Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Nov 2025 21:10:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Così succedeva ai vecchi cavalli https://www.carmillaonline.com/2025/11/22/cosi-succedeva-ai-vecchi-cavalli/ Sat, 22 Nov 2025 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91340 di Giorgio Bona

Larry McMurtry, Luna Comanche, trad. dall’inglese di Gaspare Bona, pp. 712, € 24, Einaudi, Torino 2025.

Luna Comanche di Larry McMurtry è l’ultimo romanzo della quadrilogia del West e segue Lonesome Dove (Einaudi, 2017), Le strade di Laredo (Einaudi, 2018) e Il cammino del morto (Einaudi, 2024). Uscito originariamente nel 1997 (Comanche Moon), riprende le avventure dei due rangers protagonisti nei precedenti romanzi, Augustus “Gus” McCrae e Woodrow Call. I due pards, con i loro amici, danno la caccia a indiani bellicosi e banditi psicopatici nelle sterminate praterie del Texas, poco distanti dal confine con il Messico. Larry [...]]]> di Giorgio Bona

Larry McMurtry, Luna Comanche, trad. dall’inglese di Gaspare Bona, pp. 712, € 24, Einaudi, Torino 2025.

Luna Comanche di Larry McMurtry è l’ultimo romanzo della quadrilogia del West e segue Lonesome Dove (Einaudi, 2017), Le strade di Laredo (Einaudi, 2018) e Il cammino del morto (Einaudi, 2024). Uscito originariamente nel 1997 (Comanche Moon), riprende le avventure dei due rangers protagonisti nei precedenti romanzi, Augustus “Gus” McCrae e Woodrow Call. I due pards, con i loro amici, danno la caccia a indiani bellicosi e banditi psicopatici nelle sterminate praterie del Texas, poco distanti dal confine con il Messico.
Larry McMurtry, nipote di pionieri, morto nel 2024 a 84 anni, aveva mosso critiche ai romanzi western in quanto, a suo parere, peccavano di un eccesso di romanticismo e poca coesione alla realtà. Per tale ragione, prima che iniziasse il lungo cammino della sua opera, dichiarò convinto quanto desiderasse riportare con i piedi per terra il mito del vecchio West.
L’intento fallì durante quell’incredibile viaggio. Pochi seppero come lui ridisegnare il mito della frontiera al grande pubblico, trasformandolo sì in una straordinaria epopea ma anche in uno scenario di violenza e di sopraffazione, rappresentazione di un mondo cinico e crudele, animato dal grande spirito dell’avventura.
Emerge in Luna Comanche il declino di una cultura, la scomparsa di una civiltà, quella dei nativi, e l’avanzare della civiltà bianca in un’atmosfera che ben pone in scena lo spirito della Frontiera: i rapporti tra i personaggi vi appaiono legati in un mix di ironia, drammaticità e crudo realismo.
È Buffalo Hump, il vecchio capo comanche dalla grande gobba, protetto da uno scudo forgiato dalla testa di un bisonte, a lanciare una sfida attaccando i coloni e le città texane di Austin e San Antonio, perché sente di avere a suo favore la luna comanche che favorisce le battaglie. Alla guida dei suoi guerrieri decide di riconquistare quei territori che un tempo appartenevano al suo popolo.
Seguono attacchi inaspettati, in silenzio, mentre nessuno se lo aspetta, come nella migliore tradizione del vecchio west. Archi e frecce sono lo strumento di questi assedi che lasciano sul campo un’infinità di morti.
E così ci troviamo davanti a inseguimenti di rangers in territori sconfinati, lande desolate, scorrerie di indiani che nella guerra ai bianchi attraversano il Texas fino alla Grande Acqua dell’Oceano, mentre i coloni risalgono i fiumi come un’invasione di cavallette alla ricerca di terra e di una nuova vita.
Buffalo Hump ha ignorato la volontà di altri capi che volevano assoggettarsi alle imposizioni dei bianchi e dedicarsi alla coltivazione del mais rinnegando le loro usanze e tradizioni. Sceglie il sentiero di guerra a seguito di una visione apparsa in sogno che portava il popolo rosso alla vittoria.
Niente fucili, solo armi che la grande tradizione indiana ha accompagnato nel suo lungo corso, lance e frecce, per attacchi silenziosi, feroci, un mordi e fuggi che lascia una scia di terrore e sangue.
Rappresenterà l’ultima campagna di guerra del capo indiano che finirà per cercare la morte lontano dalla sua tribù con la dignità che ha sostenuto i grandi condottieri.

Molto prima di arrivare al lago secco dove l’Antico Popolo si appostava per catturare i cavalli selvatici che andavano ad abbeverarsi alla piccola polla, Buffalo Hump si pentì di non aver scelto meglio la cavalcatura per il suo ultimo viaggio. Il vecchio cavallo aveva i denti logorati: nel canyon c’era erba alta che riusciva ancora a brucare, ma sull’arido llano, nelle vicinanze del lago dei cavalli, la poca erba era bassa. La povera bestia era costretta a impolverarsi il muso cercano di strappare i corti steli con i monconi giallastri dei denti. Il cavallo aveva trottato con brio per un ventina di miglia, poi le forze erano scemate ed era tornato a essere quello che era: un vecchio animale avviato alla morte per la mancanza dei denti. Così succedeva ai vecchi cavalli, come le mani tremanti e gli occhi acquosi erano il segnale per gli uomini anziani. Buffalo Hump sapeva di avere scelto male. La sua intenzione era di raggiungere la Black Mesa, dove si sarebbe avviato verso la morte cantando tra le rocce nere, le più antiche che esistessero. Alcuni credevano che soltanto in quelle pietre albergassero gli spiriti che accolgono le persone al momento del trapasso.

Intanto ai due protagonisti, Gus e Call, appena promossi capitani, viene affidata una missione importante dal governatore in persona: alla guida di un manipolo di rangers devono riportare a casa il Colonnello Scull che sta cercando a piedi il suo leggendario cavallo, rubato da un ribelle comanche e si spinge nelle pericolose terre del feroce bandito Ahumado, conosciuto come Black Vaquero, che lo farà prigioniero.

Ahumado non aveva mai avuto un prigioniero che si comportasse come il capitano Scull, il piccolo americano. La maggior parte delle sue vittime cadevano nella disperazione non appena capivano di essere in un posto da cui non sarebbero più uscite se non da morte. Per sua esperienza gli americani erano pessimi prigionieri. Aveva provato a farne scorticare parecchi da Goyeto, – mercanti, minatori, viaggiatori che si erano trovati nel posto sbagliato -, ma tutti avevano reso l’anima prima che il suo sgherro potesse arrivare a fondo. Spesso bastava che scuoiasse un braccio o una gamba perché gli americani morissero. I bianchi erano prigionieri deboli. Una volta gli era capitato un piccolo indiano tarahumara del nord, che era rimasto legato al palo senza emettere un gemito mentre Goyeto gli toglieva tutta la pelle. Quel tarahumara era un uomo straordinario. Ahumado aveva deciso di offrirgli un riparo e di nutrirlo bene, sperava che la pelle gli ricrescesse. Ma all’indiano il cibo e l’ombra non avevano giovato molto. Era morto tre giorni dopo senza che gli fosse ricresciuto un centimetro di pelle.

La fine di un’epoca è vicina, la vita della frontiera si sta spegnendo.
In Luna Comanche il crepuscolo insegue l’alba nella meravigliosa giostra del vecchio West senza affondare nella retorica. Lo spirito dell’avventura nelle sterminate praterie, nei pericoli tra un canyon e un altro, tra un saloon, un bordello e un tavolo da poker si susseguono come un gioco di carambole.
McMurtry non rincorre la storia, forse desidera che la storia non lo accompagni nel suo racconto, però tratta luci e ombre del vecchio west con un intenso lirismo. Ci porta a cavalcare insieme ai suoi personaggi, gli occhi fissi alla realtà di quello che fu un mondo primitivo e durissimo.

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Sarajevo-Roma, viaggio di sola andata. https://www.carmillaonline.com/2025/11/22/sarajevo-roma-viaggio-di-sola-andata/ Fri, 21 Nov 2025 23:06:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91358 di Margherita Coletta

Trent’anni fa, nel dicembre 1995, venivano siglati nella cittadina statunitense di Dayton gli accordi che sancivano ufficialmente la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina. Era il marzo del 1992 quando la penisola balcanica fu protagonista di uno dei conflitti più cruenti in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Nel disegno degli strateghi serbi e croati, che rivendicavano un predominio in quei territori, l’allontanamento forzato della popolazione civile prevedeva un viaggio di sola andata. Uno degli obiettivi intrinseci del conflitto era di non permettere il ritorno dei rifugiati di guerra nel proprio Paese, nelle proprie case. Con il termine [...]]]> di Margherita Coletta


Trent’anni fa, nel dicembre 1995, venivano siglati nella cittadina statunitense di Dayton gli accordi che sancivano ufficialmente la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina. Era il marzo del 1992 quando la penisola balcanica fu protagonista di uno dei conflitti più cruenti in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Nel disegno degli strateghi serbi e croati, che rivendicavano un predominio in quei territori, l’allontanamento forzato della popolazione civile prevedeva un viaggio di sola andata. Uno degli obiettivi intrinseci del conflitto era di non permettere il ritorno dei rifugiati di guerra nel proprio Paese, nelle proprie case. Con il termine “forced displacement” si indica la rimozione forzata dal suolo di origine di coloro che hanno un’identità o delle opinioni differenti da altri gruppi, attuata in modo tale da non consentire in futuro il rientro di questi ultimi nel proprio Paese. Dei circa 1,2 milioni di rifugiati all’estero, tra il 1996 e il 2006, soltanto 442.137 hanno fatto ritorno.

«La mia vita è stata un po’ uno sliding doors…». Belma è originaria di Mostar. L’accento bosniaco si confonde con le parole e i modi di dire romaneschi. Si capisce subito che Roma è la sua città da molto tempo, la sua casa. «come Roma, Mostar ormai è piena di gente, di turisti…’na pipinara!». A diciannove anni si è trasferita a Sarajevo, la capitale multietnica della Bosnia, per avviare i suoi studi nel campo dell’odontoiatria. Era il 1991. Nel marzo dell’anno successivo, la Bosnia-Erzegovina avrebbe dichiarato la sua indipendenza dalla Federazione jugoslava, segnando il suo destino.
Da quella primavera sono passati trentatré anni. Belma era adolescente, per lei il futuro aveva coordinate remote: un luogo astratto, utile nel presente per poter sognare. Faticava a capire cosa stesse succedendo intorno a lei. Nel tentativo di tenere salda la Jugoslavia e i suoi poteri nella Federazione, la Serbia attaccò prima la Slovenia, poi la Croazia, in seguito alle loro dichiarazioni di indipendenza. Il turno toccò poi alla Bosnia-Erzegovina, all’indomani del suo plebiscito. La Bosnia era un obiettivo non di poco conto: coacervo di etnie sparse irregolarmente per il territorio e che convivevano da secoli, divenne un luogo in cui manifestare via via le proprie pretese. Qui, nella più “jugoslava” di tutte le repubbliche (così denominata per la composizione etnica eterogenea), i territori rivendicati dalle parti serbe e croate erano molteplici. «Prima di un esame, noi studenti dovevamo compilare un piccolo foglio in cui bisognava indicare nome, facoltà ed esame da sostenere. Un giorno, io ero con una mia amica e abbiamo notato una nuova sezione da compilare: nazionalità». Era il 1992. «Non ho mai dovuto indicare la mia nazionalità prima di allora: bastava mettere jugoslava. Ora non andava più bene. Io ero bosniaca e la mia amica era serba». Questo, tra di loro, non era rilevante. Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra.
La Bosnia-Erzegovina è ricordata per essere stata il teatro di uno dei conflitti più cruenti e sanguinosi nell’Europa contemporanea. Il conflitto balcanico ha provocato la morte di più di centomila persone (civili inclusi), la fuga di oltre il cinquanta per cento della popolazione e una disastrosa condizione economica post-bellica, segnalata dal reddito pro capite che dai 2.723 dollari del 1991 toccò i 300 dollari nel 1995 e dalle ingenti distruzioni dei servizi pubblici e dell’edilizia residenziale. Dal 1992 al 1995, circa 2,2 milioni di bosniaci sono fuggiti dai propri territori, di cui un milione all’interno della stessa Bosnia e più di 1,2 milioni in diversi Paesi. Belma era una di loro.

Tutto questo, i bosniaci, quelli abituati alla convivenza interetnica, che non conoscevano un altro tipo di Bosnia, non lo credevano possibile. Il momento in cui i venti di guerra si trasformarono in colpi di mortaio fu il 5 aprile, quando a Sarajevo si riunì una folla di circa duemila persone per manifestare pacificamente contro l’escalation di violenza. Un franco tiratore colpì una studentessa di medicina, Suada Dilberović, considerata simbolicamente la prima vittima del conflitto bosniaco, e altri quattro civili vennero uccisi dai cecchini serbi, appostati ai piani alti dell’Holiday Inn. Belma e Suada erano amiche. Nell’aprile del ’92, Belma decise di lasciare Sarajevo e raggiungere la sua famiglia a Mostar con l’unico treno che viaggiava durante i giorni di una breve tregua. «Ero andata alla stazione con una valigia in mano e con questi occhiali da sole…ero giovane, non mi rendevo conto». Un viaggio di tre ore ne durò sette e, alla fine, lei riuscì ad arrivare nella sua vecchia casa.
Il giorno dopo, i binari di quella stazione vennero fatti saltare in aria. Belma si rifugiò poi per tre mesi a Spalato, prima di prendere la decisione di andare via, da sola. La madre aveva un contatto a Roma. Da quel giorno, lei vive lì.

