Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Oct 2025 20:14:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 (In)canti d’amore https://www.carmillaonline.com/2025/10/21/incanti-damore/ Tue, 21 Oct 2025 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90793 di Franco Pezzini

Fuor della selva con la mente altiera / ritorna quel guerrer senza paura. / Così pensoso, gionse a una riviera / de un’acqua viva, cristallina e pura. / Tutti li fior che mostra primavera, / avea quivi depinto la natura; / e faceano ombra sopra a quella riva / un faggio, un pino ed una verde oliva. //

Questa era la rivera dello amore. / Già non avea Merlin questa incantata; / ma per la sua natura quel liquore / torna la mente incesa e inamorata. / Più cavallieri antiqui per errore / quella unda maledetta avean gustata; [...]]]> di Franco Pezzini

Fuor della selva con la mente altiera /
ritorna quel guerrer senza paura. /
Così pensoso, gionse a una riviera /
de un’acqua viva, cristallina e pura. /
Tutti li fior che mostra primavera, /
avea quivi depinto la natura; /
e faceano ombra sopra a quella riva /
un faggio, un pino ed una verde oliva. //

Questa era la rivera dello amore. /
Già non avea Merlin questa incantata; /
ma per la sua natura quel liquore /
torna la mente incesa e inamorata. /
Più cavallieri antiqui per errore /
quella unda maledetta avean gustata; /
non la gustò Ranaldo, come odete, /
però che al fonte se ha tratto la sete.

Non è un mistero per nessuno ma può far riflettere il fatto che, nella lunghissima storia della magia, una percentuale importante degli utilizzi pratici sia votata all’erotica. Anche se l’amore – inteso qui come eros – dovrebbe contemplare un requisito fondamentale di libertà, fin dal mondo antico è documentata la consapevolezza di un odero, si potero; si non, invitus amabo, “odierò, se potrò; altrimenti amerò mio malgrado”: l’idea cioè della possibile coartazione recata da un sentimento non voluto, al quale prestare ascolto nostro malgrado come all’ossessione di un demone – Dell’amore e di altri demoni, ha titolato qualcuno con espressione fulminante. Inevitabile a quel punto l’ipotesi di soluzioni per arruolare quel dispettoso demone a proprio o altrui beneficio. D’altra parte proprio la forza paradossale del sentimento, che ha sempre radici nel profondo di noi, è apparsa così strana e sconvolgente da farne ascrivere in radice la potenza a un contesto magico, fantachimico (certe fonti la cui acqua potrebbe recare amore o magari disamore – una sorta di antidoto – come vagheggiato dal Boiardo, cui rimando per i versi d’incipit) o sovrannaturale.
Un’affascinante e pionieristica compilazione vintage sul raccordo tra eros e magia pratica è L’occultisme et l’amour di Émile Laurent e Paul Nagour, rispettivamente uno scienziato e un poeta stregato da macabro e occulto (1902), opera proposta in Italia da Mediterranee (Roma, 2021) come Magia erotica. filtri, incantesimi, talismani, a cura dell’esperto di esoterismo Vittorio Fincati: quattordici densi capitoli dove, più che gli aspetti operativi può interessare l’ingegnosità antropologica e la varietà delle pratiche repertoriate. La Francia tra Otto e Novecento è stata un matraccio di esperienze – anche molto sopra le righe – e compilazioni sull’occulto (cfr. qui), e in effetti la Premessa – Sul termine occultismo colloca il tema in un più vasto panorama erudito. Degno di attenzione qui è l’uso del termine “magia bianca” per tematiche come “l’illusionismo, la prestidigitazione, la lettura del pensiero, la crittografia, il linguaggio simbolico dei fiori, dei metalli, dei colori ecc., certe combinazioni matematiche, tra cui il calcolo delle probabilità, la scienza dei belletti e dei profumi ecc.”, laddove più frequentemente il termine è usato invece per forme di magia benefiche, al di là delle connotazioni in radice ambigue della magia come tale. Tale discredito sulla magia bianca – “trucchi infantili, […] maneggi puerili” – può incuriosire; mentre sui concetti successivi si tratta di categorie d’ampio uso (teurgia, goezia, divinazione, Cabbala, scienza ermetica, alchimia, astrologia, spiritismo) fornite quasi a glossario del materiale dei quattordici capitoli che seguono.
Sviluppati a partire dal rapporti tra religioni e amore nel mondo antico e in quello medioevale: dall’amore-attrazione cosmico e dal naturalismo erotico e sessuale presso i popoli antichi tra poesia e deboscia, fino alle tassonomie sessuofobiche del clero cristiano (a classificare compulsivamente sguardo, bacio, toccamento qui o invece lì arrecato…) portatrici di trovate in ultimo grottesche come il culto del Santo Prepuzio e a brutali stravaganze erotico-mistiche come le autocastrazioni. A tali eccessi reagiscono le corti d’amore, fino ai libri d’ore con il ritratto della donna amata e alle adunate galanti a rappresentare appunto la corte del dio o della dea dell’amore.
Tutto ciò a ideale cappello di un discorso che tocca il cielo e l’inferno. Da un lato, si va infatti dal rapporto con gli angeli – che avrebbero avuto commercio carnale con le figlie degli uomini – allo stato disincarnato di Devakhan della Teosofia, che permetterebbe tuttavia di conservare l’amore provato col corpo, agli angeli della Cabbala messaggeri dell’amore o invece patroni di prostituzione e morte, e fino agli accoppiamenti con gli elementali come silfidi e ondine. Dall’altro versante, si sviluppa il fronte di satanismo e demonolatria fino a Huysmans (ma molto sarebbe seguito – vero, Aleister?), con le sue sguaiate declinazioni erotiche e sessuali.
I capitoli che qui seguono sono relativamente prevedibili in una compilazione sul tema magico: incubi, succubi & vampiri, con perle di ginofobia d’antan (“Il succubato è sempre stato più raro dell’incubato. Ci sono più diavoli che diavolesse. La causa è forse nel fatto che l’immaginazione dell’uomo è meno spudorata e più difficile a trascendere rispetto a quella femminile”, sic); il sabba; la messa nera; e infine la materia più “pratica”. Si comincia dagli incantesimi d’amore (e di rivalità in amore) dalle Bucoliche virgiliane all’Ottocento, attraverso immagini, cibi – la mela, per esempio, sarebbe un “buon conduttore” di effetti magici, Biancaneve docet – e filtri, cioè normalmente afrodisiaci, erbe e talismani. Non senza qualche avvertenza: “Stia attento – scrive Jules Bois, giornalista, scrittore ed esperto di occulto –

chi vuole farsi amare a ogni costo e chi vuole distruggere senza pietà. L’esplosione di passione così voluta potrebbe proprio scoppiargli in faccia. A forza di imporsi sull’immagine di colei che vuol far sua, rischia di diventarne posseduto anziché possessore. Entrerà fin nei ventricoli del proprio cuore lo stesso fuoco che lui attizza contro di lei e col quale lui stesso si incendierà.

E con qualche esempio storico: i pasticciacci brutti del vescovo Guichard, del prete Gaufridi e del parroco Grandier, gli ultimi nel contesto di turbative demoniache a conventi di suore (sul caso Grandier e dei “diavoli di Loudun” interverranno com’è noto Aldous Huxley e Ken Russell). E capiamo allora cosa in concreto paventi Bois: più che molesta esplosione di passione, come qualche volta riportano sapidi i giornali, a scoppiare in faccia sarebbero accuse criminalizzanti di psiche fragili, sessualmente represse e alienate.
Segue un approfondimento su filtri e incantesimi in amore – tradizioni dotate di una certa compattezza – tra Egizi, Arabi, Greci e in generale nella letteratura antica: dove non c’è solo la buona prassi per sedurre l’amato (in particolare con afrodisiaci, che a un intero ventaglio di ingredienti strambi univano spesso sperma e sangue mestruale), ma le strategie occulte per allontanare rivali o trattare l’impotenza. Le droghe magiche presentano composizione assai varia, e il sangue ha un’importanza specifica. Discorsi particolari riguardano poi l’arte di inviare sogni felici e particolarmente sogni d’amore, l’evocazione di amati defunti e i patti d’amore, tra amanti o conclusi col demonio (partner ahimè fin troppo presente dei picnic di Adamo ed Eva).
I capitoli successivi riguardano l’arte talismanica in amore, con minerali (pietre, metalli…), vegetali, o invece astrologici o basati sul potere di lettere e numeri; il linguaggio dei fiori (e, più surrealmente, dei francobolli); le forme divinatorie in amore e il rapporto di questo con l’astrologia, i sogni e la musica. Insomma, una panoramica di tutto rispetto. Eppure, a ben vedere, resta fuori qualcosa d’importante: e non per colpa degli autori, ma una necessità di ampliare il panorama a noi ormai s’impone.
Posto che qualunque arte portata avanti con competenza, sacrificio e passione è un atto magico, mi piace non dimenticare in una simile rassegna la potenza della scrittura, letteraria o meno. Che non solo si serve di uno strumento per antica tradizione affidato ai tecnici dell’ermetica, cioè l’uso delle lettere, ma nella voce, nel gioco di dimensioni diverse, nell’evocazione di figurae e nello stesso richiamo alle regole dello scrivere (la parola grimorio deriverebbe dal francese antico gramaire, con la medesima radice di grammatica, intesa un tempo come libro di istruzioni) svela una dimensione di magia. La scrittura non solo seduce (le lettere – in senso lato – d’amore non sono forse attive nello schiudere porte all’interiorità?); non solo proietta sigilli e traccia pentacoli interpellando spiriti e angeli più o meno metaforici – è la scrittura in sé a richiudere insieme gli amanti nel cerchio magico, a fornir loro formule e parole-chiave, a spalancare di lì mondi altri e inimmaginati; non solo suggerisce con tutta la riservatezza rituale espressioni potenti sui piani sottili. Ma coinvolge il soggetto amato in mondi, in avventure assieme, nella scoperta, nell’incontro e nel brivido di un avvicinamento e di un sussurro, fino allo schiudersi di labbra nel bacio – e magari molto oltre. Come ha spiegato qualcuno:

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.

Si sarebbe anzi tentati, in un mondo critico tanto ossessionato dal distinguere letterario e non letterario – termini che non si sovrappongono tout court a mainstream e genere, si tratta di distinzioni autonome – di riconoscere uno degli aspetti della letterarietà nella capacità di una scrittura di muovere su più piani, su più dimensioni, e dunque anche eventualmente su quella dell’eros: far amare e innamorare. Come scrive Chiara Daino nel suo ottimo romanzo L’Eretista (Sigismundus, 2011, ma in attesa di nuova edizione):

«Hai capito cosa intendo. Sei ancora convinta che l’amore non esista?»
«L’amore esiste. L’amore per la parola»
«Quindi scrivi e basta?»
«Quindi: basta scrivere! Amo troppo le parole e scrivere è il mio modo di amare, di amare le persone. Purtroppo, le persone, quelle che mi circondano, non capiscono questa mia ossessione per le parole».

Ecco allora l’in-canto, il talismano: scrivere di, a, per qualcuno – in qualche caso scrivere con qualcuno, anche se la societas nella scrittura non trova affatto la connotazione erotica come in sé necessaria e anzi vi può talora ostare severamente – costituisce insomma un’esperienza dove l’evocazione dell’eros non riceve meno spazio che nei filtri all’ippomane o con erbe afrodisiache. Fino a far saltar via le molle sociali del circo del libro, ridotto troppo spesso a evento o vendita a peso del personaggio di un autore: se la scrittura può far innamorare, ecco che quel sortilegio della voce si rivela come l’unico davvero importante, l’unico per cui valga la pena di rompersi la testa sul foglio.

]]>
Di piazze piene a milioni e di carogne, canaglie e cialtroni… https://www.carmillaonline.com/2025/10/21/di-piazze-piene-a-milioni-e-di-carogne-canaglie-e-cialtroni/ Mon, 20 Oct 2025 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90901 di Carlo Modesti Pauer

Un cattolico dice a un sedicente ateo: “In te vedo comportamenti cristiani…” E il sedicente ateo: “Ma io mica ero nato al tempo di Cristo!”

“Il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di [...]]]> di Carlo Modesti Pauer

Un cattolico dice a un sedicente ateo: “In te vedo comportamenti cristiani…” E il sedicente ateo: “Ma io mica ero nato al tempo di Cristo!”

“Il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti.” (Enciclopedia Italiana, Treccani 1932, voce Fascismo).

In questo breve estratto si può trovare espressa la quintessenza dell’operazione fascista: un rovesciamento della nozione di democrazia. Non più la regola della maggioranza, bensì la concentrazione dell’Idea nel Capo. È un passo intriso di hegelismo filtrato dalle teorie di Gentile, il filosofo al servizio del Dittatore e autore della voce. Vi emerge la fenomenologia del popolo come Spirito oggettivo e dello Stato come Idea morale che si realizza attraverso la mediazione di un soggetto unico, all’interno di un quadro para-teologico in cui prende forma, allo scopo di conferire l’autorità assoluta, un legame mistico tra il Duce e gli imperatori Augusto e Costantino. Infatti, è esemplare come nel catalogo della “Mostra augustea della romanità” (Roma 1937), si leggeva dell’arco di trionfo costantiniano “eretto per celebrare la vittoria su Massenzio del 28 ottobre 312 che segnò l’avvento della Cristianità […] riportata presso quello stesso ponte Milvio, che il 28 ottobre 1922 le Camicie Nere varcarono, iniziando l’Era dei Fasci”.

Dunque, non si tratta solo di retorica propagandistica: questa formulazione afferma una vera metafisica politica, in cui la democrazia “reale” (quantitativa, misurata da libere elezioni) viene bollata come degrado, mentre la qualità “spirituale” è naturale prerogativa di pochi, o meglio, di uno solo. In questo modo, appare decisamente configurato e tracciato il carattere messianico dei fascismi storici: il Capo (duce o fuhrer) come incarnazione della volontà collettiva.

Il fascismo, come e più ancora il nazionalsocialismo (privo degli ingombranti “sovrani” italiani: il re e il papa), si radica in una mitologia messianica monocratica. Mussolini e Hitler si impongono e sono presentati come salvatori, profeti in grado di restituire unità al corpo sociale. Ma poi, la loro parabola si conclude nella catastrofe: il Duce catturato mentre se la da a gambe travestito da soldato tedesco, fucilato ed esposto a testa in giù in piazzale Loreto; Hitler, divorziato dalla Germania e dal popolo che “non ha dimostrato di essere all’altezza del compito. Non è degno di me, del mio genio. Ha meritato la rovina!”, finalmente si sposa con Eva Braun e il giorno dopo si suicida nel bunker.

Deflagrata in una consustanziale guerra mondiale, la dimensione messianica implode nel sangue, nella sconfitta militare e nell’orrore di crimini indescrivibili. A Milano, il 25 ottobre 1932, Mussolini aveva detto “Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo sarà il secolo del Fascismo”. Nel Mein Kampf (1925) Hitler prefigura che il nazismo “deve presentarsi come il preservatore di un millenario avvenire, di fronte al quale il desiderio e l’egoismo dei singoli non contano nulla e devono piegarsi.” La parusia fascista e nazionalsocialista, nel tentativo di rendere eterno l’istante politico, distruggerà ogni mediazione, ogni differenza, ogni temporalità autentica. La volontà di eternità precipita nel delirio di dominio, perché l’Assoluto, incarnato nel mondo, non può che annientare ciò che gli resiste. Il nazifascismo, proprio nel momento in cui si realizza, si condanna alla rovina: la parousía collassa; è la presenza assoluta che brucia il tempo stesso.

Dopo il 1945, tutto sembrava indicare la fine senza appello di esperienze tanto atroci. Tuttavia, il loro precipitato ideologico non si esaurisce. Il culto del capo, la svalutazione del pluralismo, l’idea di una politica come incarnazione spirituale continuano a riaffiorare quasi fossero un limaccioso fiume carsico, un virus culturale latente: un herpes nel ventre d’Europa.

Il punto cruciale è che, dopo la guerra, il “nuovo” capitalismo yankee non ha – apparentemente – più bisogno dei fascismi storici, così come se ne servì nel primo dopoguerra. La democrazia parlamentare entro certi limiti (anticomunismo ad ogni costo), diventa funzionale al nuovo ordine economico e geopolitico sorto con la Guerra fredda. Come noterà Bobbio, la “democrazia liberale è fragile ma si rivela adattabile: non un ostacolo, ma una forma di governo che il Capitale sa usare”. Tuttavia, le vicende complesse degli ultimi trent’anni, dalla dissoluzione dell’Urss in poi, hanno trasformato profondamente lo scenario geopolitico, mentre si imponeva un’economia globale di stampo neoliberista: deindustrializzazione nei paesi maturi, delocalizzazione produttiva, privatizzazioni, vendita di imprese pubbliche e riduzione dello Stato sociale; concentrazione della ricchezza, erosione dei diritti, crisi ricorrenti, tagli alla spesa pubblica, collasso dei welfare europei; omologazione giuridica al modello anglosassone, erosione della sovranità nazionale. La mattanza alla Diaz, la violenza feroce della repressione a Genova (G8-2001), doveva mettere a tacere chi indicava il nuovo orrore della teologia economica: il Capitale, nella sua autoriproduzione, si pone come realtà ultima, come principio di ogni senso, come Assoluto immanente che non tollera esterno né differenza. Il valore non rimanda più a nulla: è puro esser-presente, pura parusia del denaro che si moltiplica.

Il 2008, che per molti è stato paragonabile al crack del 1929, ha segnato il passaggio successivo: mentre milioni di persone perdevano case e lavoro, gli Stati salvavano le banche. Wolfgang Streeck, direttore emerito del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung di Colonia, lo ha detto con chiarezza: la democrazia è stata sospinta “in un corridoio sempre più stretto tra esigenze dei mercati e aspettative dei cittadini”. È qui che il concetto stesso di sovranità popolare si svuota, mostrando come il parlamentarismo contemporaneo sia già parte integrante del governo capitalistico.

Secondo Streeck, il modello di “capitalismo democratico” del dopoguerra (keynesismo) si basava su un patto sociale in cui lo Stato limitava gli “spiriti animali” del Capitale per garantire stabilità, crescita e pace sociale. La rivoluzione neoliberista, a partire dagli anni ‘70, ha liberato il Capitale da questi vincoli politici e istituzionali, portando a uno svuotamento dello spazio decisionale delle politiche nazionali e rendendo la politica subalterna all’economia. La crisi attuale non è più una crisi di legittimazione, ma una crisi economica evidente che si esprime attraverso il debito e la disuguaglianza. L’individualismo consumista di massa, infatti, ha neutralizzato le resistenze al processo di mercificazione. Si profila non già un crollo improvviso seguito da un nuovo ordine (come una rivoluzione socialista), ma un “interregno prolungato” di decadimento e disordine caratterizzato da instabilità, incertezza e caos, dove “tutti saranno in guerra con tutti”.

Il volto nuovo del fascismo non ha la forza né la necessità di costruire un ordine alternativo come nel 1932. Non organizza corporazioni, non genera un nuovo modello di Stato. Si riduce a un doppio ruolo: a) l’intensificazione repressiva, attraverso leggi securitarie, restrizioni di libertà e sorveglianza hi tech; b) la mobilitazione simbolico-identitaria intorno a bandiere, retoriche nazionaliste, slogan sulla patria e sulla tradizione, richiami strumentali e infantili a disegni divini. Il nuovo fascismo è dunque un attrezzo residuale, non più totalità organica, e quando arriva al potere, si riallinea immediatamente con il Capitale e con lo Stato imperiale.

