Allen – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 26 Apr 2024 20:00:36 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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Il reale delle/nelle immagini. Mockumentary. Il finto documentario https://www.carmillaonline.com/2015/10/08/reale-dellenelle-immagini-mockumentary-finto-documentario/ Thu, 08 Oct 2015 21:30:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25157 di Gioacchino Toni

The-War-Game_009Cristina Formenti, Il mockumentary. La fiction si maschera da documentario. Mimesis, Milano – Udine, 2013, 180 pagine, € 16,00

Il neologismo “mockumentary”, derivato dalla fusione di “mock” e “documentary”, viene introdotto nei primi anni ’80 al fine di indicare “prodotti audiovisivi che, pur narrando vicende di fantasia, si configurano come documentari”. Non si tratta di opere volte a “frodare lo spettatore facendo passare per reale il falso” ma di produzioni che fanno uso delle “estetiche documentarie” spesso con finalità ironiche, non mancando di esplicitare il loro divertito “giocare con [...]]]> di Gioacchino Toni

The-War-Game_009Cristina Formenti, Il mockumentary. La fiction si maschera da documentario. Mimesis, Milano – Udine, 2013, 180 pagine, € 16,00

Il neologismo “mockumentary”, derivato dalla fusione di “mock” e “documentary”, viene introdotto nei primi anni ’80 al fine di indicare “prodotti audiovisivi che, pur narrando vicende di fantasia, si configurano come documentari”. Non si tratta di opere volte a “frodare lo spettatore facendo passare per reale il falso” ma di produzioni che fanno uso delle “estetiche documentarie” spesso con finalità ironiche, non mancando di esplicitare il loro divertito “giocare con i codici”.
Il mockumentary, come vedremo, ha origini prima di tutto radiofoniche, sul finire degli anni ’30, poi audiovisive, attorno agli anni ’60, ma conosce la sua ampia diffusione soltanto nel corso degli anni ’90, soprattutto negli Stati Uniti, a livello cinematografico, ed in Gran Bretagna, a livello televisivo. A partire dal decennio successivo iniziano a comparire anche i primi studi accademici sul finto documentario, inizialmente limitati all’analisi di singole opere, poi, più recentemente, le analisi si sono fatte più sistematiche ed, all’interno di queste ultime, si pone il saggio di Cristina Formenti che intende “delineare anatomia, storia e funzionamento del mockumentary per mettere in luce il suo essere uno stile narrativo, trasversale a generi e poetiche autoriali, nonché a diversi media”. Attraverso il ricorso ad estetiche della produzione fattuale al fine di “conferire un’illusione di verità a storie di fantasia”, tali ibridazioni sembrano suggerirci come “nell’ambito dell’audiovisivo il reale sia profondamente legato alle nostre rappresentazioni di quest’ultimo”.

mockumentaryGrazie allo studio di questo particolare tipo di opera che falsifica le estetiche del cinema del reale al fine di raccontare vicende di finzione, sostiene l’autrice, è possibile riflettere su cosa venga inteso oggi come “documentario”. Lo studioso Bill Nichols sostiene che qualsiasi film può essere considerato un documentario in quanto anche la fiction più fantasiosa “rispecchia la cultura che l’ha creata e riproduce fedelmente l’aspetto di chi vi recita”. Non solo, il film, quando di ambientazione contemporanea alla sua produzione, può offrire una testimonianza, per quanto parziale e selettiva, degli usi e dei costumi del periodo, ma più in generale, ogni produzione documenta sempre qualcosa. La classica distinzione tra audiovisivi di fiction e di non-fiction, se mai è stata possibile e plausibile una separazione netta tra le due tipologie, risulta sempre più compromessa dalla proliferazione di prodotti ibridi ove “immaginario e fattuale si mescolano, dando vita a opere che, pur narrando vicende di fantasia, si fanno passare per documentari o che, nel raccontare il reale, ricorrono a elementi di messa in scena propri della finzione”. Il documentario, pur essendo percepito come una sorta di audiovisivo della verità in grado di fornire uno sguardo oggettivo sul mondo, una sua riproduzione, dovrebbe essere visto come una rappresentazione della realtà. Il mockumentary, oltre a essere un film di finzione, è anche un metadocumetario, un’opera che riflette circa il carattere epistemico del documentario.
Sin dagli albori del cinematografo, l’impressione di realtà nel documentario è frutto di una costruzione che riprende procedimenti propri della fiction, come la messa in scena, il ricorso ad una colonna sonora o ad un’illuminazione al fine di accentuare la drammatizzazione degli eventi ecc. Tale tendenza a “plasmare il fattuale”, sostiene Cristina Formenti, si è protratta fin ad oggi ed a tal proposito porta l’esempio di Michael Moore che, nei suoi film di denuncia, spesso agisce sulla realtà provocandola.