Per Slavica, non se ne parlava di uscire dalla Bosnia, mai fuori dalla sua Sarajevo. Lei e suo figlio hanno vissuto la guerra quasi nella sua interezza all’interno della capitale assediata: «L’assedio si può raccontare, ma chi non lo ha vissuto non può capirlo fino in fondo». Sarajevo, la città più grande della Bosnia, contava una popolazione prebellica di circa 350.000 abitanti. Durante gli anni della guerra, i morti toccarono quasi i dodicimila (di cui un sesto bambini), mentre oltre cinquantamila rimasero feriti. Le persone che vissero nella capitale bosniaca durante l’assedio furono 280.000, sopravvivendo alle granate, al fuoco dei cecchini, alla fame e all’assenza di acqua, luce e gas. Sarajevo ha conosciuto l’assedio più lungo nella storia bellica della fine del XX secolo: quattro anni sotto le bombe, in una città spettrale, dove si sopravviveva giorno per giorno. Slavica è originaria di Doboj, una cittadina situata nel nord della Bosnia, attualmente sotto la giurisdizione della Repubblica Srpska. Nel 1992 aveva 25 anni, suo figlio quattro.
Quando cominciò l’assedio di Sarajevo, Slavica sfidò ogni giorno le bombe e i colpi dei cecchini serbi appostati sulle alture per andare al mercato a comprare o barattare del cibo da portare a casa. Il “mercato” era in realtà un tunnel: spot clandestino creatosi negli anni dell’assedio sotto l’aeroporto della capitale bosniaca. Il tunnel ebbe un ruolo vitale nel rifornire la città e i civili che vi abitavano, nonostante al suo interno vi circolassero anche reti di contrabbando e meccanismi clandestini per rifornire e finanziare le parti opposte del conflitto. Slavica pensava che, se fosse morta, almeno sarebbe rimasta nel suo paese, con la sua gente. Tuttavia, nell’aprile del 1995 fu costretta ad uscire, per motivi legati alla salute del figlio. All’inizio di quell’anno, lei aveva ricominciato a lavorare in una pizzeria italiana dove era stata assunta tre anni prima. Ricorda di come, lì, il telefono squillasse in continuazione: la gente aveva iniziato a lasciare quel numero ai propri cari all’estero, per poter ricevere delle chiamate. Nella Sarajevo assediata e, in generale, nella Bosnia-Erzegovina in conflitto, le comunicazioni interne non funzionavano, ma era possibile ricevere chiamate dall’estero. Lasciò il numero della pizzeria alla sorella, rifugiatasi in Italia agli inizi della guerra e, un giorno, prese la decisione di raggiungerla. «Io e mio figlio lasciammo la città attraverso lo stesso tunnel dove andavo a comprare ogni giorno il cibo e che si estendeva fino a Butmir. Da lì, viaggiammo verso Roma con dei convogli umanitari». Lei che non si sarebbe mai spostata da Sarajevo, oggi vive a Roma da trent’anni. Eppure, Slavica ha avuto da subito una sorta di imprinting con la città: «I romani sono un po’ caciaroni, proprio come i sarajevesi…c’è uno spirito di comunanza. Poi, ho visto il tram numero quattordici: era dello stesso colore di quello che prendevo sempre a Sarajevo. Mi sono sentita a casa».

Fatima lavora da diversi anni al Centro di Servizio per il Volontariato di Roma. Si definisce una «profuga per caso». È originaria di Kakanj, un villaggio della Bosnia centrale e negli anni Novanta si era trasferita a Sarajevo per studiare. Nel 1992 stava progettando di venire in Italia durante l’estate, con l’intento di imparare la lingua e di lavorare come ragazza alla pari in una famiglia. Nel mese di febbraio aveva già tutto pronto: l’agenzia interculturale l’aveva messa in contatto con la sua host-family e la partenza era programmata per luglio. Con lo scoppio del conflitto fu presto costretta a cambiare i suoi piani ed anticipare la sua partenza, ma non più nei panni di una turista. «Se non fossi stata “la profuga”, se la mia fosse stata una permanenza di piacere sarebbe stato tutto diverso, perché avrei avuto la possibilità di ritornare in Bosnia. Quando sei da solo, però, devi pensare a te stesso». Le circostanze che portano un rifugiato di guerra a non far rientro nel proprio Paese sono diverse e, molto spesso, legate all’età e al mutato contesto nel Paese di origine. La paura di Fatima, come di molti altri rifugiati, era di non ritrovare in Bosnia le possibilità per costruirsi la vita che voleva. Il suo è stato uno spostamento che non ha mai veramente digerito, perché costretta a compierlo. Sostiene di sentirsi come i bambini adottati, che ad un certo punto della loro vita sentono il bisogno di riscoprire il proprio luogo di origine e di ristabilire un contatto. Oggi, è presidentessa dell’associazione Bosnia nel cuore, nata nel 1992 come iniziativa spontanea dei bosniaci residenti a Roma prima della guerra. Dopo la laurea, Fatima intraprese un Master in Diritti Umani e Cooperazione Internazionale, dal programma molto chiaro: «Educazione alla Pace».

In Germania esiste un termine utilizzato per indicare il senso di colpa collettivo vissuto dalla popolazione tedesca dopo le atrocità commesse durante il regime nazista: Vergangenheitsbewältigung, traducibile come «superamento del passato». Il concetto è riferibile, in generale, a molte delle popolazioni i cui leader hanno ideato e alimentato progetti nefasti, provocando danni alla popolazione civile. Vela è originaria di Tuzla. Le radici della sua famiglia, di religione ortodossa, sono serbe. Nel 1992, viveva anche lei nella città universitaria di Sarajevo. Allo scoppio del conflitto, decise di lasciare il Paese. Vela dice di aver fatto proprio in quegli anni di quel senso di colpa collettivo: «A volte non riesci a spiegare alle persone che sei contro la guerra, poi a quei tempi…è un sentimento che non si può descrivere, ma che per fortuna adesso è sparito. Durante la guerra però era impossibile: ero lì a mangiare in mensa con altri bosniaci e poi sentivamo al telegiornale che un’altra bomba serba aveva colpito il mercato di Sarajevo…non era facile. Il mio cognome era comunque un marchio».
Da trentadue anni vive a Roma, tornando di tanto in tanto a Tuzla, nella casa di campagna della famiglia. In seguito agli accordi di pace, stipulati a Dayton, in Ohio, nel 1995, la zona in cui abitava Vela e la sua famiglia passò sotto il controllo serbo. Le famiglie di etnia serba popolarono l’area, occupando legalmente le case abbandonate dagli sfollati durante la guerra. La casa di Vela è stata liberata dagli occupanti serbi solo nei primi anni del 2000. «Quando hanno firmato la pace a Dayton abbiamo capito che un Paese così devastato e profondamente cambiato non era più vivibile. Hanno diviso un territorio senza criterio. Devo ancora capire la divisione corretta. So a chi appartengono le città principali, ma di alcuni posti non ne ho idea. Loro hanno creato una divisione che non mi appartiene». Vela, così come Belma, Slavica e Fatima, è stata vittima di un conflitto che la voleva fuori dal proprio Paese. «L’unica certezza che avevo è che non volevo far parte di tutto quel che stava succedendo nel mio Paese. Eravamo concentrati a cercare noi stessi, a capire cosa volevamo fare nella vita. Eravamo ventenni. Io avevo un obbligo: cosa ne faccio della mia vita?».

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Questo è il fiore della memoria e ci diranno che bel fior https://www.carmillaonline.com/2025/11/20/questo-e-il-fiore-della-memoria-e-ci-diranno-che-bel-fior/ Thu, 20 Nov 2025 22:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91562 di Luca Baiada

Paola Gramigni, Partigiano, portami via. La stampa e l’uso politico della Resistenza, prefazione di Lidia Piccioni, L’asino d’oro edizioni, Roma 2025, pp. 176, euro 18.

Una ricerca condotta su libri, giornali e periodici. Oggetto, il lavoro culturale e comunicativo attorno alla Resistenza. Si segnala per l’impegno nell’approfondimento e per un tono schierato, senza ambigue imparzialità. Le premesse sono buone perché danno peso a Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, e alle controversie che aprì anche a sinistra.

L’autrice si muove in tutta sicurezza. È smaliziata, quando dà conto del fatto che il concetto [...]]]> di Luca Baiada

Paola Gramigni, Partigiano, portami via. La stampa e l’uso politico della Resistenza, prefazione di Lidia Piccioni, L’asino d’oro edizioni, Roma 2025, pp. 176, euro 18.

Una ricerca condotta su libri, giornali e periodici. Oggetto, il lavoro culturale e comunicativo attorno alla Resistenza. Si segnala per l’impegno nell’approfondimento e per un tono schierato, senza ambigue imparzialità. Le premesse sono buone perché danno peso a Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, e alle controversie che aprì anche a sinistra.

L’autrice si muove in tutta sicurezza. È smaliziata, quando dà conto del fatto che il concetto di guerra civile spezza «l’immagine oleografica e rassicurante della Resistenza come fenomeno unitario». Il revisionismo antiresistenziale è fronteggiato a viso aperto e l’analisi è profonda. È una mistificazione, trattare i fatti sminuzzando dettagli senza cogliere il senso d’insieme, come si fa per la cronaca nera: la storia scompare e «al suo posto resta una valanga di singoli eventi la cui veridicità è affidata alle memorie dei parenti e ai racconti dei testimoni, oculatamente selezionati, di allora».

Così è smascherata la trappola insita nella memoria scissa dalla storia. Certe tecniche narrative strizzano l’occhio al pubblico con porzioni precotte, pastoni di fatti spiccioli. Sono le raccolte di ricostruzioni alternative, di ipotesi, di illazioni. Gramigni dice bene: chi ha cercato di far scomparire la storia ha lavorato su testimoni «oculatamente selezionati». È stato il caso delle insistenze pelose sulla memoria divisa (le stragi di Civitella e Guardistallo, o altro), quando ricerche falsamente neutrali e innovative hanno riproposto tesi antipartigiane e stravecchie.

Partigiano, portami via legge il revisionismo in parallelo con le manovre eversive, anche quelle ricollegabili a lontani cambi di gabbana. Nel 1990 Andreotti ammette l’esistenza di Stay Behind; nello stesso anno riemergono le carte Moro a Milano, in via Monte Nevoso, e c’è la stagione di Francesco Cossiga «picconatore»; a maggio 1991 Cossiga esalta la struttura Osoppo; nel 1992 c’è una commemorazione dell’eccidio di Porzûs, Cossiga sta per andarci ma la visita è annullata e ci va Edgardo Sogno[1]. Dopo la guerra la Osoppo venne ricostituita come Organizzazione O, con ex partigiani, parroci ed ex repubblichini; l’Organizzazione O, a sua volta, nel 1956 fu sciolta e confluì in Gladio[2]. E proprio sui partigiani osovani, Cossiga dichiara che «con una continuità ideale rispetto al loro impegno nella Resistenza, essi entrarono a fare parte delle Divisioni Osoppo-Friuli e Gorizia, dell’Organizzazione O e della rete Stay Behind»[3]. Più chiaro di così.

Meno convincenti, invece, le pagine in cui per capire i fatti ci vuole dimestichezza con le questioni processuali e, più in profondità, con la giustizia. Così l’Armadio della vergogna, l’archivio sulle stragi nazifasciste insabbiato nella sede centrale della giustizia militare, è presentato con dettagli tralatizi:

In relazione all’indagine istruttoria per Priebke, nell’estate del 1994, mentre il procuratore militare Antonino Intelisano stava cercando in archivio una richiesta di autorizzazione a procedere che poteva essere contenuta negli atti del precedente processo contro Herbert Kappler, viene «scoperto» un armadio in legno marrone, sigillato, con le ante rivolte verso il muro, protetto da un cancello in ferro e da un lucchetto[4].

Manca anche una rivisitazione critica del fatto che la celebrazione dei processi, durata dalla seconda metà degli anni Novanta al 2015, si è risolta in una ventina di dibattimenti e ha portato in carcere solo tre nazisti.

È giusto che si ricordino tre convegni dopo la fine del blocco socialista: In memory: per una memoria europea dei crimini nazisti, ad Arezzo nel 1994; La Resistenza tra storia e memoria, a Roma nel 1995; Identità e storia della Repubblica. Per una politica della memoria nell’Italia di oggi, a Roma nel 1997. Ma bisogna notare la coincidenza con la riemersione dell’Armadio e, quindi, le implicazioni con la giustizia sui crimini del nazifascismo. Va sottolineato, per esempio, che il convegno In memory fu finanziato non solo da enti pubblici, ma da una banca e dalla Volkswagen Stiftung[5].

Anche sull’Atlante delle stragi, il libro ricorda il finanziamento tedesco ma non ne trae conclusioni complete. È necessario rendersi conto dei difetti di tutta l’operazione e del nesso perverso fra cattiva storiografia e mancati risarcimenti ai familiari delle vittime. Insomma, bisogna cogliere il legame fra memoria anestetizzata e giustizia mancata. Bisogna anche accennare agli altri prodotti memoriali che, proprio come l’Atlante delle stragi, sono stati finanziati dal Fondo italo-tedesco per il futuro, «Deutsch-Italienischer Zukunftsfonds». Si pensi a NS-Täter in Italien. Le stragi nell’Italia occupata nella memoria dei loro autori. L’accostamento parla da sé. Documentazioni di crimini, come l’Atlante, e di voci dei criminali, finanziate e accomunate in un’operazione protetta dalla ragion di Stato. Un appiattimento che conferma la mancanza di profondità di quelle ricerche nate strumentali, la loro fragilità politica e la loro inanità morale.

Sia chiaro, però. Sarebbe ingeneroso addebitare all’autrice, che si è rimboccata le maniche su un tema necessario, le lacune di buona parte del lavoro storico, in Italia. Oltretutto, sono pochi i grandi storici formati nel Novecento che abbiano anche una preparazione giuridica (tra loro Pavone, Enzo Collotti, Pietro Scoppola e Nicola Tranfaglia). In proposito Raffaele Romanelli ricorda le parole di Gioacchino Volpe, all’inizio dello scorso Secolo, sulle brutte conseguenze di questa lacuna[6]. Romanelli si esprime in un convegno proprio su Pavone.

