Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 31 Dec 2025 11:18:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Assuntina https://www.carmillaonline.com/2025/12/31/assuntina/ Tue, 30 Dec 2025 23:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=92034 di Luca Baiada

Com’è andata? Mi chiedi com’è andata? Tieniti forte. Non ci volevo credere nemmeno io. Allora, prima di tutto: me l’hanno fatta sentire che stava dietro una tenda, sul palco, al solito posto. Con la scusa che non si era rifatta il trucco e cazzate varie. E anche che non si potevano accendere i riflettori, perché poi il contatore gira, e insomma non abbiamo ancora un produttore con la grana, lo sai.

Ma che, potevo rinunciare a sentire le prove? Per come siamo messi da due mesi? No, tre mesi, quasi, accidenti! Barbara che si è tirata indietro perché voleva [...]]]> di Luca Baiada

Com’è andata? Mi chiedi com’è andata? Tieniti forte. Non ci volevo credere nemmeno io. Allora, prima di tutto: me l’hanno fatta sentire che stava dietro una tenda, sul palco, al solito posto. Con la scusa che non si era rifatta il trucco e cazzate varie. E anche che non si potevano accendere i riflettori, perché poi il contatore gira, e insomma non abbiamo ancora un produttore con la grana, lo sai.

Ma che, potevo rinunciare a sentire le prove? Per come siamo messi da due mesi? No, tre mesi, quasi, accidenti! Barbara che si è tirata indietro perché voleva soldi e non ci sono, Debora la ficona che è rimasta incinta, e altre non se ne trovano. E lo sai, che senza la vocalist non si va da nessuna parte. E bisogna iscriversi agli eventi, alle anteprime; e farlo per tempo. E bisogna provare bene, ma bene bene, e ci vuole una col repertorio, una con la voce che non se la mangia il sassofono, e che sta sul ritmo. E poi diciamocelo. Un produttore coi coglioni, lo vogliamo trovare o no? Deve finire così, per i Crazy Fuck Devils? Proprio adesso?

Dopo tre anni che ci smazziamo, e le prove, e suonare anche quando non si alza un euro, e quella volta che Danilo ha esagerato e abbiamo chiamato il medico che quasi coma, e poi nascondere tutto. Adesso ci arrendiamo? I Crazy Fuck Devils non devono andare nella merda. Vuoi tornare a pedalare con le pizze sulla schiena? E io, io devo tornare in carrozzeria da mio cugino, pagato a calci in culo? Beh, stai a sentire.

Penombra, tenda chiusa, mi metto in mezzo alla sala, voglio il sound pieno, corposo. Parte la base con la tastiera, poi chitarra e basso. Una cosa soul, una tirata di heavy, due pezzi progressive e altro: il meglio, per i Crazy Fuck Devils. Quando entra il sassofono credo di svenire, ma dopo è ancora meglio. La sezione ritmica stringe, poi smorza, fa spazio a lei, la invita, la chiama. E succede il finimondo. Una voce che è uno schianto, una cannonata. Aprono la tenda e la vedo, mi viene un accidente. Allora chiedo chi l’ha chiamata, e senti il bello.

Dice Danilo che era lì perché c’erano le prove di un coro del cazzo che non sapeva quale, che era entrata e si erano messi a ridere. Dico: «Danilo, che sei matto?» Dice: «No, guarda eccetera»; doveva cantare le sue robe là, poi lui e Nelson l’hanno guardata, l’hanno sfidata, per prenderla per il culo, no? Quella invece di scappare via, dice, prima guarda il pavimento, si stira in giù la gonna con le mani, si schiarisce la voce. Capito? Si stira in giù la gonna! Che Debora ficona portava la minigonna ascellare, e sul palco se la tirava su fino al naso.

Poi si guarda intorno, chiede se quelli del suo coro proprio non sono venuti, vuole essere sicura. Quando proprio è sicura che non ci sono, accetta. E Danilo fa: ma è uno scherzo, dai verginella fila via. E quella tutta rossa fa: almeno provare. Insomma, va al microfono, che è più grosso di lei. Ed è una botta pazzesca: una vocalist col dark nell’anima, anche di più. E poi, di suo, prova in rap e va giù duro: una trap della madonna, un flow che non perde un pelo.

E lo vuoi sapere, chi è, vero? Beh, pensa che la conosci già. Ti do un paio di tracce: catechismo, sempre alla messa, mai una bestemmia, sempre a struscio coi preti. Il sabato un gelato con la mamma, se si parla di sesso cambia discorso, fino a un anno fa portava il cerchietto nei capelli, coi cuoricini. Ne vuoi ancora? Quando vedeva i film in parrocchia li raccontava a tutti, come una paperella, e voleva far sapere che aveva pianto mangiando le patatine, e che la carta del pacchetto l’aveva portata a casa per ricordo. Ci sei arrivato? Beh, ma allora sei proprio tonto.

Ti aiuto ancora. Non l’hai mai vista coi tacchi, perché a casa dicono che non sta bene. Non ha un tatuaggio perché è roba da «sporcaccioni», dice proprio così. Vestiti che non si vede niente, gonne sempre sotto il ginocchio, braccialettini quelli delle sorprese nell’uovo di pasqua. Cammina tutta precisa, le spalle un po’ curve perché si vergogna del seno. Ancora al buio? Beh, sei proprio cieco. Ma che ti devo dire? Ero cieco pure io. Assuntina!

Ecco, lo sapevo che ridevi. Sì, lei, quella che non la volevano neanche per un picnic. Quella dei compiti fatti bene a scuola, dei voti buoni, quella che a danza classica da quando aveva sei anni, quella col barboncino che quando morì lo mise nell’aiuola e pianse una settimana. Quella che portava l’apparecchio ai denti e domenica pomeriggio diceva: «Fono ftata alla fanta meffa». Assuntina, detta «dammela dammela, ma solo la mano».

Ha una voce da schianto, sa tutto il repertorio, non perde una battuta, non la ferma neanche la polizia, neanche un blackout, se sale di un’ottava fa tremare i muri. Ha detto che viene coi Crazy Fuck Devils, perché basta che c’è da cantare. Ha detto che era venuta in sala per il coro della parrocchia, che ha tirato fuori la voce e adesso non se la rimette in gola neanche se paghiamo, neanche se lo dice il vescovo. E ha accettato. Canta con noi.

E lo vuoi sapere? Adesso devo chiudere la chiamata, ho un appuntamento. Con Assuntina. Vado a prenderla sotto casa. Beh, sotto casa per dire; dietro l’angolo, altrimenti non scende. Succo di frutta, passeggiata. No, dico passeggiata con la mia macchina, fino a un posticino. Ci siamo già stati. La riporto dai suoi in tempo per il cenone. Oggi pomeriggio lei non canta e io non suono. Ciao ciao. E buon anno nuovo!

 

 

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Springsteen tra i demoni del nulla e il successo https://www.carmillaonline.com/2025/12/29/bruce-springsteen-dal-nulla-al-nulla-passando-per-una-breve-stagione-creativa/ Mon, 29 Dec 2025 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=92095 di Sandro Moiso

Spiace dirlo, soprattutto per i numerosissimi fan italiani del “Boss”, ma ormai da più di quarant’anni quello che si esibisce tra strepiti di folla, schitarrate, sudore e cori da stadio, durante tournée i cui biglietti vanno esauriti fin dal loro annuncio, non è altro che un’immagine prodotta dall’IA oppure un ologramma di quello che per poco meno di un decennio, tra la metà degli ani Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, sembrò essere il muscolare cantore delle periferie americane e delle loro ormai perdute tradizioni blue collar.

Detto in altre parole è ormai evidente, per chi [...]]]> di Sandro Moiso

Spiace dirlo, soprattutto per i numerosissimi fan italiani del “Boss”, ma ormai da più di quarant’anni quello che si esibisce tra strepiti di folla, schitarrate, sudore e cori da stadio, durante tournée i cui biglietti vanno esauriti fin dal loro annuncio, non è altro che un’immagine prodotta dall’IA oppure un ologramma di quello che per poco meno di un decennio, tra la metà degli ani Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, sembrò essere il muscolare cantore delle periferie americane e delle loro ormai perdute tradizioni blue collar.

Detto in altre parole è ormai evidente, per chi non si lasci sedurre con facilità dalla carta patinata delle riviste e dalla promozione pubblicitaria spacciata per critica musicale, che da quattro decenni Bruce Springsteen ripropone sempre lo stesso disco, lo stesso stile, le stesse canzoni, sia acustiche che elettriche, le stesse linee melodiche e i medesimi atteggiamenti gigioneschi che riescono a mandare tuttora in visibilio un pubblico che confonde la realtà con il mito consumistico e che nell’era dei social media e dei selfie, più che da amanti della musica, è composto da una massa di individui soggiogati da eventi cui non si può assolutamente mancare di partecipare,

Anche chi qui scrive fu un tempo tra gli estimatori del personaggio in questione, di cui amò le canzoni e le origini working class e italo-irlandesi. Ma quelli erano altri anni, in cui l’onda lunga delle lotte ormai in via di estinzione mascherava ancora quel rock populista e romantico da espressione di un ambiente e di una cultura operaia che forse nelle loro forme pretese pure non erano mai esistiti, e che non avrebbero comunque mai potuto sopravvivere all’interno della società dello spettacolo.

Born To Run, The River, Jungleland, Thunder Road, Badlands, The Promised Land e Streets of Fire, solo per citare alcune canzoni scritte e cantate da Bruce e suonate con la E Strett Band in quel periodo, avevano annunciato una falsa ripartenza, proprio là dove stava calando il buio della sconfitta e la rivincita della paura e del razzismo figlio di quella stessa paura, di cui Reagan, i Bush padre e figlio e oggi Trump non hanno costituito altro che la manifestazione politica più evidente, mentre i Clinton, gli Obama e lo zoppicante Biden non hanno dato vita ad altro che al suo necessario corollario “democratico”.

La stagione del post-Vietnam durò poco e così pure l’avventura creativa di Springsteen. Proprio per questo motivo il libro di Warren Zanes1 e il film di Scott Cooper (Deliver Me from Nowhere, 2025) tratto dallo stesso libro e dal medesimo titolo, hanno sicuramente il pregio di rivelare al grande pubblico e agli appassionati il momento più importante e drammatico della carriera del menestrello del New Jersey e delle sue cittadine in via di progressiva deindustrializzazione, ancor prima che industriose.

E’ il momento prima dell’inizio della lunghissima, anche se ancor ricca di successi e ammiratori, discesa della qualità della produzione musicale del Boss. Una discesa truccata, come il volto rifatto dagli infiniti lifting, da continuità in cui, però, i momenti brillanti sono stati troppo pochi, ad esempio con album come The Ghost of Tom Joad (1995) oppure Wrecking Ball (2012). Quest’ultimo salvato in gran parte da un Tom Morello alla chitarra, poi destinato però ad affogarsi con le proprie mani partecipando ai tour degli insopportabilmente italici e quindi pretenziosamente privi di merito Maneskin.

E se il disco inciso con le canzoni di Pete Seeger (We Shall Overcome. The Seeger Sessions, 2006) non aveva fatto altro che dimostrare la sostanziale e irrecuperabile distanza tra Springsteen e l’universo del folk americano di cui avrebbe voluto essere cantore, senza essere mai davvero riuscito a comprenderlo e a differenza di Dylan che poté allontanarlo da sé per poi ricrearlo avendolo assorbito totalmente, tutto il resto della sua produzione (acustica, elettrica e live) sarebbe servita soltanto a tenere in vita, almeno negli ascolti, un cantautore morto creativamente dopo aver scritto le canzoni inizialmente destinate ad un album doppio, ma poi suddiviso in uno acustico, Nebraska appunto (1982), e uno ridondante di elettricità e suoni mainstream dai testi retorici, anche se ancora digeribili, come Born in the USA (1984).

Ed è proprio Nebraska a far la parte del leone nel libro, nel film e nella carriera del rocker delle periferie dagli innumerevoli emulatori, padani e non. Ciò costituisce il motivo di reale interesse per parlare del film, magnificamente interpretato da Jeremy Allen White nella veste di protagonista e da Stephen Graham nella parte di Douglas, il padre irlandese, manesco, alcolista, illuso e scontento di Bruce. Poiché nella vicenda viene fotografata non soltanto la depressione del cantautore, che lo accompagnerà per tutta la sua vita artistica, ma anche il momento in cui lo stesso cerca di liberare i propri demoni dichiarandoli ed esponendoli al giudizio della critica, del pubblico e di una casa discografica, la Columbia, che in lui vedeva e voleva soltanto la macchina per fare soldi e accumulare profitti.

In realtà sarà proprio il disco successivo, Born in the USA, ad accontentare le mire della Columbia definitivamente, ma Nebraska, uscito senza tour promozionale, senza promozione tra gli addetti ai lavori e, per la prima volta, senza band avrebbe finito col costituire forse l’unico e autentico capolavoro del cantante cresciuto tra rapporti famigliari difficili e contraddittori, film di serie B e musica rhythm’n’blues e rock’n’roll.

Così come le rane che in una canzone (Frogs), nell’ultimo disco di Nick Cave (God, 2025), vivono davvero soltanto per un attimo quando saltano fuori dalle profondità buie e fangose di uno stagno per essere illuminate dalla luce del sole, per un attimo Springsteen avrebbe dato il meglio di sé portando alla luce il malessere che lo affliggeva, il rapporto difficile con il padre, le donne e il successo.

Sono le immagini del primo lungometraggio di Terrence Malick, La rabbia giovane (Badlands, 1973) a risvegliare gli incubi di Bruce e ad ispirare il testo della canzone che darà il titolo all’album del 1982. Così sono i volti di Martin Sheen e di Sissy Spacek, protagonisti del film di Malick, a sovrapporsi idealmente a quello di uno Springsteen giovane che, a differenza del personaggio tragico e dannato interpretato da Martin Sheen, arriverà sull’orlo dell’abisso personale tirandosi, però, indietro quasi all’ultimo istante. Anche con l’aiuto del manager e produttore, Jon Landau (1960-2024), che lo avrebbe sorretto sia come amico personale che come promotore di un successo milionario.

Sarà l’abisso dei milioni di dollari quello che sceglierà Springsteen, a partire dall’album successivo e dal cofanetto live in cinque lp (Live 1975-1985) del 1990 che lo avrebbe trasformato anche in una sorta di datore di lavoro per la classe operaia americana attraverso la stampa di milioni di copie dello stesso, come il cantante ebbe a dichiarare in quel periodo. Da allora il successo definitivo, ma anche la ripetitività, la noia, le storie mondane, i matrimoni, le amicizie a Las Vegas con personaggi del calibro di Frank Sinatra, il libro con Obama, le polemiche con Trump, che avrebbe voluto usare la sua canzone Born in the USA per la sua prima campagna elettorale avendo ravvisato nel suo testo proprio quel populismo di cui si era fatto portavoce, e tutto il resto delle banalità di base dell’affermazione commerciale e della morte artistica. Definitiva.

Il Boss non è mai stato né Bob Dylan né Lou Reed né, tanto meno, un Jim Morrison o un Iggy Pop, così tra l’affrontare e accettare i propri demoni oppure farsi uccidere da quegli stessi, preferì accantonarli, sedandoli insieme al suo pubblico. Per la buona pace propria e dei suoi ammiratori raggiunse il limite, ma non lo superò definitivamente. Anche perché, tutto sommato, non avrebbe mai saputo, voluto o potuto farlo davvero, nonostante le lacrime, gli strilli e le urla dal palco e dallo schermo.

Tutto questo sia il libro che il film non ce lo raccontano, ma lo anticipano rivelandolo attraverso il malessere, la solitudine e il dolore che Bruce si lasciò dietro per poter continuare a vivere (e a far soldi). Ma perdendo l’anima come il Dottor Faust convinto da Mefistofele a raggiungere il successo e a mantenerlo. Così come la riedizione apparsa quest’anno, in quattro cd e un dvd blue-ray, del disco del 1982 conferma, visto che il cantante, oggi settantaseienne, quasi rammaricandosi per la scelta di allora di non promuovere il disco in tour, lo ha fatto per gli acquirenti odierni con un concerto registrato recentemente al Count Basie Theatre di Red Bank nel New Jersey, appositamente per la ristampa “deluxe” di Nebraska.


