Albert Camus – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Mostro del mio cuore”: Louis Germain e Albert Camus https://www.carmillaonline.com/2024/07/03/mostro-del-mio-cuore-louis-germain-e-albert-camus/ Wed, 03 Jul 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83023 di Neil Novello

Albert Camus, Caro signor Germain, Bompiani, Milano 2024, pp. 125, 16 euro.

Albert Camus frequenta la scuola elementare in un quartiere povero e polveroso di Belcourt, ad Algeri. Nella capitale, l’autore dello Straniero nasce nel 1913. Le lettere di Caro signor Germain, scambiate con il maestro di scuola Louis Germain nell’ultimo quindicennio di vita di Camus, tra il 1945 e il 1959, nella vita dello scrittore dilatano la corrispondenza agli anni dell’infanzia quando l’Algeria è francese e Albert già elegge il “signor Germain” a “figura cruciale” del destino. E ciò prima di rendere il maestro emblematico [...]]]> di Neil Novello

Albert Camus, Caro signor Germain, Bompiani, Milano 2024, pp. 125, 16 euro.

Albert Camus frequenta la scuola elementare in un quartiere povero e polveroso di Belcourt, ad Algeri. Nella capitale, l’autore dello Straniero nasce nel 1913. Le lettere di Caro signor Germain, scambiate con il maestro di scuola Louis Germain nell’ultimo quindicennio di vita di Camus, tra il 1945 e il 1959, nella vita dello scrittore dilatano la corrispondenza agli anni dell’infanzia quando l’Algeria è francese e Albert già elegge il “signor Germain” a “figura cruciale” del destino. E ciò prima di rendere il maestro emblematico creando il personaggio di Bernard nel postumo Primo uomo.

Fin dalla prima lettera datata 15 ottobre 1945, Louis Germain, con la dolcezza di un antico pedagogo, rievoca la propria opera educativa a Belcourt richiamando all’attenzione di Camus la “piccola parte” compiuta per orientarne il “destino” culturale. Il dialogo riporta il sentimento all’originaria ragione scolastica. E così alla fine del 1945 Camus, dapprima fa riferimento al “passato” per confessare che è “rimasto vivo per me il suo ricordo – insieme con la mia gratitudine”, finalmente testimonia a Louis Germain un segreto durato circa vent’anni. L’autore della Peste parla al maestro come a “uno dei due o tre uomini a cui devo più o meno tutto”. Quando all’inizio del 1946, Camus riscrive a Germain indicandolo come il “miglior maestro che possa esserci”, anche la leggera esitazione di fine 1945, allorché confessava di parlare come a “uno dei due o tre uomini a cui devo più o meno tutto”, è risolta dall’autoelezione a sicuro “figlio spirituale” del ritrovato interlocutore.

Nello sgomentante secondo dopoguerra, incontrandosi e scrivendosi, Camus e Germain si riconoscono in qualcosa d’altro che il maestro elementare e lo scolaro destinato alla letteratura. La loro non è la corrispondenza saltuaria o di circostanza generata da un inatteso, involontario incontro. Nella Parigi della metà degli anni Quaranta, l’epifania di Germain nella vita di Camus e l’appassionata partecipazione dello scrittore all’amicizia del vecchio insegnante, all’apparenza esprimono un dialogo mai interrotto. Un dialogo finalmente riannodato in quel “mondo impazzito” del dopoguerra, con l’espressione di Camus, in cui lo scrittore e il maestro appaiono due benefiche forze risalenti da un arcano passato e ora fortunosamente dinanzi alle rovine storiche del conflitto mondiale.

Così “colui a cui devo di essere quello che sono”, nel sentimento di Camus per Germain cresce a dismisura fino al punto che, all’inizio del 1950, l’autore che si appresta a pubblicare L’uomo in rivolta rivolge al maestro un esplicito pensiero d’amore. Camus parla a Germain come al “padre che non ho mai conosciuto”. Alla fine del 1952, Germain scrive da Algeri a Parigi commentando una fotografia di Jean, il figlio di Camus. Quando confessa all’interlocutore che “mi sembra di rivedere suo padre che ho conosciuto a quell’età” accade qualcosa di magico. Un gioco di rifrangenze ed echi, tra l’Africa e l’Europa, tra Camus e Germain testimonia una coesistenza di memoria e sentimento saldate in nome di una malcelata nostalgia per il passato. Camus guarda a Germain come al “padre” ignoto, Germain, tramite Jean, rivive un ideale ritorno al tempo infantile di Albert.

Tra Algeri e Parigi, soprattutto quando nell’ottobre 1957 è assegnato a Camus il Nobel per la Letteratura, corre più che l’ennesimo attestato di gratitudine. In tre diversi momenti, Camus ritorna sul ruolo di Germain alla scuola di Belcourt elencando in sequenza la propria condizione di “bambino povero”, il grande “insegnamento” ricevuto dal maestro e sopra ogni cosa la memoria del suo “esempio”, la vera chiave pedagogica rimarcata da un “allievo riconoscente”. E nel dialogo immediatamente successivo all’assegnazione del Nobel, Germain aggiunge un tassello esemplare all’umile onestà di Camus. Richiamando indirettamente le parole autobiografiche dello scrittore sulla materiale povertà infantile, sull’“insegnamento” e l’“esempio” ricevuti dal maestro, Germain confessa che “neppure i miei figli mi hanno manifestato un simile affetto”. Alla metà degli anni Cinquanta, a circa un decennio dal loro rincontro, in Camus la figura di Germain è ormai cresciuta fino a diventare paterna, mentre per il maestro lo scrittore è idealmente diventato un figlio:

È stato pensando al tuo papà, mio caro ragazzo, che mi sono interessato a te, come mi sono interessato agli altri orfani di guerra. Ti ho voluto bene un po’ al posto suo, per quanto ho potuto, e questo è stato il mio unico merito. Ho assolto un dovere che consideravo sacro.

Non è difficile comprendere come venga maturando in Germain la consapevolezza di un tempo perduto prima del rincontro con Camus nel 1945. E come l’ampio decennio di corrispondenza, a tutto il 1958 stimoli nel maestro algerino un’espressione esemplarmente riassuntiva, quel “mostro del mio cuore” riferito a Camus con cui, non una, ma due anime provano a turno ad amare più dell’altra. Provano cioè a rincorrere la dichiarazione sentimentale più sincera, a tenere l’altro come termine unico della propria passione. Ancora nell’ultima lettera di Camus a Germain, nell’ottobre 1959, dopo aver rispedito al maestro un “vaglia” ricevuto a compenso di una spedizione libraria ad Algeri, lo scrittore ricorda di nuovo l’antico “debito”. Per confessare che con quel “debito vivo, felice di saperlo inestinguibile”. È l’estremo atto di una gratitudine durata l’intera esistenza, una gratitudine solo incidentalmente affidata alla corrispondenza di un quindicennio. A quel punto dell’epistolario con Germain, solo qualche mese separa Camus dal fatale 4 gennaio 1960. E l’immagine del “debito” eterno, tra le ultime della vita di Camus, sembra riassumere e farsi il simbolo di una riconoscenza ancora viva perché ritenuta appunto “inestinguibile”.

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L’Unico e la sua proprietà https://www.carmillaonline.com/2023/11/29/lunico-e-la-sua-proprieta/ Wed, 29 Nov 2023 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80056 Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, [...]]]> Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico» (Max Stirner)

«L’unico e la sua proprietà» viene dato alle stampe dall’editore Otto Wigand di Lipsia nell’ottobre del 1844, ma a distanza di soli pochi giorni dalla pubblicazione cade sotto il pugno delle ferree leggi censorie del tempo e le autorità politiche del governo di Sassonia ne dispongono l’immediato sequestro, “poiché non solo in singoli passi di tale scritto Dio, Cristo, la Chiesa e la religione in generale vengono trattati con la più irriguardosa blasfemia, ma anche tutto l’assetto sociale, lo Stato e il governo vengono definiti come qualcosa che non dovrebbe più esistere, mentre la menzogna, lo spergiuro, l’assassinio e il suicidio vengono giustificati e il diritto di proprietà viene negato”. Nemmeno una settimana più tardi viene però emessa un’ordinanza di dissequestro e il testo, ora giudicato innocuo e insensato, torna in circolazione. Ancora pochi giorni e un nuovo opposto provvedimento ne decreta la rimozione dal territorio sassone; poi, il 26 agosto 1845 viene definitivamente messo al bando in tutto il Regno di Prussia. Ma è ormai troppo tardi: la turbolenta vicenda di quest’opera “famigerata […], la più estrema che conosciamo in genere” ha già avuto inizio.

Nel corso degli anni si succederanno innumerevoli e controversi giudizi, appassionate dispute interpretative, feroci critiche ed entusiastici elogi, strumentali richiami e grossolane ideologizzazioni, lunghi intervalli di misterioso oblio e improvvise riscoperte alle quali nemmeno l’autore riuscirà a sottrarsi. Friedrich Engels sarà il primo a riconoscere in Stirner “il profeta dell’odierna anarchia”, tanto che l’“ingenua” teoria proudhoniana, “non avrebbe mai portato alle dottrine anarchiche attuali, se Bakunin non vi avesse iniettato una buona dose di rivolta stirneriana; in seguito alla quale gli anarchici sono diventati dei puri ‘unici’, talmente unici” – concludeva con sarcasmo – “che due di loro non possono sopportarsi”. Il giudizio appare acquisito e si protrae – non senza obiezioni, anzi – fino ai giorni nostri: “il più rappresentativo filosofo e ideologo dell’anarchia […], una coscienza visceralmente anarchica”, scrive di lui Antimo Negri. “Stirner può essere annoverato tra i rappresentanti di uno dei poli dell’anarchismo, forse il più importante”, assicura Carlo Roehrssen riferendosi all’individualismo anarchico, e aggiunge poi che “Stirner è certamente un antesignano, un padre fondatore dell’anarchismo”. Massimo La Torre affianca Stirner a William Godwin e a Pierre-Joseph Proudhon in quella che considera la triade dei “pensatori che danno origine alla filosofia politica anarchica”, sostenendo come Der Einzige und sein Eigentum [sia] dunque, molto più di An Inquiry on Political Justice di Godwin e di Qu’est-ce que la propriété? di Proudhon, un libro anarchico” e che si tratti dell’“l’opera in cui per la prima volta, e in maniera articolata e coerente, viene esposta una filosofia morale e politica anarchica”. Una filosofia molto pericolosa a parere di Albert Camus, che legge nelle pagine di Stirner la legittimazione e l’istigazione a una violenza che si sarebbe poi realmente espressa nelle varie “forme terroristiche dell’anarchia”. Ma questa interpretazione, che riconduce a Stirner le responsabilità morali del terrorismo anarchico, viene condivisa e suffragata anche da altri osservatori che, come evidenzia William J. Brazill, “hanno suggerito un legame diretto tra Stirner e i terroristi russi del XIX secolo, in particolare con Sergei Nechaev”.

Sempre a questo filone interpretativo di matrice anarchica appartiene poi la singolare visione di uno Stirner anarco-sindacalista e operaista, considerato il “maggiore teorico e ispiratore della lotta sindacale”. Visione quanto meno paradossale se si tiene conto del fatto che i concetti filosofici cui ruota attorno la filosofia di Stirner sono quelli dell’egoismo e dell’interesse proprio; concetti, cioè, a prima vista antitetici rispetto a quelli dell’organizzazione sindacale, che evidentemente implicano un valore solidaristico condiviso da una collettività. Non è un caso perciò se Enrico Ferri, studioso del pensiero stirneriano, esprime il parere perfettamente opposto per cui “appare difficile, se non impossibile, annoverare Stirner tra i teorici dell’anarchismo” dal momento che ha elaborato “la più radicale concezione individualistica della filosofia moderna”. E non è il solo a pensarlo. Molto prima di lui, in un saggio del 1904 di Victor Basch, se da un lato veniva riconosciuta l’appartenenza di Stirner alla corrente dell’individualismo anarchico – come eloquentemente annunciato dal titolo stesso dell’opera –, dall’altro si arrivava alla conclusione secondo cui tale anarchismo troverebbe espressione compiuta in un elitismo eroico di tipo aristocratico, sia pure con esiti paradossalmente democratici. Ed è a questa figura mitica dell’Unico, declinata in una dimensione epica e quasi millenaristica, che dovette fare riferimento il Benito Mussolini socialista quando rammentava le sue “escursioni sulle più alte vette del mondo” – “dolomiti del pensiero” s’intende, dal momento che scriveva dal carcere –, tra le quali vi si trovava, primo della lista, il nome di Stirner, seguito da quelli di Nietzsche, Goethe, Schiller, Montaigne e Cervantes.