Sul metodo, Partigiano, portami via è consapevole di sé, quando si rende conto delle conseguenze insite nel perimetro posto alla ricerca. La storia è fatti, non parole sulla storia:

Non sapremo mai se la delegittimazione della Resistenza veicolata dai media per scopi politici contingenti, oppure la strisciante rivalutazione del fascismo-regime implicita nella lettura dell’8 settembre 1943 come «morte della patria» e non come inizio del riscatto, oppure, infine, la polemica di Renzo De Felice con la storiografia d’ispirazione antifascista, ampiamente ripresa dalla stampa, abbiano, tutte queste vicende, avuto o meno un’influenza decisiva nell’indirizzare l’elettorato moderato. Ci limitiamo a constatare che prima si è iniziato a mettere in discussione le radici storiche della «Repubblica nata dalla Resistenza», poi, in una congiuntura politica del tutto inedita, sono stati sdoganati i neofascisti come partito di governo.

Qui l’autrice ha il merito raro di segnalare una questione senza imporre una soluzione preconfezionata. Aggiungiamo soltanto qualcosa.

L’onda nera non è tutta d’inchiostro, e solo un suo rivolo passa dalle cabine elettorali. La percezione della successione temporale tra le fasi è giusta, e per cogliere l’insieme bisogna considerare, per esempio, che gli anni Ottanta – Renzo De Felice storico di grido, Giuliano Ferrara suo intervistatore – sono anche quelli delle sconfitte operaie, della riscossa padronale, del Pci che scivola via credendo di aggrapparsi alla questione morale e dell’asse Craxi-Andreotti-Forlani. A un arretramento della lotta di classe è corrisposto un indebolimento della memoria. Ma questo all’autrice non sfugge, visto che capisce le dinamiche:

Rincorrere la destra sul terreno della rilettura della storia, pensando probabilmente di contenerne in tal modo le spinte revisionistiche, e, contemporaneamente, utilizzare alcuni di questi temi per scopi politici, non ha reso un buon servizio proprio alla conoscenza e alla memoria.

E poi, il volume smaschera di getto il trucco retorico su fascismo e totalitarismo:

Proporre di mutare il paradigma memoriale dall’antifascismo all’antitotalitarismo e, nello stesso tempo, sostenere che il fascismo non sia stato un regime totalitario pare del tutto funzionale a riabilitare tout court il regime mussoliniano, e a ribaltare il verdetto che la storia della fine della Seconda guerra mondiale ha decretato.

In questo quadro è citato l’opaco incontro di Trieste del 1998 tra Violante e Fini. Giorgio Bocca lo commentò da fiero azionista:

La nostra storia è quella che è stata, non quella che farebbe comodo a uno che vorrebbe arrivare al Quirinale o a un altro che vorrebbe guidare il primo partito della destra. È davvero triste constatare che da questo penoso duetto l’ex fascista esce meglio dell’ex comunista[7].

In fin dei conti, dei due nessuno ebbe quello che voleva, ma il futuro brillante fu di Fini. Qui però ci vuole un accostamento fra quanto accaduto a Trieste nel 1998 e l’incontro, sempre a Trieste, di dieci anni dopo: quello del 2008 fra Berlusconi e Angela Merkel, in cui, già cominciata la crisi globale, furono poste le basi di una nuova sudditanza italiana.

Nel 2008 fu deciso anche come ostacolare il risarcimento dovuto alle vittime italiane di strage e deportazione durante la Seconda guerra mondiale. Si attuò un’operazione a tenaglia: da un lato un’azione legale tedesca, infondata e rovescista, davanti alla Corte internazionale di giustizia, per impedire la soddisfazione dei crediti sui beni di Stato della Repubblica federale; dall’altro l’avvio di una commissione mista di storici, finanziando con poco denaro tedesco iniziative culturali e fingendo che fossero risarcimenti. Da quel clima nasce il finanziamento, come detto, dell’Atlante delle stragi. Un caso di uso della storia politico, obliquamente giuridico e volutamente a scopo economico. Qui la scelta di fondo del volume rivela un limite notevole, e conferma che la separazione della memoria dalla giustizia non fa bene né all’una né all’altra. Una controprova? Immaginiamo crimini di oggi (in Ucraina, in Palestina, ovunque), trattati allo stesso modo fra molti anni: storici ucraini pagati dalla Russia, storici palestinesi pagati da Israele, per confezionare pignoli elenchi di stragi, con poca spesa, mentre i criminali sono rimasti impuniti e per le vittime e i familiari non ci sono stati risarcimenti; e tutto questo con applausi, felicitazioni nelle sedi culturali e ricevimenti nelle ambasciate.

Fra i punti più alti del libro, invece, l’ottima attualizzazione che tiene conto della posizione di Giorgia Meloni, ora alla presidenza del consiglio ma già prima ben presente: al momento dell’incontro di Trieste del 2008, per esempio, era nel governo. Adesso la presidente, quasi a tirare le fila, a raccogliere una rete già tesa, loda Violante, cita Del Noce e Galli della Loggia, ricorda la Osoppo, attinge al clima degli anni Novanta e piega tutto a suo uso. Sulla sua posizione, Gramigni osserva:

Non solo contiene una lettura distorta della storia ma chiarisce anche qual’è l’orizzonte cui guarda questa destra: non più tanto la legittimazione del fascismo-regime, quanto la riabilitazione del fascismo saloino e della sua eredità raccolta dal neofascismo italiano[8].

Partigiano, portami via ha qualche limite, perché tratta la questione memoriale e le sue manipolazioni staccandola troppo dal resto. Ma anche così, è bene frequentare questo libro robusto e orientato, per aprire certe sottocartelle crittate, che hanno l’etichetta ingannevole e sono piene di cose interessanti sul presente.

 

 

[1] Paola Gramigni, Partigiano, portami via. La stampa e l’uso politico della Resistenza, con prefazione di Lidia Piccioni, L’asino d’oro edizioni, Roma 2025, pp. 79-85.

[2] Ivi, pp. 80-81, nota 80.

[3] Ivi, p. 82, nota 83.

[4] Ivi, p. 50.

[5] Leonardo Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, La Nuova Italia, Firenze 1997.

[6] Raffaele Romanelli, Claudio Pavone. Storia e diritto, in Marcello Flores (a cura di), Mestiere di storico e impegno civile. Claudio Pavone e la storia contemporanea in Italia, viella, Roma 2019, pp. 22-23.

[7] Gramigni, Partigiano, portami via, cit., p. 146, che cita Giorgio Bocca, Violante e Fini rimandati in storia, «la Repubblica», 15 marzo 1998.

[8] Gramigni, Partigiano, portami via, cit., p. 152.

 

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E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinata a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate avanti dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero né frenare né comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

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Palestina, colonialismo sionista e capitalismo fossile americano https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/palestina-colonialismo-sionista-e-capitalismo-fossile-americano/ Tue, 18 Nov 2025 23:30:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90984 di Fabio Ciabatti

Adam Hanieh, Robert Knox, Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine, Verso Book, London-New York 2025, pp. 112, € 11,87

Forse un tempo si sarebbe parlato di banalità di base, ma oggi certe cose è bene non darle troppo per scontate: per comprendere la tragica situazione dei palestinesi e le strutture del dominio di Israele occorre considerare, in una prospettiva di lungo periodo, il ruolo del Medio Oriente nell’ambito dell’ordine capitalistico regionale e mondiale incentrato sul petrolio, così come è stato plasmato dall’egemonia americana a partire dagli anni ’60. In questa logica, anche il concetto di colonialismo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Adam Hanieh, Robert Knox, Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine, Verso Book, London-New York 2025, pp. 112, € 11,87

Forse un tempo si sarebbe parlato di banalità di base, ma oggi certe cose è bene non darle troppo per scontate: per comprendere la tragica situazione dei palestinesi e le strutture del dominio di Israele occorre considerare, in una prospettiva di lungo periodo, il ruolo del Medio Oriente nell’ambito dell’ordine capitalistico regionale e mondiale incentrato sul petrolio, così come è stato plasmato dall’egemonia americana a partire dagli anni ’60. In questa logica, anche il concetto di colonialismo di insediamento, che è essenziale per comprendere la formazione dello stato sionista, per avere forza analitica deve essere contestualizzato nell’ambito della più ampia espansione del capitalismo europeo e collegato al processo di formazione di nuove classi di capitalisti e lavoratori nei territori colonizzati. Per inquadrare il cosiddetto conflitto israelo-palestinese in questo tipo di cornice, che unisce un approccio storico-materialistico con il pensiero decoloniale, è utile leggere Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine (Resistere alla cancellazione. Capitale, imperialismo e razza in Palestina), scritto da Adam Hanieh, Robert Knox e Rafeef Ziadah. Un approccio che ci aiuta anche a non essenzializzare questo conflitto evitando di ridurlo a un metastorico scontro di civiltà tra mondo giudaico-cristiano, l’Occidente, e quello arabo musulmano, l’Oriente, senza considerare il moderno contesto politico-economico in cui si è sviluppato.

Ovviamente gli autori non negano che la Shoah abbiano abbia costituito un fattore decisivo di legittimazione per il progetto sionista. Sottolineano, però, che questo progetto non avrebbe potuto essere coronato da successo in mancanza di una convergenza con gli interessi imperialisti inglesi nel Medio Oriente agli inizi del Novecento. Interessi focalizzati sul controllo del petrolio, in particolare attraverso l’Anglo-Persian Oil Company in Iran (nel 1911 il governo britannico decide di sostituire il carbone con il petrolio come combustibile per la sua flotta navale), e sul controllo del canale di Suez, rotta commerciale che connetteva i mercati europei con l’Est e in particolare con l’India, al tempo baricentro dell’impero britannico. Nel 1916, con l’accordo di Sykes-Picot, Inghilterra e Francia si accordano segretamente per spartirsi i territori dell’Impero Ottomano in vista della sua sconfitta nella Prima guerra mondiale in corso. Nel 1917, con la famigerata dichiarazione di Balfour, gli inglesi danno il via libera alla colonizzazione sionista della Palestina, destinata di lì a poco a diventare un mandato britannico, al fine di costituire una fedele testa di ponte in Medio Oriente in vista della futura indipendenza degli stati arabi.

Dopo la Seconda guerra mondiale, però, lo scenario in questa area geografica cambia radicalmente per effetto dell’intrecciarsi di due diverse dinamiche, come mette in evidenza il testo. In primo luogo il petrolio si afferma come principale fonte di energia per i paesi sviluppati alimentando il boom economico di quegli anni: dal 28% del consumo complessivo di combustibili fossili nel 1950 passa a più della metà alla fine degli anni Sessanta per i paesi più ricchi rappresentati nell’OCSE. Più o meno nello stesso periodo il consumo globale di combustibili fossili raddoppia. A metà degli anni Cinquanta circa il 40% delle risorse accertate di petrolio si trova nel Medio Oriente (soprattutto nei paesi della penisola arabica), un’area che ha anche il vantaggio di trovarsi in prossimità dell’Europa.
Il secondo elemento che cambia lo scenario regionale è l’emergere dell’egemonia statunitense nel quadro della guerra fredda con l’URSS. L’ultimo colpo di coda del colonialismo anglo-francese nell’area è rappresentato dal tentativo nel 1956 di riprendere manu militari, insieme a Israele, il controllo del Canale di Suez, nazionalizzato dal presidente egiziano Nasser, il più importante rappresentante del nazionalismo panarabo. Tentativo bloccato proprio dagli USA (provvisoriamente in accordo con l’URSS) che l’anno successivo formulano la cosiddetta dottrina Eisenhower, implicitamente rivolta contro lo stesso Nasser, dichiarandosi pronti a utilizzare la loro forza militare per difendere l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di ogni nazione del Medio Oriente. Ma è il 1967 a rappresentare il vero momento di svolta che designa Israele come perno di un nuovo sistema di sicurezza egemonizzato dagli Stati Uniti: nella guerra dei sei giorni lo stato sionista ottiene una schiacciante vittoria contro Egitto, Siria e Giordania che gli permette di occupare Cisgiordania, Gaza, alture del Golan e penisola del Sinai (quest’ultima restituita nel 1979 all’Egitto). È un colpo mortale per il nazionalismo panarabo di Nasser la cui maggiore attrattiva, sottolinea il testo, era costituita dal considerare il petrolio come “un inalienabile diritto arabo” in grado di unificare i popoli del Medio Oriente contro l’imperialismo occidentale. Un progetto che trovava supporto popolare in tutta l’area, compresi i paesi che si consolideranno come la seconda gamba dell’egemonia statunitense: l’Arabia Saudita e le piccole monarchie del Golfo.
Il progetto nasseriano, sostenuto dall’URSS, doveva essere sconfitto per consolidare il potere del capitalismo fossile a guida americana e Israele si è prestato a fare il lavoro sporco con la sua potenza militare. Con altri mezzi, ma altrettanto sporchi, era stato sconfitto anche il progetto del premier iraniano Mossadegh, colpevole di aver effettuato la prima nazionalizzazione del petrolio nel Medio Oriente. Un colpo di stato orchestrato da Regno Unito e Stati Uniti nel 1953 fa salire al potere lo Shah Reza Pahlavi, fedele alleato dell’Occidente fino alla rivoluzione del 1979 che si conclude con la fondazione della repubblica islamica guidata dall’ayatollah Khomeini.  

Come testimoniano le vicende iraniane ed egiziane, la lealtà agli USA dei paesi arabi e musulmani è sempre a rischio a causa delle pressioni dal basso delle loro popolazioni. Da questo punto di vista Israele presenta per gli USA un grande vantaggio, legato alla sua natura di colonia di insediamento. In alcuni casi, sostengono gli autori, il capitalismo caratteristico di questo tipo di colonie fa affidamento sullo sfruttamento della manodopera indigena (per esempio in Sud Africa), ma per lo più è spinto dall’imperativo di eliminare, marginalizzare o  rimuovere la popolazione locale, come è accaduto per Israele. Per questo c’è bisogno di una classe lavoratrice non nativa che trae sostanziali vantaggi economici e politici dall’espropriazione degli abitanti originari e che, di conseguenza, è portata ad assumere un carattere sciovinistico.
Allo stesso tempo, le colonie di insediamento tendono a favorire la crescita delle proprie classi capitaliste locali che finiscono per promuovere la separazione politica dalle rispettive madrepatrie pur mantenendo spesso forti legami con esse e fungendo così da avamposti per la loro proiezione imperiale. Il caso di Israele è certamente sui generis, mancando di una madrepatria in senso stretto. Ciò nonostante ha dovuto fare affidamento su un padrino esterno anche dopo la sua nascita. Questo perché, sintetizzano gli autori, le colonie di insediamento, dovendo costantemente rafforzare le strutture di oppressione razziale, sfruttamento di classe ed espropriazione, sono tipicamente società altamente militarizzate e violente che devono fare affidamento sul sostegno esterno per mantenere i propri privilegi materiali in un ambiente regionale ostile. In effetti Israele è il Pese che ha ricevuto di gran lunga più aiuti economici da parte degli Stati Uniti, anche senza considerare i miliardi di garanzie sui prestiti che hanno consentito allo stato sionista di ottenere finanziamenti a basso costo sul mercato mondiale (privilegio, quest’ultimo, che gli USA hanno riservato solo ad altri cinque stati).  

