barbari – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 02 Nov 2025 21:00:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I barbari contro la Storia https://www.carmillaonline.com/2025/08/13/i-barbari-contro-la-storia/ Wed, 13 Aug 2025 20:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88112 di Sandro Moiso

[Per ricordare la figura di Emilio Quadrelli ad un anno circa dalla sua scomparsa, e per gentile concessione della casa editrice, si pubblica qui di seguito la Prefazione alle sue Cronache marsigliesi recentemente raccolte in volume da MachinaLibro, Roma marzo 2025.]

Tra il 6 settembre 2022 e il 22 settembre 2023 vengono pubblicati su Carmillaonline 35 articoli di Emilio Quadrelli, alcuni singoli e altri, la maggior parte, facenti parte di serie diversamente intitolate. Certamente in questi articoli sono presenti tutti i temi della ricerca militante di Emilio: la guerra come pratica comune dell’età dell’imperialismo; il partito (solo [...]]]> di Sandro Moiso

[Per ricordare la figura di Emilio Quadrelli ad un anno circa dalla sua scomparsa, e per gentile concessione della casa editrice, si pubblica qui di seguito la Prefazione alle sue Cronache marsigliesi recentemente raccolte in volume da MachinaLibro, Roma marzo 2025.]

Tra il 6 settembre 2022 e il 22 settembre 2023 vengono pubblicati su Carmillaonline 35 articoli di Emilio Quadrelli, alcuni singoli e altri, la maggior parte, facenti parte di serie diversamente intitolate. Certamente in questi articoli sono presenti tutti i temi della ricerca militante di Emilio: la guerra come pratica comune dell’età dell’imperialismo; il partito (solo e unicamente) dell’insurrezione; la nuova composizione di classe e il ruolo del proletariato migrante al suo interno; la necessaria centralità di Lenin per la riflessione politica antagonista; l’internazionalismo proletario come irrinunciabile riferimento per un movimento di classe, contrario a qualsiasi forma di nazionalismo e di populismo; i “giornali” come forma e fonte di organizzazione politica e del pensiero rivoluzionario; i “barbari” delle periferie metropolitane e internazionali intesi non come ritagli di un passato ormai superato ma, piuttosto, come espressione più avanzata delle contraddizioni sociali causate dalla globalizzazione e, seguito di quest’ultima considerazione, il rifiuto di ogni forma di razzismo e di separazione secondo linee del colore. Anche, e soprattutto, quando questo sia espressione delle forme più retrograde di pensiero ricollegabile all’aristocrazia operaia o ad una classe operaia imbelle e impaurita tout court.

Di questi articoli, ben dodici sono dedicati alla città di Marsiglia, al suo proletariato e alle sue nuove forme di auto-organizzazione. Otto fanno parte delle Cronache marsigliesi uscite tra il 2 aprile 2023 e il 13 luglio dello stesso anno, mentre altri quattro fanno fanno parte della serie Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia, titolo che fa esplicito riferimento al film del 1995 La Haine (in Italia L’odio) di Mathieu Kassovitz, usciti tra il 26 marzo e il 22 aprile sempre del 2023. In questi quattro è centrale il ruolo delle palestre come momento di organizzazione dal basso e come luoghi di addestramento alla preparazione fisica e alla disciplina dei militanti.

Marsiglia diventa così per Quadrelli, oltre che un luogo fisico geograficamente determinato, anche un luogo dell’anima. Una sorta di città ideale, laboratorio di nuove forma di lotta e di organizzazione dal basso. Un campo di battaglia sul quale già si sperimentano le contraddizioni e le lotte del futuro.

Le date degli articoli ci trasmettono l’urgenza vissuta da Quadrelli di comunicare e lasciare in eredità ai suoi lettori e compagni, una riflessione in costante evoluzione che egli continuava a svolgere non per amore della filosofia e della sociologia oppure per rivendicare una sorta di primato dell’intelletto e suo sul corso reale degli eventi e delle lotte, ma piuttosto per contribuire all’avvio di un processo di formazione di un partito formale che avrebbe comunque dovuto adeguare le sue forme a quelle espresse dal partito storico. Intendendo con quest’ultimo non soltanto le lezioni acquisite dalla storia del movimento operaio nelle sue differenti fasi e dalle lezioni delle controrivoluzioni, così come era stato inteso dalla Sinistra Comunista, di cui Emilio fu sempre attento lettore e critico, ma anche come l’espressione dell’immediatezza della soggettività di classe una volta che questa si manifesti attraverso le lotte e, soprattutto, le nuove forme che queste dovevano assumere ad ogni tornata storica per rispondere alle modificate condizioni sociali ed economiche, forme del lavoro in primis, create dal capitale nella sua esigenza di superare e infrangere qualsiasi limite al suo sviluppo. In modo da dar corpo e gambe su cui marciare alla dialettica prassi//teoria/prassi necessaria per la comprensione e la direzione del processo rivoluzionario. Perché in Quadrelli, come per Lenin, le rivoluzioni non si fanno, ma si dirigono.

Una riflessione che si pensava e voleva eretica, perché qualsiasi rottura rivoluzionaria non avrebbe mai potuto rappresentare altro che un’eresia nei confronti di pratiche politiche e forme organizzative troppo statiche perché legate a cicli precedenti di lotta. Tipica, da questo punto di vista, la sottolineatura di come l’azione di Lenin, l’uomo di Kamo, e del bolscevismo avesse rappresentato una straordinaria e vincente rottura con le modalità organizzative e di pensie ro dell’ormai corrotta Seconda Internazionale.

In questo senso, quindi, i militanti rivoluzionari non possono far altro, per potersi ritenere tali, che collocarsi sul filo del tempo, altra definizione tratta dalla Sinistra Comunista1. Non farlo significherebbe, per Quadrelli, essere irreparabilmente condannati al fallimento, all’inutilità e a un rapido e meritato oblio.

In un mondo in cui il capitalismo per mantenere il proprio dominio e realizzare i propri profitti deve continuare a rinnovare le condizioni della produzione e rompere con qualsiasi barriera di carattere nazionale, geografico, politico, economico, militare, tecnologico ed economico, approfittando di qualsiasi occasione per rafforzare la propria posizione politica-militare e di mercato, i militanti della rivoluzione devono rimanere al passo coi tempi e cogliere ogni momento in cui una crepa di crisi si apra in maniera significativa.

In questo occorre farsi barbari, non per genuflessione nei confronti dei nuovi stili di vita, organizzazione e lotta creati o importati, spesso tutti e due, da una nuova composizione di classe, ma per forzare la Storia là dove questa, secondo le interpretazioni più deterministiche, tende a farsi ostacolo del rivolgimento sociale e del cambiamento radicale.

In questo il russo Lenin si è fatto barbaro: non per appartenenza, nazionale, linguistica o etnica, ma per aver saputo gcogliere il momento, l’opportunità offerta dagli eventi derivati prima dal 1905, e alla prima disfatta militare dell’impero zarista ad opera della nascente potenza nipponica, e successivamente, e in maniera decisiva, dal disastro prodotto dalla Prima guerra mondiale con il suo corollario di rivolte e diserzioni tra i militari, gli scioperi delle operaie edegli operai di Pietroburgo, il pronunciamento delle guarnigioni della stesa città e il subbuglio nel mondo contadino. Tutti avvenimenti che, come la stessa storia di quegli anni, furono affrontati in maniera differente, e sostanzialmente, controrivoluzionaria, da menscevichi e socialisti-rivoluzionari.

Un Lenin che si fa barbaro agli occhi della tradizione marxista e della seconda internazionale, anche perché sa recuperare gli elementi di soggettività e di forzatura presenti nella passata esperienza del populismo russo2. Superato certamente nelle concezioni politiche, ma non nella capacità di agire, anche apparentemente contro la storia. Processo attraverso cui occorre individuare per tempo la linea di tendenza del moto sociale per definire la linea di condotta necessaria alla sua evoluzione politica e, non dimentichiamolo mai, militare.

E qui, se si vuole, si giunge un po’al nocciolo di quanto generalmente espresso dal comunista genovese: l’azione soggettiva in grado di appropriarsi delle condizioni oggettive non per assecondarle, secondo la tradizione del determinismo più becero, ma per ribaltarle nel loro contrario. Perché in questo deve consistere la Rivoluzione: ribaltare il presente per trasformarlo in un differente e più avanzato futuro. Spronando il ronzino della storia fino a farlo schiantare, come avrebbe saputo meglio riassumere poeticamente Vladimir Majakovskij.