  1. W. Zanes, Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska, edizioni Jimenez, 2024.  

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Centro senza centro. La periferia illimitata dello Zen di Palermo https://www.carmillaonline.com/2025/12/28/centro-senza-centro-la-periferia-illimitata-dello-zen-di-palermo/ Sun, 28 Dec 2025 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90521 di Gioacchino Toni

Paola Nicita (testi), Emanuele Lo Cascio (fotografie), Centro senza centro. Le periferie di Marc Augé con un’intervista inedita sullo Zen di Palermo, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 152, € 15,00

«Cambiare il punto di vista teorico, e di conseguenza reale, è davvero una priorità necessaria per considerare il mondo nella prospettiva di una giustizia sociale […] Quindi la città contemporanea dovrà compiere una scelta: se essere costruita con le parole della democrazia o, al contrario, dell’aristocrazia del sapere» Marc Augé

Centro senza centro (Mimesis, 2025) è un volume dedicato allo Zen di Palermo che si compone di testi di Paola [...]]]> di Gioacchino Toni

Paola Nicita (testi), Emanuele Lo Cascio (fotografie), Centro senza centro. Le periferie di Marc Augé con un’intervista inedita sullo Zen di Palermo, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 152, € 15,00

«Cambiare il punto di vista teorico, e di conseguenza reale, è davvero una priorità necessaria per considerare il mondo nella prospettiva di una giustizia sociale […] Quindi la città contemporanea dovrà compiere una scelta: se essere costruita con le parole della democrazia o, al contrario, dell’aristocrazia del sapere» Marc Augé

Centro senza centro (Mimesis, 2025) è un volume dedicato allo Zen di Palermo che si compone di testi di Paola Nicita, fotografie di Emanuele Lo Cascio e un’intervista a Marc Augé, studioso che ha dedicato attenzione a quelle periferie delle città di cui, normalmente, politici, amministratori e media sembrano accorgersi soltanto in occasione di episodi di cronaca, unici momenti in cui riaffiorano dall’oblio a cui altrimenti sembrano destinate.

Lo Zen – acronimo di Zona Espansione Nord – è una realtà edificata attraverso stratificazioni di cemento e disgregazioni sociali, segnata da sovra-costruzioni che abitano spazi e architetture per giungere alle vite – sempre quelle degli altri – plasmate in strettoie, disagi, connessioni mancate, che fanno dell’assenza il cuore pulsante del suo stare al mondo. Come del resto accade in tutte le periferie del mondo, l’eco sbiadita e distante di ciò che avviene ai margini, rispetto a un centro che è tale per consacrazione sociale e strutturazione economica, diviene parola chiara solo in occasione di fatti che trovano spazio e narrazioni per lo più connotati da un segno negativo, dove riecheggiano termini come colpa, condanna, delitto (p. 6).

Guardando alle modalità attraverso le quali ha preso forma lo Zen palermitano, Nicita sostiene che il motivo per cui il tentativo progettuale di fornire uno spazio confortevole agli abitanti si è perso per strada «generando caos e incompletezza, mancanza e alienazione», derivi principalmente dal fatto che non è stato «immaginato nel suo contesto reale» (p. 20). La storia dello Zen si può dire prendere il via con le devastazioni della seconda guerra mondiale che crearono necessità abitative a cui occorreva dare risposta che avrebbero poi dato luogo a una lunga serie di mobilitazioni popolari, a interventi politici ufficiali e di base, a occupazioni, a cambiamenti urbanistici che si sono succeduti sino agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso sino a prolungarsi nei progetti del nuovo millennio, incapaci di connettere efficacemente spazio, cittadini e opere urbane.

Lo Zen, puntualizza Augé nel corso dell’intervista, si pone agli antipodi dei non-luoghi, essendo al contrario un luogo dotato di un’identità forte e definita, incentrata sulle relazioni; non ha nulla a che fare con il vuoto e l’incomunicabilità che caratterizza i non-luoghi come le stazioni e gli aeroporti che si ripetono uguali ovunque. Lo studioso francese sottolinea anche la diversa percezione della periferia che hanno coloro che la abitano rispetto a quanti le guardano da fuori. Per quanto modeste possano essere, le abitazioni delle periferie sono pur sempre per chi le abita l’ambiente di vita quotidiana a cui non possono che guardare con orgoglio; è lo sguardo esterno, dalla città, ad osservare negativamente le periferie e chi le abita.

Quando le periferie iniziarono ad essere costruite nel corso degli anni Sessanta, queste erano state pensate come luoghi confortevoli e autosufficienti, destinati a rispondere a tutte le necessità della classe media che avrebbe dovuto abitarle. A riscriverne radicalmente funzioni e destinazione, ricorda Augé, furono i grandi mutamenti sociali che, proprio nel momento in cui prese il via la loro edificazione, cambiarono radicalmente il tessuto sociale, economico e urbano.

«La periferia oggi è una circonferenza senza alcun centro. È un’espressione che definisce un luogo che ha a che fare con il desiderio e la mancanza. Oggi le periferie sono una realtà molto complessa e quella che una volta era la periferia si infiltra nella città, e chiaramente l’opposizione a cui guardiamo adesso non è più geografica, ma essenzialmente sociale» (p. 12). Per quanto siano percepite come del tutto estranee alla città, è in realtà all’interno di queste che si trovano le nuove periferie; la distanza che separa queste ultime dal centro è più di tipo sociale che non fisico.

La meta-città globale, dove apparentemente tutto sembra funzionare alla perfezione, lascia il posto alla città-monumento: una visione contemporanea dettata dalla visibilità, che pone l’urgenza di inventare altri luoghi, immediatamente riconoscibili, costruiti probabilmente da celebri architetti che fanno a gara per realizzare l’edificio più alto. La meta-città è l’ideologia di un sistema, mentre la città-mondo è la verità del sistema: al suo interno, nascosti, ci possono essere rifugiati, clandestini, campi profughi. Il processo di globalizzazione è andato avanti ed è avvenuto un processo di omogeneizzazione, ma anche di esclusione, che vede da una parte la concentrazione del potere nelle mani di pochi, e dall’altra la creazione di una massa di consumatori passivi che sono legati a una crescente povertà. Per questo motivo, occorre tenere sempre presenti i concetti di uguaglianza e disuguaglianza (p. 15).

Nel volume Nicita tratteggia alcune riflessioni che sono state svolte sulle metropoli riguardanti: il concetto di civiltà urbana di cui si sono occupati, sin dagli anni Quaranta del secolo scorso, da Gregory Bateson e Margaret Mead; le distinzioni tra mappa e territorio; il ruolo del capitalismo nella produzione e nella gestione dello spazio urbano indagato da Henri Lefebvre già nel corso degli anni Sessanta; lo spazio come elemento fondante per la riflessione sui luoghi e le relazioni tra essi di cui si è occupato Michel Foucault sempre sul finire dei Sessanta; la distinzione fra spazio percepito e spazio vissuto proposta da Edward Soja negli anni Ottanta; l’inscindibilità tra luoghi e chi li abita che ha condotto Arjun Appadurai a introdurre il concetto di ethnoscapes; l’urgenza di decolonizzare le periferie a cui fa riferimento Sonia Dayan-Herzbrun; il territorio come luogo del simbolico, oltre che del politico al centro delle analisi di Andrés Rodríguez-Pose; lo spazio come elemento non di costruzione, ma di ricostruzione del senso e del riconoscimento sociale, politico e dunque personale e soggettivo su cui insiste Marc Augé.

Nicita ripercorre anche le modalità con cui il cinema italiano ha storicamente narrato le periferie ricordando: le «periferie della città fredda e concettuale» de L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni; le «periferie calde di vite errabonde di umanità» di film come Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini; le opere «sospese sul crinale tra realtà e sogno» come La dolce vita (1960) e La città delle donne (1980) di Federico Fellini; le narrazioni televisive capaci di spiazzare gli immaginari stereotipati dei palinsesti televisivi di Cinico TV (1987) di Daniele Ciprì e Franco Maresco; gli universi periferici di Gomorra (2008) e L’imbalsamatore (2002) di Matteo Garrone, di Suburra (2015) di Stefano Sollima e de La terra dell’abbastanza (2018) dei fratelli D’Innocenzo.

Restando all’abito audiovisivo, il quartiere Zen lo si ritrova nei documentari CityZen (2015) di Ruggero Gabbai, Un giorno allo Zen di Luca Capponi, nei film di finzione Un destino migliore (2023) di Gaetano Di Lorenzo, Scianèl (2024) di Luciano Accomando, Mery per sempre (1989) e Ragazzi fuori (1990) di Marco Risi, L’ora legale (2017) di Ficarra e Picone, Io sono tempesta (2018) di Daniele Luchetti (2018), oltre che nel cortometraggio Comandare (2005) di Costanza Quatriglio. Tra i limiti di questi sguardi sullo Zen, non si può non notare che, tranne l’ultimo caso, si tratta esclusivamente di sguardi maschili.

Come accade in altre periferie, anche lo Zen di Palermo ha i suoi musicisti: dal collettivo Villa Muerte fondato da Dante LSD e Y.Zeezy, attivi anche individualmente, a Picciotto.

Periferie sonore che fanno riecheggiare una volontà di trovarsi in luoghi da conquistare attraverso musiche invisibili, come questi centri mancati, onde sonore che reclamano spazi e visibilità attraverso voci di protesta, gioco e affermazione, frammentando e sincopando parole e legandole alle immagini di un quartiere che ha urgenza di normalizzarsi anche attraverso forme artistiche nate per sottolineare la protesta. Rap, crew e dialetto palermitano mischiati insieme per dar vita a un gergo internazionale, locale eppure universale, nuovo possibile storytelling per raccontare un quartiere che vuole essere narrato, cantato, vissuto, abbandonando i panni di uno scomodo fantasma (p. 39).

Circa le fotografie di Emanuele Lo Cascio, sempre concordate con i soggetti ritratti, scrive Nicita che «nella loro configurazione, e nel loro essere narratrici-portatrici di storie, costituiscono una sorta di ideale configurazione iconografica degli abitanti di un quartiere, descritto nello svolgersi di una quotidianità che non sembra accusare il peso dei pregiudizi, perché uomini e cose sono osservati senza alcuna modalità a priori: lo sguardo non segue una direzione già tracciata, ma intraprende la strada da percorrere per la prima volta, da scoprire, svelare passo dopo passo» (p. 40).

Lo Cascio evita di sottrarsi dall’universo che fotografa, tenta di eliminare ogni distanza dai soggetti ritratti, siano essi esseri umani, animali, architetture od oggetti. Si può affermare che alle immagini rubate dai media al quartiere in occasione di qualche fatto di cronaca, Lo Cascio contrappone, attraverso la sua fotografia, momenti di incontro.

Nel parlare di una periferia che Emanuele Lo Cascio definisce attraverso le sue fotografie come illimitata, si affrontano i temi del dominio dello sguardo come elemento caratterizzante il giudizio sociale, capace di creare confini e limiti attraverso il suo stesso posizionamento. Immagini che raccontano di una rifondazione possibile degli spazi e delle architetture, che può accadere solo grazie alla necessaria re-visione dei corpi che le abitano, e che viene posta in essere solamente nel momento in cui avviene la rifunzionalizzazione del punto di vista dell’osservatore. È proprio qui che è urgente la zona di espansione, quella della nostra significazione, della sua rielaborazione. Un passaggio necessario, dove lo stare dentro lo spazio assume il significato di stare con i suoi abitanti, recuperando la giusta distanza, quella necessaria per essere umani (p. 9).

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Visum et repertum 7 https://www.carmillaonline.com/2025/12/27/visum-et-repertum-7/ Sat, 27 Dec 2025 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91911 di Jenő Farkas

La prima versione ungherese di Dracula 

[In questo studio, Jenő Farkas esamina la prima traduzione ungherese del Dracula di Bram Stoker, pubblicata a puntate nel Budapesti Hírlap tra il gennaio e il marzo del 1898 e successivamente uscita in volume. L’articolo, a ideale introduzione di uno studio più lungo e approfondito dell’autore sul tema, sostiene che la traduzione, con ogni probabilità opera di Jenő Rákosi, rappresenti al tempo stesso un’adattamento culturale e un importante atto di mediazione letteraria tra Oriente e Occidente. Sebbene la versione di Rákosi ometta o semplifichi alcuni passaggi descrittivi e scientifici, essa conserva con [...]]]> di Jenő Farkas

La prima versione ungherese di Dracula 

[In questo studio, Jenő Farkas esamina la prima traduzione ungherese del Dracula di Bram Stoker, pubblicata a puntate nel Budapesti Hírlap tra il gennaio e il marzo del 1898 e successivamente uscita in volume. L’articolo, a ideale introduzione di uno studio più lungo e approfondito dell’autore sul tema, sostiene che la traduzione, con ogni probabilità opera di Jenő Rákosi, rappresenti al tempo stesso un’adattamento culturale e un importante atto di mediazione letteraria tra Oriente e Occidente. Sebbene la versione di Rákosi ometta o semplifichi alcuni passaggi descrittivi e scientifici, essa conserva con notevole abilità il ritmo e la tensione del romanzo. Lo studio confronta vari dettagli testuali tra l’originale di Stoker e la pubblicazione ungherese, mettendo in luce errori di traduzione, omissioni e spostamenti interpretativi. Nonostante le sue inesattezze e occasionali abbreviazioni, il Dracula ungherese si presenta come un notevole esempio precoce di traduzione letteraria moderna, un’opera che rimane ancora oggi una lettura coinvolgente e di valore storico. Le citazioni in italiano dal romanzo sono state riprese dal sito: Dracula: https://www.skylabstudios.it/dracula/dracula.pdf.  Cfr. Simone Berni,  “Dracula, di Bram Stoker – Il mistero dell’edizione ungherese del 1898″, Cultora, https://www.cultora.it/dracula-di-bram-stoker-il-mistero-delledizione-ungherese-del-1898/; Marinella Lőrinczi, “Dracula in Iceland”. An interview, Nordicum-Mediterraneum, vol. 5, n. 1, 2010, https://people.unica.it/mlorinczi/files/2018/07/Intervista-Tani-2010.pdf  Nell’immagine qui in incipit, il volto del Conte nella seconda edizione (MÁSODIK KIADÁS) del romanzo Dracula in ungherese, 1906.]

La prima traduzione ungherese di Dracula (1898) dovette rappresentare un compito eccezionalmente complesso per il suo traduttore. La gamma linguistica del romanzo spazia dall’inglese contemporaneo ai dialetti dei marinai, mentre l’interpretazione dei concetti scientifici moderni – teorie darwiniane, osservazioni psichiatriche, ipnosi e nuove procedure mediche – richiese anche un notevole sforzo intellettivo da parte del traduttore. Si può dire che lo stesso Bram Stoker compia una sorta di atto di traduzione: egli traduce le forze orientali, irrazionali e arcaiche nel linguaggio del moderno discorso razionale occidentale – un processo che richiese quasi un decennio di ricerche da parte dell’autore. Il romanzo è strutturato attorno a situazioni di confine accentuate e a opposizioni intense: tra Occidente e Oriente, civiltà e barbarie, vivi e morti. Di conseguenza, il Dracula ungherese non è soltanto una traduzione, ma anche un’interpretazione – una resa letteraria raffinata, eseguita con la meticolosità tipica dell’epoca. Tuttavia, per ragioni di leggibilità, il traduttore omise alcuni passaggi descrittivi e in altri punti accorciò o semplificò il testo. Il suo obiettivo principale fu mantenere il ritmo della narrazione e intensificare la suspense. Segue un breve confronto della lunghezza della traduzione in termini di numero di caratteri.  Da questi dati risulta evidente che le omissioni testuali elencate di seguito non sono caratteristiche dell’intero romanzo. È inoltre importante notare che la traduzione non presenta segni di adattamento o di modifica testuale. La spiegazione più plausibile risiede nell’identità del traduttore: Jenő Rákosi (1842-1929), scrittore, drammaturgo e traduttore di fama nazionale, membro corrispondente dell’Accademia Ungherese delle Scienze, caporedattore e co-proprietario del Budapesti Hírlap (fondato nel 1881), nonché direttore di diversi altri quotidiani. Rákosi era considerato uno dei pubblicisti più influenti d’Ungheria, noto per le sue traduzioni dal tedesco, dall’inglese e dal francese. Tradusse in ungherese circa una dozzina di opere di Shakespeare, che nel corso degli anni rivide e perfezionò. Egli espresse così la sua concezione dell’arte della traduzione letteraria:

Ogni traduzione è un patto combattuto fino all’estremo. Con ogni riga bisogna decidere che cosa conta di più: il pensiero, l’ingegno, l’ordine delle parole, l’espressione, l’immagine, il suono — e tante altre cose ancora. Solo dopo viene il compito di trasformare davvero il testo dall’inglese all’ungherese!