Diversi per vicende narrate e modalità narrative, per grado di finzionalità, per modalità di rappresentazione del fattuale presa a riferimento, per ricorso o meno ad attori conosciuti, i mockumentary, sostiene Cristina Formenti, non presentando “quell’insieme di caratteristiche semantiche e sintattiche comuni necessarie”, non possono essere ricondotti a “genere”. Il ricorso ad istanze veridittive, soprattutto a livello tecnico-linguistico, e ad indizi di finzione, a livello iconografico e/o narrativo, rappresentano i due tratti caratteristici del mockumentary.
“Alla base del mockumentary vi è un’idea di ricezione come processo di comunicazione fondato sulla negoziazione”; ad una prima fase in cui, attraverso marche associate alla produzione fattuale, il pubblico costruisce “un enunciatore reale interrogabile in termini di verità”, segue il momento della negazione in cui, attraverso elementi volti ad esplicitare la natura fittizia del testo, si attua una “rinegoziazione del patto comunicativo”. Tutto ciò richiede, evidentemente, una conoscenza dei codici da parte dello spettatore. Non mancano comunque casi in cui è talmente evidente l’aspetto fantastico di tali produzioni ibride che lo spettatore adotta immediatamente una lettura “finzionalizzante”. A tal proposito occorre tener presente che gioca un ruolo importante anche il livello di conoscenza dello spettatore dell’argomento attorno al quale è costruito il mockumentary, inoltre, la ricezione risulta sempre dipendente dalle variabili soggettive dei fruitori.
Per guidare lo spettatore nella scelta del patto comunicativo da instaurare, nel caso del mockumentary, si ricorre a fattori extra-testuali come i paratesti, che forniscono le “consegne di lettura” e magari presentano come reali personaggi ed eventi narrati nell’opera, ed il contesto mediale della ricezione. Lo spettatore tende maggiormente ad associare la sala cinematografica alla fiction ed il mezzo televisivo ad un opera di tipo fattuale. L’illusione di realtà nel finto documentario, continua l’autrice, dipende soprattutto dalla presenza di codici considerati dal pubblico come “garanzia di autenticità” come, ad esempio, il ricorso a filmati d’archivio, a spezzoni di telegiornali, la presenza di esperiti o testimoni oculari, l’immagine mossa e sgranata, la presenza di fotografie, le immagini da CCTV o riprese da cellulare, l’uso di inserti in bianco e nero, l’accostamento a fatti realmente accaduti, il ricorso ad attori sconosciuti capaci di una recitazione realistica e, non ultimo, “l’effetto diretta”.

Welles_DailyNewsCirca le origini del mockumentary occorre andare al lontano 1938, quando, dagli studi newyorkesi della CBS, all’interno del programma Mercury Theatre on the Air, viene messo in onda War of the Worlds, riduzione radiofonica di Orson Welles dell’omonimo romanzo di fantascienza di Herbert George Wells. Si tratta, probabilmente, del primo esempio di mockumentary radiofonico in cui, attraverso il ricorso a bollettini informativi, interviste ad esperti e a testimoni, interruzioni di aggiornamento nel corso della programmazione musicale, viene messa in scena in diretta lo sbarco alieno nel New Jersey. Gli espedienti utilizzati riescono a conferire un tale grado di plausibilità alla finta cronaca giornalistica da ingenerare il panico in una fetta considerevole di radioascoltatori convinti di assistere a veri reportage giornalistici di una, altrettanto vera, invasione aliena. La forma del bollettino radiofonico, ad alto livello di veridizione, il riferimento a località esistenti, ed il timore diffuso dell’incombere del secondo conflitto mondiale, sono tutti elementi che concorrono a far percepire come credibile quanto trasmesso. Non si tratta, però, di un falso documentario, ma di un finto documentario, un mockumentary, appunto. Nel programma sono infatti presenti indizi che ne svelano il carattere finzionale; che si tratti di una drammatizzazione di un romanzo, viene infatti detto in apertura di trasmissione, ripetuto un paio di volte nel corso di essa ed, ancora, in maniera più esplicita, viene ribadito nel monologo finale di Orson Welles ove viene palesemente indicato che si tratta di uno scherzo.

