il senso di appartenenza e uno scopo. Ricordarti da dove vieni e sapere dove stai andando. Senza, la vita non ha senso.
(2 marzo 2006)

(Continua – 2)

La prima puntata è qui.

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St. Pauli e dintorni. Storie tra la Hafenstrasse ed il Millerntor https://www.carmillaonline.com/2015/06/25/st-pauli-e-dintorni-storie-tra-la-hafenstrasse-ed-il-millerntor/ Thu, 25 Jun 2015 21:15:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23446 di Gioacchino Toni

st.pauli siamo noiMarco Petroni, St. Pauli siamo noi. Pirati, punk e autonomi allo stadio e nelle strade di Amburgo, Derive e Approdi, Roma, 2015, 221 pagine, € 17,00

Il saggio narra storie di resistenze, ribellioni, solidarietà, rivolte, contraddizioni e pratiche dell’obiettivo a ridosso del porto di Amburgo, sullo sfondo delle trasformazioni e delle conflittualità tedesche. Dopo aver attraversato le grandi lotte dei portuali di fine Ottocento, l’ascesa al potere e la dittatura del nazismo, la tragedia della guerra, le speculazioni edilizie e la ristrutturazione produttiva, il declino ed il [...]]]> di Gioacchino Toni

st.pauli siamo noiMarco Petroni, St. Pauli siamo noi. Pirati, punk e autonomi allo stadio e nelle strade di Amburgo, Derive e Approdi, Roma, 2015, 221 pagine, € 17,00

Il saggio narra storie di resistenze, ribellioni, solidarietà, rivolte, contraddizioni e pratiche dell’obiettivo a ridosso del porto di Amburgo, sullo sfondo delle trasformazioni e delle conflittualità tedesche. Dopo aver attraversato le grandi lotte dei portuali di fine Ottocento, l’ascesa al potere e la dittatura del nazismo, la tragedia della guerra, le speculazioni edilizie e la ristrutturazione produttiva, il declino ed il degrado della zona in mano alla malavita, la rinascita del quartiere, racconta Petroni, si deve, ad inizio anni ’80, ad una nuova composizione sociale e politica: “A St. Pauli, all’ombra del porto di Amburgo, simbolo secolare delle lotte del proletariato tedesco, autonomi, militanti politici, antifascisti, ecologisti, punk e tifosi di calcio attraverso una stagione di lotte, a tratti durissime, seppero dar vita a un nuovo modello sociale rivoluzionario”.

“Da sempre, l’area dove oggi si estende St. Pauli è stata la casa per gli ultimi della società, per quelli che svolgevano lavori duri, per gli indesiderati, per coloro che venivano cacciati dalla città (…) Prostitute, forestieri, senzatetto, appestati, contrabbandieri e rivoluzionari non erano graditi al rigido mondo anseatico di Amburgo, ma a St. Pauli, dove il potere ha sempre messo alla prova lo spirito di resistenza della sua popolazione, erano di casa”. Le vicende narrate da Petroni partono dalla grande trasformazione della zona del porto della città di Amburgo avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento che determina una netta separazione della città su base classista. All’interno degli strati più poveri della popolazione, inoltre, l’azione politica socialdemocratica, focalizzandosi sulle sole componenti operaie più qualificate, abbandona a se stessa quell’ampia area di lavoratori occasionali e/o dequalificati che in tante città rappresenta una componente non certo irrilevante. In molti casi, sono proprio questi lavoratori appartenenti a quella feccia disdegnata dalle organizzazioni operaie tradizionali, a porsi alla testa delle mobilitazioni, come avviene nel grande sciopero del 1896, che vede in azione, ad Amburgo, per un paio di mesi, ben 15000 portuali. La colpevole miopia socialdemocratica, tuttavia, rappresenta forse il suo difetto minore, visto il ruolo avuto da tale organizzazione politica, poco dopo, nella repressione delle istanze rivoluzionare spartachiste.
Riprendendo gli studi di Sergio Bologna, l’autore ricostruisce alcuni momenti di resistenza proletaria all’avanzata nazista nella battaglia per il controllo delle osterie di Amburgo, che rappresentano uno spazio di cultura politica operaia. La radicalità dello scontro è testimoniata dai numeri: nel solo 1931 restano a terra un’ottantina di nazisti ed un centinaio di comunisti. L’andata al potere di Hitler determina un violentissimo livello di repressione nei confronti degli oppositori; nel solo luglio del 1933, nella città di Amburgo, vengono arrestati 2400 comunisti. Nonostante tutto, nel 1941-42 sono in piedi cellule di resistenza in una trentina di grandi fabbriche amburghesi, soprattutto nei quartieri navali di St. Pauli ed Altona.
La situazione di Amburgo alla fine del Secondo conflitto mondiale è tragicamente sintetizzabile da alcuni dati: i bombardamenti della Raf radono al suolo il 75% della superficie edificata e l’80% del porto, il numero di morti ammonta a 35000 esseri umani. Nel giro di un decennio il sistema produttivo tedesco riesce a rimettersi in piedi e ad ammodernarsi tanto che Amburgo diviene l’emblema della capacità di ripresa teutonica. Nel dopoguerra la zona a luci rosse di St. Pauli diviene una sorta di calamita turistica per i tedeschi delle zone limitrofe e per i militari britannici stanziati nel nord della Germania. Nei primi decenni del dopoguerra una parte importante dell’economia di St. Pauli gravita attorno al commercio del sesso a cui si aggiungono, ben presto, lo spaccio di droga ed il traffico di armi. Con gli anni ’80, diviene sempre più evidente come le cose stiano cambiando nelle grandi città industriali e, nello specifico, nella zona del porto di Amburgo. Speculazioni edilizie, disoccupazione determinata dai processi di modernizzazione delle attività portuali e della cantieristica, causano lo smembramento del tessuto sociale locale: “la conflittualità di quel proletariato che aveva animato a suon di rivolte, insurrezioni e resistenze la prima metà del secolo sembrava smarrita (…) negli anni Settanta regnavano incontrastate criminalità organizzata, prostituzione e droga (…) dilagavano il disagio, la disperazione e la povertà (…) La lunga caduta del quartiere verso gli inferi terminò con il flagello dell’aids”. La diffusione del virus finisce col determinare anche la crisi dell’economia gravitante attorno al sesso. Nei primi anni ’80 St. Pauli rappresenta uno dei luoghi più malfamati della Germania occidentale, abitato soprattutto da immigrati sulla soglia di povertà.

