Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Rifiuto dello stato, religione e rivolte contadine: dalla comunità alla coscienza di classe https://www.carmillaonline.com/2025/04/29/stato-religione-e-rivolte-contadine-dalla-comunita-alla-coscienza-di-classe/ Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88163 di Sandro Moiso

James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 332, 20 euro

L’ultimo testo di James C. Scott pubblicato da elèuthera è particolarmente importante poiché, a cinquecento anni dalla guerra dei contadini tedeschi (1524-1526) contro le insopportabili condizioni di sfruttamento e oppressione, cui contrapposero la rivendicazione dell’abolizione della servitù della gleba, la libertà di caccia e di pesca e la diminuzione delle tasse insieme a quella dell’istituzione di una sorta di repubblica contadina, la ricerca di Scott si rivela fondamentale per comprendere i meccanismi comuni non soltanto della resilienza, parola oggi fin troppo abusata, ma [...]]]> di Sandro Moiso

James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 332, 20 euro

L’ultimo testo di James C. Scott pubblicato da elèuthera è particolarmente importante poiché, a cinquecento anni dalla guerra dei contadini tedeschi (1524-1526) contro le insopportabili condizioni di sfruttamento e oppressione, cui contrapposero la rivendicazione dell’abolizione della servitù della gleba, la libertà di caccia e di pesca e la diminuzione delle tasse insieme a quella dell’istituzione di una sorta di repubblica contadina, la ricerca di Scott si rivela fondamentale per comprendere i meccanismi comuni non soltanto della resilienza, parola oggi fin troppo abusata, ma anche della resistenza e della rivolta delle società contadine tra precapitalismo e avvento del capitalismo stesso e della sua forma Stato.

James C. Scott (Mount Holly 1936 – Durham 2024) è stato docente di Scienze politiche e di Antropologia nell’Università di Yale e ha fatto ricerca sul campo soprattutto nel Sud-est asiatico. In questa veste ha contribuito a riportare, in ambito accademico, un riequilibrio nelle Scienze politiche tra gli studi di tipo quantitativo, preponderanti, e quelli di tipo qualitativo. Ha pubblicato numerosi libri dei quali in italiano sono usciti Le origini della civiltà. Una controstoria (2018) e L’arte di non essere governati. Storia anarchica degli altopiani del Sudest asiatico (2020) per Einaudi e Il dominio e l’arte della resistenza (2021 n.e.), Lo sguardo dello Stato (2019 qui), Elogio dell’anarchismo (2014 e n.e. 2022 qui) e L’infrapolitica dei senza potere (2024 qui) per elèuthera, oltre che I contadini tra sopravvivenza e rivolta (1980) per Liguori. Nel 2020 ha ricevuto l’Albert O. Hirschman Prize per il suo importante contributo interdisciplinare in antropologia, economia e storia, mentre, tra una lezione e l’altra, allevava pecore nella sua casa in Connecticut.

L’infrapolitica di cui si tratta fin dal titolo del libro riguarda una politica considerata piccola, minore, quella appunto dei senza potere e dei diseredati dello stesso che, troppo spesso, nelle analisi puramente quantitative rischia di essere relegato sullo sfondo oppure di sparire del tutto. Sì, perché infrapolitica non significa affatto assenza di politica o sua mancanza, ma piuttosto definisce una necessaria capacità di gestione delle società a livello locale, là dove queste devono ancora essere sottomesse del tutto al potere di controllo dello Stato oppure che ancora gli si oppongono in forme estremamente varie, dall’inganno al mascheramento delle proprie convinzioni religiose o politiche fino alla lotta aperta e dichiarata. Comunque sempre lontane dalle istituzioni politiche e religiose e dallo Stato. Una sorta di autentica e diffusa resistenza naturale alle imposizioni esterne che Scott spiega così:

I missionari delle “grandi tradizioni” religiose o politiche si trovano tipicamente alle prese con uno spinoso dilemma quando tentano di diffondere il loro messaggio tra i contadini. Ammesso che il messaggio e il suo emissario vengano accettati, questi saranno sussunti in uno schema già esistente di significati, simboli e pratiche che spesso stravolgono il messaggio cosi com’è inteso dai suoi sommi sacerdoti nella capitale. Questo abisso cognitivo può essere irrilevante se la “conta” dei convertiti ha piu importanza dell’ortodossia ideologica. Dopotutto, il potere sociale di una Chiesa o di un partito politico può dipendere tanto dal numero dei suoi seguaci quanto dall’effettivo livello di assimilazione del suo catechismo. Ma quando si tratta di qualità delle convinzioni – cioé a dire la loro ortodossia misurata sul metro della dottrina formale – i contadini hanno messo a dura prova la pazienza tanto degli arcivescovi quanto dei commissari politici.
Buona parte della storia del cattolicesimo, per esempio, si potrebbe scrivere nei termini di una tensione tra l’ortodossia ecclesiastica e l’eterodossia popolare, per non dire eresia conclamata, cui la sua espansione diede luogo. In questa storia rientrerebbero le grida di disperazione per quanto e accaduto alla fede nel corso della sua diffusione. Il tono tipico e esemplificato da questo lamento sull’uso delle preghiere e dei santi cattolici da parte dei vuduisti haitiani: «Non siamo stati noi a cristianizzare il popolo, ma il popolo a tramutare il cristianesimo in superstizione». Per non rischiare di liquidare questo esempio come esotico, faremmo bene a ricordare che nella stessa Europa occidentale un’intera congerie di credenze e pratiche precristiane non soltanto sopravvisse ma permeò la cristianità popolare fino a evo moderno inoltrato2. La resistenza della popolazione rurale all’ortodossia cristiana era una tale spina nel fianco del primo clero che l’origine stessa della parola “pagano” (da paganus, cioe abitante delle campagne) è associata ai contadini1.

Considerazioni che ci proiettano efficacemente in un mondo, quello contadino di epoca preindustriale e/o coloniale, che si fonda su convinzioni destinate probabilmente a sopravvivere per lungo tempo a quelle emanate da un potere religioso, culturale e politico che si rivela destinato ad essere transeunte, nonostante la forza dei suoi mezzi di regolamentazione, oppressione e convizione. Come affermava sir James Frazer, citato da Scott, nel suo Ramo d’oro2.

[…] è possibile che tutte le tecnologie elaborate, i riti solenni, i templi imponenti che oggi suscitano la reverenza o la meraviglia dell’umanità, siano a loro volta destinati a scomparire come “la svanita gerarchia dell’Olimpo” citata da John Keats nella sua Ode a Psyche e che la gente semplice continuerà a osservare le semplici fedi dei propri antenati senza nome e senza storia, a credere nelle streghe e le fate, nei fantasmi e i folletti, a mormorare i vecchi incantesimi e compiere antichi gesti scaramantici quando i muezzin avranno cessato di chiamare i fedeli alla preghiera dai minareti di Santa Sofia, e quando i devoti avranno smesso di radunarsi nelle lunghe navate di Notre Dame e sotto la cupola di San Pietro3.

Questa affermazione, che potrebbe apparire poco scientifica o materialistica agli occhi di una modernità sempre piuttosto evanescente e ambigua, è quella che accompagna, però, le ricerche di Scott che, anche se quasi sempre si sono svolte tra le popolazioni e i villaggi degli altipiani del Sudest asiatico, dalla Birmania alla Malesia fino al Vietnam, sono riuscite a rifondare gli studi delle resistenze delle moltitudini contadine che, certo, non sono passate come vorrebbe la grande Storia oppure le grandi ideologie senza lasciar traccia di sé.

Proprio come è successo con la guerra dei contadini tedeschi, guidati da Thomas Müntzer, che pur sconfitti riuscirono comunque ad imprimere un corso diverso alla Storia contro cui si erano ribellati, visto che la loro sconfitta sarebbe comunque servita da lezione e guida per le rivoluzioni successive, a partire da quella inglese del 1644-1648 fino alla “Grande paura” dell’estate del 1789 durante la Rivoluzione francese e ancora oltre. Dopo aver rovesciato il senso della dottrina luterana che già aveva incrinato il potere e l’ortodossia della Chiesa di Roma.

In una società complessa, la religione popolare e la cultura contadina non sono solo una variante sincretica, addomesticata e localizzata di un sistema di pensiero più vasto. Quasi invariabilmente, contengono i semi di un universo simbolico alternativo – un universo che a sua volta rende meno ineluttabile il mondo sociale in cui di fatto vivono i contadini. Gran parte di questo simbolismo radicale è spiegabile solo come reazione culturale alla situazione dei contadini come classe. Di fatto, questa opposizione simbolica rappresenta la cosa più prossima a una coscienza di classe nelle società agrarie preindustriali. E come se quanti si trovano sul fondo della scala sociale sviluppino forme culturali che promettono la dignità, il rispetto e il benessere economico di cui sono privi nel mondo così com’è. Un modello reale di sfruttamento produce dialetticamente la propria immagine simbolica speculare all’interno della cultura popolare.
[…] A volte, in Vietnam e altrove, questa possibilità latente all’interno della tradizione popolare ha trovato espressione esplicita in iniziative religiose millenariste, di forma quietistica o violenta. In genere i profeti di queste sette, al pari del loro seguito contadino, aspiravano a un nuovo ordine secolare con implicazioni rivoluzionarie. Religione e politica si univano in una visione utopica. L’elemento piu notevole era che, diversamente dal buddismo, dall’islam o dal cristianesimo, le cui dottrine si concentrano sul premio nella prossima vita, queste sette nutrivano ambizioni del tutto mondane di salvezza in terra. Cosi, come all’interno della piccola tradizione il buddismo veniva spesso piegato a scopi animisti secolari, allo stesso modo il messaggio di salvezza della religione di grande tradizione veniva spesso trasformato dai suoi seguaci popolari in un messaggio di liberazione nel qui-e-ora.
Il che non significa che questo tipo di visioni religiose radicali sia stata la forza motrice di tutti o della maggior parte dei movimenti contadini. Al contrario, molte lotte contadine per la riduzione dei canoni d’affitto, per un minor numero di tasse e per l’autonomia locale si possono considerare tentativi piuttosto chiari di difendere o istituire diritti entro il contesto di un ordine sociale o di una gerarchia incontestati – una versione contadina di “sindacalismo”, se vogliamo. Sostengo però che esista spesso un’intesa o una base religiosa con obiettivi rivoluzionari di ben fondamento ideativo dei movimenti contadini.
La visione radicale cui faccio riferimento é notevolmente uniforme, a dispetto dell’enorme varietà delle culture contadine e delle diverse grandi tradizioni cui partecipano. In sostanza, invoca una profanazione dell’ordine secolare esistente – un capovolgimento delle cose cosi come stanno. In questo senso, la visione radicale e riflessiva: il suo punto di partenza e il modello di sfruttamento sperimentato. Sarebbe persino possibile, lavorando a ritroso, dedurre la struttura reale dei rapporti sociali in una società dalla visione utopica creata per fungere da sua immagine speculare4.

A questo punto l’autore si ricollega a titolo di esempio alla “tradizione” europea delle lotte contadine, dalla Russia al resto del continente, cosa che spiega quanto sostenuto poc’anzi a proposito ancora dei contadini tedeschi e degli sviluppi successivi della loro rivoluzione “fallita”.

Gli elementi di classe della tradizione millenarista appaiono perfettamente evidenti nella configurazione utopica condivisa da contadini, artigiani e parte del basso clero. Per prima cosa, le schiere dell’Anticristo andavano distrutte. Per i Taboriti del xv secolo, queste includevano «tutti i signori, i nobili e i cavalieri», che andavano «abbattuti e sterminati nelle foreste come fuorilegge», ma anche gli abitanti delle città, i mercanti e i padroni assenteisti. In altri tempi e luoghi l’elenco poteva includere gli esattori fiscali, l’alto clero e gli usurai. Dalle ceneri del vecchio ordine sarebbe sorto un regno religioso senza tasse, canoni d’affitto o tributi feudali e, soprattutto, senza proprietà privata. I Taboriti profetizzavano «il ritorno di un ordine anarco-comunista perduto», senza ranghi: «Vivremo insieme come fratelli, e nessuno sarà sottoposto a un altro».
Spesso questo universo simbolico comprendeva un prototipo della teoria del valore lavoro e della ridistribuzione delle ricchezze: «I principi, sia della Chiesa sia secolari, e i conti e i cavalieri dovrebbero possedere solo alla pari con la gente comune, e in questo modo tutti avranno abbastanza. Verrà un tempo in cui i principi e i signori lavoreranno per guadagnarsi il pane». Altrove, il millennio di felicita prometteva il libero utilizzo di pascoli e boschi. In breve, la sua immagine poteva variare in funzione delle esigenze e aspirazioni dei contadini e dei ceti inferiori, ma era sempre in un rapporto simbolico diretto con le circostanze del loro sfruttamento come classe.
[…] La proprietà in comune e forse il principale tema economico della tradizione millenarista. Affonda le sue radici nel pensiero utopico cristiano, come osservato da Bloch: «Le forme, quasi sempre analoghe, di queste ribellioni erano tradizionali: sogni mistici, vigoroso sentimento originario di un’eguaglianza evangelica, che non attese certo la Riforma per imporsi alle anime degli umili». Il concetto di proprietà comunitaria non era solo parte della tradizione religiosa, ma era da sempre incorporato nelle prassi dei poveri rurali5.

Ecco allora che le credenze religiose, più che il «gemito degli oppressi» di marxiana memoria, finiscono col costituire la base di un programma politico minore ma tutt’altro che minimo, come avverrà, ad esempio, anche per una parte dei movimenti più radicali espressi dalla Rivoluzione inglese della metà del XVII secolo.

Durante la guerra civile inglese, gran parte dei movimenti agrari popolari sottoscrisse questa o quella forma di collettivismo. […] La questione della proprietà era tra «le principali preoccupazioni delle classi più povere», che furono entusiastiche sostenitrici degli appelli a una «eguaglianza dei beni e delle terre» e a una ridistribuzione delle proprietà almeno una volta l’anno a tal fine. In Inghilterra e altrove queste convinzioni dovevano tanto alla storia popolare e alla religione popolare. Così, Winstanley, il popolare leader dei Diggers, vedeva la proprietà in comune sia come il ripristino della «legge pura o della giustizia prima della Caduta», sia come un ritorno all’eguaglianza che aveva prevalso prima della Conquista normanna, quando ogni famiglia aveva il necessario per la sussistenza.
[…] Nella piccola tradizione, il tema della proprietà in comune è indissolubilmente legato alla contrapposizione tra consuetudini locali e legge. Una fitta schiera di cambiamenti minacciosi – che spaziavano dall’imposizione di nuove tasse, all’estendersi delle proprietà fondiarie, alle restrizioni su accesso e utilizzo delle foreste, all’espandersi del debito – si presentava ai contadini sotto forma di nuove leggi e di nuovi funzionari, che affermavano il primato degli statuti scritti sulle prassi tradizionali. Quando ha inciso sulla vita contadina, la legge è stata quasi sempre lo strumento dei pochi privilegiati e alfabetizzati che operava per spogliare delle sue terre, dei suoi beni e dei suoi diritti consuetudinari la moltitudine analfabeta6.

Ma la guerra civile o rivoluzione inglese avveniva in un momento in cui l’affermarsi del capitalismo mercantile, che la stessa rivoluzione avrebbe contribuito a liberare nella sua successiva potenza commerciale ed economica, aveva iniziato a sviluppare ancora di più tecniche di compravendita delle terre e di scambio e circolazione monetaria, potenzialmente “immateriale”, che indebolivano ancora di più la “concreta” materialità dei contadini poveri.

I Diggers, alla pari di altre sette radicali, vedevano la legge come uno strumento di oppressione: «La legge e la volpe, i poveri le oche; essa strappa loro le penne e di loro si ciba». Nell’utopia elaborata da Winstanley, la pena di morte sarebbe rimasta valida solo per chi avesse «scelto il mestiere di avvocato o di parroco». L’odio per la legge scritta appare in modo eclatante nella frequenza con cui i contadini ribelli distrussero i registi fiscali e gli elenchi di oneri feudali, nel tentativo di cancellare il contrassegno formale della loro oppressione. Posto che dalla prospettiva contadina la legge aveva imposto il dominio dei privilegiati in luogo di consuetudini stabilite per libero consenso, la nuova società non avrebbe avuto alcun bisogno di questa mistificazione o tirannide.
A mano a mano che la crescita del commercio e dei mercati aprì la strada a nuove insicurezze, frantumando la tenuta delle consuetudini locali, la visione utopica dei contadini prefiguro sempre piu una società in cui, come nel tempo passato, la “compravendita” sarebbe scomparsa. “Comprare e vendere” erano ovviamente associati a tutti gli effetti classici dell’espansione di un’economia di mercato: l’aumento nella disparità di ricchezze, la concentrazione della proprietà fondiaria, il prestito, il lavoro salariato e l’eliminazione dei diritti economici consuetudinari.
[…] L’annullamento di questa minacciosa e crescente economia di mercato e parte integrante delle utopie radicali adottate dai contadini inglesi nel XVII secolo. Secondo il commonwealth comunistico di Winstanley, «la vera dignità umana sarà possibile solo qualora venga istituito il possesso comune, e cessi la compravendita di terre e lavoro», equiparata all’omicidio e alla violenza carnale, tutti delitti da punire con la pena capitale. Il mercato, insieme alla proprietà, era visto come parte della Caduta che aveva reso possibile lo sfruttamento. Posto che la preservazione dei diritti tradizionali alla terra, al lavoro e alla sussistenza era l’obiettivo centrale di molti grandi movimenti contadini nell’Europa del primo evo moderno, non sorprende che anche la più restrittiva economia precapitalistica costituisse un obiettivo utopico attraente7.

Ma anche se il testo di Scott cela tra le sue pagine infiniti esempi e riflessioni sulla forza intrinseca delle strutture morali, economiche e politiche delle società contadine, si avvicina il momento di chiudere una recensione sicuramente insufficiente nel riassumere la ricerca nella sua interezza. Per questo occorre ritornare a quel Sudest asiatico da cui erano partite le principali indagini sul campo dell’antropologo americano.