Tanta munificenza non si può certo spiegare con l’influenza delle lobby ebraiche negli Stati Uniti che pure esistono e sono molto potenti. Si può solo comprendere, sottolinea il testo, con il ruolo fondamentale di Israele per gli interessi americani nell’area. Un ruolo che non si esaurisce con la sconfitta di Nasser perché le sfide si moltiplicano, per esempio con la creazione dell’OPEC nel 1960 e la nazionalizzazione del petrolio in molti paesi dell’area durante gli anni Settanta e Ottanta. Processi che avrebbero potuto preludere alla creazione di un polo di potere autonomo se non fosse stato per la continua ingerenza degli Stati Uniti supportati dal loro fedele alleato sionista. In questo contesto, l’interesse americano non è solo quello controllare l’offerta del petrolio sul mercato mondiale, ma anche quello di governare l’immane flusso di denaro che scaturiva dai proventi della sua vendita, soprattutto dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 che fanno impennare il prezzo del greggio. Questioni legate a doppio filo al dominio americano sul mercato finanziario globale a sua volta connesso con il ruolo del dollaro come moneta di riserva mondiale.
A tutto ciò si connette il tentativo di normalizzare i rapporti politici ed economici tra Israele e i Paesi dell’area, con particolare attenzione al secondo polo del dominio americano in Medio Oriente, le monarchie del Golfo. Un esempio di questa politica è rappresentato dal programma delle Qualifying Industrial Zones, istituite per la prima volta alla fine degli anni Novanta in Egitto e Giordania. Queste aree manifatturiere con basso costo del lavoro e attive prevalentemente nel settore tessile e abbigliamento vengono esentate da dazi doganali per le loro esportazioni verso gli Stati Uniti a patto di produrre congiuntamente con investitori israeliani. Meno fortunato è stato il progetto di costituire la Middle East Free Trade Area (MEFTA), un’area di libero scambio che entro il 2013 avrebbe dovuto abbracciare l’intero Medio Oriente. Ciò nonostante Gli Stati Uniti ad oggi hanno stipulato cinque Accordi di libero scambio nell’area (con Israele, Bahrain, Marocco, Giordania e Oman) sui quattordici complessivi che hanno siglato in tutto il mondo. Su questa scia si collocano gli Accordi di Abramo, firmati durante la prima presidenza Trump, che hanno portato Emirati Arabi Uniti e il Bahrain a regolarizzare i propri rapporti con Israele. 

Comprendere le dinamiche capitalistiche che investono il Medio Oriente ci aiuta a spiegare le posizioni dei governi arabi, pronti ad assumere una postura antimperialista per ottenere una facile legittimazione agli occhi dei propri cittadini, purché si rimanga entro i limiti di una retorica fine a sé stessa. Le medesime dinamiche ci consentono anche di comprendere come la società palestinese sia attraversata al suo interno da profonde differenze politiche e di classe, sebbene troppo spesso venga considerata come un tutto omogeneo. Per inquadrare questo ultimo aspetto è utile una breve disamina della situazione che si è sviluppata dopo gli Accordi di Oslo. Con questa intesa, siglata nel 1993, Israele si è limitata a riconoscere l’OLP come legittimo rappresentante dei palestinesi, ma non ha mai accettato il diritto di questo popolo a un suo proprio stato, al contrario della stessa OLP che ha riconosciuto il diritto all’esistenza dello allo stato sionista. Di fatto, Israele ha subappaltato le responsabilità per la sua sicurezza alla neocostituita Autorità Nazionale Palestinese, mentre ha tenuto per sé tutte le leve economiche per governare i territori di Gaza e Cisgiordania.
La moneta, l’energia elettrica, le telecomunicazioni, le risorse acquifere e quelle del sottosuolo, il movimento di merci e persone rimangono infatti sotto il controllo israeliano. Non sorprende che l’interscambio commerciale palestinese abbia come controparte assolutamente preponderante lo stato sionista (74% delle importazioni e 88% delle esportazioni nel 2005). Per di più, la maggior parte delle risorse finanziarie a disposizioni dell’Autorità palestinese, destinate per una quota maggioritaria agli apparati di sicurezza addestrati dalle potenze occidentali, derivano dalle imposte indirette che sono riscosse dallo stato sionista e poi trasferite all’Autorità stessa, salvo essere trattenute ogni qual volta l’esattore lo ritenga opportuno.
In questo contesto, la manodopera proveniente dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza diventa una riserva di lavoratori che può essere assunta o licenziata a seconda delle contingenze economiche e politiche. La tendenza di fondo è però quella di sostituirla con lavoratori stranieri: negli anni immediatamente successivi agli accordi di Oslo, tra il 1992 e il 1996, la quota dei lavoratori palestinesi impiegati in Israele scende dal 33% al 6% della forza lavoro di Cisgiordania e Gaza, mentre i corrispondenti guadagni crollano dal 25% al 6% del PIL di questi stessi territori. Nel 2000, i lavoratori del settore pubblico rappresentano circa un quarto dell’occupazione totale palestinese, un livello quasi raddoppiato dalla metà degli anni ’90. L’altra principale fonte di occupazione è il settore privato dei servizi, dominato in modo schiacciante da piccole imprese a conduzione familiare a causa di decenni di politiche di de-sviluppo israeliane che fanno leva anche sulla frammentazione del territorio palestinese in piccole enclave separate tra loro da colonie, check point, muri e strade ad utilizzo esclusivo degli israeliani.  In questo contesto di particolare importanza è stata la separazione, attraverso un anello di colonie, di Gerusalemme dalle aree circostanti della Cisgiordania perché questa città non rappresentava solo un centro religioso, ma anche il nodo principale delle attività economiche, commerciali e finanziarie dell’intera West Bank.

Allo stesso tempo si consolida un piccolo ma crescente strato di classe capitalistica autoctona che ha finito per dominare i settori più redditizi dell’economia, come le banche e l’edilizia, anche se i segmenti maggiori del capitale palestinese sono rimasti all’estero, soprattutto negli stati del Golfo, dove la componente più benestante della società proveniente dall’ex mandato britannico era emigrata dopo il 1948 e il 1967. Con gli accordi di Oslo una parte di questa facoltosa diaspora è rimpatriata andando a costituire una componente fondamentale della base sociale dell’Autorità palestinese insieme all’élite tradizionale pre-1967 (soprattutto i vecchi proprietari terrieri) e agli strati imprenditoriali che, grazie alle loro connessioni con il potere sionista e con quello palestinese, si occupano prevalentemente di importazione e distribuzione di merci. Una classe che ha promosso le ben note politiche neoliberiste, sponsorizzate dalle istituzioni finanziarie internazionali, favorendo privatizzazioni e tagli della spesa pubblica, fatta eccezione per quella destinata alla sicurezza. In breve, esiste un blocco politico-economico la cui fedeltà alla causa nazionale è indebolita dal suo intreccio di interessi con l’occupante sionista e con gli stati arabi da cui provengono circa metà dei finanziamenti a disposizione di palestinesi.

Tornando allo scenario internazionale, gli autori sottolineano che, nonostante tutti gli sforzi degli Stati Uniti che abbiamo brevemente tratteggiato, negli ultimi anni abbiamo assistito a un’erosione del predominio americano in Medio Oriente legato alla riconfigurazione del capitalismo globale. Stati come Iran, Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno ampliato significativamente il loro raggio di azione politico ed economico, per non parlare del ruolo importante svolto da potenze esterne come Russia e Cina. Il Medio Oriente è stato fondamentale nello spostamento verso est del mercato mondiale: oggi la maggioranza delle esportazioni di petrolio e gas provenienti da quest’area si dirige verso l’Asia, in particolare verso la Cina, piuttosto che verso i paesi occidentali. Per di più, la rete dei rapporti economici che connette il Medio Oriente, la Cina e l’Asia orientale, spazia oramai dalla finanza alle tecnologie “verdi”, dall’intelligenza artificiale all’edilizia e agli investimenti infrastrutturali.
Anche in questa nuova situazione, la politica americana ha cercato di rafforzare i suoi tradizionali orientamenti strategici nell’ambito della continua espansione del capitalismo fossile. Ciò è stato confermato anche con l’annuncio nel settembre 2023 del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa, un’iniziativa sponsorizzata dall’UE e sostenuta dagli Stati Uniti che prevede una rete commerciale e di trasporto per collegare l’India all’Europa attraverso Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Israele e Grecia. Un progetto che si configura esplicitamente come una sfida alla Belt and Road Initiative cinese e che assume particolare rilievo a fronte dell’interruzione dei rifornimenti energetici provenienti dalla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Uno dei principali ostacoli ai progetti guidati dagli Stati Uniti nel Medio Oriente rimane la continua resistenza del popolo palestinese. Per questo, la sua liberazione dal giogo sionista, conclude il testo, non può prescindere dallo smantellamento dell’ordine del capitalismo fossile a guida americana e delle alleanze su cui questo ordine si basa. In altre parole, la straordinaria battaglia per la sopravvivenza condotta oggi dai palestinesi assume un significato che va al di là delle sorti di questo eroico popolo.

La valenza generale della sua lotta è confermata anche dal fatto che il razzismo sistemico nei confronti del popolo palestinese si inscrive nel più ampio quadro di quello oramai dilagante nell’Occidente che si rivolge contro il Sud globale e, in particolare, contro il mondo islamico e gli immigrati. Il pregiudizio etnico-religioso di cui sono oggetto i palestinesi, infatti, parla il linguaggio della guerra al terrorismo ed è giustificato dal bisogno di sicurezza. È lo stesso linguaggio, notano gli autori, che hanno adottato gli Stati Uniti per lanciare la guerra globale al terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e che ha legittimato guerre preventive e omicidi mirati, con una logica del tutto simile a quella utilizzata da Israele contro la resistenza palestinese e gli stati circostanti. Insomma, il razzismo che giustifica il genocidio palestinese come atto difensivo contro il terrorismo la vediamo all’opera in molte altre aree del mondo, insieme all’ampia gamma di armi e di sistemi di sicurezza che, dopo essere stati testati a Gaza e nella Cisgiordania, rappresentano una delle maggiori voci dell’export israeliano.

In questo contesto, il suprematismo occidentale (di cui quello sionista è una singola fattispecie, ma particolarmente rilevante) non deve essere considerato come il mero frutto di pregiudizio etnico o religioso, di un’atavica paura dell’Altro, ma come uno strumento di dominio, espropriazione e sfruttamento a servizio delle potenze capitalistiche. Per questo, possiamo aggiungere in conclusione, per i popoli e le classi sociali che vogliono oggi sottrarsi alla necropolitica del capitalismo contemporaneo, la solidarietà nei confronti dei palestinesi non è soltanto un atto necessario per rimanere umani, ma anche un primo passo concreto verso la propria stessa liberazione. 

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Sillabario della terra di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2025/11/17/sillabario-della-terra-di-giacomo-sartori/ Mon, 17 Nov 2025 21:25:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91576 Piano B edizioni, Prato 2025 pagg 152 € 15,43

Dopo Coltivare la natura (Kellermann 2023) Giacomo Sartori, che scrive prevalentemente romanzi, porta avanti il suo percorso narrativo-scientifico sulla materia che conosce meglio: la terra, i suoli, quella sezione dell’ambiente che ci ospita e ci dà da vivere. E’ un agronomo e un geologo, studia i terreni, indaga sul loro uso e abuso – l’edilizia selvaggia, l’agricoltura intensiva – li ama, quasi in una simbiosi con gli odori, i colori, e ne denuncia il saccheggio e la violenza della società dei consumi. E’ un testo ibrido, in cui le osservazioni storico-scientifiche si [...]]]> Piano B edizioni, Prato 2025 pagg 152 € 15,43

Dopo Coltivare la natura (Kellermann 2023) Giacomo Sartori, che scrive prevalentemente romanzi, porta avanti il suo percorso narrativo-scientifico sulla materia che conosce meglio: la terra, i suoli, quella sezione dell’ambiente che ci ospita e ci dà da vivere. E’ un agronomo e un geologo, studia i terreni, indaga sul loro uso e abuso – l’edilizia selvaggia, l’agricoltura intensiva – li ama, quasi in una simbiosi con gli odori, i colori, e ne denuncia il saccheggio e la violenza della società dei consumi. E’ un testo ibrido, in cui le osservazioni storico-scientifiche si uniscono in osmosi con le esperienze personali del narratore. Racconta il mondo sotterraneo affollatissimo di creature piccole o invisibili sempre in attività, i lombrichi, la infinità di batteri che la rendono un organismo vivente e addirittura senziente, come la Gaia di Asimov. Il testo è illustrato coi disegni a china di Elena Tognoli. Di seguito pubblichiamo la prefazione di Paolo Pileri, professore ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, e alcuni estratti del libro. (MB)

Dare voce alla terra

Innumerevoli volte ho scritto che una delle prime cose che possiamo fare tutti noi per tutelare il suolo è quella di parlarne, di raccontare cosa è il suolo, la sua bellezza, la sua potenza, le sue funzioni ma anche le sue fragilità. Insomma, noi tutti possiamo e dobbiamo, ognuno con le proprie forze e capacità, dare voce al suolo che voce non ha. Ogni speranza di cambiamento ha nell’uso libero della parola il suo primo atto rivoluzionario. Il sillabario di Giacomo Sartori è questo: una forma possibile, e creativa, per tenere viva quella possibilità di cambiamento aiutando il lettore ad acquisire e/o rafforzare le proprie conoscenze e consapevolezze sul suolo così da essere più efficace nel dare voce alla terra e nel far valere i diritti del suolo davanti a chi pretende di aggredirlo. Con un linguaggio accessibile e sempre chiaro, il sillabario riesce a raccontarci cosa è la terra, forse il più antico tra gli ecosistemi. Lo fa attraverso venti storie più un prologo e una conclusione.