  1. Si tratta di una serie di 136 articoli pubblicati, proprio sotto il titolo Sul filo del tempo, da Amadeo Bordiga tra il 1949 e il 1955, prima sul giornale Battaglia comunista e successivamente, a seguito della frattura avvenuta all’interno del Partito comunista internazionale, su il programma comunista. Tutti attualmente disponibili sul sito N+1 e rintracciabili qui.  

  2. A proposito delle simpatie espresse da Marx nei confronti dei terroristi russi si veda E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, dellaporta editori, Pisa-Cagliari 2024.  

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Avanti barbari!/6 – L’Occidente e il capitalismo sono razzisti (l’Italia anche) https://www.carmillaonline.com/2024/10/02/avanti-barbari-6-loccidente-e-razzista-e-litalia-anche/ Wed, 02 Oct 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84539 di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di [...]]]> di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di tutte queste qualità e perciò ha continuato ad essere libero, ad avere le migliori istituzioni politiche e a essere capace di governare per mezzo di una sola costituzione. (Aristotele – Politica)

Come rende evidente l’epigrafe, il razzismo su cui si fondano l’Occidente e i suoi ideali filosofici e politici è cosa di vecchia data considerato che il brano di Aristotele appartiene al settimo libro della Politica e, come il suo autore, al IV secolo avanti Cristo. La scrittura alfabetica era invenzione recente (V secolo), ma già era utilizzata per marcare la differenza tra chi era civile e ben governato e tutti gli altri popoli che, nel greco antico, erano definiti come βάρβαρος. bárbaros ovvero barbari.

Saranno poi degli ex-barbari a “civilizzare” gran parte del continente europeo partendo dalla città dei sette colli e giungendo ai margini di quelle aree nordiche e orientali che delimiteranno con un limes: di qua la civiltà mentre chi fosse al di là sarebbe stato definito questa volta come barbarus.

Di tutti questi passaggi, che poi andranno avanti ancora per un millennio e più prima di giungere alla tanto decantata Europa dalle radici cristiane da cui deriverebbero le magnificenze politiche e ideali dell’attuale, non si potrebbero contare ancora oggi le stragi di popoli “altri” interni al continente e di eretici e di ribelli all’ordine delle leggi, delle lingue, della divisione delle ricchezze imposte dai popoli civili e superiori per ordinamento sociale e statuale.

Sono passate e defunte quelle civiltà, ma il senso di superiorità razziale e di classe che avevano portato con sé nel corso dell’opera di civilizzazione non è ancora scomparso e rappresenta, forse, ancora il prodotto più durevole di epoche considerate “classiche”. Certo, l’idea che permetteva di trarre in schiavitù interi popoli, o almeno quel che ne rimaneva dopo l’opera educativa della civiltà greco-romana, non aveva ancora pretese scientifiche come invece sarebbe accaduto a partire dal XVIII e dal XIX secolo, quando l’espansione occidentale del concetto di impero avrebbe letteralmente falcidiato società, popoli, culture prima di integrarli nel mercato mondiale sviluppatosi a partire dal ’500.

Anna Curcio, con il suo testo appena pubblicato da DeriveApprodi, fa riflettere i lettori sui concetti di razza e razzializzazione attraverso gli eventi che li hanno definitivamente fondati e che vanno, in sintesi, dalle leggi approvate nella Virginia del 1600 fino al finto anti-razzismo di tanta intellettualità liberal di oggi. E lo fa tenendo come centrale la riflessione di come quello di razza non sia soltanto indissolubile da quello di classe, ma anche di come tale concetto abbia prevalso nell’organizzazione socio-economica di un paese, l’Italia, che si ostina, soprattutto a sinistra, a ritenersi come tutt’altro che razzista, anzi un paese di brava gente. Gli italiani appunto.

L’opera può essere affiancata ad altre già pubblicate in Italia, come quelle di Houria Bouteldja1 e di Tommaso Palmi2, ma ha il grosso pregio di riportare il dibattito nello specifico dell’Italia contemporanea, proprio mentre i fatti recenti, come quelli legati alla recente visita del primo ministro laburista Starmer, durante la quale la “destra di governo” di Giorgia Meloni e la “sinistra di governo” inglese si sono date la mano sulla pelle dei migranti e sulle modalità da adottare per il loro “respingimento”, confermano l’allineamento di posizioni politiche che solo per motivi elettorali e mediatici possono essere presentate come “nemiche”.

Motivo per cui, nel recensire un libro che con dovizia di particolari e dati approfondisce il tema dello sviluppo e dell’affermazione del discorso razziale in Italia, dalle sue origini nell’Italietta coloniale e liberale seguita all’unificazione nazionale, attraverso la Grande Crisi e il Fascismo, per proseguire con un ambiguo dopoguerra e fino agli attuali “fasti razziali” riconducibili alle conseguenze della globalizzazione e delle grandi migrazioni in atto, sembra importante sottolineare come il tema del razzismo non sia mai disgiunto da quello della svalutazione e repressione della forza lavoro, sia che si trattasse dei lavoratori provenienti dal Sud del paese negli anni successivi al secondo conflitto mondiale oppure che si tratti della attuale forza lavoro migrante.

Cui fa da corollario l’attenzione rivolta, come si è già accennato più sopra, alla falsità di un discorso anti-razzista in cui alla mera assistenza solidale, mirata soprattutto all’integrazione nel sistema degli immigrati “buoni”, si affianca un discorso liberale che separa nettamente il discorso della forza lavoro da quello della sua razzializzazione o, per meglio dire, della “razza” dalla “classe”.

Prendendo a spunto un editoriale comparso nel 2014 sul «Corriere della sera», l’autrice sottolinea come «prendere la parola contro il razzismo vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni»3. Mentre un noto docente universitario, dalle pretese etiche liberal-progressiste, nel difendere l’editoriale di cui era stato autore, sosteneva che quell’articolo non «riguardava certo i profughi» ma «i flussi di forza-lavoro». Confermando così con quella dichiarazione, anche se fino a quel momento era stato possibile non vedere e lasciarsi distrarre dalle necessità immediate dei salvataggi in mare o dell’uso indiscriminato dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), come l’ordine del discorso potesse assumere una forma più esplicita e problematica. Rivelando come la matrice di fondo del discorso di tanta parte dell’accademia e degli operatori dell’informazione consistesse semplicemente in una sorta di separazione della “pula del razzismo” dal “grano della condizione di classe” e dell’organizzazione del lavoro.

Per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo da sfoggiare all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziale e, a differenza di quattro straccioni tutelati dalle leggi internazionali, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali di produzione e riproduzione. Il razzismo […] non è un vizio ideologico […] né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente nella crisi, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione delle nostre società, fondamento della stessa razionalità del capitale4.

Una logica, ripresa nell’editoriale in questione e nelle repliche alle critiche pervenute dal movimento, soprattutto bolognese, degli studenti universitari, che si prodiga nella costruzione di “differenze”, invocando “interventi selettivi” in materia di immigrazione:

per lanciarsi poi a stabilire una gerarchia tra migranti buoni e migranti cattivi. Dove i buoni sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticali costruito dentro le gerarchie della razza. Quelli, soprattutto, che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro, dequalificazione e marginalizzazione5.

Un discorso fondamentalmente razzista, perché mette a lavorare la razza:

che come ci insegna Frantz Fanon non è un attributo biologico ma una costruzione sociale e discorsiva orientata alla marginalizzazione e discriminazione «di un gruppo di uomini da parte di un altro», per costruire segmenti segregati e tra loro in competizione della forza-lavoro. Tanto più resisti all’assimilazione e combatti lo sfruttamento tanto più sei cattivo, destinato ad occupare le posizioni sociali e produttive più precarie, peggio retribuite e maggiormente dequalificate […] Per questo la strategia degli intellettuali neoliberali, in questo paese e non solo, è sempre quello di alzare una cortina fumogena che fa perdere di vista la realtà, che permette di mescolare le carte e rendere indecifrabili le differenze tra «accoglienza» e «convenienza» del lavoro migrante […], tra profughi e «clandestini», tra migranti «buoni» e migranti «cattivi»6.

Una pratica, per molti versi, non troppo diversa dalla criminalizzazione di qualsiasi forma di resistenza di classe e delle forme più avanzate e radicali della sua teorizzazione. Lontana da quella convinzione di Karl Marx, contenuta nei testi sulla religione, spesso citati a sproposito e con intento puramente laico e borghese, secondo cui quello che interessa al proletariato internazionale e ai rivoluzionari non è togliere o aggiungere petali alle catene, ma spezzarle una volta per tutte.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. Il presente ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. E’ per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse a volte più di quanto crediamo7.


  1. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi, Edizioni Sensibili alle foglie 2017.  

