amico/nemico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 05 May 2024 20:00:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La guerra e il lato oscuro dell’Occidente/ 4: a caccia di mostri https://www.carmillaonline.com/2022/07/06/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-4-a-caccia-di-mostri/ Tue, 05 Jul 2022 22:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72780 di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per [...]]]> di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per provare a disertare il campo di battaglia è proprio quello di riconoscere che il nemico non rappresenta un’alterità incommensurabile rispetto alla nostra identità (stiamo parlando di una diserzione ideale ben consapevoli che quella reale cosa assai diversa). In questo modo possiamo mettere in questione la logica assoluta dell’“amico-nemico” che ci viene imposta e contrastare gli slanci bellicamente eroici che essa porta con sé. Si tratta certamente di un primo passo necessario perché ci consente di capire che, al di là delle manifeste differenze, esiste un sostrato comune tra i contendenti.1

Adesso, però, è venuto il momento di chiederci se questo passo sia anche sufficiente. La suggestione del lato oscuro l’abbiamo ripresa da uno dei manuali di sceneggiatura più diffusi di Hollywood, Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Qui l’antagonista è considerato come l’“insieme degli aspetti negativi dell’Eroe stesso”, come la “dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi”. Il nemico non è altro che l’eroe al rovescio, il suo lato oscuro, appunto. In questo contesto, la sconfitta dell’antagonista deve passare necessariamente per una trasformazione dell’eroe, perché la vittoria contro il male che è rappresentato esteriormente dal nemico significa anche la sconfitta del male che si cela in profondità nel protagonista stesso. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: a partire da questa dinamica si può immaginare che la trasformazione dell’eroe possa produrre qualcosa di realmente nuovo?
Per rispondere occorre storicizzare la concezione del nemico che abbiamo ripreso da Vogler. E a tal fine occorre porsi un’ulteriore domanda: non è che questo modo di concepire il nemico si può affermare quando si è consolidata, fino a diventare senso comune, la convinzione che il nostro mondo non è solo quello più giusto, ma anche l’unico realmente esistente? Quando siamo oramai convinti che “there is no alternative”, né all’interno delle nostre società occidentali né al di fuori? Se esistiamo solo “noi” l’unico nemico può stare solo dentro di noi.
Insomma, il nemico vogleriano fa parte di un tipo di narrazione adeguato ai tempi del neoliberismo trionfante e della globalizzazione rampante. Tempi in cui il nemico storico del sistema capitalistico, quello interno rappresentato dall’Unione Sovietica e quello interno formato dalla classe operaia, sono stati sconfitti. Sulla scena rimane soltanto “il mondo libero”, destinato ad espandersi su tutto il globo. Rimane solo il capitale.

Si può dunque sostenere, utilizzando le categorie di Frederic Jameson, che l’idea del nemico come lato oscuro dell’eroe rappresenti una soluzione immaginaria ad una contraddizione reale che può essere posta in questi termini: come è possibile che esista ancora il male quando il bene ha oramai trionfato? Si tratta di una soluzione che occulta le radici storiche del problema cui cerca di dare una risposta: il problema stesso viene infatti rappresentato come espressione delle eterne contraddizioni della natura umana. Detto in altri termini, il male persiste perché luce e ombra fanno parte dell’essenza immutabile dell’umanità. L’unica soluzione possibile sembra stia nel prevalere del lato positivo su quello negativo. Il primo deve riuscire a inglobare e governare il secondo. Quest’ultimo, però, può sempre risorgere perché imperituro. L’eterno ritorno del conflitto tra luce e tenebre finisce però per offuscare la necessità di un superamento della contraddizione reale si concretizzi in una nuova configurazione storica. Quando le contraddizioni di un periodo storico si incancreniscono, infatti, è inutile sperare che uno dei poli esca vincitore dalla lotta senza che questo comporti la riproposizione di un medesimo ordine in forma sempre più marcescente. Non era questa la lezione di Marx quando sosteneva che la classe operaia deve negare sé stessa per poter trionfare, pena la comune disfatta delle classi in lotta?
Solo attraverso una soluzione immaginaria si può pensare di evitare questo esito riproducendo un vecchio mondo già condannato. In effetti nella narrazione che contiene il moderno archetipo del nemico come ombra, la già richiamata saga di Star Wars, c’è il trucco che consente al mondo di ritrovare il suo perduto equilibrio. Il lato oscuro della forza, Dart Fener, riconosce alla fine la sua manchevolezza e si sacrifica per il trionfo della luce. In fin dei conti la speranza in un regime change in Russia sembra rimandare a questo tipo di epilogo. C’è purtroppo un altro esito possibile che la serialità televisiva ci suggerisce. Dexter, il famoso serial killer che uccide solo serial killer (state forse pensando agli Stati Uniti e alla Russia?), alla fine non riesce più a convivere con il suo “passeggero oscuro”, il suo irresistibile impulso omicida. Le regole del suo “codice” che lo obbligano ad uccidere solo i malvagi sfuggiti alla giustizia ordinaria non sono più sufficienti a impedire che la sua oscurità faccia del male agli innocenti (danni collaterali?). L’unico modo per evitarlo è uccidere il “passeggero oscuro” insieme a chi gli dà il passaggio. Siamo destinati ad un suicidio collettivo? Magari con una guerra nucleare in cui il Sansone occidentale perisce insieme a tutti i filistei russofoni? Forse per evitare questo tragico esito dobbiamo andare a caccia di mostri, quelli veri, non gli spauracchi che ci vengono spacciati come tali. 