1980-hafenstrasseLa rinascita politica e sociale del quartiere, nei primi anni ’80, secondo la ricostruzione proposta dall’autore, si sviluppa attorno a due luoghi ben precisi: la via del porto, la Hafenstrasse, e lo stadio Millerntor. Per comprendere la composizione dei giovani militanti che occupano i palazzi sulla Hafenstrasse, occorre ricostruire la provenienza di queste pratiche di illegalità politica. L’autore individua la genesi di tali comportamenti nella raffica di scioperi selvaggi che, nei primi anni ’70, attraversa le fabbriche tedesche. Tale ondata di mobilitazione sancisce la fine dell’epoca dell’etica del lavoro dell’operaio specializzato. “Dinanzi allo sviluppo delle macchine e della produzione, l’estraneità operaia si fece sovversione e trovò nella lotta al lavoro e nelle attività di sabotaggio la sue espressione. Opponendosi a qualsiasi forma di gerarchia nella fabbrica così come nel partito, i giovani operai risultarono incompatibili con qualsiasi ‘morale produttiva’ e maturarono una nuova ‘coscienza di classe’ che li portò a negare la loro stessa vita: volevano lottare per un nuovo modello di socialità e per soddisfare i propri bisogni. Era il ‘rifiuto del lavoro’”. Ben presto questo tipo di la conflittualità si è esteso fuori dai cancelli delle fabbriche investendo il territorio. Le lotte antinucleari rappresentano un ambito di mobilitazione importante per i movimenti tedeschi a cui si aggiunge la questione abitativa. È da questa tradizione di conflittualità diffusa, di ostilità nei confronti del lavoro e di pratica dell’obiettivo che derivano le pratiche dei giovani autonomen tedeschi che, nei primi anni ’80, insieme ad anarchici, punk, emarginati, immigrati e settori di lumpenproletariat occupano alcuni palazzi di fronte al porto lungo la Hafenstrasse. Ciò che avviene ad Amburgo non è certo un fatto isolato, i primi anni ’80 vedono in Germania un imponente ondata di occupazioni; solo a Berlino, tra il 1980 ed il 1981, si contano 160 edifici occupati.
Il libro ricostruisce dettagliatamente diverse ondate di resistenza attuata dal quartiere del porto in difesa delle occupazione dei palazzi in Hafenstrasse; ronde, scontri, barricate, cortei, mobilitazioni solidali. In tutti questi episodi l’autore non manca mai di evidenziare come alle capacità di tenere la piazza e di difendere lo spazio si associ sempre l’aspetto comunitario; la solidarietà risulta essere in tutte queste vicende una componente importante per la tenuta del quartiere. Solidarietà che nel corso degli anni oltrepassa i confini nazionali per assumere una dimensione europea. “Hafenstrasse resiste” riecheggia negli anni ’80 anche sulle riviste radicali e sui muri di tante città europee.

rote_floraA cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 la situazione di St. Pauli conosce un nuovo momento turbolento determinato dall’offensiva della speculazione edilizia e dalle politiche locali. In questo periodo, nei pressi di Altona, dall’occupazione di un vecchio teatro in procinto di essere trasformato in attività commerciale, nasce l’esperienza di un nuovo spazio sociale denominato “Rote Flora”, destinato a smuovere le acque del quartiere. Ad inizio degli anni ’90 la situazione torna a farsi pesante anche nell’Hafenstrasse, la cui sopravvivenza è messa, ancora una volta, a rischio. Nuovamente si apre un periodo di confronto serrato con le autorità e le forze di polizia.

La Prima metà degli anni ’90 è caratterizzata soprattutto da rigurgiti neonazisti. I gruppi di estrema destra, forti anche del proselitismo fatto nelle curve degli stadi e tra i giovani disoccupati, soprattutto nell’ex Germania Est, danno luogo ad una drammatica serie di attacchi nei confronti dei rifugiati e di chi non è considerato degno di esser detto tedesco. L’episodio, tristemente, più famoso è sicuramente quello di Rostock, ove, nell’agosto del 1992, nel sobborgo di Lichtenhagen, centinaia di giovani neonazisti, attraverso il lancio di molotov, incendiano indisturbati uno stabile ove alloggiano rifugiati vietnamiti tra gli applausi della popolazione locale e lo sguardo benevolo delle forze di polizia. L’anno successivo si scopre dai verbali di un commissario di polizia l’esistenza di un accordo tra i neonazisti e la polizia ove si concorda un “non intervento” delle forze dell’ordine durante l’assalto. In tale contesto nascono diversi gruppi di antifascismo militante, come gli “Autonomen Antifa”, che si richiamano all’esperienza di autodifesa del periodo weimariano, e si struttura anche un coordinamento antifascista nazionale denominato l’Antifaschistische aktion/Bundeswite organisation (Aa/Bo).

FC St. Pauli - SV Werder BremenL’altro polo attorno al quale si sviluppa la turbolenta comunità di St. Pauli è rappresentato dallo stadio Millerntor. Per comprendere la portata delle novità che caratterizzano la “particolare tifoseria” locale, Petroni ricostruisce a grandi tappe la trasformazione del calcio tedesco a partire dagli anni ’70, quando gli stadi in Germania non sono particolarmente colpiti da fenomeni violenti; la composizione operaia caratterizza i settori popolari degli impianti e, dal punto di vista identificativo, la componente più calda è identificabile dal gilet di jeans pieno di patch con i simboli della squadra tifata. Si tratta di una tifoseria priva di una vera e propria inclinazione politica pur non mancando di manifestare atteggiamenti machisti, omofobi e xenofobi. Il 1982 è l’anno della svolta per le curve tedesche: iniziano ad essere presenti in molti stadi gruppi di bonehead dichiaratamente di estrema destra, bandiere e saluti nazisti ed una massiccia dose di violenza. Quando è di scena la nazionale, soprattutto in trasferta all’estero, si creano temporanee alleanze tra gruppi di estrema destra pur appartenenti a tifoserie tradizionalmente nemiche. “La retorica dell’estrema destra, che mostrava un’immagine semplice della realtà con dei nemici ben chiari che andavano dall’immigrato al comunista, dall’ebreo all’omosessuale, aveva creato un contesto di violenza generalizzata e una miriade di partiti e gruppuscoli”. In diverse occasioni, a margine della partita, gruppi organizzati di tifosi neonazisti tentano di dare l’assalto a locali, centri ricreativi od abitazioni nemiche, come nei quartieri di Kreuzberg, a Berlino, o St. Pauli, ad Amburgo.