  2. T.Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020.  

  3. A. Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 89.  

  4. A. Curcio, op. cit., pp. 89-90.  

  5. Ibidem, p. 90. 

  6. Ibid. , pp. 90-91.  

  7. Ivi, p. 90.  

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Avanti barbari!/4 – Una precisazione necessaria https://www.carmillaonline.com/2024/08/28/avanti-barbari-4-addenda-1/ Wed, 28 Aug 2024 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84073 di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento [...]]]> di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento intitolato «Avanti barbari!» dedicato alla recensione di un testo di Louisa Yousfi, sono state fatte alcune affermazioni che, a giudizio di chi scrive, occorre ancora approfondire e chiarire, in tutta la loro reale portata, con una serie di precisazioni. A partire da quella, contenuta nel testo di Amadeo Bordiga del 1951, che «questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà.»

Motivo per cui non vi sarà nessuna continuità tra l’ordine sociale capitalistico e la novella società futura, se questa rifiuterà i fondamenti del primo. Il comunismo non potrà essere in continuità con il capitalismo, poiché, per essere definibile come tale dovrà costituirne la radicale negazione. Infatti, soltanto la rottura dell’ordine sociale, politico ed economico del modo di produzione capitalistico, a partire dalla sua macchina statale, potrà condurre ad un altro ordinamento sociale e produttivo. Destinato a negare radicalmente i valori ordinativi che una interessata interpretazione della Storia ha attribuito a ciò che si intende per civiltà.

Chi continua ad affermare il contrario dimostra soltanto di voler ancora illudere, e illudersi, che la transizione verso il nuovo mondo, non più basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta e accumulata e lo scambio mercantile e monetario, anche del lavoro prestato, possa avvenire senza scosse e senza abolire i pilastri, appena citati, che la fondano fin dalle sue origini.

Un’illusione che porta spesso a credere e sostenere che tale passaggio possa addirittura avvenire in virtù del voto di una maggioranza combattiva, ma anche ben educata e asservita alla mentalità liberale e democratica della partecipazione elettorale e parlamentare. Ma che ha anche giustificato la leggenda del socialismo di stato e del socialismo reale, a partire dall’URSS stalinizzata, in cui salari, moneta, mercato, appropriazione della ricchezza da parte dello Stato e dei suoi apparati politici ed economici avevano continuato a sopravvivere e a svilupparsi sulla pelle e lo sfruttamento di coloro che avrebbero dovuto essere, in teoria, i reali beneficiari della Rivoluzione d’ottobre e delle sue conseguenze: i lavoratori e il proletariato.

Illusioni che giustificano la partecipazione elettorale agli occhi di chi immagina che soltanto piccoli spostamenti dell’asse parlamentare e governativo possano condurre al socialismo e che, sempre in nome di velleitarie democrazie popolari e antifascismo da operetta, possono invece soltanto condurre al rafforzamento del potere del grande capitale sulla società. Come hanno recentemente dimostrato le elezioni francesi, in cui una sinistra vociferantesi radicale ha aiutato il ritorno al centro della scena politica di Emmanuel Macron, sfiancato e sfinito dalle due precedenti tornate elettorali, in nome di un antifascismo istituzionale che non fa altro che rafforzare il fascismo stesso.

E non si tratta nemmeno di porre il proletariato e i suoi rappresentanti al posto della classe borghese, come invece una mal compresa idea di dittatura del proletariato sembra invece suggerire, riaffidando al proletariato la gestione degli “affari nazionali”, dei confini della nazione e dei suoi apparati senza nulla modificare nella sostanza e nella continuità della gestione capitalistica dell’ordine ereditato. Condannandolo a rimanere nei limiti definiti da una riduttiva interpretazione della sua funzione sociale. Mentre nella visione dei fondatori del comunismo moderno la classe oppressa, nel raggiungere i propri obiettivi, dovrà innanzi tutto negare se stessa.

Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità, nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile1.

Il proletariato negli scritti di Marx ed Engels è, prima di tutto, rivoluzionario contro se stesso, contro le proprie forme di esistenza e sopravvivenza impostegli dal Capitale e dai suoi funzionari. Il proletariato è estraneo per forza di cose all’ordine che sarà costretto a distruggere, perché la classe oppressa, che sempre secondo Marx «o lotta o non è», ne è esclusa e non troverebbe alcun vantaggio nel farsi definitivamente integrare nello stesso. Sforzo che tutte le forze opportuniste di sinistra e il fascismo hanno portato avanti nel tentativo di disarmarlo. Il proletariato è dunque barbaro per sua intima essenza, e solo questa barbarie, questa sua estraneità mantenuta e difesa, potrà liberarlo dal giogo dell’oppressione permettendogli di rimanere autenticamente umano.

Lo sforzo di integrazione del proletariato, bianco o internazionale che questo sia, rivendicato da socialdemocratici e liberali costituisce il tentativo di disarmarlo davanti al suo nemico per spingerlo ad accettare le regole del gioco decise dalla classe borghese e dai funzionari del capitale stesso. Un’integrazione in cui l’obiettivo finale è quello di uccidere ed eliminare definitivamente l’intrinseca tendenza alla ribellione compresa nelle condizioni di vita degli oppressi. Sia che si tratti di popoli oppressi e colonizzati, sia che si tratti dei lavoratori salariati, donne e uomini, delle metropoli colonialiste e imperialiste.

Coloro che non l’accettano devono essere per forza definiti “terroristi”, “banditi”, “delinquenti” e allontanati con la forza oppure eliminati fisicamente dal consesso civile. Questo diventa particolarmente visibile là dove popoli oppressi, e privati della possibilità di avere un propria organizzazione politica e militare riconosciuta, vedono definire come “terroristica” qualsiasi loro iniziativa o organizzazione in grado, pur tra mille difficoltà ed errori di valutazione, di mantenere l’iniziativa militare e politica nei confronti dell’oppressore.

Certo, l’ipocrisia borghese e liberale potrà sempre, in seguito, piangere sugli errori, le stragi e i macelli compiuti a danno degli oppressi. Che si tratti della Comune di Parigi oppure dello sterminio dei nativi americani oppure ancora del commercio degli schiavi africani e del mantenimento in condizioni di segregazione dei loro discendenti o ancora di mille altri casi, la commemorazione ex-post e il percuotersi istituzionalmente il petto per gli “errori commessi”, le giornate della memoria fasulle, non impediranno mai che, davanti all’aperta rivolta e azione armata degli oppressi, tutto possa ripetersi, con violenza sempre maggiore e sempre giustificata dalla necessità di difendere dagli estremisti e dai terroristi l’ordine costituito insieme alla libertà e alla democrazia che dovrebbe rappresentare.

Che si tratti di movimenti indipendentisti e anti-coloniali, di Black Panther oppure dell’American Indian Movementi degli anni Settanta o, ancora, dei movimenti di resistenza attuali in Palestina, poco cambia. La risposta sarà sempre la stessa: sangue e violenza senza limiti, giustificati dalla necessità di salvaguardare l’ordine occidentale e bianco, liberale e “democratico” del mondo.

Nel 1821, Nat Turner, che era nato in schiavitù nella contea di Southampton in Virginia, fuggì dalla schiavitù all’età di 21 anni. Circa un mese più tardi, ritornò alla piantagione del suo padrone dopo aver avuto una visione profetica che lo invitava a farlo. Le visioni continuarono mentre egli viveva in schiavitù ma, questa volta, Nat comprese che lo indirizzavano a guidare una rivolta di schiavi. Al fine di vendicarsi sui bianchi per la condizione di schiavitù in cui gli afro-americani erano tenuti. Così, nell’agosto del 1831, dieci anni dopo l’inizio delle sue visioni, Turner iniziò a pianificare la sua rivolta e, con altri schiavi – che raggiunsero al massimo il numero di quaranta – uccise il padrone, la sua famiglia e, nel giro di 48 ore, ogni altro bianco i rivoltosi trovassero sul loro cammino, giungendo ad ucciderne o ferirne circa sessanta. Turner fu catturato, imprigionato e condannato a morte per impiccagione, comprensiva di linciaggio e scorticamento del condannato. Come Randolph Scully ha annotato in Religion and the Making of Nat Turner’s Virginia Baptist Communty and Conflict 1740-1840, l’evento «scosse la confortevole illusione bianca del reciproco rispetto e affetto tra schiavi e proprietari.»2

Quella di Nat Turner è soltanto una delle prime ribellioni di schiavi sul territorio degli Stati Uniti, eppure sembra anticipare tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito e ancora avviene in ogni angolo di un mondo in cui la mannaia della supremazia bianca, travestita da giustizia, cade ancora su chiunque osi ribellarsi al suo sempre più frusto comando.