Trovo efficace e pulita l’idea del sillabario perché è un modo sincero e originale di raccontare le cose come stanno e per tenerci svegli. Già perché il suolo può morire, come scrive nel prologo. Una tremenda verità contro la quale dobbiamo opporre tutte le nostre forze, inventandoci sempre nuove tattiche perché la terra non può, ma soprattutto non deve, morire. La sopravvivenza del suolo dipende da noi. O spariamo dal pianeta Terra o dovremo imparare a fare un passo indietro che possiamo fare con convinzione se ci sforziamo di conoscere la terra in quanto corpo ecologico allontanandoci dal pensiero unico che la vede solo come risorsa da sfruttare. Ecco allora dispiegarsi nelle pagine, con meritorio tono divulgativo, quelle argomentazioni scientifiche utili a spiegarci i segreti della terra, le sue proprietà, le sue capacità generative. Una spiegazione mai didascalica e neutra, sempre acutamente disincantata perché capace di guardare negli occhi noi uomini predoni e le nostre invenzioni tecnologiche fintamente conservative per il suolo, ma in verità sempre troppo obbedienti agli interessi di giganti globali ovvero quelle grandi multinazionali e imprese, da sempre posizionate laddove si formano e si prendono le decisioni in tema di politiche agricole e quindi di uso del suolo. Giganti globali che hanno spavaldamente dettato l’agenda colturale e culturale tutta la filiera agricola e agroalimentare incuranti del suolo e condizionando le nostre scelte alimentari. Ma il sillabario di Giacomo Sartori è un testo dalla parte del suolo e quindi il suo modo di porsi non poteva che essere di aiuto a vedere con chiarezza i ‘nonsense’ di alcune agricolture o di alcune produzioni alimentari; le esiguità degli studi scientifici sul suolo a causa della carenza di investimenti pubblici in ricerca indipendente; la inazione della politica che continua a non avere il suolo in cima alla propria agenda.

Nel sillabario impariamo che il suolo non si ammala da solo, non viene eroso dalla natura per un vezzo della natura stessa, non perde sostanza organica da solo, né decide di avvelenarsi in una sorta di spirale suicida. Quando qualcosa di ciò accade è perché in qualche punto del sistema siamo intervenuti noi umani rapinando terra, inquinandola, deportandola, sfruttandola e così via. E il sillabario lo racconta aiutandoci a prendere posizione in una società sempre più innaturale che decide con disarmante leggerezza di consegnare a una intelligenza artificiale le redini delle decisioni. Decisioni che così saranno sempre più povere di senso etico. Occorre allora cambiare, e in fretta. Ma per cambiare servono le persone che costruiscono le basi di ogni cambiamento e ci aiutano a vedere come scegliere di evitare lo sfruttamento del suolo nascosto in tante nostre scelte quotidiane che possiamo evitare o migliorare.

L’autore chiude il sillabario svelandoci la doppia sensazione che lo ha spinto a scriverlo. Da un lato il fatto che gli pareva che la terra avesse bisogno di aiuto e questo ci riporta al concetto iniziale di dare voce alla terra così da ingigantire le fila degli alfieri per la sua tutela. Dall’altro c’è il riconoscere che siamo noi ad aver bisogno dell’aiuto della terra. Siamo noi che dobbiamo imparare ad ascoltarla facendoci umili (parola che deriva da humus, peraltro) per poi, come dicevo, ripensare completamente i diversi modi con i quali interagiamo e impattiamo, ovvero abitiamo la terra e la Terra. Se al nostro pianeta i nostri antenati meno incoscienti di noi hanno dato il nome Terra è perché sapevano bene e meglio di noi quale fosse la parte più importante del globo su cui abitiamo e la prima di cui prenderci cura: la terra con la t minuscola. Eppure noi abbiamo scordato tutto ciò e ci muoviamo con spavalderia e la disgrazia di elefanti in una cristalleria.

Termino ricordando che, sebbene il libro guardi in prevalenza al suolo nel mondo agricolo – l’autore, lo ricordo di nuovo, è un agronomo –, i suoli sono fortemente minacciati dall’aggressione spietata operata dalle trasformazioni urbanistiche volute dall’uomo in nome di quel che lui chiama ‘sviluppo’, una parola che dobbiamo far uscire di scena.

Questo libro è quindi da consigliare a tutti perché tutti abbiamo bisogno di tenere gli occhi ben aperti e arricchire le nostre parole in difesa del suolo.

Estratti

Vocazione p. 10
Adesso però ero a mio agio, ero in sintonia con la terra. Ora la sentivo respirare, percepivo che stava solo attendendo, sotto la sua apparenza tramortita. Sapeva che alla lunga l’avrebbe vinta lei, la tracotanza degli uomini li avrebbe portati alla sconfitta. Non lo intuivo, ma ormai la terra mi aveva preso, non mi avrebbe più
lasciato.

Pedologi p. 28-29
Anch’io sono un pedologo, quando sono in una buca perdo la cognizione del tempo e di me stesso, e mi lascio cullare dagli odori di umido e di funghi. Mi sforzo di cogliere quanti più dettagli possibile della sezione terrosa che ho davanti, e questa tensione mi assorbe completamente. Forse proprio perché so bene che molti aspetti mi sfuggono, e che non posso capire tutto. Ma certo non si tratta di una pura concentrazione cerebrale con qualche spruzzatina filosofica, le sensazioni fisiche restano sempre presenti. Spesso chi mi sorprende così dedito mi domanda qual è il mio vero impiego, non possono pensare che quello sia un lavoro retribuito.

I colori della terra p.39
I colori della terra hanno pochi ingredienti, che sono facili da reperire. Il pigmento fondamentale è costituito dagli ossidi di ferro, i quali hanno un legame molto stretto con il clima. Nelle regioni calde o comunque con una stagione calda e secca, come quelle mediterranee, hanno gradazioni rossastre o decisamente rosse, e insomma rugginose. Sono le Terre rosse che tutti conosciamo. E anche quando il clima si avvicina a quello mediterraneo, senza esserlo davvero, come in molte zone del nord Italia, i toni tendono al rosellino o al bruno arrossato. Le varie sfumature terra di Siena, per intenderci.

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Camera senza vista https://www.carmillaonline.com/2025/11/16/camera-senza-vista/ Sun, 16 Nov 2025 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91529 di Emanuela Monti

Si era decisa a cercare casa troppo tardi. Aveva aspettato la sua amica del cuore, sperando di andare a a vivere con lei, ma poi Francesca aveva rinunciato all’idea di trasferirsi a Perugia.

Anna invece voleva andarsene dal paese. Voleva allontanarsi a ogni costo da quel luogo tossico. Aveva un amore finito alla spalle e poi era stanca della sua vita monotona, di quelle facce che invecchiavano prima del tempo e di quelle quattro vie, percorse milioni di volte da quando era bambina.

Era stanca soprattutto di suo padre, che le sbraitava contro per ogni sciocchezza e le [...]]]> di Emanuela Monti

Si era decisa a cercare casa troppo tardi. Aveva aspettato la sua amica del cuore, sperando di andare a a vivere con lei, ma poi Francesca aveva rinunciato all’idea di trasferirsi a Perugia.

Anna invece voleva andarsene dal paese. Voleva allontanarsi a ogni costo da quel luogo tossico. Aveva un amore finito alla spalle e poi era stanca della sua vita monotona, di quelle facce che invecchiavano prima del tempo e di quelle quattro vie, percorse milioni di volte da quando era bambina.

Era stanca soprattutto di suo padre, che le sbraitava contro per ogni sciocchezza e le piombava in camera all’improvviso, spegnendole di prepotenza lo stereo perché il volume era troppo alto. Era stufa di sua madre, che le dava della “zingara” perché la sua camera era sempre in disordine e le chiedeva se non si vergognasse, “una donna di vent’anni, una donna in età da famiglia”, a tenere la propria stanza in quello stato.

No, Anna, che oltretutto aveva diciotto anni, e non venti, come le rammentava sempre sua madre, non si vergognava. Semmai la imbarazzava fingere di studiare, per evitare di essere chiamata ad aiutare, giù nella botteguccia di alimentari. E non per motivi di ordine morale: si vergognava davanti a se stessa, per quel suo sentirsi in dovere di fare la messinscena.

Se non fosse stata così vile e così orgogliosa le avrebbe urlato contro che in fondo lei non doveva niente a nessuno, perché non l’avevano mai amata.

Ma siccome questa spavalderia le faceva difetto, Anna vedeva nell’università l’unica via di fuga. Era sempre stata una studentessa brillante, nonostante l’impegno discontinuo, e i suoi trovavano naturale che approdasse all’università. Del tutto fuori luogo giudicavano invece l’idea che Anna si trasferisse a Perugia, ma lei aveva fatto un’opera di persuasione molto sottile, convincendoli che per via dell’obbligo di frequenza era impossibile fare la pendolare: si sarebbe ammazzata di stanchezza e poi, a conti fatti, tra biglietti dei mezzi pubblici, colazioni e panini al bar, avrebbe finito per spendere di più. Di fronte a questa argomentazione, come Anna aveva previsto, ogni loro resistenza era crollata.

Anna si ritrovò così, a metà novembre, a cercare un posto letto in affitto a Perugia.
Nella bacheca della facoltà c’era rimasto ben poco e i prezzi, anche solo dei posti letto, erano alle stelle. Alla fine notò un annuncio per una camera in appartamento con altre studentesse. Il prezzo era ottimo e Anna immaginò che ci fosse sotto qualche imbroglio, tuttavia provò a telefonare e fissò un appuntamento.

Il palazzo era proprio in centro. Aveva un magnifico atrio, che immetteva in una corte interna abbellita da aiuole di camelie e rododendri e da statue antiche. Anche l’appartamento era d’epoca, con pavimenti in marmo a scacchiera e soffitti molto alti, e la ragazza che glielo mostrava, sebbene sembrasse uscita da una rivista patinata, pareva cordiale.
L’appartamento era suo e lo divideva con due amiche, con le quali aveva frequentato il liceo e con le quali si era poi iscritta a Economia. Siccome le spese condominiali erano piuttosto alte e le seccava chiedere i soldi alle amiche o al padre, aveva deciso di affittare una stanza che si trovava in fondo al corridoio.

Nell’avvicinarsi alla stanza, non senza imbarazzo, Eleonora disse che la camera era grande e che però, essendo nata come guardaroba, non aveva finestra.

Anna pensò con sgomento: “sarebbe come stare in una tomba”. Ma poi si disse che, a dispetto delle finestre, anche la sua casa al paese per lei era come una tomba e scorrendo nella mente l’immagine delle tre stanze in cui consumava la sua esistenza grigia, ricordò che di notte le capitava spesso di svegliarsi di soprassalto, con la sensazione di essere morta e le sagome degli oggetti familiari popolavano il suo inferno silenzioso, come anime di dannati.

E poi la sistemazione nella stanza senza finestre poteva essere una soluzione provvisoria. Avrebbe cercato qualcosa di meglio, quando si fosse ambientata.

Eleonora disse che comunque, se voleva, poteva studiare nel salone e utilizzare la stanza senza finestre soltanto per dormire.

Così Anna si convinse e due giorni dopo si trasferì a Perugia.
I primi giorni trascorsero sereni. La situazione cambiò quando arrivarono Silvia e Marella.

Marella in particolare si rivelò una pessima compagna di appartamento. Era una ragazza altezzosa, che riservava ad Anna quel minimo di cortesia impostole dall’educazione, ma che dava chiaramente a intendere di non voler approfondire la conoscenza. Di sicuro la scelta della stanza senza finestre era bastata a farle giudicare Anna una pezzente. Qualsiasi dubbio residuo fu comunque spazzato via la sera in cui Marella le chiese in modo esplicito: “di che cosa si occupa tuo padre?”. La risposta “ha una bottega di alimentari” fu accolta da uno sguardo di gelo e da un silenzio penoso e segnò l’alba e il tramonto della relazione tra Anna e Marella.

Il peggio è che Marella aveva un forte ascendente su Eleonora e Silvia, per cui, quando erano tutte e tre insieme, non degnavano Anna di alcuna considerazione.

A tavola le tre amiche scartavano i loro pacchettini di alta gastronomia e chiacchieravano senza sosta, escludendo Anna dalla loro conversazione. Talvolta le rivolgevano un distratto “ne vuoi?” e riprendevano a parlare, senza neppure aspettare la risposta, che, comunque, era sempre negativa. Anna infatti si sentì a disagio fin dal primo momento e le sarebbe parso di umiliarsi assaggiando una delle loro prelibate insalate russe o quel patè di salmone per cui Marella andava pazza. Quindi Anna mangiava in fretta il suo piatto di pasta e si ritirava in camera sua.
Col tempo si stufò di sostenere una parte che in fondo nessuno le aveva richiesto e cominciò a consumare i pasti quando le altre erano fuori o quando avevano già mangiato. E presto smise anche di studiare nel salone o di trascorrere la serata, come le era capitato a volte i primi giorni, insieme alle compagne di appartamento.
Quando non usciva, passava il tempo nella sua stanza senza finestre.

Non aveva ancora stretto molte amicizie, ma una compagna di corso le aveva proposto di studiare insieme. Così ogni pomeriggio si incontrava con Lisa in facoltà e non tornava a casa prima delle sette. In questo modo riusciva a tenere lontano il pensiero della stanza senza finestre.

Quando usciva dall’università, però, l’angoscia l’assaliva e non l’abbandonava più fino al mattino. Dormiva poco e male. Le sembrava di trascorrere la notte in uno stato di dormiveglia continuo e al mattino non riusciva a ricordare i sogni che forse aveva fatto.