In ambito audiovisivo la nascita del mockumentary viene fatta risalire al primo aprile del 1957 quando viene mandato in onda The Swiss Spaghetti Harvest (di C. de Jaeger) [visibile al termine dello scritto], un reportage sulla raccolta degli spaghetti dagli alberi in Canton Ticino. La data non lascia dubbio sul “pesce d’aprile mediatico” ma non sono pochi, anche in questo caso, gli spettatori che accolgono la notizia come veridica tanto da prendere d’assalto i centralini della BBC per sapere dove si può acquistare una pianta che produce spaghetti. Al fine di ottenere credibilità, il servizio, oltre ad essere strutturato secondo le modalità giornalistiche, è collocato all’interno di un contenitore d’attualità politica.
Il nome di Orson Welles torna anche in veste di precursore di alcune modalità poi sfruttate dal mockumentary cinematografico: nelle prime sequenze di Citizen Kane (1941), si ricorre ad un finto cinegiornale, con altrettanto finti materiali, per introdurre il protagonista del film.

Il fatto che il mockumentary nasca in ambito audiovisivo attorno agli anni ’60 non è casuale, sottolinea l’autrice, visto che si tratta del periodo in cui rinasce il documentario grazie all’avvento del cinema diretto ed il cinema di fiction è alla ricerca di un nuovo linguaggio all’interno della messa in discussione del sistema produttivo e distributivo hollywoodiano.

the war gameNel 1965, in Gran Bretagna, il film The War Game (di P. Watkins), prodotto dalla BBC per essere trasmesso dall’emittente, giudicato troppo crudo per il pubblico televisivo, viene dirottato nelle sale cinematografiche. L’opera, che tratta gli esiti di un ipotetico attacco nucleare sul Kent, è confezionata ricorrendo alle consuete marche di veridicità sulla falsariga dei documentari divulgativi della BBC, nemmeno gli attori utilizzati vengono elencati nei titoli di coda. Il risultato è tale da far vincere l’Oscar per il Documentario (!) alla pellicola.
Nel 1967, negli Stati Uniti, viene prodotto David Holzman’s Diary (di J. McBride), il film, realizzato a basso budget, si propone come video-diario di un regista disoccupato intento a riprendere la propria vita. Sia nel caso inglese, che in quello americano, il pubblico viene stimolato ad una fruizione attiva e, a tal proposito, Formenti sottolinea che mentre nel caso inglese viene adottato “il mockumentary per indurre il pubblico a considerare come l’informazione sia soggetta al controllo del potere politico”, nel caso americano “ci si appropria di estetiche e convenzioni del cinema diretto con l’intento di metterne in discussione l’assunto per cui lo sguardo della macchina da presa sarebbe imparziale e capace di restituire gli avvenimenti senza influire sul loro svolgimento”. Di poco successivo è Take the Money and Run (1969, di W. Allen), film in cui vengono simulate le modalità del reportage televisivo disseminando l’opera di marche veridittive, in questo caso, però, la finzionalità della pellicola è resa evidente dalla presenza dello stesso regista in veste di protagonista e dalla inverosimiglianza di quanto è narrato.

Secondo l’autrice, le motivazioni dell’incremento di mockumentary negli anni ’90, sono individuabili nello svilupparsi di una critica ai media ed al mondo artistico, nella riflessione sul rapporto tra fotografia e reale ed, inoltre, hanno a che fare con “l’esigenza del cinema manistream di rinnovare le proprie modalità narrative per dare nuova linfa a generi che altrimenti rischiano di sclerotizzarsi. Essendo già stati incrociati tra loro, non resta che ibridarli con la non-fiction”. La concomitante conquista di spazio da parte del finto documentario e la proliferazione dei reality show televisivi sembrerebbero testimoniare una richiesta di racconti “reali” da parte da parte del pubblico, o quantomeno una sua disponibilità di fruizione. La possibilità di realizzare mockumentary con piccoli budget e la diffusione del digitale che, oltre a contribuire al calo dei costi produttivi, offre enormi possibilità di manipolazione delle immagini, espande la proliferazione di tali opere, oltre che in ambito televisivo e cinematografico, sul web.