Il Sudest asiatico è ricco di movimenti millenaristi almeno quanto l’Europa. I fattori di innesco sono grosso modo gli stessi, posto che i contadini di questa regione hanno vissuto molti degli stessi eventi traumatici determinati dalla creazione di uno Stato intrusivo e dallo sviluppo di un’economia agraria commercializzata. In questo ambito, possiamo considerare la storia coloniale del Sudest asiatico come una variante provinciale della storia economica mondiale, sebbene lo sconvolgimento sociale sia stato più traumatico, perché compresso in un periodo più breve e presieduto, fino a tempi recenti, da stranieri. I temi millenaristi hanno avuto un maggior impatto nei paesi piu direttamente governati e penetrati dalle forze di mercato: Birmania, Filippine, Indonesia e Vietnam. […]
La colonizzazione e la cristianizzazione delle Filippine hanno cospirato per produrre una storia di settarismo millenarista quasi senza confronti nel Terzo Mondo. […]
La prima sollevazione su vasta scala scoppiò nel 1841 e, come tanti movimenti successivi con sfumature millenariste, cominciò con la formazione di un’organizzazione cattolica laica. Il suo leader, Apolinario de la Cruz, che si era visto negare una carriera ecclesiastica dalle politiche restrittive della Chiesa, fondò la Cofradia de San Jose, che reclutò molti dei suoi seguaci dalle province meridionali dell’isola di Luzon: Tabayas, Batangas e Laguna. Quando, temendone il potenziale eretico tanto in religione quanto in politica, le autorità ecclesiastiche intervennero per abolirla, la confraternita assunse un atteggiamento più minaccioso. Riuniti quattromila seguaci armati, Apolinario e il suo vice, che si era dato il nome di “Purgatorio”, fondarono una teocrazia locale. Giro voce che Apolinario si fosse proclamato “re dei Tagalog” e “sommo pontefice” e avesse promesso ai credenti che la terra si sarebbe aperta e avrebbe inghiottito i nemici del nuovo credo. Dopo la vittoria in un tafferuglio, i suoi seguaci furono sconfitti in un bagno di sangue che fece mille vittime. I superstiti ripararono sulle montagne vicine, dove istituirono il villaggio Terrasanta che divenne meta di pellegrinaggi annuali da parte di migliaia di abitanti delle pianure. Con il nuovo nome di Colorum (da saeculorum), i sopravvissuti contribuirono alla diffusione in tutta Luzon di culti popolari forse implicati in molte ribellioni successive8.

Al di là di un’altra similitudine con le conseguenze della guerra dei contadini tedeschi, con la città-stato anabattista di Munster retta da Giovanni di Leida che dopo l’esperienza di autogoverno teocratico tra il 1534 e il 1535 fu riconquistata nel sangue dalle truppe imperiali, anche le ultime osservazioni di Scott obbligano chiunque si occupi di lotta contro la tirannia del capitale e della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione ad interrogarsi su alcuni aspetti dati talvolta troppo per scontati dai teorici della lotta di classe di impianto rigidamente marxista.

Una volta individuati, infatti, nelle tradizioni comunitarie il motore della resistenza e delle lotte contadine contro l’avvento del Capitale e dello Stato c’è da chiedersi se la cosiddetta “coscienza di classe” più che a fattori esterni non sia piuttosto da individuare nelle credenze e forme di organizzazione collettiva tipiche di quelle tradizioni, ricordando come, nel caso dell’Europa, quelle aspirazioni giunsero fino alla prima Lega dei Comunisti di Weitling, in diretta discendenza, o quasi, dal movimento degli anabattisti tedeschi.

Aggiungendo che, se così fosse, molto ci sarebbe da ripensare a proposito della coscienza di una classe operaia che, una volta allontanatasi storicamente e geograficamente dalle proprie origini comunitarie e contadine, non ha avuto a disposizione altra comunità che quella suggerita dal Capitale e dal suo ideale di sviluppo e che è giunto ad essa anche per il tramite del marxismo. Un argomento, quest’ultimo, su cui si può disquisire sicuramente a lungo e che rende estremamente affascinante e interessante la lettura del saggio di James Scott.


  1. J. C. Scott, I «modi» della politica contadina. Rivolta agraria e piccola tradizione: la dimensione religiosa, in J. C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 25-26.  

  2. J. Frazer, The Golden Bough, vol. 2, Spirits of the Corn and of the Wild, London 1912, p. 335 [trad. it. parziale Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2012]  

  3. J. Frazer, cit. in J.C. Scott, op. cit., p. 27. 

  4. J. C. Scott, I temi della politica contadina. Rivolta agraria e piccola tradizione: la dimensione politica, in J. C. Scott, op. cit., pp. 116-118.  

  5. Ibidem, pp. 123-124.  

  6. Ivi, pp. 125-126. 

  7. Ibid., pp.127-128.  

  8. Ivi, pp. 132 -134.  

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E con il cuore ci mettemmo a giocare https://www.carmillaonline.com/2025/04/28/e-con-il-cuore-ci-mettemmo-a-giocare/ Mon, 28 Apr 2025 21:45:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88099 di Francisco Soriano

Quando Vladimir Vladimirovič Majakovskij si tolse la vita, Josif Mandel’štam era in Armenia, la sua «terra promessa». Fu in quel momento che quest’ultimo venne a conoscenza della scomparsa del poeta simbolo della Rivoluzione d’Ottobre. Per Mandel’štam fu la conferma di ciò che aveva sempre sentito dentro di sé: quel mondo in cui ancora in molti credevano ciecamente era definitivamente mutato. La «speranza», come in tutte le rivoluzioni che si rispettano, tramonta in un lasso di tempo quasi immediato e si trasforma in un incubo di uccisioni e terrore. Il messaggio rivolto da Majakovskij ai posteri con il suo [...]]]> di Francisco Soriano

Quando Vladimir Vladimirovič Majakovskij si tolse la vita, Josif Mandel’štam era in Armenia, la sua «terra promessa». Fu in quel momento che quest’ultimo venne a conoscenza della scomparsa del poeta simbolo della Rivoluzione d’Ottobre. Per Mandel’štam fu la conferma di ciò che aveva sempre sentito dentro di sé: quel mondo in cui ancora in molti credevano ciecamente era definitivamente mutato. La «speranza», come in tutte le rivoluzioni che si rispettano, tramonta in un lasso di tempo quasi immediato e si trasforma in un incubo di uccisioni e terrore. Il messaggio rivolto da Majakovskij ai posteri con il suo gesto suicidario non era né di resa né di sconfitta, ma annunciava l’impossibilità di accettare che la poesia venisse relegata in uno spazio che non poteva essere abitato secondo le aspirazioni e la prassi di un vero poeta: impossibile continuare a vivere in questo «tradimento».

Quasi parallelamente lo stesso Mandel’štam vagava come già morto, in quel luogo bianco, senza strade, senza cieli, senza quotidiano, rappresentato dai versi delle sue incredibili poesie. Majakovskij era stato invece un militante coerente alla sua scelta rivoluzionaria, che non amava «pettegolezzi», sensi di colpa e quella ricerca ossessiva di responsabili verso cui lanciare anatemi per scagionare, forse, se stessi. Così chiosò nel suo testamento di morte: «come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci». I due poeti ebbero una vita completamente diversa nel vissuto, ma ambedue furono traditi, in modalità differenti, dai valori della rivoluzione. La dimostrazione è nella prassi delle loro esistenze dove si riscontrano, tuttavia, la stessa ferrea coerenza e lo stesso intangibile amore per la poesia.

Si può accettare il tradimento di un’utopia, divenuta realtà seppur in un lasso di tempo breve, di un mondo più giusto e solidale? La realtà e Majakovskij avevano raggiunto le stesse aspettative, realizzato le medesime battaglie, ma l’incantesimo si era spezzato. Il gesto eclatante, simbolico, perfettamente in simbiosi con la vita, era il colpo di rivoltella che, diretto al cuore, glielo avrebbe schiantato. Era il 14 aprile del 1930. Nessuna importanza si ritrova nell’idea e nella ricerca che il suicidio potesse essere stato una messinscena ordita da sinistri agenti di Stalin se non per pura cronaca, come sarebbe capitato negli anni a seguire ad altri personaggi uccisi per mandato di questo mostruoso uomo che incarnava il senso del più bieco potere. Dal canto suo Mandel’štam scrisse un poemetto dal titolo Il montanaro del Cremlino, dichiarando così apertamente di essere disponibile al «suicidio», quello per mano degli sgherri di Stalin: atto puntualmente perpetrato da anonimi aguzzini e laidi carcerieri durante il trasferimento da un campo di transito vicino a Vladivostok, sulla strada verso il gulag di Kolyma, dopo essere stato imprigionato per attività controrivoluzionaria, a temperature disumane. Il poeta morì probabilmente di assideramento, malato, e gettato in una fossa comune il 27 dicembre del 1938 insieme ad altri malcapitati, senza la possibilità che il suo corpo fosse mai più ritrovato. Pochi giorni prima aveva scritto una missiva, un ultimo testamento sulle condizioni che lo stalinismo riservava a poeti come lui: «Sono ridotto allo stremo – quasi irriconoscibile».

Josif e Nadežda Mandel’štam

Le morti di Majakovskij e di Mandel’štam rappresentano la certezza che la poesia e il potere non possono avere ontologicamente alcuna simmetricità, né un lontanissimo punto di incontro, neppure la possibilità di sfiorarsi. Le vite dei poeti, diverse e agite in modalità lontane nel sentire e nei gesti, hanno in realtà un comune destino, la stessa ellissi di negazione, di asimmetricità, e l’emersione di un’idea del potere che deraglia dall’umano, lo tradisce, lo soffoca. Gli amici Šklovskij, Rodcenko, Pasternak, Tatlin non si aspettavano il gesto di Majakovskij; lui, così virile nella lotta di militante comunista, se ne andava senza far apparire niente a nessuno: disagio, depressione, angoscia, nulla di nulla. Proprio questa condizione di normalità invece prova la veridicità del gesto, la sua «consapevole» testimonianza, la coerenza di non voler e dover tradire la poesia per gettarla alla mercé di filistei meschini e personaggi «iscariotici» partoriti da quella rivoluzione che aveva realizzato, come accadde durante le settimane della Comune francese, le speranze di eguaglianza di una storia emblematica per tutta l’Umanità. Le sue invettive contro il «tradimento» si leggevano fra le righe delle opere ultime, come La cimice (1928) e Il bagno (1929), quest’ultima scritta un anno prima della sua tragica scomparsa.

Fu Pasternak che comprese più di tutti il simbolico epilogo dell’amico, a cui diresse un meraviglioso poema che ne esaltava il poeta e l’uomo: «Il tuo sparo fu simile a un Etna in un pianoro di codardi!» È condivisibile l’idea che Majakovskij non avesse alcuna familiarità con la politica, non ne conosceva i meccanismi autoritari, le ambiguità, né avrebbe mai potuto accettare di essere complice di assurde dinamiche del potere. Per Majakovskij la poesia e la rivoluzione andavano di pari passo: erano due scintille, due fuochi. Al contrario, nella solitudine e nella stasi, Mandel’štam aveva avvertito subito la deriva della rivoluzione, la sua ritualità, il partito come spazio metafisico, il disimpegno dall’umano: aveva percepito che sarebbe arrivato il momento dell’inevitabile erosione dei valori rivoluzionari, soffocanti, estenuanti, ingiusti, disumani, avvinghiati alla burocrazia per esaltare, infine, una forma di un autoritarismo senza appello. Per Majakovskij, scomparso così prematuramente, il popolo nutriva un amore smisurato come smisurato è il tono della sua poesia, deflagrante, meravigliosa, dirompente, tanto da rappresentare per lo stesso Pasternak una sorta di devozione/ossessione senza precedenti. La prova risiede nelle citazioni copiose di quest’ultimo, ad esempio nel libro Il salvacondotto, che si chiude con la morte del poeta: «Quando tornai là, di sera, era già nella bara… gli altri lottavano, sacrificavano la vita e creavano oppure sopportavano sconcertati, ma erano pur tuttavia gli indigeni di un’epoca passata e, nonostante le differenze, erano conterranei da essa imparentati. Solo a lui la novità del tempo scorreva climaticamente nel sangue». Fu Pasternak per primo, infatti, a smascherare il «tradimento» subito da Majakovskij.

Immaginare il poeta come il «rappresentante culturale» e l’intellettuale organico di quel Paese, subito dopo il sogno spezzato della rivoluzione, può ritenersi addirittura un’infamia. I vertici del partito furono ben consapevoli della fascinazione subita dal popolo per un poeta come Majakovskij: fu così che cominciarono a utilizzarlo, sventolarlo, proporlo come il cantore e il canone poetico dei Soviet, naturalmente nella forma decurtata di quella disillusione che ne avrebbe reso la poesia inaccettabile per il regime. Un’ingiustizia per chi ama la poesia, il disagio e la fragilità di accondiscendere agli strumenti del potere. E fu proprio Pasternak, così intelligente e sensibile nel comprendere che cosa stava accadendo, a scrivere una lettera a Stalin con fare «poco coraggioso», ringraziandolo per la liberazione dei familiari della Achmatova verso i quali si era prodigato e aveva «rischiato» personalmente di insospettire il satrapo. Nello stesso momento aveva altresì ringraziato il dittatore di aver messo «Majakovskij al primo posto…» Ma Pasternak, che aveva visione politica e comprensione chiara di quello che stava accadendo, sapeva perfettamente che l’operazione cinica di Stalin riguardo alla figura e all’opera del poeta avrebbe portato col tempo a un disconoscimento della sua poesia: quest’ultima doveva essere «riprodotta» come rivoluzionaria in un momento di stabilizzazione del potere, dove al posto delle idee venivano ormai proposte purghe, gulag e uccisioni di massa. L’operazione di delegittimazione verso l’opera del poeta, dunque, era cominciata silente e ben organizzata, facendola sembrare invece un’alta legittimazione rivoluzionaria e comunista.

Determinanti per la conoscenza e la divulgazione postuma dei due poeti furono le loro compagne di vita e muse ispiratrici: Lilja Brik, nel caso di Majakovskij, e Nadežda Khazina, per Mandel’štam, alla quale dobbiamo anzi in modo esclusivo la conoscenza che abbiamo oggi dell’opera straordinaria del poeta. Le sue poesie erano state vietate dal regime sovietico: un gesto a mio modo di vedere criminale e insensato, come lo sono stati la «negazione» di una sepoltura, la cancellazione del corpo e della persona. Perseguitato e vessato, Mandel’štam non aveva arretrato dalle sue posizioni di opposizione solitaria neppure di un millimetro, con il coraggio dei poeti: costui era folle di umanità, di creatività, di coraggio e, per questo, odiatissimo dal potere. A differenza di Majakovskij, il candore di Mandel’štam risiedeva nella sua indifferenza alla fama, così concentrato sulla ferma volontà di rimanere per sempre esule, come negli anni seguenti capiterà prima della caduta del muro di Berlino a Josif Brodskij. Nadežda conosceva perfettamente l’impeto intellettuale e la statura etica del suo compagno, sapeva quale trattamento gli avrebbero riservato, prevedeva la tragica conclusione e nascondeva i suoi versi nella federa di un cuscino, quando di tanto in tanto i torturatori di Stalin le facevano visita a casa.

Fu il 1° maggio del 1919 che Mandel’štam conobbe la pittrice di origini ebraiche Nadežda Khazina, figlia di una delle prime donne medico della storia della Russia e di un avvocato: si sposarono nel 1922 a Kiev. Nadežda, che significa «speranza», resterà per sempre fedele al poeta anche quando Osip ormai non ci sarà più. La poetessa Anna Achmatova, legata da vincoli di amicizia profondi alla coppia Mandel’štam, dirà dell’amico «martire»: «Osip amava Nadja in modo incredibile, inverosimile… Non permetteva a Nadja di allontanarsi da lui neanche di un passo; non le dava la possibilità di avere un lavoro; era follemente geloso; le chiedeva consigli su ogni parola dei suoi versi». Forse l’unico aspetto negativo che Achmatova sottolinea dell’amico geniale era la sua gelosia in questo rapporto amoroso e letterario senza precedenti. Nadežda Mandel’štam morirà il 29 dicembre del 1980, a Mosca, dove aveva fatto ritorno nel 1964 dopo essere stata in esilio per molti anni. Nadežda è una scrittrice sopravvissuta a Stalin, ai suicidi, alle uccisioni dei sicari, al potere dittatoriale, e ha sempre rappresentato una spina nel fianco al regime sovietico. Nel suo appartamento, si racconta, ebbe a ospitare proprio tutti: poeti, fuggiaschi, perseguitati, derelitti. Due grandi immagini nei racconti di chi l’ha conosciuta ben la rappresentano: una appartiene a Josif Brodskij e l’altra è dello scrittore-viaggiatore inglese Bruce Chatwin. Diceva Brodskij di lei: «Per decenni Nadežda Mandel’štam visse alla macchia, in fuga perpetua, svolazzando tra gli angiporti e oscure città del grande impero, posandosi in un nuovo nido solo per riprendere il volo al primo segnale di pericolo. La condizione di ‘non persona’ divenne a poco a poco la sua seconda natura. Era una piccola donna, di esile corporatura, e col passare degli anni si rattrappì sempre più, come se cercasse di trasformarsi in un oggettino privo di peso che si potesse facilmente ficcare in tasca al momento della fuga».