Uno che di mostri se ne intende, il romanziere marxista China Mieville, afferma: “La massima ‘Abbiamo visto i veri mostri e siamo noi’ non è né una rivelazione, né una cosa intelligente, interessante o vera. È un tradimento del mostro e dell’umanità”.2  Il mostro, in senso forte, è infatti ciò che è completamente altro da noi. E come tale è inafferrabile, inconoscibile, irrazionale. Il mostro nella sua totale alterità sembra venire dall’esterno: è un’entità extraterrestre (la cosa venuta dallo spazio), extramondana (il demone), extraumana (la catastrofe naturale). Ma, in un senso forse ancora più forte, il mostro, nella sua completa indecifrabilità, non ci rivela la sua origine. Non riusciamo a sapere se provenga da un qualche altrove o se sia un parto del nostro mondo. Il mostro, sostiene sempre Mieville, è l’impossibile eppure necessaria incarnazione dell’inconoscibile. Tale incarnazione è talmente necessaria che “La storia delle società fino ad ora esistite è la storia di mostri”. O, detto altrimenti, “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno. Dei mostri e attraverso di essi può essere scritta la storia”. Una cosa necessaria richiede una spiegazione, ma una cosa impossibile la rifiuta. Da questa tensione scaturisce l’irresistibile tendenza all’esemplificazione del mostruoso. “Una cosa così evasiva rispetto alla categorizzazione provoca – e si arrende a – un desiderio famelico di specificità, di elencazione del suo corpo impossibile, di genealogia, di un’illustrazione. Il telos dell’essenza mostruosa è l’esemplificazione”.

Cerchiamo di applicare queste idee alla guerra che, in fin dei conti, potrebbe essere considerata uno dei peggiori mostri di cui possiamo fare reale esperienza. Prendiamo gli Stati Uniti, la nazione guida del “mondo libero” che senz’altro influenza più di ogni altra il nostro immaginario collettivo. Dal 1776, anno della dichiarazione di indipendenza “solo 18 anni su 245 sono trascorsi in completa pace”.3 La guerra è dunque necessaria perché viene praticata in continuazione. È il passeggero oscuro della nazione americana, il suo irresistibile impulso omicida. Ma essa è al contempo impossibile perché gli USA sono il faro della democrazia, la terra delle opportunità per tutti, il campione dell’autodeterminazione dei popoli. E allora sorge la necessità di esemplificare la guerra attraverso una sequela di nemici cattivi, anzi cattivissimi che possano rientrare nel novero degli assassini meritevoli di essere uccisi secondo il “codice” del serial killer statunitense. Dopo la Seconda guerra mondiale, in ogni conflitto arriva immancabile la reductio ad Hitlerum. Il primo prototipo di questa illustrazione è L’URSS che viene assimilata alla Germania nazista attraverso un utilizzo disinvolto della categoria di totalitarismo.
Ma il nemico, anche se cattivissimo come può essere un Putin qualsiasi, rimane una cosa diversa dal mostro, almeno nel senso forte che abbiamo attribuito a questo termine. Il nemico è qualcosa con cui siamo in grado di fare i conti perché possiamo comprenderlo o quantomeno collocarlo in uno spazio conoscitivo oscuro, ma delimitato. Per questo, quando affrontiamo un nemico, la nostra identità e le nostre coordinate esistenziali non sono messe in discussione fino alla loro radice ultima.  Questo scontro, almeno fino a quando pensiamo di poter essere vittoriosi, ci impone solo di rafforzare la nostra identità, cambiandola quanto basta per sconfiggere l’avversario, qualora necessario. Il mostro ci pone di fronte a un compito ben più difficile: ci obbliga a negare radicalmente il nostro mondo e dunque noi stessi. Poiché la sua minaccia è al tempo stesso inafferrabile e mortale, nulla di ciò che sappiamo o siamo in grado di fare ci può salvare. La catastrofe che incombe manifesta i limiti invalicabili del nostro universo, dal punto di vista pratico e da quello conoscitivo. Pensare di sconfiggere il mostro significa cercare di oltrepassare questi confini provando a immaginare un altro mondo possibile, un’esigenza che appare al contempo impossibile e necessaria. Mi verrebbe da dire che si tratta di una dialettica aperta. Senza garanzie. Anche questo fa paura.