st_pauli_antifaLa storia della piccola ed anonima squadra di calcio del St. Pauli Fc, a partire dai primi anni ’80, inizia ad intrecciarsi con i movimenti che popolano il quartiere. Il testo evodenzia come la presenza di attivisti sulle gradinate non derivi da una pianificazione di intervento politico ma abbia un’origine spontanea; lo stadio Millerntor è al centro del quartiere ed inevitabilmente inizia ad essere frequentato anche dalla galassia alternativa che abita la zona. La tifoseria storica della squadra, tradizionalmente apolitica e composta da lavoratori portuali e da gruppi di Kutten, inizia ad essere affiancata, nel corso della stagione calcistica 1986/87, dalla presenza sulle gradinate di un centinaio di giovani alternativi ben individuabili dai capelli colorati abbinati al nero di felpe e giubbotti in pelle. Tale presenza inizia ad attrarre parecchi giovani anche per la convivialità e la dose massiccia d’umorismo che caratterizza i loro slogan derivati dal mondo politico e trasformati ironicamente ad uso calcistico: “Mai più fascismo! Mai più guerra! Mai più 3. Liga!”. La bandiera pirata, il Jolly Roger, diviene, ad un certo punto, l’icona simbolo dell’avvenuto legame tra squatter, punk e tifoseria del St. Pauli. Nel testo vengono ricostruite puntualmente le trasformazioni del mondo calcistico tedesco e come la particolare tifoseria del St. Pauli cerchi di dar vita a modalità differenti di vivere il calcio, tra socialità ed impegno politico. I tifosi locali non solo sono in prima linea nella costruzione di una rete di contrasto, sia culturale che militante, al dilagare del neonazismo, del razzismo, del sessismo e dell’omofobia nelle curve, ma non mancano di intervenire anche contro la trasformazione sempre più mercificata del calcio ed l’espulsione economica delle componenti più popolari dagli stadi (politica inaugurata dall’Inghilterra thatcheriana). Gli anni ’90 si sono caratterizzati per l’infiltrazione neonazista nelle curve, soprattutto nelle tifoserie di Rostock, Dresda, Lipsia ma anche nella tifoseria della più blasonata squadra di Amburgo (HSV – Hamburger Sports-Verein).
Dalla metà degli anni ’90, la componente più politicamente schierata della tifoseria del St. Pauli deve confrontarsi con un generale processo di commercializzazione giunto a toccare anche la piccola formazione amburghese. La società inizia a “mettere a profitto” l’etichetta di “squadra alternativa” giungendo, nel 2000, ad assorbire come logo, al fianco della porta di Amburgo, il Jolly Roger, ormai diventato simbolo della tifoseria. Il teschio con le tibie incrociate, introdotto sulle gradinate del Millerntor dai punk e dagli alternativi nei primi anni ’80, diviene un brand commerciale. Alcune componenti del tifo iniziano ad abbandonare la squadra decidendo di seguire una vicina formazione meno celebre, l’Altona 93, altri propendono per cercare di mantenere in vita il vecchio modo di concepire il calcio come fenomeno sociale opponendosi alla mercificazione. Nel 2011 va in scena la protesta “socialromantica”: all’interno dello stadio, all’entrata in campo delle squadre, l’intera tifoseria sventola bandiere rosse con teschi neri ed espone lo striscione: “Bring Back St. Pauli”. “Migliaia di tifosi hanno personalmente cucito e disegnato la propria bandiera con un teschio diverso da quello ufficiale che hanno chiamato Jolly Rouge” e, dopo la partita, danno vita all’immancabile corteo lungo le vie del quartiere, invitando al boicottaggio dei consumi all’interno dello stadio e delle aziende che sponsorizzano la società. Quella moltitudine di teschi neri su sfondo rosso rappresenta la riappropriazione dell’emblema da parte dei tifosi: si tratta di qualcosa che non appartiene a nessuno ma al tempo stesso a tutti, dunque non può essere messo in commercio.

Rote-FloraNella parte finale del libro, fanno capolino questioni legate alla stretta attualità. Nel 2013 si intrecciano nel quartiere ribelle alcune spinose vertenze. L’arrivo ad Amburgo, dall’Italia, di 350 profughi africani sbarcati nel 2011 a Lampedusa, porta alla costituzione, in loro difesa, del gruppo “Lampedusa in Hamburg” e viene rilanciata la campagna “Nessuno è illegale”. Il contenzioso riguarda la concessione del diritto di asilo collettivo e non individuale, come vorrebbero le autorità. “We are here to stay”, diventa la parola d’ordine che riecheggia ovunque nel quartiere ed, ovviamente, allo stadio. Altre questioni che toccano St. Pauli riguardano la minaccia di sgombero del palazzo Esso-Häuser che ospita circa un centinaio di famiglie e dello spazio Rote Flora.

Il testo di Petroni ha il merito di ricostruire un lungo percorso di lotte sociali e di conflittualità di fronte al porto di Amburgo. Sicuramente lo fa da una prospettiva parziale, resta il fatto che le storie narrate da questo testo difficilmente potranno essere cancellate definitivamente e senza colpo ferire. È la storia di St. Pauli a suggerirlo.

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/01/la-controfigura-eduardo-rozsa/ Fri, 01 May 2015 21:00:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21985 di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman [...]]]> di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino.
Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman fino alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti, e poi di salire a bordo di uno dei due piccoli battelli da cui, all’inizio per scherzo, con gli altoparlanti ci si chiamava, si dibatteva, si litigava, tra i flutti opachi e le luci della Riviera?
«Il gelato era buono, tutto è molto bello, ma siamo venuti qui per discutere di questioni serie», sostenevano i delegati del Sud America.
«Gli abbiamo anche spazzato il culo… Dammi il microfono», borbottava un capo degli studenti bolognesi.
Mi ero imbucato. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi studenteschi, ma incontrai per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Così in quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto.
Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo».
Il bulgaro Ognian Zla*ev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese».
Un cileno, lavandoci le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma…»
L’altissimo Emídio Guerre*ro, Partido Social Democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?»
Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, ma sono fiero di vivere a…»
Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia».
Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?»
Il cortese, mite professore che accompagnava Dusko e gli altri iugoslavi: «No, ti confondi, il Nagorno Karabakh…»
All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, come loro, cominciai a far parte di collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università… Ricordo molto meglio l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che la minoranza ungherese in Romania era oppressa dal regime di Nicolae Ceausescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi.
Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava come una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano, che sa fare di tutto; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista.
Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici incerti, avversari, probabili nemici: aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava e riusciva a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman: lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, feci amicizia e scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento:

RÓZSA GYÖRGY EDUARDO
Budapest
Ajtósi Dürer sor 5. II/1
H-1146      Telefon: ***

L’estate successiva, l’agosto del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, che aspettava il nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere dei calici e a stappare una bottiglia di champagne.
«Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele.
Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «Possiamo fare la doccia al bagno turco. Siete mai stati? Non è tanto lontano. Mangiamo dopo. Vi accompagno a un ristorante, poi potete tornare qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due».
Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda.
Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli Apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia nude le natiche. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio.
Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i Mongoli, Mattia Corvino, i Turchi, i Bagni Rudas…
«Qui hanno girato un film americano… Dopo Conan il Barbaro e Terminator questa volta era un poliziotto russo».
Daniele discute con Eduardo, mentre mi estraneo, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Non sono un uomo d’azione né un guerriero.
Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini».
«È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato… E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo».
«E tu?»
Eduardo ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così…»
Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale».
Pensa che sia giusto limitare i poteri del moderno principe o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda bastano a fiaccarmi, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito, non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno.
«Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo.
Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota.
Usciamo dal bagno turco e, non so come, arriviamo a sederci in un ristorante di Pest, sull’altra riva del fiume, all’aperto. La brezza che spirava lungo il corpo del fiume arriva fino ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo crudo, salse, pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già; è segretario della gioventù comunista della Università Loránd Eötvös senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore; conosce, non nasconde tutte le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare e a farsi benvolere, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare le sue avventure, che conosciamo entrambi solo in parte.
Perché si chiama Eduardo? Perché è bilingue, anzi poliglotta?
Ne ha parlato il giorno in cui ci siamo incontrati a Bologna, gli abbiamo chiesto di riparlarne per le strade di Budapest, lo invitiamo a parlarne ancora al ristorante, e i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani sera, non potranno fare a meno di tornare a raccontare il loro passato.