Ancora nel dicembre del 1919, un Mussolini già meno socialista e molto più fascista, si sgolava energicamente sciorinando bassa retorica e incutendo cattivi presagi: “basta, teologi rossi e neri di tutte le chiese, con la promessa astratta e falsa di un paradiso che non verrà mai! Lasciate sgombro il cammino alle forze elementari degli individui, perché altra realtà umana, all’infuori dell’individuo, non esiste! Perché Stirner non tornerebbe d’attualità?”. A conti ormai fatti, ci avrebbe pensato Hans Helms nel 1966 a iscrivere Stirner al partito fascista, affermando lapidariamente che “la storia dello stirnerianismo è una storia del fascismo”. Eppure, il fascistissimo Paolo Orano non avrebbe mai sottoscritto, poiché a suo dire, l’Unico stirneriano “nulla ha a che vedere con il crudo breve risoluto realismo delle Camicie Nere”.

Tuttavia, ciò non ha impedito a Luca Leonello Rimbotti di accreditare a Stirner gravi responsabilità storiche. Facendo riferimento al presunto influsso che Stirner, mediato da Eckart, avrebbe avuto su Hitler, Rimbotti sostiene infatti che è “possibile leggere un’intera epoca del Novecento come qualcosa di molto simile ad una rivelazione violenta delle profezie stirneriane”. Ecco allora che un fedele sostenitore del regime nazista come Carl Schmitt, dal carcere per crimini di guerra di Norimberga dove era rinchiuso, affidava ad un piccolo scritto alcuni significativi pensieri su Stirner. Confessava dunque come “Max” – la confidenza è tutta sua – fosse l’unico a fargli visita nella cella e gli riconosceva il merito di aver “trovato il titolo più bello e comunque più tedesco di tutta la letteratura tedesca”.

[…]

È un misto di fascino e ripugnanza, attrazione e sgomento a contraddistinguere la prima ricezione dell’opera di Stirner, un’opera estrema che chiude i conti con tutta la filosofia precedente compromettendone irrimediabilmente la salute. Per queste ragioni si dovette pensare di escluderla e Kuno Fischer poté scrivere che essa “nulla ha in comune col nome della filosofia e della critica”.

Prima di relegare L’Unico all’ideologia anarchica, Engels aveva (s)qualificato l’opera di Stirner come “la punta acuminata di ogni teoria che si muova all’interno della stupidità corrente” e, ancora, come “perfetta espressione della pazzia corrente”. Eppure si era subito preso la briga, assieme a Karl Marx, di redigere una “critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti” – questa la didascalia che accompagnava il titolo dell’opera, L’ideologia tedesca –, dedicando, piuttosto significativamente, quasi quattro quinti del libro a Stirner, lì ribattezzato con il nome di San Max e associato a San Bruno (Bauer) in un lungo capitolo intitolato Il concilio di Lipsia.

Marx ed Engels non mancano certo d’ironia e nel ricondurre al vecchio carro astratto dell’idealismo, oltre che Feuerbach e Bauer, anche un nemico giurato di tale impostazione filosofica come Stirner, si dilettano nell’attribuirgli divertenti titoli ecclesiastici e spiritosi soprannomi. Ecco dunque il santo scrittore, il buon padre della chiesa tedesca, il beato Max e Jacques le bonhomme, Sancio Panza o il caballero dalla tristissima figura alle prese con la condanna marxiana lungo una dettagliata analisi critica de L’Unico tesa a demolirne ogni singolo paragrafo, ogni singola frase, e in diversi casi ogni singola parola.

Stupisce il fatto di tanto accanimento e resta la sensazione che all’ombra del sarcasmo con cui Stirner viene bistrattato si nasconda in realtà una forte preoccupazione nei confronti della sua filosofia. Sorge dunque spontaneo il dubbio che il filosofo Giorgio Penzo ha espresso in diverse occasioni per cui “si può forse pensare che nel leggere L’Unico e la sua proprietà Marx ed Engels abbiano avuto subito coscienza delle doti geniali di Stirner e che abbiano intuito che si trattava di un avversario pericoloso per quanto riguardava la problematica sociale. Forse per questo – conclude Penzo – Marx ed Engels cercarono in San Max di relegare il più possibile il pensiero di Stirner nell’ambito di un filosofare idealistico vuoto e fumoso che doveva ormai essere del tutto superato”.

Alle stesse conclusioni era giunto molti anni prima lo storico delle idee Henri Arvon, il quale faceva notare come nel periodo precedente il 1848 era con gli argomenti forniti da L’Unico che si lottava contro il socialismo ed è per questo molto probabile che Marx avesse visto nel suo autore un nemico da eliminare. In nessun altro modo sarebbero comprensibili toni così violenti e ridicolizzanti come quelli impiegati nell’Ideologia tedesca se non con il disperato tentativo di mettere a tacere idee piuttosto scomode. L’opera di Marx ed Engels rimarrà però ostaggio della critica roditrice dei topi per quasi un secolo e solo nel 1932 vedrà la luce. Per la legge della nemesi storica gli auspici che avevano animato l’impegno di Marx ed Engels non saranno esauditi e, anzi, si riveleranno controproducenti. Come rileva sempre Henri Arvon, “L’ideologia tedesca, che nelle intenzioni di Marx avrebbe dovuto mostrare l’inconsistenza della filosofia stirneriana, costituisce, al contrario, la testimonianza irrecusabile del suo valore storico”.

A prescindere dalla polemica marxiana, resta il fatto che se di ricezione filosofica de L’Unico si può parlare, questa avvenne esclusivamente nel ristretto circolo della sinistra hegeliana al quale Stirner apparteneva e nel quale si era formato, e avvenne solo per un breve periodo, dal momento che già a partire dal 1848 l’opera pare dimenticata. La sua rinascita porta la data del 1898 e corrisponde all’anno in cui lo scrittore e attivista John Henry Mackay, sulle tracce di Stirner da diverso tempo, ne pubblica una bio-agiografia all’insegna dell’anarchismo, facendone il primo teorico dell’individualismo anarchico e dando così avvio alla lettura fortemente politicizzata dell’opera cui si faceva più sopra riferimento.

Lettura che “ne ipoteca fortemente l’avvenire”, per dirla ancora con Arvon, il quale non dubita invece nel porre Stirner alle origini di una delle correnti più significative della filosofia contemporanea, quella dell’esistenzialismo, accennando, in conclusione al suo testo, un accostamento con Kierkegaard già intrapreso da Martin Buber ne La domanda rivolta al singolo del 1936 e invitando ad approfondire tale dimensione esistenziale del pensiero stirneriano. L’invito sarà appunto raccolto da Penzo in un testo del 1971 fin dal titolo programmatico: Max Stirner. La rivolta esistenziale, nel quale l’autore non nega la natura anarchica del pensare stirneriano, ma sostiene che “si è di fronte a un anarchismo tutto particolare, definibile come un anarchismo della ragione”. Secondo Penzo, infatti, Stirner tematizza una nuova concezione esistenziale dell’essere che si precisa nella forma dell’egoismo, qui inteso come condizione umana dell’Io in relazione alla morte di ogni pensare idealistico-universale. Si tratterebbe in fondo della problematica della morte di Dio – sia pure celato sotto le mentite spoglie dell’Uomo feuerbachiano – e del conseguente confronto con il Nulla. Tematiche che, a partire da sensibilità squisitamente esistenziali, aprirebbero il varco alla terribile verità del nichilismo. Ed è su questo terreno ermeneutico, difatti, che Camus riconosce in Stirner il precursore del nichilismo nietzscheano. Come già accennato, d’altronde, la figura dell’Übermensch è stata spesso accostata a quella dell’Unico, e sono diversi, effettivamente, i punti di contatto tra il pensiero stirneriano e quello di Nietzsche, tanto che, stando alla testimonianza dell’amica Ida Overback, lo stesso Nietzsche se ne sarebbe preoccupato temendo l’accusa di plagio. Vano, dunque, il tentativo della sorella Elisabeth teso a negare qualsivoglia debito filosofico di Friedrich nei confronti di Stirner se si prende in considerazione anche la testimonianza dello storico tedesco Adolf Baumgartner, che afferma di aver letto L’Unico su indicazione del suo maestro Nietzsche, il quale avrebbe poi accompagnato il consiglio al giudizio per cui l’opera di Stirner “è quanto di più audace e consequenziale sia stato pensato dopo Hobbes”.

[…]

Bisognerà allora cominciare col domandarsi cosa realmente vi sia scritto in questo libro – vero e proprio corpus delicti – che ha suscitato così tante reazioni contrastanti; quale ne sia il messaggio contenuto, quali le intenzioni.

E bisognerà di conseguenza chiedersi chi si cela dietro il nome di Max Stirner, chi veramente sia stato. Forse un giovane hegeliano troppo audace? Un profeta dell’anarchismo? Un teorico del sindacalismo? Un borghese individualista? Un violento apologeta del terrorismo? Un cultore della forza e un precursore del fascismo? Un filosofo esistenzialista? Un nichilista? Un semplice provocatore? Un folle?

Ma soprattutto bisognerà domandarsi chi è questo suo Unico, questo Egoista, questo Proprietario di cui si parla. Una nuova categoria dell’umano? Una figura del futuro? Addirittura un “mostro inumano”?

Sono, queste, solo alcune delle domande cui si tenterà una risposta, pur con la consapevolezza dell’impossibilità di giungere a soluzioni certe né tanto meno definitive del pensare stirneriano, per sua natura refrattario e ostile a ogni sistematizzazione.

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L’orco e le ossa, ovvero ricordare il futuro https://www.carmillaonline.com/2023/11/27/80076/ Sun, 26 Nov 2023 23:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80076 di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non [...]]]> di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non possa essere anche questo libro dalla copertina coi colori pastello e con la grafica di certe vecchie scatole di biscotti o di sapone in polvere.

La freccia del tempo suggerita dal titolo sembra scontata, pare muoversi dal passato verso il futuro, ma l’arguzia dell’autore prende la questione per la coda e immagina in questo cammino un viaggiatore imprevedibile, citando Le ricordanze: «L’esperienza ci dice che è il futuro quello che si fa incontro a noi di continuo, fin dall’ingresso nella vita e poi sempre più: fino all’uscita. Solo allora – ha scritto Giacomo Leopardi – “dal mio sguardo fuggirà l’avvenire”».

La figura del gigante di Recanati è ben presente, a Prosperi. Chi lo conosce può vederlo seminare passi pensosi, nella Pisa del Palazzo della carovana e del primo orto botanico del mondo, magari mentre percorre quella viuzza che adesso porta il nome del poeta. Potrebbe essere proprio lei, la via descritta in una famosa lettera del 1828 alla sorella Paolina: «Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti».

Basta calcare col piede quelle pietre, respirare le muffe decrepite di quei muri, per fare un poeta o uno storico? Lasciamolo credere a chi cerca scorciatoie. L’autore non le ha cercate; la strada che l’ha portato sino alla Scuola Normale di Pisa e all’Accademia dei Lincei l’ha segnata con studi e ricerche e riflessioni. Ora che distilla in una chicca pensata per i ragazzi un sunto delle sue fatiche, sembra quasi che si volga indietro, e forse per questo il rapporto fra i tempi si sbarazza dell’ordine consueto. Fa pensare alle osservazioni di Edward Carr sul rapporto degli storici e dei filosofi col domani, quando ricorda il paradosso di Lewis Namier secondo cui gli storici immaginano il passato e ricordano il futuro[1].

Leopardi, ma non solo lui. La letteratura è una chiave indispensabile perché schiude sensibilità altrimenti inaccessibili, scarta e vola sull’ostacolo come la mossa del cavallo: «La letteratura ha molto da dire a chi, attraverso lo studio della storia, cerca di conoscere la società umana. Quella vivente umanità raccontata nelle creazioni letterarie è la carne che copre le ossa accumulate nei depositi dei manuali di storia».