Brodskij racconta di aver incontrato una prima volta Nadežda Mandel’štam nel 1962, sempre per intercessione di Anna Achmatova: «Abitava in un piccolo appartamento comune, formato da due stanze… Quasi tutto lo spazio era occupato da un letto di ferro a due piazze; c’erano anche due sedie di vimini, un cassettone con un piccolo specchio, e un tavolino da notte, un tavolino tuttofare sul quale si vedevano dei piatti con gli avanzi della cena». Nel giugno del 1972, invece, Brodskij lasciò definitivamente l’Unione sovietica, ma prima di partire fece ancora visita a Nadežda: «Il pomeriggio stava per finire, e lei sedeva, fumando, nell’angolo, nell’ombra profonda proiettata sul muro della grande dispensa. L’ombra era così profonda che le sole cose che si potessero distinguere erano la tenue scintilla della sigaretta e quei due occhi penetranti. Il resto – lo sparuto corpo rattrappito sotto lo scialle, le mani, l’ovale della faccia cinerea, i capelli grigi, anch’essi cinerei – tutto il resto era inghiottito dal buio. Nadežda Mandel’štam sembrava un avanzo di un grande incendio, sembrava una minuscola brace che brucia se la tocchi». Nadežda è stata soprattutto una grandissima scrittrice nonché traduttrice, molto influente fra gli intellettuali russi postrivoluzionari.

Di indicibile tristezza è invece il ricordo di Bruce Chatwin, il quale, pur dipingendola nel bianco a differenza di Brodskij, tracciava una linea di enorme dolore nel descriverla. La incontrò nel 1978 e il testo a lei dedicato è inserito in un suo libro dal titolo: Che ci faccio qui? Il racconto si apre con la visione di una nevicata copiosa. Bianca era la neve che cadeva senza sosta, bianco su bianco il quadro di Vladimir Weisberg appeso alla parete della dimora di Nadežda, e bianco sembrava essere il dolore intorno che tutto soffocava. La cucina aveva un odore forte di kerosene e di pane raffermo, fra il disordine sul tavolo si intravedevano bicchieri abbandonati e un vaso di begonie che sembrava ergersi in quell’abbandono. Entrando nell’appartamento, Chatwin vide un uomo di aspetto sgradevole uscire dalla stanza da letto in cui si trovava Nadežda: «Che cosa ha pensato del mio dottore?» domandò con una smorfia la donna. La risposta è nel testo di Chatwin: «Il dottore presumo, era il suo agente del KGB». Nadežda «aveva i denti ridotti a schegge annerite tra le quali luccicavano bianchi ponti di metallo. Una sigaretta era incollata al labbro inferiore. Il naso era un’arma. Sapevi per certo che quella era una delle donne più forti del mondo, e sapevi anche che lei lo sapeva».

Tanto è l’importanza di questa donna per la letteratura mondiale che anche Doris Lessing affermava, citando gli scritti autobiografici di Nadežda, che «Le testimonianze di una vita sotto l’egida della tirannia sono ormai molte, ma nessuno, nemmeno Solženicyn, ha mai scritto meglio». Di lei Isaiah Berlin, invece, segnalava quanto «Le crude reminiscenze della signora Mandel’štam si leggono come la realtà stessa, cruenta… il suo è un lavoro letteralmente unico». Seamus Heaney, nella nota scritta per la «London Review of Books» nell’agosto del 1981, in occasione della pubblicazione del secondo volume delle testimonianze di Nadežda, sottolinea un aneddoto che la scrittrice racconta in esergo alle sue memorie, proprio in relazione al temperamento del marito: «Dopo lo schiaffo ad Aleksej Tolstoj, Mandel’štam era tornato immediatamente a Mosca, e qui telefonava ogni giorno ad Anna Achmatova, scongiurandola di venire». Che cos’era accaduto di tanto grave? Tolstoj nel 1932 era a capo di una «corte di compagni» presieduta dal Sindacato degli Scrittori per ascoltare una denuncia di Mandel’štam contro i comportamenti del romanziere Sargidžan e di sua moglie. Come sostiene Heaney, i Mandel’štam avevano una «cattiva reputazione» presso le autorità rivoluzionarie e la coppia Sargidžan era stata incaricata di spiarli in condominio, ma questi avevano addirittura colpito Nadežda con violenza. Vagliato il caso, la corte aveva concluso, dando torto a entrambi, che quel comportamento era retaggio di un «sistema borghese». Tolstoj ricevette lo schiaffo due anni dopo come conseguenza di quella decisione «salomonica», Mandel’štam non glielo aveva perdonato. Fu dopo questi eventi che Osip scrisse il componimento contro Stalin, che gli costò il primo arresto e la perquisizione della sua casa, firmando così la sua condanna a morte: fu interrogato e deportato a Čerdyn dove, in stato di sofferenza psicologica, tentò il suicidio. Fu ancora una volta l’onnipresente Pasternak che intercederà per l’amico direttamente con Stalin, facendo commutare in esilio, direzione Voronež, la condanna al carcere. Mandel’štam ebbe ancora la possibilità di comporre versi, declamando e spesso camminando in moto continuo: «il passo, unito alla respirazione e saturo di pensiero: è questo che Dante intende per inizio della prosodia» – per un uomo simile, che riusciva a chiedersi «quante suole abbia consumato l’Alighieri mentre scriveva la sua Commedia», la prospettiva dell’esilio non era in fondo del tutto negativa. Nadežda, donna di indicibile forza, cominciò così il suo progetto mnemonico, la sua risposta al potere, all’autoritarismo, all’ingiustizia, reclamando il corpo del marito ormai cancellato, con il suo libro Speranza contro speranza. Il testo è nient’altro che il «cenotafio» di Osip Mandel’štam: «Salvando i versi di Mandel’štam non osavamo sperare, eppure non smettevamo di credere che un giorno potessero risorgere. E ci aggrappavamo a questa fede. Dopotutto, era la fede nel valore eterno e nel carattere sacro della poesia».

Oggi coloro che parlano delle democrazie malate del nostro Occidente, i cantori della fine ineluttabile, non sanno riflettere, né conoscono le dittature, non le hanno vissute, non le hanno capite, le hanno viste dalle poltrone infeltrite delle loro accademie. Basterebbe semplicemente leggere questo passo per trovare, magari, qualche risposta alle proprie stupide deduzioni: «In epoche come la nostra, dov’è il limite fra ciò che è psicologicamente ‘normale’ e ciò che non lo è? Io e Mandel’štam pensavamo le stesse cose, ma in lui questi pensieri diventavano in un certo senso ‘tangibili’: egli non si limitava a pensare, ma immaginava, vedeva come sarebbero andate le cose. Mi svegliava nel bel mezzo della notte per dirmi che Anna Achmatova era stata arrestata e che in quel momento la stavano conducendo all’interrogatorio. ‘Perché pensi una cosa simile?’ ‘È una impressione precisa’. Camminando per Čerdyn’, cercava il corpo di Anna Andreevna sul fondo di ogni burrone… Certo, questa era già follia. Ma io, dopo essermi destata dal letargo che mi aveva assalita, non riuscivo più a dormire e passavo la notte cercando di indovinare chi fra i nostri parenti e amici fosse già stato arrestato e sotto quali accuse. Se anche non c’era una denuncia precisa, le accuse si potevano sempre inventare».

I Mandel’štam avevano visto giusto e, soprattutto, «lungo»: «Chi vive sotto una dittatura, si permea rapidamente del senso della propria impotenza e vi trova consolazione e giustificazione per la propria passività e inerzia: ‘La mia voce potrà forse fermare le fucilazioni? Non dipende da me… Chi volete che mi dia retta?’ Così andavano dicendo i migliori di noi e l’abitudine al confronto fra le proprie forze e quelle altrui ha fatto sì che qualsiasi Davide, pronto ad assalire, disarmato, un Golia, suscitasse soltanto perplessità e alzate di spalle… Tutti eravamo pronti al compromesso: tacevamo nella speranza che non uccidessero noi, ma il nostro vicino. Non sappiamo nemmeno bene chi fra noi contribuiva a uccidere e chi si salvava tacendo».

Diversa ma, per molti versi non meno drammatica, fu la parabola di Lilja Brik. Lilja era la moglie del commerciante ed editore Osip Brik. Quest’ultimo già nel 1919 cominciò il ménage à trois con sua moglie e il poeta, una dinamica che scatenò pettegolezzi e smascherò il volto moralista del potere dei Soviet. Diceva Lilja di quel periodo: «Io ero la moglie di Volodja, lo tradivo come lui tradiva me. E tutte le chiacchiere sul triangolo e sull’amour à trois non hanno niente a che vedere con quello che in realtà c’era fra noi».

Fu lo stesso Lenin, come ricorda in un suo libro Serena Vitale, a impedire che un decreto sui danni della gelosia presentato da Aleksandra Kollontaj, che si batteva per il superamento del rapporto borghese e bigotto fra le persone, passasse. Tuttavia, in questo campo, si ricorda che il primo provvedimento dopo la rivoluzione dell’ottobre del 1917 fu quello di sancire la possibilità di divorziare facilmente, svuotando di significato religioso e statuale il gesto del legame matrimoniale. Ma già nel 1919, quando la Ceka si insediò, smentendo i primissimi provvedimenti in tema di unioni matrimoniali, la Russia divenne uno stato puritano.

Con Stalin, un certo morboso indagare negli affari intimi, le somministrazioni di purghe e le repressioni anche a discapito degli scrittori si fecero sentire massicciamente, come ad esempio, ricordano le sparizioni e il suicidio dello stesso Sergej Esenin. Si indagava nelle vite private, si indebolivano anche da un punto di vista intimo le persone e si annientavano per la loro ritrosia nell’obbedire al regime. Lilja, a differenza di Nadežda, continuò a credere nella rivoluzione, nonostante i riferimenti ideali dell’utopia rivoluzionaria fossero cambiati. Non a caso in una lettera a Stalin sponsorizzò la divulgazione nel 1935 dell’opera di Majakovskij, chiedendo che divenisse il riferimento artistico e poetico della Russia bolscevica.

Stalin colse l’occasione e Majakovskij venne insegnato nelle scuole come il poeta per eccellenza del regime, chiaramente in una modalità ridotta e in parte censurata, svilendo la sua forza espressiva. Il mito del poeta doveva essere sancito a tutti i costi per dimostrare che quel potere era la sua reincarnazione artistica: infatti le autorità sovietiche formarono un’apposita commissione diretta dal tedesco Oskar Vogt al fine di dissezionare il cervello del poeta, in ottemperanza a quell’ideologia materialista e riduzionista, senza riuscire, tuttavia, a scoprire i «segreti» del suo talento. Accadde lo stesso per il cervello di Lenin, utilizzato come «unità di misura» con la finalità di progettare «l’uomo nuovo», una pratica che tanto fa pensare all’ideologia nazista e suprematista.

Di quell’uomo, che con un linguaggio nuovo aveva cercato di cambiare il mondo attraverso la rivoluzione, tutto era stato stravolto, marginalizzato, reso icona e scorza vuota dell’autoritarismo. La sua lealtà si riassume proprio nel suicidio e ne testimonia la distanza. Se e quanto Lilja Brik si rese conto del fallimento è difficile dirlo, ma la sua intelligenza e il suo temperamento artistico ci fanno pensare alla deriva umana e ideologica vissuta dalla donna. In una delle interviste rilasciate in vita parlò del suo Majakovskij senza abiurare a nulla di quanto fatto, anzi rimarcò quanto fosse importante l’opera di quest’uomo per le future generazioni di giovani uomini e donne.

Il suicidio di Majakovskij secondo Lilja era un evento annunciato, pensato, voluto, e così ricorda: «egli ancora per la centomillesima volta mi parlava del suicidio, mi diceva che l’avrebbe fatta finita, perché non voleva diventare vecchio, malato». Tentò diverse volte di uccidersi fino al punto di riuscirvi, anche perché, aggiunge Lilja: «ci sarebbe da dire dell’altro; se le circostanze degli ultimi tempi fossero state di poco più gradevoli si sarebbe forse potuto evitare. A quali circostanze si appellò Lilja non è dato sapere con precisione, ma di sicuro la macchina del fango del regime aveva cominciato massicciamente a danneggiare l’uomo, il poeta, il rivoluzionario.

Le rivoluzioni in questo si assomigliano molto, per la loro innata utopia, per lo spirito di giustizia che le animano, per la necessità di stabilizzarsi e divenire, inesorabilmente, autoritarismo e bieca persecuzione. Lilja continuò tuttavia a segnalare che per Majakovskij il suicidio fosse «comunque» inevitabile: «egli voleva morire quando voleva lui e non quando avesse voluto il destino». Majakovskij odiava l’«infame buonsenso». Per tutta la vita insieme al terzo marito si dedicò alla diffusione dell’opera di Majakovskij. Quando nel 1978 scoprì di essere affetta da una grave malattia, Lilja Brik si suicidò a Peredelkino il 4 agosto.

 

  • Bruce Chatwin, Che ci faccio qui, Adelphi, Milano 1990.
  • Vladimir Majakovskij, Poesie, con un’intervista a Lilja Brik, a cura di Maria Roncali Doria, Newton Compton, Milano 1973.
  • Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, introduzione di Paolo Nori, Settecolori, Milano 2024.
  • , Speranza contro speranza, introduzione di Seamus Heaney, Settecolori, Milano 2022.
  • Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1988.
  • Renato Poggioli, I lirici russi: 1890-1930, Lerici, Milano 1964.
  • Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015.
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Piazzale Loreto perché sì https://www.carmillaonline.com/2025/04/28/piazzale-loreto-perche-si/ Sun, 27 Apr 2025 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88041 di Luca Baiada

Dicono che non deve piacerci, dicono. Dicono che fu una cosa brutta, dicono. Qualcuno dice anche che le cifre tonde degli anniversari non significano niente, che sono come tutti gli anni. Ma in tempi neri, mentre i neri occupano tutto, in Italia e fuori, quella fine meritata non la vogliamo ricordare?

Dicono che contano altre cose, dicono. Dicono che a fare la storia è solo l’economia, oppure la geopolitica, o anche le classi, oppure la geografia, o magari l’energia, o invece le materie prime, anzi la demografia. Tutto fa la storia, e le persone no?

E invece furono [...]]]> di Luca Baiada

Dicono che non deve piacerci, dicono. Dicono che fu una cosa brutta, dicono. Qualcuno dice anche che le cifre tonde degli anniversari non significano niente, che sono come tutti gli anni. Ma in tempi neri, mentre i neri occupano tutto, in Italia e fuori, quella fine meritata non la vogliamo ricordare?

Dicono che contano altre cose, dicono. Dicono che a fare la storia è solo l’economia, oppure la geopolitica, o anche le classi, oppure la geografia, o magari l’energia, o invece le materie prime, anzi la demografia. Tutto fa la storia, e le persone no?

E invece furono persone, a impadronirsi del potere. Persone, non cose, forze, numeri, astrazioni, formule, teorie. Lo fecero in pochi anni, tra la fondazione dei Fasci di combattimento, Milano 23 marzo 1919, e le leggi fascistissime dopo il delitto Matteotti del 1924. Furono quelle persone, a massacrare le condizioni del lavoro, della vita, dei rapporti umani. Furono loro, a distruggere la libertà. Vent’anni di macelleria sociale, di prepotenze, di ruberia organizzata, di ottundimento della coscienza, di bugie, di propaganda senza pause e senza ritegno. Furono loro, a scaraventare il popolo italiano in cinque guerre.

Furono loro, a vanificare in poco tempo i successi delle generazioni risorgimentali: loro ricostituirono il potere temporale del papa, quasi subito, nel 1929; loro consegnarono il paese ai tedeschi, pochi anni dopo. Poi per cacciare i tedeschi ci vollero gli Alleati, e adesso le basi degli Usa e della Nato sono ancora qui, anche quelle con armi atomiche, legate a catene di comando imperscrutabili. Se come compimento dell’Unità si guarda alla presa di Roma nel 1870, l’indipendenza dell’Italia è durata – amara realtà – meno della metà di questo secolo e mezzo. E c’è ancora chi dice patria ma si scalda al fuoco fatuo del Msi, liquidato da Pier Paolo Pasolini: «Arista / o tetro vegetale guizza cerea / nel mezzo la fiammella fascista»[1].

Furono loro, a dare al mondo una cattiva lezione. Lo strano popolo ficcato in mezzo al Mediterraneo, aggrappato a una penisola rugosa e a isole in mari diversissimi, rimasto per secoli accomunato da una lingua romanza contesa, sparsa in dialetti lontani sino all’incomunicabilità, e da una cultura con mille varianti orgogliose e capricciose, un popolo stretto da troppo tempo fra la miseria di tanti e il quieto vivere di pochi, aveva dato l’esempio con l’unificazione e col ridimensionamento del potere del clero. Ma di colpo, ecco che insegnava al mondo un modello e una parola, il fascismo, che ancora adesso elettrizza tutti gli sfruttatori, i prevaricatori e gli schiavisti del pianeta.

Chissà perché, di un po’ di pulizia ci si dovrebbe vergognare. Perché chi fa la cosa giusta poi deve dare spiegazioni, farsi l’esame di coscienza, pulirsi le unghie, pettinarsi, darsi il deodorante, mettersi sull’attenti. E anche così, chiedere scusa.

E non va bene che si debba distinguere: perché bisognava fare il processo pubblico, perché fra quelle camicie nere qualcuno era meno carogna, perché la Petacci poverina, perché qualcosa di buono c’era stato, in quegli anni.

E quanto agli argomenti di chi giustifica, in fondo non vanno neanche quelli: cercano il contrappeso, l’appoggio, la motivazione. Non è decisivo neanche il fatto precedente: la fucilazione degli antifascisti, nel 1944, nello stesso posto. Come se fosse accettabile un contrappeso, un prezzo gettato all’ultimo momento su una bilancia. Forse non vanno bene certi argomenti proprio perché giustificano, mettono ordine, e così finiscono per sottintendere una colpa, almeno un’accusa, un sospetto, un’ombra, una macchiolina. Proclamando l’innocenza, finiscono per incolpare.

Ma poche cose sono chiare, necessarie, come quella punizione magra, però punizione, e quel piazzale di Milano, disadorno allora e oggi. Uno slargo con una bruttezza confusa che scorre invariabile, coerente e parlante, dai casamenti dell’Ottocento e del primo Novecento sino a quelli dello sviluppo, poi della Milano da bere e poi della Milano da esposizioni, Milano che corre, Milano che non la ferma neanche il covid, Milano con la cocaina nelle acque di scarico. Quello snodo è un posto da illustrazioni in bianco e nero, di quelle di una volta, con la didascalia; eppure, «saluti da piazzale Loreto» sarà sempre tutt’altro che «saluti da Milano».