Cerchiamo di approfondire la questione prendendola da un altro punto di vista. L’idea che il nemico sia il lato oscuro dell’eroe, come abbiamo già accennato, rimanda ad una sorta di pessimismo antropologico. Il presupposto è che ci sia un lato oscuro dell’umano in quanto tale da cui scaturisce, tra le sue peggiori manifestazioni, l’incapacità di pensare l’alterità senza mostrificarla. Questo è un dato che possiamo senz’altro ammettere, in considerazione degli orrori ripetuti della storia (dis)umana. Eppure, fermarci a questa considerazione non ci porta molto lontano. Se è vero che il rapporto con l’alterità è sempre stata problematica, non per questo ciò ha dato sempre luogo a esiti estremi come la demonizzazione dell’altro. L’etnocentrismo, che per semplicità possiamo considerare un fenomeno universale, è una cosa, il razzismo è un’altra. Vero è che nel primo possono essere individuati i semi del secondo. Ma non sempre quei semi germogliano. 

Possiamo pensare … che la propensione al dominio e alla violenza, il gusto per la crudeltà e il penchant totalitario facciano parte della natura umana, che siano intrinseci al desiderio che ci muove. È una posizione filosofica fin troppo convincente, molto disperata e infine profondamente reazionaria. Oppure possiamo pensare che violenza, crudeltà, abuso e produzione di miseria siano una possibilità ineludibile, che tuttavia deve ogni volta di nuovo essere scelta. Che siano, cioè, l’esito di una storia.4

La scelta di cui si parla, dunque, avviene ogni volta in condizioni diverse, storicamente determinate e produce effetti di volta in volta differenti. “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno”, ripetiamo insieme a Mieville. Il mostro, potremmo dire, è un modo per raffigurare ciò che le categorie con cui si autorappresenta una data epoca non possono concettualizzare; un modo per narrare allegoricamente le conseguenze più disumane che scaturiscono da un dato sistema sociale e che questo stesso sistema non può riconoscere come propri frutti necessari. Perché se li riconoscesse come tali verrebbe meno quell’etnocentrismo che appare come momento necessario per cementare una qualche forma di solidarietà e di unione di un dato gruppo umano. Il mostro non è solo l’essere spaventoso che minaccia di divorare qualche malcapitato, ma quello che preannuncia la possibile distruzione di un intero mondo. È ciò che, per dirla con De Martino, minaccia la presenza e annuncia l’apocalisse culturale.
Nella concezione di Mieville il mostro deve rimanere qualcosa di inspiegabile, una sorta di imperscrutabile divinità malevola. Rimanendo nell’ambito della narrazione romanzesca, ciò evita il rischio di scadere nel didascalico. Ma se usciamo dalla fiction, siamo sicuri che non possiamo fare qualche passo ulteriore per affacciarci al di là delle categorie con cui si autorappresenta una data epoca? Scrivere la storia attraverso i mostri che di volta in volta essa ha generato non prelude proprio a questo tipo di tentativo?

Ritorniamo alla guerra. Lo sviluppo della cosiddetta globalizzazione avrebbe dovuto portare al mondo la “pace perpetua” perché, secondo uno stereotipo fondante dell’ideologia moderna reso celebre da Kant, lo “spirito commerciale” non può coesistere con la guerra. E invece ci ha condotto alle soglie di un conflitto mondiale. Non dobbiamo perciò pensare la guerra come l’esito delle scellerate azioni del mostriciattolo di turno che interrompe il normale funzionamento di un sistema altrimenti destinato a diffondere la pacifica e fattiva coesistenza tra i popoli. Queste azioni sono solo le cause immediate di un conflitto. Dobbiamo pensare la guerra come un fenomeno mostruoso in senso forte, come raccapricciante conseguenza dei fondamenti indicibili del nostro mondo. In altri termini, con buona pace di Kant, dobbiamo pensare la “guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali”. 5
Ovviamente la guerra non l’ha inventata il capitalismo. Ma la guerra in grado di distruggere, letteralmente, l’intera umanità (un conflitto mondiale, a maggior ragione se nucleare) è impensabile senza il capitalismo. Cannoni, missili, carri armati sono le zanne e gli artigli più visibili del capitale totale che ci sta divorando. Ciò detto è evidente che una cosa è individuare la genesi dei mostri che appartengono al nostro mondo e pensare le condizioni di una società libera dalle loro minacce, altro è riuscire a immaginare un mondo che sia privo da qualsiasi mostro. Insomma, liberarci da un male storicamente determinato non è lo stesso che liberarci da ogni male. Un mondo libero dalla minaccia di una guerra totale può ben essere costellato da una serie di feroci battaglie locali, tribali, sociali. Anche in questo senso la dialettica di una possibile liberazione non può che rimanere aperta. 