Naturalmente la letteratura, quella tramandata dai libri, risente di un’egemonia sociale, dei rapporti di forza; Prosperi lo sa, è l’autore di Un volgo disperso: contadini d’Italia nell’Ottocento. Anche di Un tempo senza storia: la distruzione del passato, dove non fa complimenti con un atto del Parlamento europeo, la grottesca risoluzione del 19 settembre 2019, Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, chiamandola «disegno sommario dei regimi, delle ideologie e dell’immane tragedia europea del secolo scorso che non reggerebbe alla prova di un esame di scuola media»[2]; non solo: Prosperi svela le assonanze fra quella risoluzione e il documento Agenda per il futuro di Ursula von der Leyen, all’epoca della sua candidatura alla presidenza della Commissione. Nello stesso libro è chiaro:

L’esperienza del recente passato ha fatto emergere la consapevolezza che la ricerca della verità ha come verifica la capacità del ricercatore di smascherare inganni e falsità del potere, fino al punto che la missione dello storico è stata definita come l’opposto della legittimazione dello Stato e di qualunque altro potere[3].

Perciò. Quando si parla di storia, chi parla di letteratura non è uno che cambia discorso. Semmai, il problema è che se scarseggia la buona letteratura anche la storia ne risente, e ciò costringe un buon orco, insomma uno storico, a cercare la carne fra ossa con poca polpa. Ma la questione delle fonti ha risvolti complessi, e questo libro lo segnala quando ricorda le osservazioni, ancora di Bloch, sulla leggibilità dell’appoderamento, del tessuto campestre e del paesaggio agrario. Non è vero che le classi subalterne, prima dell’alfabetizzazione, siano senza scrittura: i gesti, i modi e i perimetri della produzione, le loro fasi nel susseguirsi delle stagioni e generazioni, le forme che incidono nel mondo sono un modo di scrivere. La manomissione di quel patrimonio è l’incendio di una biblioteca, è un genocidio culturale. Viene in mente Pasolini: «C’era una volta un popolo / abitava in casali tagliati come chiese…»; in quei versi i colpevoli e le vittime del genocidio siamo noi.

Col suo timbro mite Ieri, oggi e domani procede inesorabile, senza sconti:

La caduta del Muro di Berlino convinse l’opinione pubblica che fosse cominciata un’era nuova, quella della libertà. Anzi, ci fu persino un intellettuale americano, Francis Fukuyama, che sostenne una tesi molto audace. Secondo lui quell’eliminazione di un confine, simbolo di un conflitto tra due grandi sistemi sociali, aveva inaugurato nientemeno che la fine della storia umana – non più conflitti né divisioni ideologiche come quella fra comunismo e capitalismo. […] Tesi subito smentita: da allora il mondo intero ha visto sorgere moltissimi conflitti, tra nuovi stati e nazioni, ma soprattutto tra paesi ricchi e paesi poveri. Ci sono confini invisibili in natura, tracciati con segni di penna sulle carte geopolitiche, e ci sono confini sbarrati da costruzioni ostili di ogni genere – reticolati, muraglie, posti di blocco – sorvegliati da corpi militari.

Parole scritte in tempi non sospetti, prima che, il 7 ottobre di quest’anno, un muro costruito da una potenza nucleare venisse bucato da persone tecnologicamente più arretrate, accompagnate da radicalismi che fanno a gara con quelli dei loro carcerieri. Il tutto, con molte conseguenze. Effetti del buco o colpa del muro?

Chi vagheggia la fine della storia accettando che sopravvivano disuguaglianze e che non si facciano i conti con l’ingiustizia, non fa altro che tracciare nuovi confini invisibili, ostacoli complici delle costruzioni ostili; cioè premesse di duri regolamenti di conti, quando emerge brutale la realtà. Per questo lo storico non è, non può essere neutrale. Quando va bene è compagno d’armi dalla parte della giustizia, altrimenti è il contabile dei carnefici, il magazziniere di una macelleria. Ma l’autore non rivendica una fragile innocenza. Come dice Albert Camus, nessun uomo è del tutto colpevole, non ha dato inizio alla storia; e neppure del tutto innocente, visto che la prosegue. E Camus – guarda un po’ le coincidenze – nel 1937 consegna al suo taccuino le passeggiate notturne pisane, sciogliendo una prosa in cui ci si può illudere di sentir l’eco di Dino Campana: «La mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. […] Non esiste vita che non sia quella di cui lungo l’Arno i miei passi ritmavano la solitudine». Ci sono luoghi che raggiano incantesimi, e l’antica città morta, il porto sepolto che riposa su un limo di secoli, forse diffonde aure speciali, con cui la letteratura «ha molto da dire» a chi studia la storia. Magari, aure che tornano nel racconto perduto, velate in chiaroscuro da Antonio Tabucchi in Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa.

A chi legge il capitolo Periodizzare: che significa? Medioevo, Umanesimo, Rinascimento tocca la scoperta di un continente impalpabile, intrecciato alla questione della scansione del tempo, rivisitata attraverso la storia dei nomi attribuiti per convenzione alle epoche. Quei nomi d’uso sono pietre miliari che di solito si imparano a memoria, senza tener conto di chi le ha poste. E si nota qualcosa. Dal gomitolo della modernità sporge un filo:

Toccò a uno dei ricercatori, Poggio Bracciolini, scoprire nel 1417 mentre si trovava a Costanza, l’unica copia sopravvissuta del grande poema di Lucrezio, il De rerum natura. Fu un libro di cui si è detto (Stephen Greenblatt) che ha causato la svolta epocale (“the Swerve”) dell’apertura del mondo moderno. Dobbiamo riconoscere che quella scoperta non rivelò solo un capolavoro assoluto ma portò nella tradizione cristiana europea l’immissione di un diverso orizzonte mentale, quello del materialismo antico e dell’etica epicurea.

Si può aggiungere che, senza la riscoperta di Epicuro, quattro secoli dopo l’Umanesimo un giovane tedesco non avrebbe potuto scrivere la sua dissertazione sulla filosofia naturale in Democrito e in Epicuro. Senza quegli studi e quell’orizzonte, uniti al messianismo proprio della sua molteplice formazione religiosa e familiare, quell’intellettuale non avrebbe messo mano a studi storici ed economici diretti a cambiarlo, il mondo: si trattava di rivoluzionarlo, non solo di capirlo. Chissà se lui, il tedesco, Carlo Marx, quando si appartava nella biblioteca del British Museum meditando i fondamenti della sua opera, rivolse un piccolo grazie a Poggio Bracciolini. La storia è avara, di ringraziamenti sinceri, e forse è meglio così. Certi debiti non si possono mai pagare, restano come un angolo opaco, una periferia della vita che ci portiamo dietro come l’ombra.

Anche Ieri, oggi e domani, come Un tempo senza storia, sa vedere dritto nei rapporti di forza:

La svolta segnata dal crollo del sistema sovietico prese forma col crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca. E da allora la crescita economica della Germania ha di nuovo modificato l’assetto internazionale. È nata una unione europea che lega con vincoli economici e politici un assemblaggio di stati e staterelli dominati dalla Germania e, per il possesso dell’arma nucleare, dalla Francia.

Un «assemblaggio». Attraente, però; in buona parte perché si regge ancora su sistemi che fanno inospitali i luoghi e i contesti in cui è più duro lo sfruttamento della natura e delle braccia:

Resta il fatto che l’Europa esercita un’attrazione che porta a movimenti migratori di altri popoli. Ma intanto si è perduta la capacità politica di governare l’economia, ormai nelle mani di un’élite di ricchissimi imprenditori e speculatori finanziari. E l’idea di libertà della sua tradizione storica si è trasformata in senso individualistico, come privilegio personale.

Ieri, oggi e domani raccomanda attenzione per le storie sotto la storia. Già, perché gli storici, quando lavorano per il potere, non sono solo scopritori; spesso sono nasconditori. Civiltà complesse sono celate sotto la prepotenza di vincitori che si fingono eterni e che magari sono impegnati a far credere, anche tramite gli intellettuali, che le loro vittime fossero rozze e più crudeli di loro. Quegli storici seppellitori preparano il terreno al lavoro di altri che verranno a svelare, a decifrare, a ricostruire da dettagli, su dati apparentemente illeggibili o insignificanti, la presenza di mondi sommersi, sopraffatti, dimenticati. Altra carne intorno a ossa confuse. Questo non ci riguarda, s’intende. Si sta parlando di lontani paesi in condizione coloniale.

E invece no. L’intreccio fra dominatori e schiavizzati è sottile, il sangue sepolto è alla porta di casa: l’etrusca Veio, al pari della lontana Cartagine, è fra le vittime di Roma. Noi calpestiamo la nostra polvere. Ma se dovessimo districare il tessuto delle colpe e dei conti sospesi, troppe sorprese ci sconcerterebbero. Raab che favorì la conquista di Gerico da parte degli ebrei, e che Dante pone per prima, «raggio di sole in acqua mera», fra coloro che entrarono in paradiso riscattati dal Cristo, se sapesse cosa accade ora fra il Giordano, il Sinai e il mare, e poi si guardasse le mani, vedrebbe quelle di una santa, di una giusta fra i gentili, oppure quelle di una traditrice della sua città, di una locandiera malcontenta, di una prostituta? Gli storici di Canaan tacciono, e anzi Canaan stessa è diventata sinonimo di perversione, come Babilonia di peccato.

Ci stiamo abituando alle «guerre al male», alle rese dei conti. Le storie sotto la storia impongono di riflettere, di ascoltare inquietanti implicazioni e assonanze, anche quelle che nessun libro di storia o sulla storia può esprimere – neppure questo – perché l’oggetto sfugge sempre più in là, e chi studia la freccia del tempo non ha mai abbastanza tempo. Bella proposta, allora, suggerire di scavare il passato, anche quello immediato, quello sotto i nostri occhi tutti i giorni, che spesso contraddice le retoriche ufficiali: «Ma è possibile questo – si chiede Prosperi – nella scuola “del merito”? Chissà. Un fatto è certo. È tempo che si ridia valore al potenziale della conoscenza storica nella formazione dei giovani che debbono orientarsi nel mondo globale in cui si muovono».

Questo libro in formato quasi da tasca, anzi da zainetto, si congeda lasciando una consegna:

Questa testimonianza di un molto anziano studioso di storia si deve chiudere qui. Gli si impone di riconoscere che è tempo di lasciare ad altri la riflessione sul nodo ieri-oggi-domani. Chi riceve oggi dal futuro che gli viene incontro il dono del tempo presente potrà – dovrà – usarlo per creare un futuro vivibile, un mondo umano migliore di quello che gli lasciamo.

Neanche la storia è più quella di una volta. Lo sa chi, oggi, sta ricevendo il presente e prova a trarne le conseguenze: se si fanno chiamare Ultima generazione, è perché sentono che negli scricchiolii dell’Antropocene c’è un ultimatum. La garanzia di un domani, quella che permette al protagonista dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar, guardando la cifra 1491 incisa su una trave, di invertire mentalmente le cifre leggendo 1941 con la certezza che quell’anno verrà, ecco, quella garanzia non è più salda. Quindi muta anche il ruolo dello storico. A lui, di solito, si chiede di spiegare il passato, di mettere ordine in un sapere, senza intromettersi nel futuro. Gli si chiede, cioè, di non provare a fare. Adesso bisogna chiedergli una mano per potercelo permettere, un futuro.

Cos’altro chiedere, allo storico? Un’altra cosa ci sarebbe, e affiora tenendo presente di nuovo Carr: «Quando cominciamo a leggere un libro di storia, dobbiamo occuparci anzitutto dello storico che l’ha scritto, e solo in un secondo tempo dei fatti che esso prende in esame»[4]. Anni dopo, Claudio Pavone approva e chiosa: «Ovviamente, la prima cosa da contestualizzare è lo storico stesso»[5]. Del resto «la storia è il “conosci te stesso” dell’umanità, la sua coscienza», scrive Johann Droysen, che ha chiara la sostanza: «Il miglior vanto dello storico non è l’“oggettività”. La sua giustizia sta nel cercare di intendere»[6]. Si potrebbe dire, dunque, conosci lo storico. E soprattutto conoscilo se lo dice Droysen, che è stato studiato e tradotto da Delio Cantimori, maestro di Prosperi. Sto facendo citazioni, come quelli che si schiariscono la voce prima di dire qualcosa di imbarazzante. Allora.