L’Italia offre un esempio perfetto di questa condizione. L’attuale presidentessa del consiglio ha costruito la propria legittimazione attraverso il richiamo all’eredità neofascista: “non rinnegare, non restaurare”, la formula almirantiana del 1948, riproposta in una fisionomia aggiornata: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”; è la forma con cui si propone come incarnazione del popolo che crede di “unificare” in sé stessa “quale coscienza e volontà di pochi (FdI), anzi di Una (lei)”, non è certo un caso che in questo slogan urlato nel 2019, echeggi il dettato del 1932. E ancora: “Il mio sogno è vivere in un’Italia nella quale, pur nelle differenze, tutti possano definirsi e agire da patrioti, ovvero da persone che antepongono l’interesse della Nazione all’interesse di parte o di partito”, un’affermazione che pare velata e tuttavia, rimanda apertamente all’idea di Stato del Mein Kampf, per cui “il desiderio e l’egoismo dei singoli non contano nulla e devono piegarsi”. Dunque “fascista” (neo, post, non importa), laddove si annulla il molteplice, si nega la complessità, si schiaccia la democrazia come collettore costituzionale del pluralismo, si violenta la polifonia politica, per imporre un monismo metafisico (la mistica della “Nazione”) che vorrebbe condurre a un “presidenzialismo” (mimetizzato nel “premierato”) vettore dell’accentramento del potere esecutivo, cui devono essere sottomessi, fino all’annientamento, i poteri legislativo (il parlamento già di “pianisti”) e giudiziario (l’anticamera dovrebbe essere la farsa della “separazione delle carriere”), così che il “potere sovrano” è legibus solutus.

Ma quando è al governo del “reale”, nello scenario mondiale, la Presidentessa del Consiglio abbandona la maschera e pratica la proskynesis davanti agli interessi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Nessuna autonomia di politica estera (con un ministro che dichiara “il diritto internazionale vale fino a un certo punto”), pieno appoggio alla NATO, fedeltà al Patto Atlantico perinde ac cadaver. Il “sovranismo” si rivela quel che è: mera retorica, turpe spettacolo politico da lanciare in pasto a una plebe indifferente, distratta, impaurita, abbrutita, e prigioniera del proprio orizzonte.

Nel mondo vero, fuori della bolla di menzogne gonfiata grazie all’ampio controllo dell’informazione, l’Italietta di Giorgia è un solo una miserabile provincia dell’impero: un’economia deindustrializzata, incapace di competere nei settori strategici; un debito pubblico strutturale che blocca ogni margine di manovra; una crisi demografica che erode la base stessa della società; l’assenza totale di una visione di lungo o medio periodo (si veda l’uso ignobile dei 200 mld del PNRR).

L’Italia, che nell’illusione dopata del “miracolo economico” (1958-63) fu una media potenza, è oggi una realtà marginale, travolta da un inarrestabile declino e costretta nella camicia di forza della sudditanza agli Stati Uniti.

Su questo versante, Donald Trump – orrendo intruglio tra Kingpin e il Dottor Destino (per dirlo attraverso l’universo Marvel) – rappresenta l’altra faccia della medaglia. Il suo percorso verso la conquista del potere, sintetizzando, va letto alla luce di due momenti decisivi del XXI secolo: l’11 settembre 2001, che ha formalizzato la logica della guerra permanente e dello stato d’eccezione normalizzato; e la crisi del 2008, che ha distrutto la fiducia nella promessa americana (il mito dell’American way of life), mostrando che le élite – “comitato d’affari” orami assurto a un migliaio di persone su otto miliardi – salvano le banche e sacrificano i cittadini.

Il grottesco megalomane sbarcato alla Casa Bianca, una distopia peggiore dei più cupi romanzi e film fantapolitici, è l’espressione di questo collasso: un capo messianico che catalizza il risentimento popolare, ma arraffato il potere è totalmente – e ci mancherebbe altro – allineato al Capitale (tagli fiscali, deregulation e soprattutto affari suoi). Solo i gonzi e la marmaglia giornalistica in malafede non colgono la dimostrazione adamantina: il trumpismo non è un’alternativa, ma l’oscena, ultima variante compatibile dell’ordine neoliberale, nella sua estrema violenza e catastrofica ferocia.

Il fiume carsico che dal fascismo storico si dipana fino al presente mostra, perciò, discontinuità e continuità. Nel primo caso, c’è una deviazione principalmente nell’assenza della necessità d’una fondazione dello Stato totalitario. Mentre in continuità si manifesta, senza più veli, il nesso tra capitalismo e autoritarismo, tra economia turbo-liberista e violenza strutturale, la cui terribile espressione politica è la fatale trasformazione della democrazia stessa in mero strumento di dominio. Se da tempo si discute di post-democrazia (2003), ora è l’epoca della “democrazia illiberale” (taluni usa il termine meno felice democratura).

Non occorre più distruggere, come al tempo del fascismo storico, le istituzioni democratiche, sono state svuotate dall’interno, piegate alle logiche del mercato e della geopolitica imperiale. I fascismi mimetici con il volto di Meloni, Trump, Orban, non fanno che intensificare la repressione e agire simbolicamente alimentando la direttiva schmittiana amico-nemico, scatenando ovunque divisioni orizzontali (per es. ceto medio impoverito vs disgraziati) in modo da cancellare ogni possibilità di conflitto verticale (masse diseredate in rivolta contro ricchi e potenti), ma la sostanza resta immutata: il tragico simulacro della democrazia è solo un dispositivo del capitale globale, una catastrofe sistemica.

I milioni e milioni di cittadini che in tutta Europa, in decine di città, sono scesi in piazza in questi giorni, mossi dall’orrore di Gaza, sono al tempo stesso atto politico e domanda etica. Sono, perciò, un gigantesco grido collettivo davanti alla fine della democrazia cui attoniti stavano assistendo. Gaza e il genocidio palestinese sono percepiti all’interno di questo scenario più ampio, terribile, pericoloso: quello del collasso definitivo della Modernità, con tutto il suo portato di diritto e di diritti come strumenti di pacificazione, nel senso kantiano di una “pace perpetua” fondata sulla ragione e sul riconoscimento reciproco tra gli Stati e tra gli uomini.

Oggi quella promessa kantiana si è rovesciata nel suo contrario. L’idea di diritto universale è diventata una retorica dell’intervento (il diritto internazionale “vale fino a un certo punto” dice un raccapricciante clown a capo del Ministero degli Esteri italiano); la pace, un dispositivo di guerra preventiva; l’umanitarismo, una copertura ideologica per la violenza sistemica. Gli Stati democratici che si proclamano custodi dei diritti dell’uomo si rivelano, nei fatti, complici di pratiche genocidarie.

Come ha scritto Étienne Balibar, “il confine tra democrazia e barbarie non passa più tra i popoli, ma all’interno della stessa civiltà occidentale”.

In questo senso Gaza non è una “questione regionale”, ma il luogo in cui il dispositivo moderno — quello fondato su diritto, Stato, mercato e progresso — mostra la propria crisi terminale. Lì si misura il fallimento dell’universalismo occidentale, che pretende di difendere la libertà mentre distrugge la possibilità stessa di un mondo comune.

La catastrofe della Modernità non è solo politica, ma ontologica. È la crisi del soggetto occidentale che, dopo aver ridotto la terra a merce e il vivente a risorsa, si scopre privo di futuro. La guerra infinita, l’emergenza climatica, l’esaurimento delle democrazie rappresentative e la sorveglianza digitale sono le forme contemporanee di questa fine dell’umano come misura.

E tuttavia, proprio per questo, le piazze europee e mondiali in solidarietà con Gaza sono più che protesta: sono un atto di riappropriazione del senso politico. In un tempo in cui gli Stati hanno rinunciato alla giustizia, e le istituzioni internazionali tacciono, la società civile diventa l’unico luogo residuo della verità. È lì, in quella moltitudine che rifiuta l’indifferenza, che riappare ciò che resta della politica come possibilità etica del mondo. Contro il trionfo del “disumano”.

Non si tratta più di invocare un ritorno alla democrazia del Novecento, ormai svuotata e funzionale al capitale, ma di immaginare un nuovo universalismo post-occidentale, fondato non sull’astrazione dei diritti, ma sulla concreta esperienza della vulnerabilità condivisa.

La domanda che sale dalle piazze, e che nessun potere può soffocare, è allora la seguente: può ancora esistere un mondo comune dopo la fine della Modernità, dopo Gaza, dopo l’impero?

È una domanda terribile, ma necessaria. Perché da essa dipende non solo il futuro della politica, ma la possibilità stessa della civiltà.

 

]]>
Fiori d’ombra per due vite https://www.carmillaonline.com/2025/10/20/fiori-dombra-per-due-vite/ Sun, 19 Oct 2025 22:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91057 di Luca Baiada

Da un’ampia fessura si staglia una lama di luce opaca, polverosa. Una luce che sembra palpabile. Arrivano rumori frammentati, taglienti come pietre spezzate, suoni grevi e umidi. Si mischiano a grida di gioia, a scrosci di pianti lontani.

Lui è seduto su un basso sgabello, con la schiena appoggiata a un muro scrostato. Da un lato ha un cunicolo stretto che scende e si torce, davanti a sé un fagotto di qualcosa, accanto c’è un secchio col manico spezzato. Il pavimento è scuro, malmesso, impregnato di sporco e di grasso. Lei è appoggiata al muro opposto, i capelli [...]]]> di Luca Baiada

Da un’ampia fessura si staglia una lama di luce opaca, polverosa. Una luce che sembra palpabile. Arrivano rumori frammentati, taglienti come pietre spezzate, suoni grevi e umidi. Si mischiano a grida di gioia, a scrosci di pianti lontani.

Lui è seduto su un basso sgabello, con la schiena appoggiata a un muro scrostato. Da un lato ha un cunicolo stretto che scende e si torce, davanti a sé un fagotto di qualcosa, accanto c’è un secchio col manico spezzato. Il pavimento è scuro, malmesso, impregnato di sporco e di grasso. Lei è appoggiata al muro opposto, i capelli raccolti sotto il velo, il viso giovanissimo. Ha le mani sotto un grembiule, composte. Lo guarda tesa:

– «Il momento è venuto. Non trovi le parole neanche tu? Sai, in fondo, non sono sicura che tu mi abbia mai detto cosa pensi. Voglio dire, cosa pensi di tutto questo. E di noi».

Lui si assesta appena, il corpo contratto. È avvolto in panni rimediati. I pantaloni, si vede che un tempo furono buoni. La camicia è fuori misura, sopra indossa brandelli di maglie da donna, cuciti insieme alla meglio.

– «La guardia vuole davvero fare conversazione col prigioniero?»

– «Smetti di fare lo stupido. Verranno a prenderti, dovrò darti in consegna. Non potrò accompagnarti. Se usciremo non dovremo salutarci; altrimenti ci saluteremo qui, senza vederci alla luce».

Da fuori viene il suono di un fischio secco. Lei:

– «Sono loro, stanno cominciando il giro, sanno che sei qui».

Si sente una voce, da fuori:

– «Controllo di sicurezza!»

Lei grida un numero, senza uscire. L’uomo seduto appoggiato al muro alza gli occhi e fa un vago sorriso:

– «Numeri, certo. Anche mio nonno era un numero. Lo sai, dove, vero?»

Lei lo guarda fisso:

– «Anche mio cugino, quello preso di notte a Jenin, ha avuto un numero, scritto sulla schiena. E un altro a Jabalya con gli arresti di massa, e altri ancora. Arrestati, processati quando c’è stato un processo; altrimenti galera senza giudizio. E botte e fame e sete. E molti non tornano. Numeri sulla schiena, sul polso, sui cartellini legati addosso, come al mercato del bestiame. E se vuoi continuare a fare i confronti, possono durare un altro anno».

– «E tutto il resto?»

Il viso di lei si schiarisce. Esita, poi la voce si fa accogliente:

– «Il resto è piaciuto a tutti e due. E il numero qui non è il tuo, è mio. Un sistema di controllo su ogni posto di custodia. Ma solo per i punti di transito, sono più vicini alle uscite; per questo prima non li sentivi: stavi giù. Un numero che varia, per precauzione. Ma non chiedermi con che sistema cambia. Non te lo direi neanche sotto tortura. E noi lo sappiamo, che sapete costringere a parlare. Come le chiamano, alla vostra corte suprema? Moderate pressioni, o cose del genere. Tutto legale. Ma la legalità, è la vostra».

– «Sì, le moderate pressioni. Ma quando ti piace farti premere, allora tu…»

– «Basta! Oggi, proprio oggi, vuoi essere volgare oppure sincero? Oggi per la prima volta?»

– «Sincero. Mi mancherai. So molto, non tutto. Voglio dire, di te. Mi ero abituato a vederti nel buio. Ma con una luce nella mente, nelle parole. Adesso basta quella di una fessura sul mondo, e di colpo sei più bella di prima».

– «Non c’è il mondo, là fuori, ci sono macerie coi cadaveri sotto. Li chiameremo eroi. Alcuni sono eroi davvero, altri…».

– «Altri? altri cosa?»

– «Altri non lo so. Ci sono persone della mia famiglia, sotto, e gli altri sono affamati e in fuga, chissà dove. E forse, viva o morta, là fuori c’è anche tua moglie».

L’uomo abbassa gli occhi, sembra che si guardi i piedi, avvolti in stracci e cuoio. Si alza stirandosi, si mostra in tutta la statura, più alto di lei. Le va incontro. Lei si irrigidisce:

– «Fermo!»

– «Hai paura, proprio ora che me ne vado?»

– «No. Puzzi più del solito. Sei peggio di un caprone».

Scoppiano a ridere. Fragorosi, come bambini. Si abbracciano forte, si tempestano di baci, a lei cade il velo, si infilano le dita nei capelli unti, l’uno con l’altra. Si stringono come se volessero fondersi, senza sentire il marcio unto e terroso intorno a loro. Lui scatta all’indietro:

– «Cos’hai lì?»

– «Ancora la pistola, lo sai. Sono le regole».

Lui torna a sedere. Al muro, come prima.

– «Mia moglie, sì. Te l’ho detto, bambini niente, voglio dire non ancora. Per il resto, non so. Sarei riuscito meglio a pensare, a riflettere, se avessi potuto scrivere».

– «Ho diviso con te quello che c’era da mangiare, se si può chiamare mangiare. Volevi anche carta e penna? O preferivi un laptop? Potevi mandare tutto a memoria, sai? Tanti di noi lo fanno, quando sono nelle vostre galere. Mandano a memoria anche i vostri nomi, quando parlate tra voi fra una tortura e l’altra».

– «Ci sono rabbini che mandano a memoria il Talmud, c’erano ebrei nei Lager che mandavano a memoria le loro poesie, le musiche. Nel ghetto di Varsavia…».

– «Zitto, viene qualcuno».

Un suono leggero e confuso fa cadere qualche pietra, si sente che si smuovono pezzetti di macerie, un po’ alla volta.

Lui, a bassa voce:

– «Potrebbe essere solo un gatto».

Lei, quasi impercettibile:

– «Che ridere. Credi che ce ne siano ancora? Secondo me abbiamo mangiato gli ultimi molto tempo fa!»

– «Per questo facevi le fusa, ogni volta che…?»

Trattengono a stento le risa. Fissi, gli occhi negli occhi, scintille ardenti nel chiaroscuro. Si bloccano quando una voce dura riempie la bruna penombra:

– «Nasrin! Mi mandano a dirti che è quasi ora! Lui vale più di cinquanta dei nostri. Deve arrivare intero. Fra poco ti mando Ruwaida. Si aspetta da te il nuovo numero di sicurezza».

Si sentono ancora passi, sempre più fiochi, intermittenti, sino a che scompaiono. Lei:

– «Guarda che quello non scherza. Quando sarai con lui, riga dritto».

Lui si alza, prende il secchio e ci guarda dentro:

– «Ma lo sai che quest’acqua è proprio uno schifo? Andrebbe appena bene per lavare stracci, e invece. Ma adesso basta. Lo vedi, però: sono così confuso che a parlare di noi non ci riesco».

– «Finalmente il prigioniero di gran prezzo parla come un uomo e non da guerriero. Il figlio del padrone balbetta davanti alla figlia della schiava?»

Da un lato viene una voce. A parlare è una donna tozza, quadrata, avvolta in vestiti scuri, che si stacca di colpo dal buio:

– «Nasrin, rimettiti il velo sui capelli!»

Lei si volta di scatto verso l’angolo morto e scuro, atterrita:

– «Ruwaida, da dove vieni fuori? Qui… è passato tuo marito. Sai che la consegna tocca a me, vero?»

– «So tutto. Conosco un altro passaggio, l’hanno aperto i bombardamenti tre mesi fa. E non mi serve il numero di sicurezza, vedi? Ti ho trovata, ti riconosco e ti vedo di persona. So tutto da tempo. Ho il doppio dei tuoi anni, ho figli grandi, cosa credevi di nascondermi, bambina? E quello, so anche chi è».

Nasrin vorrebbe spiegarsi, prova ad aprire bocca ma riesce solo a sorridere.

Ruwaida prosegue, impietrita, ma con voce tranquilla:

– «In famiglia ha almeno due poliziotti e un alto funzionario, che probabilmente è anche nel Mossad. Per questo l’avevano dato ad Ahmed, uno dei migliori. È morto troppo presto, Ahmed. È già un anno. E c’è stato bisogno di te. Il rischio era calcolato. Adesso te lo porteranno via, e di morte là fuori ce n’è abbastanza così. Anche se ho voglia di strozzarlo con le mie mani. Insomma, cosa sto a parlare? Salutatevi. Guarda che c’è poco tempo».

Nasrin stringe un po’ le spalle, ora ha un sorriso infinito:

– «Ruwaida, dobbiamo salutarci davanti a te? Sarò bambina, forse, ma lo sei stata anche tu. Prova a ricordarti cos’era, dai. Non puoi lasciarci soli?»

Ruwaida non si muove:

– «Ci sono metri e metri di macerie coi corpi dentro, sono sotto di noi e anche sopra. Invece la tua testa è piccola e vuota. Mi vuoi far entrare nei cunicoli per farti un favore? O vuoi che esca fuori senza di lui? Ci sarebbero sospetti, domande. Salutatevi e basta. Se proprio vuoi che non ascolti, ripeterò a voce bassa qualcosa di Abu Shawish. Lo sai che l’avevo conosciuto? Un altro martire. La poesia mi aiuterà a non sentire quanto sei sciocca».

Ruwaida si volta e comincia a recitare, scandendo convinta. Lui si avvicina a Nasrin, non riesce a togliere gli occhi da lei:

– «Tutto quello che ti ho detto, in questi giorni infiniti, in queste ore tremende e meravigliose, è tutto vero, tutto. Se hai sentito che c’erano polvere e grasso, sabbia e melma fra i nostri corpi, hai sbagliato. Per me erano stelle, stelle in fondo alla terra».

Nasrin:

– «La terra che è di tutti, quando ci si ama. E no, né sabbia né sporco ho sentito, solo il tuo corpo che era mio, mio da tenerlo per sempre, mio da essere sua senza fine. Se mai una donna ti dirà il suo amore, da domani in poi, credimi: non sarà mai come il mio. Io, custode sotterranea, che ti ho nutrito col mio poco pane e tutta me stessa».