La scelta e la traduzione del Dracula di Bram Stoker in ungherese non furono affatto casuali. Nel 1897, il Vígszínház (Teatro della Commedia) di Budapest mise in scena, con enorme successo, un dramma tratto da Trilby di George du Maurier – uno dei romanzi più popolari dell’epoca vittoriana. I giornali di Budapest dell’epoca scrivevano che Svengali (interpretato da Emil Fenyvesi) “nella sua apparizione scenica, nella maschera, nello sguardo e negli scoppi di passione, presenta in modo sconvolgente l’immagine di un uomo diabolico”. Era come se Dracula stesso fosse apparso davanti al pubblico. Jenő Rákosi era pienamente consapevole di quanto stretta fosse la relazione tra Svengali e Dracula all’interno di quella atmosfera fin de siècle, in cui paura e fascinazione si intrecciavano e il brivido diventava una forma di piacere. Attraverso ipnosi e suggestione, entrambe le figure evocavano l’idea di un potere superiore e misterioso, al quale l’uomo moderno, stanco delle proprie sofferenze, poteva talvolta abbandonarsi volontariamente. Ci troviamo dunque di fronte a due figure emblematiche al tempo stesso: Svengali e Dracula – entrambe percepite come incarnazioni del “pericolo” dalla mentalità fortemente nazionalista della fine dell’Ottocento, e la cui morte, in ultima analisi, ristabilisce l’ordine sociale e offre un senso di rassicurazione. Infine, dal punto di vista del potenziale commerciale, non era certo un piccolo vantaggio che la storia di Stoker fosse ambientata in Transilvania, nel castello di Dracula situato al Passo Borgo.
In qualità di comproprietario di una rinomata casa editrice e di uomo d’affari nato, Jenő Rákosi annunciò la prossima pubblicazione del romanzo di Stoker in tre distinte avvertenze. Nell’ultimo numero del Budapesti Hírlap del 1897, il romanzo veniva pubblicizzato nel modo seguente:

(Nel nostro nuovo romanzo.) Domani, giorno di Capodanno, apparirà la prima puntata del nostro nuovo romanzo. Questo romanzo, intitolato Dracula, è una delle più grandi sensazioni del mercato librario natalizio inglese. Il suo autore, l’americano Brom [inglese Bram] Stoker, è riuscito a ottenere quasi lo stesso effetto che una volta produsse Trilby. Dracula è il più meraviglioso tra i molti racconti meravigliosi mai usciti da una penna inglese. È avvincente fino al brivido, apparentemente incredibile e insondabile, e non si riesce a smettere di leggerlo. Per noi ha anche un fascino particolare: l’ambientazione del romanzo dell’autore inglese è la Transilvania. (Budapesti Hírlap, 31 dicembre 1897)

A questo seguì un altro annuncio di tipo simile pubblicato nello stesso numero, che differiva solo per l’omissione della frase iniziale. Il terzo avviso cominciava così: “In questo giorno di Capodanno appare la prima puntata del nostro nuovo romanzo” (Budapesti Hírlap, 1° gennaio 1898). Tra il 1° gennaio e il 28 marzo 1898, l’intero Dracula apparve sul Budapesti Hírlap in 79 puntate, come indicato nel giornale; tuttavia, il numero reale fu 85, poiché i tipografi numerarono erroneamente più volte gli episodi. La traduzione fu pubblicata nella sezione “Regény-csarnok” (“Sala del romanzo”), generalmente disposta in sei colonne – talvolta in quattro o cinque – sotto il titolo: Bram Stoker: Drakula. Angol regény. Harker Jonatán naplója  (Dracula. Romanzo inglese. Il diario di Jonathan Harker). La cura con cui il testo fu suddiviso in puntate rivela la mano di un abile redattore letterario: ogni segmento si legge come un’unità autonoma, che si conclude con un momento di suspense, spingendo il lettore curioso del giornale ad attendere con impazienza il numero successivo – e, naturalmente, a ricomprare il giornale.

Apparso ora: Dracula. Romanzo inglese. Il diario di Jonathan Harker. Scritto da Bram Stoker, prezzo 1 Forint [austriaco]. Pubblicità nel giornale Budapesti Hírlap, nel mese di maggio 1898.

È dunque fuori discussione che l’edizione ungherese potesse essere una sorta di “traduzione pirata”, poiché, secondo la legislazione ungherese dell’epoca, il Dracula di Bram Stoker non era tutelato dal diritto d’autore. Non essendovi alcun trattato sul copyright tra la Gran Bretagna e l’Austria-Ungheria, il romanzo poteva essere liberamente tradotto e pubblicato in Ungheria senza il permesso dell’autore. Ciò spiega perché la traduzione ungherese di Dracula apparisse anche in volume nel maggio del 1898, in un’edizione di 619 pagine, pubblicata dalla Casa Editrice del Budapesti Hírlap. La seconda edizione seguì nel marzo del 1906 (491 pagine) e la terza nel marzo del 1909 (485 pagine). A queste fecero seguito sei diverse traduzioni e adattamenti ungheresi (1925, 1985, 1997, 2006, 2012 e 2021), stampati complessivamente in alcune centinaia di migliaia di copie. Tra questi, si distingue in modo particolare la traduzione/adattamento di Tibor Bartos del 1985, considerata di notevole valore letterario.
A prima vista, può sembrare sorprendente che il testo pubblicato a puntate sulle pagine del Budapesti Hírlap sia stato ristampato in volume – per tre volte, e poi ancora più volte in seguito – senza la minima modifica. Perché accadde questo? Il traduttore doveva essere uno scrittore professionista, esperto nell’arte della prosa, le cui soluzioni stilistiche si rivelarono così efficaci da essere riutilizzate persino nelle edizioni del 1925 e del 2021. Sebbene il testo sia conciso e saldamente costruito, esso risponde perfettamente alle abitudini di lettura del suo tempo – in particolare alla domanda contemporanea di rapidità e chiarezza.
Naturalmente, anche la traduzione non è priva di errori. Si può citare un esempio significativo. All’inizio del romanzo, Harker dice nell’originale inglese: “I feared to go very far from the station, as we had arrived late and would start as near the correct time as possible” (“Non ho osato allontanarmi troppo dalla stazione, poiché, giunti in ritardo, saremmo però ripartiti quanto più possibile in orario”). Jenő Rákosi rende questo passo nel modo seguente: “I didn’t dare go very far from the station, since we arrived late, and I wasn’t completely confident about the departure being on time either”(“Non ho osato allontanarmi molto dalla stazione, visto che siamo arrivati tardi e non ero del tutto sicuro che la partenza sarebbe stata puntuale”).
Ritengo che il traduttore abbia affrontato il compito con piena consapevolezza della trama, e che gli sia stato estremamente difficile evitare che il proprio giudizio soggettivo si insinuasse nella voce narrativa. Per esempio, mancano anche alcune frasi all’inizio del romanzo, come:

At the very beginning of the seventeenth century it underwent a siege of three weeks and lost 13,000 people, the casualties of war proper being assisted by famine and disease.

All’inizio del diciassettesimo secolo la città ha subito un assedio di tre settimane, e ha perduto tredicimila anime, agli stermini della guerra vera e propria sommandosi fame ed epidemia.

Omettendo passaggi descrittivi più o meno lunghi, il traduttore sembra aver considerato alcuni dettagli eccessivi o inutilmente esplicativi. Ad esempio, manca la seguente frase: “stregoica—witch; vrolok and vlkoslak—both of which mean the same thing, one being Slovak and the other Servian for…”. Cioè: “stregoica, “strega”, vrolok e vloslak, entrambi aventi lo stesso significato: l’uno in slovacco e l’altro in serbo…”.
Vi sono inoltre casi in cui il traduttore tralascia interi segmenti di dieci o quindici righe del testo originale, come il seguente:

4 maggio,
[…] Davanti a noi, una terra verde e ondulata, coperta di foreste e boschi, e di quando in quando erti colli coronati da folteti o da fattorie con il nudo retro aguzzo prospiciente la strada. Ovunque, una rigogliosissima fioritura di alberi da frutto – meli, pruni, peri, ciliegi; e, passando, vedevo l’erba fresca ai loro piedi cosparsa di petali.Addentrandosi tra quei verdi colli, e sbucandone, la strada serpeggiava per questa che chiamano “Mittel Land” ora sparendo alla vista dietro una svolta erbosa ora nascosta dalle cime irregolari delle pinete che svettavano sui pendii come lingue di fiamma.

Questo tipo di omissioni descrittive suggerisce un intento di semplificazione narrativa, volto a rendere il testo più diretto e scorrevole per il pubblico dei lettori di giornale dell’epoca.

In antico, gli “hospadar” si rifiutavano di ripararle per tema che i turchi pensassero che le stessero apprestando all’arrivo di truppe straniere, in tal modo affrettando una guerra sempre in procinto di scoppiare. Oltre le verdi colline ondulate della “Mittel Land” si levavano imponenti pendici boscose fino ai maestosi dirupi dei Carpazi veri e propri. Torreggiavano a destra e a sinistra, e la luce del sole pomeridiano, investendole in pieno, faceva risaltare tutti gli splendidi colori di codesta bella catena, l’azzurro cupo e il viola all’ombra dei picchi, il verde e il bruno là dove rocce ed erba si confondevano, e una prospettiva illimitata di rocce frastagliate e creste aguzze, che si perdeva in lontananza, dove picchi innevati si drizzavano maestosi.

Sembra interessante rilevare alcuni errori di traduzione. Nel testo di Stoker, la parola “nobleman” è resa come “capital” nella versione ungherese: Stoker (Cap. 1): “…it had struck me that some foreknowledge of the country could hardly fail to have some importance in dealing with a nobleman of that country”. Così la traduzione ungherese:

[…] eszembe jutott, hogy az országnak némi ismerete nem ártana, amikor az ország egyik fővárosával lévén dolgom.

[…] mi è venuto in mente che conoscere un po’ il paese non sarebbe male, visto che ho a che fare con una delle sue capitali.

Un altro errore riguarda la frase di Stoker: “Strange to say, there were hairs in the centre of the palm”. Troviamo infatti nella versione ungherese:

Különös, hogy a tenyere közepe vörösnek látszott.

Era strano che il centro del suo palmo apparisse rosso.

Qui il traduttore ha letto male “hairs” e l’ha trasformato in qualcosa di “rosso”, perdendo così il dettaglio originario – e piuttosto perturbante – dei peli cresciuti al centro del palmo della mano del Conte.
Altro errore, questo di semplice distrazione ma sulla prima pagina, si ravvisa dove il traduttore cita l’orario di arrivo del treno “alle 6 ore e 36 minuti”, mentre nel testo originale si legge “alle 6 ore e 46 minuti”.

Probabilmente per orgoglio nazionale, il traduttore omette poi anche alcune brevi proposizioni. Ad esempio: Stoker: “In old days there were stirring times, when the Austrian and the Hungarian came up in hordes, and the patriots went out to meet them—men and women, the aged and the children too…” Nella traduzione ungherese, la proposizione “when the Austrian and the Hungarian came up in hordes” (“In tempi andati, c’erano periodi turbolenti in cui gli austriaci o gli ungheresi piombavano a orde, e i patrioti salivano ad affrontarli – uomini e donne, i vecchi e persino i bambini…”), è mancante. L’omissione di questo riferimento agli “Austriaci e Ungheresi” ricontestualizza sottilmente lo sfondo storico-nazionale, attenuando il tono polemico e diluendo la coloritura d’epoca della frase.
Inoltre, due frasi importanti risultano assenti dalla Nota alla fine del romanzo di Stoker:

Nell’estate di quest’anno ci siamo recati in Transilvania, rivisitando quei luoghi che erano e sono per noi così pieni di vividi e terribili ricordi. E ci riusciva quasi impossibile credere che quanto avevamo visto con i nostri stessi occhi e udito con le nostre stesse orecchie, fosse davvero accaduto. Ogni traccia ne era scomparsa. Il castello si drizzava alto come sempre a dominare la circostante desolazione […] E sono rimasti colpiti dal fatto che, in tutta quella gran massa di materiale che compone la cronistoria, non vi sia neppure un documento inoppugnabile, null’altro che fogli e fogli dattiloscritti oltre alle ultime annotazioni a mano di Mina, Seward e mie, e il memorandum di Van Helsing. Impossibile chiedere a chicchessia, anche se lo volessimo, di considerarle prove di una vicenda così incredibile.

Nonostante tali omissioni, considero il lavoro di Jenő Rákosi – la prima traduzione ungherese di Dracula – un notevole risultato di traduzione letteraria. Anche nella sua forma abbreviata, essa rimane, in molte sue parti, una lettura coinvolgente e gratificante ancora oggi.

„Budapesti Hírlap”, 1 gennaio 1898, rubrica: Sala del romanzo. “Dracula. Romanzo inglese”. Scritto da: Bram Stoker. Diario di Jonathan Harker (Stenografia)
Prime tre colonne della parte iniziale, le seguenti tre sono leggibili in un’altra pagina.

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Il labirinto di Frankenstein, Dracula e il popolo dei Minimei (Victoriana 61) https://www.carmillaonline.com/2025/12/26/il-labirinto-di-frankenstein-dracula-e-il-popolo-dei-minimei-victoriana-61/ Fri, 26 Dec 2025 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91848 di Franco Pezzini

Frankenstein di Guillermo del Toro, USA 2025. Dracula – L’amore perduto (Dracula: A Love Tale) di Luc Besson, Francia – UK 2025.

Riprendendo il filo di una riflessione di qualche tempo fa, a fronte del “marcatore Dracula” come connotante le svolte del gotico su schermo – assai più che altri personaggi fantastici, per la frequenza dei richiami e il loro impatto immaginale – e delle stagioni all’incirca trentennali di tali svolte, è sensato vedere nel Nosferatu di Eggers l’avvio di una nuova stagione. Non a sovrastimarlo acriticamente, è un film riuscito ma non manca di limiti [...]]]> di Franco Pezzini

Frankenstein di Guillermo del Toro, USA 2025.
Dracula – L’amore perduto (Dracula: A Love Tale) di Luc Besson, Francia – UK 2025.