(4 – fine– le precedenti puntate qui, qui e qui)


  1. Lo abbiamo già detto, ma vale la pena qui ripeterlo. Oggi assistiamo a uno scontro tra potenze che si gioca sulla pelle della popolazione ucraina, vera carne da cannone cinicamente mandata allo sbaraglio dagli USA e massacrata senza pietà dalla Russia. Ciò sia detto senza nulla togliere al fatto che le responsabilità dello scoppio di questa guerra ricadono, nell’immediato, sullo stato guidato da Putin, incapace di rispondere politicamente, con una strategia di tipo egemonico, alla Nato che abbaiava alle sue porte. 

  2. China Mieville, Theses on Monsters, pubblicato in www.chinamieville.net. Le successive citazioni sono tratte dallo stesso scritto (traduzione nostra). 

  3. Questa affermazione non è presa non da un sito filo-Putin, ma dalla sezione Infodata del Sole 24 ore 

  4. Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 72. 

  5. Sandro Moiso, Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempestasu “Carmilla” qui. 

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Sulla transitorietà delle forme e delle decisioni politiche nella stagione delle emergenze https://www.carmillaonline.com/2021/02/17/sulla-transitorieta-delle-forme-e-delle-decisioni-politiche-nella-stagione-delle-emergenze/ Wed, 17 Feb 2021 22:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64968 di Sandro Moiso

Andrea Salvatore, Carl Schmitt. Eccezione / Decisione / Politico / Ordine concreto / Nomos, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 88, 9,00 euro

«Temo i lettori superficiali» (Carl Schmitt, Interrogatorio n. 2161, Norimberga 29 aprile 1947)

Il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985), comunque lo si voglia considerare, continua ancora oggi a porre questioni di estremo interesse. La lettura di queste riflessioni intorno all’opera del filosofo, giurista e politologo, offerte da Andrea Salvatore, docente di Filosofia politica presso il dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, permette di coglierne i motivi di [...]]]> di Sandro Moiso

Andrea Salvatore, Carl Schmitt. Eccezione / Decisione / Politico / Ordine concreto / Nomos, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 88, 9,00 euro

«Temo i lettori superficiali» (Carl Schmitt, Interrogatorio n. 2161, Norimberga 29 aprile 1947)

Il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985), comunque lo si voglia considerare, continua ancora oggi a porre questioni di estremo interesse. La lettura di queste riflessioni intorno all’opera del filosofo, giurista e politologo, offerte da Andrea Salvatore, docente di Filosofia politica presso il dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, permette di coglierne i motivi di attualità, sdoganandolo di fatto dall’ambito quasi esclusivamente giuridico e dall’area del pensiero politico conservatore o fascista in cui a lungo è stato relegato.

Certo la sua adesione al regime nazista fin dal maggio del 1933 e il fatto che egli abbia mantenuto la sua carica di docente presso l’Università Humboldt di Berlino, da quello stesso anno fino al 1945, non hanno certo contribuito a suscitare a “sinistra” l’attenzione nei confronti del suo pensiero. Eppure, eppure… le sue riflessioni sulle dinamiche politico-giuridiche che rendono attuative e condivise le norme che regolano lo Stato e la società moderna rimangono tutt’ora decisamente interessanti, proprio per la spregiudicatezza delle sue formulazioni.

Va detto subito, piaccia o meno, che il pensiero di Carl Schmitt non ammette alcuna possibilità di cambiamento sostanziale di un sistema politico-giuridico dato in assenza di un suo rovesciamento. Al contrario del pensiero riformista in passato o politically correct e liberal odierno che hanno invece preteso o ancora pretendono che ciò possa avvenire senza scosse. In questo senso, al di là delle intenzioni del giurista e filosofo tedesco, a seguito di una lettura più attenta e meno prevenuta, molte delle sue formulazioni possono rivelarsi utili, rivelatorie e dirompenti, tanto quanto lo sono state per lungo tempo quelle di Niccolò Machiavelli sul potere e la formazione dello Stato moderno1.

Andrea Salvatore prende in esame i concetti più significativi, riassunti nel titolo del saggio, che stanno alla base della sua opera, ma qui, per necessaria concisione e brevità, si proverà a commentarne sinteticamente soltanto due: eccezione e decisione. Attualissimi, soprattutto in una situazione caratterizzata da un’autentica pandemia emergenziale quale è quella in cui stiamo tutti vivendo.

La prima è, nel pensiero di Schmitt, fondativa della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»2. Infatti, come afferma Salvatore fin dall’Avvertenza, il politologo tedesco è:

l’Apostolo dell’Eccezione, lo stregone venerando e terribile che evoca e raduna le forze demoniache del caos, che richiama l’origine artificiale e periclitante di ogni ordinamento, che disvela il nulla a fondamento dell’ordine moderno e delle finzioni concettuali chiamate, legittimandola in qualche modo e misura, a puntellare la struttura dell’istituzione principe della storia occidentale: lo Stato3.