I signori del cannone e della cartapesta ebbero il loro degno palcoscenico finale, non c’è che dire. Un piazzale periferico, allora, e ancora adesso informe, convulso, da spartitraffico. Un posto anonimo e distratto. Un piazzale da distributore di benzina.

 

 

[1] Pier Paolo Pasolini, Comizio, in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2021, p. 27.

 

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Una divinità postumana che canta con l’autotune https://www.carmillaonline.com/2025/04/26/una-divinita-postumana-che-canta-con-lautotune/ Sat, 26 Apr 2025 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88144 di Chiara de Stefano

Opus – Venera la tua stella di Mark Anthony Green, USA 2025.

C’è qualcosa di spettrale e carnale in Opus – Venera la tua stella, primo lungometraggio del giovane regista Mark Anthony Green, approdato nelle sale italiane lo scorso ventisette marzo. Una lunga seduta medianica, in cui l’anima della vecchia stella del pop Alfred Moretti – incarnata con grazia ieratica da John Malkovich – aleggia come un idolo secolare piangente nella cattedrale profana del culto contemporaneo: la fama.

Green ci trascina infatti nei recessi arcani dell’America mistica, tra canyon che paiono scolpiti dalla volontà di un dio [...]]]> di Chiara de Stefano

Opus – Venera la tua stella di Mark Anthony Green, USA 2025.

C’è qualcosa di spettrale e carnale in Opus – Venera la tua stella, primo lungometraggio del giovane regista Mark Anthony Green, approdato nelle sale italiane lo scorso ventisette marzo. Una lunga seduta medianica, in cui l’anima della vecchia stella del pop Alfred Moretti – incarnata con grazia ieratica da John Malkovich – aleggia come un idolo secolare piangente nella cattedrale profana del culto contemporaneo: la fama.

Green ci trascina infatti nei recessi arcani dell’America mistica, tra canyon che paiono scolpiti dalla volontà di un dio edace e silenzi saturi di presagi, per narrare una storia che è insieme thriller, horror e allegoria perturbante.

Una villa-tempio sperduta nel nulla, chiesa e prigione, diventa teatro di un sabba estatico in cui critici, influencer e giornalisti – sibille del mondo patinato dello spettacolo – si radunano per ascoltare in anteprima il nuovo album del profeta-pop star Moretti. Ma è solo Ariel Ecton (Ayo Edebiri), la giovane protagonista redattrice con la t-shirt dei Radiohead, a scorgere sin da subito la dannazione e la perversione dietro la divinità pop: il culto, il rito e, infine, il sacrificio.

Per questi stilemi, Opus richiama altri celebri film come The Wicker Man (Robin Hardy, 1973), The Invitation (Karyn Kusama, 2015), Apostle (Gareth Evans, 2018), Midsommar (Ari Aster, 2019) e Speak No Evil (Christian Tafdrup, 2022). Green però tinge il suo film di un pop acido e nevrastenico, dove la tensione è perfino sensuale e l’estasi sonora diventa completa possessione di tutti i personaggi: sia dei Livellisti, gli adepti vestiti di blu, che degli ospiti in abiti eleganti e monocromatici come le vecchie pedine del Cluedo. La liturgia che ne deriva è una decomposizione rituale dell’identità: il sacrificio non è solo figurato, ma necessario. Ariel è l’offerta pensante, l’elemento deviante, e dunque, come afferma René Girard, il capro espiatorio perfetto, immolato sull’altare di un desiderio collettivo condizionato. Difatti, il meccanismo mimetico – l’imitazione isterica dei desideri altrui – trova qui la sua forma contemporanea: la subcultura sclerotica dei fan, l’idolatria digitale, la massificazione della devozione.

Dal punto di vista tecnico, Opus è una sinfonia elettrica in chiaroscuro: la saturazione cromatica della pellicola accompagna il lento climax degli eventi e la luce negli esterni, dominati da una luce naturale rarefatta, evoca un misticismo desolato.  Gli interni sono invece rappresentati come ossessivi, colmi di claustrofobia chic, ma eremitica. Per questo utilizzo della luce richiama il chiaroscuro del cinema espressionista tedesco, ma lo tinge di paillettes, danze estatiche e cibi fluorescenti.

La scenografia è metafora architettonica del vuoto interiore delle coscienze vuote e impazienti di essere colmate. Le stanze minimaliste e spoglie, svuotate di ogni appiglio alla quotidianità, sospingono i personaggi in un limbo identitario, ma li sospendono nel miraggio del lusso postmoderno.

Il sound design alterna vibrazioni psichedeliche e pulsazioni dance, pezzi orecchiabili che danno un ritmo alla narrazione. I silenzi, usati con sapienza musicale, sono pieni di presagi che rendono il corso degli eventi piuttosto prevedibile. Si intuisce presto il risvolto sacrificale già  nel suono martellante delle canzoni inedite che soffoca i suoni della normalità, per fare spazio a una nuova e inquietante armonia. La sonorità del film appare quindi come un’eco del rito sacrificale, che travalica la dimensione musicale e si fa anche visiva e psicologica.

L’inquietudine che il film lascia dietro di sé è simile a quella dei grandi miti tragici: il sacro non salva più, perché ha perso il suo volto. La stella fissa, eterna e impassibile, è il nuovo idolo: non brilla più per guidare, ma per annientare.

Green dunque non si limita a raccontare la dinamica del sacrificio: egli la trasfigura, la innalza a condizione ontologica. Moretti, profeta e carnefice, è l’immagine della divinità postumana, di un Dio algoritmico che finalmente non è più silente, ma canta con l’autotune.

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Guarda il cielo. Intervista con Matteo Fortuna https://www.carmillaonline.com/2025/04/26/guarda-il-cielo-intervista-con-matteo-fortuna/ Sat, 26 Apr 2025 05:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88066 di Vittorio Benzi e Domenico Gallo

Guarda il cielo è un fumetto realizzato da Matteo Fortuna e Simona Binni, e pubblicato da Tunuè. Il 26 aprile del 1945 a Lonigo, in provincia di Vicenza, il nonno di Matteo Fortuna, Giuseppe Fortuna, viene fucilato da un gruppo di tedeschi in fuga. L’Atlante delle stragi nazifasciste lo censisce con queste parole: “Fortuna Giuseppe, fu Emilio e Nogara Assunta, coniugato con Silvagni Letizia, padre di due figli, nato a Lonigo, di anni 32, sfolato da Genova, partigiano.” Era un partigiano appartenente alla brigata Garibaldi Martiti di Grancona.

Giuseppe Fortuna è uno dei tanti tra partigiani [...]]]> di Vittorio Benzi e Domenico Gallo

Guarda il cielo è un fumetto realizzato da Matteo Fortuna e Simona Binni, e pubblicato da Tunuè. Il 26 aprile del 1945 a Lonigo, in provincia di Vicenza, il nonno di Matteo Fortuna, Giuseppe Fortuna, viene fucilato da un gruppo di tedeschi in fuga. L’Atlante delle stragi nazifasciste lo censisce con queste parole: “Fortuna Giuseppe, fu Emilio e Nogara Assunta, coniugato con Silvagni Letizia, padre di due figli, nato a Lonigo, di anni 32, sfolato da Genova, partigiano.” Era un partigiano appartenente alla brigata Garibaldi Martiti di Grancona.

Giuseppe Fortuna è uno dei tanti tra partigiani e semplici cittadini falciata dalla rabbiosa ritirata tedesca e per mano dei fascisti, ormai in preda all’isteria e terrorizzati dal dover rendere conto delle loro azioni criminali. In realtà quasi nessuno pagò per quei delitti e per le stragi.

Il resoconto storico dell’episodio raccontato nel fumetto del nipote Matteo si trova, per esempio, nell’Atlante delle stragi nazifasciste.

Cominciamo con un testo tratto da Guarda il cielo, sono le ultime parole che Giuseppe Fortuna rivolge alla moglie: “Si dice sempre che l’unica cosa certa è la morte. Ma sai come la penso, che l’unica cosa certa è la vita. Fino a che viviamo, dobbiamo farlo nel modo giusto. Le azioni contano”.
E siccome le azioni contano, Matteo Fortuna, a un certo momento ha sentito il bisogno di compiere un’azione importante che era rimasta, forse a lungo, tra i suoi desideri. Qualcosa di intimo che riguarda la storia della sua famiglia. Vuoi dirci di che cosa si tratta e anche quando e perché hai sentito l’esigenza di raccontare questa storia?

Siete partiti da una parte importante del fumetto che riflette il mio modo di pensare. Spesso sono stato “accusato” di essere il classico uomo di poche parole e quindi, negli anni, mi sono sforzato di parlare un po’ di più con familiari, figli, amici; però continuo a pensare che le azioni e l’esempio siano quello che conta veramente. Quindi credo che la citazione che avete riportato mi rispecchi particolarmente, oltre al fatto che mi piacciono i detti popolari, come quello richiamato in questo testo.
Questa storia ce l’ho sempre avuta dentro. Mio nonno ha compiuto un’azione eroica che gli è costata la vita e, dal mio punto di vista, è stata una spinta per cercare di comportarmi in maniera coerente con il suo esempio. Della guerra, del fascismo e dell’antifascismo, per tanti anni non se ne è più parlato e, secondo me, era un bene; non se ne parlava più perché non si sentiva la necessità di farlo, perché certe conquiste erano date per assodate. Ultimamente purtroppo il fascismo è stato sdoganato e se ne parla come di un’idea politica normale; cosa che mi fa rabbrividire. Si suscitano reazioni simili al tifo da stadio, senza approfondire e, soprattutto, senza considerare che dietro a quelle idee ci sono stati tanti morti, che è quello che veramente conta.
Quindi ho pensato fosse il momento di mettere su carta questa storia, innanzitutto per la mia famiglia, poi anche per vedere se potesse interessare altre persone.
Abbiamo iniziato a lavorarci due anni fa con Simona Binni e, una volta finita, l’editore Tenué ha giustamente deciso di fare uscire il fumetto per il 25 Aprile. In questi due anni, invece di diminuire, problematiche e polemiche sul fascismo e l’antifascismo si sono ulteriormente accese. Questo per me non è un bene.
Il 25 Aprile era una festa gioiosa, festeggiata da tutti, mentre oggi è fonte di polemiche e scontro, perché è stata messa in discussione.

 Nello scrivere la tua storia avevi in mente un target di pubblico particolare, per esempio i ragazzi, e questo è in qualche modo in relazione alla scelta di fare un fumetto, anziché scrivere un romanzo? Com’è nata è nata questa idea?

Inizialmente non doveva essere un fumetto. Quando ho fatto le prime ricerche pensavo al classico romanzo, poi ho cominciato a pensare la storia come per immagini, quasi come un film. Per esempio, quando mio nonno cita all’inizio l’altro detto popolare, che in punto di morte ti passa tutta la vita davanti, io ho immaginato che mio nonno invece nei suoi occhi abbia visto il futuro. E per rappresentare questo vedevo una macchina da presa che faceva lo zoom sui suoi occhi e al loro interno scorrevano le immagini della sua famiglia dopo la sua morte. In quel momento ho capito che dovevo usare le immagini e siccome i soldi per fare un film non li avrei mai avuti, ho optato per il fumetto.
Ho la fortuna di avere un cugino che è del mestiere, Stefano Piccoli, in passato molto attivo come disegnatore, adesso più come organizzatore di eventi, come ARF, un importante festival del fumetto. Mi ha presentato Simona Binni, che inizialmente avrebbe dovuto occuparsi solo di adattare il soggetto al fumetto, poi però l’ho convinta a disegnare la parte di storia che riguarda il viaggio di mio padre negli anni ’70, senza i flashback; poi, piano piano, ne è rimasta sempre più coinvolta e alla fine ha disegnato sia la seconda parte, con gli avvenimenti del 1945, sia i flashback della prima parte. Alla fine ho convinto anche mio cugino a mettere le mani sui disegni, occupandosi in prima persona della postfazione a fumetti, che si affianca a quella classica testuale dello storico Carlo Greppi.

Sono contento di aver fatto un fumetto; penso che questa forma d’arte e di comunicazione meriti di essere valorizzata più ancora di quanto non lo sia già stata. Mi piace anche chiamarlo fumetto rispetto a graphic novel perché con i fumetti ci sono cresciuto.

Il target per cui ho pensato la storia è più adulto di quello dei ragazzi, diciamo “young adult”, poi quando ho cominciato a farlo girare nella cerchia di amici con figli più giovani ho notato che prendeva parecchio anche loro. Penso che possa essere letto a partire dai 10 anni, mi piacerebbe presentarlo nelle scuole; con Carlo Greppi abbiamo già programmato una presentazione al Salone del Libro di Torino in un evento dedicato agli studenti.

Tuo nonno ha sacrificato la propria giovane vita, per questo il tuo papà praticamente non lo ha neppure conosciuto. È stato difficile ricostruire la vicenda del nonno, dal punto di vista pratico ed emotivo? Quello che racconti è tutto vero o c’è qualcosa di immaginato?

La parte ambientata nel 1945 si basa su alcuni racconti familiari e, soprattutto, su due documenti storici che raccontano la liberazione di Lonigo, avvenuta il 26 e 27 aprile 1945. Mio nonno venne fucilato il 26 di aprile. Io e Simona siamo stati molto attenti a rispettare la vicenda storica il più fedelmente possibile, senza introdurre elementi di fantasia, anche per rispetto della memoria dei parenti ancora in vita di quelli che sono stati uccisi con mio nonno, di cui abbiamo riportato soltanto i nomi. Per questo motivo la parte dedicata allo scontro a fuoco, che avremmo potuto dettagliare e animare maggiormente, abbiamo preferito descriverla limitandoci ai tratti essenziali.

Invece la prima parte della storia, quella del viaggio di mio padre da Genova verso Lonigo, è immaginaria. Mi sono figurato mio padre che, nel 1975, nel trentesimo anniversario della Liberazione, tornasse al paese per commemorare suo padre e posare un fiore sotto la lapide che ricorda lui e gli altri che sono stati uccisi. Allora aveva più o meno la stessa età in cui era stato ucciso mio nonno, e si trovava in una analoga situazione famigliare, con due figli, io e mia sorella eravamo già nati, come lo erano lui e il fratello nel 1945.

Per descrivere quel viaggio abbiamo usato la tecnica del flashback, ma quei racconti sono veri. Due me li ha riportati mia nonna, uno mio zio, un altro proviene da altre persone. A parte quello del sogno di mio padre, un’idea di Simona chiaramente immaginata, sono tutti veri al cento per cento.

Anche il riferimento alla canzone si basa su una verità storica. Mio nonno materno mi cantava una canzoncina di Fred Buscaglione, allora ho immaginato che anche mio nonno paterno avesse fatto lo stesso con i suoi bambini. In quei tempi era in voga Maramao perché sei morto? di Mario Panzeri, che fu sospettata, e a ragione, di essere una presa in giro del potere fascista, in riferimento alla morte di Costanzo Ciano, consuocero di Mussolini.

La collaborazione con la disegnatrice Simona Binni ci sembra abbia raggiunto un notevole equilibrio tra testi, disegni e colori. Comunica positività e serenità, pur nella tragicità della situazione. Com’è stato esordire come soggettista e sceneggiatore di un fumetto? Qual è stato il tuo rapporto con Simona e come vi siete organizzati tra voi? 

Io e Simona lavoravamo via WhatsApp, ci scambiavamo messaggi per ricostruire tutti i dettagli in modo più veritiero possibile. Per partire le ho dato le fotografie di famiglia. Mio padre e mio nonno si somigliavano e lei ha creato dei volti così veritieri che ormai il volto che ricordo di mio padre è stato quasi sostituito da quello che ha disegnato lei. Poi ha fatto un lavoro di ricerca sugli abiti e su molti altri dettagli. Per esempio, il colore e la maniglia interna del Maggiolone su cui viaggia mio papà nel fumetto corrispondono proprio a quelli dell’auto che aveva.

Questo lavoro meticoloso di Simona ha portato molto realismo in ogni tavola.
Nella postfazione illustrata, mio cugino Stefano Piccoli ha usato le foto che gli avevo mandato per creare visivamente l’effetto dello sguardo sul futuro di mio nonno. Non potendole inserire nell’occhio, come avevo immaginato di fare con lo zoom di una cinepresa, le ha fatte fluire visivamente dal grammofono che suona.

Ci sono stati fumetti, film o narrativa che hanno influenzato la tua scrittura?

Nessuna in particolare, anche se certamente l’insieme delle tante letture che ho fatto hanno determinato qualche scelta. Il flashback è usuale quando si ricostruiscono storie del passato, così come quella dei giovani che vanno alla ricerca di chi ha vissuto determinati eventi per farseli raccontare. Paco Roca ha utilizzato entrambe le tecniche ne I solchi del destino, ambientato tra il presente e gli anni della guerra civile spagnola. C’è stato un momento in cui la Tenué pensava di commissionare la copertina a Paco Roca, ma quella disegnata da Simona era talmente bella e significativa che poi non se ne è fatto nulla. Se ci fate caso la posizione di mio nonno in copertina che guarda il cielo sognante è la stessa usata nel disegno che ritrae quando viene ucciso. Poi c’è il gioco di ombre generato dalla luce che filtra tra i rami e le foglie, il particolare delle scarpe tolte che fanno capire che lui camminava scalzo sull’erba. Tutti elementi che contribuiscono a definire il personaggio e denotano una grande sensibilità.