death-of-a-presidentNel saggio vengono passati in rassegna diversi filoni di finto documentario. Con The Rutles – All You Need Is Cash (1978, di E. Idle e G. Weis) ha origine il filone mockrockumentary, anche se il modello di riferimento per buona parte delle produzioni successive è dato da This Is Spinal Tap (1984, R. Reiner). A tale filone sviluppato sui gruppi musicali appartengono lavori come A Mighty Wind (2003, di C. Guest), Join the Flumeride (1998, di T. Persson), Fear of a Black Hat (1993, di R. Cundieff) e The Last Polka (1985, di J. Blanchard).
Il filone storico-politico appare più variegato rispetto a quello delle band musicali, l’autrice individua tre modalità differenti di trattare tale tematica, pur all’interno della comune volontà di metter in guardia lo spettatore dall’asservimento dei media al potere politico: la documentazione della campagna elettorale di un candidato, lo svelamento dell’esistenza di una cospirazione oppure, attraverso l’approccio del “what if”, viene reinventare il passato od ipotizzato il futuro solitamente in termini apocalittici. La serie Tanner ’88 (1988, di R. Altman) inaugura la prima modalità a cui seguono, tra gli altri, lavori come Bob Roberts (1992, di T. Robbins) e Man with a Plan (1996, di J. O’Brien). Alla seconda modalità appartengono opere come The Canadian Conspiracy (1985, di R. Boyd), Konspiration ’58 (2002, di J. Löfsted) ed Opération Lune (2002, di W. Karel). Relativamente alla terza modalità si possono citare lavori come C.S.A.: The Confederate States of America (2004 di K. Willmott), il russo Первые на Луне (First on the Moon, 2005, di A. Fedorchenko), The Day Britain Stopped (2003, di G. Range), Smallpox 2002 – Silent Weapon (2002, di D. Percival). Tra questi mockumentary vengono segnalati anche alcuni film che ipotizzano assassinii di personalità che determinano importanti ripercussioni nazionali o internazionali, ad esempio AFR – Anders Fogh Rasmussen (2007, di M. H. Kaplers), Death of a President (2006, di G. Range) oppure Nothing So Strange (2002, di B. Flemming).
Al filone sociale dei mockumentary appartengono opere che mostrano particolari aspetti della società contemporanea, sopratutto situazioni paradossali o personaggi eccentrici, come nel caso dei garage-sale di G-Sale (2003, di R. Nargi) o del collezionismo di pasti congelati di Never Been Thawed (2005, di S. Anders). Non mancano, inoltre, opere di ambientazione lavorativa, come Chalk (2006, di M. Akel) che narra delle attività di un gruppo di insegnanti o la finta inchiesta su alcuni ausiliari della sosta canadesi di The Delicate Art of Parking (2003, di T. Carlson). Di gran lunga maggioritari i mockumentary che si focalizzano su uno o più concorrenti in situazioni competitive, come nel caso di Drop Dead Gorgeous (1999, di M. P. Jann), che tratta di un concorso di bellezza.

Diversi finti documentari hanno per soggetto è il cinema stesso, in tal caso si trovano racconti di storie di aspirazioni frustrate di registi o produttori, denunce dell’incidenza del sistema produttivo sulle opere progettate dai film-maker oppure opere di derisione dell’industria cinematografica che ricorrono a caricature stereotipate di personaggi dell’ambiente. In diversi casi, inoltre, nei mockumentary viene mostrata al pubblico “la natura mediata dell’immagine filmica che sta fruendo, mostrando un personaggio-regista nell’atto di effettuare le riprese”.

the-last-broadcastNella storia degli audiovisivi di genere horror è frequente la ricerca di un certo realismo al fine di agire sullo stato d’animo dello spettatore più efficacemente. Nella cinematografia votata al macabro può essere ricordato il caso di Cannibal Holocaust (1979, R. Deodato) in cui si raggiunge un certo realismo nelle morti simulate di alcuni attori mescolate a reali uccisioni di animali. The Blair Witch Project (1999, D. Myrick – E. Sanchez) viene comunemente considerato il film di riferimento per il filone mocku-horror anche se è preceduto da The Last Broadcast (1998, di S. Avalon – L. Weiler), opera a cui pare davvero essersi ispirato il lavoro di D. Myrick ed E. Sanchez, tanto da far scattare un’accusa di plagio. In entrambi i casi, si dimostra come il terrore possa essere suscitato dall’idea che ciò che viene mostrato sia realmente accaduto ai protagonisti. Tale tipo di mocku-horror ha successo perché, secondo Cristina Formenti, “nel momento in cui si trova ad assistere a un film dell’orrore avente le sembianze di un prodotto fattuale, il fruitore non è più portato a prendere le distanze da quanto vede, rassicurandosi del fatto che ‘It’s not real’, bensì tende a pensare: ‘It could be me’. La vicenda raccontata acquisisce pertanto una maggiore carica orrorifica ai suoi occhi, procurandogli conseguentemente maggior piacere”. Esiste anche un filone sentimentale di mockumentary, a tal proposito il saggio citare opere come Sidewalks of New York (2001, di E. Burns), Paper Heart (2009, di N. Jasenovec) o lo stesso Husbands and Wives (1992, W. Allen).