Che si tratti dei Mau Mau africani degli anni Sessanta del XX secolo, oppure dei piccoli gruppi di nativi che nell’Ottocento fuggivano dalle riserve indiane per portare, per poche ore o pochi giorni, la paura tra coloro che pensavano di averli definitivamente sconfitti o sottomessi, o della rivolta dei sepoy in India nel 1857, quando le truppe indiane della Compagnia delle Indie si ribellarono al dominio inglese, alzarono il vessillo della jihad prendendo il nome di mujahiddin e uccisero gran parte dei cristiani e degli europei di Delhi, la giustificazione per i successivi massacri è sempre stata la stessa: non nata sotto il fascismo, ma dalla stessa esigenza dell’imperialismo liberale di mantenere il proprio comando sugli oppressi in nome della civiltà e dei suoi diritti3, mai radicali e sempre inegualmente distribuiti, secondo linee in cui classe e colore si sovrappongono senza sosta.

Dedicato con affetto, stima e, allo stesso tempo, rabbia per la prematura scomparsa, alla memoria di Emilio Quadrelli, sempre e comunque schierato dalla parte della “zagaglia barbara”.


  1. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  2. Melissa A. Weber, Revolution Rebels: Nat Turner’s Rebellion, 2021.  

  3. Si vedano in proposito: Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Storia dell’Impero britannico, Einaudi editore, Torino 2024 (ed. originale 2022) e, sul tema della nascita del razzismo moderno con l’ordine coloniale imposto al mondo dall’Occidente a partire dal XIX secolo, Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Pratiche editrice, Parma 1992 (ed. originale Black Athena, 1987).  

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Avanti barbari!/3 – Il passato vive ancora nel presente https://www.carmillaonline.com/2024/08/21/avanti-barbari-3-il-passato-vive-ancora-nel-presente/ Wed, 21 Aug 2024 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84010 di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro. Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte [...]]]> di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro.
Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro
AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte popolari e di classe avvenute a cavallo tra Medio Evo ed Età moderna, proprio quando ebbe inizio il salto definitivo verso la società dominata dal modo di produzione capitalistico.

La rivolta di Thomas Müntzer, dei suoi seguaci contadini e delle sue conseguenze è già stata in passato oggetto di numerose ricerche storiche, riflessioni politiche e narrazioni romanzate1, ma l’insieme dei testi qui presentati, che si spingono ben al di là dei confini temporali della guerra contadina, è tenuto insieme soprattutto dalla convinzione espressa chiaramente nel testo riguardante l’esperienza dei diggers guidati da Gerrard Winstanley nell’Inghilterra della rivoluzione seicentesca.

La storia dei Diggers, che nell’Inghilterra del Seicento si opposero a enclosures e privatizzazioni occupando terre comunali per «lavorare insieme e insieme spezzare il pane», non fu che un capitolo di una guerra più grande. L’affermazione della modernità industriale, infatti, fu tutt’altro che un pacifico e lineare progresso. Al contrario, soltanto una vera e propria guerra civile, che insanguinò l’Europa per secoli, rese possibile l’imposizione della proprietà privata e del lavoro salariato, il disciplinamento dei corpi e dei territori, lo sradicamento dei diritti consuetudinari delle comunità rurali.

L’Europa, di cui troppo spesso oggi si lodano e cantano le origini cristiane, si è formata nel sangue e nelle rivolte sconfitte contro i valori che il cristianesimo, il nascente Stato moderno, l’economia di mercato e lo sfruttamento sistematico dell’uomo sull’uomo e sulla natura portavano con sé e che dovettero essere imposti a forza, a suon di repressioni, processi, torture e terrorismo organizzato dal braccio armato della Chiesa e dello Stato che ne avrebbe ereditato la funzione sia giudicante che di formazione degli uomini e delle donne, secondo dottrine del tutto estranee agli interessi materiali di questi ultimi e alle loro credenze e conoscenze.

Un autentico processo di cristianizzazione forzata e di colonizzazione che anticipò e accompagnò quello che si scateno sui popoli indigeni delle colonie successivamente all’espansione europea nelle Americhe e negli altri continenti appena “scoperti” e conquistati. Come si donmanda Luciano Parinetto nel suo testo: «Tra il ‘500 e il ‘600 la cultura del capitale si instaura in Occidente e si sviluppa, anche grazie all’accumulazione originaria permessa dalla conquista dell’America. Fra ‘500 e ‘600 dilaga (in Europa e in America) la caccia alle streghe. Vi è un rapporto tra i due eventi?»2

Evidentemente una domanda retorica che serve allo studioso per spiegare come, a partire dall’esempio tratto dai Paesi Baschi, il diavolo degli inquisitori e dei giudici dei primi anni del Seicento non fosse altro che la rappresentazione demoniaca e immateriale di processi di produzione e riproduzione della vita che sfuggivano alle logiche dell’accumulazione capitalistica, negandole e rifiutandole.

Questo diavolo dei Baschi, piuttosto, pare incarnare la stessa economia basca, nel momento in cui quella, capitalistica, della monarchia francese, la stava cancellando, con l’annessione di una piccola regione al grande Stato, che avrebbe distrutto quella originale e diversa. Il rogo delle streghe basche serve infatti alla monarchia francese per eliminare una cultura autonoma antichissima, portatrice di una economia alternativa, quanto mai diversa da quella del capitale. […] Un’economia basata sullo sperpero e non sull’accumulo e, in quanto tale, somigliante a certe economie “selvagge” 3 che i conquistatori dell’America si erano trovati davanti agli occhi fin dai tempi di Cristoforo Colombo. […] Una economia del dispendio, fiduciosa nella materna e feconda natura che tutto spreca e tutto ridona, opposta a una economia che va cancellando la natura dietro lo streben incessante all’accumulo, alla valorizzazione4.

Sarebbe stato proprio un inquisitore dell’epoca, Pierre de Lancre, consigliere del re al parlamento di Bordeaux, incaricato da Enrico IV di Francia di condurre una crociata contro le streghe del Labourd, territorio basco ai confini tra Francia e Spagna, a mettere «in rapporto gli stregati baschi e gli stregati amerindi! I Baschi sono diversi, le streghe sono diverse, gli amerindi sono diversi; il Potere impersonale di Lancre è invece normale, come normali sono le stragi che compie per mantenersi e accrescersi»5.

Si potrebbe aggiungere, in virtù del titolo scelto per questa serie di interventi e recensioni, che Baschi, streghe e amerindi sono barbari ovvero estranei al sistema sociale e culturale che si è andato affermando, con la forza, in Europa nei secoli successivi al Mille. Sistema che, al di là delle banalità di base espresse dal movimento femminista borghese attuale e da Me Too, ha visto proprio nelle conoscenze e nelle pratiche femminili, nonché nell’autonomia economica e culturale delle donne, un autentico “mostro” da estirpare a qualunque costo. Così come dimostra il terzo dei tre testi qui recensiti, quello di Starhawk, Il tempo dei roghi. Nel quale, come affermano i curatori dello stesso:

L’autrice si domanda non tanto il perché della caccia alle streghe ma piuttosto perché si sia dispiegata proprio in quel preciso momento storico (non il “buio Medioevo” ma il “luminoso Rinascimento”). Così ci conduce nei secoli XVI e XVII, i secoli della grande trasformazione, che seguono la “scoperta del nuovo mondo” e la riforma protestante, i secoli dell’affermazione dello Stato nazione, della scienza moderna e dell’economia capitalistica. Un processo che si fonda innanzitutto sull’esproprio delle terre, delle risorse comunitarie, dei saperi e dell’immaginario a esse collegati. Le donne furono le più colpite da questo cambiamento in quanto il loro ruolo di cura e di controllo sugli eventi biologici rappresentava l cuore della vita e dell’autonomia delle comunità rurali. Perciò divennero il bersaglio della nuova classe di medici e burocrati borghesi e del loro ”sapere scientifico” – rigorosamente maschile – che non poteva ammettere conoscenze e pratiche estranee al loro monopolio (proprio come la Chiesa non poteva tollerare alcuna conoscenza a sé estranea). E’ proprio a partiredalla posizione delle donne del mondo contadino depositarie, delle conoscenze legate alle erbe e ai gesti terapeutici così come ai rituali e alle credenze precristiane, che si è costruita la figura della strega. Ma è un ritratto nato nelle carte dei processi e nel sangue delle torture e dei roghi6.

L’autrice, infatti, ci dimostra come il vero e proprio assalto condotto dallo Stato e dal Capitale contro le donne intese come streghe costituì, di fatto, il grimaldello con cui fu indebolita e fatta saltare l’unità di conoscenze e pratiche delle comunità contadine nell’epoca degli espropri e delle privatizzazioni delle terre e dei saperi in nome del profitto e dell’arricchimento individuale.

