Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Aug 2025 20:23:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 13 https://www.carmillaonline.com/2025/08/23/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-13/ Sat, 23 Aug 2025 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89820 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Battaglia con Medusa

Il titolo del capitolo 11 del Domenicano bianco, La testa della Medusa, ci traghetta al cuore di un orizzonte simbolista dove Meyrink incontra idealmente von Stuck e tutta una schiera di altri visionari evocatori (Carlos Schwabe, Maximilián Pirner, Franz Stassen, Jeanne Mammen, Jacek Malczewski, Vasily/Wilhelm Kotarbinsky, Jean Delville, Fernand Khnopff, Gustav-Adolf Mossa, e persino realisti come Wilhelm Trübner) di quell’emblema folgorante, così denso di implicazioni e suggestioni da continuare a interpellare l’Occidente fin dall’antichità. Senza freudismi da rotocalco, è almeno intrigante leggere lo scontro tra Cristoforo e Medusa alla [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Battaglia con Medusa

Il titolo del capitolo 11 del Domenicano bianco, La testa della Medusa, ci traghetta al cuore di un orizzonte simbolista dove Meyrink incontra idealmente von Stuck e tutta una schiera di altri visionari evocatori (Carlos Schwabe, Maximilián Pirner, Franz Stassen, Jeanne Mammen, Jacek Malczewski, Vasily/Wilhelm Kotarbinsky, Jean Delville, Fernand Khnopff, Gustav-Adolf Mossa, e persino realisti come Wilhelm Trübner) di quell’emblema folgorante, così denso di implicazioni e suggestioni da continuare a interpellare l’Occidente fin dall’antichità. Senza freudismi da rotocalco, è almeno intrigante leggere lo scontro tra Cristoforo e Medusa alla luce del difficilissimo rapporto tra Gustav e sua madre, che pare averlo segnato per la vita.
Il capitolo si apre con una seduta spiritica alla Dr. Mabuse, ma in un contesto molto più povero. A un tavolo in una stanzetta miserabile sono il tornitore Mutschelknaus, una piccola cucitrice gobba con fama di strega, “un donnone vecchio e grasso” , un uomo dalla lunga chioma e il narrante Cristoforo. Su un armadio è un lumicino da notte in vetro rosso con sopra un disegno recante l’immagine della Madonna, il cuore trafitto da sette spade: e l’uomo dai lunghi capelli invita a pregare iniziando a borbottare un Paternostro. La donna grassa singhiozza, e lui invita a formare una catena “poiché gli spiriti amano la musica”. Si prendono per mano e pregano con fervore commovente, ma l’uomo lamenta non ci sia abbastanza forza – e finalmente un crepitio dall’armadio, seguito da uno del tavolo, avverte che qualcuno sta arrivando. Pitagora, spiega l’uomo…
La piccola cucitrice è in convulsioni, a un tratto la sedia le viene strappata via per cui i presenti la sollevano dal pavimento. Cristoforo coglie vibrazioni nell’aria e si domanda se siano quelle di un camion appena passato o se i suoi sensi si siano acutizzati in modo parossistico – e a un tratto coglie un ammonimento interiore a stare in guardia. Avverte l’ingresso nella stanza di “qualcosa di diabolicamente maligno, un essere orrendo, un miasmo di veleni” ma ricorda anche la promessa di Ofelia di stargli accanto e proteggerlo da ogni pericolo. In quel momento gli altri tre gridano all’unisono il nome di lei: sopra il corpo della cucitrice si formano due coni di miasmi bluastri, uno con la punta verso l’alto e il secondo verso il basso, e si congiungono a formare una grande clessidra come in un manifesto di grafica espressionista. Poi i contorni si definiscono quasi in una lanterna magica e appare Ofelia. Una visione chiarissima, eppure in Cristoforo, come se l’avo e Ofelia gridassero assieme dal suo intimo, risuona l’esortazione a tenere saldo il cuore: e intanto l’immagine formatasi della ragazza amata prende a camminare nella sua direzione. Lo bacia sulla fronte, gli stringe la mani al collo fino a fargli sentire il calore del suo corpo e farla sospettare tornata in vita: ma la voce di Ofelia in lui grida in modo angosciato che quella porta solo la sua maschera, lui non la abbandoni… Non lo farà, garantisce Cristoforo, e si chiede mentalmente, fissandola, chi sia costei che porta la maschera di Ofelia: “in quell’istante sul viso del fantasma guizza un’espressione inanimata, da statua di pietra, le pupille si contraggono come se fossero state colpite da un raggio di sole”. La larva si ritrae per non farsi smascherare, ma per un attimo Cristoforo le ha visto riflessa negli occhi la testa di un estraneo invece della propria. Poi lo spettro va a farsi abbracciare dal tornitore, e Cristoforo è colto dall’orrore: trattiene in mente il viso riconosciuto dell’estraneo che cerca di sfuggirgli, insieme di fanciullo e di fanciulla tanto belli ma spietati, con uno sguardo senza iride come una statua di marmo. Un volto che è punto di convergenza tra due mondi, “come una lente focale in cui si raccolgono i raggi del regno della distruzione, saturi d’odio: dietro tale punto si cela l’abisso di ogni disintegrazione, e l’Angelo della Morte ne è il simbolo più evanescente”. Ma alla domanda su quale forza dell’universo gli abbia infuso vita coi tratti di Ofelia, si risponde poco dopo che è “la forza impersonale del Male ad evocare cose prodigiose grazie alle mute leggi della natura”, recando però risultati inversi, infernali. E a modellare il tutto è l’anima della povera cucitrice isterica, che ha messo a disposizione della nostalgia del tornitore quel fantasma impressionante. “È qui all’opera, anche se in piccolo, la testa della Medusa, il simbolo del potere pietrificante che ci risucchia verso il basso”. Si è accennato al possibile influsso su questo romanzo – ancorché in termini liberi – di Zanoni di Edward Bulwer-Lytton, cui richiamano vari particolari: compreso proprio il richiamo simbolico alla Medusa, evocata in Zanoni nella gorgonica Custode della Soglia la cui comparsa ispira raccapriccio. L’“espressione inanimata, da statua di pietra” e lo “sguardo senza iride come una statua di marmo” evocano proprio una pietrificazione simbolica, come sotto lo sguardo della dea mostruosa.
Ora lo spettro è scomparso, la cucitrice rantola, il tornitore invita il Nostro a tacere che si trattasse di sua figlia e l’uomo coi capelli lunghi invita Cristoforo a ringraziare Pitagora: l’hanno invitato alla seduta per guarirlo dai suoi dubbi, “La Resurrezione dei morti è prossima”. La donna grassa lo invita a rinunciare alle vanità del mondo e ad aderire allo spiritismo che sta dilagando, e l’uomo dai lunghi capelli annuncia che le bestie selvagge si nutriranno di nuovo d’erba – ma come negli occhi del fantasma Cristoforo ha visto la testa di Medusa, così nella voce del tipo ne ode il messaggio: “Risorgeranno le vuote maschere dei defunti, ma non i nostri amati, non i trapassati compianti dagli esseri terrestri” e al posto del Signore lì si intende Satana. La danza di questi revenant non annuncerà dunque l’inizio del Regno millenario, sarà una danza infernale: e la voce lo sfida, desidera forse – smascherando il fenomeno – che il tornitore e gli altri precipitino nella disperazione? Lui non osa dire la verità al vecchio…

 

Una conoscenza prende ad ardere dentro di me: la terribile frattura che compenetra tutta la natura, non si limita solo alla terra, la lotta tra l’amore e l’odio, il contrasto tra il cielo e l’inferno si prolunga anche nel mondo dei defunti, molto al di là della tomba.
Lo sento: i defunti trovano la pace vera soltanto nei cuori di coloro che sono diventati vivi nello spirito; solo lì per loro c’è pace e solo lì trovano rifugio. Se i cuori degli uomini dormono, anche i morti dormiranno, se i cuori si destano spiritualmente, anche i morti diventeranno vivi e prenderanno parte al mondo fenomenico, pur senza essere sottoposti alla tortura inerente all’esistenza terrestre.
[…] Percepisco la certezza che si stanno preannunciando i tempi in cui la teoria dello spiritismo simile ad un’epidemia di peste inonderà l’umanità. Mi immagino la voragine della disperazione che inghiottirà l’umanità quando, dopo una breve ondata di felicità, vedremo i morti risorgere dalle tombe e mentire, mentire, mentire, in modo più spudorato di ogni altra creatura della terra, perché sono entità demoniache illusorie, sono embrioni, generati da un accoppiamento infernale.

 

In Meyrink è forse l’attacco più severo e senza appello allo spiritismo al tempo tanto di moda.
Alle mani che posano ancora sul tavolo sono aggrappati – avverte – esseri invisibili. L’uomo coi lunghi capelli sostiene che l’entità manifesta attraverso la cucitrice sia Pitagora ma lei fissa Cristoforo e proclama con voce da uomo: “Tu sai che io non sono Pitagora!”. Gli altri non hanno sentito, le loro orecchie sono sorde, spiega l’entità:

 

Porgersi le mani mette in moto un processo magico. Ma se si uniscono delle mani che non si sono ancora ridestate a vita spirituale allora è il Regno della Medusa ad affiorare dall’abisso del passato, e il mondo degli inferi rigurgita le larve dei morti; la catena delle mani vive, invece, è il muro difensivo che protegge la rocca della Luce Suprema. I servi della Medusa sono, a loro insaputa, i nostri strumenti; essi credono di distruggere, ma in realtà creano spazio all’avvenire. Simili a vermiciattoli che divorano le carogne, essi rosicchiano il cadavere della visione materialistica del mondo. Se non lo facessero, il fetore generato dalla putrefazione farebbe marcire la terra. Essi nutrono la speranza, mandando tra gli uomini gli spettri dei defunti, che stia per sorgere la loro aurora! Noi siamo ben felici di lasciarli fare.

 

La fonte del soccorso verrà dal Regno dello Spirito, anche se gli spiritisti non capiscono, rovesciando la vecchia Chiesa “senza sospettare di evocarne una nuova”. Estirpano solo ciò che è destinato a spegnersi: “la dottrina dimenticata del ‘Dissolvimento con il corpo e con la spada’ fungerà da base alla nuova religione e costituirà l’armamentario del pontefice spirituale”. Ma non si preoccupi per il vecchio tornitore, “nessun uomo di buona volontà si incamminerà mai verso l’abisso”.
Cristoforo passa il resto della notte sulla panchina del giardino, felice di sapere che lì riposano solo le spoglie dell’amata ma lei gli è inscindibilmente legata. Tra le nubi sembra emergere la testa della Medusa, come volesse inghiottire il sole. Lui spezza allora un rametto di sambuco e lo configge nel terreno, traendo l’impressione di arricchire il mondo della vita. E intanto il sole, nel cielo, divora la testa della Medusa.
Ma in realtà il tema ritorna. Se il Nostro si sveglia un mattino con le parole di Giovanni Battista sulle labbra – “Egli deve crescere e io invece diminuire” – la deminutio è a colpi di insulti pubblici, vecchi che profetizzano lui diventi un eccentrico come il nonno e gente operosa che biasima lui non lavori. C’era chi lo giudicasse un vampiro, altri un lupo mannaro – per la casuale concomitanza dell’abbattimento di un grosso cane feroce e di una sua ferita accidentale alla testa; un vagabondo l’aveva visto ed era morto con il viso contratto, un accusato di omicidio aveva visto in lui la presunta vittima… tutte persone – si rende conto – che hanno intravisto in lui la testa della Medusa. Chi la vede muore, chi la percepisce ne è raccapricciato.

 

Nelle pupille del fantasma tu hai scorto allora la caducità e l’elemento funereo che risiedono in ogni uomo ed anche in te. Se gli uomini non vedono la morte è perché essa dimora in loro, essi non sono Cristofori, cioè “portatori di Cristo”, bensì portatori della morte, che li rode da dentro come un tarlo. Soltanto colui che la scoverà, come hai fatto tu, sarà in grado di vederla; per costui essa diverrà “oggetto” e sarà finalmente in grado di fronteggiarla.

 

In effetti prende a riconoscere ovunque la “terribile Signora del Mondo: la Medusa dal volto splendido, eppure così orrendo”. D’altronde capisce di dover diminuire e che a crescere debba essere il suo progenitore. In qualche modo è vero che lui assorbe quelle vite.
Mentre il padre invecchia e diventa sempre più taciturno, Cristoforo esce sempre meno e alla fine smette persino di andare alla panchina, che in spirito ha trasportato nella propria camera. Ma con il padre comunicano a base di pensieri, tranne rare volte come quando il vecchio aveva parlato della morte. In quel momento, spiega, di alcune persone muore “una parte così grande che si potrebbe dire che non rimane più nulla”: di alcuni sopravvivono solo le opere, ma anche i grandi devastatori hanno ricevuto statue memoriali. Chi muore suicida o per violenza lascia sulla terra le proprie immagini – scambiate dagli spiritisti per fantasmi – e qualcosa che impregna i luoghi registrando la memoria dei fatti. Il padre stesso ammette di trattenere nel proprio corpo “troppi elementi che non è in [suo] potere trasformare alchemicamente”: non fosse per il figlio, sarebbe costretto a tornare in una nuova esistenza terrena, per portare a compimento almeno qualcosa. Per evitare quel ritorno, gli egizi si facevano mummificare, onde impedire che l’eredità delle loro cellule ricadesse di nuovo su di loro. Ma l’ereditarietà delle cellule non è solo un fatto materiale, come mostrano certe somiglianze tra un padrone e il proprio cane: “a ciò che si ama si imprime il marchio del proprio essere”, il che spiega l’intelligenza “umana” degli animali domestici. “Più gli uomini si amano profondamente, più cellule si scambiano”, e tra milioni di anni quella compartecipazione sarà totale. Quando era morto il nonno, il padre di Cristoforo aveva dunque assunto la sua eredità, fino a sentir decomporre quel corpo e liberarne le cellule prigioniere: e altrettanto succederà a Cristoforo, a ricapitolare alchemicamente la loro stirpe. Ma quel dissolvimento con il corpo che nel caso di padre e antenati era stato incompiuto sarà molto più radicale per lui,

 

perché la regina del regno della putrefazione non ci ha odiati nella stessa misura in cui odia te. Solo colui che la Medusa odia e teme nello stesso tempo riuscirà a farlo. Sarà ella stessa a compiere su costui ciò che vorrebbe impedire. Quando sarà giunta l’ora, si precipiterà su di te per dare alle fiamme ogni tuo atomo, con tale furia infinita che distruggerà in te la sua propria immagine e in questo modo farà quello che l’uomo non riuscirebbe mai a compiere con le proprie forze: uccidere una parte di se stessa e dare a te la vita eterna. Essa si trasformerà così nello scorpione che punge se stesso. Allora sarà giunto il momento della grande trasmutazione: non sarà più la vita a generare la morte, ma la morte genererà la vita!