Dei parenti di György Rózsa, padre di Eduardo, in Ungheria non rimane nessuno. Il nonno fu fucilato dalle Croci frecciate, i nazisti ungheresi. Risparmiavano le munizioni: legavano tre prigionieri con filo di ferro, sparavano a uno, gettavano nel Danubio il grappolo umano. Gli altri parenti del padre, ebrei, non c’erano più. I nazisti e i loro camerati magiari avevano sterminato mezzo milione di ebrei ungheresi, mentre gli altri, circa duecentomila, talvolta con l’aiuto di diplomatici stranieri come lo svedese Raoul Wallenberg, erano riusciti a trovare un precario rifugio nel proprio paese, a ottenere i documenti o a guadagnare una qualsiasi via per espatriare. Quello che successe a György durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva tra i sedici e i ventidue anni, non mi è affatto chiaro. Eduardo ci disse che il padre, non riesco a ricordare quando, era scappato con uno zio, ma forse mi sbaglio… Ho letto però che nel 1942, in piena guerra mondiale, prima che il governo ungherese consegnasse gli ebrei stranieri ai nazisti, prima che la maggior parte degli ebrei ungheresi fosse sterminata nelle camere a gas, il giovane pittore György Rózsa avrebbe vinto il terzo premio a un improbabile concorso internazionale per arti figurative, a Firenze. Un ebreo, credo già comunista, forse con documenti falsi, forse no, per ritirare un premio o con la scusa di ritirare un premio, sarebbe dunque passato da Firenze, in quell’Italia fascista che già quattro anni prima aveva espulso tutti gli ebrei stranieri, compresi quelli ungheresi. Non so che cosa sia successo. Non so se György Rózsa dall’Italia sia poi fuggito rifugiandosi da qualche parte; non so se in Ungheria sia tornato prima o dopo la fine della guerra. Sono trascorsi molti anni, e la memoria del mio compagno di viaggio Daniele in questo non ci aiuta. Potremmo chiedere spiegazioni soltanto alla sorella di Eduardo, l’unica persona della sua famiglia che non abbiamo conosciuto nell’agosto del 1989, l’unica che oggi sia rimasta in vita.
Dopo la guerra, nel 1948, mentre gli stalinisti prendevano il potere, György era emigrato da Budapest a Parigi dove gli era stata assegnata una borsa di studio in storia dell’arte. Si fece conoscere come pittore, cominciò a dedicarsi al teatro. Nel 1952 prese parte a una spedizione etnografica e archeologica francese in Bolivia e qui decise di stabilirsi, prima a La Paz e poi Santa Cruz de la Sierra. Era la città in cui era cresciuta Nelly Flores Arias, un’insegnante di liceo, cattolica, di origine spagnola, anzi catalana. Dal matrimonio di Nelly e György nacquero un figlio, Eduardo, e poi una figlia. A Santa Cruz de la Sierra, negli anni Sessanta, il padre di Eduardo divenne conosciuto e stimato come insegnante, pittore, scultore, drammaturgo, scenografo, architetto… Abitava ancora in Bolivia con i famigliari quando Ernesto Che Guevara fu ucciso a La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz.
Fu un evento che cambiò le loro vite. György, che tutti in Bolivia chiamavano Jorge, e che ormai si sentiva a casa, era un comunista e come comunista non poteva astenersi dall’attività politica. Era un intellettuale marxista, un fondatore di istituzioni culturali e laboratori artistici, un organizzatore di cultura e forse anche di altro. Il professore ungherese non era Che Guevara, ma si dava da fare. Chi si impegna per trasformare la società corre dei rischi: la storia non finisce, e nemmeno si prende una pausa, per lasciar crescere i tuoi figli in pace. La famiglia di Eduardo fu costretta a lasciare la Bolivia per il colpo di stato del generale Hugo Banzer e si rifugiò in Cile alla vigilia del colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Fuggirono anche dal Cile, vissero per breve tempo in Svezia.
«Mi mancava la luce, d’inverno, faceva troppo freddo», diceva Eduardo. «Quel temperamento, quel modo di vivere non era per me».
Nel 1974 decisero di tornare in Ungheria, dove gli anni peggiori erano passati.
«Il periodo post-stalinista…», diceva il figlio.
«Il periodo neo-stalinista…», correggeva il padre.
Si cenava nel soggiorno di casa loro. Si parlava dell’insurrezione ungherese nell’autunno 1956, dei due interventi delle forze armate sovietiche, dell’eliminazione di Imre Nagy, della lunga stagione di János Kádár. Erano argomenti che prevedevo, da cui mi aspettavo risposte su cui misurare le divergenze di opinione tra il figlio e il padre, che però non sembrava un uomo loquace.
Si era parlato, sempre in italiano, anche di Giuseppe Garibaldi, America Latina, Simón Bolívar, Grande Colombia, Panama, Bolivia… Ero il più silenzioso. Avevo poco da dire e molto da ascoltare. Non mi sentivo un figlio della borghesia colta, non ero diplomato al liceo classico, l’ultimo anno delle superiori avevo trascurato lo studio della Storia perché non era uscita come materia della maturità, all’università non avevo ancora preparato esami sugli ultimi cinque secoli. Daniele partecipava alla discussione, mostrava di sapere di che cosa si parlava. Mi sentivo superfluo, anche se Eduardo, che stava seduto di fronte a noi, con lo sguardo non mi ignorava.
Mentre Nelly Flores, in spagnolo, loquace quasi come il figlio, confrontava la Bolivia e la Colombia, parlava di cocaina, di criminalità e di case presidiate da telecamere, mi guardavo intorno. Alle mie spalle ricordo una piccola cucina; a sinistra della tavola si estendeva il soggiorno spazioso, sobrio, poco illuminato, le cui finestre si affacciavano sul Parco della città, verso Piazza degli eroi. Dietro ai due uomini della famiglia Rózsa si apriva un disimpegno da cui subito si entrava nella stanza di Eduardo.
Mentre in camera sua ascoltavamo dischi in vinile, tra cui il discorso di un comizio spartachista e l’Internazionale, mi accorgevo, con vergogna e rimorso, di covare gelosia per l’intesa che avvertivo crescere tra Eduardo e Daniele, e di non riuscire più a nascondere una blanda, vaga ostilità nei confronti del nostro ospite. Cercavo di spiegarmi, di giustificare le ragioni del rancore: ero invidioso di uno che la sapeva lunga, che sapeva giocare e forse vincere su troppi tavoli? Ci aveva ubriacati in un’enoteca, vicino al castello di Buda, nei cui cessi avevo vomitato vino rosso francese, ci aveva fatto accomodare in un grande caffè stile liberty dove nel primo Novecento avevano discusso intellettuali come György Lukács, ci aveva portati in una sinagoga e poi a pranzo in un ristorante ebraico, ci aveva permesso di visitare fuori orario un locale dove alcuni suoi amici dalla faccia molto abbronzata giocavano a biliardo, quella sera ci avrebbe accompagnati al grande parco di fronte a casa sua per assistere alle prove di uno spettacolo e, se avessimo voluto, per ballare, stretti con altri ragazzi e ragazze, le danze tradizionali dell’Ungheria.