Un processo che, certo, non durò un giorno ma che, più o meno coscientemente, portò all’attuale società dei saperi e delle ricchezze separate dal corpo sociale che le ha prodotte. In cui l’arricchimento del singolo individuo è diventato il segno del suo valore sociale e della su “perfezione” di stampo calvinistico, per cui il lavoro non costituisce più uno degli aspetti della vita collettiva, ma un’autentica etica cui sottomettere tutti gli altri parametri di giudizio e analisi dei risultati raggiunti.

Una trasformazione che ha completamente marcato i tempi successivi fino ad oggi, cercando di cancellare qualsiasi traccia della barbarie ancora presente in noi, anche qui in Occidente, e negli altri popoli ancora sottomessi alle logiche del Capitale e del colonialismo. Costringendoci a chiederci ancora di che cosa siamo stati espropriati e che cosa può aiutarci a resistere nella battaglia contro un nemico che è ancora in gran parte lo stesso di allora.


  1. Come ad esempio in Q (1999) di Luther Blissett/Wu Ming che non hanno mai apertamente dichiarato il grande debito nei confronti dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar (1968) per quanto riguarda le vicende ambientate nella città di Münster degli anabattisti guidati da Jam Matthyjs.  

  2. L. Parinetto, Transe e dépense, Tabor/porfido 2024, p. 5.  

  3. A proposito di “economie selvagge, potrebbe rivelarsi utile per il lettore la consultazione di R. Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi. L’imperialismo della scienza economica e i suoi limiti, Bruno Mondadori editore 2008 e M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Casa editrice Valentino Bompiani, Milano 1980. 

  4. L. Parinetto, op. cit., pp. 13-14.  

  5. Ivi, p. 14.  

  6. Starhawk, Il tempo dei roghi, Tabor/Erbas e salude 2024, pp. 5-6.  

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Avanti barbari! https://www.carmillaonline.com/2024/08/07/avanti-barbari/ Wed, 07 Aug 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83798 di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte [...]]]> di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte del carcere. (Notte tra i 1° e il 2 agosto 2024, da un articolo di Federico Femia e Caterina Stamin su “La Stampa”)

Come sempre, ad essere sinceri, le recensioni di libri altrui non possono che costituire dei pretesti per parlare di argomenti che premono ai recensori. Tale osservazione vale anche in questa occasione, in cui il bel saggio di Louisa Yusufi, pubblicato lo scorso anno da DeriveApprodi in Italia, ma uscito originariamente in Francia nel 2022, permette a chi scrive di trattare un problema che travalica la “linea del colore” e della “barbarie” inclusa nei confini delle banlieue francesi per mettere in discussione il concetto di civiltà tout-court, all’interno di tutto il modo di produzione e riproduzione basato sui principi del capitale e dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta.

Il titolo del testo della Yousfi rinvia, inevitabilmente, al motto “rimanere umani” che da anni accompagna manifestazioni e proposizioni ricollegabili alla rivendicazione in difesa dei diritti delle fasce più deboli e povere della popolazione e, in particolare, delle condizioni di vita dei migranti e degli immigrati, accompagnandosi spesso anche ai discorsi sulla guerra e le sue cruente e spietate logiche di violenza e sterminio. Non a caso il suo presunto ideatore, Vittorio Arrigoni noto come Vik, proprio a Gaza era stato ucciso nell’aprile del 2011 da una cellula jihadista salafita che si opponeva a qualsiasi tipo di intervento umanitario occidentale nell’enclave palestinese.

Quell’atto, per molta parte della sinistra, aveva finito col confondersi con una sorta di frattura tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è dell’azione dei popoli in rivolta e delle loro, spesso squinternate e ambigue, milizie. Un episodio drammatico che, certamente, ha contribuito ad approfondire il solco tra coloro che contestano l’attuale modo di produzione senza peraltro uscirne dai limiti delle leggi e dei “diritti” e coloro che che in quei limiti non sono compresi in quanto esclusi per ragioni di classe mascherate da colore della pelle, etnia, religione e quant’altro finisce col contribuire a definire una condizione di “barbarie”, sia nell’agire politico e quotidiano che nella formulazione delle idee che l’accompagnano.

Una separazione che ha finito col rafforzare l’idea che soltanto l’accettazione di certe regole e una certa visione del mondo di stampo liberale e occidentale possa far sì che l’altro sia accettato sul piano della comunicazione e dell’inserimento nella comunità degli “individui aventi diritto”. Una superficiale e opportunistica valutazione in cui può essere considerato umano soltanto chi accetta le regole dettate dal migliore dei mondi possibili, quello bianco, occidentale e liberale, e dalle sue leggi “universali”. Obiettivo per cui, come afferma l’autrice, “i civilizzati” si sforzano di creare dei ponti.

Ah, i ponti… […] vediamo un’intera cricca di sociologi che annuisce con aria di intesa. Sono coloro che lavorano sulla questione […] Il nostro sudiciume, le nostre depravazioni, la nostra presunta predisposizione ad accumulare tutti i vizi dell’umanità, a cedere i nostri atavismi bellicosi, a picchiare coloro che amiamo, donne e bambini, ad andare in cerca di crimini, a sparare in mezzo alla folla, a linciare gli omosessuali e sputare sugli ebrei, non sarebbe altro che la storia di una mancanza. Tutte le cose che abbiamo perso, tutte le opportunità che non ci si sono presentate, tutti i riconoscimenti di cui siamo stati privati, tutto l’amore che non abbiamo ricevuto. Sgocciolano compassione quando credono di restituirci la nostra dignità, quando tremano di commozione nel recitare la triste storia che raccontano di noi: come se non fossimo mai stati abbastanza amati […] Asciugate le lacrime. I barbari non sono selvaggi che si sarebbe dovuto frustare di meno, umiliare di meno e coccolare di più; selvaggi maltrattati dalla civilizzazione […] Questa è la loro grande scoperta: il nostro «imbarbarimento» è il fallimento dell’integrazione1.

Ma Louisa Yousfi, giovane giornalista francese di origine algerina, dopo aver ironizzato sulle condizioni dell’oppressione che contribuiscono a definire la barbarie, come ha già avuto modo di sottolineare su Carmilla Jack Orlando, coglie ancora nel segno:

seguendo le liriche dei trapper Booba e PNL, per aprire uno squarcio nella cattiva coscienza francese e farne sgorgare il sangue delle banlieue, del lato cattivo.
Tutta questa roba, questa poesia trucida, ha un unico scopo: restare barbari. Laddove la cosiddetta integrazione non solo ha fallito, ma ha scientemente prodotto una specifica forma di colonizzazione interna alle metropoli democratiche e generato una subalternità cui si imputa quotidianamente un’inferiorità colpevole e, paradossalmente, congenita; ribaltare l’accusa è una pratica di resistenza, risignificare la propria mostruosità vuol dire aumentare la propria potenza, sottolineare l’alterità è ricomporre i pezzi smembrati della propria anima.
È una vendetta contro la dominazione e un assalto alla conquista della propria condizione umana2.

Restare barbari, sola e unica condizione per rimanere umani. Questa la sfida lanciata dalla riflessione della giovane autrice che, nelle settimane scorse, ha avuto modo di partecipare al dibattito promosso dall’Intifada studentesca di Torino al Festival Alta Felicità svoltosi a Venaus dal 26 al 28 luglio e che ha dedicato il suo libro: «ai barbari contemporanei la cui vita e opere ci spiegano, più di qualsiasi altro resoconto, ciò che l’Impero chiama “imbarbarimento”. Si comincia dalla strada e dai suoi profeti. Perché tutti i racconti sul presente […] ci arrivano dai margini dell’impero e dai suoi recalcitranti abitanti»3.

Rovesciare, dunque, l’umanitarismo occidentale dell’integrazione e dell’accettazione delle sue regole del buon viver civile nel suo contrario, dimostrandone l’implicita disumanità e, allo stesso tempo, rovesciando lo stereotipo del barbaro in quello dell’unica forma residua di umanità possibile. «Il trucco della civilizzazione riproduce continuamente l’illusione. Francamente, per cosa vuoi competere con l’Occidente? Hanno inventato l’innocenza. Hanno massacrato interi popoli e, nel frattempo, inventato Walt Disney»4.