I versi sulle labbra di Ruwaida si fanno più alti, più ritmici e densi. Lui mormora:

– «Ti ricordi, quel giorno? Le bombe cadevano vicinissime, e noi tremavamo insieme alla terra, al cemento che scricchiolava, alla polvere che vestiva la nostra pelle».

Nasrin:

– «Era solo polvere, per noi là sotto, e la polvere non uccide. Credevi che fosse giorno; invece là fuori era notte: le mie vicine di casa, le mie compagne di studi dormivano sopra, in quel che restava del palazzo, dentro tende di stracci e sacchetti di plastica. In una sola notte, proprio quella, ne morirono otto. Spero solo che si siano spente in un attimo, che non siano state sepolte vive per poi soffocare come topi impazziti. Non lo saprò mai. E sotto, nelle viscere della terra, sì, quella notte ti amavo».

Ruwaida continua a dire versi, ma adesso scuote il capo, digrigna i denti. Nasrin prende qualcosa da una nicchia, mette tutto nelle mani di lui:

– «I tuoi documenti, ciò che avevi addosso. L’orologio, beh, serviva a uno dei nostri. Il cellulare c’è ma senza scheda».

Si sente un lungo fischio, da fuori. Nasrin si irrigidisce:

– «Sono loro, è il momento che ho temuto di più. Devi andare, tornare a ciò che è tuo, a un destino che non conosciamo. Sai una cosa? Mi sarebbe piaciuto lasciarti almeno una fotografia. Insomma, dai, capisci? Una fotografia di me».

Lui si morde le labbra secche, si stringe le mani nelle mani, alza le spalle. Non sa dove guardare. Sibila:

– «Ce l’ho, adesso, la tua foto. Anche se non dovevo dirtelo».

– «Lo so che ce l’hai, anche se dovevo far finta di non saperlo. Ma volevo dire, insomma, non quella. Una vera. Una foto… una foto carina».

Ruwaida ha smesso, ora è in silenzio e resta voltata dall’altra parte, ferma come una rupe. Lui guarda sbigottito, prova a riflettere:

– «Quando l’hai saputo?»

– «Adesso sarebbe lungo da spiegare. Ma dovevi aspettartelo, che provassi a guardare. Pensi che in un cunicolo sottoterra una donna smetta di essere donna? Ho provato, ecco tutto, l’ho acceso e so cosa è successo».

Lui si scuote appena, la guarda timido:

– «È una funzione automatica, non potevo neanche disinstallarla. Se qualcuno prova a entrare senza password, il cellulare scatta una foto, senza flash e senza rumore, cattura l’immagine anche al buio e la conserva in memoria. Insomma, ci sei dentro tu, pare. Chissà che musino hai. La tua impronta, tutta per me: le guance di una cerbiatta ladruncola, gli occhioni golosi, due labbra sbigottite e le dita appiccicate sullo schermo. Sono le labbra che ho morso nella polvere, le dita di burro che conoscono il mio naso e il mio petto. Voglio vederti in quella foto, la guardiamo insieme subito?»

Fuori si sente un altro fischio, più lungo, imperioso. Lui si mette il cellulare sotto la camicia, velocemente, e fa due passi verso la fessura, verso il pulviscolo di luce opaca. Nasrin grida un numero e:

– «Sta per uscire!»

Ruwaida adesso si è voltata verso di loro, è vicina, nella mano scintilla il bagliore di una lama:

– «Resta dove sei! Ordini o non ordini, io ho perso due fratelli e una nuora, per colpa degli assassini furbi come te».

Di scatto, anche Nasrin si volta, ma verso di lei, e punta la pistola:

– «Anche noi bambine sappiamo sparare. Devi saperlo. Mi hai insegnato tu. Non muoverti, Ruwaida. Lui esce, io e te restiamo qui. E stai zitta. Zitta, capito?»

Ruwaida non si muove e abbassa la voce:

– «Sai cosa può costarti? Sai chi è mio marito, no?»

– «So che prima tocca a te. Il secondo colpo è per me. Ma lui è consegnato a Israele, vivo, e tanti dei nostri tornano. Due donne in meno, e si dirà che sono vittime, combattenti, non importa. Ma lui esce vivo».

Ruwaida lascia cadere il pugnale. Drizza la schiena, gonfia il petto. Lo sguardo è inchiodato su Nasrin ma non è di paura. Il viso ha una piega inesplicabile, che sembra guardare lontano.

Adesso i due si baciano, tremano come foglie, le loro mani si sfiorano, vogliono sciogliersi insieme. Sono mani col solo dorso, ora, un dorso fatto ruvido dalla polvere e dallo sporco, mani unite, dita intrecciate, calde come l’ombra e segrete come notti senza numero e senza mai giorno. Poi si staccano. Lui esce, sparisce in un attimo in quella luce densa, che vista da dentro sembra un irreale bagliore.

Nasrin ha il viso segnato da lacrime così grosse e unte che le rigano il volto come insetti. Guarda Ruwaida e sente fino nelle ossa un terrore di ghiaccio. La sua ora è arrivata.

Invece Ruwaida sorride:

– «L’avresti fatto davvero?»

Nasrin è confusa:

– «Sì, perdonami».

Ruwaida si china, lentamente, da donna forte e matura. Poi si rialza:

– «Beh, questo è tempo di riprenderlo, è affilato e fa male. Non come la pistola che hai in mano. Ti ho insegnato a sparare, sì, bambina. Ma l’arma, poi, te l’ho data con le munizioni che non funzionano. Di quelle buone, che te ne facevi? Poteva disarmarti, tentare qualcosa. Ma sapeva che non sarebbe riuscito a tornare su, senza di te. Comunque fuori ci siamo noi, oppure le bombe dei suoi che gettano morte su tutto, senza distinguere. Solo a casa mia, sono quattro».

– «Due fratelli e tua nuora, lo so. Ma…?»

La donna freme, si increspa e si gonfia come un’onda, la voce diventa un cupo ruggito:

– «Mia nuora era al sesto mese. A volte stare nei cunicoli serve a non vedere il peggio. Troppe cose, non sai, troppe. Lo sai che loro sono morti quasi tutti sotto le loro bombe?»

Nasrin ascolta appena. Assorta, punta la pistola verso il pavimento. Si sente solo lo scatto misero del percussore:

– «Ruwaida, adesso non ci capisco più niente».

Ruwaida mette via il pugnale, il suo abito lo ingoia come un oggetto qualsiasi. Ora si sistema le pieghe, tranquilla:

– «Mi sei piaciuta. Chi è capace di scegliere, di rischiare, sa anche ubbidire davvero, sino in fondo. Penso che mio marito ti proporrà per un nuovo incarico».

Lo stesso giorno, l’uomo sale sul pulmino israeliano. Dopo un saluto e qualche domanda gli chiedono il cellulare, per mandare a Tel Aviv le immagini che ha scattato automaticamente dentro i nascondigli, nei cunicoli, nelle celle rimediate. Vogliono i volti dei carcerieri, dei combattenti, dei fiancheggiatori e dei familiari, uno per uno. Anche le donne, anche i bambini, tutti. Un giorno, non si sa quando: occhio per occhio, dente per dente. E subito, ogni volto serve per i sistemi di controllo: dispositivi integrati fatti di dati, tecnologie di riconoscimento, rilevazione aerea, che usando l’intelligenza artificiale conformano la vita e impartiscono la morte. Lui dice di non averlo, il cellulare, ed è vero. Dice che non gli è stato restituito, e questo no, non è vero. Durante il trasferimento, prima di essere consegnato, l’ha fatto scivolare fra le pietre del sentiero, uno dei mille sentieri che solcano il mare di macerie che un tempo fu Gaza.

Un giorno, fra le rovine spazzate via per fare di Gaza non si sa cosa, anche un cellulare sarà tritato; osceno rifiuto, come ciò che resta dei corpi. Dentro c’è un viso vispo, curioso; il viso di una ragazza palestinese che vuole affacciarsi sul mondo di un uomo, vuole rubargli il cuore e donargliene due, vuole restare uniti per sempre. E dentro, c’è anche un messaggio registrato da lui, a voce bassa, prima di lasciarlo cadere dalla camicia. Parole d’amore che qui lasciamo sepolte, parole distillate dal buio e dai sensi, un anno sottoterra, e che solo così, da quelle tenebre, volano via.

 

 

]]>
Visum et repertum 6 https://www.carmillaonline.com/2025/10/18/visum-et-repertum-6/ Sat, 18 Oct 2025 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90786 di Franco Pezzini

I Tarocchi di Jan Blazek

[È comparsa per i tipi Hypnos, Milano 2025, la novella Jan Blazek. Il bacio del cacciatore di vampiri, primo episodio di una serie, a firma di Antilia de Caston Motte e a cura di chi scrive. Si propone qui uno stralcio dalla Postfazione.] Prendiamo per esempio i Tarocchi. E lasciamo subito da parte l’uso divinatorio: non è il futuro che ci interessa. Si tratta di immagini di archetipi con cui confrontarci nel presente. Ecco, è probabile che ciascuno di noi covi in sé una serie di archetipi, legati a giorni lontani di quell’età [...]]]> di Franco Pezzini

I Tarocchi di Jan Blazek

[È comparsa per i tipi Hypnos, Milano 2025, la novella Jan Blazek. Il bacio del cacciatore di vampiri, primo episodio di una serie, a firma di Antilia de Caston Motte e a cura di chi scrive. Si propone qui uno stralcio dalla Postfazione.]
Prendiamo per esempio i Tarocchi. E lasciamo subito da parte l’uso divinatorio: non è il futuro che ci interessa. Si tratta di immagini di archetipi con cui confrontarci nel presente.
Ecco, è probabile che ciascuno di noi covi in sé una serie di archetipi, legati a giorni lontani di quell’età mitica in cui le nostre giornate duravano un tempo indefinitamente prolungato, fitte di innumerevoli eventi, incontri, scoperte, emozioni – e insieme ai giorni lontanissimi di un passato più remoto, prenatale e (per chi ci creda) connesso a vite ed esperienze precedenti. Un teatro di simboli e maschere fondamentali, traghettati dalle fonti a noi accessibili alla nostra età verde: e dunque narrazioni orali e pantomime, libri e schermi. La narrativa e il fumetto, il cinema e la tv popolari ci hanno abituati a fare i conti con storie ingenue – a dirlo con il pubblico del sussiego – che però hanno presa su di noi: e vergognarcene sarebbe sciocco.
Poi certo, i tempi cambiano. I film di cappa e spada degli anni Sessanta possono dir poco agli odierni giovanissimi (neanche il pur meraviglioso  Eloise, la figlia di D’Artagnan, 1994, probabilmente li toccherebbe) ma quei topoi e archetipi su di noi agiscono ancora, potenziati dalle stesse censure d’epoca. Il frisson di alcune situazioni, la carezza maliziosa di certe schermaglie, il legante sentimentale di personaggi che rischiano la pelle insieme presentano un fiato di avvertibile sensualità ancora nello sguaiato tempo del vedotutto. E l’avventura in costume, priva del rigore del genere storico vero e proprio – che imporrebbe di ragionare secondo parametri d’epoca magari da noi lontanissimi – offre la possibilità di giocare, di “facciamo finta che ero”, di calarci in un teatro di emozioni, pulsioni, desideri.
Ma non è una cosa seria, dirà qualcuno: però dai tempi del saltellante Bes nilotico e in realtà da molto prima esiste una tradizione sapienziale di cose apparentemente non serie, di giochi e buone pratiche che in realtà coinvolgono istanze serissime, parlando di ciò che siamo e proviamo nel profondo e recandoci esperienze per noi significative. Una sorta di distillato con l’aspetto – dice giustamente un’amica illustratrice – di sogni ricorrenti, a trattenere memorie e pulsioni, fantasie e maschere identitarie. Più che parlare di esperimenti narrativi (eventualmente psicomagici), userei allora il termine gioco in costume, spalancato al mondo onirico delle potenzialità e alle coordinate immaginali che ne derivano.
Tanto più che il pastiche, genere di successo postmoderno, ripropone in chiave concentrata e ammiccante le epopee in precedenza assemblate in grandi raccolte di storie: diventa antologia concentrata di saghe alluse tramite personaggi e citazioni, nel segno del gioco ironico e insieme della compilazione “erudita” (almeno dal punto di vista pop), una sorta d’ipertesto. Offrendo così interessanti possibilità anche di altro segno: da un lato ad alludere/collezionare nostri archetipi personali in chiave narrativa, e dall’altro ad assorbire in forma criptata incontri, avventure, passioni privatissime della nostra vita profonda. Certo, a quel punto l’autore sarà anzitutto un curatore, un ricucitore con filo sornione di tasselli approdati dall’esterno ad altri tutti interni: ma proprio il rispetto per le storie altre alluse rende difficile far vantare paternità specifiche. Dove giochiamo noi stessi con la trama di un film mai prodotto su cui corrono soltanto voci e brandelli documentali, ha davvero senso un concetto di autore? o non si è più simili a quegli antichi poeti che cucivano ampi materiali di repertorio con stralci più o meno magmatici di novità interiore? Mentre dall’opposto capo cronologico della storia della scrittura, il riferimento al weird, linguaggio dei paradossi temporali, permette di porre in scena fantasie sparigliate su fili diversi di quel Multiverso che anzitutto abbiamo dentro, imbullonato su scelte e rimpianti, paradossi e contraddizioni della vita che ci tocca.

1974: la leggendaria casa di produzione britannica Hammer si è resa ormai conto che lo scettro del gotico, saldamente tenuto per tutti gli anni Sessanta, le è infine sfuggito di mano. Dopo L’esorcista, è ovvio che vampiri e creature di Frankenstein rechino assai meno brividi. Ma va detto che la Hammer non cercava tanto l’effetto paura, quanto un’inquietudine diversa, rigorosamente gotica e in costume, impastata nei fremiti – emotivi, nevrotici, sessuali… – della nostra vita personale e comunitaria. Se infatti il tradizionalismo in filoni, ruoli, visi rappresenta un elemento di forza della “fabbrica dei mostri” — al punto che Peter Cushing ne avvicinava i film a certe scatole di cioccolatini dove sai di trovare questo o quel tipo, e così continui a comprarle — tuttavia la storia della Hammer è anche quella di una continua esplorazione delle possibilità del gotico, che condusse allo sviluppo del pantheon (o pandemonium) più articolato e miticamente ricco dell’intera storia del cinema horror.
Nella svolta culturale di un’epoca, eccola dunque a cercare nuovi sistemi per cavalcare il gotico. La trilogia Karnstein (Vampiri amanti, 1970; Mircalla, l’amante immortale, 1971, e Le figlie di Dracula, 1971) – più o meno ispirata a Carmilla di Le Fanu – permette di abbinare il mito vampirico a un eros saffico memore della Rivoluzione sessuale, alle fantasie di torbidi riti adolescenziali, alla caccia alle streghe; La leggenda dei 7 vampiri d’oro (1974) mixa horror e arti marziali; il complessivamente meno noto Capitan Kronos cacciatore di vampiri (Captain Kronos – Vampire Hunter, 1974, ma filmato due anni prima) vara un altro tipo di ibrido dell’horror, col cappa e spada che tanto furore ha incassato nel decennio precedente. Il pur lodevole pragmatismo della casa non ne eviterà la crisi, ma si può ormai far giustizia dei giudizi sprezzanti di un certo tipo di critica: il crepuscolo della Hammer ha prodotto film che restano piccoli gioielli dell’intrattenimento, della fantasia e della poesia, con guizzi d’involontaria surrealtà.
Come appunto nel caso di Captain Kronos Vampire Hunter scritto e diretto da Brian Clemens: un film in genere maltrattato dalle monografie, confinato negli interstizi tra paragrafi su altri migliori (o semplicemente meglio inquadrabili) e liquidato frettolosamente quasi nulla ne restasse da dire. In effetti, va detto, non figura tra le opere più brillanti della scuderia britannica: eppure merita la visione, anzitutto per la storia del genere. Certo non può vantare la presenza dei più celebrati mattatori della casa, anche se offre quella scintillante di Caroline Munro, icona del fantastico anni Settanta e volto noto anche al pubblico Hammer; ma proprio la relativa novità degli interpreti permette di collocare Captain Kronos in quel gruppo di pellicole-pilota girate o almeno programmate (il cosiddetto unfilmed Hammer, limbo fascinoso e inafferrabile che strappa rimpianti ai cultori) con cui si tenta originalmente d’innovare la produzione.
Così, proprio il tentativo di sfuggire alle pastoie della tradizionale vicenda di vampiri induce la produzione a spingersi oltre Twins of Evil (Le figlie di Dracula) nella direzione dell’horror in costume, lasciando però perdere le streghe e virando semmai sul cappa e spada. Sarà il tracollo della casa a impedire che Captain Kronos “figli” un nuovo ciclo con avventure su sfondi diversi, ed è un peccato — tanto più che il film rappresenta l’unico tentativo su grande schermo di attingere (sia pure con libertà) a quelle storiche epopee di ammazzavampiri itineranti del XVIII secolo che a tutt’oggi costituirebbero un suggestivo terreno per sviluppi fantastici.
In effetti, nonostante i suoi limiti, il boccone è ghiotto: misteriosi incappucciati e furiosi duelli, fanciulle alla gogna da liberare (chi non sarebbe pronto a rischiare la vita per salvare la scintillante Caroline Munro?), nobildonne anziane dal volto di maschera oppure giovani e sospette androgine, statue ingombranti di morti, mesmerizzazioni e fulminanti necrosi vampiriche. Lo sfondo geografico mantiene il fascino dei consueti Hammer, tra borghi funestati da lutti arcani, boschi e castelli di pervertiti aristocratici; e l’ex-capitano imperiale Kronos, belloccio e maschio, lo attraversa a cavallo in compagnia di un bizzarro esperto (letteralmente) in carriola, combatte, amoreggia e riparte a cose fatte verso nuove avventure. La sceneggiatura, forse non trascinante, riesce però a tener desta l’attenzione con la sua originalità, tra vampiri che non succhiano il sangue ma la giovinezza, nuove tecniche per individuarli — seppellendo rospi morti che riprendono vita — oppure per distruggerli, scontri con spade benedette e rivelazioni (relativamente) impreviste. Senza togliere eccessive sorprese agli spettatori, basti dire che la vampira responsabile della mattanza proviene direttamente dalla famiglia Karnstein di Carmilla…
L’aspetto più brillante dell’operazione resta peraltro quello sotteso all’ipotetica serie: il Settecento delle storie di cappa e spada è anche il secolo delle grandi epidemie vampiriche, quello che vede i lettori d’occidente strapparsi dalle mani le gazzette con articoli sulle nefandezze del giorno perpetrate dai non-morti in remote Ungherie, e di cui Voltaire scriverà: “Non si sentiva parlare che di vampiri”. Un’epoca che invece sul versante della fiction resta da quel punto di vista relativamente vergine: la narrativa, sull’onda delle fantasie vittoriane, preferirà raccontare storie ottocentesche o direttamente del nuovo secolo, senza curarsi delle potenzialità offerte da quel passato. In ciò il vecchio Brian Clemens – 1931-2015, uno dei padri di serie storiche come Sir Francis Drake, The Avengers (fu lui a scegliere Diana Rigg), The New Avengers, Hammer House of Mystery and Suspense – ha ancora da insegnarci qualcosa.