All’inizio del cammino dell’autore, cosa c’è? Quale scintilla, quale miccia? Un sottile odore di carne umana, un ritrovamento fortuito che altri avrebbero trascurato, frainteso, deriso? Qualcosa – ancora Le ricordanze – nel «caro tempo giovanil; più caro che la fama e l’allor»? Ahimé, gli storici non sempre ce la raccontano tutta. Per me, ricordo un pomeriggio pisano, in un luogo di tracce culturali e risorgimentali, il Caffè dell’Ussero. L’ora la rischiarava un sole dal riflesso marino. Prosperi, per un caso favorevole, quasi un «farsi storico di quello che non ha storia» cui l’ombra di Camus sui lungarni avrebbe dato corpo, sciolse intensi ricordi personali. Lo sfondo potrebbe essere quello nei versi di Mario Luzi, Dal fondo delle campagne; il tempo, certi anni del Novecento; nel basso Valdarno, in un paese all’acquerello, un ragazzo coglie al volo la sua curiosità e il suo destino. Forse un giorno vorrà scriverne.

 

 

[1] Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1976, p. 131.

[2] Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021, pp. 46-47.

[3] Prosperi, Un tempo senza storia, cit., p. 114.

[4] Carr, Sei lezioni sulla storia, cit., p. 27.

[5] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 117.

[6] Johann Gustav Droysen, Sommario di istorica, Sansoni, Firenze 1967, tit. orig. Grundriss der Historik, trad. di Delio Cantimori, capitoli Sistematica, p. 66, e Topica, p. 76.

 

 

 

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Guerrevisioni. Immaginario della violenza e violenza del potere https://www.carmillaonline.com/2021/04/10/guerrevisioni-immaginario-della-violenza-e-violenza-del-potere/ Sat, 10 Apr 2021 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65656 di Gioacchino Toni

Constatato come l’immaginario intrattenga da sempre un rapporto privilegiato con la violenza e come quest’ultima, attraverso la produzione di immagini, si riconfiguri continuamente assumendo una strategica e fondativa valenza sociale e persino politica, Alessandro Alfieri, nel suo recente volume Video web armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere (Rogas, 2021), mette in connessione il circuito massmediale contemporaneo con i concetti di violenza, immaginario e potere riflettendo sulle modalità con cui tali termini entrano in relazione col nucleo originario del potere costituito.

Ricorrendo ai cultural studies, alla filosofia, all’antropologia e alla sociologia, Alfieri attraversa dunque l’immaginario e i [...]]]> di Gioacchino Toni

Constatato come l’immaginario intrattenga da sempre un rapporto privilegiato con la violenza e come quest’ultima, attraverso la produzione di immagini, si riconfiguri continuamente assumendo una strategica e fondativa valenza sociale e persino politica, Alessandro Alfieri, nel suo recente volume Video web armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere (Rogas, 2021), mette in connessione il circuito massmediale contemporaneo con i concetti di violenza, immaginario e potere riflettendo sulle modalità con cui tali termini entrano in relazione col nucleo originario del potere costituito.

Ricorrendo ai cultural studies, alla filosofia, all’antropologia e alla sociologia, Alfieri attraversa dunque l’immaginario e i nuovi media per affrontare la questione della sovranità che, come sempre, continua a fondarsi, in maniera più o meno palese, sulla detenzione di arsenali ed eserciti.

La disamina prende il via dalla «violenza dell’immagine della violenza» a partire da alcuni esempi derivanti dal linguaggio videomusicale e pubblicitario che palesano come la violenza esibita sia diventata negli ultimi decenni un efficace strumento di seduzione commerciale ed ideologica. Il linguaggio del video musicale, ad esempio, sembra a volte tentare di recuperare l’impatto dello shock originario edulcorato dall’abitudine percettiva per finalità diverse rispetto a quelle tratteggiate a suo tempo da Walter Benjamin: lo shock oggi sembra rivelarsi funzionale alla dimensione consumistica per la su capacità di colpire la sensibilità e sedurre.

Se l’attrazione nei confronti della dimensione mortifera, propria di quel sex appeal dell’inorganico che per Benjamin era la cifra dell’allora nascente pseudo-cultura capitalistica e consumistica della moda, era assunta come deposito di immagini dalle quali attingere per determinare l’effettiva e acritica confluenza di arte e mercato, negli anni Sessanta Warhol volge il suo interesse alle catastrofi e a fatti violenti de-soggettivizzati, in una continuità concettuale inquietante: la pop culture e la violenza sono una il risvolto dell’altra, due facce della stessa medaglia che si alimentano reciprocamente in un gioco di corrispettivo occultamento e negazione eternamente rilanciata (p. 41).

Al pari della violenza propria dell’immagine che, come ha sostenuto Gilles Deleuze occupandosi del concetto di “affezione”, colpisce e destabilizza lo statuto di credenza del soggetto spingendolo alla riflessione e al dubbio, anche l’immagine della violenza che domina il circuito mediatico del web e della programmazione della TV generalista determina reazioni fisiologico-percettive e psicologiche sul fruitore. In questo caso, però, sostiene Alfieri,

non giunge alla stimolazione del pensiero che invece resta anestetizzato, passivo, spento, lasciando totale campo libero (come nella pornografia) alla reazione irriflessiva e meccanica.[…] È manifestazione di totale subordinazione all’immagine, che a quel punto perde anche le specificità proprie dell’immagine; essa non è più immagine, perché non è lì per qualcosa che vada al di là dal mero godimento perverso […]. Spesso si tratta di un violenza senza tensione, perché è completamente sviluppata, sfrenata, a-dialettica; potremmo sostenere che più la violenza domina come contenuto l’immagine, meno quest’ultima potrà esprimere una violenza della prima specie, ovvero un’autentica “tensione”; più l’immagine decide di scaricare la tensione decidendo di mostrare “di più”, di mostrare “tutto”, di puntare a contenuti di ovvia riuscita, più essa abdica alla sua funzione di affezione, di apertura di senso, di motore del pensiero. (pp. 46-47).

Si tratta pertanto di un’altra «violenza dell’immagine» su cui ha insistito Jean Baudrillard, una violenza che diviene «sinonimo di appiattimento e di simulacrizzazione radicale del mondo: è la violenza dell’immagine che si impadronisce della realtà, ma senza rendersene conto scompare appena terminato il “delitto perfetto”» (p. 47).

A proposito del rapporto tra cultura pop e violenza, Alfieri nota che il linguaggio pop può sia essere di per sé violento che rivelarsi lo scenario dell’esibizione di una violenza che viene così amplificata ed estesa.

Il valore utopico-critico viene paradossalmente recuperato all’interno della produzione videomusicale, che si dimostra essere uno dei veicoli più potenti di influenza dell’immaginario collettivo, specie giovanilistico; il videoclip musicale infatti, fin dalla sua epoca d’oro, dove è stato in grado di fondare un’autentica grammatica formale, per giungere a una fase di maturazione consolidata negli anni Novanta e Duemila, non è solo una celebrazione iconica e autoappagante dello spettacolo che alimenta se stesso. Meglio ancora, spesso la forza di fascinazione si sgancia dalla seduzione adottando soluzioni visive e stilistiche più sofisticate, oblique, mettendo dialetticamente in evidenza il meccanismo stesso di seduzione e liberando la fruizione dall’ingenuità caratteristica degli anni Ottanta (p. 65).

L’indagine sul videoclip musicale proposta da Alfieri verte proprio sulla differenza tra queste sue due stagioni, quella relativa al trionfo edonistico caratteristico degli anni Ottanta e quella che ha preso il via nel decennio successivo e che arriva fino ad oggi, in cui il videoclip musicale, pur restando legato a meccanismi di spettacolarizzazione, ha saputo trovare nuove soluzioni estetiche che hanno consentito di potenziare e rilanciare «il valore seduttivo che il corpo del performer può assumere, rinnovando il suo significato anche in un approccio violento» (p. 69).

È sull’universo del web che si focalizza la seconda parte del volume. Consapevole di come la cultura moderna abbia sempre operato per individuare, quando non istituire direttamente, ambiti in cui direzionare e scaricare l’ira accumulata, Alfieri individua proprio nel web l’ambito contemporaneo privilegiato in cui scaricare ira e violenza agita verbalmente e digitalmente rivolgendosi all’azione, dunque all’etica, segnando il passaggio da un immaginario percepito e fruito ad uno agito e partecipato.

La violenza dell’immaginario è una violenza gestita, ammansita da surrogati che garantiscono il mantenimento degli equilibri sociali, ma che continua a vibrare “sotto al coperchio”. Il web diventa un’ulteriore forma di gestione dell’ira accumulata, che però definisce il passaggio all’azione e perciò stesso alla responsabilità etica: non si tratta più solo di fruire della violenza più o meno palesata nella produzione audiovisiva, ma di partecipare attivamente – anche se “non troppo” (p. 95).

Oltre a rilanciare e far circolare immagini della violenza o immagini violente, infatti, la rete intensifica «il piano della violenza sul piano della partecipazione attiva degli utenti». I social, sostiene Alfieri, che sembrano rispondere al desiderio dell’individuo contemporaneo di limitare al minimo l’imprevedibilità, tendono a convogliare l’ira trasfigurandola in maniera apparentemente meno aggressiva, rivelandosi «spazi privilegiati di quell’arena dell’odio del web che è violenza negativa per eccellenza» (p. 105).

L’immaginario collettivo, l’ideologia più esplicitamente politica ma anche quella più sottile e sofisticata che agisce in maniera subliminale nell’orizzonte massmediale e nella cultura di massa, agisce nel passaggio tra ira e odio, e poi rafforza la propria presenza orientando l’azione violenta. Come uno schema trascendentale, l’immaginario intende tradurre l’ira prima che essa possa arrivare a mettere in questione l’autorità, oppure se vuole sovvertire l’autorità lo schema intende direzionare l’ira per pilotarla. Scaricare l’ira, ammaestrarla, direzionarla: ancora oggi questa è la sfida di ogni agenzia amministrativa che trova nella sfera dei mass-media l’assetto tecnologico più appropriato a tal fine (pp. 108-109).

In particolare lo studioso si sofferma sulla strategia massmediale dell’Isis individuandovi un vero e proprio cambio di paradigma: se lo spettacolare attacco alle Twin Towers era stato pensato sul medium televisivo, gli episodi di terrorismo consumatisi in Europa tra il 2015 e il 2017 si sono invece basati sulla parcellizzazione, sull’invisibilità, su una diffusione quasi impalpabile del terrore che ha fatto ricorso ad una violenza elementare e brutale capace di palesare la vulnerabilità dei corpi.

Se l’11 settembre era un evento, strutturato profondamente secondo le logiche della trasmissibilità massmediale e dello spettacolo, il terrorismo europeo è apparso più disseminato, perché alla logica della trasmissibilità televisiva si è passati a un differente medium di riferimento che è il web, più nello specifico i social network, basati sulla comunicazione immediata. Il terrore si è fatto più puro perché non mediato, e alle immagini della catastrofe, chiare e viste a ripetizione, è subentrata una moltitudine di immagini precarie, mosse, dove a dominare è più l’invisibilità che il palesamento del terrore (p. 138).

Curiosamente l’immaginario occidentale che storicamente ha inteso dare immagine alla divinità e al trascendente, in tempi recenti si è invece mostrato in difficoltà nell’affrontare con l’immagine le grandi tragedie che l’hanno toccato, da Auschwitz all’11 settembre. La cultura occidentale sembra divenire iconoclasta quando si trova di fronte alle vittime amiche, «come se nella modernità ogni messa in immagine non potesse non venire assorbita all’interno della logica dello spettacolo, oltraggiando così la sofferenza e il dolore» (p. 140). Tale questione è trattata anche da Mauro Carbone nel suo saggio L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica? in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) trattato precedentemetne all’interno della serie Guerrevisioni su “Carmilla” [qua].

Quello occidentale non è però l’unico ribaltamento che contraddistingue la contemporaneità. Un immaginario iconoclasta come quello dell’Isis ha finito non solo col far ricorso alle immagini per rivolgersi al nemico ma anche per attrarre e arruolare forze fresche lavorando sulla costruzione di una fascinazione dall’estetica hollywoodiana per la lotta armata portata nelle città occidentali.