Riprendendo il filo di una riflessione di qualche tempo fa, a fronte del “marcatore Dracula” come connotante le svolte del gotico su schermo – assai più che altri personaggi fantastici, per la frequenza dei richiami e il loro impatto immaginale – e delle stagioni all’incirca trentennali di tali svolte, è sensato vedere nel Nosferatu di Eggers l’avvio di una nuova stagione. Non a sovrastimarlo acriticamente, è un film riuscito ma non manca di limiti e certo non presenta la vertigine iconica del Nosferatu di Murnau o dei Dracula epocali con Lugosi e Lee: bensì a considerarne l’impressionante, inattesa risonanza mediatica che non permette di considerarlo come l’ennesimo film sull’Arcivampiro, per quanto buono (si pensi all’attesissimo Dracula BBC/Netflix di Mark Gatiss e Steven Moffat, 2020, o al solido The Last Voyage of the Demeter di André Øvredal, 2023, che non hanno avuto un simile impatto). Quando un film muove – sostanzialmente in positivo, al di là delle inevitabili critiche – così tante reazioni, significa che ha toccato qualcosa di profondo.
Insomma, una nuova stagione che – memori di Orlok – si sarebbe tentati di considerare l’età degli incubi, memori dei Cavalieri dell’Apocalisse piombati addosso in questo decennio: pandemia, guerra, crisi collettive e inevitabili ricadute personali. La vocazione metaforica del gotico non può che esserne coinvolta.
Nessuna sorpresa dunque che altri film su classici del filone abbiano potuto emergere – in particolare a opera di registi noti. E il primo da considerare sembra senz’altro il Frankenstein di Guillermo del Toro: un film bellissimo e di straordinaria forza visionaria, ottimamente recitato, con un trionfo di effetti speciali. Un film “della vita” del regista, e idealmente la versione di questa nuova stagione del gotico, come le altre ne hanno conosciute di fondamentali (le versioni 1910, 1931, 1957, 1994): una lettura non banale, originalissima nelle scelte e nelle provocazioni – prima delle quali, lo spostamento all’Ottocento vittoriano (anni 1855-57) tra nuove tecnologie e Guerra di Crimea di una storia del tardo Settecento (ma l’aveva fatto già Terence Fisher nel ’57) – e dove del Toro mostra la sua incredibile potenza di visione. Anche la scelta intelligente di ripartire il dramma tra Preludio, Racconto di Victor, Racconto della Creatura e Finale, ammicca in qualche modo a una dimensione filologica.
Tutto bene, dunque? Fino a un certo punto. Al netto dei tanti pregi, gli amanti della produzione di del Toro non riescono a considerare questo Frankenstein a pari livello dei suoi film più ispirati e originali, specialmente i primi; e per contro una serie di libertà dal testo votate alla spettacolarità del dramma (azione, macchinari grandiosi, tensioni tra i personaggi) risultano alla fine poco utili.
Sarebbe ingiusto accusare di conservatorismo chi sogni la fedeltà alle fonti, almeno quando questa mantenga un suo significato in fondo persino più provocatorio. Per esempio in una versione ispirata più da vicino al romanzo, con interpreti ventenni in preda a furori adolescenziali, settecentesca e senza fantastici macchinari steampunk ma con la comoda e pittoresca attrezzatura dei galvanisti tra grossi tranci di carne, e una creatura portata in vita nel sottotetto di una pensione per studenti. Una versione che vedesse per esempio un Victor non afflitto (come qui) da un padre tirannico e brutale, ma soffocato da una famiglia troppo perfetta come quella presentata dall’autrice, per cui l’Eden un po’ claustrofobico del suo Adamo 2.0 è anzitutto quello; un Victor nevrotico ma non così respingente, visto che del Toro sceglie di renderlo un simil-Byron invece che un simil-Shelley come nel romanzo, megalomane e piacione, dove noi tendiamo a solidarizzare con lui fino a tre pagine dal finale. Elizabeth (stessa interprete qui, Mia Goth, della madre di Victor) non è l’eroina che si invaghisce – un po’ troppo rapidamente, tra l’altro – della Creatura, ma la proiezione di quelle madamine molto perbene che la famiglia di Percy Shelley avrebbe preferito alla ribelle Mary, e lei fa finire malissimo: tanto più che la Creatura “è” Mary Shelley. Correttamente non si enfatizza la “sfida a Dio” tormentone dei film su Frankenstein americani, mentre il romanzo anche nei richiami miltoniani sottolinea il tema della responsabilità nei confronti di chi dipende da noi; ma i rimorsi e i ritardi patologici del Victor “originale” non trovano spazio nell’egocentrato protagonista del film. Per contro le difficoltà e gli orrori del protagonista di Mary Shelley, uno studente borghese fuori sede costretto a condurre i suoi disgustosi esperimenti di nascosto e sotto una pressione psicologica sempre più devastante, vengono drasticamente ridimensionate tornando a renderlo il barone di innumeri film, foraggiato da un industriale e catafratto dal proprio ego byronico.
Questo groviglio di potenzialità drammatiche nel grembo dell’opera resta disatteso nella pellicola 2025: e visto che al regista interessa indagare il labirinto sottotesto e non solo la creazione del “mostro” (qui peraltro troppo bello, rispetto al gorgonico e mummiesco atlante anatomico semovente descritto nel romanzo), non si capisce perché non abbia attinto alle tensioni lì evocate. O meglio: libertà del regista, che vanno difese. Ma per chi ami il gotico, questo film pur bellissimo – si tiene a sottolinearlo – resta qualcosa di non convincente fino in fondo e non così “nuovo”, un’occasione perduta.
L’alta qualità del film di del Toro, d’altra parte, spicca tanto più a fronte dell’altro film di mostri gotici apparso quasi contemporaneamente, Dracula: A Love Tale di Luc Besson, 2025: un’opera nel complesso non convincente che tuttavia, leggiamo in Wikipedia, reca “il miglior incasso per un film francese in Italia dopo la crisi dovuta alla pandemia di COVID-19” e “ha ricevuto recensioni positive da parte della critica. Sull’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes ha un indice di gradimento dell’83% basato su 12 recensioni, con un voto medio di 6,7 su 10”. Dunque complimenti, e oggettivamente un film divertente e fastoso, piacevole da vedere e forse anche rivedere: un’opera che nel complesso capitalizza interpretazioni attoriali buone, scene d’effetto, variazioni in sé poco sensate ma divertenti (uno zinzolo di campanilismo nella scelta come set di Parigi invece che Londra, trovate inedite come l’assalto finale delle truppe al castello, alcune scene che flirtano col balletto), soluzioni di sceneggiatura nel complesso originali… e che, si coglie da qualche intervento sui social, offre alle coppiette adolescenti anche una spruzzata di romanticismo da buio in sala, magari un po’ superficiale ma alla fin fine galeotto. In sostanza un onesto film di cassetta, griffato per la critica dal nome di un regista di moda. Forse un tantino sopravvalutato, e che col suo stile patinato tra fiabesco e grottesco, vagamente fumettistico e pubblicitario ha i suoi fan sfegatati ma – va detto – suscita anche altrettanto viscerali allergie.
Si possono condividere molte delle osservazioni sul film del grande studioso di teratologia sociale Fabio Giovannini, esperto di vampiri (cfr. qui e qui), a partire dal caveat su uno sterile “tiro al bersaglio destinato a creare opposte fazioni, tra i liquidatori indignati che lo riterranno spazzatura, e gli irriducibili esaltatori bessoniani che grideranno al capolavoro”. Perché onestamente Dracula – L’amore perduto non è né spazzatura né capolavoro: il che, al netto del divertimento e del fasto visivo per due ore d’intrattenimento – si ripete, godibile –, lo incantona in una zona un po’ grigia. A nuocergli sono soprattutto alcuni presupposti sullo sfondo: l’idea – forse del regista, certo di parte della critica – che un caposaldo del fantastico non è una cosa seria e dunque si possa trattare come futile pretesto, robetta su cui non porsi eccessivi problemi; l’idea che un regista assurto ai red carpet abbia una sorta di licenza assoluta (se questo film fosse stato confezionato da un Terence Fisher o da un artigiano minore del fantastico, faticherebbe a trovare una sala); e insieme alcune stonate dichiarazioni di Besson (per esempio a margine di una proiezione a Napoli ma anche al Lucca Comics e in genere nelle interviste).
In questa sede sarebbe abbastanza inutile occuparsi di Dracula – L’amore perduto se non in termini di impatto sull’immaginario per il successo di critica e pubblico: e dunque si può domandare cosa lo giustifichi.
Nessuno può turbarsi del fatto che si tratti di un’opera spudoratamente citazionista, ma – siamo seri – Besson non può affermare di non essersi ispirato a Coppola, come è stato udito con sorpresa sostenere. Interessa poco che identifichi il vampiro in Vlad II e non in Vlad III, come Coppola fa pur liberamente: la pellicola di Besson non ha pretese di credibilità storica. Giovannini elenca comunque come imprestiti l’acconciatura nipponica del senescente Dracula al castello, le silhouette di guerrieri in controluce su un cielo rosso e alcune strane particolarità delle loro armature, “il riapparire di Dracula in epoca vittoriana con il cilindro e i lunghi capelli neri”, la chiesa dove rinuncia a Dio tra statue sacre che prendono a sanguinare, il crocifisso che s’incendia, e in più la storia d’amore con la bella reincarnata. La citazione ci sta, sia ben chiaro. Dipende sempre dalla disinvoltura degli imprestiti: del resto Besson ha dovuto incassare una doppia sconfitta in tribunale – primo grado e appello – da parte di John Carpenter per il soggetto di Lockout (2012), derivato in forma un po’ troppo stretta da Fuga da New York, 1981. Però, in tutta onestà, nel caso di Dracula – L’amore perduto il problema non è il plagio.
Tanto più che non si individua solo Coppola, con citazioni – consapevoli o meno – a una pletora di altri film: Giovannini osserva che per esempio è “il caso delle insopportabili scene con piccoli gargoyle animati che rimandano ai mostriciattoli di Subspecies (1991), il leggendario B movie sui vampiri diretto da Ted Nicolaou per la Full Moon” – per non parlare dei Duerghi del castello di Dracula nel Van Helsing di Stephen Sommers, 2004 (Dwergi nell’originale, probabilmente da dwarf, “nano”), magari dei Gremlins icona anni Ottanta e magari dei Minimei cari a Besson. Un amico mi suggeriva anche che possa trattarsi di un ammiccamento ai gargoyle di Notre Dame – il castello fa pensare un po’ a una cattedrale –, sull’onda del trauma-incendio. Certo si tratta di una delle trovate più infelici del film, ancora peggiorata quando nel finale vediamo sortire dal castello una schiera smarrita di bambini pallidi (evidentemente hanno perso il sembiante mostruoso) come usciti da un lager. Ma lì è il tocco del regista, un fiabesco/grottesco a tratti spiacevole che compare anche altrove nella sua produzione.

La scena al convento di suore richiama il televisivo Dracula (2020) della BBC. E alla fine del film, senza spoilerare, c’è qualcosa di molto simile al volo del mantello dopo la distruzione del vampiro nel Dracula (1980) di John Badham.

Inoltre, “Caleb Landry Jones  nella parte di Dracula […] sembra ammiccare al Klaus Kinski di Nosferatu a Venezia”, mentre “un Jonathan Harker (Ewens Abid) da parodia […] riassume, mettendole in ridicolo, tutte le caratteristiche dei predecessori cinematografici nello stesso ruolo”. Come nel Dracula BBC/Netflix, si può aggiungere, il nemico del vampiro è un religioso: là, più originalmente, una suora (sorella Agatha Van Helsing, una straordinaria Dolly Wells), qui il prete senza nome interpretato da un Christoph Waltz sempre bravo – è presente anche nel Frankenstein – ma per l’occasione non troppo convinto. Per la scena del ballo, è poi inevitabile ricordare Per favore, non mordermi sul collo!, che però giocava indimenticabilmente sul comico.
D’altra parte le citazioni non riguardano solo film: palese è il richiamo a Il profumo di Patrick Süskind, pur con l’incongruità che il vampiro debba servirsi dell’opera di un profumiere italiano invece di usare la propria stregoneria (che pur deve vantare, a giudicare da altre scene). Però dove le citazioni – anche sgangherate – aprono alla creatività, possono avere senso: un mito è materiale plastico, si tratta di considerare come venga trattato.
Più problematico è scoprire per voce del regista che il personaggio originale non gli piace e non gli sono mai interessate le storie di vampiri, salvo menzionare Stoker nei manifesti: tutto si basa però su due temi (la storia d’amore e la reincarnazione) entrambi assenti nel romanzo. Come arriva a sostenere serioso in un’intervista (30 luglio 2025) al sito Abus de ciné:

alla base, è la ricerca di un uomo che non riesce a dimenticare sua moglie. Non sono un fan dei film horror. Quindi volevo concentrarmi sull’aspetto romantico. Quest’uomo ha un solo obiettivo: trovare la donna che ama. Non amerà mai nessun altro. D. lo rende immortale, ed è qui che entra in gioco l’aspetto “mostro”, ma non è quello che mi ha interessato di più. Nei nostri momenti difficili, volevo parlare di più d’amore.

Dove evidentemente confonde il tema del romanzo con il film di Coppola e con gli altri Dracula in love anche precedenti… Tanto più che sul tema dell’ossessione di un amore che dura nel tempo, mille altre potevano essere le chiavi da scegliere: perché misurarsi con Dracula? Torniamo alla libertà artistica, ovvio. Ma si può sospettare che il regista di moda s’irriterebbe non poco se qualcuno riassumesse in modo tanto implausibile, forzato e disinformato i temi portanti e la trama di qualcuno dei suoi film…
Poi chiaro, Dracula non teme le forzature perché ne ha già viste di tutti i colori. Solo nel corso della sua vita filmica si è confrontato con Billy the Kid, Batman, l’eroina erotica Emmanuelle e persino Topo Gigio, e con chicche imbarazzanti come le sceneggiature di Dracula (The Dirty Old Man), 1969, dell’improbabile Dracula vs. Frankenstein di Al Adamson, 1971, di pirotecnica bruttezza, e del porno Dracula Sucks, 1979. Ma quel che si è pronti a perdonare all’artigiano di C-movies resta poco digeribile quando brandito con supponenza da un regista di culto, iperfinanziato (budget di 45 milioni di euro) e iperpresente nei festival.
La pellicola, come detto, è in sé divertente. Sul significato, si tratta però forse di capire cosa intenda Besson. Il discorso cioè sull’amore assoluto: tanto più che le scene tra la perdita dell’amata e il suo ritrovamento accedono – notiamolo – a un registro assai più folle e paradossale che romantico, e in generale la storia d’amore come narrata (a dispetto degli entusiasmi ormonali di alcuni spettatori) lascia freddini. Per fare solo il paragone più ovvio, nel film di Coppola l’eros – lasciamo perdere che in Stoker non ci sia – era narrato con emozione e poesia, riusciva a convincere romanticamente: le lacrime di Mina, i fogli lasciati cadere nel dissolversi dell’inchiostro, gli oceani del tempo attraversati “per trovarti”… Qui al contrario – senza colpa degli interpreti – Vlad e consorte presentano vivace e ginnica complicità sessuale, ma non restiamo colpiti dalla profondità della storia d’amore, dagli orizzonti e dal respiro del loro scambio. Neppure al momento del loro ritrovarsi, dopo secoli, tra carillon e profumi, e certo non nel convulso finale.
Ancora Giovannini, in un diplomatico commento FB, ricorre a una sintesi intelligente: “Lo trovo adatto ai nostri tempi, nel bene e nel male che caratterizzano appunto i nostri tempi”. È vero, si tratta solo di capire in che senso.
Il fatto è che qui la storia d’amore non è fatta per convincerci, e Besson può sospettarlo: l’amore plurisecolare si riduce a una straziata nevrosi, a un inseguire fantasmi in una sala di Versailles piena quanto un odierno social in ora di punta, con qualche balletto e morsetto. Cita Coppola e il suo romanticismo per farlo esplodere in un sabba di ammiccamenti cinefili (come a dire che è spettacolo); cita il vampiro plurisecolare per negarne la durata, come la durata del sentimento – che col vampiro talvolta ha qualcosa a che vedere.
Se il Nosferatu di Eggers rappresenta uno spartiacque verso una nuova fase del mito filmico, e – ci piaccia più o meno – parla della nostra età degli incubi in modo serio e simbolicamente forte, il Dracula di Besson è la testimonianza di qualcosa che in questa fase ci vediamo intorno. Una storia congrua ai nostri tempi di relazioni nevrotiche o ossessive, di amori virtuali narrati a perplessi consulenti relazionali o sintetizzati in straniti post da social, di storie alla fine grottesche che parlano più di solitudine che di dialogo. Per cui ha senso mostrare cosa accada tra la morte dell’amata di Vlad e il suo ritrovamento: non lo strazio romantico da Nevermore di Poe, ma un’epopea sopra le righe di nevrosi e illusione (perché Mina dovrebbe a tutti i costi reincarnarsi?) quanto il profilo del protagonista, tra topi strizzati al castello e amenità in giro per l’Europa. Nel finale, poi, la Mina di Coppola, stravolta identitariamente nel profondo, partecipava da protagonista alla liberazione dell’amato; la Mina di Besson – emblematicamente chiusa dietro una porta – subisce invece le decisioni di lui, prese in autonomia e senza consultarla. Amore insomma come ossessione e solitudine, non come dialogo.
Se lo leggiamo così, e in fondo pare sostenibile, il film di Besson è più serio e amaro di quanto superficialmente appaia: non è Dracula e può non convincere, ma parla di un vampirismo che ha un suo fondamento reale. Sarebbe dir troppo il pretendere di vedervi le scottature personalissime dell’uomo Besson nelle sue relazioni, ma il regista – almeno cinematografico – ha in effetti qualcosa del vampiro nel varcare i tempi attraverso i contenuti delle sue opere, il rapporto talora divorante con attori e con personaggi, il suo ruolo sciamanico verso mondi ulteriori.
Certo, di fronte a Dracula – L’amore perduto, si rimpiangono i tentativi autentici di rileggere davvero provocatoriamente il mito del mostro stokeriano – e anche quello di Frankenstein. E nel piangere la recente scomparsa di un immenso “minore”, Udo Kier (1944-2025), indimenticato interprete di Il mostro è in tavola… barone Frankenstein (Flesh for Frankenstein), 1973, e Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!! (Blood for Dracula), 1974, prodotti da Andy Warhol e diretti da Paul Morrissey, ci rendiamo conto che il problema non è la libertà da una fonte – specie quando dichiarata – ma la consapevolezza con cui si possa tradirla. Il senso e, a dirla tutta, lo stile.

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Voci & voci https://www.carmillaonline.com/2025/12/25/voci-voci/ Thu, 25 Dec 2025 22:59:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=92081 di Francisco Soriano

Nella interessante pubblicazione – Le forme dell’oralità poetica. Poetiche e tecniche: modalità, esperienze, riflessioni (Zona, 2023) – degli atti del seminario tenutosi a Roma nell’ottobre del 2023, Giovanni Fontana dedica alcune note alla questione dell’oralità poetica.

La biografia di questo straordinario intellettuale testimonia la sua instancabile sete di ricerca e la propensione assidua allo sperimentalismo: una dinamica che lo spinge in spazi costantemente battuti da geniali performance. Già precursore della poetica pre-testuale, della poesia visiva e sonora, ha intensamente architettato teorizzazioni e messe in scena delle sue esperienze verbo-visive in ogni angolo del pianeta. Si è distinto negli [...]]]> di Francisco Soriano

Nella interessante pubblicazione – Le forme dell’oralità poetica. Poetiche e tecniche: modalità, esperienze, riflessioni (Zona, 2023) – degli atti del seminario tenutosi a Roma nell’ottobre del 2023, Giovanni Fontana dedica alcune note alla questione dell’oralità poetica.

La biografia di questo straordinario intellettuale testimonia la sua instancabile sete di ricerca e la propensione assidua allo sperimentalismo: una dinamica che lo spinge in spazi costantemente battuti da geniali performance. Già precursore della poetica pre-testuale, della poesia visiva e sonora, ha intensamente architettato teorizzazioni e messe in scena delle sue esperienze verbo-visive in ogni angolo del pianeta. Si è distinto negli anni per la vocazione avanguardistica e per la condivisione delle sue ricerche sulla poetica pretestuale ed epigenetica, incrociando personaggi come Cesare Zavattini, Adriano Spatola, Ennio Morricone, John Giorno.