Anche qui, di colpo, aveva la sensazione di essere morta, ma nell’oscurità assoluta della stanza senza finestre non riusciva neppure a intravedere le sagome minacciose degli oggetti. Ne percepiva comunque la presenza. Presto si animavano e li sentiva strisciare, bisbigliare, sibilare. Nel buio ogni rumore si amplificava e la sopraffaceva.
Anna voleva andarsene da lì, ma non aveva soldi e al paese non ci voleva tornare.

Quello sarebbe stato ancora peggio. Almeno di giorno a Perugia respirava e ogni momento poteva portare con sé un’esperienza nuova e nuove possibilità.

Come la sera in cui Lisa la invitò a teatro. Davano l’Amleto di Shakespeare e Anna non si fece ripetere due volte l’invito.

Indossò un vestito nero dalla linea diritta e si truccò con cura, ma in modo leggero. Lisa insisté per prestarle degli orecchini di ametista, che si intonavano al grigio screziato dei suoi occhi, esaltandone lo splendore.
Quella sera si sentiva bella e le sembrò che per strada la gente si voltasse a guardarla. Quella sensazione andò aumentando nel foyer del teatro, durante l’intervallo, quando si sentì sfiorare dalla sguardo di molti uomini. Di uno in particolare si accorse, forse perché si distingueva subito in mezzo alla folla azzimata, per l’abbigliamento meno ricercato, ma soprattutto per la bellezza e la nobiltà dei lineamenti.

Dirigendosi con Lisa verso il bar, Anna gli passò accanto tenendo gli occhi bassi per la timidezza, ma proprio allora si sentì chiamare da qualcuno che stava in piedi vicino a lui. Con disappunto riconobbe Eleonora e, dietro di lei Silvia, che la salutarono stupite. Anna farfugliò qualcosa mentre sentiva il suo viso farsi di brace.
Con l’audacia garbata che solo gli uomini affascinanti possono permettersi, Alberto si presentò, senza aspettare che le ragazze intercedessero per lui. Ci tenne a precisare che era il cugino di Eleonora e quindi chiese scherzando se anche Anna fosse destinata a diventare una donna in carriera. Anna scosse la testa sorridendo e rispose che studiava filosofia, ma non sapeva ancora che avrebbe fatto da grande.

Dopodiché, temendo di diventare importuna, salutò e si allontanò con Lisa.
Era agitata da sensazioni e pensieri contrastanti: da un lato la certezza che Alberto l’avesse notata tra tutte le altre, dall’altro lo sconforto più nero all’idea che Alberto venisse a sapere qualcosa sul suo conto tramite Eleonora e le sue amiche. Era facile immaginare i commenti che potevano fare su di lei. Per un attimo le sembrò di sentirle parlare sul serio, le sentì ridacchiare mentre Marella chiedeva: “com’è che la zombie è uscita dal loculo?”

Si perse il seguito perché Lisa interruppe il corso dei suoi pensieri, chiedendole qualcosa, ma per tutta la serata provò un dolore acuto all’idea che le compagne di appartamento l’avessero ridicolizzata.

In effetti avrebbe preferito che Alberto non l’avesse degnata di uno sguardo. Aver destato il suo interesse per poi essere fatta a pezzi ai suoi occhi dall’ironia di Marella senza alcuna possibilità di difesa le pareva una beffa. Così sperò di non incontrarlo mai più. La mattina dopo, però, mentre usciva dal bagno, sentì che Eleonora diceva a Marella: “indovina chi viene a cena stasera?”

Marella non indovinò. Anna invece intuì subito che Eleonora si riferiva ad Alberto. Per un momento provò il piacere del trionfo, perché l’istinto le diceva che l’onore di quella visita era tutto per lei, ma il piacere si spense subito, sopraffatto dall’orrenda prospettiva di una serata con loro nel ruolo dell’esclusa oppure da sola nella stanza senza finestre. Così decise che non sarebbe rientrata per cena.

Trascorse la serata fuori con due compagni del liceo e per alcuni giorni non vide Alberto, né sentì parlare di lui.
Una sera però, uscendo dalla facoltà, vide qualcuno staccarsi dal muro di cinta e farlesi incontro.
“Ciao Anna, mi riconosci?”
“Sì, che ci fai qui?” chiese lei in modo brusco.
“Ti aspettavo. Sono giorni che ti dò la caccia. Mi sono anche fatto invitare a cena da mia cugina, ma tu non c’eri. E ogni volta che vengo lì da voi sei sempre fuori”
“Sono una zombie anomala. Entro nella tomba di notte e di giorno vago tra la folla”, disse Anna con tono di sfida, nell’intento di suscitare una reazione rivelatrice.
“Perché? Che è questa storia della tomba?”
“Non ti hanno raccontato che dormo nella stanza senza finestre?”
“Quale stanza? Vuoi dire il guardaroba? Io pensavo che dormissi nel salone!”
L’espressione di Alberto sembrava sincera e Anna si rese conto che non avevano detto niente di lei. Dopotutto che c’era di strano? Erano talmente disinteressate alla sua esistenza che forse non la prendevano neppure in giro.
Anna pensò che avrebbe potuto evitare quell’accenno, ma dopotutto forse era meglio così. Meglio che Alberto sparisse subito, se doveva sparire.

Alberto invece non lo fece. Le restò accanto per oltre quattro anni.
Anna non dormì più nella stanza senza finestre, ma nell’attico di Alberto, un open space di ben 200 metri quadri, dove di finestre ce n’erano otto e da cui si dominava tutta la città.

Condivisero tutto e ad Anna parve che davvero nulla potesse dividerli. Alberto era diverso dalla sua famiglia. Non ostentava la propria estrazione sociale, non giudicava la gente per quello che possedeva. Anzi, non giudicava affatto, perché era una persona nobile e disinteressata.
Anche quando la lasciò lo fece con nobiltà.

Alberto frequentava la scuola di cinematografia sperimentale di Roma da un anno, quando un compagno di corso gli propose di partecipare al progetto di un film in Spagna.

Anna rimase da sola a casa di Alberto. Aveva declinato l’invito ad accompagnarlo in Spagna, con la scusa degli ultimi esami e della tesi. Qualche anno prima non avrebbe esitato a infilare qualche cambio d’abito in valigia e partire con lui, ma ora, ora aveva la sensazione che qualcosa di impercettibile, di infinitamente piccolo, ma con una portata devastante, si fosse insinuato tra loro e fosse sopraggiunto a turbare l’equilibrio del loro rapporto.
Alberto stava scoprendo un mondo nuovo e lo stava facendo senza di lei; stava crescendo senza di lei e ad Anna pareva che la sua immagine stesse impallidendo sullo sfondo.

Improvvisamente, con Alberto, le capitava di sentirsi di troppo e l’imbarazzante vestito color carta da zucchero che suo padre indossava per le feste comandate tornò a pesarle.

Non c’era nulla che potesse rimproverare ad Alberto; come sempre era pieno di attenzioni per lei. Facevano meno spesso l’amore, ma questo in fondo era naturale, dopo diversi anni. Era naturale, si diceva, ma non per lei. Era addestrata al disamore e aveva sviluppato antenne potentissime, così, nel profondo, si ostinava a leggerci i prodromi della fine.

Scelse di passare anche le vacanze estive da sola, in un orgoglioso isolamento, fingendo di studiare, in realtà aspettando con il cuore in gola le telefonate di Alberto dalla Spagna. Ma non le aspettava con gioia. Ora aveva paura. Aveva paura di lui e di quel suo mondo nuovo, da cui era tagliata fuori.
Aveva paura di sentirsi dire con delicatezza, perfino con dolcezza, che si era innamorato di un’altra, finché Alberto lo fece davvero. Finalmente pronunciò quelle parole e Anna provò un dolore lancinante mischiato a un senso di sollievo.

Alberto le disse che poteva rimanere nel suo attico fino alla laurea e magari dopo, se ne avesse avuto bisogno. Lui si sarebbe trasferito a Madrid dalla sua nuova ragazza, che aveva a disposizione un grande appartamento, perché era figlia di un diplomatico.

Ecco, ora tutto tornava. Tutto si concludeva com’era nell’ordine delle cose.
Anna ovviamente declinò l’offerta. Meglio una stanza senza finestre, meglio una camera senza vista, piuttosto, si disse.

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Cronache da un paese che non esiste. Forse https://www.carmillaonline.com/2025/11/15/cronache-da-un-paese-che-non-esiste-forse/ Sat, 15 Nov 2025 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91333 di Francesco Gallo

Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta. Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana, pp. 264, € 20, Blackie, Milano 2025.

1. Tra le più importanti espressioni di quel “revival magico” che tra gli anni Sessanta e Settanta ebbe luogo nel nostro Paese – un rinnovato interesse verso l’occulto in espressioni tanto “artistiche” quanto “reali”: da un lato, opere di finzione come il film Giulietta degli spiriti (1965) di Federico Fellini, il best seller Non è terrestre (1969) di Peter Kolosimo, lo sceneggiato Il segno del comando (1971) di Daniele Danza; dall’altro, la proliferazione di [...]]]> di Francesco Gallo

Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta. Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana, pp. 264, € 20, Blackie, Milano 2025.

1.
Tra le più importanti espressioni di quel “revival magico” che tra gli anni Sessanta e Settanta ebbe luogo nel nostro Paese – un rinnovato interesse verso l’occulto in espressioni tanto “artistiche” quanto “reali”: da un lato, opere di finzione come il film Giulietta degli spiriti (1965) di Federico Fellini, il best seller Non è terrestre (1969) di Peter Kolosimo, lo sceneggiato Il segno del comando (1971) di Daniele Danza; dall’altro, la proliferazione di medium, cartomanti e sedicenti parapsicologi come, per esempio, il sensitivo Gustavo Rol – occorre menzionare, sicuramente, “I misteri d’Italia” di Dino Buzzati: un insieme di pezzi giornalistici, commissionati e pubblicati sul “Corriere della sera” nel 1965, pubblicati da Mondadori nel 1978.
Con l’obiettivo di narrare alcuni dei personaggi più strani, originali, stravaganti, e, perché no, anticonformisti che popolavano, e, in certi casi, popolano ancora (per fortuna e per sfortuna, dipende dai casi), il nostro Paese, l’esponente più autorevole del fantastico italiano (assieme a Italo Calvino e Tommaso Landolfi) traccia i contorni di uno spettacolo che, nei suoi momenti migliori, possiede la precisione fantasmatica dei paesaggi delle fiabe.
La penna di Buzzati – sempre distante da qualsiasi intellettualismo – passeggia in mezzo alle figure talvolta bizzarre, talvolta strampalate, del suo vastissimo diorama letterario, portandoci a fare la conoscenza, tra gli altri, di: Giuseppe Maria Abbate fu Carmelo, un barbiere siciliano che, trasferitosi a «Nuovaiorche», afferma «di avere abitato su Marte e di essere un Messaggero Celeste presso gli uomini»; Melissa, la «strega del Gran Sasso», la quale vive in un borgo sperduto «tra boschi, ripidi prati e magri campi» e di se stessa, affranta, racconta: «Pianse la mamma quando io nacqui, per giorni e notti mi hanno detto che pianse, e morì pochi mesi dopo, credo che morì proprio per questo, perché ero nata io figlia maledetta. […] Settima femmina di una famiglia senza maschi, nata al settimo mese avvolta nella placenta, sette e sette, numero della malasorte. Chi mai nacque più strega di me?».
Detto ciò, a una prima occhiata, ma, attenzione: soltanto a una prima occhiata, potremmo essere portati a sistemare accanto a “I misteri d’Italia” di Dino Buzzati anche questo ultimo lavoro di Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta (Blakie Edizioni), dotato di un sottotitolo che recita: Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana.

2.
Già autore di programmi televisivi (Le invasioni barbariche, Dilemmi), libri (Figli delle stelle, Teneri violenti, Letà della tigre) e podcast (tra i tanti, La torre e il borgo fantasma, la storia di alcune delle più importanti colonie estive del Novecento: è bellissimo), Ivan Carozzi da qualche anno porta avanti, assieme al giornalista Enrico Deaglio (che di Cronache dall’Italia nascosta firma una pregevolissima prefazione), la stesura di una serie di volumi di storia – C’era una volta in Italia, si chiamano – di cui, per il momento, sono stati pubblicati: Gli anni sessanta (Feltrinelli, 2023) e Gli anni settanta (Feltrinelli 2024).
Forte di un approccio dichiaratamente “pop”, istruttivo e curioso (apprezzato sia da chi le decadi in questione le ha vissute sulla propria pelle e sia da chi le ha studiate tra le pagine dei sussidiari), la narrazione, impreziosita da un vastissimo apparato iconografico dalle scelte mai scontate, ripercorre una selezione significativa degli eventi, tra fatti noti e meno noti, che hanno contrassegnato l’arco temporale che va dal cosiddetto miracolo economico italiano (siamo alla fine degli anni ’50) agli attentati dell’11 settembre 2001. (Non a caso, la serie dovrebbe concludersi con Gli anni Duemila.)
Sarebbe facile, a questo punto, cadere nella convinzione che tra i mille e mille fatti (e Fattacci, per dirla con un bel libro di Vincenzo Cerami) raccolti da Deaglio e Carozzi – una über narrazione che tiene insieme la crescita vertiginosa dell’industria, la contestazione giovanile, la strategia della tensione, gli “anni di piombo” e le tante riforme sociali ed economiche vissute e subite dal Paese – ce ne siano stati alcuni che sono stati esclusi. Per una ragione o per l’altra.
In un caso, Cronache dall’Italia nascosta sarebbe da considerare una raccolta di postille, di chiose, di paralipomeni. Un’appendice, al massimo. Una parte qualitativamente simile a C’era una volta in Italia ma aggiunta a mo’ di aggiornamento, o completamento, in un secondo momento.
Nient’affatto, però.