Una delle caratteristiche del mockumentary è sicuramente quella di migrare con facilità da un medium all’altro anche se, sino ad ora, la televisione ha offerto le condizioni ideali per il suo proliferare grazie anche alle svariate forme assunte dal fattuale su tale mezzo. Diversi studiosi individuano un legame tra il diffondersi della reality TV e l’incremento di finti documentari realizzati per la televisione. La falsificazione delle estetiche documentarie, sostiene l’autrice, porta ad alcune macro-categorie di prodotti audiovisivi: finti servizi giornalistici (notizie brevi, “pesci d’aprile mediatici”, solitamente in chiusura di trasmissioni d’informazione); programmi non seriali (prevalentemente hoax, anche in questo caso trasmessi il primo d’aprile o ad Halloween, sul tipo del famoso programma radiofonico di Orson Welles); singoli episodi di telefilm di successo (si tratta di puntate che “mantengono la medesima struttura narrativa degli episodi del telefilm in cui s’inseriscono, adottando però un diverso punto di vista sugli eventi: quello di una troupe esterna entrata appositamente nello spazio del racconto”); intere serie (caratterizzate dal “presentare come reale un racconto di fantasia più o meno articolato, falsificando generalmente la modalità documentaristica osservativa. Non è, però, infrequente nemmeno che si ricorra al linguaggio proprio del giornalismo televisivo o che si riprendano precisi ‘reality formats’ (…) tali produzioni sono prevalentemente a carattere umoristico e si dividono in serie composte da puntate che propongono ciascuna un racconto a sé stante (…) e serie i cui episodi, pur essendo fruibili anche singolarmente, sono attraversati da una linea narrativa che giunge a conclusione solo al termine della stagione”).
Anche sul web si ritrovano numerosi video che adottano lo stile del finto documentario, nella maggior parte dei casi si tratta di cortometraggi comico-parodistici di una sola puntata, ma non mancano mocku-webisodes o web-series che ricorrono a questa forma narrativa. Numerosi cortometraggi hanno come soggetto un social medium, come ad esempio Facebook – A Mockumentary (2010, di J. Gross), ed intendono mostrare allo spettatore quanto tali forme di comunicazione influiscano sulla vita relazionale degli individui.

Scrive Cristina Formenti che “in virtù del suo essere uno stile intermediale, il finto documentario viene altresì utilizzato per dar vita a narrazioni transmediali, ovvero per dipanare una storia su più mezzi di comunicazione attraverso la creazione di una serie di testi, fruibili anche autonomamente, che apportano ciascuno un contributo separato e rilevante al racconto”. Si creano così degli “ecosistemi narrativi ‘onnivori’”, fortemente orientati al marketing del prodotto. In diversi casi l’espansione in rete dell’universo narrativo di un audiovisivo per il cinema o la televisione, conferisce maggior credibilità al finto documentario, “dal momento che oggigiorno si tende a considerare reale un soggetto o un ente già solo perché ha un suo profilo su un qualsivoglia social network o vi è un portale a esso dedicato”. Il mockumentary, sostiene l’autrice, è uno stile narrativo “a manifestazione multipla”, in grado di “rispondere alle esigenze di un’epoca della convergenza, quale quella contemporanea, che concepisce i media e le tecnologie come ‘opportunità di elaborazione ed interscambio pluridimensionale’”.

Ad una prima parte del saggio volta a ricostruire la storia e le caratteristiche specifiche del finto documentario, segue l’analisi dettagliata di alcune sue produzioni rappresentative: il mock-rockumentary (This Is Spinal Tap, 1984, di R. Reiner), l’hoax ed il mocku-biopic (Forgotten Silver, 1986, di C. Botes e P. Jackson), il mocku-horror (The Blair Witch Project, 1999, di D. Myrick ed E. Sánchez), il mockumentary storico-politico (Death of a President, 2006, di G. Range) ed una realizzazione italiana, (Il mundial dimenticato, 2011, di L. Garzella e F. Macelloni).

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The Swiss Spaghetti Harvest (1957, di C. de Jaeger)

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)
The War Game di P. Watkins (1965)
– Copertina: C. Formenti, Il mockumentary. Mimesis (2013)
– Prima pagina del “New York Daily News” del 31/10/1938
The War Game di P. Watkins (1965)
Death of a President di G. Range (2006)
The Last Broadcast di S. Avalon – L. Weiler (1998)

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