Nel testo e nei disegni ci sono diversi passaggi molto molto incisivi. Uno su tutti, l’incipit: “Dicono che quando stai per morire, in un istante ti passa tutta la vita davanti agli occhi… Bé… A me non è successo. Perché io ho visto il futuro”.  Un motivo che ritorna nel titolo Guarda il cielo e nei riquadri del finale. A noi sembra rappresenti l’essenza della rivolta di quella generazione, attraverso scelte etiche e coraggiose in cui le persone si sono sacrificate per gli altri. Dalle migliaia di singole scelte personali di solidarietà e coraggio, alimentate dal desiderio di un futuro di libertà e giustizia, di fatto sono nate la Repubblica Italiana e la Costituzione. Da quello che hai potuto ricostruire della vicenda di tuo nonno, secondo te quanta consapevolezza c’era nella sua generazione che quello che stavano facendo era qualcosa di così importante? Pensi che avessero una reale coscienza politica?

Non lo so, io credo che la maggior parte dei partigiani fosse animata da un impeto più che dalla consapevolezza, che in qualcuno sicuramente c’era, ma in molti penso si sia sviluppata successivamente. Io penso che quando senti di essere nel giusto puoi compiere un gesto che influenza gli altri e questi a loro volta altri ancora. I gesti non sono mai isolati; ho letto che il 70% delle pallottole usate nelle fucilazioni contro i civili e gli antifascisti non andarono a segno. Non è facile essere “buoni”, ma forse nemmeno essere “cattivi”.

Nella storia mio nonno colpisce con un pugno un ufficiale nazista, lo fanno prigioniero, insieme ad altri, ma non infieriscono su di lui e lo liberano; ed è proprio quello stesso nazista che finirà poi per catturarlo e per fucilarlo. Oggi, probabilmente, i ragazzi questo gesto non lo capirebbero, penserebbero che mio nonno, se lo avesse ammazzato, sarebbe sopravvissuto; lo giudicherebbero un ingenuo.
Ma i fatti si devono approfondire e serve spiegarli bene. Non infierendo sui vinti la cosa gli si è ritorta contro, ma lui è rimasto fedele al suo ideale di giustizia e di non violenza, e questo era per lui il messaggio più importante da tramandare. Dobbiamo aiutare i giovani a capire, a contestualizzare, anche per interpretare quello che succede oggi, come la tragedia in Palestina. Parlando di consapevolezza, questo è il tipo di consapevolezza che i giovani devono costruire e penso che le immagini di un fumetto possano essere utili.

Durante la guerra, a parte una componente di antifascisti che appartenevano ai partiti clandestini, si è unita la gente che non ne voleva più sapere della guerra e del Regime. Oltre ai partigiani che combattevano, esisteva un antifascismo diffuso costituito da atteggiamenti di rifiuto, di non collaborazione con il fascismo, che aiutava i partigiani e che praticava forme diffuse di disobbedienza. Atteggiamenti e piccole azioni che, progressivamente, iniziarono a essere praticate collettivamente e a livello di massa. La Resistenza è stata anche questo. Il libro di Claudio Pavone, Una guerra civile, parla di questo clima diffuso di antifascismo. Un sentimento di odio nei loro confronti che i fascisti sentivano, e forse per questo hanno compiuto violenze e stragi inutili durante la ritirata, tante soprattutto in Veneto, come nella storia di tuo nonno.

Carlo Greppi la chiama “ritirata aggressiva”. Da quello che ho potuto ricostruire, in quelle zone del Veneto non c’era stata un grande organizzazione, è stato un moto spontaneo.

Possiamo chiamare memoria la ricostruzione e la divulgazione delle singole vicende degli antifascisti. Ci sono moltissime pubblicazioni in Italia di piccoli editori o autofinanziate dalle associazioni o dalle famiglie. Migliaia di singole biografie che, dopo 80 anni, rischiano di scomparire per fare largo a una storia ufficiale spesso ambigua e opportunistica. Come pensi che questa memoria frammentata e diffusa, di cui Guarda il cielo da oggi fa parte, possa comporsi e diventare la storia della Resistenza italiana?

Intanto io penso sempre che il pluralismo delle informazioni sia indispensabile, non è così esatto che la storia la fa chi vince, diciamo che la scrive chi vince. Quindi è importante che restino le memorie scritte, non standardizzate. Greppi fa proprio quello di cui avete chiesto; in un suo libro parla dalle piccole storie singole che, raccolte insieme, fanno la Storia, e questo concetto lo cita anche nella postfazione. La postfazione è molto bella, si capisce che è sentita e immagino che il fumetto gli sia piaciuto, con la sua autorevolezza ci ha dato una consacrazione. Greppi è uno storico importante con posizioni che oggi vengono definite coraggiose, perché, tornando a quello che dicevamo all’inizio, oggi per affrontare certe tematiche occorre essere coraggiosi. Solo vent’anni fa non era così…


Oggi c’è la tendenza da parte della storiografia fascista di prendere singoli episodi decontestualizzati, privi di analisi numeriche, e di farne il paradigma di tutto un periodo, di un evento grande come la Resistenza e l’antifascismo. Al contrario l’episodio che vide protagonista tuo nonno non fu un caso “strano”; episodi analoghi ce ne furono tantissimi, sia di persone prese per la strada e torturate o uccise, come la ragazza con la bicicletta di Guarda il cielo, sia di gesti di coraggio come quello di tuo nonno. Recuperarne e preservarne la memoria è importantissimo.

I miei figli non sapevano niente della storia del loro bisnonno, io stesso non ne parlai mai con mio padre e con mio zio. Ma forse si tende a parlare con i nipoti più che con i figli.

Non so se hai letto la storia a fumetti di Paco Roca L’abisso dell’oblio, pubblicato in Italia da Tunuè, che racconta la vicenda delle fosse comuni in cui finirono gli antifascisti in Spagna. Il fumetto racconta una storia familiare e la ricerca dei corpi da identificare, usando l’analisi genetica, per restituirli alle famiglie. In Spagna è un progetto finanziato dallo Stato nell’ambito della Legge della Memoria. Credi che anche in Italia, come è stato il caso di tuo nonno, si debba procedere al recupero dei corpi e alla loro identificazione?

Credo che in Italia non succederà mai. Mio nonno stesso è stato sepolto in una fossa comune. Ho letto anch’io il libro di Paco Roca, molto recentemente. In Spagna c’è una sensibilità maggiore e una cultura cristiana un po’ più viva. Per me non è un grande problema che non ci sia la tomba di mio nonno, va bene anche la lapide che è stata posta a Lonigo, e quella di Villa Scassi a Genova, nel quartiere di Sampierdarena. Per mia nonna invece fu una cosa drammatica non sapere dove andare a pregare. Paco racconta molto bene questo sentimento degli anziani che indirizzano le ricerche, perché hanno ancora la memoria di quello che avvenne. Da noi non credo che succederà.

Abbiamo cominciato parlando di azioni che contano, ci avviamo a concludere e vorremmo tornare su questo punto. Tu hai lanciato un laboratorio veramente unico, CDM LAB, Il laboratorio delle ‘azioni buone’. Progetti concreti per un futuro migliore. Vuoi parlarcene?

Io mi occupo di shipping, la mia agenzia marittima si chiama CDM, che è l’acronimo di Crêuza de mä, la canzone di Fabrizio De André. Poi ho una squadra di calcio a cinque, CDM Futsal, anche quella una soddisfazione. Però la mia formazione è di altra natura, sono laureato in lettere a indirizzo storico medievale. Così in quest’ultimo periodo ho voluto dar sfogo un po’ anche al mio lato umanistico e umano e abbiamo fondato il CDM LAB, dove in realtà LAB sta per Le Azione Buone, non per laboratorio. Cerchiamo di proporre aspetti positivi della vita, un’informazione un po’ più “lenta”, gentilezza nel modo di porsi, ottimismo, uno sguardo su ciò che si può fare per migliorare quello che ci sta intorno. Abbiamo tanti progetti, il più importante è il nostro podcast L’ottimista cosmico, dove abbiamo avuto tanti ospiti, tra cui Vinicio Capossela. Mi fa piacere ricordare lui in particolare, sia perché ha letto il fumetto e mi ha lasciato un messaggio bellissimo che tengo per me, sia perché la sua canzone Staffette in bicicletta, mi piace pensare che parli anche della ragazza in bicicletta catturata dai nazisti nella mia storia. Che Maria fosse effettivamente una staffetta partigiana non lo sappiamo con certezza e quindi nel fumetto non lo diciamo, ma la canzone di Vinicio mi ha suggerito questa suggestione.
Sempre con il CDM LAB ogni lunedì facciamo il TG delle belle notizie. Ci occupiamo anche di cortometraggi: siamo coproduttori di un cortometraggio su Sandro Pertini, che uscirà a breve, e stiamo ultimando le riprese un altro cortometraggio su un episodio del giovane Don Andrea Gallo durante la Resistenza, scritto da me ed Edoardo Fantini, con la partecipazione di Bruno Morchio. S’intitola Il giovane Gallo.
CDM LAB è coproduttore anche del fumetto e i diritti d’autore andranno a finanziare un progetto che sponsorizziamo per la piantumazione di alberi nel centro storico di Genova. Perché si parla tanto di “green” e non c’è niente di più verde degli alberi.

Quando si scrive una storia resta tua fino al momento in cui la pubblichi, poi diventa patrimonio collettivo, a maggior ragione se intorno a un tema così importante, forse mai quanto oggi attuale, come la Resistenza.  Come ti senti rispetto a questo e quali sono le tue aspettative? Ti senti appagato per aver compiuto qualcosa che desideravi scrivere oppure questo è un punto di partenza?

Sto scrivendo una storia nuova, legata più alla mia professione nello shipping e ai miei viaggi. Poi c’è un’altra storia che spero di realizzare di nuovo con Simona. Ci sarà un seguito, l’idea è di continuare a proporre una visione positiva sul futuro.

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I rintocchi della storia https://www.carmillaonline.com/2025/04/25/i-rintocchi-della-storia/ Fri, 25 Apr 2025 05:09:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88131 Di Marco Rizzo

Insegnante e militante

La poesia che segue è stata scritta a inizio gennaio 2025. Per quanto dirlo valga come mera nota di contorno, chi scrive non è un poeta di professione, e anzi pensava di aver chiuso per sempre con la scrittura poetica occasionale almeno 8 anni fa. I forti scossoni a cui il recente ritorno della storia e della politica ci ha bruscamente riabituato, hanno evidentemente smentito anche questo assunto.

Cosa ben più importante da dichiarare, è che questo testo non esisterebbe senza alcune preziose conversazioni avute negli ultimi mesi con un compagno [...]]]> Di Marco Rizzo

Insegnante e militante

La poesia che segue è stata scritta a inizio gennaio 2025. Per quanto dirlo valga come mera nota di contorno, chi scrive non è un poeta di professione, e anzi pensava di aver chiuso per sempre con la scrittura poetica occasionale almeno 8 anni fa. I forti scossoni a cui il recente ritorno della storia e della politica ci ha bruscamente riabituato, hanno evidentemente smentito anche questo assunto.

Cosa ben più importante da dichiarare, è che questo testo non esisterebbe senza alcune preziose conversazioni avute negli ultimi mesi con un compagno ed amico, Niccolò Bosacchi. Ad esse, alla lettura del suo libro di poesie Disbrigo degli affari correnti (edito da Sensibili alle foglie nel 2024) e al precedente confronto a distanza con alcuni suoi scritti apparsi anonimamente sulla rivista Teatro di Oklahoma, devo questa poesia scritta “ad ora incerta”.  Con l’auspicio che chi leggerà immediatamente e ardentemente provveda a organizzarsi con i propri compagni ed amici per sparare agli orologi, prima che siano loro, a fermarsi per sempre…

I rintocchi della storia
Non li abbiamo sentiti arrivare.
Storditi da social e televisione
dall’illusione che il centro è il centro
che civiltà e barbarie mai si intersecano
– esercitare alla stupidità
aprirà il varco alla menzogna –
al riparo dalla verità, non li abbiamo sentiti.
Ora sono qui, sempre più forti,
i rintocchi della storia.
Una guerra giusta
una guerra a grappolo
una guerra green
la collocazione delle risorse
la linea del fronte
la rotta della moneta
– la continuazione del mercato
con altri mezzi
(o esattamente quelli) -.
Piccole mani inesplose
in cerca di ordigni dispersi
costruiti da altre mani
(le nostre?)
per il profitto di altre mani
ridisegnare le carte
dover ricomporre le facce
Un genocidio                              una striscia di nuovi hotel
per legittima difesa                   sul sangue e le macerie
cancellare un popolo                il business di ricostruire
E sapere e vedere
tutto questo
affogare comunque
nell’artificio digitale.
E aggrapparsi
agli anni i mesi i giorni
ai non ci succederà
al male sempre altrove
– le forme vuote della storia -.
E aggrapparsi
alle ore i minuti i secondi
all’ordine di evacuazione
all’interruzione di corrente
all’orologio fermo
(al sole prima che sia freddo?)
le forme piene della storia -.

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Elogio dell’eccesso / 8 – L’atlante del dolore di William T. Vollmann https://www.carmillaonline.com/2025/04/23/elogio-delleccesso-7-latlante-del-dolore-di-william-t-vollmann/ Wed, 23 Apr 2025 19:20:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87979 di Sandro Moiso

Wulliam T. Vollmann, L’atlante, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 545, 20 euro

Alcune puttane lo fissarono immobili. Altre in stivaloni gli fecero ciao e gli fischiarono dietro allegramente. Andò da tre di loro e disse: Scusate, non ho più soldi, ma potrei baciare una di voi? Va bene, caro, disse una rossa. Ti bacio io. Succhiò un attimo la gomma da masticare, andò da lui, lo prese per la testa e gli sputò in faccia (W.T. Vollmann – Cinque notti solitarie. Berlino, Germania 1992)

Se c’è un tratto che colpisce nei maggiori autori nordamericani degli ultimi decenni [...]]]> di Sandro Moiso

Wulliam T. Vollmann, L’atlante, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 545, 20 euro

Alcune puttane lo fissarono immobili. Altre in stivaloni gli fecero ciao e gli fischiarono dietro allegramente. Andò da tre di loro e disse: Scusate, non ho più soldi, ma potrei baciare una di voi?
Va bene, caro, disse una rossa. Ti bacio io. Succhiò un attimo la gomma da masticare, andò da lui, lo prese per la testa e gli sputò in faccia (W.T. Vollmann – Cinque notti solitarie. Berlino, Germania 1992)

Se c’è un tratto che colpisce nei maggiori autori nordamericani degli ultimi decenni (Auster, De Lillo, Wallace, Pynchon) è sicuramente quello di aver indirizzato la loro letteratura verso una sorta di smaterializzazione, in cui la realtà è spesso rappresentata più da simboli che dalla concretezza dei fatti cui ci aveva abituato il realismo di tanti autori statunitensi precedenti.

Un risultato che sembra dovuto, più che alle riflessioni sulla “leggerezza” contenute nelle Lezioni americane di Italo Calvino1, all’inevitabile influenza culturale esercitata sulla stessa letteratura dal processo, avvenuto in Occidente nel corso degli ultimi quattro decenni in ambito economico e produttivo, che ha portato al trionfo della produzione immateriale su quella concretamente industriale e del capitale fittizio su quello investito nella produzione industriale di beni materiali.

Una sorta di guerra che vede simbolicamente, ma non soltanto, scontrarsi, da un lato, la “volatilità” finanziaria dei giganti del NASDAQ2 e, dall’altro, l’industria manifatturiera che l’attuale presidente statunitense sta cercando di riportare, non senza difficoltà, negli Stati Uniti, insieme al lavoro, da anni in caduta libera nel settore un tempo sviluppatosi in quella che oggi viene ancora definita Rust Belt.

Una “guerra” in cui lo scrittore e saggista americano William T. Vollman sembra aver scelto di schierarsi dalla parte della Rust Belt, non tanto per il contenuto dei suoi scritti, quanto piuttosto per essersi messo, fin dalle sue prime opere, sulle tracce della concretezza del mondo, convinto che dovesse ancora esistere e che ha saputo ritrovare in ogni occasione possibile. Seguendo percorsi allo stesso tempo simili eppure molto diversi da quelli di Hemingway, Faulkner, Dos Passos, Steinbeck e dello stesso Kerouac, i cui viaggi on the road rappresentavano una scusa per incontrare le varietà di una società sospesa tra il benessere del dopoguerra e il desiderio di fuggirlo.

Occorre partire da Kerouac, infatti, per comprendere i viaggi, spesso pericolosi, intrapresi da Vollmann in ogni angolo degli Stati Uniti e del mondo: da San Francsco a New York e dal Madagascar all’Afghanstan fino alla Thailandia e alla Cambogia. A differenza del più significativo scrittore della beat generation, però, i suoi viaggi non avvengono solo nel tempo sincronico del presente della sua scrittura, ma anche lungo diverse coordinate temporali.

Ripercorrere il passato e le origini degli attuali States, o dei fatti che condussero e accompagnarono il secondo conflitto mondiale oppure, ancora, la lunga onda della violenza che sembra aver accompagnato la storia della specie umana, costituisce il nerbo di tutta la sua letteratura in cui il presente non può esistere senza il passato, mentre il passato non avrebbe senso alcun se non ne si ritrovasse ancora traccia nella contemporaneità.

Ma il filo rosso che attraversa crudelmente tutte le sue opere, sempre sospese tra cronaca, autobiografia e invenzione, è rappresentato dal dolore che sembra accompagnare l’esistenza in ogni suo attimo. Che si tratti dei nugoli di zanzare che tormentano selvaggiamente i viaggiatori nelle terre del Nord americano, oppure di quello mascherato da sorrisi delle giovani prostitute dell’estremo oriente oppure malgasce e tedesche, o, ancora, la solitudine di uomini che cercano nel sesso a pagamento un amore perduto o forse mai incontrato, il dolore sembra non abbandonare mai gli esseri umani durante la loro esistenza.