3.
Il volume – che beneficia della bella copertina di Cristóbal Fortúnez e di una meritevole confezione grafica a cura di Luis Paadín e Tiziana Bonanni, che è uno dei marchi di fabbrica delle Blackie edizioni – è suddiviso in venti sezioni. Tante quante sono le regioni d’Italia.
Ogni sezione è introdotta da una Carta d’identità sentimentale che in breve riporta: il numero degli abitanti (così con stupore si apprende che in Sardegna vivono più persone che in Liguria), il reddito medio pro capite (che in Calabria è meno della metà di quello in Trentino Alto Adige), i cognomi tipici – Sabbatini nelle Marche (!), Magnani in Toscana (!), Proietti in Umbria (!) –, gli edifici e luoghi simbolo (Castel del Monte, in Puglia, che ha ispirato a Umberto Eco la pianta della biblioteca ne Il nome della rosa), le espressioni peculiari («Tasi e tira», tradotto: «Taci e continua a marciare» in Veneto), le scene madri (la camminata di Delia, vestita di un abito rosso leggero, ne L’amore molesto di Mario Martone, in Campania), lo spirito guida (Robert De Niro che cinquant’anni fa in segreto visitò il paese dei suoi bisnonni, Ferrazzano, in Molise, all’epoca in cui girò Novecento di Bernardo Bertolucci) e, per finire, gli alberi degni di nota (il S’Ozzastru, un olivo selvatico alto quattordici metri, in provincia di Sassari, in Sardegna, con un’età stimata tra i tremila e i quattromila anni).
La varietà tematica mostrata ribadisce il talento di Carozzi in quanto esploratore infaticabile di archivi. Nella prefazione, Deaglio lo definisce: «un Indiana Jones della celluloide, oltre che del rotocalco». La passione per la scrittura, invece, testimoniata da una successione di incipit sempre efficaci, dalla scelta di punti di vista capaci di valorizzare la materia trattata, dal desiderio di non spiegare sempre ogni cosa ma di lasciare a chi legge il compito (la libertà) di interpretare; tutto questo, ecco, testimonia la bravura di Ivan Carozzi in quanto scrittore tout court. Scongiura, inoltre, il pericolo che queste Cronache terminino la loro corsa editoriale in mezzo a quei volumi – interessanti, ma destinati a un altro pubblico – come l’Atlas Obscura di Joshua Foer e Dylan Thuras (Mondadori) oppure l’Atlante delle zone extraterrestri di Bruno Fuligni (L’Ippocampo).
Perché ci pare di cogliere in filigrana, come spiando le nervature di una foglia in controluce, uno stile che, nei suoi aspetti più sognanti, sa rendere omaggio al Dino Buzzati de “I misteri d’Italia” e de Le cronache terrestri («Lo stile di Jacques Couëlle, architetto autodidatta che lavorò in Costa Smeralda, potrebbe sembrare un furto ai danni del bizzarro mondo neolitico di Bedrock, il villaggio dove i protagonisti del cartone animato The Flintstones si spostano tra banche, aeroporti e centri commerciali fatti di grandi pietre megalitiche.»), mentre nelle sue capacità analitiche più riuscite («Se l’habitat naturale di una biglia è il quadretto vivace della spiaggia, con gli ombrelloni, le sedie sdraio e il suono cullante e ASMR della risacca, qui la biglia è collocata in uno spazio alieno: un brandello di sprawl padano, con tanto di affaccio sulla A14.») richiama le contaminazioni del Luciano Bianciardi de La vita agra (1962).

4.
La lettura di Cronache dall’Italia nascosta procede in maniera spedita e leggera, comunque. L’offerta delle storie è abbondante. (Ottantatré in totale.) Non annoiano e non saziano. Mai. Nonostante Carozzi neppure una volta sacrifichi, laddove lo ritiene opportuno, la possibilità di un approfondimento, oppure la convenienza di una digressione. (Anche perché, in un libro come questo, distinguere tra le due cose è piuttosto difficile.)
Ecco di seguito qualche esempio.
In Piemonte conosciamo Elva, uno dei comuni più poveri della Penisola, dotato di una popolazione stimata di 77 abitanti e di un’economia (conservata fino agli inizi del XX secolo) legata alla compravendita dei capelli. Merito delle persone che lavorano come «cavié», come «pellassier»: «[…] si spostano dalla montagna verso le valli e poi nelle campagne e nelle città della pianura, a Cremona, a Parma, a Reggio Emilia, in Friuli e in Veneto, per acquistare capelli, meglio se pettinati in lunghe trecce. Dormono dove capita, in fienili, stalle e granai. Una volta sforbiciati, i capelli finiscono in fondo a un sacco di iuta e quando i sacchi sono pieni, i “cavié” risalgono a Elva.»
In Basilicata, durante una serie di spedizioni, l’antropologo e filosofo Ernesto de Martino finisce per cadere sotto l’effetto (l’incantesimo?) di un paesino – Valsinni, vicino Colobraro, in provincia di Matera – con la fama di portare sfortuna: «[…] l’équipe aveva fissato un appuntamento con uno zampognaro, che de Martino avrebbe dovuto intervistare e registrare. Peccato che quando arrivarono in paese vennero informati di una tragica notizia: lo zampognaro era morto lungo il tragitto, in seguito a un incidente stradale. Il giorno dopo de Martino si presentò in casa dell’uomo per fare le proprie condoglianze e registrare su magnetofono il lamento funebre. Raccolte intorno alla bara, le donne e la moglie del defunto salmodiavano: “Sei caduto in mezzo alla via con la tua zampogna, sei caduto in mezzo alla via con la tua zampogna”. Come l’antropologo mise piede nella stanza, le donne modificarono il canto: “Ecco il forestiero biondo che è venuto a salutarti, ecco il forestiero biondo che è venuto a salutarti”. De Martino, a disagio, decise di andarsene e rinunciare alla registrazione.»
Nell’avvicendarsi di queste Cronache, tuttavia, la presenza di elementi, non certo di tipo sovrannaturale, ci mancherebbe, ma, per dire più correttamente, di tipo onirico, non mancano.
Nel Lazio, a Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo, c’è la Torre di Chia, «l’ultimo rifugio» di Pier Paolo Pasolini: «[…] 42 metri di altezza, pianta pentagonale e mura merlate in stile ghibellino. […] Basta guardare qualche foto per provare il desiderio d’infilarsi prima o poi in quei luoghi, magari in un mattino di novembre, con le foglie fradicie che scricchiolano sotto le scarpe.» Dopo l’assassinio del Poeta, nel 1975, gli eredi di Pasolini non erano più stati in grado di pagarne le spese di manutenzione. Venne acquistata da un attore, Gabriele Gallinari: «[…] solo dopo aver fatto, disse, un sogno: “Forse era anche giusto che la casa diventasse un bene pubblico. Per un mese non ci ho quasi pensato più, fino a quando una notte non ho sognato di stare seduto in una casa di vetro e di vedere passare Pasolini che sorrideva a bordo della sua Alfa Romeo. Ho considerato quel suo sogno come il nulla osta di cui avevo bisogno.”»

5.
Lo spirito guida che aleggia tra le pagine di queste Cronache, tuttavia, non è quello di Luciano Bianciardi e non è quello di Dino Buzzati – che pure appare, in queste Cronache dall’Italia nascosta, a San Pellegrino, in provincia di Belluno, in Veneto, mentre, da una delle finestre della casa avita, osserva, nel gruppo montuoso delle Dolomiti, la sua montagna preferita, la Schiara, che ha il potere di trasformare, in una fantasia pittorica dello scrittore intitolata La piazza del Duomo di Milano, l’oscura cattedrale meneghina: «[…] in un bianco massiccio gotico-dolomitico, di fronte al quale non ci sono passanti, lampioni, colombi, automobili che si fanno largo a colpi di clacson, ma un sereno prato verde, tutto scaldato dal sole, con tanto di alberelli, covoni di fieno e contadini intenti a falciare l’erba in bucolica solitudine». Invece di apparire in un pentacolo tracciato sulle assi scricchiolanti di una polverosa soffitta, lo spirito guida di queste Cronache si manifesta tra le strade anguste di una piccola città situata nelle Marche: Ascoli Piceno. Risponde al nome di Giorgio Manganelli.
Tra il 1980 e il 1995, lo scrittore Clio Pizzingrilli diresse una misconosciuta rivista: Marka. Un giorno, tramite l’invio di una lettera, Pizzingrilli chiese a Manganelli un contributo. Un contributo breve; due, tre cartelle al massimo. A proposito di una città di periferia: Ascoli Piceno, appunto. Dove Clio Pizzingrilli era nato. Dove la rivista, Marka, veniva stampata e pubblicata. Dove Manganelli, però, non sapeva o non ricordava di essere stato mai. La sua risposta fu uno strabiliante trucco di magia. Spalancando le porte della scrittura al gusto dell’incertezza, del sospetto e della titubanza, e affidandosi a un totale scetticismo nei confronti della “realtà”, Manganelli mise in dubbio l’esistenza stessa di Ascoli Piceno. Siccome: «[…] nessun ricordo dà la certezza che qualcosa sia veramente accaduto. […] se Ascoli Piceno esistesse, e quindi potrebbe, niente più che potrebbe, esistere una rivista, e se questa rivista mi chiedesse un racconto di due-tre cartelle, io risponderei positivamente? Non credo. Io non scrivo facilmente, non scrivo se me lo chiedono, la mia fantasia è pigra e viziosa, sono di cattivo carattere e sebbene troppo vigliacco per essere litigioso, sono certamente rancoroso.»
Quanto Carozzi scrive a proposito di Manganelli – il quale: «[…] offre un ritratto della società […] e della sua borghesia professionale» – ci sentiamo di poterlo scrivere noi a proposito di queste Cronache dall’Italia nascosta.

6.
Esiste l’Italia?, pare chiedersi Carozzi. E risponde: sì, certo. Assolutamente sì! Questo suo racconto (dei racconti) ne scopre, e recupera, alcune delle storie, dei luoghi e dei personaggi più straordinari; rimossi, censurati, abbandonati. Grattando lo strato di ruggine che impedisce di scorgere l’essenza intima delle cose, Carozzi tenta la sistematizzazione di un mosaico che, sebbene il più delle volte si mostri ai nostri occhi in una forma irriconoscibile per colpa della sua secolare bruttezza, incivile e criminale, certe altre riesce ancora, attraverso la sua effimera bellezza, ad abbagliarci e a colmarci di meraviglia.

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Itinerari da nessun luogo (Victoriana 59/2) https://www.carmillaonline.com/2025/11/14/itinerari-da-nessun-luogo-victoriana-59-2/ Fri, 14 Nov 2025 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91488 di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

Agendo da uomini, falliremo da uomini

William Morris, Il sogno di John Ball, a cura di Wu Ming 4, pp. 144, € 15, Alegre, Roma 2025.

“A volte il mio grande impegno nelle questioni del presente viene ripagato da un bel sogno inatteso. S’intende quando dormo”: e il narrante si trova così proiettato non in un “sogno a tema architettonico”, come facilmente gli dona l’amore competente per quell’aspetto della cultura britannica, ma in un paesaggio di campagna, con gente vestita in modo arcaico. Anche lui si scopre paludato da abiti di un’epoca molto [...]]]> di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

Agendo da uomini, falliremo da uomini

William Morris, Il sogno di John Ball, a cura di Wu Ming 4, pp. 144, € 15, Alegre, Roma 2025.

“A volte il mio grande impegno nelle questioni del presente viene ripagato da un bel sogno inatteso. S’intende quando dormo”: e il narrante si trova così proiettato non in un “sogno a tema architettonico”, come facilmente gli dona l’amore competente per quell’aspetto della cultura britannica, ma in un paesaggio di campagna, con gente vestita in modo arcaico. Anche lui si scopre paludato da abiti di un’epoca molto precedente la vittoriana: e camminando giunge in un villaggio dove un omone lo invita bonariamente a una taverna. Tale l’inizio, venato d’ironia affettuosa, di A Dream of John Ball di William Morris, pubblicato a puntate sul settimanale socialista “Commonweal” 1886-1887, e uscito in volume l’anno dopo: nel testo, presentato come un sogno dentro un sogno, l’autore crede di risvegliarsi nella primavera 1381 in Kent, e di rivivere in quel tempo un giorno e una notte.
Dall’aspro orizzonte delle saghe norrene ci spostiamo così al medioevo inglese, altra età amatissima da Morris e tanto ben evocata tra le stanze di Kelmscott Manor. Ma mettiamo subito le mani avanti: nessuna fuga passatista ne connota i richiami alla Bellezza, e del resto l’autore ha studiato troppo l’età di mezzo per annacquarne le fantasie. In questa breve meravigliosa opera, forte oltretutto di un’edizione italiana ottimamente curata, non troviamo dunque corti favolose o fantasie sul limite del disneyano: in scena, in una ricostruzione emozionante, è la rivolta popolare del 1381 suscitata appunto dal prete John Ball (c. 1338-1381). A curare il volume, con una Prefazione tersa e bellissima è Wu Ming 4, che offre conto anche della complessità di una traduzione equilibrata – e giustamente godibile – a confronto con arcaismi lessicali e sintattici molto precedenti l’epoca di stesura dell’opera. Si citava Tolkien, che in più punti del Signore degli Anelli mostra di cogliere echi di queste pagine bellissime.
Al timone è il Morris più schierato socialmente e politicamente, quello avvicinato un giorno in metropolitana da un lavoratore che l’aveva riconosciuto:

Mi dicono che siete un poeta, signor Morris. Be’, io non so niente di poeti e di poesia, ma sono dannatamente certo di saper riconoscere un uomo, e voi lo siete, per Dio!

Un Morris di estrazione agiata e borghese, ma che era sceso in campo con onesta e convolta partecipazione per i diritti dei lavoratori e degli sfruttati – per la Causa, come diceva, e senza pose pauperistiche. Attirandosi anche le critiche e la freddezza di compagni di lotta come George Bernard Shaw e Friedrich Engels. Tanto più che era un militante entusiasta e visionario ma non un teorico, non aveva capito – lo ammetteva lui stesso – la teoria marxiana del valore, e pur continuando a teorizzare la rivoluzione proletaria accetterà a malincuore la soluzione parlamentare di un partito dei lavoratori. Ma al di là di limiti e sconfitte, nella polifonia delle sue personalità artistiche e umane Morris non si lascerà demoralizzare, lottando perché il bello e l’utile non conoscessero un rapporto schizoide e il capitalismo non rendesse la vita un inferno sulla terra.