 

Il padre esulta a vederlo chiamato a essere la cima del loro albero… È diventato “freddo” fin da giovane, mentre loro sono rimasti “caldi” malgrado l’età: la radice della morte è l’istinto sessuale, che gli asceti si sforzano di estirpare fuggendo la donna: eppure solo la donna può recare aiuto. “L’elemento femminile, che qui sulla terra è separato da quello maschile, deve entrare in quest’ultimo e fondersi in uno; solo allora si placheranno tutti gli struggimenti della carne”. Congiunti i poli, si compiranno le nozze e si instaurerà la freddezza magica che spezza le leggi della terra e fa sgorgare “tutto ciò che è in grado di creare il potere dello spirito”.
Giunge il giorno dell’Assunzione di Maria, trentaduesimo anniversario del ritrovamento di Cristoforo sulla porta della chiesa: di notte il padre lo chiama e lui capisce che è alla fine. il vecchio ha indossato un mantello con una spada: comunica che la sua missione è terminata, vuole mostrargli un segno e intreccia le dita alle sue. Così, spiega, sono congiunti i membri della catena invisibile: se vi resterà congiunto, nulla potrà opporgli resistenza, “perché fin nei più remoti recessi dell’universo ti aiuteranno le forze del nostro Ordine”, ma stia in guardia “da ogni essere che ti verrà incontro nel Regno della Magia”. Le forze delle tenebre possono assumere qualunque forma, ma se provassero a inserirsi nella loro catena “si disintegrerebbero in atomi”: alle apparizioni lui richieda dunque sempre quella certa presa con le mani.
Poi il vecchio muore: e da sue istruzioni il figlio dovrà farlo seppellire accanto alla moglie nelle vesti rituali e con la spada. È di ematite, orientale e molto antica, reca sull’impugnatura un volto dai tratti mongolici, e dall’arma sembrano fluire correnti di vita: forse – come riporta la leggenda – è una di quelle spade che un tempo erano state uomini. Il cappellano, amico fedele, dovrà dire una messa per la propria pace.
Passa il tempo, la gente si è dimenticata dell’eremita Cristoforo che vive chiuso in casa. In qualche modo deve essersi procurato il necessario per vivere, ma la sua morte interiore ha resettato tutto. Certo, scendendo in strada si stupisce dei cambiamenti intervenuti: nel giardino la panchina non c’è più, sostituita da una statua della Madonna. Anche il cappellano è cambiato, stenta a riconoscerlo: viene a trovarlo, lieto di ritrovare in lui tanto del padre, e gli racconta di quanto fosse rimasto colpito all’affermazione di Cristoforo bambino d’essere stato confessato – nientemeno! – dal Domenicano Bianco. Ma ora crede di aver capito: i miracoli in città si stanno moltiplicando. C’è chi ha visto la misteriosa ombra bianca della chiesa e lui stesso ha assistito al manifestarsi del Domenicano Bianco, “quanto di più sacro possa immaginare”, anche se ignora possa trattarsi di un vivo con poteri particolari o invece di un’apparizione spettrale. Ma l’ha visto nelle vesti di un papa del futuro “che si chiamerà Flos Florum”: nella profezia di Malachia, anche rispetto a Meyrink si tratta di un pontefice futuro, visto che nel tempo si è abbinato quel motto a Paolo VI (Giovanni Battista Montini, 1963-1978: la definizione Flos Florum verrebbe attribuita al giglio, e nello stemma di Paolo VI ne compaiono appunto tre). Nel frattempo gli avevano detto che il tornitore era impazzito per la scomparsa della figlia, il cappellano l’ha visitato per consolarlo ma è stato il tornitore a consolare lui – evidentemente è un essere cui Dio ha concesso la grazia. E ora compie miracoli, al punto che la cittadina sta diventando luogo di pellegrinaggi. Al momento il tornitore sta attraversando il contado, guarendo i malati con l’imposizione delle mani, ma l’indomani, all’Assunzione, sarà di ritorno. Sì, il cappellano sa che il vecchio ha praticato per qualche tempo lo spiritismo ma ora se n’è allontanato… d’altronde si chiede se sia meglio quello o il materialismo dilagante. Comunque pare che il tornitore abbia anche risuscitato un morto, facendo fermare il relativo carro funebre e ordinando al morto di rialzarsi: peccato sia impossibile fargli spiegare qualcosa, è sprofondato in uno stato d’estasi via via sempre più profondo. In quell’occasione aveva però detto qualcosa: la Madonna gli sarebbe apparsa davanti alla panchina, dove cresce il sambuco piantato da Cristoforo, e sorrideva beata come la sua Ofelia. Ma in quel caso, grazie alla Vergine, sapeva che si trattava d’un semplice morto apparente – visti che lui stesso era stato sepolto vivo, e il cappellano non coglie il nesso. Peraltro l’apparente risuscitato, che era uno storpio noto in città, era morto subito dopo travolto da un cavallo imbizzarritosi nella confusione.
Comunque il tornitore aveva compiuto molte altre prodigiose guarigioni e l’albero di sambuco era diventato il centro di ogni genere di miracoli. Compreso il ravvedimento di grandi numeri di miscredenti… Cristoforo vede nella purezza di cuore del tornitore il correttivo ai prodigi della Medusa e nella trasformazione di Ofelia nella Madonna lo “stesso processo magico in opera durante la seduta spiritica”. Ma quando chiede al cappellano se il diavolo possa assumere l’aspetto di una figura sacra, quello si ribella: e a quel punto Cristoforo capisce che occorre l’avvento di una grande Guida spirituale perché la verità non uccida coloro che la ascoltano.
L’indomani viene destato da uno scampanio vivace, con inni mariani; vede comparire il vecchio tornitore, ma avverte anche l’ammonimento interiore di Ofelia a stare in guardia. Ci sono anche il losco Paride e la signora Aglaja intenti a lucrare tra i devoti. Intanto il tornitore è occupato a parlare con l’immagine mariana che pare rispondergli e china addirittura il capo. Cristoforo avverte però l’esortazione di Ofelia e anche la voce di Medusa che, circonfusa da antichi sentimenti di devozione in lui presenti, gli chiede di prostrarsi e adorarla… Per non farlo si lascia allora scivolare in una resistenza passiva, perdendo coscienza e ritrovandosi nella nicchia del portone. Ma intanto la folla dei devoti – che hanno strappato di dosso al vecchio brandelli di vesti per farne reliquie – si dirige verso la chiesa. Svuotatosi il vicolo, il Nostro scende e raggiunge il luogo di sepoltura dell’amata: le chiede di poter rivedere il suo volto, e per un attimo una luce inghiotte la statua della Madonna. Per un istante vi vede il volto di Ofelia sorridente, poi torna a riapparire la statua. “Avevo gettato uno sguardo nell’eterno presente, che per i mortali è solo una vuota, incomprensibile parola”.
Tali sviluppi, preparati dalle frasi a inizio romanzo su Lourdes e l’inconscio – “Ciò non significa che la Madre di Dio non sia altro che l’inconscio, no, l’inconscio è la ‘Madre’ di ‘Dio’” – appaiono estremamente interessanti in un periodo in cui di apparizioni mariane si parla parecchio: limitandosi alle principali, Roma 1842, La Salette (Francia) 1846, Lourdes (Francia) 1858, Champion (Usa) 1859, Pontmain (Francia) 1871, Gietrzwald (Polonia) 1877, Knock (Irlanda) 1879, Fatima (Portogallo) 1917. Tanto più in rapporto a suggestioni escatologiche come quelle sulla profezia di Malachia, a mostrare che Meyrink non costruisce il suo “sistema” – con tutte le virgolette del caso, l’etichetta è discutibile e forse lui stesso non sarebbe d’accordo sull’utilizzarla – solo con dottrine esoteriche minoritarie delle tre grandi religioni e con importazioni di dottrine orientali, ma accede a un immaginario cristiano (e cattolico) diffuso. A lui interessa un nocciolo di ricerca interiore liberissima, le forme sono come scale da gettar via una volta approdati al giusto piano del discorso: e ciò vale anche per tutti gli arzigogoli esoterici di questo specifico romanzo. Costruito con materiali molto vari, dalle posture delle mani nelle incisioni su temi sacri tedesche alle notizie sulle apparizioni mariane…
Cristoforo prende dunque visione dell’eredità di famiglia, ispezionando la casa e i suoi tesori coperti di polvere, ciascuno però con la sua storia, amori, sofferenze da raccontare – che lui è in grado di recuperare per il lascito nel suo sangue. Ma più scende ai piani inferiori, più le impressioni che gli derivano risultano “buie, severe, disadorne” e intessute di speranze deluse. Nella cantina sbarrata, in cui era vissuto il progenitore Christophorus Jöcher il lampionaio, non riesce neppure a entrare.
Tornato alle sue stanze, gli pare di essersi caricato di influssi magnetici come per un liberare di fantasmi del passato. I desideri, i patemi e le mete irraggiunte degli antenati affluiscono in lui, ma quando se ne libera restano risucchiati dagli oggetti della stanza: perà sente anche lui il desiderio di agire, mosso non dall’egoismo degli antenati ma dall’urgenza della lotta contro la Medusa. Poi è colto dalla stanchezza, precipita nel sonno e in sogno si vede intento a cercare di forzare la porta della cantina. Quando riesce ne sortisce un vecchio, e al risveglio se lo trova in effetti davanti – con il capo stranamente coperto da un berretto di pelliccia. Spiega di aver bussato, nessuno rispondeva ed è entrato: è stato “inviato dall’Ordine”, di cui il padre faceva parte – e ora il figlio avrebbe titolo per accedervi, se vuole. Cristoforo è ben disposto ma chiede qualche informazione di più, suo padre gli ha solo accennato qualcosa. Il vecchio – che ha barba rada e robuste mani da manovale – spiega:

 

Allora, che tu sappia: da tempi immemorabili esiste sulla terra un gruppo di uomini che guida il destino dell’umanità. Senza di loro da molto regnerebbe il caos. Tutti i grandi condottieri, se non erano iniziati della Comunità, furono ciechi strumenti nelle sue mani. Il nostro fine è eliminare le differenze fra poveri e ricchi, tra servi e padroni, tra sapienti e ignoranti, tra oppressori e oppressi, e trasformare questa valle di lacrime in un paradiso, una terra in cui la parola “dolore” sia sconosciuta. Il fardello sotto il quale geme l’umanità è la croce della personalità. L’anima universale si è frantumata in innumerevoli esseri individuali e questo stato di cose ha generato il caos. I nostri tentativi sono volti a riportare l’unità al posto della molteplicità.
Gli spiriti più nobili si sono posti al nostro servizio e l’ora del raccolto è alle porte. Ognuno dovrà diventare il proprio sacerdote. La gente è matura per scuotersi di dosso il giogo della Chiesa. La bellezza è l’unico dio, al quale l’umanità d’ora in poi rivolgerà le sue preghiere. Ma essa ha bisogno ancora di uomini vigorosi che le indichino la via per salire lassù in alto. Per questo noi padri dell’Ordine abbiamo emanato influssi mentali sul mondo che come dei falò hanno incendiato i cervelli per dare alle fiamme la dottrina individualista! La guerra di tutti per tutti! Trasformare la giungla selvaggia in un giardino, questo è il compito che ci siamo posti! Non senti come tutto in te incita all’azione? Perché continui a rimanere qui e a sognare? Forza, salva i tuoi fratelli!

 

Il passo è interessante. La presenza di fantasiosi gruppi di eletti che muoverebbero pedine nei retroscena della storia è del resto un altro tema caro a certa narrativa esoterica, teosofica o legata ad altre tradizioni: la grande differenza è tra chi li vede come persone in carne e ossa e chi li proietta su un altro piano dell’essere – pur con tutte le ambiguità e zone grigie del concetto.
Ovviamente rispetto al Volto verde la situazione è diversa, ma alcune consonanze sembrano presenti, in forma forse più radicale e simbolicamente schematica. L’amore e la vittoria sulla mortalità, il dominio sull’angoscia della morte, una dimensione apocalittica…
Preso dall’entusiasmo, il Nostro si informa sulle condizioni per l’ammissione nell’Ordine, sentendosi rispondere: “Cieca ubbidienza! Rinuncia ad una volontà propria! Agisci per il prossimo e non per te stesso!”, tutti passi necessari per condurre “dal groviglio selvaggio della molteplicità alla Terra Promessa dell’unità”. Sul resto non si preoccupi, pensieri e ordini li trasmetteranno loro: e alla disponibilità di Cristoforo, lo fa giurare. Si rende anzi conto in un barlume di agnizione che il volto del vecchio era raffigurato sul pomo di ematite della spada del padre e il suo pollice deforme era lo stesso di un vagabondo morto sulla piazza del mercato. Chiede dunque di dargli il segno, e porge al vecchio la mano con la destra insegnatagli dal padre. Ma si verifica una metamorfosi, il vecchio non è più un essere vivente ma un ammasso di membra divise: Cristoforo si copre gli occhi e la larva è sparita, lasciando solo un anello fluttuante contenente in forma vaga e coi contorni trasparenti il volto del vecchio… Ma a un tratto dalle labbra gli giunge la voce del progenitore, che lo avvisa della falsità di quell’immagine del Maestro, costruita dai Lemuri dell’abisso per sviarlo verso azioni insensate e miraggi fosforescenti come la “rinuncia a se stesso”. Vogliono distruggere “il sommo bene che un essere può conquistare: la consapevolezza eterna in quanto individuo” facendo leva su presunzione e avidità di potere, per cui “l’uomo si illude di ardere di un amore altruistico per il prossimo” finendo con l’essere una guida cieca. Il cuore dell’uomo non può racchiudere l’amore se non donato dall’alto, e ripetono il precetto di amarsi gli uni gli altri fino a vanificarlo. Così hanno profanato tutte le dottrine giunte dall’Oriente, e giudicano egoismo l’“unica azione che valga la pena di compiere, il lavoro su se stessi”. Intruppano la gente illudendola con il miraggio di diventare guide e a quel punto illuminati, e “sanno che la vita sulla terra è una fase di transizione” per cui illudono di poterla trasformare in Paradiso. “Essi hanno messo in libertà le ombre dell’Ade e infondono loro vita con una fluida forza demoniaca, affinché gli uomini credano che sia giunta l’ora della resurrezione dei morti”: e quella larva con le sembianze del Maestro la sguinzagliano tra chiaroveggenti, spiritisti e praticanti di disegni automatici. Si presenta come Giovanni Re, per far loro equivocare con l’Evangelista: tutto ciò per ingannare chi è maturo per cercare nella Verità e seminano dubbi dove sarebbe richiesta fede incrollabile. Non è chiarissimo quale filone esoterico qui Meyrink sta stigmatizzando, ma Cristoforo ha distrutto lo spettro esigendo la presa trasmessagli dal padre…
Risvegliato dalle parole del progenitore, il Nostro ha la sensazione di “precipitare nello spazio sconfinato”: poi si riprende, con la sensazione che una corrente magnetica l’abbia attraversato, e di sentirsi mutato, come gli si fosse dischiuso un nuovo senso. Poi sente di avere qualcosa in mano, una spada gli pende dal fianco, tenuta da una catena. Il senso interiore del tatto – il senso legato alle mani della presa iniziatica e del peculiare modo di pregare – sembra essersi destato in lui.

 

L’altra realtà confina direttamente con la nostra pelle, eppure non ce ne accorgiamo. La fantasia s’arresta, proprio nel punto in cui potrebbe creare un nuovo dominio!
L’anelito dell’uomo a forgiarsi divinità e la paura di essere solo con se stesso e diventare creatore del proprio mondo è ciò che gli impedisce di dispiegare le forze magiche che giacciono assopite in lui. […]
“Basta che tu stenda la mano e toccherai il volto della tua amata”, mi seduce ardentemente un pensiero, ma rabbrividisco all’idea che realtà e fantasia siano la stessa cosa. La verità ultima mi appare con un’orrenda smorfia digrignante!
La consapevoleza che da nessuna parte, né qui né là, ci sia realtà, e che esista solo l’immaginazione, mi sembra ancora più terribile della possibilità di diventare vittima di un contatto demoniaco o venir sospinto nel mare sconfinato della follia e delle allucinazioni!