L’eccezionalità e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono quindi le condizioni che devono sostanziare ogni governo poiché, se nelle fasi “normali” o non periclitanti, la normativa vigente è sufficiente a governare l’esistente e a dirimerne le contraddizioni, è proprio nella gestione di una fase inaspettata, e dunque potenzialmente pericolosa, che si esprime la vera autorità, riconosciuta come tale.

Soffermiamoci solo per un istante a riflettere sull’eccezionalità e sull’emergenza in cui da anni siamo immersi. Governi tecnici, Dpcm, restringimento delle libertà personali, militarizzazione dei territori e della società, obblighi e, non dimentichiamolo mai, politiche securitarie manifestatesi attraverso i respingimenti massivi alle frontiere oltre che nelle missioni militari all’estero dedite formalmente a garantire la sicurezza dei cittadini, sono diventati il pane quotidiano della vita politica e sociale.

La pandemia e la sua dichiarazione a livello planetario, oltre che nel micromondo italico la nascita del governo Draghi, ne costituiscono soltanto l’ennesimo e più aggiornato corollario. In un contesto in cui da anni crisi economica, ambientale e sociale agitano acque in cui le vecchie norme di navigazione sembrano non essere più sufficienti a ridefinire una rotta verso la salvezza.
Il mare è in tempesta e i porti un tempo considerati sicuri sono in fiamme precludendo così l’uso delle vecchie mappe e dei punti di riferimento più consueti.

L’eccezione è di per sé un evento non previsto, un’alterazione del corso normale delle cose, uno scarto, un’eccedenza rispetto alla serie ininterrotta di fattispecie omogenee necessarie per il darsi
di un dato ordine. A seconda dell’intensità e dell’estensione di tale fenomeno deviante, si avranno delle ripercussioni sull’ordinamento giuridico più o meno rilevanti […] Nel caso in cui l’incidenza delle situazioni eccezionali sia tale da compromettere l’osservanza generalizzata della norma, e
dunque la sua vigenza, si ha quello che Schmitt definisce uno stato di eccezione […].
In quanto eccezionale, si tratta di una casistica assolutamente minoritaria, tale per cui – lo ripetiamo, ché non pochi sono gli equivoci sorti al riguardo – la concezione classica della sovranità, come anche l’architettura costituzionale che su di essa si è venuta costruendo nei secoli, nella pressoché totalità dei casi si rivela perfettamente adeguata alle circostanze; vale a dire che essa dà esaustivamente conto di come funzionano le cose e predispone tutti gli accorgimenti giuridici necessari a che le cose funzionino.
[…] Il problema, come detto, si pone per il semplice – ma decisivo – fatto che di tanto in tanto si danno delle circostanze eccezionali in cui l’esercizio della sovranità, che di norma risulta efficace nelle modalità previste dall’ordinamento vigente, smette di risultare tale e si rivela dipendente da qualcosa d’altro, cui dunque spetta la qualifica di autentico sovrano.
Quando si dà una situazione del genere? Si dà ogniqualvolta si venga a creare uno stato di cose, una situazione concreta, che rende di fatto inoperanti, il che significa inosservate (e talvolta finanche inosservabili), le norme di un certo ordinamento. Detto altrimenti, si è di fronte a una condizione eccezionale, data dal fatto che le prescrizioni di legge che fino a quel momento avevano dato prova di riuscire a regolare efficacemente i rapporti sociali si rivelano all’improvviso inefficaci, vale a dire non più in grado di assicurare un ordine effettivo (quali che siano le ragioni di detta inefficacia).
Ora – ed è questo lo snodo decisivo – che si dia una condizione tanto anomala da assurgere a stato di eccezione è questione che non dipende di per sé da una qualche evidenza «esterna», la cui effettiva presenza possa essere fatta dipendere dal riscontro di un criterio oggettivo (tasso di crimini commessi, incidenza delle diserzioni, carenza di beni essenziali, sistematicità del ricorso alla violenza, ecc.). Si tratta al contrario di una condizione sì fattuale, ma che si dà o non si dà del tutto indipendentemente da ogni risultanza altra rispetto alla disponibilità degli attori sociali a credere o non credere che essa si dia […].
Ciò non significa che lo stato di eccezione sia un concetto del tutto arbitrario, men che meno rilasciato alle idiosincratiche elucubrazioni dei singoli. Significa semplicemente che una situazione di emergenza, in cui le norme che regolano un dato contesto sociale sono poste in discussione al punto da venire disattese in misura più o meno ampia, diventa uno stato di eccezione se e solo se qualcuno è in grado di ottenere l’assenso, finanche un mero accondiscendere, da parte di un numero sufficientemente ampio di individui circa il fatto che quel qualcosa che si ha di fronte è realmente uno stato di eccezione.
Questo qualcuno – che come indica chiarissimamente la definizione schmittiana può essere chiunque (una carica istituzionale, un capopopolo, un condottiero, un dittatore, ecc.) – è il vero sovrano. E lo è proprio perché (e nella misura in cui) si dimostra in grado, in una concreta situazione storica, di decidere, nelle modalità accennate, se ci si trova di fronte a uno stato di eccezione […] Ciò comporta che questo chiunque è in grado di decidere, tra le altre cose, se l’attribuzione della sovranità prevista dall’ordinamento vigente sia da considerarsi ancora in vigore o meno. Dal che consegue che il titolare della sovranità indicato dalla norma non può essere, quantomeno non in ogni circostanza, il vero titolare della sovranità4.