Al marxismo era approdato tardi e per vie inusuali, proprio riflettendo sul passato tanto caro ai preraffaelliti, almeno inizialmente eversori delle convenzioni estetiche della borghesia vittoriana (che poi si approprierà anche del loro orizzonte fantastico). Morris non rigettava la tecnologia in sé ma il capitalismo che scippava all’artigiano la Bellezza, costringendo il lavoratore “a produrla come una merce qualsiasi”: ed era convinto che il lavoro libero dallo sfruttamento non fosse una condanna ma un’attività creativa fondamentale. Fino a raccontare in News from Nowhere (1890) un’Inghilterra comunista del XXI secolo con una vita più armonica a contatto con l’ambiente, un decentramento municipalista e una cooperazione locale dei lavoratori.
Per lui paesaggio e architettura sono importanti, salvaguardando – senza restauri o riqualificazioni, che osteggiava in quanto rigenerazione edilizia per produrre profitto (possiamo immaginare cosa direbbe delle nostre città in mano agli immobiliaristi) – un passato utile a contestualizzare il presente e proiettarsi nel futuro.
Ma il guardare nel passato non aveva funzione nostalgica e conservatrice, non lo accompagnava nessun sogno di cavalleria aristocratica o sacralità monarchica: l’interesse era alle gilde artigiane richiamate con il movimento Arts and Crafts e alle rivolte contadine prodromiche di lotte a lui coeve. Rifiutando un’idea di progresso legata alla “civilizzazione” e funzionale all’oppressione capitalistica e alla spregiudicata compravendita del lavoro, Morris non era cieco su una serie di conquiste fondamentali e sul rischio di un’ingenuità nel vagheggiare il passato, ma di quello intendeva recuperare un certo spirito di comunità e di Bellezza. Con la critica serrata al mito del progresso funzionale al capitale: non condivideva l’idea marxista di un’azione unificante del capitalismo come utile al collasso della realtà economica per l’affermarsi del comunismo. E piuttosto andava a cercare prodromi di comunismo nel medioevo: in quello di John Ball, appunto.
Per quanto si parli di rivolta dei contadini, l’insurrezione – scatenata da una nuova tassa sulle persone fisiche, 1380, legata alle necessità della casse del regno nella situazione della Guerra dei cent’anni (1337-1453) – coinvolse anche gli artigiani dei centri urbani. Considerando chi in quella guerra andava a grandi numeri a farsi ammazzare, la situazione era ancora più insostenibile. Vero, dopo l’epidemia di peste 1348, a popolazione dimezzata, i braccianti venivano pagati un tantino di più, ma il pronto soccorso istituzionale agli interessi dei nobili aveva subito frenato quei miglioramenti, fissando in particolare i salari alla situazione prima dell’epidemia e rendendo un crimine rifiutare il lavoro. Di qui, tra gli sfruttati, forme di resistenza e aggiramento legale (per esempio cambiando lavoro) e associazioni in gilde professionali.
Si partì dunque col contestare il nuovo balzello: seguirono attacchi agli archivi per bruciare gli atti di proprietà, e l’invasione di Londra in decine di migliaia. Costringendo così il quattordicenne Riccardo II ad abolire formalmente la servitù della gleba: siamo i suoi sudditi più fedeli, dicono gli insorti, che identificano il nemico in nobili, alto clero e grandi mercanti e, a un secondo livello, nei funzionari governativi. Di qualcuno di costoro venne anzi fatta giustizia sommaria. Facile immaginare la reazione spietata che sarebbe seguita.
Autopresentatosi nel racconto come uomo dell’Essex – dove un altro contingente di ribelli si sta radunando – il Nostro trova un protettore nel rude, espansivo e amabilmente sfottente Will Green, prototipo del yeoman, arciere reduce di guerra, forse una sintesi di caratteri e virtù del militante-tipo che Morris ha imparato ad apprezzare: è lui a portarlo a udire John Ball, il prete rivoluzionario, e poi in battaglia contro la milizia di aristocratici e sceriffi – dove il numero di caduti è però contenuto. “When Adam delved and Eve span, who was then the gentleman?”: brandendo la Bibbia, si arriva a prefigurare una società comunistica, che Morris rievoca con innamorata ammirazione.

Non seguiamo passo passo le vicende degli insorti legati dalla Fellowship (qui reso felicemente “Comunanza”), unione gentile dei poveri e dei santi e principio opposto a quello della concorrenza imposto dai più socialmente forti. Quelli non bisogna ascoltarli né discutere con loro, perché si sa già cosa diranno (cosa, oggi, continuano a dire):

“Bifolco, lascia che ti imbrigli e ti selli, e che mangi il sostentamento che ti sei guadagnato, e che ti chiami con nomi umilianti perché io sono quello che ti mangia. E non parlare e non dire e non fare nulla per tuo conto, se non te lo ordino io”. Questo è il succo di ogni loro discorso.

Ovviamente gli insorti, prima circuiti, verranno poi schiacciati con una sanguinosa repressione e resettando ogni loro conquista ottenuta. Ma lo struggente, bellissimo dialogo notturno tra il Nostro e John Ball (che continua “ad avere l’impressione che tu abbia visto cose che io non ho visto, né avrei potuto vedere” e dunque lo trattiene a parlare) strappa commozione al lettore – quello almeno che non aderisca all’altro schieramento. Il sacerdote ha capito di aver a che fare con un interlocutore speciale, e lo esorta a parlare del futuro – salvo incontrare grosse difficoltà a capire quel mondo. Come suona infatti il titolo del cap. 11, Difficile è per il vecchio mondo vedere il nuovo. Sconcertato dalla prospettiva del futuro sfruttamento capitalistico, Ball starebbe per cedere alla tristezza ma l’interlocutore può almeno tranquillizzarlo sul fatto che la Schiera della Comunanza ci sarà ancora e qualcosa alla fine cambierà. Ball allora si congeda benevolo: “Tu sei stato un sogno per me e io lo sono stato per te, e ci siamo rattristati e rallegrati a vicenda, come solo i racconti dei tempi passati e il desiderio dei tempi futuri possono fare”. Il narrante si risveglia nel suo letto, nel rumore in distanza delle sirene delle fabbriche: non assiste alla mattanza e alla morte del candido prete, impiccato, sventrato e squartato, secondo la barbarica giustizia medievale (ma in vigore almeno formale fino all’Ottocento) inglese. Però quel precedente, minaccioso per i governanti, non verrà dimenticato, ed è chiaro perché Morris lo prenda a sfondo del proprio Sogno. Come sintetizza il curatore,

William Morris sarebbe morto nel 1896, in un momento storico in cui il movimento operaio sembrava destinato o a ripiegare su un orizzonte riformista o ad attendere invano il collasso del capitalismo, che si sarebbe rivelato capace di rigenerarsi dopo ogni crisi ciclica. Ciò nonostante, per quanto attestato su posizioni minoritarie e sopportato da molti, Morris fino all’ultimo non si perse d’animo, continuando a prefigurare un mondo e un’umanità migliori di quanto il suo tempo gli avesse consegnato. Un’umanità che sapesse non soltanto uscire dall’alienazione capitalistica attraverso una presa di coscienza e un processo radicalmente rivoluzionario, ma anche recuperare il senso della storia, del passato, tornare a godere del meglio della tradizione artistica, fosse quella architettonica, artigianale e pittorica o quella poetico-letteraria, cioè autoformarsi coltivando l’unione del bello e dell’utile. Pochi intellettuali del suo tempo cercarono con altrettanta dedizione, anche a costo di apparire ingenui, di far convergere lotta di classe e battaglia culturale come due facce della stessa medaglia. E forse le parole che alla fine di A Dream of John Ball il protagonista rivolge al prete ribelle rivelano anche quello che Morris sperava per sé stesso: “nei giorni a venire il tuo nome rimarrà legato alla speranza che hai nutrito e non verrai dimenticato”.

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Giorni di galera https://www.carmillaonline.com/2025/11/13/giorni-di-galera/ Thu, 13 Nov 2025 22:55:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91435 di Cesare Battisti

Non capita tutti i giorni, scendere per l’ora d’aria e trovare nel cortile una faccia nuova con cui parlare. Senza correre il rischio di sorbirsi la solita arringa d’innocenza, condita di insulti all’avvocato per quel processo andato male. Il truffaldino ha il passo ondulante, ha conosciuto i miei stessi cortili di galera, sa che in fondo c’è sempre un muro e non ha nessuna fretta di arrivare. Lui è della “vecchia”, come si suol dire da queste parti, di quelli che non sprecano parole, nemmeno quando la battuta appena fatta sembra sganciata da un pensiero vero.

Abbiamo in comune [...]]]> di Cesare Battisti

Non capita tutti i giorni, scendere per l’ora d’aria e trovare nel cortile una faccia nuova con cui parlare. Senza correre il rischio di sorbirsi la solita arringa d’innocenza, condita di insulti all’avvocato per quel processo andato male. Il truffaldino ha il passo ondulante, ha conosciuto i miei stessi cortili di galera, sa che in fondo c’è sempre un muro e non ha nessuna fretta di arrivare. Lui è della “vecchia”, come si suol dire da queste parti, di quelli che non sprecano parole, nemmeno quando la battuta appena fatta sembra sganciata da un pensiero vero.

Abbiamo in comune poco o niente, tranne le rughe e un inatteso ritorno in carcere dopo quasi mezzo secolo. Quelli come me, lui li ha conosciuti nei Settanta, quando ancora politici e comuni respiravano insieme l’aria dello stesso cortile. Deve aver poi seguito la mia storia sui giornali e adesso non gli sembra vero di aver trovato proprio qui un veterano per ricordare i tempi in cui il carcere era una “cosa seria e dentro ci finivano solo i criminali”. È un truffaldino, ha l’occhio lungo e il sorriso vago di certi pescatori, che hanno appena gettato l’amo dove sanno di pescare.
Fa un vago gesto con la mano:
«Mancano i medici e c’è pure carestia di preti, malati e anime perse adesso li fanno carcerati. E sì, noi sì che si era un’altra cosa.»

Il carcere che ricorda lui era fatto di violenza, di regole omertose e di fetore. Si sopravviveva ai soprusi e alla sofferenza grazie all’unione, era la solidarietà di tutti coloro che quella violenza la vivevano sulla propria pelle. Adesso qui, sembra che chi affonda nella disperazione e nell’abbandono non trovi nessuno a tendergli la mano. Perché non ci si unisce più in nome di un diritto dovuto e spesso non concesso, ma si insegue in solitario il beneficio personale. Quasi sempre a discapito dell’altro che ti sta accanto e soffre come te. Gli sguardi vuoti, i degenti ai quali si riferisce il Truffaldino appartengono a chi si sente sfinito davanti all’abuso di potere, spogliato perfino dall’iniquità di una pena. Che pur accetta, a momenti alterni, ma che non può sopportare perché non la capisce. Un delinquente, se lo fosse realmente, dovrebbe almeno saper dire come e dove è iniziata la sua rovina. Ma per farlo deve avere una coscienza, deve poter dire chi è, da dove viene, magari anche sapere dove sta andando, senza pestare i piedi a nessuno soprattutto i propri.

Il truffaldino ha ragione. Io stesso, appena arrivato qui, mi guardavo attorno e vedevo solo facce nemmeno più capaci di esprimere dolore. E nel panico, mi chiedevo se avevo perso anch’io l’orientamento. Come loro, come tutti, “come succede anche là fuori”. Così dice il Truffaldino e io non posso rispondere, perché dal Brasile sono andato dritto in carcere, senza passare dall’Italia, o meglio sì, quella penitenziaria. Una volta si concedeva alla popolazione detenuta il diritto di esistere, c’era chi lo rivendicava con spavalderia. Un atteggiamento che può essere discutibile, ma oggi pare che il detenuto sia stato spogliato anche di quest’ultima parvente identità.

Non si è più niente: malati, forse, ma senza cure. Il Truffaldino ha ragione, si è soli e senza speranza. Non si evade nemmeno più, chi lo fa ancora non cerca la libertà ma un muro diverso da questo contro cui scontrarsi. Non scappa, si abbandona per inedia.
Forse esagero, colpa del Truffaldino che mi è capitato tra capo e collo e adesso penso troppo e questo mi fa male. Si può essere nostalgici perfino della vecchia vita di prigione? O dell’identità che comunque essa allora dispensava? Era un’identità spesso edificata contro, forgiata nella lotta, anche dura, ma sempre e solo se necessaria e, talvolta, anche compresa dalla parte avversa. Erano tempi duri, con atti estremi per sottrarsi alla morsa dell’art 90, e la risposta devastante dello Stato. Ma mai ci siamo lasciati appiattire sulla condizione animale, ristretti all’istante presente, alla necessità feroce, ad assaltarci l’un l’altro per sopravvivere al rigore atroce, come invece avrebbero voluto certi nostri aguzzini.

Al contrario, è proprio in carcere, in condizioni estreme che ho incontrato persone insospettabili tendere la mano all’avversario di ieri: si può essere nemici nel conflitto, mai in tempi di pace.
È significativo il fatto che nonostante il regime duro, in confronto, non ci siano stati in tempi di conflitto così tanti suicidi in carcere. Non ricordo di agenti che si toglievano la vita. Non ci si uccide di fronte al nemico, si è troppo impegnati a difendersi. Se guardiamo alle statistiche, la differenza con l’attualità salta agli occhi. Oggi si muore in silenzio, nell’indifferenza generale. Muoiono a milioni gli innocenti sotto le bombe sganciate dai “Governi buoni”, a chi dovrebbero importare cento vite stanche di prigione?

Al suono della campanella, io e il mio Truffaldino ci siamo messi in fila come tutti gli altri. La schiena curva e lo sguardo a terra, per non doverci dire nemmeno con gli occhi quanto inutili siano le parole. Dette in un pomeriggio di mezza estate, tra vecchi reclusi che non non si vogliono adattare.

Eppure qualcosa resta. È come un suono lontano che continua a fluttuare, una reminiscenza di sapere che mi insegue fino in cella. Un’idea senza contorni che non mi lascia pensare agli affari miei, è maliziosa, si intromette, come se ne sapesse più di me e non me lo vuole dire.

 

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