Le storie dei soldati, guerriglieri, nativi americani soppressi con le armi e con il vaiolo, oltre che di esploratori destinati soltanto ad affacciarsi sul nulla dell’esistenza, si accompagnano anche a quelle dei danni, e quindi metaforicamente al dolore, subiti dall’ambiente e dalle altre specie animali. Che si tratti delle zone colpite dal disastro nucleare di Fukushima o delle foche uccise dagli Inuit oppure dai ben più avidi e scellerati cacciatori “bianchi”, le manifestazioni del dolore, fisico e psichico, non cessano mai. In una sorta di muto colloquio dell’autore con un fato che non veste nemmeno i panni razionali della Natura dialogante con un islandese di una delle più note Operette morali di Giacomo Leopardi.

Però, più che Leopardi che, per l’epoca in cui visse, seppe leggere in senso materialistico lo strazio delle vicende umane, individuali e collettive, in Vollmann a trionfare è lo sguardo addolorato, spesso rabbioso, di Louis-Ferdinand Céline. Quello dell’uomo che si rivolta contro le sue condizioni di esistenza, senza però mai intravedere un filo di speranza, impossibilitato a ritrovare il filo di quell’umana social catena che nella Ginestra leopardiana poteva, almeno, fungere da possibile, e forse unica, consolazione.

Nei testi di William T. Vollmann siamo quindi lontani anni luce da qualsiasi forma di leggerezza o immaterialità mentre i suoi simboli sono sempre estremamente concreti, fatti di carne e di sangue, poiché su un altro versante della letteratura si pone l’autore, lontano sia dalla ricerca del sensazionalismo politico e sociale ricercato dagli scrittori muckraker della fine del XIX secolo che dal distacco della scrittura dall'”oggetto” narrato.

Vollmann, invece, guarda in faccia il dolore e ce lo sbatte sul muso, senza inutili pietismi e senza mai risparmiarci il sangue, la merda, la puzza, lo sperma che spesso lo accompagnano. Come per Cèline, l’invito rivolto al lettore è lo stesso: accomodati al mio desco e consuma con me questo piatto indigesto e quasi sempre ripugnante oppure lasciami perdere a vai a farti fottere da chi immagina e parla di un mondo migliore. Magari anche divertente.

Roba per stomaci forti, per proseguire con la metafora gastronomica, di cui il testo pubblicato nel 2023 da minimum fax rappresenta il menù sostanzialmente completo, dagli antipasti ai secondi piatti, dolci assolutamente esclusi. Dall’estremo Nord alla Jugoslavia devastata dalla guerra civile; dalla Somalia alle autostrade americane, dalla Thailandia a Pompei: come si è già detto, non c’è quasi terra o contesto umano che William Vollmann non abbia esplorato e raccontato.

L’atlante costituisce così il diario di viaggio di questa erranza continua e irrequieta, ricostruita attraverso cinquantadue “capitoli” diseguali per lunghezza e per tono, ma accomunati dallo stesso brutale incontro/scontro con la vita concreta. I frammenti e i racconti sono organizzati in una struttura palindroma: il primo testo viene ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo, e il racconto centrale contiene tutti gli altri, come una silloge ideale. Alcuni testi rappresentano una versione compressa dei libri che Vollmann al momento della pubblicazione aveva già scritto. Mentre altri anticipano, in qualche modo, quelli ancora non scritti all’epoca della loro stesura.

William Tanner Vollmann è nato a Santa Monica, California, il 28 luglio 1959 e ha vissuto in seguito nel New Hampshire, a New York e San Francisco. Quando aveva nove anni, la sorella di sei anni annegò in uno stagno e lui si sentì responsabile della sua morte e, secondo lo scrittore, questa perdita avrebbe finito con l’influenzare gran parte del suo lavoro.

Dopo l’università, frequentata alla Cornell di Ithaca, lavorò come segretario in una piccola compagnia di assicurazioni, a San Francisco, per alcuni mesi e con i soldi ricavati da questo impiego, partì per l’Afghanistan durante l’invasione sovietica, scrivendo poi le sue esperienze in An Afghanistan Picture Show, or, How I Saved the World (Afghanistan picture show. Ovvero, come ho salvato il mondo, Alet, Padova 2005 e minimum fax, Roma 2020) pubblicato nel 1992, quasi dieci anni dopo quel primo viaggio.

Libro in cui racconta a posteriori un’esperienza sostanzialmente fallimentare, attraverso uno sguardo più adulto e disincantato, capace di guardare senza nostalgia al proprio io più giovane e ingenuo, che riusciva a porre le domande più sbagliate alle persone sbagliate, mentre si contorceva tra i dolori della dissenteria. Tra conversazioni piene di equivoci ed estenuanti camminate nell’impervio territorio afgano, trascinato e talvolta trasportato pietosamente dai mujahiddin, lo scrittore mette in scena l’idealismo ingenuo e il colonialismo dello sguardo americano sul mondo, in un’opera ibrida che si muove già, come molte altre successivamente, tra romanzo e diario, saggio storico e reportage. Che è per molti versi assimilabile agli scritti raccolti da Mark Twain sotto il titolo Gli innocenti all’estero in cui lo scrittore, più che ai paesi visitati durante diversi viaggi intorno al mondo, guardava ai comportamenti dei suoi concittadini messi al cospetto di una realtà molto diversa da quella della madrepatria da cui provenivano.

Successivamente Vollmann avrebbe pubblicato scritti di viaggio e articoli per la rivista «Spin», per il «New Yorker» e nella «New York Times Book Review», mentre all’inizio del 2003, dopo molti rinvii, ha pubblicato Rising Up and Rising Down: Some Thoughts on Violence, Freedom and Urgent Means (San Francisco, McSweeney’s Books, 2003), un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine, di cui una versione ridotta a un solo volume, di circa mille pagine, è stata pubblicata l’anno seguente da Eco Press (Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure d’emergenza, Mondadori, Milano 2007; nuova edizione minimum fax, Roma 2022).

Elaborato nel corso di vent’anni, il testo si basa da un lato su un colossale lavoro sulle fonti (filosofia, teologia, biografie di tiranni, signori della guerra, criminali, attivisti e pacifisti), dall’altro su una serie di esperienze dirette, spesso estreme, che hanno portato l’autore nel cuore dei conflitti di fine Novecento e nelle zone più degradate delle grandi metropoli. Con l’attenzione rivolta sia a figure storiche che a persone comuni che della violenza hanno fatto un metodo, di difesa o di offesa: tutti abbracciati da uno sguardo profondo e partecipe.

Opera cui è possibile avvicinare anche Europe Central, che tratta di un ampio gruppo di personaggi coinvolti nella guerra tra Germania nazista e Unione Sovietica nel corso del secondo conflitto mondiale, che ha vinto nel 2005 il National Book Award per la narrativa (Mondadori, Milano 2010.). Romanzo che può ricordare, per molti versi, Vita e destino (in russo Жизнь и судьба, Žizn’ i sud’ba) di Vasilij Semënovič Grossman, scritto in Russia nel 1959 e pubblicato in Svizzera soltanto nel 1980, sedici anni dopo la scomparsa dell’autore (ed. italiane: Jaca Book, Milano 1982; Adelphi, Milano 2008), drammaticamente incentrato sugli avvenimenti ruotanti intorno alla battaglia di Stalingrado e di cui si parlerà nel prossimo futuro in questa stessa serie di articoli.

Sempre di carattere storico è un’altra opera monumentale di Vollmann, ovvero il ciclo di romanzi I sette sogni: un libro di paesaggi nordamericani, previsto in sette volumi, di cui pubblicati fino ad ora soltanto cinque e del quale in Italia sono stati tradotti tre titoli: La camicia di ghiaccio (The Ice-Shirt, New York, Viking, 1990; trad. italiana Alet, Padova 2007), Venga il tuo regno (Fathers and Crows, New York, Viking, 1992; Alet, Padova 2011) e I fucili (The Rifles, New York, Viking, 1994); Minimum Fax, Roma 2018) I due titoli non ancora pubblicati in Italia sono Argall: The True Story of Pocahontas and Captain John Smith (New York, Viking, 2001) e The Dying Grass (New York, Viking, 2015). Mentre i due annunciati e mai pubblicati sarebbero: The Poison Shirt e The Cloud-Shirt.

Si tratta, com’è facilmente intuibile dai titoli, di una lunga e sofferta narrazione della conquista europea del continente nord-americano e della fine delle società native conseguita a ciò, dai tempi dell’arrivo dei Vichinghi alla fine degli Indiani delle pianure, passando per la cristianizzazione dei nativi canadesi e la colonizzazione tecnologica degli Inuit. Raccontando un mondo che è scomparso non soltanto per quanto riguarda le differenti etnie e le loro tradizioni e forme di organizzazione sociale, ma anche, e talvolta soprattutto, dal punto di vista ambientale.

Ad uno dei romanzi, I fucili, rimanda uno dei racconti pubblicati sull’Atlante: Un vecchio dai vecchi kamik grigi – Coral Harbour, isola di Southampton, Territori del Nordovest, Canada (1993).
Tutti accompagnati dalla precisazione della località in cui sono ambientati e, in un apposito dizionario geografico posto all’inizio dell’antologia, dalle precise coordinate spaziali e geografiche, che le indicano in termini di longitudine e latitudine. In questo caso specifico: 64.10 Nord – 83.15 Ovest. Una precisione che non è pedanteria, ma attenzione a mappare esistenze, storie e drammi destinati a costruire un autentico reticolo del dolore sulla superficie terrestre e a penetrare più in profondità nella coscienza del lettore.

Ma l’opera che, per quanto riguarda chi stende queste note, pare più adatta a riassumere la visione del mondo dello scrittore nordamericano è la cosiddetta Trilogia della prostituzione, composta da tre testi di cui soltanto due pubblicati per ora in Italia: Puttane per Gloria (Whores for Gloria, New York, Pantheon Books, 1991; Mondadori, Milano 2000 e minimum fax, Roma 2024), Storie della farfalla (Butterfly Stories: A Novel, New York, Grove Press, 1993; Fanucci, Roma 1999 e minimum fax, Roma 2019) e The Royal Family (New York, Viking, 2000).

Storie e cronache in cui la ricerca della soddisfazione sessuale e la delusione che deriva dai rapporti con donne obbligate ad “offrirla” permette a Vollmann di esplorare fino in fondo i danni provocati dalla concezione spesso superficiale che un Occidente ricco e colonialista ha del mondo, anche quando questo sembra assumere sembianze innocue, turistiche, umanitarie o, peggio ancora, romantiche. Storie di emarginazione, abbrutimento, miseria e ignoranza che alcuni racconti contenuti nell’antologia sottolineano con vigore, anche se magari in poche pagine: Inutile piangere – Bangkok, provincia di Phra Nakhon-Thumburi (1993); Cinque notti solitarie – San Francisco, California, Usa (1984) – New York, Usa (1990) – Berlino, Germania (1992) – Antananarivo, Madagascar (1992) – Nairobi, Kenya (1993; Storie della farfalla (1 e 2). Queste ultime quasi tutte ambientate a Phnom Penh, Cambogia oltre che a Bangkok, Thailandia e a Sacramento, California tra il 1991 e il 1994.

Nella vita privata, Vollmann rifiuta la fama letteraria e l’utilizzo di dispositivi moderni quali cellulari e carte di credito e viene talvolta descritto come misantropo e schivo, tanto che in un saggio del 2023, intitolato Life as a Terrorist, Vollmann ha rivelato quanto l’attenzione ai temi di “anti-progresso” e “anti-industrializzazione” dei primi lavori abbia cambiato la sua vita, descrivendo, utilizzando proprio i file ufficiali, ottenuti attraverso il Freedom of Information Act, l’inchiesta a suo carico condotta dal Federal Bureau of Investigation alla metà negli anni novanta, ritenendolo sospettato nel caso Unabomber.

Oltre a diversi romanzi, spesso ancora inediti in Italia, Vollmann ha pubblicato varie raccolte di racconti: I racconti dell’arcobaleno (The Rainbow Stories, New York, Atheneum, 1989 – Fanucci, Roma 2001); Tredici storie per tredici epitaffi (Thirteen Stories and Thirteen Epitaphs, New York, Pantheon Books, 1991- Fanucci, Roma 2005 e minimum fax, Roma 2025) e Ultime storie e altre storie (Last Stories and Other Stories, New York, Viking, 2014– Mondadori, Milano.2016).

Tra le opere lontane dalla fiction vanno segnalate almeno quelle pubblicate in Italia che, oltre a Come un’onda che sale e che scende, comprendono I poveri (Poor People, New York, Ecco, 2007- Minimum Fax, Roma 2020) e Zona proibita. Un viaggio nell’inferno e nell’acqua alta del Giappone dopo il terremoto (Into the Forbidden Zone, New York, Byliner, 2011– Mondadori, Milano 2012). quest’ultimo recensito qui su Carmillaonline.


  1. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (Garzanti 1993) è un libro di Italo Calvino basato su una serie di lezioni preparate in vista di un ciclo di sei discorsi da tenere all’Università di Harvard per l’anno accademico 1985-1986. Fu pubblicato postumo nel 1988, vista la morte improvvisa dell’autore prima della partenza per gli States.  

  2. National Association of Securities Dealers Automated Quotation, ovvero Associazione nazionale degli operatori in titoli con quotazione automatizzata, primo esempio al mondo di mercato borsistico elettronico, che costituisce, essenzialmente, l’indice dei principali titoli tecnologici della borsa americana in cui sono quotate compagnie di molteplici settori, tra cui quelle informatiche come Microsoft, Cisco Systems, Apple, Googl, Facebook, Amazon e Yahoo, basato esclusivamente su una rete di computer e sulla capitalizzazione in borsa dei medesimi titoli.  

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Severance – Scissione: nuove forme di schiavismo nel tardo capitalismo https://www.carmillaonline.com/2025/04/22/severance-scissione-nuove-forme-di-schiavismo-nel-tardo-capitalismo/ Tue, 22 Apr 2025 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87682 di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

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di Fosca Gallesio

Un’inquadratura plongée dall’alto mostra un grande tavolo su cui giace una donna priva di sensi, da un altoparlante da tavolo una voce maschile chiede “Come si chiama?” La donna riprende coscienza e l’altoparlante le chiede di rispondere a un breve questionario. La donna infastidita cerca inutilmente di uscire dalla porta chiusa, non capisce dove si trova né perché. Poi, quando accetta di rispondere alle domande, è presa da un senso di angoscia: non sa rispondere, non sa il suo nome, non sa dove è nata, né come si chiamano i suoi genitori. Nulla, una tabula rasa.

Questo è il surreale inizio di Scissione – in originale Severance – una brillante serie distopica, che racconto di un mondo dove le persone possono scindere la propria coscienza tra lavoro e vita privata. Grazie a un microchip impiantato nel cervello, possono creare un alter-ego di se stessi che esiste solo per lavorare: è sveglio e attivo solo nei luoghi e negli orari di lavoro e non ha nessun ricordo della sua vita fuori dall’ufficio. Se il titolo italiano sembra rimandare al concetto di personalità scissa (che in inglese si dice invece split personality), il titolo originale Severance, oltre a significare separazione, viene usato nell’ambito lavorativo per indicare la liquidazione dopo il licenziamento (severance pay). E infatti più oltre alle implicazioni psicologiche della scissione, la serie vuole riflettere sulle dinamiche del lavoro, su come il rapporto sbilanciato tra lavoro e vita privata possa influire sulla nostra personalità e soprattutto sulle dinamiche di potere e controllo messe in atto dai datori di lavoro per ottenere il massimo profitto dagli impiegati.

Nella prima scena assistiamo a quella che è a tutti gli effetti la nascita di un interno (innie) – così vengono chiamate le coscienze lavoratrici, in contrapposizione agli esterni (outies) che li hanno generati e vivono la vita normale fuori dall’ufficio. Il tavolo da riunioni è come un grembo materno in cui la nuova coscienza si risveglia, adulta e consapevole di tutte le nozioni comuni, ma del tutto ignara della sua identità e senza alcun ricordo personale. Questi interni vengono chiamati solo con il nome proprio, seguito appena dall’iniziale del cognome, una rappresentazione della loro assoluta mancanza di storia.

La serie, trasmessa da Apple TV nel 2022 e ora alla seconda stagione, è stata creata dal quasi esordiente Dan Erickson ed ha visto la luce grazie alla produzione e alla regia di Ben Stiller, che molti conoscono soprattutto come attore di commedie, ma che ha all’attivo diversi film da regista e, soprattutto in televisione, si è dedicato a progetti drammatici (consigliatissima la serie Escape at Dannemora). Erickson racconta che l’idea per Scissione gli è venuta sperimentando sulla propria pelle l’alienazione del lavoro da ufficio, quando, prima di avere successo come sceneggiatore, lavorava per una ditta produttrice di porte. La ripetitività e il senso di inutilità del proprio lavoro lo ha portato a immaginare di poter dimenticare le ore passate in ufficio, anzi di poter evitare del tutto di esperirle. Da qui l’idea della scissione: una tecnologia che permette di creare un doppio di sé che vive solo per lavorare. Questo concept fantascientifico non è altro che una metafora dello sfruttamento dei lavoratori e del lavaggio del cervello da parte delle aziende, che hanno esigenza di eliminare qualsiasi elemento di distrazione e disturbo per avere persone completamente dedite alle loro mansioni, anzi che vivono solo per questo, immolate sull’altare dell’efficienza e della produttività.

L’aspetto più crudele della scissione è che gli interni non sono altro che schiavi fatti schiavi da se stessi: infatti il responsabile della loro vita da incubo, reclusi nell’ufficio, è il loro esterno, quindi l’altro se stesso. Un altro di cui non sanno nulla, ma che decide del loro destino, un altro così vicino, ma eternamente irraggiungibile.

Ma il vero cattivo della serie è la Lumon, la mega-compagnia biotech che ha inventato il microchip e vive grazie al lavoro degli impiegati scissi. La serie mostra l’azienda come una struttura di potere opprimente, basata su pratiche che esaltano un culto della personalità del fondatore (il signor Kier) e legano gli impiegati in una forma di devozione, che ricorda il fenomeno delle sette. La Lumon (come molte aziende reali) ha un codice etico e una lista di principi, che danno al lavoro un aspetto vocazionale, che serve a giustificare l’esistenza dei lavoratori scissi. E questa devozione si spinge fino alla scissione, alla creazione di persone che per tutta la loro esistenza avranno l’unico scopo di lavorare per la Lumon, che sono vive solo grazie e per l’azienda.