A tutto ciò, per chiarire il ragionamento schmittiano, occorre aggiungere che:

Ecco dunque che, più che decidere sullo stato di eccezione, il sovrano decide dello stato di eccezione: decide cioè se esiste in concreto, qui e ora, una condizione tale da rendere di fatto inefficaci le prescrizioni di legge normalmente in essere (vale a dire, decide se lo stato di eccezione sussiste o meno) e, nel caso, cosa fare per rendere nuovamente vigente un ordine, sia esso lo stesso di prima o un altro (vale a dire, decide come superare la situazione di anomia che connota lo stato di eccezione).
La prima decisione (o, se si vuole, la prima parte della decisione) si concreta nel convincere – in modi che Schmitt lascia volutamente indeterminati, essendo qui decisivo il fatto dell’assenso, non le modalità del suo conseguimento, sicché i confini tra convinzione e costrizione possono farsi più sfumati – un numero sufficientemente ampio di individui del fatto che almeno parte significativa delle leggi vigenti sono, in quel dato frangente, in concreto inosservabili o, se anche osservate,
comunque inefficaci […]5.

E’ evidente come questo percorso sia esattamente quello messo in pratica da anni con l’opera di convincimento dell’opinione pubblica e di trasformazione del precedente stato diritto una volta che questo sia riconosciuto come obsoleto, se non pericoloso, da una significativa maggioranza di individui.
Però è proprio in queste osservazioni, probabilmente mutuate dalla necessità di giustificare l’avvento al potere di una forza altra rispetto a quella precedentemente dominante (nel caso specifico di Schmitt l’avvento del Nazismo a discapito della socialdemocrazia liberale che aveva retto le redini della Repubblica di Weimar fino all’avvento della grande crisi degli anni Trenta), che si apre una possibilità altra, una lezione per chiunque voglia chiudere con i governi precedenti oppure con il modo di produzione dominante.

Se non ci si accontenta del piagnisteo “democratico” tutto teso a rivendicare il mantenimento o il ritorno all’ordine precedente, per ingiusto e assassino che questo sia, si può intravedere all’interno della stessa dinamica (fatto mai negato da Schmitt, soprattutto nei suoi scritti successivi al secondo conflitto mondiale) la possibilità dell’iniziativa orientata alla rottura e alla destituzione del sistema per sostituirlo con un differente ordine politico e sociale.

Nell’eccezione, infatti, si apre la possibilità della rivolta indirizzata al rovesciamento di un sistema politico, economico, sociale che proprio nel suo agire ha dovuto riconoscere la propria incapacità di far fronte alle emergenze che esso stesso ha contribuito a creare. In altre parole la rivoluzione esce dall’utopia e diventa un campo del possibile, perché proprio là dove si manifesta formalmente la forza della sovranità, data quasi per scontata, si dimostra invece la sua intrinseca debolezza. A patto di aver saputo precedentemente resistere al richiamo delle sirene del partecipazionismo e dell’interventismo sociale interclassista, ancora tutte tese alla conservazione dell’esistente.

La dialettica del confronto amico/nemico che caratterizza il pensiero politico di Schmitt, aborrita da una Sinistra che trovò anni fa in Fausto Bertinotti il suo portavoce e tutor, può infatti chiaramente riassumere in sé la realtà profonda del conflitto sociale e delle contraddizioni insuperabili che sono sottese alla formazione e alla funzione di ogni governo di una società divisa in classi.
Così è il rischio per la stabilità dei governi a costituire la vera posta in gioco delle partite e delle campagne di opinione emergenziali messe in atto ormai in continuazione. Ma la partita ultima non è per la sicurezza dei cittadini nei confronti di pericoli esterni e neppure per la loro reale salute: la partita vera è quella che si gioca intorno ad un sistema che non può, e non intende, più garantire la sicurezza economica e sanitaria alla maggioranza dei suoi cittadini e che, ben conscio di questo, in nome della necessità di continuare l’opera di valorizzazione e concentrazione dei capitali, si chiude e si blinda sempre più nello stato di eccezione.