 

Ma preferirebbe restare un pellegrino e vedere il padre e ricongiungersi con l’amata, preferirebbe cioè l’infinito da creatura al sole dell’eternità da dio coronato di forza creatrice… e impugnando la spada diviene consapevole del volto sul pomo.
“Quando scoccherà l’ora del grande incontro voglio essere a cielo aperto!”, per cui si arrampica sul tetto piatto della casa, sopra la città immerso nella notte. Il suo passato pare chiedergli di stringerlo a sé, di non lasciarlo perire nell’oblio.
All’orizzonte un baluginare di lampi, un occhio gigantesco che si spalanca, un ululato lontano: “Hai ucciso tutti i miei servi, ora tocca a me venire”. È la signora delle tenebre, Medusa. E una folata di vento gli annuncia la camicia di Nesso: lui all’inizio non capisce, mentre il fiume sottostante lo invita s nascondersi e gli alberi frusciano terrorizzati: “La sposa del vento dalle mani strangolatrici! I centauri della Medusa, la caccia selvaggia! Abbassate le teste, il cavaliere con la falce sta arrivando!” – si noti l’immaginario simbolista da quadro di Von Stuck (1863-1928, nato e morto per inciso nella stessa Baviera dove vive Meyrink). Ma nel suo cuore la voce di Ofelia dice che lo attende…
Echeggiano colpi, brillano luci, qualcosa precipita: sono sfere, i bolidi – probabilmente intende quelle meteore capaci di emettere suono, di avere luci di colore vario (al contrario della quasi totalità delle meteore comuni, dove è bianco), forse mixate qui all’immaginario sui fulmini globulari. Ma chiaramente il fenomeno naturale ha in questo caso valenza simbolica:

 

“I bolidi!” Quando venni a sapere della loro esistenza nei libri che lessi da ragazzo, credetti che la descrizione dei loro misteriosi comportamenti fosse una favola, invece, sono proprio reali! Esseri ciechi, carichi di energia elettrica, bombe dell’abisso cosmico, teste di demoni senza occhi, bocca, orecchie e naso, emersi dalle voragini della terra e dell’aria, vortici roteanti attorno al punto centrale dell’odio, il quale privo degli organi di senso, semicosciente, cerca a tentoni le vittime della sua furia distruttiva.
Se questi esseri possedessero una figura umana, di quale terribile forza sarebbero dotati? La mia tacita domanda li ha attirati, la sfera incandescente che all’improvviso abbandona la sua traiettoria si sta forse dirigendo verso di me? Ma proprio quando ha quasi raggiunto la ringhiera, fa marcia indietro, scivola sopra un muro, s’infila in una finestra aperta ed esce da un’altra, assume una forma allungata, un raggio infuocato scava un cratere nella sabbia con un tale fracasso di suoni che la casa trema e il pulviscolo sale fino a me.
La sua luce accecante come un sole bianco mi brucia gli occhi; la mia figura per un istante è illuminata in modo così vivido che il riflesso mi riempie le palpebre e si scava nella mia coscienza.

 

Domanda a Medusa se lo veda, lei risponde di sì, “maledetto!”. Una sfera rossa si solleva, diventando sempre più grande, lui stende le braccia e mani invisibili afferrano la sua con la presa dell’Ordine – la catena vivente si perde all’infinito… e tutto ciò che di corruttibile resta in lui viene arso. Rimane eretto a rosseggiare di fiamme con la spada al fianco: “Sono dissolto, per sempre, con il corpo e con la spada”. Perché in fondo, come aveva spiegato, il segreto tra i segreti è la trasmutazione alchemica della forma corporea, attribuendo al corpo la più vasta latitudine fisica, psichica e intellettuale. Ma solo chi è odiato dalla Medusa può raggiungere la meta finale, perché riduce al suo stato originale l’essenza dell’iniziato permettendogli di rinascere.

(13-continua)

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Terrestri e Viandanti https://www.carmillaonline.com/2025/08/22/terrestri-e-viandanti/ Fri, 22 Aug 2025 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89949 di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Lo scarabeo nel formicaio, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Claudia Scandura, pp. 256, € 18,50, Carbonio, Milano 2024.

“Noi non avevamo scritto un giallo. Noi avevamo scritto una storia tragica sul fatto che, persino nel mondo più buono e giusto possibile, l’apparizione della polizia segreta porta inevitabilmente sofferenza e morte a persone che non sono colpevoli di nulla, per quanto nobili siano gli scopi di questa polizia segreta e per quanto onesti, corretti e per bene siano i collaboratori di cui si è dotata.” Corre l’anno 2179. Maksim Kammerer, agente al servizio [...]]]> di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Lo scarabeo nel formicaio, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Claudia Scandura, pp. 256, € 18,50, Carbonio, Milano 2024.

“Noi non avevamo scritto un giallo. Noi avevamo scritto una storia tragica sul fatto che, persino nel mondo più buono e giusto possibile, l’apparizione della polizia segreta porta inevitabilmente sofferenza e morte a persone che non sono colpevoli di nulla, per quanto nobili siano gli scopi di questa polizia segreta e per quanto onesti, corretti e per bene siano i collaboratori di cui si è dotata.”
Corre l’anno 2179. Maksim Kammerer, agente al servizio della Commissione di Controllo (COMCON), riceve l’incarico di trovare Lev Abalkin, esiliato dalla Terra che è tornato sul pianeta senza registrare il proprio ingresso. Tutto quello che Kammerer sa di Abalkin è che è un progressore, ovvero un esperto facilitatore nelle relazioni interplanetarie.
Inizia così a prender forma una detective story nella quale la caccia all’uomo si trasforma pagina dopo pagina in ricerca della verità e in cui più volte Maksim Kammerer (e noi con lui) si trova a chiedersi quale sia la parte del giusto, in un conflitto che travalica quello individuale tra fuggitivo e inseguitore.
Più di altri romanzi dei fratelli Strugackij, Lo scarabeo nel formicaio appare dialogico già nella sua costruzione: un dialogo in cui le domande hanno più rilevanza delle risposte e in cui le stesse risposte non hanno mai la forma di affermazioni, piuttosto di ipotesi; ma comunque un dialogo che rende vive le motivazioni dell’una e dell’altra parte. Gli autori mescolano le carte: una detective story scritta come una relazione investigativa dal taglio scientifico, schematico, in cui le ipotesi vengono scandagliate e tutti i passaggi di azione vengono precisati in modo analitico (con indicazione metodica di date, orari, durate e localizzazione: la frase di apertura del romanzo è proprio “Alle tredici e diciassette Sua Eccellenza mi convocò”); dall’altro lato, un romanzo nel romanzo che consta di un dossier scientifico vero e proprio, detto semplicemente “Rapporto di Lev Abalkin sull’operazione Mondo Morto”, la cui forma invece è libera e concepita per consentire agli psicologi di desumere dal testo le sensazioni soggettive e personali del suo autore.
Anche all’interno di ciascuno dei due blocchi narrativi c’è poi un continuo gioco di doppi.
Oltre alla contrapposizione Kammerer/Abalkin, il conflitto che innesca tutta la vicenda è quello tra i due monoliti Rudolf Sikorski e Isaak Bromberg. Entrambi sono a conoscenza del mistero che aleggia intorno ad Abalkin ma, mentre Bromberg, anziano storico ottimista, reputa Lev innocuo come uno scarabeo in un formicaio, Sikorski, a capo del COMCON, deve farsi carico della sicurezza mondiale e pertanto assume una postura sospettosa e valuta Lev come una possibile minaccia per la Terra.
Nel dossier, l’elemento del doppio è incarnato nella coppia formata da Lev Abalkin e Ščekn, un ranger appartenente alla specie dei testoni, alieni con l’aspetto di uomini-cane. Uno dei temi più affascinanti nel testo è la descrizione del rapporto tra le due diverse specie, umana e testona. Si tratta di una relazione complessa, perché presenta contemporaneamente elementi di trasparenza e di opacità: trasparenza nel momento in cui i testoni sono perfettamente integrati in un ambiente e perciò le loro azioni appaiono “naturali”; opacità perché tale disinvoltura è legata a un istinto che segue regole aliene diverse da quelle alle quali è sottomessa la razionalità umana e ha delle motivazioni che sono e restano incomprensibili. Lungo tutto il suo rapporto, Lev Abalkin si interroga sulle azioni del suo amico Ščekn, cerca di interpretarne i movimenti, senza mai raggiungere ipotesi soddisfacenti. E noi che leggiamo abbiamo l’impressione di un profondo non detto e non dicibile che separa i due, un buco nella comprensione reciproca talmente profondo che ci porta a chiederci se e in che misura sia possibile un’amicizia non solo tra due specie diverse (certo, questo ci interroga a maggior ragione), ma tra due qualsiasi individui diversi, perché le intenzioni e i pensieri profondi dell’altro rimangono per noi sempre e solo sul piano delle ipotesi e della fiducia.
E questo risulta ancora più interessante se messo nella prospettiva di una scrittura a quattro mani, in cui non è scontato che i due autori insieme vogliano e non vogliano le stesse cose.
La diversità di Abalkin e Ščekn viene resa non solo attraverso il loro dialogo – o l’assenza di esso nelle riflessioni di Lev – ma anche attraverso la differenza di percezioni tra i due, così dove Lev vede “una casa come un’altra”, “Ščekn la guarda fisso, la punta con un’attenzione vigile” attribuendole un pericolo definito “un odio fortissimo”. O ancora, in un altro passaggio, Lev dice nella lingua dei testoni di non vedere alcuna fossa e Ščekn replica “Non puoi vedere. Non sei capace.”
È curioso che nella postfazione al romanzo questo, che in fase di progetto non aveva ancora un titolo, venga chiamato provvisoriamente “Bestie”, che è la parola che usiamo in due casi: quando dobbiamo indicare un animale non umano che non sappiamo identificare e quando vogliamo connotare negativamente l’animale. Entrambe le sfumature di significato sono presenti nel modo in cui i terrestri si riferiscono ai Viandanti.
In effetti, la comprensione dell’altro, dei suoi bisogni e delle sue intenzioni, non è solo il nocciolo del romanzo nel romanzo, ma si erge a tema portante di tutto il testo e ne influenza la struttura. È il motivo per cui Lev Abalkin scappa e viene inseguito e, prima ancora, per cui parte dell’umanità, nonostante sia un’utopia in cui tutti gli abitanti della Terra convivono nell’interesse del bene collettivo, è così spaventata dai sarcofagi-incubatrici che i Viandanti hanno abbandonato sul pianeta. Il problema dell’inconosciuto si propaga e si somma a un’ulteriore questione che i due autori hanno particolarmente a cuore, ovvero il ruolo della polizia segreta, per quanto utopica sia la società in cui essa opera e per quanto nobili siano le intenzioni dell’istituzione.
La sintesi tra queste due tensioni ci conduce alla domanda che costituisce il nodo cruciale del romanzo, nodo che non ha soluzione: in che misura è possibile superare la paura dell’ignoto e assicurare la sicurezza e il bene dell’intera civiltà terrestre senza sacrificare la libertà e i diritti dell’individuo?
Questa domanda, come l’indagine di Maksim Kammerer, rimane un mistero aperto, che ammette nessuna o più risposte possibili. Ed è sul dubbio che sia o meno possibile trovare una risposta al dilemma che Lo scarabeo nel formicaio instaura con noi che lo leggiamo un dialogo profondo e durevole.

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Diritto all’abitare, diritto alla città https://www.carmillaonline.com/2025/08/21/diritto-allabitare-diritto-alla-citta/ Thu, 21 Aug 2025 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89896 di Giovanni Iozzoli

Barbara Russo, Le case dei sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, Monitor, Napoli 2025, pp. 109, € 12,00

Il tema dell’abitare ha assunto una centralità paragonabile al tema lavoro, nella definizione delle gerarchie sociali e dei destini individuali, dentro le metropoli tardocapitaliste.

Questa è una novità della fase storica che stiamo vivendo. Fino a vent’anni fa il reddito/lavoro costituiva la premessa per l’accesso al bene casa. Sulla base del reddito si articolavano le diverse modalità di fruizione del diritto all’abitare – affitto, acquisto diretto, mutuo. Il lavoro era la precondizione dell’accesso alla merce casa. Oggi, le [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Barbara Russo, Le case dei sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, Monitor, Napoli 2025, pp. 109, € 12,00

Il tema dell’abitare ha assunto una centralità paragonabile al tema lavoro, nella definizione delle gerarchie sociali e dei destini individuali, dentro le metropoli tardocapitaliste.

Questa è una novità della fase storica che stiamo vivendo. Fino a vent’anni fa il reddito/lavoro costituiva la premessa per l’accesso al bene casa. Sulla base del reddito si articolavano le diverse modalità di fruizione del diritto all’abitare – affitto, acquisto diretto, mutuo. Il lavoro era la precondizione dell’accesso alla merce casa. Oggi, le due categorie – casa e lavoro – si sono in qualche modo sganciate dal reciproco rapporto di dipendenza. Si può avere un lavoro e non avere diritto all’abitare, anche dentro condizioni contrattuali dignitose. Si può lavorare 50 ore a settimana e finire col dormire in una macchina.

La specialissima merce casa si è come autonomizzata dall’ordinario meccanismo di formazione del prezzo delle merci. E’ diventato un terreno nuovo di gerarchizzazione dei rapporti sociali, la linea di confine tra il “dentro” e il “fuori”, tra l’appartenenza alla polis e la collocazione nei suoi bordi sfrangiati. La casa è un prisma attraverso cui si possono leggere in controluce diverse tendenze generali in atto: la crisi dei ceti medi, la ripolarizzazione feroce della distribuzione del reddito, lo spazio urbano come luogo privilegiato di incontro tra capitale finanziario e produttivo, l’espansione della bolla immobiliare come indicatore ultimo della decadenza economica di un “capitalismo nazionale”.

Infatti l’impazzimento del valore e dei prezzi del mercato immobiliare è in stretta connessione con la crisi generale del sistema capitalistico, con le sue difficoltà di autovalorizzazione che costringono ad individuare le superfici edificabili, come unica controtendenza alla caduta dei profitti nei settori di impiego tradizionale. Quando una metropoli si deindustrializza, sposta tutte le sue energie e risorse su quel terreno – dietro le ambigue formule del ridisegno urbanistico, della riqualificazione, del contrasto al degrado, del restyling etc – e la città, le sue mura, le sue strade, le sue piazze, le sue abitazioni, diventano snodo centrale del ciclo di valorizzazione.

Il possesso/eredità di un immobile (familiare) è oggi la modalità  prevalente e quasi esclusiva per accedere al mutuo/acquisto, mentre l’affitto è sopposto ad un vertiginoso processo di rendita speculativa pressoché inarrestabile – tendenza che rende la società italiana sempre più simile a quella degli Stati Uniti. Lavoro/reddito/casa rappresentano un intreccio tematico in radicale ridislocazione; e per raccontare la moderna condizione proletaria nella metropoli, sarà necessaria una nuova qualità dell’indagine sociologica e dell’inchiesta sul campo.