Gli ero grato, lo stimavo per la sua versatilità, apprezzavo la sua disponibilità, la sua generosità nel condividere la sua ricchezza di memorie, di esperienze, di rapporti umani. Avevo passato quei giorni a dire: figurati, grazie, non dovevi, non disturbarti, sei proprio gentile. Facevo più complimenti di una nonna campagnola a casa dei consuoceri cittadini benestanti. Avevo bisogno di trovare una buona ragione per i fastidi, per il sospetto, per il mio senso di minorità.
A Eduardo, in fondo, si poteva perdonare l’indulgenza, o meglio la pacatezza, che suo padre però non dimostrava, verso il regime e verso i carri armati sovietici. Si poteva considerare il grande busto di Stalin, che con malizia aveva collocato all’ombra della sua scrivania, dunque ai suoi piedi, come un poderoso motto di spirito. Non avevo diritto di biasimarlo. Il suo ruolo di dirigente dei giovani comunisti si reggeva sulla capacità di temperare talento ed esuberanza nella lenta prudenza delle riforme: forse lui riteneva che questo accasarsi, questo radicarsi nelle istituzioni, non privo di benefici, fosse un modo efficace per trasformare la società, per rendere costituzionale, come aveva detto, il potere del sovrano. Ma c’era qualcosa di troppo.
Avevamo ascoltato dischi, avevamo visto un cartone animato in cui il monarca, il guerriero, l’umanista Mattia Corvino, vestito da viandante, percorreva le strade del suo regno, prendeva coscienza delle sofferenze del popolo, interveniva per riparare i torti e le ingiustizie perpetrate dai sudditi malvagi contro i sudditi più poveri. È il momento giusto per chiedere a Eduardo chi abbia dipinto le due grandi tele appese tra la finestra, aperta, e l’ingresso della camera. Posso prendermi una piccola rivincita.
«Quale ti piace di più? Attento a rispondere bene».
«Quello di tuo padre è meglio, Eduardo. Si vede che lui è un vero pittore».
«Sei un po’ stronzo, amico mio».
«Sei bravo, ma non si può essere un genio in ogni cosa».
Oltre alla scrivania, altarino sacrilego del Piccolo padre, oltre a un grande letto, abbastanza largo per dormire comodo con la fidanzata ufficiale, insieme ai quadri, ai dischi, a un minuscolo televisore, nella sua camera ci sono libri, riviste, giornali, piccoli trofei, ricordi. Scrive per l’agenzia Prensa Latina di Cuba e per la stampa ungherese. Ci mostra articoli e interviste di cui è autore o protagonista, e poi la sua foto su un quotidiano e sulla copertina di una rivista. Sulla stessa rivista ha pubblicato alcune poesie, nella lingua del padre.
Dopo più di venticinque anni non sono sicuro di ricordare l’ordine dei piccoli fatti, delle parole che ci siamo detti in quella stanza, ma sono sicuro che lì, in quel momento, con quella rivista tra le mani, ho sentito di aver scovato una buona ragione per giustificare la mia diffidenza. Per me, studente di ventuno anni, moralista imbelle, rivedibile alla visita militare, piccolissimo borghese che sta per iniziare a far politica nell’ateneo di una città che di solito è giudicata a misura d’uomo, sicura, se non fosse che… Per me, qualcosa di troppo è scrivere poesie nella strana lingua di tuo padre per una rivista delle forze armate ungheresi.
«Non hai abitato sempre qui, ci dicevi che parli il russo, che hai studiato anche là. Non era uno scherzo, vero?»
Prima di iscriversi alla facoltà di Lettere, Eduardo ha frequentato una scuola militare nel suo paese, ma poi ha studiato per qualche tempo a Mosca, all’Accademia dei servizi segreti dell’Unione Sovietica. Lo dice come per gioco. Non riesco a capire se vuol farci intendere che si è stancato o se ha portato a termine il corso, magari scrivendo distici elegiaci per le forze armate ungheresi. Immagino che la ragione sociale dei servizi di spionaggio e controspionaggio non sia solo organizzare complotti, colpi di stato, attentati. L’intelligence, come si dice ora, ha bisogno di gente istruita, versatile, scaltra, poliglotta: analisti, esperti di crittografia, traduttori, interpreti, accompagnatori di uomini d’affari e diplomatici stranieri. Ora il compagno Rózsa si impegna in patria, per il cambiamento: lavora e compie missioni al confine tra l’Ungheria e la Romania. Proprio domani mattina si recherà da quelle parti, in auto, poi verso il tramonto procederà a cavallo o a piedi. Forse si spingerà oltre frontiera. Ci sono persone che in Romania hanno bisogno di lui: «Ti ricordi quello che dicevo a Bologna?»
«Andrai in Transilvania travestito, come Mattia Corvino?»
E potrei forse riderne ancora, magari con un po’ di disagio, ripensando a noi due, a lui, a noi tre in quella stanza, se non sapessi che Eduardo pochi anni fa è morto, è stato ucciso in una camera d’albergo, molto lontano dall’Ungheria.
Tornerà presto a Budapest, prima che io e Daniele, col passaporto timbrato dall’ambasciata cecoslovacca, proseguiamo il nostro viaggio in treno verso Praga.
Dalla finestra spalancata un alito di vento porta un clamore, come di applausi. Eduardo ci dice che a meno di un chilometro da casa sua, allo stadio, parla un predicatore americano.
«Glielo lasciano fare?», gli chiedo per niente stupito.
Oggi, quando siamo entrati nella sinagoga per poi accedere a un museo sugli ebrei dell’Ungheria, sono rimasto sbalordito davanti a un’enorme bandiera israeliana spiegata davanti alle schiere delle panche vuote.
«Mi aspettavo un luogo di preghiera», dico mentre sento crescere in me una rabbia che riesco a motivare solo in parte.
«Ti aspettavi Cavour? La divisione tra Chiesa e Stato? Non è così. Non funziona così. Il mondo non fa quello che ci aspettiamo per renderci la vita più semplice», mi dice Daniele che ancora all’ingresso del museo mi sente sragionare, sia pure sottovoce. Eduardo ci spiega che un importante uomo politico israeliano sta visitando la capitale, ma io continuo a sbraitare anche davanti alle prime foto del museo, tanto che Eduardo, avvicinato da un guardasala o da una guida, che forse in parte comprende i motivi della mia ostilità, ha il buon senso di decidere che è meglio affrettare la fine della visita. A volte ci ripenso, con la vergogna di chi ha detto troppe parole ingiuste invece di poche e giuste.
«Billy Graham si chiama. È un predicatore americano, protestante. I suoi sermoni attirano molta gente, come uno spettacolo. Riempie gli stadi. Una volta non avrebbe avuto il permesso».
«Ma tu, Eduardo, sei religioso?»