Stiamo però ben attenti; non si tratta di una battaglia di civiltà, come la peggiore saggistica filo-occidentale vorrebbe; qui si tratta proprio di stabilire ciò che permetterà alla specie di mantenere la sua umanità. Indipendentemente dal colore della pelle o delle tradizioni passate e delle aree di provenienza geografica e sociale. Come sostiene ancora l’autrice:

L’imbarbarimento è un processo di integrazione […] i nostri mostri non nascono da una mancanza di voi, ma da un eccesso di voi […] Nulla di questo mondo può salvarci, non solo perché una cosa non può essere al contempo il veleno e la sua cura, ma anche perché non siamo noi a dover essere salvati […] Che i civilizzati evitino dunque di insistere sul nostro destino. Siamo noi che dovremmo piangere per loro. Siamo noi che possiamo salvarli. Non è mai successo il contrario, in nessun modo e in nessun momento della storia5.

Soprattutto in un’epoca in cui un ciclo, quello del dominio occidentale sul resto del mondo, ha iniziato a venir meno e a veder disgregarsi le sue forme politiche e militari. Spingendo spesso gli osservatori a tracciare paragoni con la fine dell’Impero Romano.
Impero che, come ebbe modo di osservare lo stesso Marx, finì «con la comune rovina delle classi in lotta», incapaci entrambe sia di mantenere che di rovesciare le strutture economiche e sociali su cui lo stesso si fondava. Entrambe travolte dall’arrivo dei “barbari”, destinati a destrutturare definitivamente e a rifondare quelle stesse basi sociali e legislative su cui si erano retti i rapporti di forza fino ad allora.

Ecco allora che come unica soluzione possibile, anche, per il proletariato bianco ci sarebbe quella di farsi, più che rimanere, barbaro. Criticando e contribuendo a distruggere quella presunta civiltà di cui troppo spesso la Sinistra, anche radicale, ha sposato le intrinseche ragioni. Ancora una volta è Amadeo Bordiga, con un articolo del 1951, a permetterci di riallacciare il filo di un ragionamento non estraneo ma soltanto interrotto all’interno del movimento antagonista di classe, affermando, con Friedrich Engels, che la civiltà, in fin dei conti, non si riassume in altro che:

“nello Stato che, in tutti i periodi tipici, è, senza eccezione, lo Stato della classe dominante ed in ogni caso rimane essenzialmente una macchina per tenere sottomessa la classe oppressa e sfruttata”. Questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà. “Poiché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della civiltà si muove in una contraddizione permanente”. [Così] con Marx Engels e Lenin noi ultimi ne stiamo fuori.
Può essere conturbante che dalla caduta della civiltà non sia ancora sgorgato il comunismo, ma è ridicolo voler conturbare la soddisfazione capitalistica con la minaccia di alternative barbare6.

Ritornando, poco dopo, a fare la seguente affermazione a proposito della fine dell’ordine imperiale romano:

Furono le giovani forze barbare ad uccidere una marcia burocrazia. “Lo Stato romano era diventato una macchina gigantesca e complicata, esclusivamente per lo sfruttamento dei sudditi. Al di là dei limiti della sopportazione fu spinta l’oppressione con le estorsioni di governatori, di esattori di imposte, di soldati. Lo Stato romano fondava il suo diritto ad esistere sulla difesa dell’ordine all’interno, sulla difesa contro i barbari dall’esterno. Ma il suo ordine era peggiore del peggiore disordine, e i barbari, da cui pretendeva difendere i cittadini, erano da questi considerati come salvatori!”. Sembrò con le vittoriose invasioni, che per quattro secoli, ordinandosi l’Europa strappata a Roma nelle forme della teutonica costituzione di gentes, la storia si fosse fermata, e con essa la civiltà e la cultura. Ma così non fu. […] “Le classi sociali del IX secolo si erano formate non nella putrefazione di una società in decadenza, ma nelle doglie del parto di una civiltà nuova. La nuova generazione, sia padroni che servi, era una generazione di uomini, paragonata a quella dei suoi predecessori romani”.
“Ma che cosa fu quel misterioso incanto con cui i barbari infusero nuova vita all’Europa morente? Era forse un potere miracoloso innato nella stirpe tedesca, come ci vengono predicando i nostri storici sciovinisti? In nessun modo. Non furono le specifiche qualità nazionali dei popoli germanici a ringiovanire l’Europa, ma semplicemente la loro costituzione delle gentes, la loro barbarie”.
“Tutto ciò che di forte e vitale i Tedeschi innestarono nel mondo romano fu la barbarie. Solo dei barbari sono in grado di ringiovanire un mondo, che soffre di civiltà morente”7.

Resta evidente che il pericolo del ritorno alla barbarie insito in tante minacce contenute nei discorsi in difesa della civiltà e del liberalismo, non è costituito da altro che dal ritorno ad una lotta di classe in grado di porre fine al più spietato modo di produzione e appropriazione mai comparso sulla faccia della terra. L’unico ad avere domato prima i propri barbari interni per poi trasformarli in carnefici di quelli esterni con l’avventura colonialista, la promessa del benessere egualitario per i bianchi e l’illusione del mantenimento di un unico impero permanentemente al comando degli affari del mondo.

Nessuna società decade per le sue leggi interne, per le sue interne necessità, se queste leggi e queste necessità non conducono – e noi lo sappiamo e attendiamo – a far levare una moltitudine di uomini, organizzata con armi in pugno. Non vi è per nessuna “civiltà di classe”, per corrotta e schifosa che essa sia, morte senza traumi.
Quanto alla barbarie, che a tale morte del capitalismo per dissoluzione spontanea andrebbe a succedere, se la sua scomparsa fu da noi considerata una necessaria premessa dell’ulteriore sviluppo, che inevitabilmente doveva passare per gli errori delle successive civiltà, i suoi caratteri come forma umana di convivenza non hanno nulla di orribile, che ne faccia temere un impensabile ritorno.
Come occorrevano a Roma, perché non si disperdesse il contributo di tanti e tanto grandi apporti alla organizzazione degli uomini e delle cose, le orde selvagge che calassero apportatrici inconsce di una lontana e più grande rivoluzione, così vorremmo che alle porte di questo mondo borghese di profittatori oppressori e sterminatori urgesse poderosa un’onda barbarica capace di travolgerla.
[…] Ben venga dunque, per il socialismo, una nuova e feconda barbarie, come quella che calò per le Alpi e rinnovò l’Europa8.

Un passo lungo e audace, ancora ben distante dall’essere accettato e fatto proprio sia dagli oppressi delle periferie razzializzate che da quelli che si illudevano di aver toccato con mano il sogno capitalista del benessere “per tutti”, senza dover abolire proprietà privata e interesse individuale, ma che può costituire un valido strumento per la rimozione delle barriere del perbenismo e del tradizionalismo e della sfiducia, quest’ultima più che motivata, che ancora separano in parti diverse, e spesso nemiche, il corpo unico e pericoloso della moderna creatura proletaria e prometeica creata dal Frankenstein imperialista.

Proprio per questo motivo opere come quella di Louisa Yousfi e Houria Bouteldja9, che l’ha direttamente ispirata, dovrebbero trovare spazio nella biblioteca di chiunque voglia davvero contribuire al superamento di questo mondo orrendo anche se travestito di democrazia elettoralistica e umanitarismo.


  1. L. Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 24-25.  

  2. J. Orlando, Gang gang gang! Immaginari e tensioni della metropoli – Ep. 1, «Carmillaonline», 10 maggio 2023.  

  3. L. Yousfi, op. cit., pp.19-20.  

  4. Ibidem, p.27.  

  5. Ivi, pp. 29-31.  

  6. A. Bordiga, Avanti Barbari!, «Battaglia Comunista», n. 22 del 1951.  

  7. Ibidem, le citazioni tra virgolette sono da F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884.  

  8. Ivi. 

  9. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017.  

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Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/03/26/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-1/ Sun, 26 Mar 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76414 di Emilio Quadrelli

“La rage d’aller jusqu’au bout et là où veut bien nous mener la vie” ( Keny Arkana – La Rage)

Lo sguardo di un “flâneur”

“Non sei tu che scegli Marsiglia, è Marsiglia che sceglie te”, così i marsigliesi amano parlare della propria città. Da sempre Marsiglia coltiva un fascino dal quale è difficile sottrarsi e che tanto la letteratura quanto la cinematografia hanno non poco contribuito a rendere eterno. Con orgoglio i marsigliesi, o almeno quelli non possidenti, sottolineano che Marsiglia non è la Francia e soprattutto non [...]]]> di Emilio Quadrelli

“La rage d’aller jusqu’au bout et là où veut bien nous mener la vie” ( Keny Arkana – La Rage)

Lo sguardo di un “flâneur”

“Non sei tu che scegli Marsiglia, è Marsiglia che sceglie te”, così i marsigliesi amano parlare della propria città. Da sempre Marsiglia coltiva un fascino dal quale è difficile sottrarsi e che tanto la letteratura quanto la cinematografia hanno non poco contribuito a rendere eterno. Con orgoglio i marsigliesi, o almeno quelli non possidenti, sottolineano che Marsiglia non è la Francia e soprattutto non è Parigi. E con Parigi si intende la “piccola Parigi” ovvero tutto ciò che è estraneo agli sterminati territori nord della capitale con i quali, invece, i rapporti sono piuttosto stretti tanto che, nel periodo estivo, non sono pochi i banlieusards parigini che vengono a trascorrere la vacanze da parenti o amici marsigliesi.