E’ lo sforzo che affronta Barbara Russo nel suo libro Le case dei sogni, un testo che si inserisce nel filone di indagine che il ricercatore collettivo Monitor  continua a produrre, partendo dalla metropoli napoletana ma relazionandosi agli analoghi fenomeni più generali della società italiana.

A Napoli, il nodo del diritto all’abitare si intreccia strettamente con i processi di turistificazione e gentrificazione (alla napoletana) di quello che è il centro storico più vasto e popolato d’Europa. E tali processi a loro volta ridisegnano il mercato del lavoro e riconfigurano la cartografia dei poteri sul territorio – tra governi locali, imprenditoria privata tradizionale e nuova imprenditoria del terzo settore. Un approccio analitico che inquadra Napoli, quindi, non come eterna capitale dell’arretratezza, bensì laboratorio avanzato di tendenze della ristrutturazione capitalistica – nonché di forme originali di resistenza sociale.

Barbara Russo sceglie l’approccio etnografico, ormai indispensabile per indagare le fenomenologie sociali complesse, intervistando diverse tipologie di figure che si ritrovano nel vortice dei cambiamenti. Si va dai privati cittadini lanciati nella speculazione del b&b fai da te, agli operatori più strutturati che hanno scelto la via del property manager – l’intermediazione professionale che si va regolarizzando sul piano normativo e fiscale, creando anche nuovi elementi di stratificazione sociale. Fino ad arrivare ai “danni collaterali” prodotti da ogni espansione di mercato: le persone vittime dell’espulsione dal centro di Napoli, cacciate da case destinate ad essere fagocitate dentro al ciclo della speculazione turistica.

Molti degli intervistati raccontano di essere rimasti nelle loro case quando i proprietari hanno alzato i canoni di locazione all’improvviso, di aver accettato di pagare fitti più alti pur di continuare a vivere in quelle case, di aver assecondato le sempre nuove richieste dei proprietari nonostante l’assenza di manutenzione e contratti registrati per metà o del tutto in nero. Quando sono arrivati gli sfratti, alcuni di loro hanno provato a resistere, non solo perché non avevano altri posti dove andare, ma anche per salvaguardare il legame affettivo con le loro case e non perdere i rapporti con il vicinato, che in molti casi fornivano loro anche una possibilità di accedere al lavoro e al welfare. Chi alla fine ha dovuto lasciare la casa, ha preferito accettare canoni di locazione più alti a fronte di condizioni abitative peggiori, oppure si è fatto ospitare da amici e parenti, rinunciando ad avere una casa propria pur di rimanere in questi quartieri, vicino alle proprie comunità, ai luoghi di lavoro, alle scuole dei figli e agli spazi dove si svolge la propria vita quotidiana. (pag. 11)

La maggior parte dei soggetti più deboli, non possono che cedere alla speculazione e alla forza di impatto dell’industria turistica. Racconta una famiglia intervistata:

Da otto anni viviamo in questa casa, qui abbiamo le nostre abitudini, la scuola, il parco, la chiesa; si tratta di perdere tutto (…). Il proprietario ci ha detto che ce ne dobbiamo andare perché vendono tutto, anche gli altri due appartamenti che hanno nel palazzo. Gli avevo chiesto di mantenere l’affitto ma mi ha risposto che tutti gli appartamenti diventeranno b&b e che quindi non è possibile restare. Saranno venute a vedere la casa più di cinquanta persone: parlano di come aggiustarla, di cosa cambiare per farne un b&b… (pag. 60)

Quindi il passaggio storico, epocale, che ha investito Napoli, nel racconto di Barbara Russo, è facilmente leggibile.
Attori sociali vecchi e nuovi individuano nel centro storico della città un terreno di valorizzazione che può essere venduto all’industria dell'”esperienza turistica”, che dall’inizio del secolo in corso ha cominciato a inserire Napoli nella sua mappa di itinerari pregiati. La composizione sociale popolare e sottoproletaria di quei quartieri rappresenta un ostacolo a tale valorizzazione, ma anche una risorsa in quanto serbatoio di mano d’opera inutilizzata. Comincia il processo di espulsione delle classi povere che liberano metri quadri per l’uso turistico e allo stesso tempo la messa in valore della forza lavoro che in quei territori vive. Nasce la retorica del turismo come Grande Occasione di emancipazione. Si uso lo stigma che ricade da sempre sui quartieri popolari – parassitismo e malavita – per legittimare il ridisegno urbanistico e sociale dei territori. Nel racconto che ne fanno i residenti, alcuni rioni, come la Sanità, aderiscono perfettamente a questo schema – senza dimenticare che le vite delle persone non sono né schemi né statistiche.

Una delle maggiori contraddizioni che saltano all’occhio quando si osserva ciò che sta accadendo alla Sanità riguarda lo squilibrio tra il potere d’acquisto dei turisti e quello dei residenti. Dai beni di prima necessità, fino alle attività commerciali e di ristorazione, i prezzi sono aumentati ma la povertà del quartiere è rimasta invariata. Applicato al campo degli affitti, questo scarto rivela un nuovo cortocircuito prodotto dall’economia turistica, capace di tagliare in due la città: un mercato immobiliare dai valori sempre più alti che non coincide con i redditi e le possibilità economiche degli abitanti, apre la strada a nuovi attori (pag. 67)

E quindi, sovente, lo sfrattato, diventa anche carne da macello dell’industria turistica.

Nel caso di Cinzia, come in quelli di Dinesh, Pramila e altri intervistati che hanno perso la casa, proprio chi è impiegato come mano d’opera precaria, flessibile e sottopagata nel comparto alberghiero o extra-alberghiero, è poi coinvolto nelle sue “esternalità negative”, in primis gli sfratti e la perdita della casa. (pag. 81)

La retorica delle Grande Occasione, l’eterno mito del Risanamento napoletano, il turismo come moderna panacea alla crisi delle metropoli e il nodo casa come nuovo ordinatore sociale, sono fenomeni ricorrenti che investono tante città ma che a Napoli si presentano nelle forme più trasparenti e leggibili. Le analisi elaborate in questo libro, prodotte “dall’interno” dello tsunami sociale che sta ridisegnando le metropoli, rappresentano il racconto vivo, in presa diretta, di un grande cambiamento che arricchirà pochi e peggiorerà le condizioni di tanti. Senza il protagonismo dei soggetti che vivono la città, senza il rispetto dei loro bisogni e della loro storia, nessuna emancipazione è possibile: soprattutto se fondata sulla speculazione immobiliare.

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Il corollario razzista e imperialista del mito della Frontiera https://www.carmillaonline.com/2025/08/20/il-mito-della-frontiera-e-il-suo-corollario-razziale/ Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89654 di Sandro Moiso

David W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 336, 16 euro

Sull’importanza della Frontiera nella storia degli Stati Uniti e, soprattutto, per la creazione del mito americano non vi può essere più alcun dubbio. Questo assunto è d’altra parte facilmente verificabile a partire dall’opera di Frederick Turner, intitolata The Frontier in American History pubblicata nel 1953, che raccoglieva una serie di saggi dello stesso autore editi tra il 1920 e il 1947.

Come ben riassumeva Mauro Calamandrei nell’introduzione all’edizione italiana dello stesso testo [...]]]> di Sandro Moiso

David W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 336, 16 euro

Sull’importanza della Frontiera nella storia degli Stati Uniti e, soprattutto, per la creazione del mito americano non vi può essere più alcun dubbio. Questo assunto è d’altra parte facilmente verificabile a partire dall’opera di Frederick Turner, intitolata The Frontier in American History pubblicata nel 1953, che raccoglieva una serie di saggi dello stesso autore editi tra il 1920 e il 1947.

Come ben riassumeva Mauro Calamandrei nell’introduzione all’edizione italiana dello stesso testo (il Mulino, Bologna 1959): «Cos’è la teoria o l’ipotesi della frontiera? La storia americana, secondo la teoria di Turner, è essenzialmente una storia di colonizzazione dell’Ovest. La chiave di questo processo è la presenza di una frontiera mobile che continuamente si ritira aprendo nuovi orizzonti economici e umani».

Aggiungendo poco dopo che il termine frontiera, nella lingua e nell’immaginario americani non ha mai avuto il senso di una linea di confine e di chiusura di spazi definiti, come nell’originale termine inglese “frontier”, ma piuttosto quello attribuitogli da Walter P. Webb, uno dei più significativi discepoli di Turner, secondo il quale: «La frontiera non costituisce una linea in cui fermarsi, ma un’area che invita ad entrare».

Originariamente il termine aveva lo stesso significato e in Inghilterra e nel continente europeo e nelle colonie inglesi del Nord-America. Il cambiamento di significato del termine fu determinato dalla consapevolezza che, attorno agli insediamenti coloniali, non c’era un confine rigido e impenetrabile se non sotto la pressione eccezionale di un conflitto bellico; c’era invece spazio aperto e disponibile. La scoperta di questo fatto dava al dinamismo espansionista, che era alla base della creazione delle colonie, nuovo vigore e nuova vitalità. La consapevolezza di trovarsi all’orlo di un continente, che aspettava solo di essere esplorato, conquistato e sfruttato, era travasato nel linguaggio stesso e nel significato traslato che parole come frontier venivano ad assumere. Mitford M. Mathews è in grado di citare esempi di un simile uso del termine che risalgono a prima della fine del ‘6001.

Ma in realtà il mito della frontiera ha costituito da sempre, e per questo è possibile far risalire l’uso traslato del termine a prima della fine del XVII secolo, l’orizzonte dell’espansionismo coloniale europeo che proprio sulle rotte atlantiche, e quindi ad Ovest del continente, aveva iniziato a costruire i propri imperi. Rompendo così quella tradizione antica, ancora riportata da Dante Alighieri nel XXV canto dell’Inferno, quello di Ulisse, secondo cui ad Occidente poteva estendersi soltanto il mondo dei morti.

Morti in effetti ce ne sarebbero poi stati parecchi, milioni addirittura, nel corso dell’espansione europea verso occidente, ma quasi tutti furono gli abitanti, fino allora ben vivi e felici, di quelle terre che si ritenevano disabitate e selvagge. Prive di civiltà e barbare. Motivazioni per cui una certa razzializzazione della storia poteva permettere di fare affermare a Jesup D. Scott nel 1859 che:« Il movimento verso Occidente del ramo caucasico della razza umana, dagli altopiani dell’Asia, prima verso l’Europa e poi, con crescente marea, verso il Nuovo Mondo, con gran moltitudine di uomini, è il fenomeno più grandioso della storia»2.

In un contesto in cui, come bene ha ricostruito lo storico e sinologo Martin Bernal nella sua opera più importante e controversa, Atena nera3, alle precedenti ricostruzioni delle origini della civiltà greca che trovavano spunto in quelle mesopotamiche ed egizie si stava ormai sostituendo una visione indo-europea o ariana della nascita della stessa. Ipotesi fortemente sostenuta, anche a livello di formazione scolastica e universitaria fin dai primi decenni dell’Ottocento, prima in Germania e poi anche nelle società di lingua inglese.
Come sostiene Bernal l’incoraggiamento dato all’istituzione di corsi di Altertumswissenschaft (Scienza dell’Antichità) all’interno delle Università tedesche determinava la visione di un uomo greco di carattere “divino”, poiché capace di arte e filosofia.

Era inoltre necessario che i Greci – così come voleva l’immagine idealizzata dai Tedeschi – fossero integrati al proprio suolo nativo, e fossero puri. Il modello antico, con le sue varie invasioni e frequenti prestiti culturali e le implicite conseguenze di mescolanza razziale e linguistica, divenne sempre più intollerabile4.

Ora al di là della persistenza e della validità o meno dell’esistenza di una lingua indoeuropea o di popoli accomunabili sotto questa definizione come ariani o arii5, la fascinazione esercitata da una cultura di tali origini per lo sviluppo delle società germaniche divenne di fondamentale importanza per lo sviluppo del razzismo dell’imperialismo e del colonialismo sia inglese che tedesco e più in generale di un Occidente che sempre più spesso avrebbe rivendicato le proprie origini culturali nella tradizione “classica”.

Ogni razza che ha lasciato segni profondi sulla comunità umana è stata la portavoce di qualche grande idea che ha imposto una direttiva alla vita nazionale una forma alla sua civiltà […] Le razze più nobili sono sempre state amanti della libertà. Quell’amore operava fortemente nel primigenio sangue germanico e ha profondamente fatto sentire il proprio influsso sulle istituzioni di tutti i rami della grande famiglia tedesca; ma venne riservata alla razza anglo-sassone la missione di riconoscere nella sua pienezza il diritto dell’individuo a se stesso e a dichiarare formalmente tale diritto fondamento del governo.

Così si esprimeva, nel 1885, Josiah Strong (1847-1916), un ecclesiastico e autore protestante, fondatore del Social Gospel movement, dedito alla difesa delle libertà e alla diffusione di un’opera missionaria che facesse sì che tutte le razze potessero essere migliorate ed elevate e quindi portate a Cristo. Nel suo libro Our Country da cui è tratta la precedente citazione, Strong sosteneva che gli anglo-sassoni costituiscono una razza superiore che deve “cristianizzare e civilizzare” le razze “selvagge”, il che sosteneva sarebbe stato un bene per l’economia americana e per le “razze minori”6.

E’ chiaro che tutto questo insistere sull’”amore per la libertà” rimandava inevitabilmente a quella civiltà classica, possibilmente ateniese dal punto di vista del pensiero politico e filosofico, che gli storici tedeschi e inglesi dell’Ottocento cercavano di avvallare come essenza di una civiltà che era sorta proprio combattendo la barbarie asiatica, poi rimasta nell’immaginario politico occidentale fino agli attuali deliri sulle autocrazie nemiche della libertà e della “vera” democrazia. Che poi, proprio ad Atene, questa democrazia e questa libertà riguardassero soltanto un ristretto numero di individui maschi e non le donne, gli schiavi e i meteci (gli stranieri più o meno integrati nell’economia della città-stato) sembra avere oggi, come allora, scarsa importanza nel dibattito politico liberale.

Secondo Albert J. Beveridge (1862- 1927), storico e senatore statunitense, infine, il generale dell’Unione e poi diciottesimo presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant (1822-1885):

Non dimenticò mai che siamo una razza conquistatrice e che dobbiamo obbedire agli imperativi del nostro sangue e conquistare nuovi mercati e se necessario nuove terre. Grant ebbe la virtù profetica di prevedere, come parte dell’imperscrutabile piano dell’Onnipotente, la scomparsa delle civiltà inferiori e delle razze decadenti di fronte all’avanzata delle civiltà superiori formate dai tipi più nobili e più virili di uomini.
[…] Grant aveva l’istinto dell’impero. Sognò gli stessi sogni che Dio suscitò nelle menti di Jefferson, Hamilton, di John Bright e di Emerson, e di tutti gli intelletti imperiali della sua razza; il sogno dell’America che si espande finché tutti imari vedranno sbocciare il fiore della libertà e sventolare la bandiera della nostra repubblica […] E la legge americana, l’ordine americano, la civiltà americana e la bandiera americana verranno stabiliti su spiagge lontane che, fino ad oggi insanguinate e oscure, diventeranno magnifiche e felici.
Se questo significa un canale sull’istmo con bandiera a stelle e strisce che sventola anche sulle Hawaii, su Cuba e sui Mari del Sud, se questo significa un impero americano nel nome della grande repubblica e delle sue libere istituzioni, accogliamo questo significato con gioia esultante e realizziamo concretamente questo significato, senza curarci di ciò chele forze della barbarie e dei nostri nemici possono dire o fare7.