Sua madre è credente, molto cattolica, di famiglia così cattolica da questionare se lui porta la fidanzata in camera; suo padre, invece, grazie a Marx, dice Eduardo, è ateo. Mi pare di capire che Eduardo non sia credente, anche se vuole avere le carte in regola per qualche aldilà; o forse sì, potrebbe essere deista come i dollari americani: «In God we trust». Comunque sia, credente, ateo osservante o altro, non mi sembra una malignità pensare che trovi conveniente aggiungere la tessera di altri club al suo portafoglio.
«Sono dalla parte dei palestinesi. Alla comunità di Budapest noi abbiamo proiettato quel filmato in cui due soldati israeliani spaccano il braccio a un palestinese con il calcio del fucile. C’erano alcuni vecchi che, per non vedere e non sentire, voltavano le spalle allo schermo e pestavano i piedi».
Toglie da una piccola scatola, che sta nel cassetto della scrivania, una catenina d’oro da cui pendono una stella di David e un croce latina.
«Quel predicatore riesce a riempire lo stadio di Budapest. Un po’ di gente è arrivata in pullman. Molti ci vanno per curiosità».
Però non gli interessa. Si sente più legato alla tradizione cattolica. Ci dice che lui da qualche tempo ha simpatia per l’Opus Dei. Ha avuto dei contatti con alcuni austriaci e spagnoli. Sembra che ne voglia diventare un membro, se non lo ha già fatto.
Ormai tutto è così eccessivo e inverosimile che non riesco a credere che lo dica sul serio: deve essere un’altra scusa, una ragione in più per andare in vacanza all’estero, per introdursi in certi ambienti, per acquisire credenziali, per trovare nuove vie di accesso o di fuga. Forse sente arrivare il terremoto, prevede che un’ala del grande edificio del Partito potrebbe crollare. Ma questi pensieri scivolano via, penso che in fondo sia un vezzo, un modo per giocare a vivere molte vite.
Sembra che a molti una sola vita non basti: reincarnazione, oltretomba, corsi di recitazione e, in anni più recenti, nomi di battaglia per i piccoli schermi. Da decenni, o da secoli, puoi leggere romanzi lunghissimi senza farti alcun male, puoi vedere ogni giorno senza fatica film d’azione e serie televisive, ma c’è chi desidera lasciare le periferie poco illuminate, chi vuole uscire di casa e andare a letto per ultimo, chi decide di vincere anche a costo di far vincere un altro se stesso. Non è il caso di Eduardo, penso. Lui, con tutto il suo egocentrismo, crede nel socialismo, vuole riformare il socialismo. Certo non è un Garibaldi né tanto meno un Che Guevara; ritiene che il cambiamento si diriga dall’alto, è disponibile a impiegare tutto il suo estro per recitare più di un ruolo all’interno delle gerarchie e delle istituzioni, comprese le forze armate e i servizi di informazione della sua patria socialista. I collettivi universitari, a cui questa primavera abbiamo cominciato ad avvicinarci io e Daniele, per lui sono aggregati di giovanotti velleitari, anarchici, poco più che ranocchi gracidanti in uno stagno.
«L’Opus Dei è roba spagnola, vero? Ne ho sentito parlare in Matador o in Donne sull’orlo di una crisi di nervi…»
«È internazionale», ghigna Eduardo.
Anche se fosse già incorporato nella Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, preferisco pensare che sia un particolare irrilevante. Con Eduardo si parla del mondo intero mentre si gioca e si ride. Eduardo non ha scrupolo a vantarsi di quando ha fornicato con un paio di hostess assieme a un amico; e il pudore post-edenico inoculato dalla buona famiglia cattolica della madre, cresciuta ed educata provvidenzialmente nella città di Santa Cruz, non lo frenerà dall’invitarci domani in una piscina per nudisti.
Insomma, non riesci a sentirlo come un amico, come un individuo di cui ti puoi fidare, ma il suo fascino un po’ cialtrone, teatrale, carnevalesco, riesce a compensare i rancori, i sospetti per cui provi rimorso. Con lui te la spassi, hai il piacere sadico di ridere toccando qualche nervo scoperto della storia mondiale. Nessuno può prevedere che all’inizio del nuovo secolo, mentre le forze armate degli Stati Uniti faticheranno a consolidare l’occupazione dell’Iraq, Eduardo diventerà vice presidente dell’associazione dei musulmani ungheresi e che, poco più tardi, avrà rapporti sempre più stretti ed espliciti, o se non altro ambigui, con l’estrema destra ungherese.
Salutiamo i suoi genitori, usciamo dall’appartamento di Ajtósi Dürer sor, finiamo la serata al Parco della Città assistendo alle prove di uno spettacolo di danze della tradizione popolare ungherese. Due giorni dopo incontriamo Eduardo, ritornato dalla sua missione alla frontiera rumena, e giriamo ancora insieme a lui, sentiamo per l’ultima volta l’odore dell’ostello e della città. Se ci si allontana dalle colline di Buda o dal Danubio, ancora una volta sembra che l’aria sappia di asfalto, polvere, vestiti male asciugati, che l’aria del grande fiume ristagni come in una Pianura Padana che fugge sempre più lontano dal mare. Ma che cosa pretendo mai di sapere: sono solo un turista. Forse ciò che annuso è l’odore di questi pochi giorni, di questi mesi, dei vestiti che togliamo dallo zaino.
L’ultimo giorno che passo a Budapest non voglio certo andare in piscina. Non voglio spogliarmi e restare completamente nudo davanti a lui. Trova molto divertente la mia ritrosia: «In Ungheria non siamo pudichi come voi in Italia».
«Anche Malcolm X da giovane non voleva essere spiato nei cessi pubblici mentre pisciava…»
Quando andiamo in giro con Eduardo, spesso mi vergogno. Perciò non vedo l’ora di salutarlo e di partire con Daniele per Praga. Per strada, in tram, in metropolitana, in filobus, non importa dove ci si trovi, più di una volta si è messo a cantare delle canzoni di lotta, in italiano, e noi le abbiamo cantate con lui. Conosce Bella ciao, I morti di Reggio Emilia, Contessa, La ballata del Pinelli, Fischia il vento. Ma quando cantiamo l’Internazionale, quando Eduardo ci canta e ci traduce inni ungheresi, penso a tutti i cittadini muti che ci stanno intorno, donne e uomini che immagino con l’espressione attonita già intravista negli ascensori, negli autobus o anche nelle strade più affollate della mia città. Per loro questi sono canti di liberazione o jingle di regimi che detestano? Forse mi vergognerei anche se una parte del pubblico partecipasse: e allora canto, canto come gli altri due, non posso evitarlo, ma un po’ mi vergogno, come fino a pochi mesi fa mi sentivo a disagio se discutevo in autobus con Daniele di poeti italiani contemporanei.
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici, che forse passano l’intera giornata in piscina; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.