L’antagonismo con Parigi è a dir poco enorme poiché a fronteggiarsi sono due “visioni del mondo” del tutto antitetiche e che nulla hanno a che fare con le pur non secondarie frizioni proprie del “campanilismo” nostrano. Libri come Duri a Marsiglia o la trilogia di Izzo, solo per citarne alcuni, o film come Borsalino e Borsalino &Co, oltre i noir d’autore che hanno visto Marsiglia più come un “luogo dell’anima” e l’esemplificazione di una vera e propria Weltanschauung, piuttosto che un suggestivo paesaggio dove incorniciare delle storie, hanno fatto di questa città qualcosa di speciale. La stessa “cronaca nera” italiana non si è sottratta a ciò: basti pensare ai fiumi di inchiostro, al limite del poema epico, versati per narrare l’epopea del Clan dei marsigliesi e dei suoi principali esponenti, Maffeo Bellicini, Albert Bergamelli e Jacques Berenguer i quali, in fuga da Marsiglia, avevano fatto base a Roma dove diedero prova di quanto meritata fosse la loro fama. Nelle cronache dell’epoca, infatti, i loro nomi primeggiano al fianco di figure di un calibro, solo così per dire, come quello di Francis Turatello1.

La fama di Marsiglia è tale che anticipa di gran lunga i suoi abitanti. Sola città europea capace di competere, per “insicurezza” e “criminalità”, con le più turbolenti città sudamericane, Marsiglia ha sicuramente qualcosa di magico e speciale tanto che il detto: “Marsiglia o la si ama, o la si odia”, contiene più che un grano di verità. Difficile, pertanto, sottrarsi al fascino che, sin dal momento in cui si scende la scalinata di Saint-Charles, la città ti obbliga a respirare. Nello scrivere di e su Marsiglia vi è sempre il rischio di finir catturati dal mitologema che la città si porta appresso, finendo così con l’essere influenzati in ogni tentativo di narrazione. Sicuramente il breve resoconto etnografico che segue potrebbe non risultarne del tutto immune. Tuttavia, con tutte le cautele del caso, chi scrive ha cercato di mantenere una certa sobrietà prona ai dettami dell’ “oggettività” e dell’ “avalutatività”2.

Frutto di un soggiorno di circa un mese (dal 9 gennaio al 4 febbraio 2023) nella città del minstral, la ricerca si proponeva l’obiettivo di descrivere alcuni aspetti della vita sociale delle masse subalterne e il loro rapporto con i movimenti politici antagonisti, tutto ciò in scia a un testo, Rosso banlieue3, il quale, per molti versi, ha aperto un filone di ricerca sulla “marginalità sociale” in aperta controtendenza alle retoriche convenzionali proprie della pubblicistica di buona parte della sinistra e degli stessi movimenti antagonisti. La ricerca si è svolta adoperando le tecniche proprie dell’etnografia sociale, a partire dall’utilizzo di alcuni gatekeeper che hanno consentito l’accesso all’interno di determinati contesti sociali e urbani, oltre alla consolidata pratica della “osservazione partecipante”4. La ricerca ha avuto l’ambito sportivo (una sala boxe) come base operativa il che, essendo chi scrive un ex atleta agonista, ha consentito di stabilire sin da subito una buona dose di empatia e fiducia con un certo numero di attori sociali. La raccolta di “storie di vita” e alcune “interviste in profondità” costituiscono l’io narrante del testo5. Detto ciò, prima di calarci nel racconto degli attori sociali, proviamo a inquadrare il contesto di cui parliamo attraverso tre brevi flash di vita urbana.

Marsiglia, un qualunque pomeriggio infrasettimanale, tram 1, fermata George. Davanti agli occhi di chi non è marsigliese si presenta una scena foriera di facili malintesi. Una trentina di persone in divisa blu, facilmente scambiabili per flics, occupano per intero la fermata e gli spazi a questa adiacenti. La cosa più ovvia da pensare è che sia accaduto qualcosa di piuttosto serio. Una rapina, un conflitto a fuoco, forse un omicidio. Sul tram nessuno mostra un qualche interesse per ciò che accade, solo lo sprovveduto straniero si mette a osservare il tutto con non malcelata curiosità. Pochi attimi e tutto si chiarisce, e quella che, a un primo sguardo, poteva apparire come una maxi operazione di polizia, si rivela per qualcosa di assai più prosaico: gli uomini e le donne in divisa blu non sono flics ma verificatori dei titoli di viaggio. Bloccando e circondando i pochi passeggeri scesi dal tram, controllano che gli stessi non siano “portoghesi”. Uno spiegamento di forze apparentemente sproporzionato ma che, come in seguito mi verrà spiegato, non ha nulla di eccezionale. Quello è il modo abituale in cui operano i “controllori” e lo è a ragion veduta. Agire in gruppi numerosi, non salendo sui mezzi pubblici, ma verificare i titoli di viaggio solo a terra e quando i rapporti di forza si mostrano estremamente favorevoli, rappresenta il solo escamotage per evitare di venire sopraffatti da viaggiatori senza biglietto. Una esposizione dei fatti che, tra gli abitanti di Marsiglia, non suscita particolare apprensione. Come tutte le pratiche sociali consolidate, alla lunga, diventano semplice routine.

Marsiglia, un normale sabato sera nel quartiere La Plaine. Prima di addentrarci nella breve descrizione degli eventi, occorre dire due parole su questo quartiere poiché, in maniera tanto sintetica quanto efficace, è in grado di focalizzare due aspetti della vita di questa città particolarmente significativi: i processi di esclusione e marginalizzazione sociale e, in seconda battuta, la non secondaria aporia tra “movimento” e classe. La Plaine, infatti, non è il classico territorio dove una borghesia benpensante e conservatrice conduce la sua esistenza mantenendo il più possibile le distanze, anche attraverso una rigida sorveglianza armata, dalle classi sociali subalterne, bensì un quartiere di sinistra, progressista, alternativo e assai distante dalle retoriche reazionarie. Una realtà che, per usare un termine à la page, fa tendenza e che, per molti versi, sembra indicare il futuro prossimo di Marsiglia che, negli ultimi tempi, è diventata la principale meta dei bobos, di quel ceto medio mediamente ricco di “capitale culturale” al quale, per lo più, non corrisponde un “capitale economico” di pari valore6. Usando una terminologia forse un po’ datata, questo ceto incarna il volto contemporaneo del riformismo e della socialdemocrazia ed è alla ricerca di un “modello” sociale e urbano in grado di cogliere le opportunità offerte dalle società postmoderne smussandone al contempo le aporie7. La Plaine, di tutto ciò, ne incarna una felice sintesi seppure, a uno sguardo neppure troppo attento, le aporie della postmodernità non sembrano trovare una qualche felice soluzione, semmai il contrario. Nel fine settimana, infatti, i ragazzi dei quartieri Nord piombano come barbari8 nel “quartiere alternativo”, con intenti non proprio pacifici. Benché le cronache focalizzino gli sguardi sui furti e le rapine, che sicuramente accadono ma sono di portata assai limitata, ciò che in questi comportamenti sembra emergere è soprattutto “la sfida”. Si tratta, cioè, di penetrare in un territorio che, per come pensato e organizzato, è deputato a tenerli fuori. Di ciò, la sintetica descrizione che segue offre una buona esemplificazione.

Verso le 23 di venerdì 20 gennaio, accompagnato da due ragazze del Collectif boxe, mi reco sulla spianata del quartiere La Plaine. I locali traboccano di persone che entrano ed escono, molti i giovani che si passano qualche “canna” seduti sui muretti che delimitano il piccolo “parco giochi” dei bambini. Gli ingressi dei locali sono presieduti da “buttafuori” che regolano l’entrata e l’uscita mentre altri ne sorvegliano gli interni. Gruppi di polizia mobile stazionano ai bordi del quartiere operando, di quando in quando, dei fermi e dei controlli. La prima impressione che capita alla mente del casuale “flâneur” è di trovarsi di fronte a una “Disneyland dell’alternativo” dove, all’interno di un perimetro ben delineato, “stili di vita” non convenzionali possono essere consumati in piena tranquillità. Una sorta di “oasi liberata”, ma socialmente e culturalmente perimetrata9, che non presuppone l’irrompere di alcun guastafeste10 ed è esattamente qua che entrano in ballo i “ragazzi dei quartieri Nord”. Un gruppo di questi, una decina, tutti maschi (prevalentemente di “pelle scura” anche se era visibile la presenza di almeno due blanc) è riuscito a intrufolarsi nei perimetri della “Disneyland dell’alternativo”, entrando immediatamente in contatto con la sicurezza. Immancabilmente ne scaturisce una rissa nella quale la piccola gang ha la peggio tanto che, in fretta e furia, è costretta a ripiegare. Nella fuga i ragazzi rovesciano tavoli, si appropriano di ciò che trovano a portata di mano e riescono a dileguarsi. A questo punto la nottata prosegue seguendo tranquillamente i suoi ritmi e i suoi rituali. Verso l’alba, la “Disneyland dell’alternativo” smobilita.