Il discorso fu pronunciato in occasione della guerra ispano-americana con cui, nel 1898 e a seguito di un attentato inventato, gli Stati Uniti portarono i loro confini occidentali ancora più lontano, sul Pacifico con le isole Hawaii e al di là dello stesso oceano, nelle Filippine. Un discorso dal carattere “profetico” cui nulla ha aggiunto ogni promessa americana da Franklyn Delano Roosevelt a John Fitzgerald Kennedy (promotore di una Nuova Frontiera nello spazio), fino a Donald Trump e al suo pupillo e nemico Elon Musk.

Tutto questo per delineare il clima culturale che aveva circondato la stesura del romanzo appena pubblicato dalle edizioni Bibliotheka, che, più che per il suo valore letterario, vale la pena di essere letto come testimonianza di un periodo in cui, soprattutto nella cultura di lingua tedesca e anglofona, si andava affermando un mito ben preciso: quello della derivazione ariana della cultura greca, ritenuta all’epoca, e poi ancora successivamente, non soltanto fondativa di quello che allora era ancora un confuso, e non del tutto definito nei suoi confini geografici, “Occidente”, ma massima espressione di una civiltà destinata a sottomettere a sé tutti i popoli ancora barbari.

Il romanzo The American Family Robinson, pubblicato per la prima volta nel 1853 a Filadelfia, narra la storia della famiglia Robinson e delle sua avventure durante il trasferimento verso Ovest cui dà inizio il desiderio “innato” dei suoi componenti di trasferirsi sempre più a Ovest. Come afferma lo stesso autore nel Prologo:

Le altissime montagne, le possenti foreste, i fiumi e le valli del West, buona parte dei quali a tutt’oggi rimane inesplorata, sono spesso motivo di immensa gratificazione per i nostri valevoli naturalisti, lapidari e archeologi. E’ pertanto con l’intento di mettere in luce una tale tipologia di fonti che l’autore ha raggruppato in questa piccola opera i numerosi e sconvolgenti avvenimenti della vita nelle praterie, facendo qua e là cenno a resti del passato che inequivocabilmente testimoniano l’esistenza di una misteriosa e progredita civiltà, rispetto alla quale svariate scoperte hanno in seguito provato che le ipotesi da lui propagate erano corrette.
Del fatto che questo paese sia stato popolato da una civiltà che ha preceduto le tribù indiane, nonché i loro progenitori, non vi è ormai più dubbio alcuno. Ovunque nel West, e in molti luoghi ad est della valle del Mississippi, prove inconfutabili attestano l’antichità dei cimeli e dei monumenti lasciati da un popolo di cui razza, nome e costumi sono andati perduti nell’oscurità che sempre aleggia su di un passato maestoso. Al fine di richiamare con maggiore efficacia la curiosità del lettore su queste remote testimonianze, e per instillare nelle menti dei giovani la sete per l’indagine scientifica, l’autore ha incidentalmente accennato a queste vestigia mentre seguiva la famiglia di Mr. Duncan nella sua faticosa peregrinazione attraverso il Gran Deserto Americano8.

Con queste premesse e promesse il romanzo divenne ben presto un best-seller ed eguagliò in popolarità un romanzo come Robinson Crusoe di Daniel Defoe, che anticipava di quasi due secoli la teoria del White Man’s Burden, ovvero del fardello dell’uomo bianco, espressa da Rudyard Kipling nel 1899. Personaggio dai molteplici interessi, David W. Belisle (New Jersey 1827 – Philadelphia 1890) fu scrittore, poeta, giornalista nonché sindaco di Atlantic City dal 1866 al 1867, e, oltre al romanzo in questione, pubblicò anche una serie di guide turistiche sulla parte orientale degli Stati Uniti.

Nonostante il fatto che le vicende si svolgano tra foreste imponenti, montagne selvagge, fiumi e valli immortalati nella loro naturale bellezza, prima che lo sviluppo capitalistico contribuisse alla loro devastazione insieme alla scomparsa dei bisonti e delle tribù dei nativi, il testo finisce col costituire principalmente una anticipazione delle origini del mito della frontiera e delle giustificazioni razziste dell’espansionismo a stelle e strisce in territori e tra popoli quasi sempre definiti come “selvaggi”.

Ma a differenza di molti altri romanzi di tal fatta, tra i quali quelli di James Fenimore Cooper non sono certo i peggiori, quello di Belisle introduce una novità già anticipata nel prologo citato prima: quello di una civiltà anteriore sia a quella delle popolazioni amerindie che di quella europea giunte successivamente sul continente. Civiltà che si manifesta prima con il ritrovamento di manufatti di rame da parte di due ragazzini della famiglia Duncan e poi attraverso la narrazione dello zio che, durante la sua gioventù, avrebbe incontrato, commerciando con una tribù di nativi sulle sponde del Lago Superiore, uno strano individuo, un anziano, dalla barba fitta, pettinata, divisa in due sul labbro superiore, che gli ricadeva fin sul petto.

La sua doveva essere stata una corporatura forte, atletica, perché era alto più di sette piedi (circa due metri – N.d.R.), e sebbene barcollasse, aveva le ossa dritte e gli occhi blu, irradiati di uno spirito che la vecchiaia non era riuscita a sottomettere. Le sue caratteristiche fisiche, così come la sua carnagione, erano completamente diverse da quelle del resto della tribù. La fronte era alta e spaziosa, il mento largo e prominente; le labbra piene, dotate di un’espressività che non avevo mai veduto in nessun altro essere umano, gli conferivano un’aria di nobiltà mista ad agonia e infelicità senza speranza […] Era un vecchio strano, insomma; tanto diverso da chiunque altro, che la sua sola presenza bastava a suscitare rispetto e riverenza. Gli indiani poi non hanno barba. Questo particolare ci faceva supporre che si trattasse di un uomo bianco; ma a volerlo paragonare alle razze occidentali, ci si rendeva conto che non aveva nulla in comune né con gli europei né con i nativi9.

L’inserimento nella narrazione di questa via di mezzo tra un Neaderthal e un semidio greco, permette successivamente a Belisle di inserire, a mo’ di insegnamento per le giovani generazioni e tutti gli altri lettori, la sua visione del declino delle razze o della loro sopravvivenza, oltre che la convinzione di una razza superiore, quella evidentemente ariana nei tratti fisici descritti, di cui occorrerebbe ritrovare la purezza, così come la famiglia Duncan potrebbe fare spingendosi ai confini dell’Occidente.

Per comprendere appieno la narrazione tossica insita nel romanzo è qui d’uopo riportate le parole del vecchio, esposte dallo zio, la cui curiosità giovanile aveva commosso e spinto l’anziano e unico superstite di una “razza superiore” a raccontare il misterioso passato del continente americano.

Vieni qua, figlio di una razza degenere, e apprendi i segreti del passato. Molto prima che la tua razza sapesse dell’esistenza di questo continente, la mia gente viveva nel vigore e nella gloria della prosperità di una nazione. Dall’estremo Nord, dove gli iceberg resistono al sole, fino alle rocce brulle del profondo e torrido Sud, tutto era nostro, da un oceano all’altro!
[…] Ma sorsero problemi. I nostri re avevano accolto sul loro territorio due altre razze, in principio soltanto una manciata di uomini portati dai venti sulle nostre coste in due diverse ondate. Quelli che per primi erano stati condotti alla nostra ospitalità erano civilizzati, a loro modo, e superiori alle bestie, sebbene inferiori a noi per numero. Ma la differenza fra i nostri popoli era tale che il matrimonio misto veniva punito con la morte. Erano umani, e quindi li proteggevamo, e l’insignificanza era a quel tempo la loro più grande amica […] L’altra razza era invece composta da selvaggi della specie peggiore, rozzi più degli animali da preda. Fu così che si moltiplicarono e divennero forti […] Le nostre foreste si popolarono di bestie in forma umana, e le nostre regioni di una nazione di ebeti. Trascorsero i secoli, e i selvaggi si moltiplicarono e divennero arroganti […] Finalmente, ahimè troppo tardi, ci rendemmo conto del pericolo. Li scacciammo dalle nostre città fino alle montagne. Ma prima che potessimo vendicare i loro oltraggi, l’altra razza si mosse come uno sciame di locuste, e proclamandosi nostra pari chiese di essere riconosciuta come tale […] Poi cominciò una terribile guerra di sterminio. Il continente venne sommerso dal sangue. Noi combattevamo per le nostre famiglie e il nostro paese, loro per la supremazia […] Dopo tutti questi secoli siamo stati dimenticati, nella lotta fra la razza per metà civilizzata e i selvaggi, la mia gente morendo di anno in anno, si è completamente estinta, tranne che per me, l’ultimo padrone legittimo di questo continente10.

E’ incredibilmente riassunto qui, in poche pagine, tutto il variegato pregiudizio delle razze superiori e inferiori e del declino e scomparsa delle prime se non sapranno trattare come si deve, sterminandole e cacciandole da ogni consorzio umano, le altre. Dalla conquista del West allo schiavismo delle piantagioni del Sud, dai Protocolli dei Savi di Sion ai muri di Trump, passando per i campi di concentramento nazisti, la proibizione dei matrimoni misti, la paura nei confronti degli immigrati destinati a sostituirci fino a tutti i deliri di QAnon, è già tutto anticipato nelle pagine di Belisle.

Tutto servito in anticipo sui tempi: dalle teorizzazioni dell’ampliamento ad Ovest dell’impero alle leggi Jim Crow11, dai linciaggi degli afro-americani ai massacri del fiume Sand Creek e Wounded Knee dei nativi delle grandi pianure. Un fiume di sangue che, questo sì davvero, avrebbe accompagnato l’avanzare della Frontiera e del dominio statunitense sul mondo da allora fino al XXI secolo.


  1. M. Calamandrei, Introduzione a F. J. Turner, La frontiera nella storia americana, Società editrice il Mulino, Bologna 1975, pp. 9-10.  

  2. J. D. Scott, Westward the Star of Empire (Verso occidente volge la stella dell’impero), «De Bow’s Review», agosto 1859 cit. in P. Bairati (a cura di), I profeti dell’impero americano. Dal periodo coloniale ai nostri giorni, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 181.  

  3. M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano 2011 – ed. originale 1987, Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization.  

  4. M.Bernal, op. cit., p. 23.  

  5. Si veda, a solo titolo di esempio: G. Semeraro, La favola dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori editore, 2005.  

  6. J. Strong, Our Country, cap. XIII, cit. in P. Bairati, op. cit., pp. 192-206, La razza anglo-sassone e il futuro del mondo.  

  7. A. J. Beveridge, Siamo una razza conquistatrice, 27 aprile 1898 , ora in P. Bairati, op. cit., pp. 242-243.  

  8. D. W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 11-12.  

  9. D. W. Belisle, op.cit., p. 40.  

  10. Ivi, pp. 43-45.  

  11. In proposito si veda: J. Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019 (recensito qui).  

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Napoli che balla, Napoli che lotta: suoni, identità e resistenze postcoloniali https://www.carmillaonline.com/2025/08/19/napoli-che-balla-napoli-che-lotta-suoni-identita-e-resistenze-postcoloniali/ Tue, 19 Aug 2025 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89887 di Francesco Festa

Gennaro Ascione, Napoli balla. Dancefloor e sottoculture nella città postcoloniale, Tamu Edizioni, Napoli 2025, pp. 283, € 18,00

O ciuccio è ferito… ma nun è muorto! Io vi avevo già avvertito: Napoli nun adda cagnà! E perciò chi fa ‘o Festivàl more acciso…

Nel 1982 esce No grazie, il caffè mi rende nervoso, una commedia dai tratti thriller diretta da Lodovico Gasparini e interpretata da Lello Arena e Massimo Troisi. Fra battute, situazioni deliranti, la “parlesia” – la lingua segreta dei musicisti napoletani – proprio Lello Arena veste i panni di un misterioso maniaco che vorrebbe custodire la bellezza [...]]]> di Francesco Festa

Gennaro Ascione, Napoli balla. Dancefloor e sottoculture nella città postcoloniale, Tamu Edizioni, Napoli 2025, pp. 283, € 18,00

O ciuccio è ferito… ma nun è muorto! Io vi avevo già avvertito: Napoli nun adda cagnà! E perciò chi fa ‘o Festivàl more acciso…

Nel 1982 esce No grazie, il caffè mi rende nervoso, una commedia dai tratti thriller diretta da Lodovico Gasparini e interpretata da Lello Arena e Massimo Troisi. Fra battute, situazioni deliranti, la “parlesia” – la lingua segreta dei musicisti napoletani – proprio Lello Arena veste i panni di un misterioso maniaco che vorrebbe custodire la bellezza di Napoli cristallizzata nella sua immagine oleografica e stereotipata, minacciando di morte ogni velleità di cambiamento e modernità. In particolare la minaccia è una kermesse musicale denominata “Primo Festival Nuova Napoli”, cui avrebbe preso parte anche James Senese se non fosse stato ammazzato.

Ma Napoli è cambiata, ça va sans dire. Senza capo né coda, verrebbe da aggiungere. Ostaggio del turismo a tutti i costi, alla turistificazione è subentrata la gentrificazione, rendendo lo spazio urbano un mondo irriconoscibile, una città che a tratti sembra uscita da un romanzo di Ballard sommersa da un’accozzaglia di ristoranti e take away. Parafrasando Pino Daniele, “Napule è na’ teglia sporca” oltre che “na’ carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta”. La sorte è appesa al filo della parodia di sé stessa, della sua storia e del parco giochi a cielo aperto per turisti. Il che è oggi economia e identità sociale della Napoli contemporanea. Vien da chiedersi, ma doveva per forza andare così?

Il libro di Gennaro Ascione, Napoli balla. Dancefloor e sottoculture nella città postcoloniale, sgombera il campo da questa distopia in cui è precipitata la città, illuminando il campo alla visione di un’altra Napoli. Il libro dona luce a realtà ormai sconosciute, fra mondi sotterranei e segreti, che comunque ostinano a vivere.
Il cuore pulsante del libro è la Napoli delle viscere, quella che si nasconde “sotto le botole nel tufo o dietro ai palazzi”, fra vicoli e strade oggi completamente stravolti, dove hanno convissuto scenografie di film, case discografiche, canzoni, musicisti, band e dancefloor. Il libro è un viaggio nella Napoli della cultura musicale, fra Otto e Novecento e fino ai giorni nostri: quella realtà culturale che, forse, non c’è più, ma è più viva che mai nel fermento, nelle resistenze e nelle lotte sociali e culturali.