Il web resta l’orizzonte che dà senso all’azione terroristica: alla diretta televisiva imperniata sulla visibilità dell’evento subentra il terrore per ciò che viene trasmesso e condivido sui social, video traballanti, poco chiari, scuri, che intensificano l’imprevedibilità del terrore e della violenza. È come se il web, da arena dell’odio gestita dalle autorità in sostituzione alle altre arene del passato, in assenza di una visione dell’immaginario tipicamente occidentale si sia riversata nell’azione concreta e omicida nel terrorismo. Perciò non un terrorismo cyber o digitale, ma reale, intensificato però dal linguaggio della condivisione del web. Gli attentati dell’Isis annunciano così il terzo passo, quello relativo alla fuoriuscita dell’immaginario per una reale adozione delle armi (p. 144).

Nell’ultima parte del volume l’autore giunge ad affrontare direttamente la questione delle armi a disposizione del potere. Il principio della sovranità, anche quando questa si vuole popolare e democratica, ha una derivazione violenta e ciò si palesa tutte le volte in cui si inceppa il sistema e viene meno fiducia nei confronti delle istituzioni. In quel caso «ciò che viene alla superficie è quel fondo abissale tenuto celato e latente – e perciò stesso più efficace per quanto inattivo e in “stato di riposo” – che sosteneva indirettamente il potere garantendo a esso la sussistenza”» (p. 146).

Se un tempo la violenza tendeva a declinarsi esplicitamente nell’impedimento dell’azione, oggi sembra manifestarsi anche accettando l’azione individuale e la libertà. Nonostante il processo di positivizzazione della società neoliberista tenda ad indicare come riprovevole ogni forma di violenza, il potere non esita ricorrervi in quanto la violenza non scaturisce esclusivamente dalla negatività dell’Altro ma anche da «un eccesso di positività». Sarebbe interessante, sostiene Alfieri, riflettere sul ricorso a una «violenza legittima» in grado di opporsi a una «nonviolenza autoritaria».

Dopo aver dedicato numerose pagine alle riflessioni di Walter Benjamin e di Hanna Arendt circa il rapporto tra violenza e potere, oltre che alla distinzione tra Rivolta e Rivoluzione proposta da Albert Camus, Alfieri si concentra su come il potere si trovi a confrontarsi con la violenza nei momenti di crisi, ed è proprio quando esso viene meno che necessita di ricorrere al suo braccio armato per mantenere l’ordine. Se «il potere pertiene all’immaginario e ai media», sostiene Alfieri, «la violenza è più vicina alle armi anche se non sovrapponibile con esse: le armi infatti possono restare simboli, come accade nelle celebrazioni nazionali dei reparti militari. Quando le armi vengono usate, allora un potere è al tramonto: deve rinnovarsi, inasprire la propria ferocia magari, oppure lasciare spazio al nuovo potere» (p. 159).

Piuttosto che l’idea di «violenza negativa» tratteggiata da Giorgio Agamben, a dover essere indagata oggi, sostiene ancora Alfieri, è la «violenza positiva», basata sull’inclusione e sul conformismo del consenso: «la nuova violenza si oppone alla violenza negativa, pertiene maggiormente alla logica dello spettacolo e soprattutto alla totale libertà di azione e di scelta. Non c’è più costrizione, ma principio di assoluta spontaneità e autonomia demandate direttamente all’agente, come appare chiaro nell’orizzonte dell’assoluto progressismo rappresentato dalla sfera del web» (p. 160).


Guerrevisioni

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Effimeri cercatori di senso https://www.carmillaonline.com/2021/01/20/effimeri-cercatori-di-senso/ Wed, 20 Jan 2021 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64567 di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno [...]]]> di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno ad un dialogo immaginario e mai avvenuto tra il genetista Jacques Monod e lo scrittore Albert Camus, riesce a trasformare in un autentico inno alla vita e alla sua specificità nel contesto di un universo che non è sicuramente adatto ad ospitarla.

L’autore immagina che Camus non sia deceduto nell’incidente d’auto che pose fine alla sua vita il 4 gennaio 1960 e che l’amico Jacques Monod si rechi ripetutamente in ospedale per portargli conforto e dare vita, insieme a lui, ad un testo dedicato appunto alla finitudine e, paradossalmente, alle enormi potenzialità di “liberazione” che tale coscienza può portare con sé. Testo che, all’occhio attento del lettore che anche solo conosca in parte le opere dei due premi Nobel (assegnato al primo nel 1957, per la Letteratura, e al secondo nel 1965, per la Fisiologia e la Medicina) risulterà costituito proprio dall’essenza delle opere dei due intellettuali. In particolare, per il libertario Camus, tratte da L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo e per lo scopritore del controllo genetico della sintesi delle proteine (insieme a agli amici e colleghi di una vita François Jacob e André Lwoff, tutti e tre uomini della Resistenza francese contro l’occupazione tedesca e il nazifascismo) da Il caso e la necessità. Testo pubblicato nel 1970 e destinato, dopo L’origine delle specie di Darwin, a suscitare uno dei più importanti dibattiti scientifici e filosofici.

I due, inoltre, al momento della morte avevano lasciato incompiuti gli appunti per due possibili testi 1, cosa che permette a Pievani di immaginare un loro ulteriore testo a quattro mani, completato nella finzione narrativa al momento della morte di Camus, posticipata al 26 giugno 1960.
Telmo Pievani, professore di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, può essere considerato come una sorta di fuorilegge del sapere italiano. Da anni, infatti, il suo lavoro disobbedisce alla regola che informa la scuola, l’università e i pensieri che in quelle si sono formati: la regola secondo cui da una parte (e più in alto) ci sarebbero le discipline umanistiche, dall’altra ci sarebbero quelle scientifiche.

Proprio per abbattere queste barriere, oggi decisamente superate, ha studiato fisica, poi filosofia della scienza e, infine, biologia evoluzionistica, finendo per applicare la filosofia della scienza alla biologia e creando così un sapere che in Italia non c’era, Un sapere e una concezione della scienza che lo accomuna ai due grandi “eretici” protagonisti del dialogo intellettuale contenuto nel romanzo. Un sapere mai precluso, però, agli avvenimenti del mondo circostante e sempre conscio dell’obbligo alla rivolta contro l’ingiustizia compreso nel ruolo dello scienziato autentico e degli intellettuali degni di questo nome (oggi in Italia piuttosto scarsi, se non assenti del tutto).

Lo scienziato è un sovversivo a tutto tondo. Si rivolta contro le conoscenze acquisite, contro il sapere dell’epoca, contro ogni conservazione, pagandone il prezzo. Lo scienziato sfida necessariamente le autorità precostituite, comprese quelle interne alla scienza. Lo scienziato si rivolta contro le ipotesi dei colleghi e dei pari, contro le correnti di pensiero dominanti, contro le tradizioni di ricerca alternative […] Lo scienziato si rivolta contro le sue stesse concezioni, le rimette continuamente in discussione, si tormenta e infine le modifica.
Lo scienziato è un contestatore nato che tradisce i suoi maestri […] Lo scienziato disobbedisce
ai suoi mentori e ai suoi mecenati, oggi diremmo ai suoi finanziatori […] Quale migliore interprete
della rivolta?
[…] Si rivolta per mestiere, per etica della conoscenza, per competenza professionale, e questo lo rende un eretico di una specie particolare. Lo scienziato, infatti, non deve confortare né rendere felici gli esseri umani [ma] deve dire la verità, che a volte – anzi, spesso– è scomoda, spiazzante, controintuitiva. Sfida la percezione comune [poiché] suo unico nemico è la menzogna2.

Sulle moderne tracce di Lucrezio e del suo De rerum natura e, perché no, anche di Leopardi e delle sue riflessioni poetico-filosofiche, ecco allora che il discorso scientifico sulla finitudine di tutte le cose (dell’universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi). ci rivela, fin dalle pagine iniziali del libro che non solo la Terra è vecchia:

per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto.
Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo.
[…] In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali […] Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo […] Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita.
Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.
Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri3.

Si chiede poi ancora l’autore Pievani/Monod/Camus:

Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca
3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, peri cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens4.

Nulla rispetto alla, soltanto presunta, eternità del cosmo, ancor meno se riferito soltanto alla nostra specie.
A questo punto il senso di insignificanza del tutto, del vuoto che ci circonda e che ci attende, così come attende l’Universo in tempi appena più lunghi, potrebbe schiantare qualsiasi speranza o velleità, precipitandoci nel nichilismo più assoluto. Eppure, eppure…
Pievani immagina che Monod e Camus leggano e discutano le bozze praticamente sul letto di morte dello scrittore francese mentre, allo stesso tempo ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi oppure commentano i tragici fatti che hanno accompagnato la rivolta d’Ungheria, pochi anni prima, e le sue conseguenze sulle vite di amiche e amici conosciuti. Oppure commentano le infinite casualità in cui la possibile morte, per mano del nemico o per scherzo del destino, è stata evitata per un soffio. Ed è altamente simbolico il fatto che le bozze siano completamente lette e approvate un soffio di tempo prima che Camus si addormenti per sempre (e per davvero).

Perché l’uomo, forse l’unico animale simbolico del pianeta e quindi, probabilmente, dell’intero universo, porta con sé la grande capacità di aver saputo concepire, allo stesso tempo, la propria finitudine e immaginare il modo di vincerla. In questo secondo aspetto sembrano infatti risiedere l’emergere sia del desiderio che della rivolta, purché questo, ammonisce il testo, non si lasci abbindolare dalle illusioni religiose: siano queste di carattere monoteistico, politeistico o animistico.

Cogliere il miracolo autentico della momentanea esistenza della nostra specie e delle nostre brevissime vite non può essere un fatto religioso, ma piuttosto l’assunzione della piena coscienza della durata di questo attimo, proprio perché unico e irripetibile.
«Come onde del mare, ci siamo sollevati per un momento ad ammirare il resto dell’oceano e poi ci immergeremo di nuovo nel tutto»5. Compreso ciò, ci sarà probabilmente dolce naufragare in questo mare, anche se l’inquietudine continuerà ad animare e pervadere il nostro modo di essere effimere creature volte alla ricerca di un senso delle cose.

Ma, una volta coscienti dell’istantaneità del tutto, una volta divelte le illusorie paratie della potenza del destino manifesto dell’Uomo, tutt’altro che al centro dell’Universo, non potremo e non dovremo dedicarci ad altro che alla rivolta contro tutto ciò che vuole ridurre questo breve istante di eternità, vissuto da ognuno e dalla specie nel suo insieme, a miserabile commedia di potere, violenza, sfruttamento, ricerca della ricchezza e consumo smoderato e senza scopo. Solo in tal modo sarà possibile, pur nei limiti del tempo concessoci, godere pienamente della vita, ben consci che «anche se ognuno di noi finirà, anche se la vita finirà, anche se la Terra finirà, anche se le galassie si raffredderanno, anche se l’universo in un gran botto finirà, anche se tutto cadrà in una notte perpetua, nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla»6.

Una concezione esclusivamente utilitaristica della Scienza la ritiene

un’attività esclusivamente costruttiva e creativa, oltre che utile. Si dimenticano così le enormi potenzialità distruttive, in senso culturale, del metodo scientifico, che ha reso indifendibili uno dopo l’altro i concetti tradizionali che avevano dato un significato alla vita umana. Non c’è dogma, non c’è aristocrazia colta che possa reggere, dinanzi a un ribelle del genere. Ha i fatti dalla sua parte. E i fatti, certe volte, sanno essere implacabili. Come disse nel 1923 il biologo John B.S. Haldane in un discorso non a caso rivolto alla Heretics Society di Cambridge, coloro che, come gli scienziati, trovano “nella ragione la maggiore e la più terribile delle passioni” sono “i distruttori di civiltà e imperi in declino, disintegratori, deicidi, cultori del dubbio”7.