Queste cose, per molti versi e avendo in mente il panorama italiano degli anni Sessanta e Settanta, non sono certo nuove11. Le incursioni delle giovani gang dentro i quartieri borghesi erano pressoché all’ordine del giorno, così come l’irrompere di queste nei locali e nelle discoteche frequentati dai “ragazzi bene” erano una delle tante “sfide” che facevano da sfondo ai loro “rituali”. Una pratica sociale che trovò, almeno per un certo periodo, anche una sua concretizzazione politica attraverso i “Circoli del proletariato giovanile” milanese, il cui apice fu raggiunto con l’ “attacco alla Scala”12. Ciò che distingue quanto accade a La Plaine da quel che abitualmente andava in scena dentro i “quartieri bene” delle metropoli italiane è il blocco sociale con cui le gang contemporanee si scontrano. Nel primo caso era la borghesia in doppio petto e pelliccia a essere l’oggetto delle incursioni barbariche, oggi si tratta di un ceto sociale decisamente casual che sfoggia con un certo compiacimento piercing e tatuaggi13. Si tratta, almeno in apparenza, di episodi del tutto marginali che tuttavia sono in grado di raccontare qualcosa di non secondario sul modello sociale che governa la città. Ad andare in scena, al di là delle volontà degli attori sociali in gioco, è una nitida fotografia delle relazioni di potere che fanno da sfondo alla società contemporanea dove linea di classe e linea del colore si intersecano, ma non solo.

Ciò che a prima vista può apparire come l’eterna reiterazione de I ragazzi della via Pál14 in realtà sottende a qualcosa di ben diverso; da una parte un blocco sociale socialmente legittimato e, in virtù di ciò, detentore a pieno titolo di linguaggio (politico), dall’altra una massa informe, priva di volto e dai tratti barbarici, marginalizzata, socialmente esclusa e in grado di esprimersi solo con e attraverso la semplice voce15. Non per caso, qualche anno addietro, Sarkozy, per definire questa massa senza volto usò il termine racaille, ovvero qualcosa che è fuori dai perimetri della vita civile ed è priva di legittimità politica e sociale16. Una massa prevalentemente in “pelle scura”, dove i retaggi del colonialismo si fondono con la condizione proletaria. Una condizione alla quale non sfuggono, nonostante il loro essere blanc, i giovani “francesi francesi” poiché, come in La Haine è stato molto ben narrato, la condizione di marginale scurisce, di fatto, anche la pelle dei blanc17. Questo lo scenario razzista che fa da sfondo a Marsiglia e che, come vedremo meglio in seguito, è diventato un fronte di lotta non secondario di alcune realtà operaie e proletarie.

Un normale giovedì pomeriggio nei pressi de La Castellane, la banlieue Nord di Marsiglia divenuta famosa nel mondo perché vi è nato e cresciuto Zidane. Ciò che per un abitante di Marsiglia appare come semplice routine, agli occhi di un ospite casuale assume ben altri aspetti. All’improvviso al visitatore sembrerà di essere davanti a un televisore e osservare le abituali immagini di un check point israeliano in prossimità di un “valico palestinese”. L’ingresso in banlieue, infatti, è regolamentato, in entrata e in uscita, da un imprecisato numero di forze di polizia in pieno assetto tattico. Ogni persona, ogni macchina, sono attentamente identificate e perquisite. L’operazione può andare avanti per ore senza che sia accaduto un qualche fatto che potrebbe giustificare un tale spiegamento di forze. Molto di rado, e solo con una notevole supplenza di mezzi, le forze di polizia si azzardano a penetrare all’interno dell’agglomerato urbano, poiché il rischio di andare incontro a conflitti armati di non secondaria intensità non è irrisorio. Il grado di armamento presente tra la popolazione di questi territori è tanto noto quanto ampio. Per questi motivi il controllo del territorio avviene prevalentemente sigillandone i bordi. L’operazione, come mi viene spiegato dalla mia accompagnatrice, non è collegata ad alcuna situazione particolare: ciò a cui si assiste è la normale routine del “lavoro di polizia” nei confronti degli abitanti dei “quartieri Nord” ma che, per chi non vi è abituato, appare come una vera e propria operazione di guerra.

Queste brevi descrizioni ci consentono di dire già qualcosa sulla città e il modello sociale che la caratterizza. A fronte di una retorica mainstream che fa di Marsiglia una città turistica esemplificata dalla cartolina del Vieux port, emerge una metropoli densa di conflitti e per nulla pacificata, nella quale si annida una non secondaria carica esplosiva. Si tratta tuttavia di un potenziale che il più delle volte non va oltre la rage. Attraverso questa ricerca si è provato a raccontare le attività di alcune realtà sociali e politiche che stanno lavorando per dare progettualità politica e forza a la rage.

(1continua)


  1. Al proposito si veda: A. D’Agostino, Francis Faccia d’angelo. La Milano di Turatello, Milieu, Milano 2012  

  2. M. Weber, Il metodo delle scienze storico – sociali, Einaudi, Torino 2014  

  3. A. Bugliari Goggia, “Rosso banlieue”. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi, Ombre Corte, Verona 2022  

  4. Praticamente impossibile, vista la vastità dei testi che la riguardano, stilare un elenco in grado di rendere conto della densità di argomentazioni che questo tipo di ricerca ha e continua a suscitare. Per una buona esemplificazione teorica, suggellata da una non secondaria esemplificazione empirica, si può vedere: A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza, Roma – Bari 2006.  

  5. Per molti versi lo “stile di lavoro” qui adottato si colloca sul solco di un testo come La città e le ombre, A. Dal Lago, E. Quadrelli, Feltrinelli, Milano 2003, che ha provato a narrare la storia di una città (Genova) attraverso la voce delle ombre, ovvero di quella quota di popolazione invisibile ma costantemente evocata, in quanto foriera di insicurezza urbana e degrado sociale, dalla teoria politica e sociale ufficiale. Con tutti i suoi limiti, quindi, anche questo lavoro ha provato a dare linguaggio a coloro i quali l’ordine discorsivo dominante obbliga al mutismo.  

  6. Su questo aspetto, per quanto datato, rimane fondamentale un “classico” della sociologia, P. Bourdieue, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001  

  7. Paradigmatico, al proposito, S. Stavrides, Spazio comune. Città come commoning, Agenzia X, Milano 2022  

  8. Sui barbari rimangono del tutto attuali le suggestioni di Foucault e, in particolare, quelle esposte in Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009.  

  9. Cfr., E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969  

  10. Utilizzo il termine di guastafeste facendo riferimento a H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000  

  11. Cfr., E. Quadrelli, Andare ai resti, Derive Approdi, Roma 2004  

  12. Cfr.: G. Martignoni, S. Morandini, Il diritto all’odio, Bertani, Verona 1977  

  13. La “divisa” degli abitanti dei “quartieri Nord” è ampiamente riconoscibile poiché indossano tute, soprattutto Adidas e Puma, completi dell’Olympique de Marseilles o completi mimetici mentre il look degli abituali frequentatori de La Plaine è quello del casual finto trasandato, il termine dégagé lo rende al meglio, oltre a avere tagli di capelli del tutto diversi, corti e rasati quelli dei “quartieri Nord” lunghi o con i dred gli altri, il che rende immediatamente identificabili i due gruppi sociali.  

  14. F. Molnar, I ragazzi della via Pál, Feltrinelli, Milano 2013  

  15. Su questo aspetto rimangono fondamentali le argomentazioni di Agamben in Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Miano 2005.  

  16. Questo l’appellativo utilizzato da Sarkozy nei confronti degli abitanti della banlieue in occasione degli émeutes del 2005. Cfr., A. Bugliari Goggia, “Rosso banlieue”, cit.  

  17. Cfr., A. Bugliari Goggia, Rosso banlieue, cit.  

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Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

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