La Lumon rappresenta tutte le grandi aziende che cercano di migliorare la propria immagine aderendo a grandi ideali e proclamando di avere degli alti obbiettivi etici, mentre l’unico loro interesse è il profitto e lo sfruttamento sempre maggiore del plusvalore dato dai lavoratori. Lo stesso Erickson racconta come i datori di lavoro vogliano far sentire i dipendenti come una famiglia, convincendoli che hanno uno scopo più alto del mero guadagno (per esempio lo slogan di Starbuck è “Non facciamo solo caffè, ma rendiamo il mondo un posto migliore”). Questa identificazione del lavoratore con la mission aziendale non è solo disturbante, ma crea una vera alienazione da se stessi, dai propri obbiettivi e desideri personali. La società tende a identificare le persone con il loro lavoro: si dice “tu sei un avvocato, un commesso, un operaio”, ma questo in realtà non dice assolutamente nulla della persona. Questo paradosso è mostrato molto bene in una scena in cui il protagonista Mark va a cena con delle persone che gli chiedono che lavoro faccia e lui con imbarazzo ammette di essere un lavoratore scisso e quindi di non avere alcuna idea di quale sia il suo lavoro. La scena mette in evidenza come la separazione della coscienza, che potrebbe apparire desiderabile, in realtà finisca per creare due personalità parziali che non riescono a trovare senso nella propria esistenza. Mark prima faceva il professore universitario, un lavoro appassionante e soddisfacente, mentre ora si ritrova incapace di dare una forma a se stesso perché ha scelto di cancellare il lavoro dalla propria esperienza di vita; dall’altra parte il suo interno è altrettanto incompleto, non avendo alcuna identità a parte essere un impiegato.

Un aspetto particolare della serie è il tono della narrazione che, pur partendo da un presupposto da thriller fantascientifico alla Black Mirror, sceglie di essere una tragicommedia umana, venata di ironia surreale e sarcasmo sociale. Gli autori citano come riferimenti film come Brazil (dove è messa in scena una tecno-burocrazia opprimente), Matrix e The Truman Show (che mettono in discussione il rapporto reale/immaginario) e Being John Malkovich, dove è evidente il discorso sull’identità; ma ci sono anche riferimenti beckettiani nella dilatazione temporale sospesa che i protagonisti interni vivono negli spazi dell’ufficio. La serie ha un particolare tono malinconico, con elementi umoristici nel racconto paradossale della vita lavorativa degli scissi, che la rende uno dei più interessanti prodotti seriali degli ultimi anni.

Al centro della storia c’è Mark Scout che ha deciso di fare la scissione dopo l’improvvisa morte della moglie: incapace di superare il lutto, Mark ha scelto di rimuoverlo dal suo cervello per otto ore al giorno, ma la sua vita da esterno rimane arida e senza gioia, gli unici rapporti sociali li ha con la sorella e il marito di lei, mentre lui sembra condannato a una perenne solitudine. Il suo stato emotivo è messo in mostra anche attraverso l’ambientazione: una provincia americana invernale, segnata dalla monotonia dei grigi e dall’atmosfera gelida e ovattata del silenzio della neve
Ma dall’altra parte c’è anche Mark S., l’interno che lavora per la Lumon, che mostra invece i lati positivi del carattere di Mark. L’interno è infatti una persona dal cuore gentile, affezionato ai suoi colleghi di lavoro, sinceramente motivato a fare del mondo un posto migliore e per questo, almeno all’inizio, lo vediamo dedicarsi con entusiasmo al lavoro.

A fare da contraltare alla spensierata vita di Mark S. c’è Helly R., la giovane donna che abbiamo visto all’inizio, appena arrivata nel reparto di scissione, che non riesce ad accettare la sua nuova condizione. Nelle prime puntate Helly fa ripetuti tentativi di fuga, ma ogni volta che scappa dalla porta del piano della scissione, si trova a rientrarvi subito dopo. Questo perché da interna non ha alcun potere, è la sua controparte esterna che decide come vivere e la costringe ad essere al lavoro ogni giorno. Helly non può scegliere perché ogni volta che si trova fuori dall’ufficio non è più cosciente e l’esterna in un video in cui le dice esplicitamente: “Tu non sei una persona, io sono una persona. Tu non puoi decidere.”

Altri due personaggi completano il reparto di Macrodata refinement dove lavorano i personaggi: sono Dylan G. e Irving B. (interpretato da uno straordinario John Turturro). Entrambi rappresentano dei topoi dell’impiegato: Dylan è ossessionato dalla produttività e ambisce a degli inutili premi aziendali (dei ridicoli aggeggi anti-stress tipo trappole per le dita), mentre Irving appare rigidamente identificato con gli astratti principi etici della Lumon, ma in realtà è perseguitato da inquietanti visioni e finirà per sfidare la policy aziendale per amore.

I quattro impiegati del reparto sono supervisionati dall’inquietante Mr. Milchick (che non ha fatto la scissione), un uomo con un eterno sorriso stampato in faccia, dai modi affettatamente gentili, che rappresenta la facciata ipocrita della Lumon e l’atteggiamento di benevola indulgenza e controllo costante che l’azienda ha per i propri impiegati, che tratta come bambini da disciplinare. In effetti gli interni hanno una coscienza giovane e ingenua e lo vediamo nel modo in cui gioiscono delle ridicole gratifiche che l’azienda offre loro, che sono un’ambita variazione dalla routine del lavoro al computer. Così nelle puntate vediamo la “musical dance experience”, un momento di svago in cui si balla e si festeggia, e i i momenti di team building, con i giochi in cui a turno si racconta la propria vita (anche se gli interni hanno ben poco da raccontare) e anche le feste di saluto per il pensionamento, che in realtà per gli interni significa la fine della loro esistenza ed è quindi più un funerale.

Ma c’è un altro personaggio fondamentale nella dirigenza Lumon: Miss Cobel (interpretata da un’ottima Patricia Arquette), la gelida direttrice del reparto scissione. Se Milchick è il volto umano ed empatico dell’azienda, Cobel rappresenta il potere e il controllo totale che la Lumon ha sui lavoratori. Miss Cobel non concede nessuno spazio di autonomia e sembra non avere nessuna comprensione delle difficoltà degli impiegati, trattandoli in maniera del tutto funzionale. Ed è lei a commissionare le punizioni necessarie dopo i ripetuti tentativi di fuga di Helly. Così vediamo un altro spazio degli uffici: la break room o sala del personale che, invece di essere un luogo di svago e pausa del lavoro, è una stanza buia dove il lavoratore che ha fatto qualcosa che non doveva è costretto a leggere un’elaborata confessione e richiesta di perdono, che deve ripetere per centinaia di volte, finché non sembrerà sincero a insindacabile giudizio del superiore Mr Milchick.

Un altro luogo significativo è l’Ala dell’Eternità: un ambiente museale dove si celebra il fondatore della Lumon, Kier Egan, con una riproduzione in scala naturale della sua casa e una celebrazione dei suoi discendenti che hanno ricoperto il ruolo di CEO, raffigurati in statue di cera. Questo spazio mostra il culto della personalità su cui si basano le pratiche aziendali: Kier è rappresentato come una sorta di messia (viene detto spesso Praise Kier, sia lode a Kier) e quindi lavorare alla Lumon significa essere i suoi adepti.

L’entità dominante dell’azienda si manifesta negli spazi del lavoro: l’ufficio di Scissione è più che un’ambientazione simbolica, ma diventa quasi un personaggio, rappresentando il corpo dell’azienda all’interno del quale sono prigionieri i lavoratori scissi. Gli uffici della Lumon sono un labirinto di corridoi bianchi, rischiarati dalla monotona luce dei neon, corridoi in cui vediamo i personaggi camminare per un tempo lunghissimo, che si diramano in deviazioni tutte uguali e che sembrano avere un solo punto di partenza, l’ascensore da cui si entra al piano della scissione, e un solo punto di arrivo, l’ufficio del reparto Macro Data Refinement dove lavorano i protagonisti. Anche la stanza del MDR è particolare: una sala spropositatamente grande che al centro ha un cubicolo con quattro scrivanie per gli impiegati, il pavimento verde acido e il soffitto bianco grigio coi neon che incombe dall’alto. Questo luogo di lavoro freddo e funzionale, eppure tremendamente inutile nel suo spreco di spazio, è privo di qualsiasi elemento umano, del tutto spersonalizzato e spersonalizzante, e sembra ridurre gli umani che lo abitano a piccole formiche operose perse in un eterno vagare per i corridoi o nella ripetizione dei loro compiti ossessivi al computer.

E proprio a proposito del lavoro al computer vale la pena far notare come esso appaia del tutto arbitrario e apparentemente insignificante. Quando Mark spiega alla nuova arrivata Helly cosa deve fare, le mostra semplicemente un monitor su cui scorrono una serie di numeri incolonnati e le dice di individuare i numeri particolari e metterli in una casella insieme. Ma come si capisce quali sono i numeri particolari? Mark risponde che deve scegliere i numeri che le fanno paura; di fronte all’incertezza di Helly, Mark la incoraggia a fare pratica e le promette che ci prenderà la mano. Il lavoro del reparto Macro Data Refinement sembra essere quello di trattare questi misteriosi numeri in modo incomprensibile, senza una logica, ma agendo in base alle sensazioni. Di fronte alle difficoltà di Helly ad affrontare un compito che appare del tutto inutile e ripetitivo, Mark le ricorda che il loro lavoro è “misterioso e importante.” Questo è un concetto che viene ripetuto spesso e serve come unica spiegazione per i compiti senza senso che gli impiegati devono svolgere; ma avere qualcosa di misterioso e importante da fare è anche un modo per dare un senso di soddisfazione, per avere l’idea di servire uno scopo più alto, anche se i lavoratori scissi non hanno idea del piano generale, ma devono funzionare come formiche operaie.

Il design della Lumon è ispirato all’architettura funzionalista degli anni ’50 e ’60 (in particolare alle costruzioni di Eero Saarinen), e anche la tecnologia è antiquata: i computer hanno i grandi monitor col tubo catodico degli anni ’80, quando vediamo dei filmati sono proiettati su vecchi televisori con dei videoregistratori, ma anche fuori dall’ufficio ci sono macchine vecchie e cellulari non ancora smart. Secondo alcuni questo indicherebbe che il mondo in cui è ambientata la serie sia una realtà parallela alla nostra, simile, ma non uguale. Ma potrebbe anche non esserci alcuna spiegazione narrativa per questo aspetto: la mancanza di tecnologia digitale all’interno della Lumon potrebbe essere solo un modo per esasperare il senso di isolamento degli interni, un modo per tagliarli fuori dal mondo.

Scissione esprime un forte messaggio politico attraverso un high concept fantascientifico estremamente efficace, che incarna le dinamiche di controllo necessarie alla crescita virale del tardo capitalismo. Il bilanciamento tra vita lavorativa e vita personale è qui paradossalmente risolto con la scissione della coscienza, che crea una personalità totalmente schiava del lavoro. La serie è uscita all’inizio del 2022, nell’anno precedente l’America è stato segnata dal fenomeno sociale della Great Resignation, in cui 47 milioni di americani si sono licenziati dal lavoro, anche a seguito dei mutamenti portati dalla pandemia. Con il lavoro da remoto molte persone si sono rese conto dell’inutilità di spendere mezza giornata in ufficio, quando potevano svolgere lo stesso quantitativo di lavoro da casa, gestendo molto meglio il proprio tempo. Questa ridefinizione dell’equilibrio vita privata/lavoro ha portato a guardare con occhio diverso i rapporti con i datori di lavoro, portando a rivendicazioni che valorizzassero in maniera maggiore gli spazi e i tempi personali. E questa ribellione dei lavoratori è proprio l’elemento che definisce l’arco narrativo di Scissione: la presa di coscienza e l’unione fra gli interni scissi li porterà a rompere i confini dell’isolamento dell’ufficio, per rivendicare uno spazio esterno di autonomia e libertà. La rivoluzione al capitalismo schiavista della Lumon, la grande compagnia monstre che governa addirittura la coscienza delle persone, è l’orizzonte che ha fatto la forza della serie, che nei tre anni trascorsi tra la prima e la seconda stagione è diventata una delle serie più viste e più discusse della contemporaneità.

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Distruggi il male https://www.carmillaonline.com/2025/04/22/distruggi-il-male/ Mon, 21 Apr 2025 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87658 di Luca Cangianti

[In Val di Susa, tra notav, militari impazziti, elicotteri da guerra e fumi di lacrimogeni, qualcosa di mostruoso sta strisciando fuori dal tunnel geognostico. La catena degli eventi, però, è iniziata molto prima, nel 1982, in pieno riflusso politico, tra il dilagare dell’eroina, la repressione, i robot giapponesi e gli ultimi spari della lotta armata. Enrico – un sedicenne innamorato del Signore degli anelli – e i suoi giovani alleati – una militante dell’autonomia operaia, uno scanzonato tifoso di calcio e uno studente di filosofia – accedono a un’inquietante dimensione parallela che riproduce le sembianze di una Roma cristallizzata [...]]]> di Luca Cangianti

[In Val di Susa, tra notav, militari impazziti, elicotteri da guerra e fumi di lacrimogeni, qualcosa di mostruoso sta strisciando fuori dal tunnel geognostico.
La catena degli eventi, però, è iniziata molto prima, nel 1982, in pieno riflusso politico, tra il dilagare dell’eroina, la repressione, i robot giapponesi e gli ultimi spari della lotta armata. Enrico – un sedicenne innamorato del Signore degli anelli – e i suoi giovani alleati – una militante dell’autonomia operaia, uno scanzonato tifoso di calcio e uno studente di filosofia – accedono a un’inquietante dimensione parallela che riproduce le sembianze di una Roma cristallizzata ai tempi dell’occupazione nazista e della Resistenza. Ne nasce un’avventura fantastica in cui sono in gioco la vita, la morte, la salvezza della Terra e il desiderio di una società libera dallo sfruttamento e dalla tristezza.
Per gentile concessione dell’editore si riporta di seguito il primo capitolo di Distruggi il male, il nuovo romanzo di Luca Cangianti (DeriveApprodi, 2025, pp. 128, € 15,00).]

Oggi. Val di Susa

«Fanno troppo schifo! Niente primi piani, altrimenti la gente vomita e cambia canale». La giornalista si rivolgeva alla regia, ma aveva urlato nel microfono ed era andata in onda.
L’uomo si avvicinò allo schermo per distinguere meglio le immagini. Le creature uscivano dal tunnel e dilagavano nella valle tra i piloni dell’autostrada. Emettevano suoni gravi che increspavano l’acqua nelle vasche di raffreddamento. I bacini servivano a contenere le temperature prodotte dallo scavo.
Scosse la testa e rimase interdetto. Il pulviscolo scorreva nel raggio di sole che attraversava il salotto fino agli scaffali carichi di libri. Erano disposti senza cura. Sul divano dell’Ikea era appoggiato un portacenere, nell’angolo cottura le stoviglie sporche battevano sulle pareti del lavello. Il lampadario dondolava.
Il rombo degli elicotteri da combattimento attirò la sua attenzione. Guardò fuori dalla finestra e scorse l’ultimo velivolo della formazione. La regia trasmise le riprese dall’alto: le maestranze del cantiere uscivano dalle cabine degli escavatori lasciando le portiere aperte. Alcuni si mettevano alla guida di pulmini che risalivano la strada, altri si rifugiavano in un edificio dal tetto verde.
L’uomo uscì di casa, percorse una via lastricata di sampietrini, passò di fronte a una fontanella e raggiunse il centro del paese: alcune case avevano i tetti d’ardesia, altre balconi di legno. Svoltò per una via che scendeva a zig zag verso la Dora. Gruppi di giovani correvano nella stessa direzione. Sul muro del terrapieno qualcuno aveva scritto a caratteri cubitali: «LA VALLE NON VI VUOLE».
Attraversò il ponte e vide il vecchio murale sbiadito: figure umane a carponi si cibavano del denaro defecato da chi le precedeva. Il checkpoint della centrale idroelettrica era deserto. Al bivio prese la strada che saliva costeggiando le vigne. Le vibrazioni assordanti adesso si mescolavano al rumore metallico della battitura. Si coprì le orecchie con le mani. Al museo archeologico di Chiomonte centinaia di dimostranti percuotevano le recinzioni del cantiere. Una donna sventolava una bandiera bianca con un treno sbarrato da una croce rossa. Alcuni giovani indossavano il casco: agganciarono le grate con uncini fissati a corde robuste e iniziarono a tirare. Il camion idrante della polizia bersagliò i ragazzi. Quattro attivisti portarono una lastra di plexiglas per usarla come protezione. Le corde furono afferrate da altre decine di persone. Le recinzioni caddero al suolo accompagnate da un boato di urla. I militari spararono i candelotti, i dimostranti lanciarono pietre e bottiglie. Partì una carica, gli attivisti indietreggiarono. Alcuni rimasero al suolo.
L’uomo fuggì lungo un sentiero in salita. Si sostenne a un arbusto per riprendere fiato. Chiuse gli occhi per qualche secondo, poi guardò in basso oltre il terrapieno realizzato con i detriti dello scavo.
La vallata era colma di filamenti arancioni che galleggiavano a mezz’aria tra i fumi dei gas lacrimogeni.

[Luca Cangianti e Giovanni Acquarulo (giornalista Rai) dialogheranno su Distruggi il male il 23 aprile 2025 alle 19.00 presso la Libreria Caffé Giufà, via degli Aurunci 38, Roma]

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Il nemico siamo noi https://www.carmillaonline.com/2025/04/21/il-nemico-siamo-noi/ Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87991 di Maurizio Marrone

Ήθος ανθρώπω δαίμων. Il daimon è per ciascuno il suo carattere. (Eraclito, fr. 119 D.-K.)