]]>
Odissea americana https://www.carmillaonline.com/2025/10/17/odissea-americana/ Fri, 17 Oct 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91003 di Giovanni Iozzoli

“Arrivammo a Denver con l’indicatore del carburante quasi vuoto e l’Hudson che tossiva polvere da mille miglia di deserto. Era quel periodo selvaggio, sacro e folle in cui Dean e io eravamo inseparabili…”

La notizia è rimbalzata dall’America, ma non ha prodotto un grande clamore letterario. All’inizio si era parlato di un manoscritto inedito, poi dopo la cosa è stata ridimensionata a racconto breve – giusto un paio di cartelle su carta a rotolo da telescrivente. Stiamo parlando del ritrovamento recente di un dattiloscritto di Jack Kerouac, finito in un’asta pubblica al prezzo base di 8500 dollari. Niente di [...]]]> di Giovanni Iozzoli

“Arrivammo a Denver con l’indicatore del carburante quasi vuoto e l’Hudson che tossiva polvere da mille miglia di deserto. Era quel periodo selvaggio, sacro e folle in cui Dean e io eravamo inseparabili…”

La notizia è rimbalzata dall’America, ma non ha prodotto un grande clamore letterario. All’inizio si era parlato di un manoscritto inedito, poi dopo la cosa è stata ridimensionata a racconto breve – giusto un paio di cartelle su carta a rotolo da telescrivente. Stiamo parlando del ritrovamento recente di un dattiloscritto di Jack Kerouac, finito in un’asta pubblica al prezzo base di 8500 dollari. Niente di strano, anzi, sta capitando sempre più spesso che i ritrovamenti postumi riportino grandi autori in libreria. Ma in questo caso a destare curiosità è il luogo del ritrovamento: il manoscritto stava dentro un lotto di oggetti vari appartenuti a Paul Castellano, smaltiti probabilmente dopo lo sgombero di una proprietà di famiglia da parte di eredi, forse inconsapevoli del valore artistico che “The Guardian” definisce “very significant”.

Paul Castellano è stato uno degli ultimi boss riconosciuti del periodo d’oro di Cosa Nostra americana, prima che il ribelle e irriguardoso John Gotti mettesse fine alla sua carriera criminale, rompendo il tessuto di lealtà e omertà che aveva tenuto insieme le cinque famiglie di New York per decenni. Non pochi fanno coincidere la fine della epopea mafiosa negli States, proprio con l’omicidio di Paul Castellano, nel dicembre del 1985. Fu quel “golpe” messo in atto da John Gotti davanti allo Sparks Steak House di Manhattan, a far saltare la regola numero uno – il boss è sempre il boss. Dopo quella violazione salteranno tutte le remore e i pentimenti diventeranno all’ordine del giorno – lo stesso Gotti ne pagherà il prezzo morendo in galera 15 anni dopo quell’omicidio, condannato proprio grazie alla testimonianza chiave del suo uomo, Sammy Gravano.

Il manoscritto di Kerouac pare sia del 1956. Probabilmente si trattava di un primo spunto di quello che diventerà On the road, un libro ormai assurto al rango di monumentale stereotipo letterario, ma che alla sua pubblicazione irruppe sulla scena come opera di portata rivoluzionaria, in grado di segnare per sempre una grande stagione della letteratura mondiale. Usando un canone stilistico originale, Kerouac racconta l’ansia di vita della gioventù americana uscita disorientata dalla guerra, smarrita dentro la vastità dell’Impero vincitore, dove ogni conseguimento ma anche ogni paranoia distruttiva, sembrava effettivamente possibile. La poesia, le sostanze, la strada; oggi sembrano insopportabili luoghi comuni, allora rappresentarono uno squarcio sulla realtà e sull’utopia degli anni 50/60. Un potente viaggio letterario ed esistenziale in bilico tra estasi e tedio nichilista.

Costantino Paul Castellano, che per vie misteriose divenne il proprietario di quel manoscritto, fu invece un figlio esemplare di Cosa Nostra. Suo padre era un macellaio del Bronx, mafioso e benestante. Sua sorella sposò Carlo Gambino, l’unico boss americano che finì i suoi giorni nel letto di casa, circondato dall’affetto della famiglia e della sua cerchia. Gambino non prese mai la cittadinanza americana. A lui si ispirò vagamente Mario Puzo, ma mentre Coppola e Marlon Brando disegnarono la figura epica, eroica e tragica di un boss al tramonto, Gambino amava presentarsi come un ometto insignificante, senza carisma; ispirato sempre da una certa idea “all’antica” di basso profilo, vestiva in modo dimesso e godeva fama di uomo saggio e morigerato. Paul Castellano ereditò alla sua morte il titolo di capo della omonima famiglia Gambino – e leader delle 5 famiglie – ma evidentemente non volle ripercorrere la biografia furba e dimessa dì suo cognato. Castellano aveva la faccia da mafioso, vestiva da boss e fu arrestato sui Monti Appalachi mentre partecipava a quell’incredibile summit ripreso in tanti film e in tanta letteratura di genere. Però coltivava il sogno di legalizzare se stesso e le sue attività entrando a testa alta nel business pulito dell’alimentaristica e del calcestruzzo. Un boss in transizione dunque, un uomo da giacca e cravatta – e anche queste sue aspirazioni legalitarie gli costeranno la vita.

Nel 1956 Jack Kerouac è ancora alla disperata ricerca di un’identità, di un riferimento, segnato dalla mancanza eterna di un “padre” – trasfigurata nella figura del suo Dean Moriarty, perennemente in cerca del suo vecchio lungo le vie desolate del Colorado, le banchine di San Francisco e le strade ferrate dell’Ovest. Dieci anni dopo la guerra Kerouac vive ancora con la nonna e non è apprezzato dagli editori. Paul invece sa benissimo chi è e cosa vuole dalla vita. Il corso della sua esistenza è segnato fin dall’infanzia, nella tronfia sicurezza dei vincenti, dei protetti. Non possono esserci due americani più diversi tra loro.

Jack si lascia affascinare dallo zen laico di Suzuki e prova a diventare un “vagabondo del Dharma”; se le vecchie certezze sono fragili, cerca nella vacuità buddista un senso al suo vuoto interiore, a quella sua dannata incapacità di aderire all’America e ai suoi miti pur amandola disperatamente. Paul invece, in quegli anni non ha problemi di identità. Se Jack è uno sradicato Paul è un treno saldamente installato sul suo binario: il quartiere, i soldi, una bella famiglia, una carriera importante in quella mafia italoamericana, che è una delle aziende emergenti dell’economia post-bellica. Anche lui ama l’America, ma sa come prenderla. Solo passati i 60 anni comincerà a sbandare. Diventerà un velleitario. Dimenticherà le sue radici. Diceva di lui Sammy Gravano:  – il problema di Paul è che non era mai stato un gangster, non aveva mai rapinato nessuno, lui era un taglieggiatore, non aveva mai fatto la fame.

Paul Castellano era borghesia mafiosa. Come tutti i borghesi sognava l’emancipazione, la scalata, il perbenismo sociale. Cominciò a rompere con il suo ambiente, con la sua storia. Non frequentava l’ambiente criminale, timoroso di cimici e fotografi. Rimaneva chiuso nella sua lussuosa villa di Staten Island (vagamente ispirato a lui è il boss italo-americano che tratta con Denzel Washington  in American Gangster); lasciava ai suoi luogotenenti la gestione di affari e territorio – la vita di strada, le rappresaglie, il potere armato. Non voleva più immischiarsi in fatti di sangue. Pensava tutto il giorno a come investire i proventi criminali nell’economia legale che poteva trasformarlo finalmente in un vero uomo d’affari, riconosciuto dalla comunità dei businessmen newyorkesi. Quando Aniello Dalla Croce, il suo braccio destro che tanti problemi gli aveva risolto, muore di cancro, Paul sceglie di non partecipare al suo funerale, per non dare argomenti ai giudici e alla legge Rico.  E’ una rottura simbolica potente con la morale del suo mondo. Una esibizione pubblica di irriconoscenza. Il boss è solo, con le sue velleità. Il barbaro spaccone John Gotti, figlio di un miserabile muratore casertano, è pronto ad ammazzare Cesare ed ereditare il trono maledetto dei Gambino.

Jack, lo sradicato per eccellenza, trasformò il suo racconto di due paginette e mezza, ritrovate oggi, nel prologo del suo capolavoro. Visse i suoi giorni nel dolore e nell’incompiutezza: per il suo personaggio, Sal Paradise, erano combustibile poetico, ma per lui – nella vita vera – furono alcol, vomito, solitudine e delusione amorosa. Visse come era abituato a scrivere, in maniera rapsodica e casuale, su un rotolo bianco senza capo né coda. Jack e Paul condivisero solo una cosa: la frustrazione sessuale ed affettiva. Il primo fu un omosessuale represso e pieno di sensi di colpa; il secondo si innamorò, ormai anziano, della sua domestica centramericana, Gloria Olarte, che poi fu usata dall’FBI contro di lui. Per lei Big Pauly era disposto al divorzio – bestemmia estrema nell’etica del familismo mafioso. Forse sognavano entrambi, Paul e Jack, una seconda giovinezza, una seconda occasione che non riuscirono mai a cogliere – uno per la cirrosi epatica, l’altro per le pallottole. Lasciarono prematuramente la grande odissea americana che prima li esaltò e poi li fagocitò. In modo diverso recitarono un ruolo classico e tragico nell’immaginario collettivo statunitense – che resta un immaginario prevalentemente hollywoodiano, l’affresco di una nazione inseparabile, letteralmente, dal suo cinema e dai suoi libri: non ci sarebbe America senza un boss ammazzato – sulla sedia da barbiere o all’uscita di un ristorante di lusso – e non ci sarebbe America senza un poeta disperato e solo, con la testa piena di dharma e di rum.

Resta la domanda senza risposta – almeno io non ho l’ho trovata sui giornali che riportano la notizia: cosa diavolo ci faceva a casa del boss del Bronx Big Pauly Costantino Castellano quel racconto battuto a macchina su una Underwood oggi conservata al Beat Museum di San Francisco,? Si può solo immaginare che gli eredi, chissà come e chissà quando, abbiano sgomberato il villone – 18 milioni di dollari, la più fastosa costruzione di Staten Island – e che da qualche cassetto siano saltate fuori quelle pagine. Ma erano consapevoli del suo valore? E soprattutto, ne era consapevole Paul Castellano? Quel materiale gli fu venduto da qualche collezionista dopo la morte di Kerouac, come si fa con un dipinto prezioso? Fu il pegno per un debito di gioco non pagato? E Big Pauly lesse mai quelle due pagine? Non era un gretto, le sue velleità di arrampicatore sociale forse lo avevano portato anche a qualche lettura impegnativa. Cosa poteva mai pensare il boss di quella scrittura compulsiva, di quella parabola laica di uomini perduti nella ricerca del succo della vita? Lui quell’essenza l’aveva trovata. Era un novello Gatsby, viveva tra ricchi e imprenditori, amava la sua ciquita Gloria. Non capiva perché mai uno scrittore di successo avesse sentito il desiderio di suicidarsi con la bottiglia. La vita era bella, piena di cose interessanti, di possibilità e poteri e sogni infiniti – e ascese vertiginose, con vista sulla baia e sul ponte Da Verrazzano. E un killer, più fulminante di ogni cirrosi epatica, appostato davanti allo Sparks Steak House di Manhattan, in un freddissimo dicembre del 1985.

]]>
Alien Earth: Trasfigurazioni del canone xenomorfo https://www.carmillaonline.com/2025/10/17/alien-earth-trasfigurazioni-del-canone-xenomorfo/ Thu, 16 Oct 2025 22:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90754 di Walter Catalano

I critici meno favorevoli hanno giudicato la serie ideata da Noah Hawley all’interno del franchise Alien e distribuita sulla piattaforma Disney, un miscuglio di supereroi Marvel, cartoni Disney, riferimenti letterari al Peter Pan di J. M. Barrie e xenomorfi gigeriani in libera uscita o, come qualcuno ha scritto, il matrimonio tra uno xenomorfo e Peter Pan sullo sfondo di una distopia aziendale in stile Severance. Un giudizio decisamente troppo severo a mio modesto avviso. A me il cocktail è sembrato invece assai riuscito, ben equilibrato e strettamente collegato sia tematicamente che, soprattutto, figurativamente, – pur nella sua [...]]]> di Walter Catalano

I critici meno favorevoli hanno giudicato la serie ideata da Noah Hawley all’interno del franchise Alien e distribuita sulla piattaforma Disney, un miscuglio di supereroi Marvel, cartoni Disney, riferimenti letterari al Peter Pan di J. M. Barrie e xenomorfi gigeriani in libera uscita o, come qualcuno ha scritto, il matrimonio tra uno xenomorfo e Peter Pan sullo sfondo di una distopia aziendale in stile Severance. Un giudizio decisamente troppo severo a mio modesto avviso. A me il cocktail è sembrato invece assai riuscito, ben equilibrato e strettamente collegato sia tematicamente che, soprattutto, figurativamente, – pur nella sua saliente autonomia – con tutto il ciclo cinematografico, in particolare con i suoi episodi più rilevanti: l’horror teratologico del primo Alien di Ridley Scott, e l’action combattentistico dell’Aliens di James Cameron. La presenza di Ridley Scott come produttore esecutivo garantisce questa continuità e la serie si pone – a mio giudizio con risultati del tutto positivi – come una sorta di sintesi e di grande omaggio/citazione visuale ai due film più importanti del multiforme ma troppo discontinuo regista inglese (capace di passare, senza fare una piega, da capolavori indimenticabili come I duellanti, a porcate vergognose come Napoleon…): le scene spaziali e astronautiche sono Alien (il primo ovviamente), e quelle urbane terrestri sono Blade Runner. In questo costante riferimento lo show si erge, a mio avviso, ben al di sopra di tutti i più recenti spin-off cinematografici, dai vari Alien vs. Predator, agli stessi Prometheus, Covenant, Romolus. In più ha ritmo ed è divertente – almeno io mi sono molto divertito – anche per il modo in cui il concept è stato impacchettato, pervaso da un piacevole fiotto di energia heavy metal, ad esempio evocata non solo dalla ottima soundtrack nel suo complesso, ma dai sempre più rumorosi needle drop metal di fine puntata, che diventano una ulteriore curiosa attesa da parte dello spettatore – chi ci avranno messo questa volta? (vi rovino la sorpresa: si comincia coi Black Sabbath, in formazione senza Ozzie ma con Ronnie James Dio, The Mob Rules; poi i Tool, Stinkfist; Metallica, Wherever I May Roam; Smashing Pumpkins, Cherub Rock; Jane’s Addiction, Ocean Size; Godsmack, Keep Away; Queens of the Stone Age, Song for the Dead; Pearl Jam, Animal).

Lo scenario delineato dalla trama, mantenendo non solo figurativamente ma anche tematicamente l’equilibrio tra Alien e Blade Runner, armonizzato da espliciti riferimenti a Peter Pan, manovra con efficacia tra la minaccia biologica extraterrestre e l’incubo sociologico terrestre. Il mondo è ormai governato dalle Cinque (Weyland-Yutani, Prodigy, Threshold, Dynamic, Lynch), le multinazionali che si disputano il potere e il controllo globale: niente più governi, solo consigli d’amministrazione. L’evento di origine spaziale che innesca la storia – la collisione dell’astronave Maginot carica di micidiali specie aliene segretamente importate dalla Yutani sulla terra per studiarle e usarle come future armi, precipitata sul territorio della multinazionale rivale, la megalopoli di Prodigy – ha in realtà le sue cause prime sulla terra, dove il giovane triliardario fondatore della Prodigy, Boy Kavalier, il cinico e arrogante Peter Pan che vive come un re sull’isola di Neverland – combinazione adolescenziale di Elon Musk e Mark Zuckerberg – ha avviato una geniale e spietata operazione frankensteiniana, creando gli ibridi, corpi sintetici che ospitano le coscienze di bambini morenti per patologie terminali. Non è dunque una vera e propria guerra a liberare e scatenare lo Xenomorfo sul nostro pianeta, ma l’espionage industriale in un business di cui le creature aliene sono merce strategica: un effetto della concorrenza aziendale che sposta il conflitto dall’arena militare a quella finanziaria.

Agli ormai collaudati androidi – dall’Ash di Alien, al David 8 di Prometheus e Covenant, ai paralleli replicanti dickiani di Blade Runner – per altro ben presenti anche qui con il bel personaggio di Kirsh (Timothy Olyphant), gelido e sarcastico portatore di un’etica alternativa in cui la macchina è superiore all’essere umano, si affiancano altre meraviglie tecnologiche, brevettate in particolare dalla Weyland-Yutani, come i cyborg – ad esempio il fedelissimo ufficiale del servizio di sicurezza della corporation sull’astronave Maginot, Kumi Morrow (Babou Ceesay), umano con parti cibernetiche, avvinto ai gestori dell’ingegneria che lo ha riassemblato con il vincolo di un samurai per il proprio shogun – o la ancor più rivoluzionaria invenzione con cui la Prodigy intende surclassare l’azienda avversaria, quella dei già citati ibridi. A questa categoria appartiene Wendy (Sydney Chandler), il prototipo di un gruppo di bambini superdotati ma condannati da malattie terminali la cui mente è stata reimpiantata in corpi sintetici già adulti e potenzialmente immortali: non più bambini ma non ancora adulti, non più umani ma non ancora macchine – esseri interiormente fragili ma esteriormente dotati di poteri inusitati (da qui l’analogia, che qualcuno ha riscontrato, con i super eroi Marvel…). Non c’è da stupirsi che la “maturazione” di Wendy nel corso della vicenda – una coscienza la sua ancora pienamente umana nei suoi sentimenti di affetto e protezione nei confronti del fratello maggiore Joe Hermit (Alex Lawther) ed eticamente incontaminata – la porti infine a simpatizzare e solidarizzare con gli xenomorfi – modelli perfetti di ferocia e di purezza, opposta alla gretta ipocrisia umana – con i quali comunica e che riesce a controllare: in fondo sia gli ibridi ex bambini, sia gli alieni, sono contemporaneamente promessa e minaccia, prodotto mercanteggiabile e devastante potenza distruttiva.

Anche sul piano dell’iconografia la serie rimanda ai momenti migliori dei film passati: il computer Mother che, come già sulla Nostromo, guida ora la Maginot; le superfici biomeccaniche di gigeriana memoria; le cabine lattiginose del criosonno; le uova quadrilobate e petalo-vaginali; un tripudio di facehugger (iconico quello della principale locandina pubblicitaria, avvinto al volto della Statua della Libertà o all’intero pianeta Terra…) e di conseguenti chestburster: rivediamo in altri personaggi la scena madre per eccellenza, il “parto” di Thomas Kane (John Hurt) nell’Alien originario; la serie è complessivamente molto più generosa d’azione xenomorfa di tutte le ultime uscite cinematografiche. In più agli xenomorfi si aggiungono molti altri – i teratofili lovecraftiani saranno sicuramente appagati -altrettanto micidiali e mostruosi, parassiti e predatori alieni: piante carnivore tentacolate e succhiatrici, mosche vampiro, cimici piranha e, su tutte, un occhio-polipo che parassita le orbite di organismi morti prendendone possesso; lo abbiamo visto impiantarsi su una carogna di pecora, e sembrava già lì terribilmente intelligente, ma nell’ultima puntata – come assaggio introduttivo alla seconda stagione – troverà il cadavere di Arthur Sylvia (David Rysdahl), da cui è appena uscito uno xenomorfo baby, lo scienziato che insieme alla moglie Dame Sylvia (Essie Davis), ha curato per la Prodigy la produzione degli ibridi: è assai probabile che il veicolo umano complicherà l’interazione futura con questo occhiuto villain.