Nella sua sterminata opera Fontana pone in rilievo la necessità inderogabile, rispetto ai tempi in cui viviamo, di rafforzare i legami con la poesia come atto di asimmetria alla cieca brutalità degli esseri umani. Innanzitutto la voce assume una funzione imprescindibile rispetto alla scrittura, nel senso che la poiesis genera «una nuova tessitura, un sistema articolato di logos, phonè e rythmos»1. Alla domanda di quale sia il ruolo della voce nella poesia sonora nell’attuale società dell’iperreale profetizzata da Jean Baudrillard, Giovanni Fontana risponde che «nella società dell’iperreale, quella che sembra moltiplicare l’effetto di realtà, ma che praticamente ce ne allontana sempre di più, tra mistificazioni e false aspettative, tra continui condizionamenti e simulacri effimeri, è sempre più forte la necessità della centralità del corpo. Dobbiamo riappropriarcene in tutta la sua materialità, a discapito del nostro corpo virtuale, nell’intento di rinforzare le relazioni di spessore umano, che appaiono sempre più esili e labili»2. Dunque la ricerca sul campo viene articolata in una dimensione intermediale in cui vengono usate tecnologie elettroniche e digitali che servono, nel recupero all’interno dell’atto performativo, del valore della voce come corpo, essenza reale e strumento di relazione etica ed estetica: «la performance poetica è un evento nomade nel cui centro vibra una voce reale in cerca di relazioni umane».

Nella prefazione Voci & voci Fontana assicura che, nell’attuale panorama mediatico, le forme dell’oralità poetica ci riservano «molte sorprese»3. Nell’ultimo intervento all’interno del testo, La voce in situazione, egli definisce con la sua geniale intuitività che cosa sia una voce»: materia corporea seppur «impalpabile», è «evanescente», è perfettamente congeniale a un «corpo pulsante», è «avvinta alle vibrazioni prodotte da strumenti vivi»4. L’irripetibilità della voce è inquietante, sorprendente, unica, palpitante, è composta da carne e da sangue, da nervi e cartilagini. Le parole di Fontana sono utili a chi vuole comprendere l’imprescindibilità della voce nelle esistenze umane, in qualche modo l’origine del proprio essere uomini e donne, corpi che si muovono in flussi vitali, in esperienze, in luoghi e spazi, nel tempo, talvolta in condizioni di assoluta atemporalità. In ogni caso la voce testimonia la presenza del corpo e «la sua natura è essenzialmente fisica, corporea». La voce è complessità, è un evento e come tale produce «riverberi disvelatori di malie», misteri, e «nell’alternanza di soluzioni tonali stacca la dominante naturale indicando le direzioni possibili del senso»5. A Carmelo Bene si riferisce Fontana quando dice che aveva ragione quando affermava che in teatro «non si può parlare ma si possono solo cantare parole incomprensibili»6. È proprio quella voce che obbedisce alla Musa, che tocca corde poliformi e che «scocca la sua freccia come amor che attacca di soppiatto»7.

L’amore per la voce è vita. In questa consapevolezza Fontana sonda le sfumature, le sfaccettature, gli infiniti e imperscrutabili distinguo, appellandosi alla sua funzione quasi benefica, «che è risonanza infinita, che fa cantare ogni forma di materia»8. Dunque è l’irritualità e la mancanza di rispetto di un canone preciso, il vincolo che asserraglia in ogni angolo del mondo, mentre altro è «dire parole in voce e voci di parolevoce». Il corpo vibra: trachea, cartilagini, cricoide, tiroide, aritenoidi, tendini, muscoli, corna, anello, laringe, lingua, micropiramidi, glottide, corde e poi fruscio, pensieri, colonne d’aria, fiato, parole, corpo, aria. In scena, dunque, il dado è tratto: l’apparato fonatorio evocante sposa il gestatorio intrigante. Il genio di Fontana va oltre la parola, quello spazio che diventa indefinito perché non è mai eguale, è tutto e il contrario di tutto, è e non è, è dove «sobbollono di glossolalici universi minori i fonemi in vista del canale oscuro di raccolta di deiezioni spurie»9. La voce è il corpo, di testa, di ventre, di fegato e di gola, sono a disegnar l’universo le corde corde.

Ma, in definitiva, i poeti cantano? Fontana cita ancora Carmelo Bene, il quale dice che i poeti non recitano, cantano, e che «la scrittura è trascinata via dal suo letto di carta. E il corpo ne fa musica. Il corpo. Dunque. Canta la scrittura. La ricanta. La plasma. La modifica. Plasticamente in ghirlande»10. Dalla punteggiatura e dallo scrivere a singhiozzi si esprime tutta la convulsa immediatezza, in un continuo di alternanze che conducono tutte alla sintesi di un equilibrio che potrebbe apparire solo puro disordine. È il punto estremo della ricerca dove la voce si estende non come pura vibrazione ma impura vibrazione, contaminata: affoga nel testo e dal testo emerge. Fontana ci fa capire in questo frangente il momento topico della sua ricerca, che nella sequenza di mutazioni «pendolari» lo status è quello del «laboratorio perenne». Anche per questo non può esservi un punto di arrivo, né l’alternanza di pagine che si sfogliano, né numeri a piè di pagina, né pagine tracciate di inchiostro perenne. C’è invece un processo alchemico «in cui conta il fare» senza limiti temporali in flusso, questo sì, perenne.

Una bella definizione di poesia, difficile e quasi impossibile, la diedero i fratelli Ilse e Pierre Garnier, come ci segnala ancora una volta Giovanni Fontana: «i Garnier plasmavano il soffio. […] uno dei fondamenti della poesia era il “respiro”. Le “souffle”. Respiro che “trasforma il corpo in luce”»11. A riflettere bene il respiro è davvero quell’elemento di comunione fra corporeità e incorporeità, realizza la metamorfosi e la mutazione del sangue pesante in fluido etereo. Visto che – continua Fontana – il respiro-souffle consuma i corpi, l’universo poetico è dato dallo svuotamento dell’universo stesso. «È necessario allora reinventare il corpo. Scrive Pierre: Io chiamo poesia la conoscenza del respiro». «Poi. Respiro, dunque l’universo è […]. E se l’universo è, posso reinventarmi»12. Nella ricerca delle forme della poesia e dunque della sua essenza questo è un momento cruciale, dove la nuova arte del suono è tenuta a superare le barriere linguistiche e riscoprire l’energia del linguaggio: «La “Sonie” deve rinunciare all’espressione per trasformarsi in energia pura»13. Pierre Garnier nella sua teoria di consumazione dei corpi, cioè «combustione dei corpi», ha pensato a Giordano Bruno, che parlava infatti di «spiritus» come «soffio vitale», «come respirazione universale». Infatti lo stesso Garnier comprende quanto sia ineludibile l’importanza del respiro come sostanza sonora e facendolo con il magnetofono si pone agli antipodi della poesia sonora, senza accontentarsi, attendendo che il nuovo universo tecnologico gli dia una mano a scoprire una nuova civiltà di onde e vibrazioni come mezzo di comunicazione diretto. Nel percorso della pesantezza e della mediazione del linguaggio si va verso l’idea stessa di oggetto sonoro, in un «mondo situato oltre i limiti del suono», dove «la parola si sfuma prima di essere detta»14.

Il processo sperimentale intrapreso da Giovanni Fontana ci rende consapevoli, in ultima analisi, che anche la registrazione e il documento devono essere, senza altre possibilità, viatico creativo e strumento di modellazione acustica. Il miracolo che articola la nostra esistenza poetica è nel «flusso inarrestabile» che convalida, ancora una volta, l’idea del «perennemente in atto».


  1. Cecilia Pavone, Intervista a Giovanni Fontana, teorico della poesia epigenetica, in Artribune.  

  2. Ibid.  

  3. Giovanni Fontana (a cura di), Le forme dell’oralità poetica. Poetiche e tecniche: modalità, esperienze, riflessioni, Zona, Genova 2023, p. 9.  

  4. Ivi, p. 99.  

  5. Ibid.  

  6. Ivi, p. 101.  

  7. Ibid.  

  8. Ibid.  

  9. Ivi, p 104.  

  10. Ibid.  

  11. Ivi, p. 106.  

  12. Ibid.  

  13. Ivi, p. 107.  

  14. Ivi, p. 108.  

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Tre racconti di Natale https://www.carmillaonline.com/2025/12/24/tre-racconti-di-natale/ Wed, 24 Dec 2025 22:55:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=92004 Racconto di Cesare Battisti

Io sono un detenuto e scrivo piegato sul tavolino della mia cella. Ho composto frasi, affinato pensieri come se stessi parlando a un lettore che potesse leggere con i miei occhi e potesse sentire con il mio stesso cuore. Come se anche lei o lui, dall’altra parte delle sbarre, fossero piegati sul mio stesso tavolino di formica con i bordi bruciacchiati dalle sigarette altrui. E ogni giorno, prima di raddrizzare la schiena, mi sono chiesto se la scrittura Dentro potesse realmente passare attraverso le sbarre, raggiungere il mondo libero senza perdere parte dell’atmosfera dove il recluso [...]]]> Dentro

Racconto di Cesare Battisti

Io sono un detenuto e scrivo piegato sul tavolino della mia cella. Ho composto frasi, affinato pensieri come se stessi parlando a un lettore che potesse leggere con i miei occhi e potesse sentire con il mio stesso cuore. Come se anche lei o lui, dall’altra parte delle sbarre, fossero piegati sul mio stesso tavolino di formica con i bordi bruciacchiati dalle sigarette altrui. E ogni giorno, prima di raddrizzare la schiena, mi sono chiesto se la scrittura Dentro potesse realmente passare attraverso le sbarre, raggiungere il mondo libero senza perdere parte dell’atmosfera dove il recluso ha proiettato ogni fattore pauroso, imprevedibile. Se varcata l’agognata soglia del carcere, le sue parole scritte trattenessero il soffio che trasforma il castigo in speranza, l’aria ferma della cella in luce, in vento che plana sul mondo dal quale egli è separato. Ho cercato la risposta dappertutto tranne in un posto, l’unico dove avrei potuto trovarla: in prigione.

Nel 2021, quando Artisti Dentro mi propose di fare l’editor per il Premio Letterario, non potevo sapere che sarebbero stati i miei compagni di pena, i loro scritti, a darmi la risposta che cercavo. È stato leggendo i testi e poi interagendo cogli autori detenuti, come me, che ho imparato a respirare Dentro, da questo lato delle sbarre, a ritrovare l’antico ritmo per sapersi abbandonare alla scrittura vera. Senza chiedere a nessuno di capire la ragione che ci ha obbligato a frugarci Dentro, ma limitarsi a dire qualcosa che non possiamo più tenerci Dentro. Sono state le grida dei miei compagni di prigionia a ricordarmi che non si scrive percorrendo vie consolatorie, o adeguarsi e raccontare quello che ci vorremmo sentir dire. Chi scrive e sa di farlo sovverte le regole, non pretende di essere capito, giustificato. È uno scrittore che affida la sua anima al vento, al soffio primordiale che nessuno potrà mai imbrigliare.

Chi scrive dà sé stesso, pur non avendo niente da insegnare; è un prigioniero che vive solo per evadere.
Non importa la lingua, la dimensione o lo spessore, scriviamo tutti per ottenere lo stesso premio: stringere forte al cuore la nostra paginetta e sentire lo spirito che va lontano oltre le sbarre, ben oltre la parola fine.

 

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Lo specchio di Andrea

Racconto d Cesare Battisti

Certe volte, quando di notte non scalcio i muri e mi sveglio apposta per pensare, con il ronfo del mostro che ini accompagna piano piano, mi faccio passare per la testa cose astruse. Pensieri di rassegnazione, dei quali dovrei vergognarmi, già che un prigioniero che si rispetti dovrebbe odiare le catene per dovere, invece di inventarsi iperboli da scrittore, nel volersi convincere che il male basta accettarlo per ricavarne il bene. Come se il carcere, invece di essere castigo, ci potesse liberare dal peso del superfluo, dal sovraccarico dei preconcetti, dalle idee prefabbricate e dai pregiudizi. Ma, talvolta, nel notturno vacillare della mente, lo stare dentro diventa quasi una liberazione dall’insicurezza generale: qui siamo al sicuro! E anche dalla paura della rinuncia e del successo. In carcere l’anima è così stanca da non essere più in grado di nuocere. Siamo a posto.

Non sempre, siamo troppi e ci stiamo stretti, la tensione sale e gli incidenti sono inevitabili. Può succedere di tutto perfino a causa di un innocuo specchietto. È stato requisito ad Andrea, lui è andaio a reclamarlo ed è scoppiata la bagarre. Per evitare le botte e poi l’isolamento, Andrea si è tagliato con la Gillette. Il lavorante ha dato poi una ripulita al corridoio e sulle scale, ma l’odore del sangue impregnava l’aria. E tutto per il sequestro di uno specchietto durante una perquisizione di routine. Forse un eccesso di zelo, o per noia, un capoposto se l’è portato vía. Un innocuo pezzo di plastica, una bagatelle, ma che per il povero Andrea rappresentava un problema serio.
In ogni cella abbiamo un piccolo rettangolo di specchio incollato al muro. Serve a deformarci la faccia quel tanto da non vederci le tracce di galera e anche a farsi la barba prima del colloquio. È fissato a un’altezza media di persona adulta, solo che Andrea non supera il metro e mezzo e se sale sullo sgabello sarebbe troppo alto. Data la statura, gli era stato accordato l’acquisto di uno specchietto mobile, fatto di materiale inoffensivo che lui custodiva con amore,

Se fosse successo un giorno qualsiasi, chissà, Andrea avrebbe reagito con più tatto, magari chiedendo di parlare all’ispettore. Ma era giorno di colloquio, di barba fatta a contropelo, con spruzzate di profumo e tute ginniche firmate. E con la barba ancora da rasare! Troppo per il povero Andrea.
La sua famiglia avrà versato qualche lacrima, prima di capire e tornare a casa con la borsa piena. Non è la prima volta che succede, quando non è il loro Andrea è un altro carcerato a gettare lo scompiglio nella sala colloqui. Di famiglie piangere ne hanno viste tante, hanno imparato a sopportare e si ritrovano così a scontare la stessa pena dei loro cari che stanno dietro le sbarre. A chi non è mai stato chiuso in una cella, cose simili sembreranno una bestialità, una follia criminale; un altro argomento per benpensanti a piede libero che storcono la bocca e dicono che cosa aspetta lo Stato a buttar via le chiavi. E si capisce, c’è chi sbraita alla TV di “hotel a cinque stelle dietro le sbarre”. Brave persone, ignorano che il colloquio con i familiari in carcere è ossigeno, il solo momento di affettività monitorata, la cerimonia per la quale il detenuto si prepara come farebbe lo sposo atteso in chiesa. Qui, ogni mercoledì mattina di buonora.

Al detenuto è solo dato parlare di malanni, socializzarli amplificandone il contenuto e l’influenza; socializzare futuro, speranza, fare critica costruttiva è ritenuta attività sospetta. Qui è tutto così pigiato, perfino i pensieri e gli umori sono difficili da districare. Si passa dall’euforia all’abbattimento da un minuto all’altro e così diventa difficile gestire il rapporto con l’altro. Traggo da un trattato di antropologia: “Dove le società sono fortemente concentrate, sono in uno stato cronico d’effervescenza e di super attività. Perché gli individui sono più strettamente ravvicinati gli uni agli altri, le azioni e le reazioni sociali sono più numerose, più continue; le idee si scambiano, i sentimenti si rinforzano e si riaccendono mutualmente, il gruppo, sempre in azione, sempre presenti agli occhi di tutti, rafforza li sentimento di sé stesso e ha anche un maggiore spazio nello coscienza degli individui.”

Dopo avere letto queste righe, mi sono rannicchiato sulla branda in posizione fetale, resistendo alla voce della coscienza che, da anni contenuta tra quattro mura, rischia di esplodere in un urlo che mi lacera la gola.
E ora mi chiedo perché sto qui a raccontare queste cose tristi, quando potrei citare episodi meno (illeggibile), talvolta anche spassosi. Ma non mi viene, mi sembra di tradire un ordine di idee. Mi sembra di tradire Andrea che, l’hanno detto alla TV, si è impiccato ieri.

 

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Tre bengala

Racconto di Nico Maccentelli

I bagliori coloravano il cielo nero di striature celesti. Ma non erano stelle cadenti e neppure fuochi d’artificio. Erano i bengala della contraerea che cercava di individuare quanti più droni possibile. Gaetano abbassò gli occhi e battè i piedi nell’inutile speranza che il movimento producesse un po’ di calore. Il freddo metallo della canna del suo fucile M4 sul mento gli faceva ricordare l’insolita posizione a cui era costretto per cercare di essere invisibile a quegli occhi che roteavano, piccole telecamere che come marionette impazzite erano alla ricerca di corpi, mentre i loro sensori seguivano anche le più piccole tracce di calore.