Così, nella sua essenza, al di là dell’illusione di vincere la morte contenuta nelle religioni o nel suo uso meramente “tecnico”, ci ha insegnato che

Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso. Non siamo
più schiavi di una posizione privilegiata nel cosmo. Non siamo più schiavi di un radioso avvenire da tradurre in realtà. Non siamo più schiavi di un’attesa che vanifica il presente. Siamo circondati da due oceani di inesistenza, ma nel dirlo esistiamo. Non c’è nulla di disperante, quindi, nel dispiegarsi della finitudine di tutte le cose, perché non c’è vita che, almeno per un attimo, non sia stata immortale.
Avere coscienza della finitudine ha inoltre un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino, ma ci dona anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso. La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino, della solidarietà tra disperati, una solidarietà che nasce tra le catene. Siamo mortali, ma non siamo soli. Lo siamo tutti. Siamo uniti nella sofferenza, nello sforzo eroico di Sisifo, partecipi della medesima sorte: noi, gli altri esseri viventi, il pianeta e l’universo. Rivoltarci contro la finitudine ci stringe insieme8.

Nel restituirci il “senso” della fine ultima e della rivolta come strumento di emancipazione non solo sociale ma umana e vitale, il libro di Pievani, da leggere e rileggere proprio nei momenti difficili e apparentemente più disperanti, si rivela un autentico livre de chevet destinato ad accompagnare il lettore per molto tempo, rivelandogli ad ogni successiva lettura come il confine tra vera scienza e autentica poesia sia, talvolta, assai sottile.


  1. si tratta di L’ultimo uomo per Camus e di L’uomo e il tempo per Monod  

  2. Telmo Pievani, Finitudine, pp. 272-273  

  3. T. Pievani, op. cit., pp. 12-14  

  4. ibidem, pp. 16-17  

  5. ibidem, p. 245  

  6. ibid., pp.276-277  

  7. ibid., p. 274  

  8. ibid., p.252  

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Per Tomaso Montanari https://www.carmillaonline.com/2020/12/29/per-tomaso-montanari/ Tue, 29 Dec 2020 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64101 di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro. Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il [...]]]> di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro.
Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il fatalismo, il timore, quando non le connivenze e i compromessi, sono bavagli più efficaci della censura. Se non bastano, ecco le carte bollate.

Lo scopo dell’impegno di Montanari, in questa vicenda come in altre, è segnalare scelte sbagliate, scuotere la cittadinanza fiorentina e italiana, impedire che Firenze, le altre città d’arte e in genere le città, della cultura diventino le tombe invece che le culle.
Scempi vistosi, in Italia, intrecciano affarismo, controllo del territorio e cultura reificata, immiserita in cattivo spettacolo, ridotta a trasformare lo spazio urbano in fondale da botteghe. È uno spaccato della modernità e un terreno di scontro. Montanari questa battaglia ha scelto di combatterla; perciò qui, forse, non vale la pena di sminuzzare le sue parole in un singolo episodio, di distinguerle, di ricollocarle nel contesto di un’intervista dove tutto si chiarisce.

Dallo sblocco delle locazioni con la legge sull’equo canone, per poi inventare i patti in deroga, passando per le regole sulla destinazione dei suoli, proseguendo con gli strumenti urbanistici e le loro varianti furbe, e ancora attraversando le norme e gli atti delle amministrazioni sul commercio, sul turismo e sulla ristorazione, sono decenni che la forma urbana, la comunità murata e integrata con la natura, la dimensione spaziale della cittadinanza, tesori della civiltà italiana e umana, sono stravolte e prostituite. Eppure sono antichi, i moniti a far buon uso dell’antico. Giuseppe Parini: «Conviene avvertire doverci noi italiani guardare che, mentre ci stiamo da noi medesimi adulando davanti allo specchio delle nostre antiche glorie, noi non venghiamo a fare come que’ nobili, che neghittosamente dormono sopra gli allori guadagnati da’ loro avi, e tanto più degni sembrano di biasimo e di vituperio, quanto né meno i domestici esempli vagliono ad eccitare scintille di valore nelle loro anime stupide e intormentite»1. Anche la sinistra, snaturando la sua funzione storica, è stata complice, e nascondere questa responsabilità non serve. Proprio nella regione amministrata da sempre dalla sinistra è importante tenere aperti gli occhi, e proprio in Toscana è pericoloso aprire la bocca.

Curiosa, la vicenda della scritta dettata da Luigi Russo nel 1954 per la lapide di San Miniato, dove dieci anni prima, il 22 luglio 1944, c’era stata una strage tedesca. Diceva fra l’altro: «Italiani che leggete, perdonate ma non dimenticate. Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero. Ricordate che solo nella pace e nel lavoro è l’eterna civiltà». Il prefetto tolse le parole da «lo straniero di ogni parte» a «d’aiuto o d’impero»; la lapide però aveva già le lettere metalliche fissate al marmo, così le parti non approvate furono tolte lasciando i buchi. Passarono gli anni: prima fu aggiunta una nuova lapide per contraddire la precedente e dare la colpa agli Alleati, poi, con la scusa della contraddizione, finirono entrambe in un museo. Bell’esempio di come far sparire la verità: basta appenderci tutt’altro e poi dire che l’attaccapanni sfigura. Se un Montanari denuncia un obbrobrio, basta accusare quel Montanari di un altro obbrobrio; poi si mette tutto l’obbrobriume vero e immaginario nell’indifferenziato, per evitare cattivi odori, fastidiose asimmetrie e posizioni – è una parola che dice voglia di padrone – divisive. Funziona.

Il muro di San Miniato è rimasto vuoto e ignavo. L’ignavia è una colpa, lo insegna un toscano così innamorato e battagliero che morì esule. Nel 2021 cadrà il settimo secolo dalla sua morte, e certamente quelli che hanno in uggia le critiche saranno in prima fila sul palcoscenico. Ma le parole di Luigi Russo, «belle contrade», cancellate subito, additano coi buchi il vuoto di autostima di un bel paese, quello dove a chi comanda piace un popolo fatto di fascisti ringhiosi oppure di imbelli. Adesso, chi difende la bellezza e insieme la democrazia trova avversari pronti a farlo inciampare in qualche parola.

A proposito di parola. Nel 2019 un altro amministratore pubblico dello stesso schieramento che governa Firenze, l’allora presidente della Regione Enrico Rossi, ha ricordato la mancata giustizia sui crimini nazifascisti commessi durante l’occupazione – videro la Toscana fra le regioni più colpite – e ha promesso impegno concreto per ottenere i risarcimenti economici, che sono dovuti dalla Germania ai familiari delle vittime e alla stessa Regione come ente pubblico 2.. I cittadini hanno creduto a una possibilità di giustizia. Ma la parola, Rossi non l’ha mantenuta.

Sono sostanziosi, i risarcimenti che spettano alle famiglie toscane e italiane, per stragi e deportazioni, a carico dello Stato tedesco. Ma gli amministratori fiorentini levano alti lai, trascinano orrende piaghe, sanguinano da ferite immedicabili per le parole di Tomaso Montanari. Dai palazzi del potere i crediti si vedono con un cannocchiale che fa rammentare quel racconto a veglia: «Per chi è codesta minestrona? – È per voi, madre badessa! – Per me codesta minestrina?»3.

I poeti, diceva Jean Cocteau, fanno solo finta di essere morti. Quell’esule, che a Ravenna si riposa chiudendo un occhio solo, potrà commentare questa storia con due o tre parole delle sue, dure come gioielli e scottanti come lava. I suoi versi dovrebbero insegnar bene, che in Toscana non si è usi discorrere di cose pubbliche sciacquandosi la lingua col brodo di coniglio.

Ma forse no, l’esule farà parlare lo straniero, Albert Camus: «La libertà è il diritto di non mentire. Vero sul piano sociale (subalterno e superiore) e su quello morale»; e anche: «La verità è la sola potenza, allegra, inesauribile. Se fossimo capaci di vivere soltanto della e per la verità: un’energia giovane e immortale in noi. L’uomo di verità non invecchia. Ancora uno sforzo e non morirà»4.


  1. Giuseppe Parini, Corso sui princìpi di belle lettere, in Prose, Gius. Laterza & Figli, Bari 1913, p. 262  

  2. Alla commemorazione della strage del Padule di Fucecchio: «L’Armadio della vergogna c’è. Il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione». Su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale»  

  3. Una versione è in Rodolfo Nerucci (a cura di), Racconti popolari pistoiesi in vernacolo pistoiese, Premiata tipografia Niccolai, Pistoia 1901, racconto XLVII, p. 62.  

  4. Albert Camus, Taccuini. Maggio 1935-Febbraio 1942. Febbraio 1942-Marzo 1951. Marzo 1951-Dicembre 1959, Giunti Editore/Bompiani, 2018, pp. 213 e 485  

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Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino di Osvaldo Bayer https://www.carmillaonline.com/2020/08/08/futbol-una-storia-sociale-del-calcio-argentino-di-osvaldo-bayer/ Fri, 07 Aug 2020 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61549 [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai [...]]]> [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai tempi delle ricerche di Adolfo Saldías nessun altro ha saputo far vibrare corde così profonde come Bayer con le sue ricerche storiche dedicate agli episodi più dolorosi e nascosti del ventesimo secolo. I suoi quattro volumi sul movimento libertario della Patagonia, soffocato nel sangue nel 1921, hanno scosso la timida storiografia ar-gentina e costituiscono uno dei pochi classici degli studi storici del nostro paese. La Patagonia rebelde (Elèuthera, 2009) è l’opera più popolare mai pubblicata sul movimento operaio argentino. Un libro che gli è valso la persecuzione, l’esilio, l’isolamento e difficoltà giudiziarie. Eppure gli ha anche dato una soddisfazione: quella di aver messo davanti agli occhi di tutti la verità sulla feroce repressione patita dai lavoratori rurali che cercavano di organizzarsi per resistere allo sfruttamento feudale nei grandi latifondi del sud.

Bayer ha poi pubblicato decine di testi rimasti quasi segreti. Ma il suo minuzioso lavoro su Severino Di Giovanni, l’anarchico fucilato nel 1931, ha segnato un’epoca, sollevando il dilemma del periodo precedente agli anni Trenta, ossia il Decennio infame: è lecita la violenza individuale di fronte all’ingiustizia sociale? È possibile che oggi, alla luce di tanti drammi e sconfitte, si risponda di no, o perlomeno che il risultato di quella violenza sia discutibile. Eppure la storia di Di Giovanni illumina un momento cruciale di questo paese, quello della nascita e dello sviluppo della classe operaia internazionalista assieme alla sua prima grande sconfitta in Argentina.

Per quanto possa sembrare strano le preoccupazioni sociali sono presenti anche nel libro di Bayer dedicato al calcio, questa passione all’apparenza innocente. La storia dei club dei quartieri periferici, tipicamente rioplatense, va oltre i grandi episodi del calcio. Come sono nate queste associazioni «atletiche e sportive», che oggi solo a sentirle nominare non evocano nient’altro che un tuffo al cuore per questioni di tifo? Da dove viene il nome di squadre come Independiente, San Lorenzo, Argentinos Juniors, Chacarita, Boca, El Porvenir e River? Perché hanno scelto proprio certi colori, di cui oggi non comprendiamo il significato, o che ormai sono devastati dalle etichette degli sponsor? E ancora: le loro tifoserie riflettono differenti strati sociali? Le figure più importanti di quei club da dove venivano? E che traiettoria hanno compiuto?

Qui c’è tutto quel che sappiamo sul calcio argentino e sui suoi momenti indimenticabili. Lo storico della Patagonia rebelde entra in campo e gioca con i vecchi campioni, rivive la propria infanzia, le passeggiate della domenica, la rivista Alumni e il sapore della frutta secca caramellata. Prima della pubblicazione, questo manoscritto è stato la base per un documentario dal titolo omonimo, Fútbol argentino, arrivato sugli schermi nell’aprile del 1990. Ma il testo – impegnato, appassionato come tutte le opere di Bayer – si spinge più in avanti del film nell’analisi dei fatti che hanno marcato per sempre questo povero paese: colpi di stato, rivolte, scioperi – anche dei calciatori –, una guerra con la Gran Bretagna… tutto questo si riflette nel calcio e i suoi protagonisti più lucidi lo dicono chiaramente analizzando quegli eventi.

Serviva un bel libro sul calcio argentino e finalmente ce l’abbiamo. Osvaldo Bayer conosce la mia passione, nient’affatto segreta, per i campi di calcio, soprattutto per uno che purtroppo non esiste più, quello del Gasometro di Boedo. E tra di noi abbiamo parlato molto di fútbol, un argomento che in genere non interessa molto ai letterati (anche se ci sono alcuni trasgressori, da Roberto Arlt a Santoro, fino a Fontanarrosa e Carlos Ares).