Premessa di metodo: la cultura non è un campo neutro. Anzi è un terreno di conflitto dove confliggono poteri, identità e rapporti sociali. Il debito di Ascione è verso Stuart Hall, Iain Chambers e verso i Cultural studies, secondo i quali gli aspetti culturali della città lungi dall’essere un insieme fisso di valori, rappresentano invece un processo in continuo movimento, in cui i significati vengono costruiti e contesi all’interno dei rapporti sociali.
In tal modo Napoli balla assume la dimensione di un viaggio stratificato in cui la città, la musica e i corpi si fondono in un racconto che vibra. Vibra di suoni, di memoria e di politica. Ascione guida il lettore in un percorso che sfida i confini del genere saggistico e abbraccia la narrazione ibrida, capace di connettere pratiche urbane, genealogie musicali, conflitti di classe e trasformazioni identitarie. Il testo si configura come una mappa, anche se in realtà è uno spazio aperto al movimento, all’improvvisazione, alla collisione.

Ascione rifiuta l’estetica folcloristica e nostalgica, per restituire una città che “nun adda cagna”, eppure si reinventa costantemente attraverso il metissage ritmico, delle parole e dei suoni, così com’è complessa, stratificata e mai definita la sua storia secolare. Così Napoli ritrova la sua natura situazionista, dove il détournement non è solo un paradigma, ma una pratica quotidiana incarnata nella trilogia: deviazione, eccedenza e creazione.

L’esperienza della lettura potrebbe sembrare multisensoriale. Napoli balla è infatti un libro da ascoltare e da vedere, con passaggi che citano passi di film ed evocano sequenze cinematografiche, ma anche atmosfere psichedeliche, visioni sciamaniche, beat sincopati.
Si tratta di una narrazione dove il ritmo e il lessico imitano la struttura del sound: ripetizioni, campionamenti, break narrativi, alternanze di registri e toni. Il che rende il testo simile a un DJ set con continui riferimenti interdisciplinari, caratteristica dei Cultural studies, in cui la cultura popolare diventa chiave di lettura dei mutamenti sociali.

Curioso è un riferimento a Gramsci e ad alcune sue osservazioni sulla musica jazz, che ritorna spesso nel primo capitolo. Chissà se quelle suggestioni furono anticipazioni lucide – o paranoiche – sul futuro impiego del jazz nella propaganda americana. Resta il fatto che sono curiosamente illuminanti. In una lettera del 1928 a sua cognata Tania, fra coordinate eurocentriche e talvolta razziste, Gramsci esprime il timore che i subalterni, attratti da modelli culturali borghesi come il jazz, si allontanino dalla necessaria coscienza di classe. Tuttavia, questa diffidenza non gli impedisce di cogliere, con sguardo acuto, la forza antropologica del jazz come intreccio indissolubile tra musica e danza. Il ritmo sincopato, la ripetizione dei movimenti, la facilità con cui quel linguaggio penetra nel vissuto psichico collettivo, diventano per Gramsci segnali di una pratica sociale potente, capace di dar forma a uno spazio di esperienza — il dancefloor — che, nell’epoca della decolonizzazione, assume valenza politica.

Uno dei concetti più potenti del libro è la definizione del dancefloor come “spazio sociale della decolonizzazione”. Una tesi ardita, ma affascinante: la pista da ballo diventa il luogo in cui le soggettività subalterne, ibride, meticce, trovano espressione. In una città che è essa stessa postcoloniale – al margine del discorso nazionale, travolta dalle narrazioni mainstream, sospesa tra centro e periferia – la musica diventa prassi politica, archivio emotivo e gesto performativo.

Fra i tratti più riusciti di Napoli balla è la capacità di costruire una genealogia musicale della città e in realtà di tutto il paese. La musica pop ante litteram è nata grazie ai napoletani di stanza in città o in giro per l’Europa. I “posteggiatori” – i suonatori ambulanti di fine Ottocento – accompagnati dalla chitarra cantavano tra i tavoli di osterie e ristoranti, raccogliendo offerte come facevano un tempo menestrelli e saltimbanchi medievali. In questo girovagare nasce la “parlesia”, una lingua che serviva per comunicare fra posteggiatori. E nello stesso mondo nasce il successo di ‘O sole mio. Con una tournée in Russia nel 1897. Il successo si inserisce nel crescente interesse per la canzone napoletana, diffusa anche grazie ai flussi migratori dopo l’Unità d’Italia. È in questi mondi sovrapposti che Napoli assume una dimensione “post‑italiana”, cioè, uno spazio in cui si frantumano le retoriche identitarie omogenee, e dove si materializzano nuove soggettività culturali.

La cifra della dimensione post-identitaria è riscontrabile nel dopoguerra, quando i soldati afroamericani di stanza in città ascoltano il jazz, il blues, il R&B. Alla devastazione dei bombardamenti e alla fame della guerra, la musica dei militari statunitensi – veicolata attraverso radio militari, vinili “victory disc” e jam session improvvisate – entra nella vita quotidiana, innestandosi nei circuiti culturali e trasformando la stessa idea di musica.

A differenza degli Stati Uniti, dove il jazz nero è confinato nei ghetti, a Napoli viene accolto nei locali clandestini, nelle taverne, nelle radio. Ascione racconta di come, negli anni Quaranta e Cinquanta, si assiste ad una contaminazione imprevista: il lirismo melodico napoletano si mescola con i suoni sincopati afroamericani, generando ibridazioni sonore che preparano il terreno per il funk dei Napoli Centrale, per il Neapolitan power di Pino Daniele, ma anche per l’estetica urban contemporanea di Liberato.

Questa ibridazione non è soltanto musicale: è politica e simbolica. I corpi dei soldati neri – discriminati in patria, accolti come “liberatori” nella città partenopea – diventano veicoli viventi di un’altra idea di modernità. Una modernità nera, diasporica, Black Atlantic – come scritto da Paul Gilroy. Nota Ascione che è attraverso quei suoni che la città inizia a pensarsi come parte del mondo postcoloniale, come crocevia di memorie e resistenze, come luogo di rifondazione culturale. Si tratta, in fondo, di un processo che rilegge la sua stessa storia in chiave “transatlantica”, e che riconfigura la musica come pratica di sopravvivenza e di desiderio collettivo.

Interessante è la relazione fra lotta di classe e parole. Qualcosa di inimmaginabile nei testi delle canzoni coeve. Nelle pagine di Napoli balla si legge lo stridore in queste relazioni, mai pacificate, fra storie, memorie e narrazioni che si sovrappongono. Dai giorni gloriosi e misconosciuti della casa discografica BBB, alle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta ove le fratture si scavano fra lavoratori salariati, operai e disoccupati, chi scolarizzato e chi no, chi emigrante e chi no, in uno spazio urbano in corso di de-industrializzazione distribuito fra industrie, fabbrichette ed ’“economica del vicolo”. James Senese sublima in musica tale frattura nel brano Chi fa l’arte e chi s’accatta

Fino a quando esisterà
chi fa l’arte e chi s’accatta
chi fa il braccio e chi la mente
chi tene troppo e chi nun tene niente?
Fino a quando esisterà
chi fotte e chi è fottuto
chi nun vò e chi nunn’è voluto?
Fino a quando, ’ncopp’a terra ne resta uno ca se lamenta
ne resta uno ca se lamenta!
Fino a quando tutti quanti nun ci facimme ’o culo tante pe’ ll’ammore e l’eguaglianza nuje nun simme ancora niente.
Chisto munno nun vale niente chisto munno nun vale niente! (p. 63)

In questo paesaggio sonoro si iscrive una delle esperienze più radicali della Napoli musicale: il Neapolitan Power. Più che un movimento musicale, una vera insurrezione sonora e culturale. Emerso alla fine degli anni Settanta, il Neapolitan Power ha cercato di scardinare l’immagine stereotipata di Napoli, imposta dai circuiti mediatici e dal turismo culturale, costruendo una lingua musicale nuova, fatta di jazz, funk, dialetto, e tensione sociale.

Gli artisti come James Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, ma anche Pino Daniele, si pongono come guastatori del discorso nazionale: reinventano la napoletanità contaminandola con l’Africa, con il Mediterraneo, con l’Atlantico. La musica non è più solo espressione culturale, ma diventa lotta di classe suonata: una “traduzione in versi della rabbia e della bellezza” (p. 57). E dietro ogni riff, ogni break di batteria, ogni urlo rauco del sax di Senese, c’è una città che lotta per restare viva nella sua complessità.

Il libro dedica pagine importanti ai luoghi della marginalità culturale, la “Napoli segreta”, ovvero quei territori urbani dove si sperimentano nuove forme di socialità e di produzione simbolica. È in queste “infraculture” – come le definisce Ascione – che si consuma la rottura con la Napoli turistica: luoghi dove la cultura non è spettacolo da esibire ma materia da vivere. E la cultura underground è anti-museale per costituzione, è archivio del presente: dove si contaminano pratiche postcoloniali, memorie subalterne e resistenze quotidiane. Questa città non si può vedere da fuori, bisogna entrarci, mescolarsi, lasciarsi trasformare.

Napoli segreta altro non è che la sembianza contingente e transitoria che l’anima sfuggente della città ha assunto in forma di musica funk, disco, boogie, afrobeat, wave e balearica, cantata in napoletano, tra la seconda metà degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80 del ’900. Prima che i campionatori colonizzassero l’immaginario acustico globale. (p. 116)

Altro aspetto metodologico adoperato da Ascione è l’intervista o la voce diretta dei protagonisti – a tratti richiama la tradizione operaista dell’“inchiesta a caldo” – cioè osservare i soggetti nel loro contesto, raccogliere le loro parole senza filtri, lasciarli parlare proprio nel vivo dell’attività. Così vengono fuori “autobiografie in movimento” che compongono una narrazione collettiva.

In HyperNapoli. Movimenti, suoni e visioni, vi sono le voci di alcuni protagonisti contemporanei, con focus su artisti come Liberato, Nu Genea, Enzo Dong, Night Skinny, Nicola Siciliano, collettivi come Napoli Segreta, Chico Trujillo e progetti estetico-sonori e post-identitari – menzione speciale per “Fabrizio Sorrentino aka il papa, Officina99”. Sono proprio i “corpi che danzano nella notte” – i raver, i DJ, gli occupanti dei centri sociali, i sound designer, gli studenti fuori sede, i punk invecchiati e i clubber della Napoli nord – a raccontare una verità che sfugge ai sociologi da scrivania.

In un mondo segnato da confini e muri, Napoli balla ci parla di una città porosa, ibrida, post-coloniale. E quest’opera riesce a essere al tempo stesso saggio, memoir, ma anche manifesto politico. Sfugge a qualsiasi classificazione. Proprio com’è Napoli. E d’altronde l’identità si costruisce solo nel movimento e nella lotta.

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Palestina, un popolo che non vuole morire https://www.carmillaonline.com/2025/08/18/palestinaun-popolo-che-non-vuole-morire/ Mon, 18 Aug 2025 21:55:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90104 di Edoardo Todaro

Alain Gresh, Palestina, un popolo che non vuole morire, Sensibili alle foglie, 2025, pp. 160, € 15

“ Sensibili alle foglie “, ormai da tempo, edita libri molto utili per conoscere e capire quanto avviene in Palestina. Si può tranquillamente andare a ritroso e trovare nel catalogo Bambini in Palestina (1) del 2003 e, da poco Voci da Gaza (2), a proposito di un incontro tenutosi a Milano, al csa Vittoria, con Halima ed Ismail Abusalama; recentemente l’attenzione si è rivolta, pubblicando ben tre libri: Dietro i fronti (3), Sumud, resistere all’oppressione (4) e Il tempo del genocidio (5);  a Samah Jabr, [...]]]> di Edoardo Todaro

Alain Gresh, Palestina, un popolo che non vuole morire, Sensibili alle foglie, 2025, pp. 160, € 15

“ Sensibili alle foglie “, ormai da tempo, edita libri molto utili per conoscere e capire quanto avviene in Palestina. Si può tranquillamente andare a ritroso e trovare nel catalogo Bambini in Palestina (1) del 2003 e, da poco Voci da Gaza (2), a proposito di un incontro tenutosi a Milano, al csa Vittoria, con Halima ed Ismail Abusalama; recentemente l’attenzione si è rivolta, pubblicando ben tre libri: Dietro i fronti (3), Sumud, resistere all’oppressione (4) e Il tempo del genocidio (5);  a Samah Jabr, scrittrice ma soprattutto psicoterapeuta che indaga ed analizza le conseguenze psicologiche dell’occupazione sionista, gli effetti che produce e che lascia in chi sopravvive alla furia bestiale e genocida degli occupanti.

Da pochi mesi, Sensibili alle foglie ha aggiunto un ulteriore tassello ai libri già editi sulla Palestina, e di questo non possiamo che ringraziarla per l’opera importante portata avanti, si tratta di: Palestina, un popolo che non vuole morire (6) di Alain Gresh. Gresh è stato caporedattore di Le Monde diplomatique, ed è un profondo conoscitore del Medio Oriente, lo potremmo inserire tranquillamente all’interno di quella categoria rappresentata da quei giornalisti che un tempo si dedicavano anima e corpo all’inchiesta sul campo.

Comunque sarebbe sufficiente il sottotitolo (Un popolo che non vuole morire) per inserire questo libro tra le bibliografie da suggerire a chi è in cerca di un qualcosa che possa aiutare a capire cosa succede in Palestina, e perché succede. Gresh espone, in queste pagine, perché Netanyahu, e con lui il sionismo di cui è portavoce, non ha raggiunto gli obiettivi prefissati, nonostante si muova con una logica di annientamento metodico, sradicamento della cultura della Palestina compreso; l’importanza, decisiva anzi fondamentale, degli “aiuti” militari che gli USA danno ad israele, che non si sa bene perché ha “il diritto a difendersi”; la fame come arma di guerra, questione ormai, purtroppo, all’ordine del giorno; la violazione del diritto internazionale; Gaza come Dresda; i paralleli con quanto avvenne in Algeria e la controinsurrezione dell’occupazione francese, in Viet Nam e cosa significa oggi essere dalla parte dei palestinesi , come negli anni ’60 essere con i vietnamiti o negli anni ’80 con i neri del SudAfrica, oggi la Palestina rappresenta il simbolo di una decolonizzazione mancata; e la resistenza, non viene certamente elusa, anzi Gresh mette in evidenza che è proprio la resistenza a rimettere al centro della politica internazionale “l’emergenza Palestina”, Palestina che è e deve essere un problema politico prima che umanitario.

Un popolo, quello palestinese, come del resto tutti i popoli sottoposti ad occupazione, che non può accettare di vivere in schiavitù a meno che non lo si stermini, ma i palestinesi non vogliono morire, resistono, si ribellano. Gresh pone questioni sulle quali interrogarsi, anche se spesso quelle che pone sono domande retoriche, come ad esempio riguardo a cos’è il terrorismo con i cattivi di ieri che sono diventati i buoni di oggi, oppure come israele si appropria della shoah usandolo come paravento per compiere quanto sta facendo, ed ancora: il 7 ottobre? Terrorismo o operazione militare e gli uccisi del campo israeliano sono stati uccisi in quanto ebrei o in quanto occupanti? E prima di quella data? E di conseguenza Hamas e le comparazioni, assurde, con Daesh o Alqaeda; ostaggi?