Cinque anni di guerra. E da quando lui aveva messo gli scarponi sulla steppa di Zaporizhia erano passati due anni. Anni d’inferno. Si ricordava ancora la partenza da Trieste, la tradotta che passando sotto l’Ungheria portava dritto in Ucraina.Trieste… era ancora piena di vita con i suoi caffè, così l’aveva lasciata prima che tre missili Oreshnik la radessero al suolo, in risposta alla distruzione di Rostov. Era partito proprio quando le atomiche tattiche avevano iniziato a usarle verso quelle città europee che facevano da snodi logistici per il fronte. Una risposta a chi aveva iniziato a usarle per primo dopo lo sfondamento a Odessa e la rotta dell’esercito NATO nella zona sud con il ricongiungimento russo con la Transnistria.

Gaetano non riusciva neppure a pensare a un suo possibile ritorno e del resto non poteva immaginare cosa fosse successo in Italia. La posta non arrivava e poi erano due settimane che stava in quella buca fetida, da solo, senza sapere dove fosse il resto del battaglione dopo aver subito l’assalto di Spetsnaz, incursori russi aviotrasportati. I parà erano sbucati all’improvviso nelle retrovie, dove Gaetano con il suo reparto era acquartierato in attesa di tornare al fronte. Nessuno aveva avuto il tempo di organizzarsi per rispondere. Si resta soli facilmente, come si muore soli. Gli venne in mente una vecchia canzone di De Andrè: “… partimmo insieme per la stessa guerra…”.

Ora la questione era se usare i bengala che aveva nella giberna, che servivano per farsi individuare e recuperare, ma che avrebbero certamente segnalato la sua presenza anche al nemico. Tre bengala, tre tentativi. Era più che un rischio. Non sapeva nemmeno che fine avessero fatto gli altri, in una retrovia che era diventata un casino: non sai dove sono i tuoi e dove i russi. I primi giorni aveva pensato di starsene zitto e buono. Ma poi la fame ormai lo attanagliava. Che Natale di merda.

Lo faccio? Non lo faccio? E se esco? Quello che lo inquietava era il silenzio. Niente spari, niente rumori di cingolati. Solo l’abbaiare di un cane in lontananza. E una guerra non sua, dopo la rivolta scatenata contro i banderisti da un esercito tornato nelle città che aveva travolto gli ufficiali rimasti fedeli a quella merda di Zelensky. Cinque anni fa fu la ragione dell’intervento di quelli che erano stati definiti “i volonterosi”. L’estensione del conflitto fu rapido e la propaganda che diceva che i russi sarebbero arrivati a Varsavia e poi a Berlino, aveva spinto le opinioni pubbliche occidentali ad accettare quell’escalation. Difendere la patria europea dal perfido slavo, dall’asiatico feroce… Anche lui ci aveva creduto, ma nella versione “russi imperialisti”. E poi nel suo centro sociale municipalista se ne parlava da tempo, si sostenevano gli anarchici resistenti, tollerati a mala pena dai battaglioni con le effigi del sole nero e dei denti di lupo. Ogni tanto qualcuno spariva, ma era un dettaglio. Viva Machno! Viva stafava…

Tuttavia non aveva voluto arruolarsi. Prima partirono i volontari. E tra questi c’erano anche dei compagni. Poi nel giro di pochi mesi il mattatoio esigeva la leva obbligatoria. Fu in quel momento che pensò che la tradizione libertaria andava in altra direzione: la disobbedienza, quella vera, le cartoline strappate ai tempi del Vietnam nel movimento pacifista statunitense. Cercò di sottrarsi e per qualche mese ci riuscì grazie alla casa nella bassa lombarda di Eleonora, la sua compagna.
Ma il periodo più terribile fu la coscrizione. In quel momento capì cosa provassero i ragazzi ucraini e poi quelli meno giovani, pestati di brutto e caricati sui pulmini degli arruolatori cinque anni prima. Capiva le diserzioni di anni fa, gli scappati e la guerra civile.
Fu mentre camminava per strada pensieroso che non s’avvide della macchina dei carabinieri. Lo caricarono di forza e si ritrovò in quella caserma a Trieste dove non ebbe neppure il tempo di sentire qualcuno. Via sul treno. Una bellissima città, quella della sua adolescenza, era diventata una prigione e un imbuto verso chissà dove. Al fronte poteva solo sopravvivere eseguendo gli ordini impartiti. E ora era lì, con dei crampi allo stomaco che lo facevano uscire fuori di testa.

Ma non poteva dimenticare che i primi mesi era stato messo nelle retrovie, nel fuoco di fila di un plotone di esecuzione di ribelli e renitenti alla leva. Gli era stato detto che questi ucraini si erano venduti ai russi e che ora i tribunali di Stato avevano comminato loro la massima punizione. Non sapeva più a quante esecuzioni aveva avesse partecipato. Capì col tempo che questi dannati erano gli ultimi rivoltosi sfuggiti alle repressioni di massa dei corpi speciali della NATO, intervenuti per reprimere i battaglioni ribelli dell’esercito ucraino fuggito dalla prima linea. Ma fu quando iniziò a vedere i condannati bendati morire col pugno alzato che capì che molte cose non andavano per il verso giusto e che le truppe NATO erano di fatto percepite come un esercito occupante in una guerra che non era più degli ucraini se in realtà mai lo fosse stata. Poi fu la volta dei primi stranieri: francesi, tedeschi e anche italiani. Una volta gli parve di riconoscere tra condannati al muro un compagno del Centro Sociale Autogestito Magazzino 47 di Brescia. Ma preferì non accertarsene guardando meglio: voleva rifiutare quella realtà che viveva come distopica. Nel grande mattatoio a essere scannati erano i più coscienti, mandati in prima linea perché dovevano andarsene per primi.

Ragionò sul fatto che l’incursione dei soli Spetsnaz non poteva essere sufficiente a creare una testa di ponte. E forse i suoi erano più vicini di quanto potesse pensare. Doveva provarci. Tirò fuori dalla giberna il primo bengala. Lo posizionò e lo fece partire. Il bengala disegnò un arco di luce nel cielo che consentì a Gaetano di guardare oltre i soliti venti metri. Il paesaggio si illuminò rivelando solo una distesa piatta fino a un filare di alberi a qualche centinaio di metri. Quella distesa gli fece venire in mente la pianura del lodigiano e la radura dove partecipò impasticcato a un rave da paura. L’immagine insieme alla musica ossessiva gli balzò davanti. Tanti corpi, non distesi dei soldati morti, ma di ragazzi che ballavano con movenze a scatti. Fu in quel rave che conobbe Eleonora. Il vento gelido della steppa lo riportò alla realtà. Ci sarà qualcuno dei suoi che avrà visto questo segnale?

Tirò fuori dalla giberna il secondo bengala. Lo direzionò verso sud e lo sparò. La luce fece apparire dei caseggiati. Erano edifici sinistri, di qualcuno era rimasto solo lo scheletro dei muri. Ma il suo sguardo si perse nei pensieri e fece subito un paragone con i palazzi mitteleuropei di una Trieste che lo aveva visto gironzolare con suo padre alla ricerca di un locale per mangiare. Apparvero camerieri vestiti in bianco con i vassoi pieni di pietanze. E vide anche l’orchestra che li aveva allietati durante la cena che mai avrebbe dimenticato. Erano gli ultimi tempi in cui usciva con suo padre, accompagnandolo nel lavoro di rappresentante di tessuti. Poi avrebbe mollato la famiglia per seguire le tracce della ganja e compagnie di scoppiati.

Il terzo e ultimo bengala lo tirò verso est. Una nube si illuminò per un istante disegnando un viso aggraziato. Eleonora. Era come se gli fosse apparsa davanti, con i suoi capelli biondi, eterea. Gli tendeva un braccio come per prenderlo. Eleonora. Non voleva che se ne andasse anche se era un sogno, lo sapeva, un disegno irreale della sua fantasia. Istintivamente allungò un braccio anche lui verso di lei. Rimasero sospesi così per qualche istante. Poi un bagliore lo invase insieme a un calore liquido e un fragore assordante nelle orecchie. Poi più nulla.

(Omaggio a Hans Christian Andersen)

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Il Grinch – Revelations https://www.carmillaonline.com/2025/12/24/il-grinch-revelations/ Tue, 23 Dec 2025 23:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=92070 di Alessandro Villari

Cari bambini, chi si rammenta come finiva la storia del Grinch? Il mostro verde buono diventa e resta a Natale con i Nonsochì. Voi pensavate: “È tutto risolto! Trionfa lo spirito del Natale!” Ora saprete un nuovo risvolto: forse vi farà restare un po’ male.

Dopo il tacchino e la tombolata, il Grinch tornò lassù nella sua grotta dove si fece una grassa risata, di quasi mezz’ora ininterrotta. “Quei Nonsochì, ma quanto son sciocchi! Non han capito che i loro regali non sono altro che scarsi tarocchi: ho preso io quelli originali! Si romperanno in due settimane, intanto gli [...]]]> di Alessandro Villari

Cari bambini, chi si rammenta come finiva la storia del Grinch?
Il mostro verde buono diventa e resta a Natale con i Nonsochì.
Voi pensavate: “È tutto risolto! Trionfa lo spirito del Natale!”
Ora saprete un nuovo risvolto: forse vi farà restare un po’ male.

Dopo il tacchino e la tombolata, il Grinch tornò lassù nella sua grotta
dove si fece una grassa risata, di quasi mezz’ora ininterrotta.
“Quei Nonsochì, ma quanto son sciocchi! Non han capito che i loro regali
non sono altro che scarsi tarocchi: ho preso io quelli originali!
Si romperanno in due settimane, intanto gli altri li vendo sul web:
mentre agli allocchi più nulla rimane, tutti i profitti li tengo per me!”
Era l’inizio di un triplice piano che più malvagio proprio non si può:
uno: arricchire lo stesso villano; due: rovinare tutta Chinonsò;
tre: finalmente abolire il Natale. Vi chiederete: “Ma come si fa a
desiderare un simile male?” Ma non è certo una gran novità.

Non ebbe fretta: negli anni seguenti degli abitanti si finse un amico,
mentre con mille segreti espedienti lui diventava sempre più ricco,
tanto che un giorno lasciò le sue grotte per trasferirsi in un… grottacielo
tirato su in poco più di una notte – come abbia fatto rimane un mistero.
Perfino il sindaco e ogni altro notabile che avesse soldi da fare fruttare,
vedendo quanto il Grinch fosse abile, andava a chiedere a lui come fare.
A tutti il Grinch dispensava consigli e offriva gratis la sua consulenza
che prometteva grandi meraviglie grazie a strumenti per ogni esigenza.
Presto ogni fabbrica della regione venne quotata alla Chi-non-rim-Borsa,
furon creati dei fondi pensione per investire con ogni risorsa:
pacchi di titoli con il fiocchetto, futures sui doni dell’anno venturo,
certificati su scatole vuote, chiuse con bond a interesse sicuro;
e infine lo schema para-pa-ponzi, che garantiva denaro a palate,
salvo fregare quei poveri gonzi che rivolevano indietro le rate.
Suggerì il Grinch poi ai suoi clienti un altro modo per fare profitti:
accaparrarsi gli appartamenti e triplicare di colpo gli affitti.

Del cattivone – l’avrete compreso – questa era precisamente la trama:
rendere i ricchi più ricchi di Creso e a tutti gli altri la vita più grama.
Come si generano dividendi senza investire sulla produzione?
Con riduzioni, licenziamenti, o se va bene cassa integrazione.
Il caro-affitti era un altro flagello per molte delle persone comuni:
un bilocale valeva un castello, tanti emigrarono in altri Comuni.
Per chi restava, ogni anno i Natali eran più miseri del precedente:
ben poco in tavola, niente regali, neanche un addobbo che fosse decente;
le luminarie? quattro candele; la carta igienica come festone;
ben mezza fetta di torta di mele (divisa in otto) per il cenone.
Invece il Grinch – ironia della sorte! – era invitato a passar la Vigilia
a casa del sindaco, con la consorte e Cindy-chi-lù, la loro figlia,
tornata apposta per la vacanza dalla costosa università
dove studiava Alta finanza, la più brillante della facoltà:
c’erano tutti i più facoltosi, si pasteggiava a champagne e caviale,
ci si scambiavano doni preziosi, grazie alle cedole sul capitale.
Il Grinch aveva conati di vomito ma non poteva sottrarsi all’invito
per consolarsi alzava un po’ il gomito e gongolava al suo piano riuscito.

La terza fase iniziò di lì a poco, quando la bolla speculativa
scoppiò di colpo e concluse il gioco, mandando l’economia alla deriva.
Fabbriche chiuse, tagli ai sussidi, cresceva ovunque il malcontento;
quando ci furono i primi suicidi tutti pretesero un cambiamento.
C’erano scioperi e picchetti, quasi ogni giorno manifestazioni,
fino a che, pur di placare i reietti, furono indette nuove elezioni.
Fu una sorpresa per i Nonsochì (ma di sicuro per voi invece no)
quando scoprirono che pure il Grinch correva a sindaco di Chinonsò.
Con tutti i soldi che s’era intascato la sua campagna era assai convincente:
ai suoi comizi si offriva il gelato a ogni persona che fosse presente;
prima accusava il sindaco uscente d’aver badato solo al suo interesse
e aver lasciato che la sua gente nella più cupa miseria vivesse;
poi rilanciava: “Se sarò eletto del malaffare farò pulizia,
e in poco tempo, ve lo prometto, avrete una casa come la mia;
farò riaprire industrie ed aziende, così per tutti ci sarà lavoro:
fate levare alla giunta le tende! Sarò senz’altro migliore di loro!”
Queste promesse mirabolanti erano pura mistificazione,
eppure fecero presa su tanti, tanto era cupa la disperazione.
Non era un caso che i primi sondaggi dessero indietro il sindaco uscente,
che denunciava del Grinch i miraggi, ma di suo non convinceva per niente.
“Da questa crisi congiunturale, sono sicuro, usciremo felici;
ma in questa fase particolare sono richiesti dei sacrifici.
Interverremo sul cuneo fiscale, innalzeremo le spese esenti,
in cambio il ticket per l’ospedale lo pagheranno anche i nullatenenti.
Abbasseremo le tasse all’impresa per attirare gli investitori
e stimolare una grande ripresa che porterà tanti nuovi lavori.
Chi fino a ieri rubava i regali il vostro voto non meriterà:
io non prometto né monti né mari, ma vi prometto la stabilità.”
Era serrata la competizione tra i “Responsabili” ed i “Malcontenti”,
ma a pochi giorni dall’elezione i primi erano dati perdenti;
però era alta anche la percentuale di chi si dichiarava ancora incerto
prima della vigilia di Natale, quando i seggi avrebbero aperto.

Fu proprio allora che a Cindy-chi-lù, che nel frattempo s’era laureata,
vedendo il padre ansioso e un po’ giù, vanne davvero una strana pensata:
andare di persona su dal Grinch, che lei credeva esserle leale,
cercando in qualche modo di convincerlo a lasciar la corsa elettorale.
Ma quando giunse alla sua residenza, l’enorme casa pareva deserta;
bussò un paio di volte con prudenza, finché scoprì che la porta era aperta!
Così pensò che fosse meglio entrare ed aspettare il Grinch al suo ritorno,
e non sapendo intanto cosa fare, si mise a curiosare nel soggiorno.
Pur non avendo alcuna intenzione di far del male o ficcanasare,
vide sul tavolo un grosso faldone e senza pensarci lo prese a sfogliare;
presto capì che lo strano registro era un elenco di tutti gli imbrogli
con cui per anni il figuro sinistro aveva reso i Nonsochì più spogli.
Tanto era presa da questa lettura, e ad ogni pagina più inorridita,
che quando udì aprirsi la serratura perse di colpo dieci anni di vita.
D’istinto si mise in borsa l’agenda che incriminava il perfido Grinch
e si nascose dietro a una tenda, pronta a scappare al più presto da lì.
In quella il villanzone entrò in soggiorno, ma non avendo il minimo sospetto
ne uscì senza neppur guardarsi intorno, fischiando anzi un allegro motivetto.
Cindy-chi-lù dopo qualche momento uscì dal nascondiglio di soppiatto,
fuggì portando con sé il documento: voleva render pubblico il misfatto.

In mezzo alla piazza di Chinonsò avevano allestito una tribuna,
e quando la ragazza vi arrivò, in cielo si scorgeva già la luna.
La giovane salì sulla pedana ed iniziò a parlare a tutta voce:
“Amici! Vi parrà una cosa strana, ma ho appena scoperto un fatto atroce:
per tutto il tempo il Grinch ci ha ingannato, è falsa ogni promessa elettorale,
il suo disegno non è mai cambiato: vuole per sempre abolire il Natale!”
Il posto si riempì rapidamente, e in breve ad ascoltare la ragazza
si radunò una gran folla di gente che a stento stava tutta quanta in piazza.
“Vuoi solo sminuire il tuo avversario!”, “Le prove!”, urlò qualcuno dalla ressa.
“È tutto scritto in questo diario, che poco fa ho trovato io stessa.”
Però la maggior parte degli astanti prestava orecchio con grande attenzione:
del resto perlopiù erano benestanti che in centro avevano l’abitazione.
“Ci sono tutte le operazioni, tutte le truffe, qui, nero su bianco;
tutte le sordide speculazioni, ogni raggiro, ciascun ammanco;
è lui la causa delle chiusure, i licenziamenti e le bancarotte,
e porterà nuove grandi sventure se noi non lo fermeremo stanotte!
Quindi vi prego, miei amici cari, col nostro voto cambiamo il finale:
poniamo fine ai suoi loschi affari, e soprattutto salviamo il Natale!”
Cindy finì il suo discorso accorato, certa che fosse stato convincente:
a parte qualche fischio isolato, scoppiò un applauso lungo e travolgente;
scese dal palco fra strette di mani, abbracci e grandi congratulazioni,
dandosi appuntamento all’indomani, per festeggiare dopo le elezioni.