 Un altro elemento sicuramente innovativo della serie e che, in certo modo, infrange il canone xenomorfo, è quello della riformulazione di una nuova relazione col femminile. Finora, da Sigourney Weaver in poi, il tema della Bella e della Bestia, è stato centrale nella saga: il predatore alieno dalle spiccate componenti falliche – testa oblunga, mandibola erettile, coda acuminata con cui impalare le prede, riproduzione endoparassitaria analoga a una violazione – è stato visto alternativamente come simbolo dello stupro, del patriarcato, di una malattia venerea; una sintesi morbosa di sesso e morte, secondo le cupe visioni di Hans Ruedi Giger, sempre in qualche modo – anche quando, come nella versione di Cameron, assimilato alle specie eusociali terrestri come termiti, vespe, api o formiche e sottoposto a una regina con tanto di ovopositore – opposto e avverso al  femminile, che sempre lo combatte e sempre lo vince (perfino quando appare più inerme, letteralmente “in mutande” come Sigourney nel finale del primo Alien: la morbidezza sinuosa, basica-alcalina, della femmina e del gatto contro la rigidità acida dello xenomorfo). In quest’ultimo caso invece, tramite il personaggio di Wendy, una figura femminile diventa per la prima volta alleata e, a suo modo, protettrice della specie aliena. Non sappiamo ancora come questa relazione si andrà sviluppando in seguito, ma per ora – e già il titolo dell’ultima puntata della serie è fin troppo esplicito, The Real Monsters – possiamo già dire che gli schieramenti di campo sono chiari: i veri mostri siamo noi uomini, artefici di un mondo di sfruttamento e di mercificazione, proni al potere di corporation multimiliardarie gestite da psicopatici megalomani come Boy Kavalier, capace di uccidere bambini per trasformarli in macchine, o come Yutani, indifferente alla morte di moltitudini pur di poter sdoganare e sfruttare ai suoi fini pericolosissime creature extraterrestri. Così Wendy si ribella a Peter Pan e si allea a Capitan Uncino. E gli xenomorfi potrebbero trasformarsi – chissà, lo vedremo – in truppe rivoluzionarie.

 

 

 

 

 

]]>
Tremate, uomini, tremate… le streghe non se ne sono mai andate! https://www.carmillaonline.com/2025/10/15/tremate-uomini-tremate-perche-le-streghe-non-se-ne-sono-mai-andate/ Wed, 15 Oct 2025 19:50:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90684 di Sandro Moiso

Sabrina Zuccato, La levatrice di Nagyrév, Marsilo Editori, Venezia 2025, pp. 448, 19 euro

«La levatrice sapeva osservare la natura come nessun’altra: sapeva scorgere gli aspetti benefici, ma anche scovarne le anomalie. E ciò non avveniva soltanto in rapporto ai raccolti e alle bestie. Lei conosceva bene anche la natura umana e sapeva guardare dentro le persone, riuscendo a scandagliare la loro anima. Forse era per questo che le donne del villaggio le chiedevano udienza così spesso.[…] Per loro lei non era solo la levatrice di Nagyrév. Non era solo la guaritrice. Era molto di più: un’amica, un’insegnante, [...]]]> di Sandro Moiso

Sabrina Zuccato, La levatrice di Nagyrév, Marsilo Editori, Venezia 2025, pp. 448, 19 euro

«La levatrice sapeva osservare la natura come nessun’altra: sapeva scorgere gli aspetti benefici, ma anche scovarne le anomalie. E ciò non avveniva soltanto in rapporto ai raccolti e alle bestie. Lei conosceva bene anche la natura umana e sapeva guardare dentro le persone, riuscendo a scandagliare la loro anima. Forse era per questo che le donne del villaggio le chiedevano udienza così spesso.[…] Per loro lei non era solo la levatrice di Nagyrév. Non era solo la guaritrice. Era molto di più: un’amica, un’insegnante, una confidente. Lei era zia Zsusi, e aveva una soluzione per tutto.» (Sabrina Zuccato)

Il romanzo “storico” di Sabrina Zuccato, pubblicato da Marsilio all’inizio di quest’anno, offre l’opportunità di sviluppare una riflessione sulla pratica dell’autodifesa e della violenza delle donne, separando gli avvenimenti reali e storicamente comprovati da una narrazione falsamente femminile e femminista in cui le donne sarebbero solo e sempre vittime indifese della violenza maschile o altra. Incapaci di difendersi autonomamente e, spesso, in maniera estremamente originale e “creativa” dalle ingiustizia e dai soprusi che le circondano e le opprimono, se non affidandosi alla protezione delle istituzioni. Una concezione, quest’ultima, che, volente o nolente, non fa altro che riportare l’iniziativa delle donne sotto la grande ala dei sistema patriarcale, dello Stato e delle sue leggi.

Come ha infatti affermato Anna De Biasio, ricercatrice di Letteratura anglo-americana presso l’Università di Bergamo:

Pochi temi sono terreno di silenzi e di tabù come la violenza femminile. Che le donne possano essere attori della violenza e non solo vittime è sembrato a lungo un ossimoro: parte integrante dei sistemi permanenti e impliciti del pensiero, la rappresentazione del femminile è ancorata a un’immagine di dolcezza e di rifiuto del male che trova espressione nel classico cliché della donna angelo o nell’icona della madre. A questa ritrosia si aggiunge il timore che trattare la violenza agita o immaginata dalle madri, sorelle e figlie possa sviare l’attenzione dal drammatico problema della violenza subita, dagli abusi domestici agli stupri di guerra. Eppure storia e letteratura sono popolate di donne capaci di opporsi al dominio maschile con il ricorso alla forza e persino a rivestire ruoli di rilievo nell’ambito virile per eccellenza, quello della guerra. [Ma] non ovunque, nei contesti nazionali, queste (anti)icone di genere hanno trovato la stessa visibilità1.

E proprio da questo cono d’ombra occorre ripartire per sviluppare non soltanto la recensione del romanzo della Zuccato, ma anche, e soprattutto, una riflessione su cosa significhi avere o non avere rimosso l’azione violenta delle donne dalla narrazione di una Storia che si vorrebbe “al femminile”, ma che ancora non lo è, poiché troppo spesso destinata a ricalcare ancora l’immaginario maschile imposto alla figura e alla funzione della donna.

Sabrina Zuccato (Padova, 1992) è giornalista pubblicista e si occupa prevalentemente di cultura, critica cinematografica e attualità; come ci informa nell’Appendice, il suo romanzo si ispira a fatti realmente accaduti, tra il 1919 e il 1929, nella regione ungherese del Tiszazug, un episodio che sconvolse l’Europa non solo per l’efferatezza dei crimini, ma anche per un inedito capovolgimento dei ruoli: donne che uccidevano gli uomini e che si vendicavano.

Al centro delle vicende narrate si stagliano due figure, una maschile e una femminile.
La prima è quella del capitano Zsigmond Danielovitz, mentre la seconda è quella della levatrice Zsuzsanna Fazekas, entrambe realmente esistite.

Il capitano, un uomo indebolito dalla guerra, ma vigile, viene incaricato di indagare sul cadavere di un’anziana contadina, ma ci mette poco a scorgere, dietro gli occhi degli abitanti del villaggio di Nagyrév qualcosa di sinistro. Rendendosi ben presto conto che quella morte di una donna sulle sponde del fiume Tibisco, in quella ristretta comunità rurale in cui il benessere non è mai arrivato, non è che l’anello di una lunga catena di scomparse e incidenti che da tempo coinvolgono il piccolo villaggio, sperduto nella pianura ungherese. Dove superstizione, violenze, miseria e soprusi sono i protagonisti delle vite che si incrociano in questo affresco rurale, in cui a fare le spese di appetiti e frustrazioni sono sempre le donne, mentre le regole patriarcali della comunità magiara e le meschinità dell’animo umano creano situazioni insostenibili e sofferenze ingiustificabili per mogli e figlie, anziane e ragazze.

L’altro personaggio chiave, intorno al quale ruotano le storie di Nagyrév, è la misteriosa, levatrice dal passato nebuloso, spesso etichettata come «strega» dai suoi concittadini, temuta e, ogni tanto, rispettata, una figura carismatica, rarissimo esempio di donna emancipata, cui molte «sorelle» chiedono aiuto per risolvere i guai che hanno dentro casa. Gravate da inganni, stupri e sottomissioni, le vittime hanno infatti deciso di alzare la testa. Mentre i due personaggi principali, nella trama del romanzo, vedranno intrecciarsi i loro destini anche da un punto di vista sentimentale, in un momento fragile e breve prima della catastrofe finale.

Gli avvenimenti che ebbero luogo a Nagyrév, mostrando gli orrori di cui è capace la vita domestica e, allo stesso tempo, le forme di resistenza alle sopraffazioni di genere, possono costituire però anche una finestra sul presente. In cui i soprusi famigliari possono ancora incrociare le vie della guerra e delle sue conseguenze sugli uomini, le donne e le famiglie.

Mescolando drammaticamente desideri femminili inconfessabili, follia, rabbia e impotenza di uomini tornati inabili o gravemente menomati dalla guerra e per questo trasformati soltanto in inutili bocche da sfamare; vendette e ritorsioni per le violenze subite o minacciate dalle donne e nei loro confronti. Per le quali un parto in più spesso, oltre ad un’ulteriore esperienza dolorosa e traumatica, poteva costituire il motore per la soppressione dei figli o dei neonati che sapevano di non poter sfamare.

Ed è proprio da questa palude di necessità, rancori e paure che si svilupparono i fatti che sconvolsero tra il 1919 e il 1929, ma come afferma l’autrice forse anche già da prima, la regione del Tiszazug con l’avvelenamento di più di cento persone. Una catena di omicidi che sembrerebbe trovare nella levatrice di Nagyrév, Zsuzsanna Fazekas, la maggiore responsabile. Sulle cui responsabilità indagarono il capitano della gendarmeria Zsigmond Danielovitz e ll crudele magistrato inquirente Janos Kronberg. Mentre persino la descrizione contenuta nel romanzo degli abusi condotti sulle donne arrestate all’interno delle istituzioni carcerarie in cui vennero rinchiuse prende spunto dalla realtà dell’epoca.

La maggior parte dei giornali dell’epoca tendeva ad attribuire ogni colpa alla mancanza di moralità delle imputate, tornando a fornire un’immagine della donna schiava delle tentazioni del demonio che già aveva nutrito le fantasie perverse ed erotiche degli inquisitori nei confronti del sabba, ma che affondava le proprie origini nelle prime pagine dell’Antico Testamento e nella figura insaziabile di Eva.

Ma quelle donne non erano mai vissute nel giardino dell’Eden e nemmeno lontanamente in prossimità dello stesso, visto che, come si è accennato prima, molte di loro avevano dovuto subire a lungo le angherie di mariti e parenti alcolizzati e violenti. In un contesto di arretratezza culturale in cui il divorzio, pur possibile, non rappresentava una scelta socialmente tollerabile, soprattutto se a richiederlo era una donna.
Donne e ragazze che, a causa delle tradizioni patriarcali di quella stessa società, spesso dovevano sottostare alla volontà del capofamiglia che poteva disporre chi dovessero sposare. Condizione che faceva sì che le donne, prima come figlie e poi come mogli, non potessero godere di alcuna indipendenza economica.

Durante i primi anni del Novecento, nei villaggi del Tsizazug, la base del sostentamento era costituito ancora dai poderi a conduzione familiare, che determinavano la vita quotidiana e i valori della comunità. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, e la conseguente chiamata alle armi degli uomini più giovani e sani, la cura della casa e della famiglia ricadde interamente sulle spalle delle donne, che poi, terminato il conflitto, si trovarono in maniera del tutto inaspettata a dover provvedere a mariti e figli resi invalidi dalla guerra, spesso mutilati o compromessi a livello psicologico2.

Più di quaranta furono le donne arrestate con l’accusa di essere coinvolte in quella catena di omicidi, quasi tutti diretti contro mariti, padri o altri uomini che ne avevano in qualche modo guastata la vita e che furono, per questo, ripagati con dosi letali di arsenico.
A conseguenza di ciò, nel corso delle udienze dei processi tenutisi presso il tribunale di Szolnok tra il 1929 e il 1931:

due imputate furono assolte in primo grado per mancanza di prove attendibili, altre sei ricevettero pene detentive pesanti per aver avvelenato i loro parenti, otto furono condannate all’ergastolo perché si erano rese complici di omicidi di cui avevano beneficiato in maniera diretta. Infine, sei vennero condannate a morte; a tre di queste, la Corte suprema, durante l’ultimo grado di giudizio, ridusse la pena all’ergastolo.
Il metodo con cui queste donne ricavarono l’arsenico non è mai stato completamente chiarito […] Secondo la documentazione consultata, corrisponde al vero che l’arsenico fosse ottenuto attraverso l’ebollizione di carta moschicida, anche se il procedimento preciso non è mai stato esplicitato3.

Qui vale ancora la pena di ricordare le parole usate da una condannata per omicidio, Maria Papai, per confessare alla corte del tribunale il proprio crimine: «Non mi sento affatto in colpa, perché mio marito era un uomo molto cattivo, che mi picchiava e mi torturava. Da quando è morto, ho trovato la pace.»4.

Come ancora ci ricorda l’autrice: la levatrice di Nagyrév, la guaritrice, l’istigatrice, la strega. Zsuzsanna Fazekas è stata chiamata in molti modi diversi ed è stata appurata la sua responsabilità negli avvelenamenti del Tsizazug.

Alcune fonti la citano con il nome di Mária Lakatos, molte altre ancora con quello di Julia Oláh, e talvolta viene indicata come Gyuláné Fazekas. Le più numerose, tuttavia, la identificano proprio come Zsuzsanna Fazekas, ed è logico pensare che quest’ultimo fosse il suo nome da coniugata. […] La sua prima vittima fu probabilmente un veterano di guerra cieco, da lei usato come “cavia” per provare l’effetto dell’arsenico ricavato dalla carta moschicida.
Le sue riconosciute doti di guaritrice e le basse tariffe richieste per i suoi servizi le garantivano la fiducia dei concittadini, e infatti era molto popolare nel villaggio, benché spesso fosse guardata con soggezione [perché] le comunità rurali erano permeate di credenze e superstizioni. Si riteneva che le levatrici, figure da sempre ammantate di mistero, acquisissero le loro abilità uccidendo qualcuno – di solito i propri figli – e divorandone la carne.
Nel 1929 una donna denunciò l’ostetrica alle autorità, presumibilmente perché le aveva negato i suoi servizi. Le indagini si strinsero presto attorno alla levatrice, che però negò le proprie responsabilità. Durante la mattina del 19 luglio 1929, tuttavia, appena i gendarmi la dichiararono in arresto, si suicidò bevendo lo stesso veleno che molto spesso aveva elargito agli altri5.

Ora, però, si rende necessario sospendere il riassunto dei fatti che costituiscono la base storica su cui si fonda il romanzo della Zuccato, aggiungendo soltanto che a Seghedino, posta alla confluenza tra il fiume Tibisco e il Maros, nel 1728 avvenne la più grande caccia alle streghe della storia ungherese, quando oltre venti persone furono accusate di stregoneria in quella città e dodici persone, tra uomini e donne, furono bruciate sul rogo. Dietro molti processi alle streghe non c’erano solo superstizioni e leggi religiose, ma anche tensioni sociali, paura dell’ignoto, gelosia e malizia, e tra gli accusati c’erano spesso ostetriche, guaritrici e donne che sfidavano le norme sociali o disponevano di conoscenze insolite.

Osservazioni, queste ultime che ci rinviano sia al contenuto del romanzo che alla riflessione cui occorre ricollegarsi per sottolineare come, al di là di una narrazione fin troppo ammansita delle conoscenze e pratiche femminili in età pre-moderna, le streghe, ovvero le donne capaci di interagire diversamente con la natura e con i corpi, sia femminili che maschili, un po’ di timore, soprattutto negli individui di sesso maschile, dovevano effettivamente suscitarlo.

Occorre comprendere ciò per capire a fondo la persecuzione che a lungo fu condotta contro le donne, i loro saperi, le loro “magie”, non solo a titolo religioso, come accadde con l’Inquisizione e ancor prima con la repressione violenta di ogni forma di eresia durante il medioevo, ma, e forse soprattutto, anche politico intendendo la politica nel suo senso più ampio di governo della società. La famiglia, le pratiche sessuali, gli obblighi riservati alle donne in quanto madri, mogli e figlie ancor prima che elementi di controllo morale hanno sempre costituito, fin dal loro apparire, aspetti concreti del dominio politico, patriarcale e di classe6.

Come ha affermato Michela Zucca, storica e antropologa, specializzata in cultura popolare, storia delle donne e analisi dell’immaginario, in una sua ricerca:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia.7.

Motivo per il quale, in un tempo in cui il pensiero unico dominante liberal-borghese tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come la lotta delle donne non sia mai finita. Ad ogni latitudine e in ogni periodo storico declinabile sotto le vesti del dominio di classe. Età contemporanea compresa, in cui, forse a causa dello stesso declino delle forme e valori che ne hanno permesso l’avvento, la lotta si è fatta ancor più visibilmente “politica”.

Una lotta, però, che affonda le sue radici, più di qualunque altra, in tempi storici apparentemente molto lontani, eppure ancora così vicini.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cappuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labbra non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se […] tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità [allora è per questo motivo che] la dea Venere, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua8.

Il poeta e ribelle tedesco Heinrich Heine, nella prima metà dell’Ottocento, riusciva a comprendere come la memoria di altri tempi, più felici, potesse continuare ad esistere nello sguardo e nella memoria più recondita delle donne.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.9.

Una memoria che oggi inizia a ritornare alla luce della coscienza collettiva e obbliga a ripensare tutta la narrazione storica condotta fino ad ora da penne troppo spesso esclusivamente maschili, anche se, proprio a causa di questa “tradizione storiografica”:

È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Un popolo che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinto, distrutto con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti […] era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Un groviglio intricato, ma non inestricabile, di rapporti di genere, di classe, di etnie, sociali ed economici, religiosi e politici che i drammi della storia “femminile”, di ieri e di oggi, non possono far altro che rendere evidenti nella loro funzione repressiva e ordinativa. Tutti elementi che una volta tanto non sgorgano soltanto dall’interno della cultura occidentale, ma che sono drammaticamente presenti anche nella storia, nelle società e nell’immaginario di altri continenti11.

Certo, esiste da tempo una narrazione, soprattutto cinematografica, che pone le donne protagoniste sullo stesso piano dell’uomo per l’abilità nell’uso della violenza, avvicinandole però più a un modello di gusto maschile che non alla realtà della Storia passata. Come afferma ancora Anna De Biasio, nel suo testo già precedentemente citato, sottolineando come tale prospettiva della violenza al femminile sia inestricabilmente compromessa:

con il sistema delle rappresentazioni patriarcali, vuoi in quanto esteriorizzazione erotizzata delle angosce degli uomini di fronte alla trasformazione in atto dei ruoli di genere, vuoi in quanto replicazione di meccanismi ideologici identificati come tipicamente maschili, a cominciare dal ruolo fondativo giocato dalla violenza nei generi letterari e cinematografici in cui più frequentemente appaiono […] Lo stesso tipo di polarizzazione si può osservare nel dibattito critico sulla diffusione della figura della femme fatale nella letteratura e nelle arti dell’Ottocento. Per certi versi quest’ultima appare come un’antesignana delle eroine implacabili che popolano l’immaginario contemporaneo. Anche allora, come oggi, le rappresentazioni di personaggi femminili seducenti e pericolosi, spesso letali, si pongono in un rapporto attivo con i contesti storici e culturali di riferimento; si fanno cioè veicolo, in modo più o meno esplicito, più o meno consapevole, delle tensioni legate al processo di modernizzazione, uno dei quali è la richiesta di maggior capacità d’azione, accesso alle professioni, e in generale di partecipazione allo spazio pubblico da parte delle donne12.