Eduardo Rózsa non fu l’unico volto, l’unico incontro di quel lungo viaggio in treno, iniziato in Austria e Ungheria, che ci portò in Cecoslovacchia, Germania Ovest, Belgio, Francia. Eduardo non restò in cima ai miei labili pensieri estivi: Sergej, Heike, Anja, Letizia, Wing May non mi interessavano meno di uno studente trentenne che forse millantava un ruolo nei servizi segreti ungheresi. In autunno, mentre crolla il Muro di Berlino, poco prima che sia fucilato il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, che lui tanto odiava, ci daremo da fare all’università di Bologna: seminari, volantini, manifesti, occupazione di aule, autoriduzione in mensa, corteo, contestazione al Rettore. A gennaio del 1990 occuperemo la nostra università per più di due mesi, così come faranno gli studenti italiani che detestano l’Italia di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, delle tivù di Silvio Berlusconi: «Noi da qui non ce ne andremo più». Solo quando l’occupazione volgerà alla fine mi deciderò a telefonare a Eduardo dall’Ufficio Erasmus occupato, la prima porta a sinistra del Rettorato, che i primi giorni d’aprile è ancora il Centro stampa del Movimento.
Mentre noi, la Pantera, occupavamo da più di un mese, alla fine di febbraio i sandinisti hanno perso le elezioni in Nicaragua, e io quella sera ho preferito smaltire la delusione dormendo nel letto di casa invece che in facoltà. Giorgio, un compagno di Scienze politiche che è là in Nicaragua per scriver la tesi, ci ha raccontato al telefono che i sandinisti, malgrado i bruciori di stomaco, non hanno intenzione di insorgere contro il nuovo governo. Ora, invece, in aprile, si attendono i risultati delle elezioni in Ungheria, le prime, dopo molti decenni, in cui i cittadini potranno scegliere fra più partiti. Non mi aspetto, non spero nulla dalle elezioni in Ungheria, dico a me stesso, anche se prima o poi, in un modo o nell’altro, mi piacerebbe che per qualche prodigio della Storia si uscisse dal «socialismo reale» per entrare in un socialismo più vero.
Per avere notizie telefono a casa di Eduardo, che è contento di sentirmi, ma si lamenta: «Non hai risposto neanche alla mia cartolina con gli auguri di Natale e Capodanno».
Gli dico che siamo impegnati da mesi nell’occupazione; chiede di me, di Daniele, dei miei studi, degli esami.
«Allora, vincete?»
«No, Alberto, non vinciamo».
«Sarà per la prossima volta, allora».
«Nemmeno la prossima volta. Ci vorrà molto tempo».
Lo richiamo da casa, quando l’estate è alle porte, con più calma, questa volta a spese dei miei genitori: «Quando vieni a trovarci in Italia?»
Presto sarà a Venezia per lavoro, ma si fermerà solo qualche giorno, i tempi sono stretti: «No, ho messo la politica a riposare per un po’. Scrivo per un giornale spagnolo».
Ha trovato una strada per andare avanti e se la cava assai bene, penso, malgrado il suo passato o proprio grazie a quel capitale accumulato negli anni. Mi chiede di raggiungerlo a Venezia, ma anch’io ho molto da fare: quasi tutta una vita. Passano anni prima che mi decida a richiamarlo. Non ricordo quante volte provo; gli telefono più di una volta, ma senza riuscire a parlargli, forse tra il 1994 e il 1999, dalla casa dei miei o dal piccolo appartamento in cui vivo con la mia compagna. Soltanto in anni più recenti comincerò a ricercare per la Rete i nomi delle persone che non vedo da anni. Perciò, quando la sua voce risponde al telefono, della nuova vita di Eduardo non so ancora niente.
Non gli dispiace di sentirmi, ma sembra in attesa di qualcosa: come se cercasse di estrarre dalle mie parole il movente della chiamata. Mi risponde che i suoi genitori non vivono più con lui. È stato corrispondente di guerra nell’ex Iugoslavia. Ha girato e vissuto all’estero per alcuni anni. Scrive poesie e ricordi di quella guerra…
«Il fascismo sparisce», gli dico, «ma si moltiplica nei suoi discendenti di formato ridotto. Sembra che nei Balcani si faccia la gara a chi è più fascista».
Mi risponde che il tiranno è la Serbia: «Io vivo per combattere i tiranni».
«Sei ancora legato ai comunisti?»
Non ha nulla a che fare con loro. Il bolscevismo ha tradito le sue promesse, ha negato l’autodeterminazione degli individui e dei popoli.
Non ricordo altro. Non sono nemmeno sicuro di avergli parlato. Forse rammento un sogno.
Sono certo invece di averlo chiamato in anni più recenti. Avevo scoperto con molto ritardo che, nel 2001, Eduardo aveva interpretato se stesso in un film, presentato e premiato a diversi festival, un film che raccontava la sua vita, dall’infanzia alla guerra di secessione della Croazia. In Croazia era andato come giornalista, corrispondente del quotidiano La Vanguardia e collaboratore della BBC, o anche, mi venne poi da pensare, come agente segreto ungherese. Nell’autunno del 1991 era avvenuta, si direbbe, una svolta: si era arruolato nella Guardia nazionale croata, con il nome di battaglia Chico, per combattere le milizie serbe in Slavonia. Aveva fondato e diretto la Prima unità internazionale dell’esercito croato, aveva fatto parte delle forze speciali, era stato ferito più volte e decorato, aveva ottenuto il grado di colonnello, gli avevano concesso l’onore della cittadinanza croata e nell’estate del 1994 era stato congedato.
«Te l’ho detto. Non sono loro i fascisti. Dovresti essere qui per giudicare», rispondeva al padre.
«E io dico e ti ripeto che gli ustascia sono fascisti. Non ti ricordi che i fascisti hanno ucciso tuo nonno?»
«No, non lo sono. E se dici che loro sono fascisti, allora sono fascista anch’io».
Del film avevo visto pochi passaggi. Temevo di velare le mie poche certezze con un altro filtro, di saldare in una nuova compiuta narrazione le ambiguità, le contraddizioni, forse le menzogne, che giacevano come ossa spezzate nella mia memoria. Ricordavo il busto di Stalin in camera sua, l’impegno a favore della minoranza magiara di Romania, ricordavo anche le battute in cui mostrava indulgenza se non proprio simpatia per la Lega Nord di Umberto Bossi. Siamo quasi tutti intossicati di finzione: potevo immaginare qualsiasi complotto, mescolando i suoi racconti sul Golem impazzito, l’Opus Dei, l’apprendistato a Mosca, le sue missioni come giovane agente dei servizi segreti. Ma allo stesso tempo mi sentivo autorizzato a pensare che ci sono persone che nascono in alto, o ci arrivano, e vogliono rimanerci a ogni costo.