Sicuramente i palestinesi incarcerati grazie alla detenzione amministrativa, i prigionieri disumanizzati; il perché dei rapporti, della stretta alleanza tra le formazioni fasciste ed israele; il linguaggio come strumento di guerra e la menzogna usata ed abusata per divenire verità accettabile ma soprattutto accettata e credibile, la menzogna che viene venduta più di frequente: “ israele unica democrazia del Medio Oriente “ ed israele veste i panni della vittima, il colonizzatore/vittima ed il colonizzato/aggressore; e le critiche, del tutto legittime e giustificate, divengono solo e soltanto antisemitismo. Su tutto questo, riporto una frase da tenere a mente e che a mio avviso racchiude quanto Gresh scrive: “ ciò che avviene a Gaza è il futuro “; comunque, sfortunatamente per l’occupante, il popolo palestinese non dimentica nulla nonostante tutto. Il popolo palestinese ha, in particolare, due sentimenti che uniscono: frustrazione e rabbia. Unità che vede insieme nazionalisti e islamisti, laici di sinistra, democratici ecc … Tutti questi elementi sono evidenziati, sottolineati e contestualizzati, quanto riportato non è il punto di vista di Gresh ma è la terribile realtà. Quanto sta compiendo israele non riguarda solo la Palestina ma tutti coloro che sono incompatibili con lo stato di cose presenti. Infine un cenno, dovuto, all’importante postfazione di Maria Rita Prette ed al suo: “Sta a noi non lasciarli soli” e dobbiamo prenderlo come un imperativo categorico.

 

NOTE:

1. https://www.libreriasensibiliallefoglie.com/palestina/8-bambini-in-palestina.html

2. https://www.libreriasensibiliallefoglie.com/home/523-voci-da-gaza.html

3. https://www.libreriasensibiliallefoglie.com/scenari-di-guerra/339-dietro-i-fronti.html

4. https://www.libreriasensibiliallefoglie.com/home/423-sumud-resistere-all-oppressione.html

5. https://www.libreriasensibiliallefoglie.com/home/518-il-tempo-del-genocidio.html

6. https://www.libreriasensibiliallefoglie.com/novita/534-palestina.html

 

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Il potenziale sovversivo della fotoludica https://www.carmillaonline.com/2025/08/17/il-potenziale-sovversivo-della-fotoludica/ Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89331 di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, Marco De Mutiis, a cura di, Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 684, € 40,00

Il volume curato da Matteo Bittanti e Marco De Mutiis raccoglie una serie di contributi di studiosi e teorici di arte, media e game, incentrati sulla fotoludica, vale a dire sulla fotografia in-game o fotografia videoludica, una pratica artistica e critica in cui si intrecciano l’estetica della fotografia tradizionale e il mondo dei videogame. I diversi contribuiti guardano alla capacità della fotoludica di ridefinire i confini della rappresentazione visiva e al [...]]]> di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, Marco De Mutiis, a cura di, Fotoludica. Fotografia e videogiochi tra arte e documentazione, traduzioni dall’inglese di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 684, € 40,00

Il volume curato da Matteo Bittanti e Marco De Mutiis raccoglie una serie di contributi di studiosi e teorici di arte, media e game, incentrati sulla fotoludica, vale a dire sulla fotografia in-game o fotografia videoludica, una pratica artistica e critica in cui si intrecciano l’estetica della fotografia tradizionale e il mondo dei videogame. I diversi contribuiti guardano alla capacità della fotoludica di ridefinire i confini della rappresentazione visiva e al ruolo attivo e critico che questa permette al gamer che vi ricorre sia come mezzo espressivo per generare immagini inedite, sia come strumento utile alla conservazione della memoria dei mutevoli mondi virtuali altrimenti destinati a scomparire.

La fotoludica viene dunque indagata nei suoi fondamenti teorici e tecnici, nelle sue potenzialità artistiche, creative, documentarie e archivistiche, oltre che negli aspetti politici e ideologici. Come sottolineano i curatori del volume, l’intento è quello di guardare alla fotoludica non solo dal punto di vista artistico, ma anche come a «un territorio in cui la documentazione del virtuale può trasformarsi in un atto sovversivo, sfidando le regole della realtà e riscrivendo il rapporto tra visibile e invisibile, tra ciò che è stato e ciò che è ancora da simulare» (p. 26).

Nell’impossibilità di dar conto in maniera approfondita delle tante questioni trattate dal volume – di quasi settecento pagine – ci si limiterà in questo scritto a fornire almeno una loro mappatura, con l’intenzione di tornare successivamente su alcune di esse approfondendole.

Circa le questioni teoriche e tecniche della fotoludica, alcuni saggi guardano alle modalità attraverso le quali questa, ricorrendo a tecnologie digitali e alle interfacce dei videogame, rimedia e ridefinisce la pratica fotografica tradizionale. Lungi dal limitarsi a riprodurre le dinamiche visive tradizionali, la fotografia nei videogame rielabora e ridefinisce i confini della rappresentazione visiva e il concetto stesso di immagine: Cindy Poremba guarda a come le pratiche di cattura delle immagini all’interno dei videogame conferiscano un ruolo attivo al gamer nella rielaborazione dei mondi virtuali; Seth Giddings mette in luce le potenzialità di espressione visiva della fotografia in-game nel suo confrontarsi con la mimesi del reale; Jan Švelch passa in rassegna le diverse tecniche di cattura dello schermo guardando alla fotografia in-game al di là del contesto strettamente videoludico; Sebastian Möring e Marco De Mutiis si focalizzano sulla rimediazione della fotografia da parte del videogame e sull’incidenza della fotoludica sulla fotografia tradizionale; Gabriele Aroni si occupa della proprietà intellettuale delle immagini catturate dagli universi digitali.

Alle potenzialità visive dei videogame e alle ricadute artistiche, economiche, esperienziali e culturali della fotografia nei mondi virtuali sono dedicati saggi di studiosi e artisti che mostrano come la fotoludica possa mettere in relazione realtà e simulazione, arte e cultura popolare, stimolando una riflessione critica sull’evoluzione dell’immagine nell’era digitale: Marco De Mutiis guarda alle forme di lavoro immateriale a cui è sottoposto il giocatore-fotografo; Justin Berry ai sofferma sulle inedite esperienze estetiche che, attraverso la cattura delle immagini nei videogame, si possono ricavare dagli scenari sintetici; Kent Sheely riflette sul possibile uso sovversivo della fotocamera virtuale a partire dalla resistenza che può attuare nei confronti dell’estetica tradizionale; Adonis Archontides guarda alle potenzialità di evasione e di autoriflessione offerte dalla fotoludica; Leonardo Magrelli approfondisce la possibilità di rievocazione della memoria culturale e storica attraverso la simulazione, focalizzandosi sul rapporto tra paesaggio virtuale e quello reale; Antonio Careri guarda alla rappresentazione del territorio simulato a partire dalla fotografia paesaggistica tradizionale all’interno dei mondi virtuali; Vladimir Rizov si occupa delle potenzialità narrative della fotoludica.

Altri interventi sono dedicati alla fotoludica come strumento di conservazione e memoria storica di mondi virtuali sottoposti a mutamento costante, altrimenti destinati a scomparire: Alex Urban guarda alle fotografie in-game come a registrazioni-testimonianze di esperienze ludiche inesorabilmente condannate a svanire; Kieran Nolan si focalizza sull’archiviazione fotografica dei graffiti nei e con i videogiochi; Florence Smith Nicholls e Michael Cook riflettono sulla possibilità di studiare e conservare le dinamiche videoludiche attraverso tecniche e modalità archeologiche solitamente applicate al mondo reale; Richard Cole indaga la possibilità di rivisitare la Storia e il mito attraverso combinazioni di elementi tecnologici e culturali di natura videoludica; Hans-Joachim Backe indaga le modalità con cui le immagini in-game possono incidere sul significato di un’opera videoludica tanto dal punto di vista estetico che da quello narrativo.

Alle potenzialità di critica sociale e politica della fotografia in-game, al possibile ricorso ad essa per rivelare le strutture ideologico-politiche sottese all’industria del divertimento digitale guardano diversi contributi: Joseph DeLappe e Laura Leuzzi esaminano le performance critiche di DeLappe in cui l’artista interviene ribaltando l’immaginario militarista di videogame di propaganda dell’esercito; Simone Santilli espone come la fotografia in-game possa documentare e criticare la logica estrattivista di un videogame che riflette le dinamiche di sfruttamento proprie del capitalismo globale del mondo reale; Ivan Girina esplora le potenzialità critiche della fotoludica nei confronti delle rappresentazioni convenzionali della violenza, della povertà e della criminalità di un videogame; Matteo Bittanti guarda al ruolo ideologico della fotografia in-game nella rappresentazione dei paesaggi naturali simulati, evidenziando come attraverso le immagini videoludiche sia possibile cogliere le tensioni tra estetica e potere.

Il volume curato da Bittanti e De Mutiis si chiude con un paio di contributi che invitano a guardare alla fotoludica come strumento utile a preservare e comprendere la storia del medium videoludico, altrimenti inesorabilmente destinata a perdersi: Joanna Zylinska riflette sulla percezione visiva nei mondi distopici post-apocalittici dei videogame guadando alla fotografia in-game come strumento utile a comprendere e interpretare il mondo virtuale; Henry Lowood, a partire dagli scatti di Ira Nowinski relativi agli spazi fisici delle sale giochi e alle comunità di gamer della Bay Area degli anni Ottanta, riflette sulle possibilità offerte dalla fotografia di realizzare un archivio della memoria videoludica.

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Visum et repertum 5 https://www.carmillaonline.com/2025/08/16/visum-et-repertum-5/ Sat, 16 Aug 2025 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89407 di Franco Pezzini

Cinque età per Dracula

In altra sede si osservava come a dettare periodizzazioni nell’immaginario del (neo)gotico, più che la letteratura siano stati gli schermi, e in particolare il tema-Dracula: riproposto tanto ossessivamente da assurgere a buon misuratore di un’evoluzione dell’immaginario, con cicli grosso modo trentennali, cioè con un arco che corrisponde più o meno a una generazione. Guardiamoci indietro e prendiamo in esame in termini panoramici questa evoluzione. L’età che dalle origini del cinema corre fino al 1930 – quella cioè del Drakula halála (1921), e del Nosferatu di Murnau (1922) – è in questo senso per [...]]]> di Franco Pezzini

Cinque età per Dracula

In altra sede si osservava come a dettare periodizzazioni nell’immaginario del (neo)gotico, più che la letteratura siano stati gli schermi, e in particolare il tema-Dracula: riproposto tanto ossessivamente da assurgere a buon misuratore di un’evoluzione dell’immaginario, con cicli grosso modo trentennali, cioè con un arco che corrisponde più o meno a una generazione. Guardiamoci indietro e prendiamo in esame in termini panoramici questa evoluzione.
L’età che dalle origini del cinema corre fino al 1930 – quella cioè del Drakula halála (1921), e del Nosferatu di Murnau (1922) – è in questo senso per forza di cose ancora poco strutturata: il cinema si sta organizzando, ma si è ben lungi dall’immaginare un target per i film del fantastico come poi troveremo. Per quanto nell’ambito dell’espressionismo tedesco si sviluppi infatti la prima “fabbrica dei mostri” – a preludere alle successive Universal e Hammer – il pubblico va a vedere Nosferatu e la settimana dopo una commedia rosa: e questa situazione si riproporrà all’inizio anche in America, dove a partire dagli anni Trenta le grandi platee iniziano ad accedere in modo organizzato alla celebrazione dei riti gotici su schermo.
Da allora si dipana approssimativamente una situazione di questo genere:

anni Trenta (dal 1931, Dracula di Browning, “età di Lugosi”): crescita del gotico;
– anni Quaranta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Cinquanta: contrazione/eclissi;
anni Sessanta (dal 1957, The Curse of Frankenstein di Fisher, “età di Lee”): nuova crescita del gotico;
– anni Settanta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Ottanta: contrazione/eclissi;
anni Novanta (dal 1992, Bram Stoker’s Dracula di Coppola, “età neogotica”): nuova crescita del gotico;
– anni Zero: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Dieci (dallo spegnersi del boom dei vampiri attorno al 2012): contrazione/eclissi.

Una serie di studi si sono attestati qui. Ma nel frattempo è accaduto dell’altro. Da un lato l’impatto, ma non la vera rivoluzione recata al tema-Dracula dalle serie televisive: né la pur brillantissima Penny Dreadful (2014-16), che pure ridisegna in modo originale il profilo del vampiro, né l’attesissima e senz’altro interessante serie Dracula BBC/Netflix di Mark Gatiss e Steven Moffat (2020) si sono imposte su un immaginario diffuso fino a costituire dei punti di riferimento per il tema-Dracula. Persino l’effettiva uscita di un film per tanto tempo favoleggiato quasi da appartenere unicamente ai sogni dei cultori, The Last Voyage of Demeter (Demeter – Il risveglio di Dracula, 2023) di André Øvredal, e alla fine rivelatosi una pellicola di tutto decoro, non ha cambiato le cose in termini di impatto sull’immaginario collettivo.
Tempo addietro (25 maggio 2017), si scriveva su questo sito:

Possiamo aspettarci una nuova fase “up” (indicativamente) negli anni Venti? Difficile dire se il trend trentennale troverà ulteriori conferme, e difficile anche immaginare i connotati di una rinnovata crescita del gotico – che per esempio dovrà fare i conti con l’effetto-Legione dei fantasmi dell’era di internet, indefinitamente frantumati in sciami di grumi psichici come già adesso nei romanzi di [Danilo] Arona. I nuovi dottori potranno fronteggiare sempre più frequentemente simili emergenze, con un piede in Matrix e l’altro in The Exorcist: ma di più al momento è difficile dire.

Oggi è probabilmente possibile confermare. In grazia di due eventi che sembrano aver recato elementi di novità. Nel primo caso una novità forzata, cioè la vicenda pandemica (2020-23) che per un certo numero di motivi ha proiettato all’orizzonte dei nostri pensieri fantasie di vampiri e zombie. Nel secondo caso, il successo persino inatteso del Nosferatu di Robert Eggers, 2024: inatteso a fronte di una storia non particolarmente originale benché gestita in modo brillante, ma tale da far moltiplicare tanto epidemicamente e compulsivamente le voci a commento (infiniti i post sui social, innumerevoli i video su YouTube) da costringere a chiedersi se non desse forma ad altro. Cioè probabilmente una crisi epocale fatta di covid, guerre, brutture politiche, sgomitare di sozzi tycoon e presa d’atto delle depressioni di un mondo: e insieme il nosferatu è riconosciuto come un grande incubo, un agglutinato di grumi psichici, un’ombra junghiana da esorcizzare e morirci.
Con ciò non si vuol affermare che questa nuova stagione sia l’“età di Skarsgård” come altre erano state l’età di Lugosi e di Lee: si tratta di epoche del cinema completamente diverse, e del resto la precedente non è stata l’“età di Oldman”, a dispetto della bravura dell’interprete del Conte (che da un lato non ne è stato mai assorbito, dall’altro non ha dettato all’immaginario collettivo una maschera tanto connotante come i due illustri predecessori – anche, va detto, per una certa distanza dal modello letterario). Del resto gli entusiasmi neogotici di quegli anni – chiusi dallo sbrilluccicare dei vampiri in salsa romanticismo sexy, con accento ora sul sostantivo, ora sull’aggettivo – sono ormai lontani, siamo in una fase successiva: anche di storia del mondo, ci ricorda il cinema di Dracula, che in qualche modo è un’ottima cartina al tornasole di crisi e desideri confessati e inconfessabili di singole epoche. Piuttosto, memori dei connotati del nosferatu di Eggers, potremmo chiamare la nuova età avviata come “età degli incubi”: e forse, a prescindere dal cinema, con qualche buon motivo.
L’annunciato arrivo di un altro Dracula, di Besson – c’era davvero bisogno di riproporlo in chiave di A Love Tale? andiamo… – e un fiorire di apocrifi come Dracula: Rise of the Vampire di Dean Meadows (di prossima apparizione), The Reincarnation of Dracula di Nicholas Malden (2024) o Abraham’s Boys: A Dracula Story di Natasha Kermani (2025), la minaccia stessa di un Dracula Untold 2 (fortunatamente non confermato, il primo deludeva terribilmente anche per il clamoroso miscasting che penalizzava un bravo interprete come Luke Evans) allo stato attuale non dicono molto di più d’un prevedibile interesse da parte del pubblico. Potremmo arrivare a ipotizzare uno sviluppo del genere per questa nuova età cinematografica?

anni Venti (dal 2024, Nosferatu di Eggers, “età degli incubi”): nuova crescita del gotico;
– anni Trenta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Quaranta: contrazione/eclissi.