Qualsiasi prospettiva di ritorno allo stato di cose precedente è destinato a rivelarsi dunque sempre più illusoria e conservatrice mentre la stessa epidemia emergenziale (ovvero l’insieme di campagne e misure promosse per stabilizzare la sovranità del capitale, oggi sempre più anonimo e impersonale, come dimostrano i fallimenti a catena dei partiti parlamentari e delle loro inutili strategie) pone le basi e offre l’opportunità per spingere lo scontento e l’azione della maggioranza verso nuove e inaspettate direzioni6. A patto di saper cogliere il momento più opportuno per destituire il comandante della nave ormai incapace di dirigerla nell’interesse di una parte significativa, socialmente e politicamente, della comunità umana stessa.

E’, quest’ultimo, lo spazio del conflitto. Spazio che viene delimitato tra due parti: quella conforme all’esistente e quella deviante, ovvero tesa a soluzioni destinate a ridiscutere o addirittura ribaltare l’ordine normativo ed economico dato. E proprio all’interno di questo spazio conflittuale si pone il problema della decisione e del decisionismo schmittiano. Infatti, come afferma l’autore della sintesi del pensiero del filosofo e giurista tedesco: «Schmitt vuol dire decisionismo e decisionismo vuol dire Schmitt»7.

Cosa fare, infatti, qualora il deviante non intenda conformarsi? La soluzione che per esclusione ne deriva – separare il deviante dal gruppo dei non-devianti – rappresenta, ad avviso di Schmitt, la struttura formale e insieme il contenuto di ogni decisione politica: come vuole l’etimo latino del termine (de-cidere, in opera anche nel lemma tedesco, Ent-scheiden), decidere significa essenzialmente separare qualcosa da qualcos’altro, dividere, tagliar via. La decisione è dunque anzitutto un taglio, una cesura, una linea divisoria che rompe (con) l’unità originaria al fine di neutralizzare il conflitto che in essa insorge. Il conflitto viene risolto separando i contendenti; più precisamente, separando una parte (la deviante) dalle restanti (le conformi). La situazione normale si crea pertanto escludendo da un dato contesto quegli elementi la cui compresenza rende di fatto impossibile il darsi o il perpetuarsi di una situazione omogenea. Decidere significa, in altre e potenzialmente più sinistre parole, eliminare il disomogeneo.
L’eliminazione del disomogeneo può essere conseguita, a sua volta, in molti modi, secondo uno spettro di interventi assai diversificato. L’obiettivo fondamentale, comune alle diverse modalità di intervento, resta quello di assicurare che chi adotti comportamenti devianti che possono concretamente mettere a rischio la vigenza di un funzionante e risolutivo insieme di norme […] sia messo in condizione di non arrecare danno a quella compossibilità delle condotte – in questo, a livello pratico, si esaurisce l’omogeneità richiesta da Schmitt – che è condizione necessaria per il darsi e perpetuarsi di un ordine e dunque di un ordinamento. Un sistema di autonomie costituzionali, un assetto federale, il riconoscimento di determinati diritti a minoranze di varia natura, la concessione di statuti speciali (e finanche di una più o meno ampia indipendenza politica): pur limitandoci a quelli più propriamente giuridici, la gamma degli interventi, come si vede, è assai variegata. E tuttavia, nuovamente in conformità alla predilezione schmittiana per il caso-limite, se è vero che la tipologia degli interventi atti a garantire la separazione delle forme di vita mutuamente incompatibili è piuttosto ampia, resta il fatto che, almeno in caso di una inefficace o impossibile attuazione di simili misure, il ricorso alla violenza non può mai essere escluso8.

Ed è proprio in queste considerazioni che ritroviamo lo Schmitt più scomodo, non per la sua esperienza nella Germania nazista, ma per la sua intransigenza politica e filosofica:

Se c’è uno Schmitt più che mal sopportato da una parte più che consistente delle scienze sociali è il dissacrante teorico che insiste sul fatto, a suo giudizio tanto inoppugnabile quanto generalmente passato sotto silenzio, che non tutte le pratiche, le forme di vita, le condotte, possono essere incluse, vale a dire consentite, all’interno di un medesimo contesto politico […]. Il che significa che l’obiettivo o la promessa di un’inclusione assoluta, di marca democratica o meno, si rivela un’utopia o un inganno.
La politica, compresa la politica democratica, è – se non soprattutto, certamente anche – esclusione.
[…] Certo che si può escludere in modi molto diversi e che tale diversità fa un’assoluta differenza, ma resta il fatto che nessun sistema politico è in grado di aggirare la necessità dell’esclusione9.