Questo libro non è solo per gli appassionati di calcio, ma anche per chi studia i movimenti sociali nati in Argentina negli anni delle “vacche grasse”. Non è un altro Bayer quello che scrive di calcio. È lo stesso che si è impegnato, con la vita e con le opere, affinché gli argentini conoscano la verità storica, che spesso è stata deformata e decontestualizzata. Non mi sorprende che nel suo lavoro storico Bayer si occupi di Varallo, Di Stéfano, Sívori, Pipo Rossi, Sanfilippo e Maradona. Albert Camus, l’autore de La peste e de Lo straniero, era stato il portiere dell’Algeri. Diceva che il calcio gli aveva insegnato tutto quel che credeva di sapere della vita. È possibile. Per quanto possa sembrare esagerato, nel rettangolo verde si porta in scena l’imprevedibile dramma della vita. Bayer ci parla di questo. E di alcune cose in piú.

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ESCLUSIVO Il Pio Albergo Trivulzio querela Albert Camus per “La peste”. Lo scrittore in rivolta: «Sono uno straniero in stato d’assedio» https://www.carmillaonline.com/2020/05/09/esclusivo-il-pio-albergo-trivulzio-querela-albert-camus-per-la-peste-lo-scrittore-in-rivolta-sono-uno-straniero-in-stato-dassedio/ Sat, 09 May 2020 21:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59847 Intervista a cura di Luca Baiada

Sì, l’ho saputo. Prego, prenda una sigaretta. Questo conferma che il Novecento non è affatto un secolo morto. Semmai, il Ventunesimo secolo è un parassita che approfitta di un gigante. Ma visto che la vera passione del Novecento è stata la servitù, se lo rimpiangono significa che si è trovato qualcosa di ancora più assurdo, che essere servo. E La peste turba il sonno dei benpensanti.

Capisco, Lei vorrebbe concentrare la nostra conversazione sui diritti umani, la libertà di espressione eccetera. Le dico subito [...]]]> Intervista a cura di Luca Baiada

Sì, l’ho saputo. Prego, prenda una sigaretta.
Questo conferma che il Novecento non è affatto un secolo morto. Semmai, il Ventunesimo secolo è un parassita che approfitta di un gigante. Ma visto che la vera passione del Novecento è stata la servitù, se lo rimpiangono significa che si è trovato qualcosa di ancora più assurdo, che essere servo. E La peste turba il sonno dei benpensanti.

Capisco, Lei vorrebbe concentrare la nostra conversazione sui diritti umani, la libertà di espressione eccetera. Le dico subito che così non si va da nessuna parte. Non si tratta di lasciar dire allo scrittore quello che vuole. Non è un problema di cultura, ci sono già troppi diversivi. E non mettiamola sulla questione dell’intellettuale impegnato, che è un altro modo per cambiare discorso.
La mia formazione, certo. Sono nato in Algeria, francese come mio padre; anche mia madre, originaria delle Baleari. Lui morì nella Grande guerra, avevo un anno; a me rimasero qualche fotografia e i racconti che faceva lei. La tubercolosi l’ho presa quando ero ragazzo. Ho cospirato nella Resistenza, ho denunciato l’imperialismo, lo stalinismo, l’integralismo, sono entrato e uscito dal partito comunista, mi hanno sorvegliato i servizi segreti degli Usa e dell’Urss. Sono stato accusato di essere anarcoide, astratto, moralista, borghese. Mi ascolti bene. Credere che la marginalità basti a produrre cultura, politica, libertà, non sarebbe sbagliato. Sarebbe ridicolo. Non è un caso, se il potere costruisce sempre più confini: sa bene che a produrre l’uomo in rivolta non sono i muri. Un momento, scusi, mi accendo la sigaretta.

Gli interrogativi sul cattolicesimo, posti male, sono solo falsa coscienza. Voi italiani, lo ammetta: leggete i vostri scrittori per tenerli fuori della porta o per metterli in vetrina. È il vostro modo di chiuderli in prigione, e anche da morti, come se non li trattaste abbastanza male da vivi. Anzi, certe volte vorreste resuscitarli con l’unico scopo di convertirli e ucciderli, per farli morire pentiti. Il peso della mancata riforma protestante in Italia? È uno slogan inascoltabile: era il linguaggio di Mussolini. Per questo la querela di un istituto per anziani, a Milano, è la conferma di una decadenza della letteratura, non certo di una persecuzione politica.

Vede, ci sono doveri precisi, perché bisogna vivere con il tempo e con lui morire. Le indagini di Mani pulite, che segnarono la fine della Prima repubblica, in Italia, cominciarono dal vertice del Pio Albergo Trivulzio, nel 1992. Le rivelazioni aprirono la strada a processi clamorosi e fu messo a nudo un intero sistema. Politica e destino degli uomini sono nelle mani di persone senza ideali né grandezza. Ma guardiamo cosa succede adesso: abbiamo la prova che tutto ciò che esalta la vita ne accresce allo stesso tempo l’assurdità. Dopo tanti anni, il colpevole torna sul luogo del delitto come se nulla fosse: dunque è vero, che il futuro è la sola proprietà che i padroni concedono volentieri agli schiavi. Ma certo, lo metta nel suo articolo.

Adesso, proprio il Pio Albergo Trivulzio crede di vedere in La peste una denuncia delle mancanze, delle reticenze istituzionali, dell’inefficienza della sanità lombarda e italiana. Persino una denuncia dell’ipocrisia. Evidentemente c’è chi pensa di essere al centro del mondo. C’è chi, mentre la foresta brucia, rivendica di stare sull’albero più alto.
La morte di tanti anziani, in Italia come in Europa, non è la prova di una gestione inadeguata. Così si fanno solo pseudocritiche, richiami all’ubbidienza, piccoli rancori, cose che invecchiano subito sulla stampa d’opinione. Con queste morti siamo di fronte a un sacrificio umano, e nei riti di sangue si delega a qualcuno il ruolo di officiante, altri sono costretti alla parte della vittima, ad altri ancora spetta l’esecrazione. Naturalmente c’è anche chi applaude, per non parlare dei giornalisti. Per favore, mi passi il portacenere, quello piccolo.

E non mi si chieda cosa c’entrano il colonialismo e il fascismo. Voi italiani dovreste ricordare che i primi bombardamenti sui civili li avete fatti voi, in Libia nel 1911: trent’anni dopo Milano andava in macerie, ricevendo il trattamento che avevate fatto a Barcellona nel 1938, e che i vostri alleati nazisti facevano a Londra dopo aver occupato Parigi. Sia chiaro: qualunque cosa dica Jean-Paul Sartre, respingo ogni accusa di cedimento borghese o di generico umanesimo. Insisto: riconosciamo la nostra patria quando siamo sul punto di perderla, in qualsiasi modo. Sto parlando di quando i francesi, in lutto per la Linea Maginot, costruirono un’altra linea, atroce e inafferrabile, per dividere la Francia pura, figuriamoci, da quella estranea, indesiderata: e fu il rastrellamento del Velodromo d’inverno, e fu lo zelo antisemita di Vichy. Mi spiego, perché qui sta il punto.

Adesso, gli anziani poveri sono i vostri neri, i vostri ebrei, i vostri senza niente. Cioè, invecchiando diventate stranieri, neri fra i bianchi e viceversa, più invisibili dei motociclisti che vi portano a casa piatti freddi, conditi da mani che ignorate e che non vorreste mai stringere. Vi colonizzate fra voi, giocate allo scambio di ruoli. Siete pubblico e maschere insieme, come in un teatro sperimentale, ma è tutto vero. Vi destinate alla persecuzione, all’indifferenza, al disconoscimento dell’umanità, alla negazione. Così funziona il terrorismo di Stato: gli intermediari politici che in ogni società sono garanzia di libertà, scompaiono lasciando il posto a una bassa mistica, al Führerprinzip, che il Mediterraneo tinge di sensualità come di disfacimento. Le ragazze a cui chiedete il prezzo di un’ora senza alzarvi dai sedili delle automobili, sono le stesse che vi faranno compagnia tutto il giorno, quando loro saranno cadenti e voi non vi alzerete dalle sedie a rotelle. In fondo, via: sarà sempre prendersi cura dei vostri corpi. L’uomo è preda delle sue verità e quando le riconosce non riesce a staccarsene.

Voi italiani volevate vivere dentro la televisione, con Berlusconi e i suoi lustrini? Preparatevi a un letto disadorno col televisore acceso. Al padrone della pubblicità invidiavate le modelle? Avrete ciascuno un’estranea attempata, in casa, assorta nel cellulare, e se non potrete permettervela ve ne contenderete due o tre, in ospizi cavernosi, ricavati riadattando le colonie estive, quelle che non riuscite a riempire coi vostri figli e non volete aprire a quelli degli altri. Le mascherine che state comprando per forza sono un assaggio del pannolone. I due strumenti saranno intercambiabili, come sono importanti i due estremi della digestione. Le pare strano? Ah sì? Sono anni che in Italia si parla di ricette di cucina, e Le pare strano? Un attimo, mi accendo la sigaretta.

In tutto questo al Pio Albergo Trivulzio, in fondo, devo la mia solidarietà di intellettuale, perché non è altro che la dimostrazione plastica, suo malgrado, che il non umano non è confinabile. Nessun uomo è del tutto colpevole, non ha dato inizio alla storia; e neppure del tutto innocente, visto che la prosegue. L’altrove è un’illusione, o al massimo una dilazione, cioè una scissione di coscienza. Ma la più grave, perché essere schiavi del presentismo significa essere morti già da vivi.
Sì, ho saputo che a fare domande su quell’istituto c’è anche un ex magistrato, uno di Mani pulite di allora. No, guardi, considerarlo il segno di un ciclo storico è sbrigativo, riduttivo. Ma andiamo! Con tutto il rispetto per i giudici, affidare alla giustizia un ruolo sovraesposto è solo una prosecuzione del sacrificio umano con altri mezzi. È come chiedere a Pilato di risporcarsi le mani credendo che così cambi il verdetto, come invitare Gesù a cenare col sinedrio brindando all’imperatore, come salvare Socrate con l’antidoto per fargli fare la pubblicità di un medicinale. Non capisce? Se nel 1789 si fosse fatta una class action contro il comandante della Bastiglia, il re di Francia sarebbe ancora sul trono. E per favore, non scriva che sto incitando alla sommossa, ci sono già abbastanza cattivi cronisti. Scriva invece che le frontiere e i mari che vi circondano, adesso, sono confini che corrono dentro le città. I droni che vi sorvegliano li avete comprati contro gli esclusi e vi sono sfuggiti dalle mani. No, per piacere, mi dia l’altro portacenere, quello grande.

Ah sì? Vuole davvero un’osservazione cinica, di quelle per un po’ di colore nelle interviste a caldo? Preferisco essere solidale, piuttosto che solitario: né vittime né carnefici. Ma le rispondo subito. Allora. Se si andasse a svelare il voto alle elezioni, di quegli anziani e dei loro parenti, in Lombardia e in Italia, si scoprirebbe il consenso dato agli amministratori che hanno promesso benessere domestico in cambio di durezza politica. Il consenso a quelli, insomma, che da anni condannano il buonismo. L’ordine stesso, è tanto più efficace quanto più è mediocre. Questo, un intellettuale o lo dice, o non è. Altrimenti, tanto vale trovarsi un qualsiasi Caligola e adeguarsi alla caduta, senza riscatto.
E guardi, ci tengo: lasci stare il realismo, l’esistenzialismo, l’avanguardia. La nostra sola giustificazione è parlare in nome di chi non può farlo. Se per avere buon cinema e buona letteratura si deve camminare all’indietro, vuol dire che lo scandalo non fa scandalo, ma fa la sua tomba.

Gli scrittori? La grandezza dell’uomo è essere più forte della sua stessa condizione. È tutto qui: non essere amati è sfortuna, la vera disgrazia è non amare. Allora, meglio farsi storico di ciò che non ha storia, nutrirsi dello stesso pane d’esilio. L’ultima fatica di Sisifo è riconoscersi anche nelle ombre, amarsi e combattere anche nelle debolezze, nelle contraddizioni, nei nostri tic nervosi. Per cortesia, il portacenere piccolo, quello, lo rimetta dov’era.