Oltre la costruzione identitaria del nemico Mai come in questi giorni cupi, in cui l’Antropocene sembra voler immortalare il proprio suicidio simbolico nell’istantanea di un corpo che annega nelle sue stesse deiezioni, la percezione del mondo è per lo più filtrata da una nozione di soggettività posticcia che, come mera appropriazione identitaria, si nutre di separazione; una divergenza progressiva che esaspera, fino a farla esplodere, non solo la dialettica amico/nemico, ma anche la nozione stessa d’identità dell’individuo in quanto tale, espungendone alla radice l’alterità [...]]]> di Maurizio Marrone

Ήθος ανθρώπω δαίμων.
Il daimon è per ciascuno il suo carattere.
(Eraclito, fr. 119 D.-K.)

Oltre la costruzione identitaria del nemico
Mai come in questi giorni cupi, in cui l’Antropocene sembra voler immortalare il proprio suicidio simbolico nell’istantanea di un corpo che annega nelle sue stesse deiezioni, la percezione del mondo è per lo più filtrata da una nozione di soggettività posticcia che, come mera appropriazione identitaria, si nutre di separazione; una divergenza progressiva che esaspera, fino a farla esplodere, non solo la dialettica amico/nemico, ma anche la nozione stessa d’identità dell’individuo in quanto tale, espungendone alla radice l’alterità intrinseca che la costituzione più intima del soggetto stesso reca in sé, come proprio fondamento inespresso. In forza di questo costante svuotamento di senso, entrambi i termini della relazione – io/altro, amico/nemico – si presentano spesso come significanti vuoti e, soprattutto la nozione di nemico, declinata a uso e consumo di una propaganda dissennata, rimane irrimediabilmente cristallizzata in una sterile costruzione identitaria ad escludendum in forza della quale dalla parte giusta della storia ci siamo noi e da quella sbagliata ci sono gli altri, i nemici, gli stranieri, gli usurpatori, da additare ed eliminare, come gli ultracorpi nel celebre remake del film di Don Siegel. Con buona pace di Edmond Jabès quando ci dice che «lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero»1.

Mai come in questi giorni cupi sarebbe invece opportuna una riflessione ponderata proprio sulla figura del nemico; un’analisi critica, depurata da ogni hybris etnocentrica, capace di restituirne la complessità proteiforme e di scardinare la logica tanatopoietica che, in forza di una fatwa perenne e di una separazione postulata ma fittizia, domina la costruzione del soggetto come mera appartenenza identitaria. Ma di tale riflessione non v’è traccia perché, si sa, la sfida della complessità è merce rara, mentre la semplificazione è in saldo in tutte le vetrine dell’impero. Ciò a cui si assiste, al contrario, è una saga del declino in forma di farsa, messa in scena da una grottesca schiera di saltimbanchi dell’apocalisse che, se non fosse drammaticamente reale, potrebbe a pieno diritto figurare come episodio pilota di una serie distopica di grande successo. Mentre a Gaza va in scena l’atto finale di uno sterminio annunciato e i tecnocrati del dominio giocano a dadi con il nostro futuro. Il vero è diventato un momento del falso, avrebbe detto Debord; e dato che il vero si presenta ormai come un deserto di senso, per trovarne traccia, come spesso accade, è utile volgere lo sguardo proprio al falso, alla finzione, ovvero al territorio dell’immaginario.

Nel vasto panorama della recente produzione fantastica – sia letteraria che cinematografica o seriale – vale la pena di citare almeno due esempi di indubbia originalità e acume. Il primo è il romanzo incompiuto di Valerio Evangelisti intitolato La fredda guerra dei mondi (Mondadori, 2023) che doveva essere composto da 45 capitoli di 5 pagine ciascuno e, nella volontà dell’autore, avrebbe dovuto rappresentare l’ampliamento dell’omonimo racconto uscito nel 2020 in un fascicolo Urania Millemondi chiamato Distopia, (Mondadori, 2020). Data la scomparsa prematura di Evangelisti, del libro, purtroppo, sono disponibili solo i primi 17 capitoli, con l’eccezione del capitolo 10 che il curatore Franco Forte non è mai riuscito a trovare nel lascito dello scrittore bolognese. Il secondo esempio è Scissione (Severance), la serie televisiva creata da Dan Erickson, la cui seconda stagione è da poco andata in onda su Apple Tv.

Valerio Evangelisti

La fredda guerra dei mondi
Nella Fredda guerra dei mondi Evangelisti mette in scena un conflitto globale che vede come protagonisti da una parte la Terra (o meglio le potenze occidentali) e dall’altra una presunta razza aliena dalle sembianze vagamente umanoidi. Una potenza «straniera» venuta dallo spazio profondo, dotata di tecnologie sofisticatissime che sta distruggendo, uno a uno, tutti i monumenti delle principali città impegnate nei combattimenti, senza però fare alcuna vittima, né tra i civili né tra i militari. L’esistenza degli alieni è nota ai governanti di turno da molti anni – da quando cioè alcuni di loro sono stati catturati – ma è stata tenuta nascosta alla popolazione civile, fino a quando «gli extraterrestri» individuano i loro compagni rapiti e scatenano l’attacco contro la Terra per riportarli a casa. Il conflitto è gestito da un’entità sovranazionale, composta da capi di stato, militari e tecnocrati che, senza alcun mandato, si sono intestati il diritto di condurre la parte sana dell’umanità alla vittoria, costi quel che costi; ed è lecito presumere che il tempo della narrazione, ambientata tra Parigi e Tolosa, sia più o meno quello del nostro presente. Le vicende legate alla guerra, però, intersecano anche quelle di una scalcinata accolita di malviventi dalla raffazzonata quanto traballante vocazione anarchica. Il capo, soprannominato «il Reverendo», durante una rapina a casa di un generale, assiste per caso a una videoconferenza tra i potenti della Terra, dalla quale apprende dell’invasione aliena. Seguendo le gesta del Reverendo e della sua banda di sodali, si scoprirà che in realtà gli invasori alieni non sono altro che gli umani di un lontano futuro che, grazie a un entanglement spazio-temporale, sono tornati a salvare i loro fratelli tenuti prigionieri. Per questa ragione non uccidono i propri presunti nemici: perché la morte di ciascun nemico nel presente eliminerebbe migliaia di loro nel futuro. La chiamata alle armi e la rivelazione della minaccia aliena – con il consueto corredo di fanatismo nazionalista e vaneggiamenti su una imminente sostituzione etnico-culturale – vengono annunciate a reti unificate, senza però svelare la reale provenienza degli invasori. Perché, dice Evangelisti per voce del segretario di Stato americano, «L’uomo del popolo deve individuare confusamente chi è il nemico e starsene al riparo a sostenere chi combatte, oppure arruolarsi e obbedire agli ordini». Lo stato di guerra contro un nemico di cui non si rivela mai il vero volto (perché è il nostro), consente al potere di perpetrare se stesso e di stroncare sul nascere ogni forma di dissenso, così come di giustificare impunito – in nome di una ragione superiore – qualsiasi ripugnante metodo repressivo. Ma la chiamata alle armi nasconde anche un duplice e più agghiacciante obbiettivo: in moltissime città, a contingenti di 20 mila per volta, i riservisti che si sono offerti volontari per combattere gli alieni, vengono sterminati col gas, come bestie da macello. Perché, annuncia tronfio un autorevole burocrate dello sterminio, il sacrificio di 20 mila dei nostri nel presente, annienterà all’istante milioni dei loro nel futuro dal quale provengono.
Il romanzo in sostanza si conclude qui. Purtroppo Evangelisti ci ha lasciati prima di poter comporre il puzzle ma, tenendo fede al finale dell’omonimo racconto del 2020 e avendo una qualche dimestichezza con l’universo narrativo dello scrittore bolognese, è lecito avanzare qualche ipotesi. Fatte salve le sorti, rimaste indecise, del Reverendo e della sua banda possiamo infatti immaginare che un entanglement spiraliforme travolga nel suo vortice il presente della narrazione, per proiettarlo in un tempo X dalla struttura ignota, nel quale però un altro gruppo di ladri e puttane deciderà che resistere non è mai inutile.

Rispetto alle questioni relative allo statuto del nemico/straniero sollevate nella nostra breve quanto sommaria premessa, è utile ribadire come Evangelisti, soprattutto nel ciclo di Eymerich, si sia confrontato principalmente con la natura del potere, che egli incarna nella figura dell’inquisitore catalano: una natura spietata, pervasiva ma, allo stesso tempo, estremamente seducente (tutti i lettori tifano per il Magister) e, per questo, ancor più subdola e pericolosa. Lo stesso personaggio di Eymerich, tuttavia, diventa anche un topos narrativo di sperimentazione nel quale soprattutto da un punto di vista archetipico, agisce proprio la questione del nemico come alterità consustanziale al soggetto. Perché se è vero, da una parte, che il Magister rappresenta il villain per eccellenza (spietato, determinato, feroce, astuto, implacabile e quasi sempre malvagio), dall’altra il lettore è portato a schierarsi sempre dalla sua parte e, in tutto il ciclo, sembra mancare un vero e proprio antagonista in senso narratologicamente codificato. Perché, in realtà, i vari avversari che Eymerich inesorabilmente sconfigge nel corso delle sue imprese e investigazioni (eretici, catari, giudei, alchimisti, falsi profeti e soprattutto donne, alle quali egli imputa il peccato originale dell’empatia e della carnalità), in virtù di un rovesciamento tanto intrigante quanto sofisticato, rappresentano il lato vitale di sé, che egli detesta e dal quale è terrorizzato. Corpus vs dogma, il volto lunare di Ecate e del femminile vs fede e ragione. Ogni forma di partecipazione emotiva e di contatto col corpo vivo del mondo, che Eymerich avverte dentro di sé, viene vissuta come l’azione strisciante del demonio, repressa e esternalizzata in una schiera di nemici da abbattere ad ogni costo.

Nella Fredda guerra dei mondi, per quanto è dato rilevare vista l’incompiutezza del romanzo, questo medesimo meccanismo di rifiuto e outsourcing del rimosso viene declinata in modo più esplicito e secondo uno schema più squisitamente politico e interno alle dinamiche di conservazione del potere. Non importa, infatti, che gli umani si facciano la guerra tra di loro perché, purtroppo, è cosa fin troppo comune; non importa neanche che siano disposti ad annientarsi come specie, perché anche questa, purtroppo, è un’ipotesi sul tavolo. Importa però in maniera cogente che gli umani del futuro, universalmente trattati come nemici da eliminare, vengano costantemente definiti e considerati «alieni», anche e soprattutto da chi è a conoscenza della loro vera natura, che è la nostra. Importa l’incapacità di accettare un corpo – e un volto – che il tempo ha trasformato e verso il quale non si nutre alcune curiosità o empatia, ma disgusto e derisione. Importa la reductio a semplice entità malevola (l’alieno da abbattere) di una specie – la nostra – che ha percorso milioni di anni di storia a ritroso nel tempo e nello spazio per salvare i propri fratelli. Per tornare a Jabès, importa la manifesta e patologica volontà di disconoscere lo straniero che è in noi. Ma, soprattutto, in chiave sociopolitica, importa l’arroganza del potere che, per affermare e salvaguardare se stesso, è disposto a cancellare con un gesto milioni di possibili storie future. E rileva importa che la vera natura degli invasori, tenuta sapientemente nascosta alla popolazione, sembra venir dimenticata anche da chi siede nella stanza dei bottoni. Perché, appunto, il nemico deve rimanere un significante vuoto, uno stereotipo strumentale che definisce per via negationis tanto il soggetto quanto la sua appartenenza ad una comunità di eletti che blinda il proprio perimetro al grido di «Morte all’invasore, morte al mostro!».

Scissione
Scissione (Severance) – il secondo dei nostri esempi – è una serie del 2022 targata Apple Tv, di cui per ora sono disponibili due stagioni, anche se è già stata annunciata la messa in onda della terza. Ideata da Dan Erickson e prodotta da Ben Stiller (che dirige magistralmente anche metà degli episodi) rappresenta un piccolo capolavoro, sia per quanto riguarda la scrittura che le scelte estetico-formali. La vicenda, situata in un tempo imprecisato, ma ragionevolmente prossimo tanto al nostro passato recente, quanto al nostro futuro imminente, è ambientata in parte nella desolata cittadina di Kier – nello stato di New York – e in parte negli uffici della Lumen Industries, un’azienda tanto misteriosa quanto potente, che ha brevettato una procedura neurologica in grado di scindere la coscienza dei propri impiegati in due entità completamente distinte e irrelate. I dipendenti che sono stati sottoposti al processo di scissione – gli interni – sono completamente ignari di quanto accade loro al di fuori dell’ambiente lavorativo, mentre i loro corrispettivi mondani – gli esterni – non sanno nulla di ciò che avviene negli uffici dell’azienda con la quale hanno sottoscritto il contratto di assunzione. L’unica differenza di consapevolezza tra le due parti del sé scisso è che gli esterni hanno scelto di sottoporsi alla procedura, mentre gli interni l’hanno subita. Oltre a ciò, ed è un distinguo di non poco conto nell’economia dell’impianto narrativo, solo gli esterni possono risolvere il contratto, a significare che gli interni sono, loro malgrado, imprigionati in una realtà che non hanno scelto e dalla quale, al contrario degli alter ego che gli hanno in qualche modo generati, non possono evadere se non al prezzo del loro stesso autodissolvimento. Quanto alle ragioni che hanno portato ciascuno dei protagonisti a sottoporsi alla procedura e ad avere – si fa per dire – una seconda vita ignara della prima, sono sia di carattere personale (l’incapacità di sopportare il dolore di una perdita, un’omosessualità repressa vissuta come colpa, il senso di fallimento per la mancanza di un lavoro stabile) che dettate da deliri di marketing aziendale (l’erede al trono della famiglia Eagan – proprietaria della Lumen – che decide di sottoporre se stessa al processo di scissione per santificarne la fulgida efficacia).
L’ambiente lavorativo è asettico, labirintico, claustrofobico, volutamente estraniante, dominato da un bianco privo di spessore e di tempo; mentre la vita lavorativa degli interni – che è l’unica di cui dispongono – è sempre identica a se stessa, se non per il fatto che, di tanto in tanto, è costellata da surreali siparietti fatti di recite, cappellini e premi produzione della portata di un dolcetto in più da consumare durante la pausa pranzo. Per il resto il loro lavoro consiste nell’individuare e rimuovere numeri «pericolosi» da enormi set di dati, senza sapere realmente quale sia il loro significato. Una surreale distopia dell’assurdo che però scompare dalla memoria una volta oltrepassata la soglia dell’azienda. Così come scompaiono lo sfruttamento, le vessazioni e le torture psicologiche a cui vengono sottoposti gli interni ogni volta che cercano di evadere dalla routine alienante.
Un dispositivo espropriante quasi perfetto che però si inceppa quando un ex collega di Mark (il personaggio principale della serie) viene ucciso dopo aver contattato il suo esterno e avergli fatto capire che è possibile la reintegrazione parziale delle due parti scisse e che la Lumen non è esattamente quello che sembra. È questo l’evento scatenante che, in una atmosfera cupa e straniante, nella quale si fondono noir, thriller, spy story e qualche venatura horror, mette in moto il meccanismo che porterà gli interni a voler accedere con la coscienza intatta al mondo dei propri esterni, per carpire le ragioni di un esilio che è tutt’uno con la loro nascita tardiva.

Oltre il rimosso
Come si evince da questa breve ricostruzione la trama, di cui non sveleremo altro, è molto sofisticata e si presta a molteplici livelli di lettura. Se in forma piuttosto esplicita l’idea centrale della serie allude a Freud e al rapporto tra Io e Es (anche se ovviamente in forma rovesciata, visto che la parte rimossa non è quella sofferente ma quella apparentemente felice che trova nel lavoro una distrazione dalla nevrosi del quotidiano), il modo in cui evolve il racconto intercetta una serie di riflessioni e di tematiche ognuna delle quali meriterebbe di essere trattata a parte. Alienazione (nel senso marxiano del termine), disumanizzazione, dominio, controllo, potere, memoria, identità; e, anche se in forma non immediata, ma non per questo meno stimolante, la questione del nemico posta in relazione proprio con il concetto di identità scissa e alterità rimossa. Perché dal momento in cui ciascuno degli interni, grazie a un breve episodio di reintegrazione, entra in contatto con la parte a lui sconosciuta della propria vita, si innesca un movimento a spirale che porterà le due metà della coscienza disgregata a diventare una nemica dell’altra; un processo di progressiva e sistematica ostilizzazione del rimosso che, se declinata in chiave politico-sociale, rischia di congelarsi in una frattura insanabile – quasi un nuovo nomos della Terra in forma di muro – che pone come inaggirabile e costituente del nostro stesso patto fondativo la distinzione fittizia tra «noi» – i buoni – e «loro» – i nemici. Dicevano Chamosieau e Glissant che «Ogni volta che una cultura o una civiltà non è riuscita a pensare l’altro, a pensarsi con l’altro, a pensare l’altro in sé, queste rigide difese di ferro, di filo spinato, di reti elettrificate o di ideologie chiuse si sono innalzate, sono crollate e ora ritornano con nuovi stridori»2. Perché se è vero che l’identità pensata come «muro» è presente in tutte le culture, è in Occidente che ha mostrato (e continua a mostrare) tutta la sua forza di devastazione.

Per ora non è dato sapere se l’umanità presente e futura della Fredda guerra dei mondi troverà un modo di convivere pacificamente o se i personaggi di Scissione riusciranno a ricomporre la lacerazione che, per loro stessa mano, ha precipitato parte della loro identità in territorio ostile. Certo è che solo accettando l’altro che è in noi riusciremo ad abbattere il muro da noi stessi edificato e forse, come auspicava il compianto Alessandro Leogrande, a farci testimoni dell’unicità di ogni ferita, compresa la nostra.


  1. Cfr. E. Jabès, Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato, SE, Milano, 1991. 

  2. Cfr. P. Chamosieau-E. Glissant, Quando cadono i muri, Nottetempo, Roma 2008. 

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