Un discorso che, allargato anche alle dark lady che hanno popolato e popolano le pagine e le immagini di tanta letteratura e di tanto cinema noir, rischia però di nascondere la “tradizione passata” della violenza femminile per ricollegarla quasi esclusivamente alle condizioni derivate dall’esplodere della modernità. Dimenticando quell’immagine paurosa, per gli uomini, che la strega, la dark lady per antonomasia del passato, ovvero la donna libera e cosciente della sua forza e delle sue reali potenzialità non represse dall’organizzazione sociale patriarcale, porta con sé.

Timore reverenziale, si potrebbe quasi dire, che si è tramesso fino ai nostri giorni anche nel linguaggio: esser stregati da qualcosa o da qualcuno, occhi stregati, stregare e così via. Tanto da far pensare, come sostiene ancora la De Biasio che tali figure di “donne forti”, e il linguaggio che le richiama, costituiscano fondamentalmente «incarnazioni di fantasie maschili, sia nel senso di una masochistica fascinazione per la donna sessualmente aggressiva, sia nel senso dei timori dai contorni misogini nei confronti del suo potenziale dominio». Anche perché la femme fatale non solo non può essere ridotta a una semplice maschera di contenuti eterodiretti ma può e deve essere «rivendicata come emanazione di un desiderio femminile attivo, riconosciuta come dotata di una soggettività autonoma in grado di scompaginare le tradizionali definizioni di genere»13.

Ma a questo punto bisogna ancora ricordare, anche se già anticipati, altri due aspetti rimossi della resistenza o dell’uso femminile della violenza. Il primo è quello della pratica delle armi che risale a tempi immemori, non tanto per il mito delle Amazzoni rimasto all’interno della cultura occidentale, ma soprattutto per la pratica militare che spesso le donne esercitarono nelle società pre-statuali, anche in posizione di comando, spesso condiviso con il ruolo di sciamane, e che ha trovato la sua continuità non tanto nell’arruolamento negli eserciti moderni quanto piuttosto in tutte le lotte di liberazione nazionali e in gran parte delle battaglie internazionaliste in cui le donne si sono sempre distinte. Sottolineando poi come, nel caso italiano, sia nella Resistenza al nazi-fascismo che durante la successiva esperienza della lotta armata condotta in Italia a cavallo tra la seconda metà degli anni Settanta e i successivi primi anni Ottanta del secolo passato, sia stato rilevante e cospicuo il contributo fornito da militanti donne sia nella conduzione militare delle azioni che nella loro preparazione14.

Mentre l’altro punto rimasto in ombra afferisce, se così vogliamo dire, al mito, tragico di Medea ovvero alla soppressione dei figli da parte delle madri stesse. Soprattutto in condizione di miseria o schiavitù e là dove la pratica dell’aborto era, e rimane ancora troppo spesso osteggiata moralmente e dal punto di vista giuridico da un regime sociale che, nonostante l’esaltazione del ruolo della donna-madre e della famiglia come focolare e base dell’amore e della nazione, poco o nulla faccia per non lasciare le donne sole di fronte alle difficoltà psicologiche, lavorative ed economiche seguite alla maternità15.

Delle cosiddette streghe di Nagyrév, chiamate talvolta anche fabbricanti di angeli, rimangono soltanto poche foto ingiallite e quasi cancellate dal tempo. Ma il loro ricordo, o perlomeno quello della loro battaglia, per sopravvivere in un mondo che non meritavano a causa della sua intrinseca miseria, ha continuato a manifestarsi fino ad oggi nei modi e nei luoghi più impensati.

Come in quel gennaio del 1976 quando tante giovani streghe tentarono un assalto al Duomo di Milano che il papa Paolo VI condannò come atto «indecente e sacrilego».

N. B.
Questa recensione e i suoi contenuti sono da ritenersi frutto del confronto sugli stessi argomenti tenuto nel corso degli anni tra l’autore e Cosetta, una di quelle giovani streghe.


  1. A. De Biasio, Le implacabili. Violenza al femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento, Donzelli Editore, Roma 2016.  

  2. S. Zuccato, La vera storia dietro «La levatrice di Nagyrév», Appendice a La levatrice di Nagyrév, Marsilio Editore, Verona 2025, p. 441.  

  3. S. Zuccato, La vera storia dietro «La levatrice di Nagyrév», cit., pp. 431-432.  

  4. S. Zuccato, cit., pp. 35-36.  

  5. Ivi, pp. 432-433.  

  6. Si veda il sempre valido F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: alla luce delle ricerche di Lewis H. Morgan, un trattato sul materialismo storico scritto e pubblicato nel 1884 che si basava in parte sulle note di Karl Marx al libro The Ancient Society, dell’antropologo americano Lewis Henry Morgan.  

  7. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29.  

  8. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46.  

  9. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 12.  

  10. Ivi, pp. 17-19.  

  11. A solo titolo di esempio si pensi alla tradizione sciamanica e ribelle delle donne giapponesi affrontata in: R. Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025; M. Zanetta, Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine, 2024; R. Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese, Mimesis, 2023 e F. Soriano, Noe Itō. Vita e morte di un’anarchica giapponese, Mimesis, Milano-Udine 2018. Tutti i testi citati sono stati in precedenza recensiti da Gioacchino Toni su Carmillaonline.  

  12. A. De Biasio, Le implacabili, op. cit., pp. IX-X.  

  13. Ivi, p. XI.  

  14. Si consultino in proposito: A. Cantaluppi, M. Puppini, “Non avendo mai preso un fucile tra le mani”. Antifasciste italiane alla guerra cvile spagnola 1936-1939, WWW. AIVACS. ORG., Milano 2014; I. Faré, F. Spirito, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie, interviste, riflessioni, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1979 e P. Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma 2015.  

  15. Si veda in proposito S. Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016 – recensito qui.  

]]>
Un mitomane a Parigi, in un noir https://www.carmillaonline.com/2025/10/14/un-mitomane-a-parigi-in-un-noir/ Tue, 14 Oct 2025 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90970 di Paolo Lago

Boileau – Narcejac, I vedovi, trad. it. di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Adelphi, Milano, 2025, pp. 172, euro 18,00.

Alla casa editrice Adelphi si deve il merito di aver recentemente riproposto, in traduzione italiana, una serie di romanzi di Boileau-Narcejac, vale a dire Pierre Boileau e Thomas Narcejac, autori di svariati romanzi polizieschi e noir. Si possono ricordare titoli come I diabolici, Le incantatrici, Le lupeLa donna che visse due volte (portato sullo schermo da Alfred Hitchcock). Ma il merito va indubbiamente anche ai bravissimi traduttori che si sono cimentati di volta in volta nella resa italiana [...]]]> di Paolo Lago

Boileau – Narcejac, I vedovi, trad. it. di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Adelphi, Milano, 2025, pp. 172, euro 18,00.

Alla casa editrice Adelphi si deve il merito di aver recentemente riproposto, in traduzione italiana, una serie di romanzi di Boileau-Narcejac, vale a dire Pierre Boileau e Thomas Narcejac, autori di svariati romanzi polizieschi e noir. Si possono ricordare titoli come I diabolici, Le incantatrici, Le lupeLa donna che visse due volte (portato sullo schermo da Alfred Hitchcock). Ma il merito va indubbiamente anche ai bravissimi traduttori che si sono cimentati di volta in volta nella resa italiana delle vicende messe in scena dai grandi scrittori francesi: Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Ad affiancare quest’ultimo, nella più recente trasposizione italiana del duo francese offerta dall’editore, I vedovi, incontriamo, sotto la veste di traduttore, Ezio Sinigaglia, che è anche un bravissimo romanziere e poeta, fine facitore di intrecci assolutamente non banali nonché di un intrigante linguaggio a pastiche.

I vedovi, uscito in versione originale nel 1970, si ambienta in un’estate parigina dalle tinte fosche con sullo sfondo un solleone che si tinge di noir. Il protagonista è un giovane aspirante scrittore, Serge Mirkin il quale, oltre a presentarsi come un vero e proprio “mitomane”, è anche tremendamente geloso della bellissima moglie Mathilde, disposto persino ad uccidere a sangue freddo per eliminare ogni possibile rivale. Innanzitutto, chiarisco cosa intendo qui per “mitomane”: si tratta di una definizione utilizzata da Gian Biagio Conte per definire il protagonista io narrante del Satyricon di Petronio (I sec. d. C.), Encolpio, il quale si presenta come un narratore continuamente ingannato dal mito e dalla letteratura alta. Dal momento che si tratta di un colto studente e intellettuale catapultato in un ambiente misero e meschino, non può che vivere ogni situazione frapponendo un filtro fra sé e la realtà, un filtro che gli deriva dalle sue letture ‘elevate’: mito, poesia epica, poesia elegiaca. Fino a credersi, in alcuni momenti, un nuovo Achille o un nuovo Ulisse1. Ebbene, anche Mirkin, come Encolpio, sembra frapporre un filtro letterario fra sé e la realtà. È innanzitutto la gelosia a fargliela vedere completamente stravolta, frutto quasi di un delirio onirico, ma anche la letteratura e il cinema hanno una parte considerevole. All’inizio del romanzo lo vediamo intento a procurarsi una pistola in un sordido bar e così si esprime il personaggio che, esattamente come Encolpio, è l’io narrante dell’intera storia: “Tutto fin troppo facile! Avevo l’impressione di guardare un film di gangster. Anzi, mi muovevo in un film di gangster” (p. 9). L’immaginazione di Mirkin, forse, corre allora a un film come Grisbì (Touchez pas au grisbì) di Jacques Becker, del 1954, che, in quella fine anni Sessanta in cui molto probabilmente si svolge la storia, doveva essere già un classico (tra l’altro, con un attore iconico come Jean Gabin).

Se a Mirkin sembra di muoversi in un film di gangster, è anche vero che egli è completamente separato dalla realtà, come “un pesce nell’acquario”: “Non pensavo più a niente. Ero oltre il confine. Il viale, le auto luccicanti, la luminosità untuosa del tramonto, Mathilde, tutto era lontano; era altrove. Un pesce nell’acquario. Nuota: guarda, un occhio per volta, ora a destra ora a sinistra. Vede delle sagome, le sfiora, immerso nell’indefinito; si dissolve in un sogno liquido; è mostruosamente solo. Ecco. Tutto qui” (p. 10). Lo stesso sfondo parigino assume un aspetto vitreo e indefinito, come avvolto da una perenne nebbia nonostante il caldo estivo. È come se Mirkin si muovesse in una realtà virtuale, in una Parigi da incubo onirico, un universo in cui nemmeno lontanamente si sente l’eco di quel Sessantotto che, pure, doveva essere ben vicino. Per sbarcare il lunario, presta poi la sua voce a personaggi di radiodrammi e sceneggiati ma, in virtù della sua “mitomania”, si trova a pronunciare una frase come questa: “Il vero sceneggiato era quello che stavo vivendo in prima persona” (p. 65). Ma di che sceneggiato si tratta? Naturalmente, qui, non posso svelare più di tanto sulla trama: basti sapere che c’è di mezzo la gelosia e un omicidio compiuto da Mirkin (questo lo posso dire, c’è anche nella seconda di copertina…) spinto proprio da quest’ultima. Il personaggio, frapponendo un filtro letterario fra sé e la realtà, la trasforma come più gli aggrada; gli autori sono abilissimi nel creare questo sfondo di cartapesta allestito apposta per i movimenti scenici di Mirkin: oscuri bar e bistrot, ristoranti di periferia, eleganti palazzi di città e ville di campagna, un appartamento oscuro e livido – quello in cui abita assieme alla moglie – in cui si condensano il suo senso di insoddisfazione e la sua lancinante gelosia, la sua “follia” che “si è trasformata in dolore” (p. 99), il suo sguardo obnubilato sulla realtà circostante, sulle strade che sembrano, appunto, frutto di un “sogno liquido”. Certi angoli, certi interni, certe strade paiono uscite da un romanzo russo, da Le anime morte di Gogol’ o, meglio, da certi romanzi di Dostoevskij. Anche se il nome Mirkin possiede una certa assonanza col Myškin de L’idiota, mi viene in mente soprattutto Delitto e castigo: Mirkin, come un nuovo Raskol’nikov, si muove per le vie di Parigi (che si sostituisce a San Pietroburgo) in preda a un delirio febbrile, a una dolorosa e lancinante angoscia perdendosi in sordidi vicoli e bassifondi.

Nel romanzo di Boileau e Narcejac ha un grande spazio anche la fama letteraria nonché i più meschini sotterfugi cui un individuo può essere disposto per ottenerla: Mirkin è uno scrittore che vorrebbe sfondare a tutti i costi ma, ovviamente, in virtù della sua mitomania, è già convinto di essere bravissimo e geniale (“Sapevo di avere talento! Lo sapevo…”, p. 73). E anche il suo antagonista (ma su questo altrettanto importante personaggio davvero non posso dire di più), il ricco Patrice Garavan, appare intriso di mitomania letteraria: durante una discussione con Mirkin fa riferimento, come se niente fosse, a un personaggio di un romanzo di William Somerset Maugham, “quel funzionario che indossa ogni sera lo smoking per cenare sotto la tenda” (p. 156). Lo stesso Garavan coinvolgerà Mirkin nel lavoro di una trasposizione cinematografica di un romanzo, un lavoro da condurre assieme nella sua isolata villa di campagna, in una situazione molto simile a quella inscenata dalla serie TV Les papillons noir (2022), in cui uno scrittore accetta l’offerta di un misterioso individuo di scrivere un romanzo ispirato alla sua vita altrettanto misteriosa.

Se, nell’universo finzionale de I vedoviquei diabolici anni Settanta che vediamo nella serie TV, intrisi di violenza gratuita, sono ancora di là da venire, ne percepiamo già le prime avvisaglie: una Parigi spettrale, specchio oscuro di un film di gangster, di un radiodramma o di uno sceneggiato altrettanto oscuro e violento, in cui niente lascia intuire le proteste del vicino maggio francese e in cui si muove un personaggio vittima di una mitomania letteraria e cinematografica, separato dalla realtà, truce epigono e imitatore di vecchi gangster ma unicamente interessato alla sua sfera privata fatta di presunta fama letteraria e gelosia. E se la sfera intima e privata si sostituisce alla realtà e ne prende il posto, in un ribaltamento, una violenza che non guarda in faccia a niente e a nessuno invaderà le strade. I tempi dei veri gangster e del codice d’onore della vecchia malavita sono davvero lontani.


  1. Cfr. G. B. Conte, L’autore nascosto. Un’interpretazione del «Satyricon», Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 11-105. 

]]>
La Sinistra Negata 04 https://www.carmillaonline.com/2025/10/13/la-sinistra-negata-04/ Mon, 13 Oct 2025 21:50:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90913 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale

Le puntate precedenti le trovate qui, qui e qui.

Segue la Parte seconda. Gli Anni Settanta.

3. L’AUTONOMIA.

Il più vitale dei gruppi extraparlamentari di ascendenza operaista, Lotta Continua, è il primo a soccombere alla nuova composizione di classe. Ad appena due anni dalla sua costituzione in partito, Lotta Continua si trova infatti lacerata dal conflitto tra i soggetti sociali emergenti, giovanili e femminili, [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale

Le puntate precedenti le trovate qui, qui e qui.

Segue la Parte seconda. Gli Anni Settanta.

3. L’AUTONOMIA.

Il più vitale dei gruppi extraparlamentari di ascendenza operaista, Lotta Continua, è il primo a soccombere alla nuova composizione di classe. Ad appena due anni dalla sua costituzione in partito, Lotta Continua si trova infatti lacerata dal conflitto tra i soggetti sociali emergenti, giovanili e femminili, e i vecchi gruppi operai, decisi a difendere le proprie prerogative ed una centralità ormai declinante1.

Interi spezzoni dell’organizzazione se ne distaccano, contestandone l’“istituzionalizzazione” e la tendenza al burocratismo. Costituiranno una costellazione di collettivi grandi e piccoli, destinati a confluire nel generico “Movimento” che si sta condensando a seguito dello sfaldamento dei gruppi e delle nuove tendenze aggregative, o in una sua specifica componente che da almeno tre anni conosce una crescita via via più rapida: l’area dell’autonomia operaia”.

Definire quest’ultima non è facile2. La compongono, originariamente, gli ex militanti di Potere Operaio e del milanese Gruppo Gramsci, cui si aggiungono altre forze provenienti da organismi di fabbrica, sia dalla diaspora degli “extraparlamentari”. Un’ulteriore componente, che però con l’operaismo in senso stretto mantiene scarsi legami, è rappresentata dalla cosiddetta “autonomia creativa”, molto attenta alle istanze giovanili e ai risvolti culturali e comportamentali del movimento.

Un discorso sull’autonomia operaia – che, rinunciando dall’inizio a una costituzione artificiale in partito, consuma la propria vicenda senza dar vita a stabili forme di centralizzazione (a parte occasionali coordinamenti e l’esperienza contrastata di un organo nazionale) – rischierebbe di risolversi in un’elencazione di sigle e di episodi. Più utile è, al nostri fini, accennare all’elaborazione teorica che accomuna la maggior parte del gruppi autonomi, pur rimanendo estranea a taluni settori dell'”area”.
Le componenti decisive dell’autonomia, quelle più impegnate nell’elaborazione teorica, riprendono molte tematiche a suo tempo sviluppate da Potere Operaio, e in primo luogo quella essenziale del “rifiuto del lavoro”.

Ma il referente non è più, o non è solo, l’operaio-massa. Analizzando i mutamenti intervenuti nella struttura produttiva l’autonomia constata che il ciclo della produzione ha sfondato i recinti della fabbrica, investendo il territorio e dilatando ad esso l’ambito lavorativo. E ciò non solo per la diffusione capillare del lavoro nero, a domicilio o precario, ma per il costituirsi di processi di valorizzazione radicati nel sociale e coinvolgenti soggetti anche non direttamente impegnati nella produzione3.

L’autonomia vede quale conseguenza di tutto ciò l’emergere di una nuova figura chiave da loro definita “operaio sociale”: “operaio” perché comunque inserito in uno schema di valorizzazione del capitale, e “sociale” perché prodotto della diffusione fuori della fabbrica e sul territorio dunque nel “sociale” appunto del lavoro salariato e dell’estrazione del plusvalore. “Operaio sociale” scrive il più brillante teorico dell’autonomia operaia, “è il lavoro produttivo che si estende socialmente, riconosce le sue caratteristiche di lavoro astratto, quindi di lavoro dotato di un’essenziale mobilità sociale e con ciò della sua capacità di rappresentare la generalità del lavoro sfruttato”4.