Ma per chi vive da privilegiato è molto facile avere una svista:
ossia dare un po’ troppo per scontato che tutti abbiano il suo punto di vista.
Perciò vi fu chi rimase di sasso che, di quei pochi che andarono al seggio,
tanti di quelli del ceto più basso anziché il male votarono il peggio.
Mentre il Grinch al suo quartier generale brindava alla clamorosa vittoria,
poco si capacitava il rivale di come fosse finita la storia.
“Ma è mai possibile che non gli importi” (si riferiva a chi aveva votato)
“che quel malvagio abbia in pugno le sorti sia del Natale che del nostro Stato?”
Ciò che non aveva ancora capito è che chi ormai era privo di tutto
sapeva bene che il Grinch è un bandito, ma riteneva anche lui un farabutto:
la maggior parte era così arrabbiata da non andare nemmeno a votare,
l’altra che invece a votare era andata, preferì in massa il Grinch pur di cambiare.

Quello che accadde nel periodo appresso ve lo racconto di seguito in breve:
se questa storia vi ha un poco depresso, forse il finale sarà un po’ più lieve.
Un anno esatto dopo la vittoria, di nuovo la Vigilia di Natale,
il Grinch ha perso tutta la sua boria, e invero se la passa molto male.
Naturalmente non ha mantenuto neppure una delle sue promesse,
perciò coloro che avevan creduto che almeno in parte lui le mantenesse
hanno iniziato una grande protesta che si è ingrandita di giorno in giorno.
Inizialmente la loro richiesta era che il Grinch si levasse di torno,
e così perfino Cindy-chi-lù, ormai vicina al suo dottorato,
insieme al padre (sindaco-che-fu) ad un corteo aveva partecipato:
come li videro, i manifestanti li ricoprirono d’insulti in coro,
così decisero in pochi istanti che quel corteo non faceva per loro.
Il movimento era ad un nuovo picco e aveva tra le rivendicazioni
quella di alzare le tasse a ogni ricco, non solo al Grinch ma a tutti i padroni.
Accadde allora un fatto assai strano: molti notabili che un anno prima
davano al Grinch del supremo villano, gli diedero ora attestati di stima.
C’era anche chi giurava – nientemeno! – di aver visto qualcuna di ’ste merde,
col loro portafoglio bello pieno, girare con un fazzoletto verde.
Ma, dicevamo, siamo alla Vigilia (benché la festa sia stata abolita),
sotto il Palazzo c’è un gran parapiglia: migliaia in piazza contro il parassita.
Quando alla fine sfondano le porte, lo sanno tutti come andrà a finire:
poiché è segnata oramai la sua sorte, al Grinch non resta altro che fuggire!
La sua salvezza viene da lassù: lo aspetta un elicottero sul tetto,
a pilotarlo è… Cindy-chi-lù! – che ha preso nel frattempo anche il brevetto.
Intanto i cittadini sono dentro, a una a una invadono le sale,
infine in cima al tetto, proprio al centro, appendono una stella di Natale
enorme, rossa e così luccicante che da ogni angolo di Chinonsò
la può ammirare ciascun abitante, e almeno oggi sorridere un po’.

E la morale, miei cari bambini, è che i ricconi sono tutti uguali:
pensano solo ai loro soldini, a costo di rubare a voi i regali.
Troppi saranno infelici a Natale, né ci sarà mai una vera armonia,
finché in mano al gran capitale sono le leve dell’economia.
Perciò se un giorno mai vi capitasse di fare i conti con un Grinch reale,
non vi scordate: è la lotta di classe l’unica via per salvare il Natale!

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Quel malefico Oriente https://www.carmillaonline.com/2025/12/22/quel-malefico-oriente/ Mon, 22 Dec 2025 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=92021 di Paolo Lago

Per l’immaginario occidentale, l’Oriente ha costantemente rappresentato un’entità malefica e pericolosa, associata al vizio e alla corruzione. È da oriente che sono sempre arrivati i nemici. Per gli antichi greci lo erano i persiani, o comunque i popoli orientali in genere, corrotti ed effeminati. Nelle “Baccanti” di Euripide (fine del V secolo a.C.), il dio Dioniso, tornando a Tebe, per non farsi riconoscere si traveste da misterioso viaggiatore giunto da oriente, accompagnato da un corteo di seguaci vestite di abiti dai colori sgargianti, le Baccanti, e viene prontamente fatto incarcerare dal re Penteo. Per i romani, invece, nemici erano i [...]]]> di Paolo Lago

Per l’immaginario occidentale, l’Oriente ha costantemente rappresentato un’entità malefica e pericolosa, associata al vizio e alla corruzione. È da oriente che sono sempre arrivati i nemici. Per gli antichi greci lo erano i persiani, o comunque i popoli orientali in genere, corrotti ed effeminati. Nelle “Baccanti” di Euripide (fine del V secolo a.C.), il dio Dioniso, tornando a Tebe, per non farsi riconoscere si traveste da misterioso viaggiatore giunto da oriente, accompagnato da un corteo di seguaci vestite di abiti dai colori sgargianti, le Baccanti, e viene prontamente fatto incarcerare dal re Penteo. Per i romani, invece, nemici erano i persiani e gli stessi greci, considerati corruttori della romanità tradizionale. Il conservatore Catone il Censore si oppose al processo di ellenizzazione di Roma facendo espellere diversi filosofi greci. A partire dal 168 a.C., infatti, quando con la battaglia di Pidna Roma sconfisse il Regno di Macedonia annettendo anche la Grecia, cominciarono ad arrivare a Roma molti schiavi greci colti che finivano a fare i precettori dei figli dei nobili romani. Dalla Grecia arrivava inoltre una cultura filosofica e poetica che poteva corrompere gli austeri costumi romani, basati sulla rigidità della disciplina militare. Nel II secolo a.C., al genere della “togata”, la commedia di ambientazione romana, si opponeva la “palliata”, la commedia di argomento greco (da “pallium”, il mantello dei greci), carnevalescamente intrisa di elementi comici e, per certi aspetti, anche sovversivi, portati sulle scene romane dall’estro geniale di Plauto che sapeva creare, ogniqualvolta si rappresentava una sua commedia, una sorta di rovesciamento carnevalesco in cui gli schiavi potevano farsi beffe dei padroni1. L’Oriente corruttore subirà poi una decisiva sconfitta nel 31 a.C. nella battaglia di Farsàlo, in cui Ottaviano (che diventerà Augusto, riformatore della moralità tradizionale) sconfigge Antonio, romano ormai corrotto dai costumi orientaleggianti, e la ‘viziosa’ regina egizia Cleopatra.

E se l’impero romano d’Occidente cadrà travolto dalle popolazioni barbariche giunte ancora una volta dai lembi orientali dell’Europa, la cultura greca prenderà definitivamente il sopravvento trasformando i romani in bizantini, la cui lingua ufficiale non era più il latino ma il greco. L’Oriente rappresenta una minaccia anche per l’Occidente cristiano: adesso sono i “mori”, i musulmani il nemico per eccellenza. I cantari epici medievali raccontano le epiche imprese di Orlando e degli altri cavalieri di Carlo Magno contro gli eserciti saraceni, nuova incarnazione del Male assoluto, il quale compariva sulle coste italiche ed europee anche sotto le vesti di feroci pirati. Verso quel magico e corruttore Oriente, rivestito di mondi fantastici ed utopistici, abitato da favolosi animali da bestiario, nel Medioevo, non muovevano solo i crociati, con le armi, per liberare la Terra Santa preda degli “infedeli” ma anche numerosi mercanti guidati dalle necessità più razionali del commercio. Marco Polo, nel Milione, descriverà questo mondo riconducendolo alla realtà mostrando che tutti quegli animali ‘strani’ che popolano l’Oriente tanto fantastici non sono ma è soltanto l’immaginario europeo ad averli resi tali. Non è un caso, poi, che sia una bellissima principessa musulmana, Angelica, a far innamorare e a fare impazzire molti cavalieri cristiani, fra cui Orlando, nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.

Questa carrellata rapida e disordinata ci aiuta a capire come l’Oriente abbia rappresentato una vera e propria ossessione per l’immaginario occidentale, un’ossessione che si è spesso incarnata in nemici reali (come i persiani e i musulmani) e in eventi calamitosi altrettanto reali, come le pestilenze. È da oriente che arriva la “peste nera” del 1348 che avvolge l’Europa, quella raccontata da Boccaccio nel Decameron e da Ingmar Bergman ne Il settimo sigillo (1957), che si diffonde anche nella Svezia medievale in cui il cavaliere Antonius Block, non a caso di ritorno dalle crociate, si ritrova a giocare una partita a scacchi con la Morte. Anni dopo, nel Settecento e nell’Ottocento, dai più remoti lembi dell’Europa orientale arriva una nuova e immaginifica – ma non meno terribile – pestilenza: il vampirismo. Nell’Occidente illuminista, da oriente arriva ancora una volta la magia e la superstizione sotto le vesti di una vera e propria epidemia vampirica2. In Francia, in Italia, in Inghilterra e nell’impero asburgico, cominciano ad arrivare notizie, grazie anche alla diffusione dei giornali, di morti che risorgono dai sepolcri per turbare i vivi. La paura dei vampiri percorre la razionale Europa a tal punto che l’imperatrice Maria Teresa sarà costretta a inviare dei messi imperiali nelle regioni dell’est, nel Banato (le odierne Serbia, Ungheria e Romania) e nei Balcani, per appurare che si tratta soltanto di superstizioni3. Se nel corso dell’Ottocento la paura dell’epidemia vampirica diminuirà fino a scomparire, è proprio sul finire di questo secolo che risorgerà nell’immaginario della letteratura, fino a sopravvivere nel corso del Novecento fino ai giorni nostri, tramite il teatro ma, soprattutto, il cinema: Dracula di Bram Stoker esce nel 1897 e produrrà una miriade di riletture cinematografiche più o meno fedeli fino a contagiare la contemporaneità4. La figura del nobile vampiro sembra l’incarnazione più orrorifica di ciò che Edward Said definisce come “orientalismo” nel suo saggio dal titolo Orientalism uscito nel 1978. Certo, lo studioso statunitense di origine palestinese si riferisce all’Oriente in senso stretto, cioè alle popolazioni arabo-islamiche, non all’Europa orientale. Per Said l’immagine europea dell’oriente è una costruzione fittizia creata dall’immaginario occidentale ed è sempre associata ad un’idea di corruzione e di irrazionalità, di violenza e di inferiorità morale e intellettuale rispetto agli europei5. Ad esempio, l’oriente che incontriamo in molta letteratura ottocentesca appare sempre associato ad un’idea di irrazionalità, di corruzione e di sregolatezza. Flaubert e Baudelaire rappresentano il vizio e le tentazioni sotto le vesti di donne ambigue e bellissime, abitatrici di harem orientali come la “grande odalisca” dipinta da Ingres o l’Olympia di Manet. Alexandre Dumas, nel Conte di Montecristo, rappresenta il terribile vendicatore Edmond Dantès sotto le vesti di un ricchissimo nobile raffinato che ha viaggiato e vissuto lungamente in Oriente, accompagnato da una bellissima amante orientale, la principessa Haidée, figlia di un Pascià, e da un fedelissimo servitore di nome Alì. Secondo Said, è lo sguardo colonialista degli europei a ‘creare’ questo Oriente: esso stesso ambiguo, multiforme, sfuggente, corrotto, vizioso, crudele e irrazionale.

Quindi, il nobile vampiro si affaccia al Novecento con la sua veste ‘orientalistica’, creato da un Occidente che riveste di ambiguità, di corruzione e di violenza non solo l’Oriente arabo e musulmano ma anche quegli stessi lembi orientali dell’Europa. Viene dalla Transilvania, da quei territori abitati dagli zingari, figure ugualmente associate al vizio e alla corruzione. Inutile ricordare che anche la figura degli “zingari” compare nell’immaginario letterario ottocentesco (basti ricordare Zingari in viaggio di Baudelaire, in cui essi sono definiti come “tribù profetica dalle pupille ardenti”) fino ad assumere nella contemporaneità le connotazioni di una diversità nemica e pericolosa (gli “zingari” che abitano le periferie delle città europee, che rubano e delinquono). Non è un caso, poi, che un’altra figura dell’immaginario horror, spesso associato a Dracula, l’uomo lupo, sia assai vicina alla figura dello “zingaro”: nel film L’uomo lupo (1941) di George Waggner, l’epidemia che trasforma il protagonista in licantropo giunge dallo zingaro Bela (Bela Lugosi, celebre interprete proprio del Dracula cinematografico di Tod Browning del 1931), a sua volta un licantropo che lo morde sotto le vesti di lupo.

Ma Dracula è un’immagine ‘orientalistica’ che rappresenta quasi la vendetta dell’oriente sull’occidente. Non è il colonizzato corrotto che si lascia sottomettere dalla potenza europea, dall’imperialismo terrestre e marittimo vittoriano, come James Wait in Il negro del “Narciso” (1897, lo stesso anno dell’uscita di Dracula) di Joseph Conrad, un marinaio di colore segnato dalla diversità e dalla malattia che si imbarca su una nave inglese, o come i “coolies” cinesi, sottopagati e sfruttati, imbarcati sulla nave di Tifone (1902) dello stesso Conrad. Se i ‘diversi’ conradiani rappresentano l’alterità orientale sottoposta al dominio europeo, inglese in particolare, Dracula è il loro alter ego proveniente dalle lande orientali dell’Europa. Se essi giungono a Londra come schiavizzati ed inferiori, Dracula giunge nella metropoli inglese come un oscuro dominatore. Quella corruzione e quella irrazionalità orientale, repressa e dominata, si rovescia in potenza distruttiva sorta da infernali abissi ugualmente irrazionali e magici. È un sovvertitore e seduttore, pervaso dell’ambigua fascinazione di un eros malato che si contrappone alla razionalità – e mediocrità – borghese di Jonathan Harker. C’è un film, allora, che sottolinea in modo significativo il fascino perverso e vendicativo del vampiro: è Nosferatu – il Principe della notte (1979) di Werner Herzog. Qui, in linea col celebre film di Murnau del 1922, Dracula si chiama Nosferatu ed è rappresentato non come un affascinante seduttore ma come un folle solitario ed emarginato affamato d’amore. Non giunge a Londra ma a Wismar, una cittadina mercantile del Baltico, e porta con sé la peste, un contagio dionisiaco che arriva ancora una volta da Oriente. Come un nuovo folle Dioniso, Nosferatu attacca la società occidentale basata sulla ripetitività e sul lavoro. Il vampiro è un ozioso che dorme di giorno e sta sveglio di notte, contrariamente a qualsiasi razionale e razionalistica ideologia del lavoro e del capitale. È il nomade giunto da insondabili “spazi lisci”6 orientali pronto a colpire al cuore il nucleo pulsante del capitalismo occidentale. In una originale rilettura degli horror movie sui vampiri, 30 giorni di buio (2007) di David Slade, film tratto dall’omonima serie a fumetti di Steve Niles e Ben Templesmith, i vampiri che portano morte e distruzione in una cittadina dell’Alaska proprio nel momento in cui stanno per iniziare i trenta giorni di buio parlano fra di loro in una lingua fittizia che può ricordare la parlata slava o russa: probabilmente, anch’essi vengono da est e compiono un assalto ad un estremo lembo del capitalismo americano.

Infatti, in tempi assai recenti, il male per l’Occidente arriva ancora una volta da est e precisamente dall’Unione Sovietica. Per l’America e per il blocco occidentale, i nemici per eccellenza sono i sovietici ‘comunisti’ e il comunismo è lo spettro che ha aleggiato per tutta l’Europa dell’ovest dal 1945 fino al 1989. Se i principali nemici degli Stati Uniti, nella seconda guerra mondiale, sono stati gli ‘orientali’ giapponesi, poi piegati con la forza per mezzo di terribili devastazioni, la Russia sovietica è stata considerata a lungo l’incarnazione del male assoluto. E non è un caso che, ancora oggi, l’odierna Russia rappresenti il più pericoloso nemico per l’Europa e per la cosiddetta ‘unione europea’ tanto che, recentemente, in diverse occasioni la cultura russa è stata oggetto di ostracismo anche nel nostro paese. Come afferma il protagonista di Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, l’intellettuale e poeta russo Gorçakov, parlando con la sua traduttrice italiana durante un viaggio in Italia, “voi non capite niente della Russia”. E, davvero – si potrebbe chiosare – sembra che l’Occidente continui a non capire niente della cultura russa. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno incontrato poi non solo nella Russia un nemico terribile che giunge da est; anche svariati territori posti ancora più a oriente hanno rappresentato costantemente campi di forza ostili come il Vietnam, la Corea del Nord, la Cina, l’Iraq, l’Iran o tutte le popolazioni da cui provengono i “terroristi islamici”  fra i quali, in quanto a connotazioni malefiche, ha indubbiamente brillato la figura di Bin Laden.