«A Zelig set in contemporary international hot zones», avevo letto in un sito che mi rivelava l’esistenza di altri film in cui Eduardo aveva interpretato ruoli secondari.
«Vorrei parlare con Eduardo Rózsa? È la casa della famiglia Rózsa? Il signor Eduardo Rózsa… Lei lo conosce?»
Una voce maschile, che rispondeva in inglese al mio inglese, aveva riso: «Certo, tutti lo conoscono».
Non abitava più in quelle stanze che ci avevano accolto una sera di estate del 1989. Dopo aver combattuto in Croazia e aver interpretato l’ultima versione di se stesso nel film Chico, Eduardo continuava a recitare altri ruoli. L’avevo cercato per sentire se aveva qualcosa da dirmi, ma non avevo più intenzione di sforzarmi per trovare un nuovo recapito. Tutto quello che scoprivo di lui, se era vero, lo leggevo, talvolta lo decifravo a fatica sulla Rete, da siti e articoli scritti in lingua spagnola e ungherese, raramente in inglese. Rovistando nel suo passato, senza aver la possibilità di verificare quanto leggevo, il disagio cresceva, prevaleva sulla curiosità e sullo stupore.
Scoprivo che all’inizio del 1991, quando era stato inviato in Albania come giornalista, aveva favorito la partenza degli ebrei albanesi verso Israele, dove era stato per qualche tempo a visitare i luoghi santi. Leggevo che in anni recenti, dopo l’attentato al World Trade Center, o meglio dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq, si era convertito alla religione musulmana ed era diventato il vice presidente della comunità islamica dell’Ungheria. Si era recato per ragioni umanitarie, come inviato dei musulmani del proprio paese, ma forse anche prima della conversione, in Palestina, Indonesia, Sudan, Iraq, Iran. Negli anni Ottanta e anche più tardi, aveva avuto contatti con il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, condannato all’ergastolo nelle galere francesi, conosciuto come Carlos o anche come lo Sciacallo.
Chi era costui? Lo avevo già sentito nominare… Era un rivoluzionario di professione o un terrorista internazionale o un mercenario, secondo i punti di vista, un marxista-leninista legato ai servizi segreti dell’Est, nonché membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che in anni più recenti sosteneva di avere abbracciato una versione socialista dell’Islam politico radicale. Che rapporto c’era tra Eduardo e Ilich Ramírez? Eduardo, poco prima che io e Daniele lo conoscessimo, era stato la sua guida turistica, il suo interprete, in Ungheria, dove Ilich Ramírez aveva vissuto per alcuni anni. E proprio per questo Eduardo, nel 1991, era stato coinvolto in un processo che nel suo paese fece scalpore. Era un lavoro, obbediva agli ordini, rispettava la legge: fu assolto.
Avevo spedito una lettera per avvisare Daniele, che già viveva a Milano e lavorava all’Università di Bergamo. Daniele non aveva risposto, come se la e-mail non gli fosse arrivata. O forse l’aveva ricevuta, ma era rimasto così segnato da quel che poi aveva letto sulla Rete da cancellare le mie parole scrivendoci sopra le nuove. La nostra memoria umana viene assiduamente raschiata dal trascorrere del tempo come un antico palinsesto di cartapecora, che serba e cela i tenui graffi delle scritture precedenti.
Alcuni mesi dopo Daniele mi telefonò per dirmi che aveva scoperto il film Chico e la nuova vita del compagno Eduardo. Aggiunse qualcosa che ancora non sapevo. Uno scrittore francese, Mathias Énard, aveva pubblicato un romanzo, non ancora tradotto, in cui si parlava di un Eduardo Rózsa. Nel libro si raccontava che, ai tempi della guerra per l’indipendenza della Croazia, Eduardo fu sospettato di aver ucciso un giornalista svizzero e un fotografo inglese, infiltrati o incorporati nella brigata internazionale che lui comandava. Lessi poi che i due indagavano su un traffico internazionale di armi.
Mentre Daniele mi parlava, Eduardo viveva gli ultimi mesi della sua vita. Poteva essere la fine del 2008 o una data qualunque che preceda il 16 aprile 2009, il giorno in cui Eduardo fu ucciso a Santa Cruz de la Sierra, la città in cui era nato il 31 marzo 1960.
A volte la verità colpisce come un pugno in faccia: una scarica di parole che ascolti di sfuggita e capisci solo quando riprendi i sensi, con i gomiti puntati a terra. A qualcuno può perfino capitare di rialzarsi in piedi e non ricordare bene quello che è appena successo. Sono una persona che rumina i pensieri a lungo, e che troppo spesso capisce in ritardo. Sono una persona piuttosto comune. Quella primavera mi sentivo come se, arrivato in cima a una collina, avessi posato un sacco pieno di pietre. Avevo combattuto e stavo vincendo una lunga battaglia segreta di cui non potevo vantarmi. La mattina seguente mi sarei svegliato alle sei e venti per andare al lavoro, ma potevo dire a me stesso: abbiamo casa e reddito; ci amiamo, conviviamo da anni, abbiamo deciso di festeggiare con un matrimonio.
Mi ero seduto a tavola per cenare, cambiavo i canali con il telecomando, non so che cosa cercassi di vedere e ascoltare. Una notizia veloce, solo una foto che scompare dallo schermo mentre alzo la testa. Qualcuno è stato ucciso dalle teste di cuoio in Bolivia. Faceva parte di un commando che progettava l’assassinio del presidente Evo Morales. Il sicario, mi pare di sentire, sarebbe un certo Rosa Flores.
Eduardo non si chiama Flores. Non mi ha mai detto che si chiama Flores. Non mi ricordo. Sul biglietto da visita argentato c’è scritto Eduardo György Rózsa. Sulle lettere che mi ha spedito scriveva Eduardo Rózsa. Al telegiornale non ho sentito dire Eduardo. Non ricordo il cognome di sua madre. Mi sembra di ricordare che lei fosse colombiana. Non ha senso, non esiste un movente: perché Eduardo dovrebbe uccidere Evo Morales? Evo Morales non cerca di affermare la sovranità della nazione sulle risorse della Bolivia?
I giorni seguenti non leggo il giornale. Per settimane, mesi, forse per un paio di anni, non ci penso più, finché una folata della storia mondiale agitando le chiome dei miei nervi si incarica di ripetere la verità con maggiore chiarezza.
Eduardo György Rózsa Flores, figlio di György Rózsa e Nelly Flores Arias, è stato ucciso, assieme ad altri due uomini, dalle forze speciali boliviane nell’albergo Las Americas di Santa Cruz de la Sierra.

[Qui la seconda parte]

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