Si riconoscerà la stessa impostazione giuridico-filosofica, assai più che economica, già rilevata in riferimento a “Classe Operaia” e a Potere Operaio, e in parte mutuata dagli scritti giovanili di Marx. Ma se la teoria nasce recando vizi e virtù della formazione degli autori, resta il fatto che moltissimi riconoscono nell’operaio sociale” un tentativo soddisfacente di descrizione della loro condizione, che li vede impegnati nella ricerca di forme di sopravvivenza fuori di una fabbrica che li rifiuta e che essi rifiutano. Mentre altri giovani, che in fabbrica continuano a stare, manifestano vistosamente nella vita quotidiana e nelle stesse forme di lotta (come l’occupazione. spontanea della FIAT Mirafiori, nel 1976) la loro estraneità al luogo di lavoro e la tendenza a cercare spazi di ricomposizione a livello territoriale.

Nel periodo in cui i “gruppi extraparlamentari” si sciolgono o cercano impossibili sbocchi elettorali (impossibili perché la loro natura di organismi d’avanguardia preclude strutturalmente un’affermazione di massa sul piano del voto), l’autonomia operaia si afferma come l’unica forza adeguata e attenta ai mutamenti della composizione di classe, conoscendo una crescita che tra il ’76 e il ’77 si fa rapidissima. Ciò anche in virtù del fatto che, nel panorama della sinistra rivoluzionaria, l’unica proposta strategica credibile appare la sua.

Altro punto fermo nell’elaborazione dell’autonomia (derivante in linea diretta dalla tematica del “controllo operaio”, sviluppata a suo tempo da Panzieri e dal primo operaismo) è infatti quello del “contropotere” e cioè dell’estensione territoriale del controllo proletario sia tramite il radicamento di organismi di massa extraistituzionali, sia attraverso l’esercizio della forza per l’imposizione di una sorta di “controlegislazione” delle classi subalterne (il cosiddetto “decreto operaio”).
La lotta contro gli spacciatori di droga, il lavoro nero, lo straordinario, per la riappropriazione collettiva di ricchezza da parte di chi produce ogni ricchezza, si inserisce così in un progetto di transizione che vede un comando dal basso sostituirsi al comando dall’alto, una controsocietà nascosta erodere la società del capitale fino a sovrapporsi ad essa. Simile progetto appare in armonia con quanto sta concretamente avvenendo in molte situazioni (vedi i ripetuti picchettaggi contro lo straordinario in alcune grandi industrie, l’imposizione della presenza in fabbrica degli operai licenziati, le “ronde” contro il lavoro nero, ecc.), ed in sintonia con talune tematiche, come quella degli “spazi liberati” agitate dal “Movimento” genericamente inteso.

È in ogni caso un piano di sovvertimento sociale più concreto, e più legato alle origini e alla storia della sinistra rivoluzionaria italiana, di quanto lo siano le ipotesi di ingresso “strumentale” del PCI al governo, di conquista del Parlamento da parte di partiti minuscoli o, peggio, di insurrezione generale del proletariato italiano, con tanto di scontro con l’esercito e di espugnazione armata delle città. L’unione dei due elementi descritti – un’analisi convincente della composizione di classe e una strategia sufficientemente credibile – fa sì che i numerosi momenti conflittuali del 1977, condotti da folte frazioni del nuovo proletariato giovanile, rechino l’impronta dell’autonomia operaia, pur essendo quest’ultima forse minoritaria all’interno di un “Movimento” privo di connotazioni ideologiche spiccate. Ma se l’autonomia nel ‘77 vince politicamente la lotta per l’egemonia sull’estrema sinistra, non vince le battaglie contro lo Stato, contro la ristrutturazione economica e contro un fenomeno che in parte la contamina nelle espressioni più radicali e organizzate: l’emergere delle organizzazioni armate e il conseguente innalzamento dei livelli di scontro tra queste e lo Stato.

 

4. LA LOTTA ARMATA.

Da quanto si è detto fino ad ora, dovrebbe essere apparso chiaro un connotato storico essenziale dell’estrema sinistra di matrice operaista: la sua connaturata tendenza a muoversi nella sfera del sociale, rimanendo invece quasi del tutto estranea alla sfera del politico. Rivelatore è l’esempio del più esteso e vivace gruppo operaista, Lotta Continua, che decreta il proprio suicidio nel momento in cui si accosta a logiche di tipo politico-parlamentare, suscitando la rivolta e l’esodo di nuclei di militanti vincolati a tutt’altra formazione. Ebbene, quel che più colpisce nell’azione dei gruppi armati sorti nel corso degli anni Settanta, ma affermatisi come forza significativa solo alla fine del decennio, è proprio la tendenza a tentare di incidere sulla sfera politica, volgendo così le spalle a un’intera tradizione di Movimento. Ciò vale anzitutto per il più numeroso e articolato di questi gruppi, le Brigate Rosse – che del resto, combinando derivazione maoista e richiami alla lotta partigiana, ispirazione al modello dei Tupamaros uruguayani, non possono in alcun modo essere fatte rientrare nel filone della sinistra operaista (se non su un piano semantico, contando numerosi operai al proprio interno)5.

Ma vale anche per Prima Linea, secondo gruppo in ordine di importanza, che invece può rivendicare una genesi nell’ambito dell’operaismo, seppur mediata e diluita da molti passaggi6. Dunque, se le Brigate Rosse instaurano un vero e proprio “dialogo a distanza” col sistema politico, cercando di influire con le loro azioni sulle linee di governo (vedi l’azione Moro, attuata sostanzialmente per ostacolare la politica del “compromesso storico”), Prima Linea parla, più “operaisticamente”, di “disarticolazione del comando capitalistico sul territorio”. Ma ciò non si traduce in un agire pratico diverso da quello dei brigatisti, dal momento che i centri del comando finiscono con l’essere individuati in determinati settori istituzionali (magistratura, arma dei carabinieri), da “disarticolare” uccidendone gli esponenti7.

Benché Prima Linea nelle sue azioni si riferisse talvolta anche a tematiche del tutto coincidenti a quelle dell’operaismo, tali azioni si ponevano totalmente al di fuori dalle forme di lotta di massa, spesso anche violente, del movimento autonomo8.

A questo punto, anche per Prima linea la sfera del sociale era ancora una volta subordinata alla sfera del politico, e il taglio con la tradizione operaista fu dunque nettissimo. Non è un caso se gli scarni documenti prodotti da questa organizzazione non prestano la minima attenzione alla tematica dell’operaio sociale, ai suoi comportamenti e alle sue lotte concrete (che pure stavano “disarticolando il comando capitalistico” ben più delle sporadiche “esecuzioni” attuate da Prima Linea)9. Del resto, è tutta la sua produzione teorica (e dei gruppuscoli minori da cui è circondata) ad essere grossolana e scarsamente leggibile.

Così l’operaismo tocca il gradino più basso della sua vicenda, iniziata con una capacità d’analisi e una vivacità di proposte incommensurabilmente superiori a quelle della sinistra istituzionale. Simile declino è verificabile non solo sul piano della teoria, ma anche e soprattutto su quello della prassi. La lotta armata (e ciò vale anche per le Brigate Rosse) non si è in realtà configurata come guerriglia10: ossia come uno scontro armato di classe indirizzato a un rovesciamento dell’avversario e/o alla costruzione di forme stabili di potere alternativo, ma – nella misura in cui ha adottato la prassi quasi esclusiva dell’omicidio politico – come tentativo di intimorire, attraverso i suoi uomini, il sistema istituzionale, si è caratterizzata piuttosto come azione circoscritta a inattendibili avanguardie che, invece di valorizzare e dare impulso a una conflittualità dilagante, l’hanno di fatto inibita sul nascere (oltretutto con la velleità miope di averne l’egemonia). Si può dire che le organizzazioni armate si siano lasciate inanellare in un “gancio” storicamente ben collaudato, una logica nella quale sono cadute non poche realtà rivoluzionarie nel mondo: l’effetto escalation: la sopravvalutazione delle proprie forze e di quelle del movimento e, nel contempo, la sottovalutazione delle potenzialità del nemico di classe. Il che conduce a un’escalation del conflitto e quindi a una repressione “a mano libera”, da parte dello Stato, su tutto il Movimento. La storia dei rivoluzionari è lastricata di queste strategie suicide. E infatti, nel caso italiano, il sistema non si è affatto intimorito, ma ha reagito con tutti gli strumenti a sua disposizione (apparati polizieschi, mezzi di informazione, ecc.: ben più numerosi e potenti, per forza di cose, di quelli dell’antagonismo), costringendo l’intero Movimento a uno scontro su un terreno non suo, a un livello di confronto militare fuorviante e comunque spropositato e prematuro.

La lotta armata in Italia – al di là delle intenzioni dei suoi propositori – non è stato un veicolo insurrezionale per l’abbattimento del sistema capitalistico, e nemmeno una forma di comando dal basso, ma esclusivamente azione dimostrativa, gesto esemplare, esercizio muscolare. Non a caso, la larga maggioranza della sinistra di classe – che pure, come già detto, adotta anche la violenza per instaurare contropotere territoriale – vi assiste come ad uno spettacolo, pagandone fino in fondo, in stato di totale impotenza, le conseguenze negative. Mentre minori conseguenze pagheranno moltissimi degli autori dello spettacolo stesso, pronti, al primo rovescio, a un fuggi fuggi generale e alla delazione in cambio di misure premiali (se non addirittura in certi casi dell’impunità), che rappresenta un caso unico nella storia dei movimenti armati nel mondo.

Sta di fatto che la sinistra operaista, ogni volta che abbandona l’ambito sociale per spostarsi in quello del politico, come nel caso dei gruppi “extraparlamentari” o delle organizzazioni armate, rinnega la propria natura intima e indebolisce la propria identità. Ciò in quanto, sia l’operaio massa, che l’operaio sociale, si nutrono di estraneità: estraneità alla fabbrica, estraneità al lavoro, ma anche estraneità allo Stato e alle sue istituzioni, estraneità al sistema dei partiti, estraneità alla logica politica. Questi ultimi non sono terreni di ricomposizione, ma di decomposizione, sui quali ogni scontro è sempre perdente: si tratti di uno scontro armato o di uno scontro elettorale.

La tematica del rifiuto del lavoro implica il rifiuto del sistema, negazione totale del confronto con esso. Alla fine degli anni Settanta la sinistra operaista, costretta a uscire dalla penombra dell’estraneità e a “partecipare”, sia pure in forme conflittuali, a un sistema che non le appartiene e a cui non appartiene, inizia a dissolversi. Ma il processo di dissoluzione non sarebbe di per sé sufficiente a paralizzarla, se il capitale non lavorasse attivamente alla disgregazione dei soggetti sociali e delle culture sociali che ne sorreggono il programma. Negli anni successivi infatti, sarebbe entrato in scena un fattore ben più micidiale per l’antagonismo sociale al capitale, per i suoi quarant’anni di percorsi collettivi, i suoi legami sociali, la sua cultura radicata nelle classi popolari. Un fattore che avrebbe trasfigurato l’intera società italiana (e non solo italiana), azzerando gradatamente ogni impulso alla conflittualità di massa, ogni senso di appartenenza di classe. C’è chi lo chiama post-industriale, chi post-moderno. Di fatto una terza rivoluzione epocale che manda a gambe all’aria ogni visione economico-politica marxiana “classica”, a partire dagli epigoni d’un terzinternazionalismo ormai spuntato, incapace di leggere i mutamenti e di vedere Marx oltre Marx stesso.

Anche l’operaismo subisce la stessa sorte, al di là delle sue intuizioni feconde che, nel riconoscimento delle nuove soggettività e dei nuovi fenomeni di riproduzione del capitale (decentramento produttivo), investono le categorie stesse del marxismo. Comunque ancora troppo poco per interpretare e fare fronte a mutamenti tanto rapidissimi, quanto letali per una prospettiva di rovesciamento del capitalismo e di realizzazione di una società senza classi.

 

5. GLI ANNI OTTANTA.

Informatica, robotica: termini già di uso corrente nei primi anni Settanta. Solo alla fine del decennio, però, quando vede per un attimo scosso il proprio dominio, e in un contesto di mutamento internazionale dei processi produttivi (che imponevano un adeguamento nell’organizzazione del lavoro per far fronte alla concorrenza di altri poli industriali) il capitale sfodera in piena luce queste nuove armi, vibrando al proletariato industriale un colpo violentissimo. Con la ristrutturazione dei sistemi produttivi e l’automazione massiccia, la classe operaia inizia letteralmente a sgretolarsi, disperdendosi nella varietà di impieghi (a basso reddito) offerti dal settore dei servizi o rimanendo semplicemente esclusa da qualsiasi attività lavorativa, formando quella che Marx definì a suo tempo “sovrappopolazione relativa costante”11.

Mentre, tra i ceti medi, i segmenti collegati appunto alla produzione di servizi, oppure al commercio, o a compiti manageriali, hanno accesso non solo a un benessere materiale in precedenza sconosciuto, ma anche un’inedita centralità economica e politica12. La marcia antisciopero dei 40.000 quadri della FIAT nel 1981, è il primo sintomo della forza accumulata dai ceti medi nel nuovo contesto produttivo, nonché dell’acquisizione da parte di loro di una precisa “coscienza di classe”, ovviamente di segno antioperaio. “Nuovi poteri” da un lato, “nuovi ricchi” dall’altro. Questa dicotomia, che dagli inizi degli anni Ottanta non fa che approfondirsi, non è esclusivamente frutto del passaggio dalla meccanizzazione all’automazione. Decisivo è il peso del decentramento produttivo operante su scala internazionale, mentre gli anni Settanta erano stati maggiormente caratterizzati, come si è visto, dal decentramento interno.

Per comprendere le implicazioni del fenomeno, che vede il trasferimento nel Terzo Mondo di interi cicli di lavorazione a contenuto tecnologico “tradizionale”, è utile pensare al sistema produttivo occidentale come a una grande fabbrica situata nel cuore di una metropoli. Che accadrà se i reparti meno qualificati e meno avanzati dal punto di vista tecnologico di quella fabbrica saranno spostati in periferia? Al centro resteranno, oltre ai reparti più avanzati, richiedenti un personale ridotto altamente specializzato, la direzione e tutta una serie di servizi. Servizi di due specie: qualificati (uffici di commercializzazione, di consulenza legale, di pubbliche relazioni, di organizzazione, ecc.) e a bassa qualificazione (mense, pulizie, manutenzione ordinaria, ecc.). Il personale precedentemente addetto ai reparti trasferiti, o verrà impiegato nei servizi della seconda fascia, o resterà semplicemente ai margini dell’attività produttiva. Proprio questo è il fenomeno che si manifesta, con gli anni Ottanta, in tutto l’Occidente, a seguito dell’automazione e del decentramento produttivo13.

Le conseguenze che ne derivano non sono di natura esclusivamente sociale. La frantumazione della classe operaia implica di necessità lo sgretolamento della cultura di cui quella classe è storicamente portatrice, fondata su una solidarietà derivante da una percezione spiccata dell’appartenenza a un tutto, ad una classe, appunto. Per cui, se le classi subalterne non scompaiono (come si affretta a proclamare qualche sociologo borghese), si attenua nei loro membri la coscienza di farne parte. E ciò proprio nel momento in cui, come si è detto, una decisa coscienza di classe si manifesta nella borghesia e nei ceti medio-alti, potentemente favoriti dal nuovo assetto economico e sociale. Il processo di indebolimento culturale delle classi subalterne viene poi rafforzato da un ulteriore elemento, intimamente connesso agli altri citati. Le difficoltà sempre più rilevanti di occupazione spingono i membri delle classi inferiori – come a suo tempo avevano teorizzato senza peli sulla lingua i cultori della supply side economy, consiglieri di Ronald Reagan – alla ricerca di soluzioni individuali atte a garantire la propria sopravvivenza, a spese del tradizionale declinante spirito di solidarietà. Ciò coinvolge in primo luogo gli strati giovanili, allettati dalla carota del possibile accesso al benessere dei ceti medi e incitati da questa prospettiva a un’accesa competizione reciproca, basata sul grado di specializzazione professionale e di adesione alle regole del sistema. Ma anche altre fasce di forza-lavoro non restano immuni al virus della soluzione “personalizzata”, spezzando antichi vincoli di fratellanza e dando vita – nei casi limitati e sporadici di lotte sociali – a una conflittualità fondata su un corporativismo esasperato. Nel giro di pochi anni, l’intera cultura della sinistra viene così travolta dall’emergere degli antivalori dell’asocialità e dell’individualismo, senza riuscire ad arginare processi che traggono origine dallo sconvolgimento programmato dell’intero assetto sociale, perfettamente complementare alle persecuzioni poliziesche che si succedono a partire dal ‘79. Della nuova situazione fa anzitutto le spese l’estrema sinistra, che già indebolita dall’acuta repressione, vede dissolversi le figure teoriche – operaio massa e operaio sociale – su cui ha modellato il proprio percorso antagonista. Nella nuova situazione ci sguazza invece, come co-protagonista, una sinistra istituzionale (partiti e sindacati), che, dopo un appoggio incondizionato allo Stato nella “lotta contro il terrorismo” (leggi: sinistra di classe extraparlamentare e rivoluzionaria, nonché qualsiasi comportamento trasgressivo al comando capitalistico), dopo la politica dei “sacrifici” e della “solidarietà nazionale”, ancora una volta asseconda i nuovi processi di ristrutturazione, con la pia speranza di spendere la propria forza di base per accedere alla “stanza dei bottoni”. Una forza di base che però – nell’arco di un decennio – cambierà sempre più i connotati, proprio in base all’emergere dei ceti medi (artigiani, liberi professionisti, imprenditoria cooperativistica) a ruolo attivo nella nuova organizzazione del lavoro e nella riproduzione globale dei rapporti sociali capitalistici. Costoro si faranno strada nella nuova geografia economico-sociale a colpi di finanziamenti istituzionali, appalti e subappalti vari.

Ma di più: diverranno i fedeli cogestori della fabbrica sociale, una piccola e media imprenditoria al servizio del grande capitale, delle sue esigenze di flessibilità produttiva, del suo imperativo di estirpare dai costi di produzione la voce “conflittualità”, per una manodopera totalmente acquiescente, anzi, riconoscente per il lavoro a termine, privo di garanzie e tutele, elargito da padroncini spesso “di sinistra”, come se questo fosse un privilegio. Le classi subalterne verranno emarginate sempre di più non solo socialmente, ma anche “politicamente”, come “forza di base” dalla sinistra istituzionale. E con questa “catarsi” (del PCI-PDS in primo luogo) a “partito leggero” sempre più di manager da salotto televisivo, nonché con la sconfitta del Movimento, negli anni Ottanta, usciranno definitivamente dalla scena politica.

La sinistra storica, buttando a mare la classe operaia e i settori disagiati della società, assumendo definitivamente il punto di vista di larghi settori della borghesia, vedrà premiata la vecchia “pia intenzione” e il governo con gli anni Novanta e dopo “Tangentopoli”, diventerà realtà. Il “miracolo del primo governo di sinistra”, dopo la grande devastazione sociale e culturale degli anni del “riflusso”, nascerà all’insegna del neo-liberismo più sfrenato. Per quanto riguarda la sinistra operaista, a metà degli anni Ottanta, resta una miriade di nuclei locali, di centri di controcultura, di collettivi sopravvissuti quasi per miracolo alla tempesta, pressoché privi di contatti reciproci (malgrado diversi tentativi di coordinamento nazionale) e apparentemente ‘incapaci di strappare la fitta rete sovrastrutturale, prima ancora che strutturale, che li ha isolati dalla società italiana.