Qualsiasi sistema può sopportare un certo grado di diversità, da qui la politica odierna dei diritti individuali e identitari, ma non può sopportare una devianza che ne neghi l’autorità e il diritto ad esercitare il governo della società. La riforma coincide dunque spesso con una politica di conservazione che determini sempre meglio i limiti di ciò che è consentito e di ciò che non è consentito. Secondo Schmitt:

Una caratteristica fondante, costitutiva e inaggirabile della decisione è la sua totale arbitrarietà. La decisione è arbitraria nel senso che l’unico vincolo che essa deve rispettare è quello di assicurare condizioni fattuali che rendano possibile la vigenza di una situazione normale tramite l’esclusione degli elementi a ciò ostativi. Per il resto, si è liberi di decidere come meglio si ritiene opportuno al fine di assicurare tale obiettivo.
Detto altrimenti, a patto che si riveli efficace, la scelta dei tempi, dei mezzi, delle modalità e dell’estensione, come anche di ogni altra variabile in gioco, è totalmente insindacabile e interamente rimessa a chi si dimostri in grado di far valere la propria decisione.
La decisione, in sostanza, deve «semplicemente» preoccuparsi di assicurare un ordine quale che sia: come assicuri tale ordine è del tutto irrilevante. In questa prospettiva, è legittima qualsiasi decisione che si sia rivelata – e fintantoché si riveli – in grado di creare una forma politica, vale a dire di assicurare la stabilità di un determinato assetto sociale nelle condizioni possibili in un dato contesto: se riesce in questo tentativo, qualsiasi agire politico è per ciò stesso legittimo/legittimato, indipendentemente da ogni altra circostanza, criterio, limite, condizione […] E’ evidente – o almeno lo è per Schmitt – che non esiste una condotta di per sé normale (quasi si trattasse di un dato di natura), rispetto alla quale ogni azione che non vi si conformi si configura come un caso di devianza. Detto altrimenti, ogni condotta è deviante rispetto a ogni altra: assumere una certa condotta come normale è sempre una forma, inevitabile quanto innegabile, di prospettivismo. Non si insisterà mai abbastanza – non foss’altro perché in più occasioni è lo stesso Schmitt a negarlo – sul fatto che in una prospettiva decisionistica ogni identità non può che essere l’esito artificiale di un processo di costruzione. In primo senso, dunque, la decisione è arbitraria perché risulta del tutto indifferente quale decisione si prenda, tra le tante possibili e nonostante le differenze considerevoli che è ben probabile sussistano tra esse.
Arbitrarietà come infondatezza. La decisione è arbitraria in quanto non può essere né dedotta né ricavata né indirizzata sulla base di un qualche fondamento o principio superiore: «In senso normativo, la decisione è nata da un nulla»10. Ancora più chiaramente: «La decisione sovrana è il principio assoluto, e il principio assoluto non è altro che decisione sovrana»11. A seguito dell’azione diserbante del processo di secolarizzazione, la decisione – che pure si impone come fondativa di un ordine, in una sorta di destituzione istituente – non può avere altro fondamento e altro principio di legittimazione che la sua stessa efficacia, con la cui effettività, inevitabilmente contingente, essa sta e cade12.

«Con la cui effettività inevitabilmente contingente, essa sta e cade», parole definitive per disvelare tutta l’arbitrarietà e la provvisorietà di un sistema politico quale quello vigente e degli inutili ed ormai inascoltabili peana sulla democrazia perduta.
La transitorietà della forma Stato e della sacralità delle sue istituzioni parlamentari, la loro valenza atemporale, apparentemente sovrastorica, sono qui completamente messe a nudo. Senza alcuna remora e senza pietà.

Tutto è inevitabilmente destinato ad essere travolto dalle tempesta già in atto. Si tratti di pandemia, guerra o crisi economica le nostre “decisioni” dovranno essere altre e dirimenti rispetto al tempo della “guerra civile globale” già dichiarata dai governi e dagli Stati ai loro cittadini e dal capitale alla specie nel suo insieme. Anche soltanto sotto questo aspetto, la lettura di Schmitt potrebbe dunque rivelarsi ancora tutt’altro che inutile e/o superata.


  1. Il paragone non è peregrino considerato che Schmitt ha dedicato proprio al fiorentino una delle sue opere: Machiavelli (con testo tedesco a fronte), a cura di G. Cospito, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2014  

  2. Carl Schmitt, Teologia politica (1934) ora in C. Schmitt, Le categorie del politico, (a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera), il Mulino, Bologna 1972, p.33  

  3. Andrea Salvatore, Carl Schmitt. Eccezione/Decisione/ Politico/Ordine concreto/Nomos, DeriveApprodi, Roma 2020, p.7  

  4. A. Salvatore, op. cit., pp. 12-14  

  5. Ibidem, p.17  

  6. A tal proposito si veda; Jack Orlando, Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, Il Galeone Editore, Roma 2020  

  7. A. Salvatore, op. cit., p.25  

  8. Ibidem, pp. 26-27  

  9. ibid., p.29  

  10. C. Schmitt, op. cit., p.56  

  11. ibidem, p.26  

  12. A. Salvatore, op. cit., pp. 30-33  

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