Da Oriente, e precisamente dalla Cina, è giunta anche la nuova pestilenza del Covid 19. È interessante a questo proposito ricordare come, alla fine del 2019 e nei primi mesi del 2020, prima che l’epidemia si diffondesse capillarmente in Italia e in Europa, l’immaginario occidentale considerasse questa malattia esclusivamente un problema dei cinesi o, comunque, delle popolazioni orientali, come se l’Europa potesse essere immune. Ricordiamo tutti, nel gennaio e nel febbraio del 2020, i ristoranti cinesi praticamente vuoti, come se rappresentassero un pericoloso avamposto di contagio per l’Italia e l’occidente. In questo caso, probabilmente, ha funzionato ancora una volta il pensiero orientalista delineato da Said: una malattia come il Covid 19, sorta presumibilmente da sconsiderati allevamenti intensivi e da cattive condizioni igieniche, può nascere e diffondersi solo in Cina e non nella razionale e avanzata Europa, solo fra quei ‘selvaggi’ orientali e non fra i ‘civili’ occidentali. Come se in Europa e in Italia non esistessero in alcun modo sconsiderati allevamenti intensivi o cattive condizioni igieniche. E allora, i ristoranti cinesi andavano isolati, emarginati, trasformati in luoghi contaminati e da demonizzare insieme probabilmente a gran parte della cultura orientale.

La visione orientalista dell’Occidente, ai nostri giorni, si distende anche sulla Palestina e sui palestinesi: i massacri di cui essi sono vittime sono diventati un vero e proprio tabù per la società occidentale. È un tabù scendere in piazza per Gaza ed è un tabù anche soltanto parlarne schierandosi dalla loro parte. L’ordine del discorso – per utilizzare un termine di Michel Foucault – in occidente si è improntato a una radicale condanna di questo popolo, tacciato indifferentemente come ‘terrorista’ e irrazionale, sempre dalla parte del torto, mentre il governo israeliano filo-occidentale compare sempre dalla parte della ragione. Infatti, come scrive Said, “da un lato ci sono gli occidentali, dall’altro gli arabi-orientali; i primi sono, nell’ordine che preferite, razionali, propensi alla pace, democratici, logici, realistici, fiduciosi; i secondi sono esattamente l’opposto”7. Anche lo sguardo occidentale sui conflitti in corso a Gaza sembra essere preda, oltre che di una visione orientalistica, della stessa diffidenza che muoveva il pensiero dei greci nei confronti delle popolazioni orientali o quello di Catone il Censore nei confronti dei greci. Là, a oriente, continua inesorabilmente anche oggi ad esistere un’entità malefica, irrazionale e pericolosa che si incarna spesso e volentieri anche nei migranti che cercano una vita migliore nei ricchi paesi capitalisti. Il malefico Oriente sembra ormai essersi radicato nel pensiero e nella cultura dell’Occidente.


  1. Cfr. M. Bettini, Un’utopia per burla. Introduzione a Plauto, Mostellaria, Persa, Mondadori, Milano, 1991, p. 12. 

  2. Cfr. F.P. De Ceglia, Vampyr. Storia naturale della resurrezione, Einaudi, Torino, p. 328 e seguenti. 

  3. cfr. ibid. 

  4. Cfr. F. Pezzini, Il conte incubo. Tutto Dracula, vol. 1, Odoya, 2019, nei “box” relativi a “Dracula al teatro” e “Dracula al cinema”. 

  5. cfr. E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 35-36. 

  6. Per la definizione di “spazio liscio”, contrapposto allo “spazio striato” del controllo, cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, p. 451 e seguenti. 

  7. E. W. Said, Orientalismo, cit., pp.55-56. 

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Un sogno infantile? Un incubo per adulti ancora bambini e quindi non ancora del tutto definiti in termini sociali e di genere? Una fiaba senza [...]]]> di Sandro Moiso

Nicole Claveloux & Édith Zha, La mano verde e altri racconti, Eris, Torino 2025, pp. 106, 25 euro

E’ tempo di strenne per grandi e piccini, quindi non vi è altro momento più adatto di questo per presentare al pubblico un libro meraviglioso, per immagini e contenuti, quale La mano verde e altri racconti di Nicole Claveloux & Édith Zha, proposto dalle sempre più coraggiose e innovative edizioni Eris di Torino.

Un sogno infantile? Un incubo per adulti ancora bambini e quindi non ancora del tutto definiti in termini sociali e di genere? Una fiaba senza il classico C’era una volta…? Forse perché quella “volta” non c’è ancora mai stata? Difficile dirlo, così più si scorrono e si rileggono le pagine e le immagini del testo, più ci si ritrova coinvolti e confusi. Talvolta gioiosamente, talaltra in maniera disturbante.

Nicole Claveloux è una figura fondamentale e assolutamente atipica della scena dell’illustrazione internazionale, tra le poche donne degli anni Settanta riuscite ad emergere dando voce a un femminismo ironico, libero e anticonvenzionale. In concomitanza con l’uscita del libro è stata presentata a Bologna la sua prima, grande esposizione personale italiana in occasione della terza edizione di A occhi aperti, il festival internazionale di fumetto e illustrazione ideato e organizzato da Hamelin, svoltasi tra il 19 e il 23 novembre di quest’anno.

Mondi accanto, questo il titolo scelto per la personale, appositamente costruita per lo spazio della ex chiesa di San Mattia a Bologna, ha visto esposte per la prima volta in Italia oltre duecento opere di Nicole Claveloux fra originali a fumetti, copertine, illustrazioni, dipinti per l’infanzia e libri, ripercorrendo così l’intera cronologia del suo intenso lavoro.

Ancora troppo poco conosciuta nel nostro paese, riscoprire oggi Nicole Claveloux è mettere a fuoco il suo ruolo di precorritrice di molti nodi e istanze della nostra contemporaneità: la sua opera resta attualissima, un invito a immaginare mondi liberi da vincoli e dogmi, dove il fantastico diventa alternativa al presente e una visione transfemminista della società che pone al centro il desiderio femminile e permette a donne, bambine, carciofi, paguri e regine seicentesche di convivere in maniera fluida.

Nicole Claveloux è nata a Saint-Étienne il 23 giugno del 1940. Sua madre era insegnante di disegno all’Accademia di belle arti di Saint-Étienne – suo padre era morto dalle parti di Besançon qualche giorno prima della sua nascita. Un’epoca in cui il mondo era ancora pieno di disegni, poiché la stampa e la pubblicità ne facevano ancora un largo uso abbondante e la fotografia non aveva ancora relegato l’illustrazione al rango di obsoleto accessorio.

Nicole si imbeve da subito di quelle immagini e storie da cui è circondata. Gli allegri racconti di Gustave Doré, l’omino Michelin, mentre l’anatroccolo Oscar, minacciato dall’appetito di zia Zulma, la accompagnavano ogni settimana tra le pagine di Fillette, un settimanale per l’infanzia uscito dal 1909 al 1964. Tutte immagini che ricopiava per creare un proprio mondo in cui rifugiarsi.

Qualche anno dopo entrerà all’Accademia di Saint-Étienne su consiglio della madre, che già si immaginava che sua figlia prendesse il suo posto nell’istituto. Una via già tracciata. Ma la “bambina” aveva un temperamento selvaggio e non avrebbe mai fatto l’insegnante. Così Nicole si stabilì a Parigi nel 1966, dove voleva disegnare immagini fantastiche. Il periodo era favorevole; il panorama editoriale dinamico, si era appena scoperto che si potevano trasformare i bambini in lettori e una sorta di prosperità editoriale permetteva ad alcune riviste di mettere conoscenza e curiosità alla portata di tutti.

Nicole Calveloux si rivolse quindi a Planète1, che – insieme a Bizarre2– offriva ai lettori l’esplorazione di un vasto e variegato territorio che, distinguendosi sfacciatamente da quell’altro paese dai confini angusti chiamato naturalismo, fondeva il fantastico, il meraviglioso e l’umorismo nero.

Lì avrebbe piazzato i suoi primi disegni, lavorando anche per Marie Claire o per Plexus, uno dei satelliti di Planète. Persino la pubblicità, senza sapere che è un’esordiente, si rivolse a lei. Questi svariati lavori, nel 1967 l’avrebbero fatta notare da François Ruy-Vidal, che si era appena associato con l’editore americano Harlin Quist, mosso dal desiderio di rinnovare un settore editoriale, quello per l’infanzia, profondamente sclerotizzato nei propri polverosi precetti pedagogici, affrontando temi fino allora tabù, come la morte e la sessualità, facendo appello a scrittori quali Marguerite Duras o Eugène Ionesco e dando spazio a una nuova generazione di disegnatori come Patrick Couratin, Étienne Delessert e Henri Galeron.

La collaborazione inaugurò così una fertile carriera nell’editoria per l’infanzia, che avrebbe costituito la principale attività di Nicole Claveloux, in un periodo e in un ambiente in totale fermento, in cui avrebbe goduto di una libertà assoluta. Nel 1972, per il mensile Okapi, creò il personaggio di Grabote – termine che designa la pupilla di una famiglia. Per nove anni racconterà le storie di questa bambina deliziosamente vanitosa e irascibile, la cui principale attività consiste nel martirizzare un leone un po’ troppo ingenuo. È ovvio che nessuna rivista dedicata all’infanzia oggi pubblicherebbe queste storie; bisogna proteggere i bambini dalle disillusioni che li attendono. Come afferma Jean-Louis Gauthey, nell’Introduzione al testo edito da Eris:

Il duo sadomasochista messo in scena da Nicole Claveloux, invece, non elude per nulla la crudeltà dei giochi infantili. Da queste pagine soffia un non so che di inquietante che segna per sempre. Nelle acide ambientazioni di Grabote, la cui struttura modulare è più imprevedibile di quella di un sogno, è spesso presente una gravità che preannuncia i conflitti dell’età adulta, la paura di un amore non corrisposto e l’imboscata della vecchiaia3.

Probabilmente è in questo contesto che prenderanno definitivamente vita quelle immagini e quelle situazioni che animeranno poi sogni e incubi, sia infantili che dell’età adulta, che avrebbero caratterizzato l’opera della illustratrice francese e che, probabilmente, avrebbero attirato l’attenzione di Jean-Pierre Dionnet quando, nel 1976, propose a sua moglie, Janic Guillerez, di creare, per gli Humanoïdes Associés – la casa editrice che aveva fondato due anni prima con Moebius, Philippe Druillet e Bernard Farkas – una rivista di fumetti femminile e femminista:Ah! Nana, un trimestrale animato dalla “prima” generazioni di autrici di fumetto che, per nove numeri, miscelò un cocktail a confronto del quale Métal Hurlant, la nave ammiraglia degli Humanoïdes, sarebbe poi apparsa come una rivista conformista.

Nicole Claveloux, Florence Cestac, Keleck, Chantal Montellier, Trina Robbins, Olivia Clavel, Anne Delobel, Marjorie Alessandrini e molte altre, polverizzarono gioiosamente le incrostazioni della società patriarcale, lanciando con ogni copertina una sfida aperta ai puritani. Così, la commissione di censura – ipocritamente ribattezzata Commissione per la sorveglianza e il controllo delle pubblicazioni destinate all’infanzia e all’adolescenza – finì col recepire il messaggio e nel 1978 mise fine all’avventura, anticipando ciò che comunque sarebbe accaduto a causa delle vendite insufficienti.

Ma, d’altra parte, Jean-Pierre Dionnet non aveva aspettato l’uscita del primo numero di Ah! Nana per proporre a Nicole Claveloux di collaborare a Métal Hurlant. In tal modo un numero speciale dedicato a Lovecraft le diede l’occasione di rendere omaggio all’autore che l’aveva fatta davvero rabbrividire, mentre il numero 19 le avrebbe permesso di dichiarare la propria ammirazione per Moebius, uno dei pochi autori di cui ha letto tutta l’opera4.

Quello che voleva il caporedattore di Métal Hurlant era, però, una storia lunga, da pubblicare a puntate su più numeri. Fu così che La mano verde, con i suoi cinque capitoli, finì col segnare sia l’ingresso di Nicole nella redazione di Métal Hurlant che l’inizio della collaborazione tra la disegnatrice e Édith Zha n veste di sceneggiatrice e ideatrice delle storie.

Nata nel 1945 a Parigi, questa ragazzina sognatrice vide il proprio piacere per la parola subito frenato dalla riprovazione della famiglia. «Faresti meglio a stare zitta invece di raccontare queste sciocchezze!» Allora Édith si rifugia nella lettura; dato che non può parlare, ascolta gli altri. «Non ero molto allegra. Ma avevo una gran voglia di vivere.» Questa voglia si esprime in maniera inattesa. Si arrampica su alberi troppo alti, scende in slittino da discese senza neve, e alla fine si rompe sempre qualcosa. Queste azioni sconsiderate la accompagnano nell’età adulta e verso la Sorbona, dove, comunque, non si sarebbe rotta niente sulle barricate del’68. Successivamente, frequentando gli stessi ambienti, Édith e Nicole diventarono amiche.

Nicole stava cercando una storia e Édith elaborò un testo fatto di fughe e suggestioni. Le sue parole raccontavano colori. E fatti intimi di cui avrebbe preso coscienza molto più tardi. «Non era una sceneggiatura, piuttosto una sequenza di racconti da cui Nicole tirava fuori le otto pagine che doveva consegnare. Il risultato era diverso dal mio testo, ma assolutamente fedele alle mie intenzioni. Era molto bello.»

Quelle tavole sontuose,dal ritmo surreale si inseriscono in un sommario in cui la parte del leone la facevano rock e fantascienza – due parole che all’epoca rimavano ancora con testosterone.
Il volume uscì nel 1978. La sua forma e la sua musica erano troppo rivoluzionarie per un ambiente che si definiva volentieri progressista ma che non aveva la capacità di riconoscere e apprezzare le novità. Poco importa. Nicole Claveloux e Édith Zha già si erano messe al lavoro su un’altra storia fantastica. Un treno che si liquefà, una stazione balneare mobile, due detective che hanno rubato alle autrici il loro aspetto. Il libro si intitolerà Morte-saison. Ma è un’altra storia e non ci resta che sperare che Eris la voglia pubblicare in futuro.

Rimane un’ultima, ma non secondaria osservazione da fare ancora: quella riguardante la concezione di Cesare Pavese dell’infanzia intesa come età del mito. Età destinata, però a definire quel destino che il bambino diventato adulto dovrà sapere accettare e rielaborare. Come le due, splendide autrici di La mano verde hanno sicuramente imparato a fare.


  1. La rivista Planète, pubblicata tra il 1961 e il 1971 da Louis Pauwels e Jacques Bergier, è stato un bimestrale che univa con successo la divulgazione scientifica, l’esoterismo e l’insolito, avendo come linea editoriale unicamente l’obiettivo di suscitare la curiosità dei lettori. Nei suoi indici si trovano autori allora poco conosciuti in Francia, come Fredric Brown, Jacques Sternberg, Jorge Luis Borges, Henri Laborit, H.P.Lovecraft e Robert Sheckley. Largo spazio era dedicato agli illustratori, tra i quali troviamo Roland Topor, Jean Gourmelin e René Pétillon.  

  2. Creata nel 1953 da Michel Laclos (e pubblicata da Éric Losfeld prima di essere ripresa, due anni dopo, da Jean-Jacques Pauvert), la rivista Bizarre coltivava l’assurdo e il non-sense, presentandosi come erede irriverente dei Surrealisti. Praticava un vivace eclettismo e aveva aperto le proprie colonne alla giovane generazione di disegnatori, tra i quali troviamo il già citato Topor, Siné, Gébé, André François e Cardon.  

  3. Jean-Louis Gauthey, Introduzione a N. Claveloux & É. Zha, La mano verde e altri racconti, Eris, Torino 2025, p. 12.  

  4. Il numero 19 di Métal Hurlant, uscito nel luglio del 1977, era costruito attorno all’universo creato da Moebius per Il Garage ermetico e per Arzach – battezzato, per l’occasione, Paradiso 9. I collaboratori della rivista furono chiamati a reinterpretarlo a modo loro e Philippe Manoeuvre fu incaricato dei redazionali. Nicole Claveloux disegnò la storia Una giornata in campagna, nella quale abbandonò il suo stile per riprendere con virtuosismo il vocabolario grafico di Moebius.  

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