No e poi no. Su Maria Casarès non voglio dire niente. La guardi nei film di Jean Cocteau e non osi confrontarla – unica, una vertigine! – con le maggiorate discinte della commedia all’italiana. La Casarès, interprete eccezionale, a Parigi, del teatro classico e contemporaneo, di casa alla Comédie-Française, decorata con la Legion d’Onore, è una galiziana, nata cittadina spagnola, immigrata in Francia da ragazzina sfuggendo al fascismo franchista1. Proprio non mi segue? È come se a leggere e spiegare la Commedia di Dante Alighieri, a Firenze, fosse una bambina cinese cresciuta in Senegal e arrivata in Toscana di nascosto. Insomma la sua domanda sulla Casarès, mi scusi, per gli aspetti personali è impertinente e per quelli sociali si risponde da sola. Esigo che su questo non ci sia alcun malinteso.
Beh? la sigaretta non la accende? Ah, scusi: ecco i cerini.


  1. Maria Casarès, 1922-1996. Figlia del primo ministro del governo democratico, nella Spagna repubblicana, al momento del colpo di mano fascista di Francisco Franco. In Francia dal 1936. Attrice di teatro e di cinema, indimenticabile in capolavori fra cui Les Enfants du paradis. La sua storia d’amore con Albert Camus iniziò a Parigi sotto l’occupazione tedesca  

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Qualcuno sa chi è Jean Sénac? https://www.carmillaonline.com/2018/06/23/qualcuno-sa-chi-e-jean-senac/ Sat, 23 Jun 2018 21:15:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46165 di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato [...]]]> di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato fin dal 1959 con il grandioso e ineffabile titolo “Libro della vita”.

«Andare fino al fondo di uno sforzo mi è sempre costato. Non mi sono concesso che con lentezza e pena» scrive Sénac imprimendo nel lettore un’immagine di sé e un modo di essere dell’opera. Ma c’è di più. L’incompiutezza di disegno e il carattere esemplare di una lingua-stile da collocare ai vertici estetici più esemplari della letteratura mediterranea, figura finalmente un’immagine aurorale, qualcosa di unico nell’orizzonte delle scritture autoteliche nel secondo Novecento. Quel che resta del colossale proposito di scrivere un Libro della vita, il tassello Ritratto del padre. Per finire con l’infanzia, appare dunque come un astro venuto da un altro cielo, un objet étranger caduto come in una plaga terrestre.

L’opera di Pier Paolo Pasolini, autore dalla critica talvolta associato a Jean Sénac, con Petrolio fornisce un modello di non-finito, in cui però l’infinibilità è l’esito naturale della contingenza, che comunque riflette un’estetica compiuta. Si potrebbe parlare – così di Petrolio come del Ritratto – di compimento del non-finito intendendo però il Ritratto, non più Petrolio, come un corpo letterario estraneo alla generale convenzione della finibilità, qualcosa che richiama, proprio per questa sua intrinseca natura, un preciso statuto interiore, una qualità psicologica incarnata nello scrittore di Béni Saf. Non finisce, alla lettera, il Ritratto. Anzi, Sénac si autointerroga sull’esperienza stessa di scrivere, d’avere scritto: «Comen avons nou pu écrire?». Nei fatti, il Ritratto appare come un miracolo volontaristico, il sovrumano sforzo di scrivere qualcosa di predestinato a non finire. E anche nella mera apparenza tipografica, non finisce ancora perché il Ritratto si sgretola, esplode. Ciò che era la parola poetica è ora l’esito di una deflagrazione al di là della quale sulla pagina resta sparsa una marea di scorie, di detriti, la polvere di un’apocalisse:

XWZU
Vnoqrstv ssss
Nmonmnopnopmoupmnopmnop
Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
Ristabilire l’equilibrio, Ristabilire un ordine disequilibrato
La rivolta L’infanzia pura Ma vivere Ristabilire

Non ricordo, a memoria, andando ora all’altro capo del libro, un incipit più potente del Ritratto, forse qualcosa di altrettanto epifanico lo si potrà leggere in un altro libro della vita, Oga Magoga, il romanzo-universo del gran cuntista Giuseppe Occhiato. Ma leggiamo questa prima pagina del Ritratto, ritroveremo insieme il tratto inconfondibile di Journal du voleur di Jean Genet (per Sénac il «più grande scrittore di questo tempo», cui è dedicato proprio il Ritratto) e la rara presenza di quella écriture des astre, la cui memoria rimanda alla pagina indimenticabile di Maurice Blanchot e il cui significato ultimo rinvia a Emmanuel Levinas, nel luogo dove è saldata in uno l’intercambiabilità tra des astre e désastre:

Uno strano esilio il nostro! Tra fuochi spenti, cammino, sogno, parlo. Ricompongo all’uso del mio cuore una terra che già si sfuoca. Strano esilio. Molto lontano, verso la falesia, mia madre accende il suo fornello a petrolio. Leva delle grida nel mentre mia sorella, di fronte allo specchio frantumato, si trucca. Anch’io sono là, tra gli specchi dell’esilio, cercando nella memoria frivola i temi che, proiettando la mia leggenda, ripetono a mezza voce niente meno che le sillabe della mia verità.

Non un «romanzo» il Ritratto, un «poema» in prosa verrebbe da scrivere, da un lato per la presenza ingombrante della lingua poetica e della poesia, dall’altro per la dimensione astrale di uno stile di scrittura scintillante, un mosaico di balenanti frammenti, qualcosa di formalmente inclassificabile. Al Ritratto, per stare alla palpitante materia del suo contenuto, si potrebbe affibbiare una formula nietzscheana, cioè l’opera è una corda tesa tra la figura platealmente presente della madre di Sénac (Jeanne Comma, prima dedicataria del libro, insieme a Jean Miel, Patrich Mac’Avoy, René Char, Antonin Artaud, per l’appunto Jean Genet, e nel nome neanche tanto occultato di un altro dimenticato della cultura francese del Novecento, Paul Nizan), e il grande assente e insieme il vero duende del Ritratto, il padre, la «mia sete e il mio nulla» come si legge a inizio di narrazione. Non diversamente dall’idea di rivelarsi nella parola autobiografica, questo (in parte) journal intime sembra infoltire una linea maestra, la grande dorsale, il meridiano passante tra le Confessions di Jean-Jacques Rousseau e Mon cœur mis à nu di Charles Baudelaire, con il quale il Ritratto condivide – tra le altre cose – l’identità di opera-relitto, cioè di un restante simbolo di una realtà che forse è stata (o di ciò che forse dovrà ancora essere).
La madre e il padre o l’immagine della paternità, la patria, l’Algeria, queste sono per Sénac le orme su cui rincamminare, su cui rincamminarsi per ricomporre, nel Ritratto, i segnavia del perduto paesaggio dell’origine e della memoria. Come in Proust, anche in Sénac («Ho vergogna di non aver letto completamente Proust»), rincamminare è per così dire la promessa, alla fine, di un «Temps retrouvé», qualcosa che permette al vissuto di rifluire sulla pagina, alla vita di diventare letteratura, di diventare cioè un potenziamento stesso della vita e non una sua mendace o tradita riproduzione.

La madre, Jeanne Comma, è la presenza e l’interlocutrice prima del Ritratto. Se il poema è l’incompiuto ritratto del padre, la figura materna vive nel segno della compiutezza, è un organismo vivente, una creatura del sacrificio e la portatrice stessa della sopravvivenza. Il Ritratto dunque è un libro a due superfici riflettenti, l’evidence o la scena in luce è per la madre, la zona di intercapedine destinale, la filigrana del vissuto è per il padre. Entrambi, però, concorrono a comporre il ritratto del figlio, Jean Sénac, anzi la madre e il padre realizzano una cifra di destino, qualcosa da cui è scaturito propriamente l’indeterminabile, il poema chiamato a contenere la «mitologia» di sé tra due forme del tempo, il tempo perduto e il tempo ritrovato. Se allora il Ritratto è anche una recherche, essa è anzitutto l’esperienza di una riscoperta mitologica, cioè riguarda l’esposizione di una realtà materno-paterna al cui centro il diarista tratteggia l’icona del sé. Nel disegno troviamo collocata la materia prima e creaturale di una scrittura automitografica venuta all’evidenza, ciò perché lo scrivente scrive di sé dalle regioni profonde e oscure di un desiderio autoanalitico. La scrittura è dunque uno strumento del raccontare e del capirsi, un mezzo maieutico in cui non conta più estrarre la verità dall’altro ma solo quel che veramente conta, cogliere in boccio una verità, la verità di sé.

Tra orfanità di padre e senso di spaesamento esistenziale, forma della relittitudine, Sénac domanda alla realtà del mondo quale sia infine il mondo della realtà. Qui è esposta la ferita meno medicabile, quella coscienza dell’assurdo che tiene in una sola culla l’esistenza del diarista e il pensiero di Camus, l’interlocutore paterno di un’«amicizia impossibile». Alla memoria e alla tessitura di un ordito disorganico di eventi, laceranti lutti, giochi erotici, visioni, deliri e sogni Sénac affida il compito di develare proprio il mondo della realtà, develarlo non per comprenderlo ma per comprendersi nel profondo, donarsi un nome abitando il sacro mistero della realtà del mondo. Qui la figura assente del padre, il «non-visto, non-nominato», è una sorta di demoniaca divinità, una creatura perturbante venuta ad assumere il ruolo di demiurgo dell’immaginario filiale. Per essere, il figlio dovrà penetrare in quell’«Essere» superiore che è il padre. Non uccidere il padre però ma sopravvivere, divorandone il nome, alla sua mitologia. Il Ritratto allora si rovescia nel suo ideale contrario, diviene cioè un autoritratto in forma di figlio alla recherche del padre, in forma di figlio alla ricerca di una patria, l’Algeria (o le patrie che l’Algeria è), e che resta sempre una terra abitata e anche da abitare, il luogo dell’abitabile espresso nella sua radicalità, nella sua identità rinviante per l’appunto a inestirpabili «radici»: «La felicità, talvolta è questo attimo di radici» scrive Sénac.

Un radicale canto, un canto delle radici, anche questo è il Ritratto. E la forma stessa del poema, la sua struttura poematica, rimanda l’immagine del rizoma. Qui la scrittura incede seguendo una ramificazione visionaria, è propriamente innescata da uno stile per l’appunto rizomatico, questo così mosaicale di Sénac, specie quando la memoria del padre e della madre espone il narratore al recupero (memoriale) non di una narrazione lineare ma come di una costellazione, un informe aggregato, un insieme molecolare di balenii, di pulsanti brani di vita ricamati infine in un arazzo automitografico. Non si è dinanzi a un delirio narcisista né qui è in scena il monologo egotista di un velleitario del ricordo, tra le pagine del Ritratto troviamo un Sénac tutt’altro che imprigionato nel sé, semmai il teatro del sé espone in luce anche uno scrittore sensualmente coinvolto nella vita algerina, una vita per così dire erotizzata in ogni momento della sua afrodisiaca espressione esperienziale.
La più efficacie definizione del Ritratto è fornita proprio dallo scrittore quando parla en passant dell’arte del pittore serbo Petar Omcikous, «macchie appena modulate ma che procedono per sortilegi fino alla sinfonia, all’unità, all’universo». Qual è allora la condizione unica e immodificabile di un siffatto sortilegio? Per una volta, alla ricerca del sortilegio, e per un’icastica occorrenza, Sénac sembra non soccorrere il lettore. Ritratto incompiuto del padre, nel sottotitolo occulta la chiave stessa del diario. Non più allora Per finire con l’infanzia ma il suo speculare e stravolto contrario, non dover mai finire con l’infanzia. Proprio in questa resa alla verità sembra collocarsi il sortilegio. La sua vita infinibile traccia allora l’esemplare via di questa scrittura di abbandono e patimento, di dolcezza e ferocia, questa scrittura votata alla miseria, alla preghiera e al sole, al cuore, al sacrificio, questa visione che procede in circolo dall’infanzia anagrafica in direzione di un’altra infanzia, uno stato di fanciullezza destinato a durare oltre ogni possibile fine.

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