Sono esperienze ormai prive di collegamenti forti, prive persino di un legame con quanto resta sul sociale, con un contesto conflittuale sempre più invisibile, sfarinato e frammentario, fatto di microesplosioni taciute dai mezzi d’informazione e mistificate negli sporadici momenti eclatanti. Ciò che resta dell’operaismo negli ultimi quindici anni, più che altro si caratterizza spesso come testimonianza coerente della “grande stagione di lotte”, piccoli residui più o meno irriducibili, avvitati nell’endemia di esperienze prive di sbocchi (Cobas, centri sociali, pantere…). Gruppi che diventeranno (lungo gli anni Ottanta e fino agli anni Novanta) sempre più: o una pallida caricatura dell’autonomia operaia di un tempo, o varianti-ghetto in simbiosi con la riproduzione capitalistica (seguendo la moda dei trasformismi di fine secolo)… come se il cooperativismo un po’ più variopinto possa costituire un modello alternativo al capitale. Nulla a che vedere, in entrambi i casi, con la vivacità teorica e di prassi dell’operaismo. Eppure, riteniamo che, al di là di questi approdi infausti, solo il recupero di un’intelligenza nell’adeguarsi – ancora una volta – a una realtà tanto diversa, potrà essere la premessa per la continuazione o meno della vicenda, nel complesso nobile, della sinistra operaista in Italia.

(Segue nella prossima puntata la Parte Terza. Ancora sugli anni Ottanta. La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi)

 

 


  1. Sui conflitti che conducono all’estinzione di Lotta Continua cfr., oltre agli atti del 2° Congresso Nazionale (novembre 1976), A. Sofri, Dopo il 20 giugno, Roma 1977.  

  2. Tra le antologie dedicate all’area dell’autonomia, meritano di essere citate Autonomia Operaia, a cura dei Comitati autonomi operai di Roma, Roma 1976 (che ha il torto di riflettere quasi solo il punto di vista dell’autonomia romana, sensibilmente diverso da quello dell’ala maggioritaria facente capo a “Rosso” di Milano); Aut Op., a cura di P. Virno, Roma 1979; e, soprattutto per l’ala “creativa” (cordialmente detestata dalle altre), Il diritto all’odio, a cura di G. Martignoni e S. Morandini, Verona 1977.  

  3. ueste tesi sono esposte in forma sistematica in A. Negri Proletari e stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, Milano 1976 (vedi in particolare la tesi n. 1: “Del proletario: spunti sulla nuova composizione di classe”).  

  4. A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, Roma 1979, p.128. La definizione può risultare piuttosto oscura a chi non abbia familiarità con i Grundrisse di Marx. Nell’accezione di quest’ultimo, lavoro astratto è “quel valore d’uso che si contrappone al denaro posto come capitale” (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, Firenze 1968, p.280). È cioè, semplificando un poco, il lavoro che come forza creatrice complessiva (“astratta’: vale a dire sintesi che annulla le differenze interne) si sottrae ai rapporti di scambio imposti dal capitale, e così facendo si contrappone a quest’ultimo. Infatti “per l’operaio lo scopo dello scambio è la soddisfazione del suo bisogno” (ivi, p.267), mentre il capitale è lo scambio in sé.  

  5. Sulle Brigate Rosse cfr. N. Balestrini, P. Moroni, op. cit., pp.219 ss.; A. Silj, Mai più senza fucile! Alle origini dei NAP e delle BR, Firenze 1977; Soccorso Rosso, Brigate Rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, Milano 1976.  

  6. Prima Linea trae origine da “Senza Tregua”, gruppo nato dalla scissione da Lotta Continua di significativi nuclei operai. Il documento della scissione è riprodotto in Autonomia Operaia, cit., pp.103-107.  

  7. La più organica esposizione di questa linea d’azione è in un documento di Prima Linea pubblicato in “Lotta Continua per il Comunismo”, 1979, n.1, pp.3-6.  

  8. Lo spartiacque tra organizzazioni e gruppi armati da una parte, e autonomia operaia dall’altra, in altre AE è determinato dall’illegalità di massa: ossia dall’uso di massa della violenza politica, finalizzata a conquistare spazi di in fabbrica e sul territorio come contropotere proletario, ad appropriarsi di ricchezza sociale con autoriduzioni di servizi (ristoranti, cinema, ecc.) ed espropri di merce (nei supermercati, nei negozi). Finalizzata anche a dare risposte politiche, ma in un ambito tutto di movimento, alle politiche del comando d’impresa e dello Stato nel paese. Una prassi fortemente radicale, ma che non ha mai posto il suo baricentro nell’a- zione armata attuata dai gruppi clandestini. 

  9. I comportamenti e lotte sociali del Movimento erano esperienze che si stavano riproducendo in ampi strati sociali subalterni. L’omicidio politico invece è stato una sponda importante per il regime democristiano e la sinistra storica, un innalzamento dello scontro che ha consentito allo Stato di avviare la “caccia alle streghe”, con la criminalizzazione di tutto il Movimento.  

  10. Si pensi, a tal proposito, a uno degli slogan più urlati dai cortei di Movimento e dell’Autonomia proprio durante il sequestro Moro:“Noi non siamo per il partito armato, ma per la guerriglia del proletariato”, piuttosto eloquente nel definire la grande diversità di progetto e di strategia politica per realizzarlo, tra “partito combattente” e organizzazioni armate da una parte e “movimento dell’illegalità di massa” dall’altra. Certamente il discrimine non era l’uso della violenza politica organizzata, ma le modalità stesse in cui si voleva sviluppare la lotta armata: aspetti che investivano la concezione stessa di organizzazione rivoluzionaria di classe (classe “per sé”), e della transizione a una società comunista.  

  11. Cfr. K. Marx, Teorie sul plusvalore, t. II, in K. Marx, E Engels, Opere complete, vol. XXXV, Roma 1979, pp.602-632. La “sovrappopolazione relativa costante”, prodotto dell’intensificata meccanizzazione, funge da complemento alle tre forme di sovrappopolazione relativa già contemplate da Marx nel Capitale. fluida, latente, stagnante.  

  12. Marx, dato negli anni del riflusso per precocemente invecchiato, aveva invece previsto lucidamente il fenomeno, sostenendo, in polemica con Ricardo, che una massiccia introduzione di macchine, avrebbe provocato “un continuo accrescimento delle classi medie”. Cfr. K. Marx, Teorie sul plusvalore, cit., p.628.  

  13. Nell’estrema sinistra – e solo in essa, a conferma della sua indiscutibile superiorità intellettuale – vi fu chi descrisse, fin dagli anni Settanta, i fenomeni oggi sotto gli occhi di tutti, prevedendone con grande lucidità le conseguenze. Cfr. M. R. Andreola, G. Capitani, P. Laureano, G. Paba, La redistribuzione multinazionale delle attività produttive: verso una nuova geografia della forza lavoro, in “Quaderni del Territorio”, 1976, n.1.  

]]>
Dept. Q – Sezione casi irrisolti (2025) – Eterotopie claustrofobiche https://www.carmillaonline.com/2025/10/12/dept-q-sezione-casi-irrisolti-2025-eterotopie-claustrofobiche/ Sun, 12 Oct 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89848 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva britannica in nove episodi Dept. Q – Sezione casi irrisolti (Dept. Q, 2025 – Netflix), realizzata da Scott Frank e Chandni Lakhani, deriva da La donna in gabbia (Kvinden i buret, 2007), il primo dei romanzi del danese Jussi Adler-Olsen incentrati attorno alla Sezione Q guidata dall’ispettore Carl Mørck della polizia di Copenaghen. Il ciclo di romanzi si apre con il protagonista che, dopo un periodo di convalescenza in seguito a una ferita subita mentre compie un intervento sul luogo di un delitto, rientra in servizio accolto con diffidenza, quando non con evidente [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva britannica in nove episodi Dept. Q – Sezione casi irrisolti (Dept. Q, 2025 – Netflix), realizzata da Scott Frank e Chandni Lakhani, deriva da La donna in gabbia (Kvinden i buret, 2007), il primo dei romanzi del danese Jussi Adler-Olsen incentrati attorno alla Sezione Q guidata dall’ispettore Carl Mørck della polizia di Copenaghen. Il ciclo di romanzi si apre con il protagonista che, dopo un periodo di convalescenza in seguito a una ferita subita mentre compie un intervento sul luogo di un delitto, rientra in servizio accolto con diffidenza, quando non con evidente ostilità, dai colleghi in quanto ritenuto responsabile, per la sua condotta sulla scena del crimine, della morte di un agente e delle lesioni alla spina dorsale di un secondo a cui è particolarmente legato. L’avversione dei colleghi ed il senso di colpa provato dall’ispettore per l’accaduto, rendono difficili i rapporti all’interno della Centrale di polizia, tanto da indurre i dirigenti a isolarlo affidandogli la nascente squadre anticrimine, la Sezione Q, destinata ad occuparsi di crimini irrisolti, collocata nei sotterranei.

Dal ciclo di romanzi di Adler-Olsen sono stati tratti diversi film: Carl Mørck – 87 minuti per non morire (Kvinden i buret, 2013) di Mikkel Nørgaard, che si rifà al primo romanzo a cui si riferisce anche la serie televisiva; The Absent One – Battuta di caccia (Fasandræberne, 2014) di Mikkel Nørgaard; A Conspiracy of Faith – Il messaggio nella bottiglia (Flaskepost fra P, 2016) di Hans Petter Molan; Paziente 64 – Il giallo dell’isola dimenticata (Journal 64, 2018) di Christoffer Boe.

L’ambientazione danese dei romanzi, e dei film che ne sono derivati, lascia il posto nella serie televisiva ai brumosi paesaggi scozzesi di Edimburgo mentre il detective Carl Mørck muta leggermente la grafia del nome divenendo Carl Morck (Matthew Goode). Al fine di rendere ulteriormente conflittuale il rapporto tra quest’ultimo ed i colleghi, nella serie viene presentato come forestiero: un burbero e sarcastico inglese alle prese con colleghi scozzesi non particolarmente ben disposti nei suoi confronti, così da accentuare le reciproche diffidenze.

Al protagonista viene affiancato un altro straniero, il siriano dal passato misterioso Akram Salim (Alexej Manvelov) che, nonostante si mostri inizialmente impacciato, catapultato com’è in una realtà che non conosce, darà prova di sagacia e persino di inattese abilità nel corpo a corpo. Nelle indagini ai due forestieri si aggiunge poi Rose Dickson (Leah Byrne), una giovane agente investigativa alle prese con i postumi di un crollo nervoso in cerca di un’opportunità per dimostrare il suo valore e, a distanza, James Hardy (Jamie Sives), l’amico e collega del protagonista che ha subito lesioni alla spina dorsale.

Insomma, la Sezione casi irrisolti di Edimburgo è composta da una serie di figure di scarto, di devianti, che non potevano che essere relegate ai margini dello spazio occupato dai restanti agenti di polizia. La comandante della Centrale di polizia, Moira Jacobson (Kate Dickie), li destina ai tetri sotterranei dell’edificio tra file di fatiscenti orinatoi alla parete e vecchio mobilio accatastato, sotto una luce al neon che sopperisce artificialmente alla mancanza di luce solare.

Il ricorso alla figura del forestiero costretto a fare i conti con un ambiente a lui ostile è un topos ricorrente in questo genere di narrazioni, così come lo sono la figura del detective dal passato ombroso, intrattabile e poco socievole, a cui vengono affiancati collaboratori altrettanto “periferici”, e la “sezione confino”, isolata da tutto e tutti, a cui sono destinati i protagonisti. In ambito letterario tra gli esempi più celebri di sezioni investigative periferiche, come periferico è chi vi lavora, può essere ricordata la Factory dei romanzi di Derek Raymond, una stazione di polizia di Chelsea a cui Scotland Yard affida casi di omicidio di non facile soluzione per la loro insignificanza di cui gli investigatori preferiscono non occuparsi per lo scarso lustro che ne deriverebbero.

Restando invece alle produzioni seriali televisive recenti, ad essere marginalizzata sin dalla collocazione degli uffici in cui lavora è anche la detective Önem (Birce Akalay) protagonista della serie turca Mezarlık (dal 2022 – Netflix), visibile in Italia dal 2025, prodotta da Abdullah Oğuz e scritta da Özden Uçar ed Onur Böber, incentrata sulle indagini di un ristretto gruppo investigativo guidato da Önem che si occupa di crimini (sepolti) contro le donne relegato, anch’esso, nei sotterranei della Stazione di polizia (mezarlık significa cimitero), a sancire come i delitti di cui si occupano la detective e i suoi stravaganti collaboratori non trovino spazio nei piani nobili dell’edificio né interesse sincero nei funzionari (maschi) che occupano i posti di comando.

In comune con Dept. Q, la serie turca ha anche la particolare composizione della piccola unità di investigazione che, anche in questo caso, annovera figure inconsuete: dai detective Serdan Ata (Olgun Toker) e Hasan Duru (Şehsuvar Aktaş), alle prese il primo con un rapporto complesso con il padre in polizia e il secondo ossessionato da non aver saputo risolvere il caso in cui è stata uccisa la figlia, oltre che dagli eccentrici Berk Güleryüz (Baran Güler), esperto in investigazione tecnico-scientifica e dall’informatica Sofia (Berna Öztürk), quest’ultima sostituita nella seconda stagione da Selin Korkmaz (Arbil Tabur).

Lo spazio eterotopico sotterraneo, isolato dal resto del mondo, in cui si è costretti ad immergersi per poter affrontare quanto la luce del sole non vuole vedere è un elemento ricorrente nel crime in tante sue sfaccettature. Può trattarsi degli scantinati delle stazioni di polizia in cui vengono dislocate le sezioni destinate ad occuparsi di crimini irrisolti o che non interessano a nessuno, così come di labirintici spazi nel sottosuolo ove si svolgono attività non permesse in superficie, come nel caso dei tunnel di servizio abbandonati sotto una stazione della metropolitana di Oslo dalla serie norvegese Valkyrien (2017 – NRK1) di Erik Richter Strand, medical crime drama poi ripreso dal britannico Temple (dal 2019 – Sky) realizzato da Mark O’Rowe.

Come nel caso della serie svedese Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) ideata da Camilla Läckberg e diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh, in cui la protagonista, da piccola, viene costretta all’interno di una struttura trasparente così da sottoporsi allo sguardo morboso del rapitore, anche nel caso di Dept. Q si ha un personaggio femminile rinchiuso in uno spazio angusto, in questo caso una claustrofobica camera iperbarica, in balia dello sguardo dei rapitori che la osservano dai monitor attraverso le telecamere installate nel luogo di prigionia.

Parlando di eterotopie claustrofobiche non possiamo allora non ricordare anche lo spazio del traghetto sul quale si imbarcano Merrit e suo fratello: secondo Foucault, infatti, la nave si configura come “l’eterotopia per eccellenza”. Non a caso, è proprio sul traghetto che avviene la sparizione della ragazza; quest’ultimo si caratterizza come uno spazio oscuro e per certi aspetti mostruoso, un essere meccanico che apre il suo ventre metallico ed è capace di inghiottire i personaggi nelle sue spire, come il pescecane di Pinocchio. Il traghetto è una sorta di terribile mostro marino in navigazione su un mare nordico, scuro e inquietante; d’altra parte, è proprio su un traghetto – che fa la spola fra la Danimarca e l’Islanda – che avviene un efferato omicidio nella serie TV islandese Trapped (Ófærð, dal 2005 – Netflix), : i passeggeri vengono bloccati a bordo e la nave si trasforma in una vera e propria eterotopia dell’incubo. Anche per Merrit e suo fratello affetto da problemi psichici il traghetto appare come un antro mostruoso navigante e semovente: nei suoi interstizi si può celare un orrore terribile proveniente dal passato. È sul traghetto, infatti, che il fratello William (Tom Bulpett) intravede un oscuro individuo che indossa un cappello con il simbolo di un uccello che sarà al centro delle investigazioni di Morck e della sua squadra.

Un altro luogo per certi aspetti eterotopico è la clinica psichiatrica dove William viene rinchiuso: luogo di reclusione e separazione dei ‘diversi’ e dei ‘folli’, spazio deputato al “grande internamento” secondo l’analisi foucaultiana ma anche interstizio malato della società capitalistica perché la direttrice potrebbe rivelarsi unicamente interessata alla ricchezza ereditata dal fratello giovane. D’altra parte, egli giunge dall’oscuro spazio del mare, che ha solcato proprio a bordo del traghetto e la sua follia appare associata ad uno spazio acquoreo e inquietante: infatti, secondo Foucault la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”1. Un altro spazio eterotopico è proprio l’isola che sta al di là del mare, luogo natale di Merrit e del fratello, nel quale i ricordi angosciosi dell’infanzia e dell’adolescenza sono pronti a riemergere e a fagocitarti. Si attraversa il mare per fare ritorno a un luogo segnato dall’angoscia e dal rimorso, un’isola, uno spazio separato dal resto del mondo. Come la protagonista di Glaskupan, Merrit si sta dirigendo verso il luogo di un passato pronta ad aggredirla e a fagocitarla.

Come accennato, Merrit viene rinchiusa in una camera iperbarica, uno spazio nel quale vengono rinchiusi i sommozzatori che rientrano in superficie troppo in fretta. Si tratta di un luogo legato alla profondità del mare; non a caso mentre si trova al suo interno parte spesso una voce meccanica che avvisa sul funzionamento della camera iperbarica per i sommozzatori. È come se Merrit fosse stata ingoiata dal mare che ha solcato a bordo del traghetto oppure fosse discesa in quello stesso mare all’interno dei metallici orpelli della nave, tramutatasi in orribile sommergibile. Il corpo della giovane è rinchiuso in una struttura ferrea e metallica (il contrario – si potrebbe azzardare – della cupola di vetro di Glaskupan), pesante e spessa, ventre incapsulante posizionato a sua volta in una periferia industriale, sulla stessa isola, caratterizzata da vecchie strutture industriali abbandonate intorno alle quali numerosi cartelli avvisano della presenza di rifiuti tossici. È uno spazio liminale, una spazialità marginale e lontana e, appunto per questo, può celare in sé l’orrore come la periferia portuale nella quale si trova ormeggiata la metallica barca abbandonata nella quale troverà la morte Max Renn, protagonista di Videodrome (1983) di David Cronenberg. La profondità alla quale allude la camera iperbarica è anche lontananza nel tempo, limbo amniotico nel quale galleggiano i ricordi pronti a devastare la psiche. È proprio all’interno di essa che Merrit viene sottoposta ad una incessante tortura riguardante il passato, il quale sembra assumere le sembianze di un cupo spettro che avvolge i personaggi.

Non dobbiamo dimenticare, infatti che non solo Merrit è tormentata dal passato, ma anche l’ispettore Morck, attanagliato dai sensi di colpa per l’uccisione del giovane agente e il ferimento del suo amico, nonché l’ispettrice Rose Dickson, tormentata dal rimorso per aver investito un anziano durante un inseguimento in auto e Akram Salim, legato alle sofferenze del suo passato in Siria. E, come un fantasma che sembra la materializzazione fisica di quel terribile passato, grava su tutto il torbido e oscuro paesaggio scozzese, ambientazione ideale di una riuscita crime story che si incunea verso il noir.


  1. Cfr. M. Foucault, L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74 

]]>