Difficile dire: a differenza del Conte, che tra paletti e coltelli nel cuore, bagni fatali di sole, affogamenti nel fossato gelato del castello e altre amenità continua a emergere come un passato che non passa – dicendo così tanto del mondo in cui viviamo – noi siamo confitti nel tempo. Dunque, augurando a noi stessi lunga vita, saranno forse i nostri figli a confermare o meno la bontà del prospetto. Mentre per ora, benvenuti nell’età degli incubi.

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Oltre il Noir, il Black https://www.carmillaonline.com/2025/08/15/oltre-il-noir-il-black-2/ Fri, 15 Aug 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89515 di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore il 10 agosto 2004 su “Carmilla online” e, precedentemente, su “L’Unità il 7 agosto 2004]

In Italia ormai il termine noir è inflazionato. In pratica, ha preso il posto del “giallo” di mondadoriana memoria, e viene usato in riferimento a qualsiasi tipo di narrativa poliziesca o che abbia al centro un crimine. Così, per dirne una, si persiste nel definire noir i romanzi di Andrea Camilleri che, se avessero bisogno di un’etichettatura, dovrebbero essere considerati polizieschi, sia pure anomali; divengono retroattivamente noir persino i mistery molto tradizionali di Renato Olivieri e i romanzi esotici o a sfondo [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Pubblicato dall’autore il 10 agosto 2004 su “Carmilla online” e, precedentemente, su “L’Unità il 7 agosto 2004]

In Italia ormai il termine noir è inflazionato. In pratica, ha preso il posto del “giallo” di mondadoriana memoria, e viene usato in riferimento a qualsiasi tipo di narrativa poliziesca o che abbia al centro un crimine. Così, per dirne una, si persiste nel definire noir i romanzi di Andrea Camilleri che, se avessero bisogno di un’etichettatura, dovrebbero essere considerati polizieschi, sia pure anomali; divengono retroattivamente noir persino i mistery molto tradizionali di Renato Olivieri e i romanzi esotici o a sfondo storico-politico di Pino Cacucci.

Certo, la definizione di noir non è facile. La più frequente che capita di udire è questa: la soluzione di un caso criminale, che nel contesto di un giallo risolve il caso, in un romanzo nero non scioglie la problematica che aveva condotto al delitto, destinata a prolungarsi — e a inquietare — anche oltre la chiusura della specifica vicenda narrata. Ciò è grosso modo esatto, però anche un po’ vago. Potrebbe per esempio applicarsi alla serie gialla Calamity Town di Ellery Queen, o a tantissimi romanzi di Simenon.

Sta di fatto che il noir non offre soluzioni consolanti, e questo è un punto fermo. A cui va però aggiunta una caratteristica altrettanto saliente: l’assenza di gabbie narrative e la riluttanza all’etichettatura. E abbastanza eloquente che S.S. Van Dine, feroce conservatore, per non dire protofascista, fissasse alle soglie degli anni Trenta un proprio decalogo del giallo, nello stesso momento in cui il marxista Dashiell Hammett le violava quasi tutte. L’uno stabilizzava il poliziesco, l’altro fondava il noir (nella sua versione detta hard boiled); e la differenza del secondo, rispetto al primo, era che i detective hammettiani si trovavano immersi nello stesso mondo criminale che combattevano, e talora ne facevano parte (come l’indimenticabile giocatore alcolizzato Ned Beaumont, protagonista de La chiave di vetro). Inoltre, spesso nelle loro avventura entrava in gioco la società tutta intera, vista con gli occhi pessimisti di un radicale. Cosa che non è dato trovare né in Van Dine, né in Agatha Christie, né in varie migliaia di imitatori più meno abili di Conan Doyle.

Libertà narrativa che troviamo in seguaci ideali di Hammett, che però si differenziano dal modello, estendendone i confini: sia che rinuncino del tutto alla figura dell’investigatore, cedendo il ruolo di protagonista a emarginati o criminali (Jim Thompson, David Goodis, Donald E. Westlake con lo pseudonimo di Richard Stark, James Hadley Chase, Jean Patrick Manchette, ecc.), sia che si soffermino su patologie individuali o di matrice sociale (Cornell Woolrich, James Ellroy, Derek Raymond), sia che chiamino direttamente in causa il sistema politico e le molte ineguaglianze che ricopre (ancora Manchette, Didier Daeninckx e buona parte del néo-polar francese).

Sta di fatto che, prendendo in mano un noir, siamo sicuri di incontrarvi delitti e attività criminali; non siamo invece certi che lo svolgimento sarà quello di un romanzo poliziesco più duro del consueto Può invece trattarsi di qualsiasi cosa: dal racconto di una rapina e di una fuga, alle conseguenze drammatiche di una vita disperata, a una storia di spionaggio fuori dei canoni. La regola è quella di non avere regole, tranne forse una: l’adozione di un linguaggio essenziale di forte intonazione realistica, tanto da sfociare talora nell’iperrealismo. Ma nemmeno questo va considerato un dogma.

In Italia, quanto detto finora non è stato ancora recepito del tutto. Il fatto è che, sebbene il romanzo nero circolasse da decenni (con le storiche collane di Mondadori, Longanesi o Garzanti, con la collezione Maschera Nera curata da Oreste Del Buono, con le storie durissime di Giorgio Scerbanenco, ecc.), si è cominciato a parlare veramente di noir quando un gruppo di nostri autori, in molti casi bravissimi, ha cominciato a definire così i propri lavori. Eppure, se la qualità dei delitti si è fatta più efferata della norma, la funzione consolatoria del racconto giallo è stata ripresa in pieno. Continua a dominare le storie la figura del poliziotto problematico sì, ma senza macchia, e certo di sapere da che parte stia la giustizia. E se la società viene chiamata alla sbarra, a essere processati non sono i suoi intimi meccanismi, bensì le sue perversioni epidermiche. Malgrado i generosi sforzi di taluni editori (Meridiano Zero con Raymond, Guanda con Hammett, Einaudi con Manchette, Fanucci con Goodis e Thompson) la nozione di noir, in Italia, è lungi dall’essersi impiantata per davvero.

Per fortuna, in tanta confusione anche editoriale, c’è chi ha le idee chiare. Si tratta di Jacopo De Michelis, creatore della collana Marsilio Black, ospitata dall’editore veneziano ma dotata di ampia autonomia. De Michelis ha fatto una scelta coraggiosa: quella di collocare la sua Black agli estremi limiti del noir, dove non esistono vie di ritorno in direzione del giallo convenzionale. A questo fine, si direbbe, ha frugato gli angoli del mondo, radunando una serie di titoli sfuggiti all’attenzione di editors meno scrupolosi.

La grande scoperta è l’australiano Andrew Masterson, personaggio singolare (ha tutta l’aria del teppista reduce da un migliaio di risse) autore di romanzi ancor più singolari. In entrambi i titoli usciti presso Marsilio Black, Gli ultimi giorni e Il secondo avvento, l’investigatore di turno si chiama Joe Panther. Solo che è anche spacciatore di droga e, come se non bastasse, crede di essere, o magari è, Gesù Cristo (figlio del legionario romano Pantera, secondo Celso e alcuni apocrifi). Un Cristo amareggiato e rabbioso, che da secoli si trascina sulla terra lamentando l’ingratitudine degli uomini e della società che hanno creato. Uno schizofrenico, si penserebbe; se non fosse che alcuni ragionamenti teologici inducono a temere che sia proprio chi dice di essere.

Altro autore quanto mai originale il francese François Muretet, autore del brillante Fermate le macchine. Qui è di scena il conflitto sociale che agita una piccola azienda automobilistica, fino a trasformarsi in guerra aperta tra una moltitudine composta da operai indisciplinati, spie padronali, avvocati corrotti, sindacalisti venduti e sindacalisti di base. Dove l’elemento “nero” risiede proprio nella vita di fabbrica, tale da porre più di un dubbio a qualsiasi fautore del neoliberismo.

Altri scrittori proposti da Marsilio Black sono la neozelandese Stella Duffy, i cui romanzi (Calendar Girl, La settima onda) eccedono dall’impianto consueto del giallo per via delle idee radicali dell’autrice, socialista e militante lesbica; l’inglese Denise Danks, autrice di un thriller ambientato nel mondo degli hackers (Phreaks) che è forse il migliore in assoluto in quel filone; e l’americano Tim McLoughlin, che con Via da Brooklyn alterna momenti noir a quadri di vita familiare di notevole intensità.

L’ultima scoperta di Marsilio Black, paragonabile per impatto a quella di Masterson, è però il tedesco Georg Klein, autore di Libidissi: immaginaria città mediorientale in cui, come nella Tangeri dei film di un tempo, prolifera ogni corruzione, non ultima quella delle spie che la hanno eletta a loro nido. Testimone di un allarmante cambiamento di regime che sta per investire la metropoli è per l’appunto una spia: un agente segreto col corpo devastato da intrugli inebrianti e dai medicinali di cui si imbottisce; senza però che possa sottrarre il proscenio a Libidissi stessa e al liquame morale e umano che la inonda.

Fin qui i titoli proposti da Marsilio Black. La caratteristica comune, lo si sarà intuito, è che una volta preso il libro in mano, non si sa in quale girone infernale ci si dovrà aggirare. Un connotato fondamentale del noir correttamente inteso; ma anche un connotato del genere tragedia, di cui il noir, quando è padrone dei suoi mezzi, non è che la variante contemporanea.

Scheda – Il genere noir in otto titoli fondamentali

  • Dashiell Hammett, Piombo e sangue, Guanda 2002 – Un romanzo divenuto un archetipo, ispiratore di Kurosawa e Leone.
  • Jim Thompson, L’assassino che è in me, Fanucci 2003 – La trama è disegnata dal destino e dalla sua crudeltà.
  • David Goodis, Sparate sul pianista, Fanucci 2003 – La parola passa agli sconfitti dalla vita.
  • Jean-Patrick Manchette, Posizione di tiro, Einaudi 2004 – Il noir raggiunge la perfezione stilistica quasi assoluta.
  • James Ellroy, Dalia Nera, Mondadori 2004 – Protagonista è la metropoli con la sua corruzione.
  • Derek Raymond, Il mio nome era Dora Suarez, Meridiano Zero 2000 – L’angoscia spinta ai limiti del tollerabile.
  • Jean-Claude Izzo, Vivere stanca, E/O 2001 – Incrociarsi di vite in una Marsiglia meticcia, riassunto del mondo.

Infine un classico non ristampato da decenni:

  • James Hadley Chase, Niente orchidee per Miss Blandish – Una riscrittura nerissima di “Santuario” di Faulkner. A suo tempo fece scuola.
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La Sinistra Negata 02 https://www.carmillaonline.com/2025/08/14/la-sinistra-negata-02/ Thu, 14 Aug 2025 21:45:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90051 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale

Parte prima. Gli Anni Sessanta. (Seconda parte, la prima parte la trovate qui)

(Avvertenza: le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, ma partono in ordine progressivo relativamente a questa parte)

3. PRIMI PASSI. L’esplorazione dell’universo di fabbrica e della nuova composizione di classe inizia con l’apparizione, nel 1961, del primo numero dei “Quaderni Rossi”. L’uscita della rivista è preceduta da un’inchiesta condotta alla FIAT [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale

Parte prima. Gli Anni Sessanta. (Seconda parte, la prima parte la trovate qui)

(Avvertenza: le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, ma partono in ordine progressivo relativamente a questa parte)

3. PRIMI PASSI.
L’esplorazione dell’universo di fabbrica e della nuova composizione di classe inizia con l’apparizione, nel 1961, del primo numero dei “Quaderni Rossi”. L’uscita della rivista è preceduta da un’inchiesta condotta alla FIAT da alcuni membri del futuro gruppo redazionale, al fine di scoprire le cause dell’apparente passività rivendicativa regnante negli stabilimenti torinesi. «Si trattava di capire – chiariranno poi i redattori dei “Quaderni Rossi” – se questa mancanza di lotta corrispondeva ad una situazione di effettiva “integrazione” degli operai nel sistema aziendale, o se esisteva una spinta di lotta che non era in grado di realizzarsi concretamente, e per quali ragioni»1.

È da notare che questa inchiesta «non si sviluppava direttamente su problemi direttamente politici, ma consisteva principalmente in un’analisi (che veniva fatta dagli intervistati attraverso le risposte al questionario) dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali (conflittuali o meno) che si sviluppavano in riferimento ad essa»2. Già in queste premesse sono contenute molte delle linee di fondo della successiva esperienza del “Quaderni Rossi”. I filtri ideologici, specie di natura ottocentesca, che la sinistra adotta per organizzare in schemi politici il conflitto di classe, sono seccamente respinti. Lo strumento dell’inchiesta, condotta assieme agli stessi operai (la cosiddetta “con-ricerca”), diviene fondamentale al fine di solidificare un preciso “punto di vista operaio” dal quale l’azione politica deve necessariamente discendere.

Nel caso della FIAT questa impostazione conduce a risultati inattesi. Se “integrazione” c’è, essa riguarda gli operai di una certa età, già protagonisti delle roventi lotte degli anni ‘50 e fortemente sindacalizzati; mentre quel che connota gli operai più giovani è una crescente estraneità, potenzialmente conflittuale, all’azienda e al mito FIAT, in gran parte dovuta a procedure di lavoro spersonalizzanti. Tale estraneità si estende al sindacato, senza però che questo implichi scarsa coscienza di classe; al contrario è proprio tra gli operai assunti in coincidenza con il boom dei beni di consumo, scarsamente sindacalizzati e in apparenza meno attivi che il grado di combattività è più elevato.

Come scrive Romano Alquati, esponendo i risultati dell’inchiesta del 1960-’61, «le discussioni fra i quadri del sindacato e le nuove maestranze su questo punto sono continue: i giovani, nonostante tutto, rifiutano di lavorare per il sindacato. “Quello che chiedete va bene, ma non riuscirete mai ad averlo”, “non vale la pena, è una vita ormai fallita”. Non credono agli strumenti esistenti di realizzazione di tale linea rivendicativa, per loro sono quelli che hanno portato all’integrazione degli anziani»3.

Per i collaboratori dei “Quaderni Rossi” la diagnosi non può essere che una. Se la volontà di lotta serpeggiante alla FIAT non riesce a concretizzarsi, è perché dalle piattaforme sindacali è assente quel ventaglio di rivendicazioni di potere che, solo, potrebbe coinvolgere in profondità le “nuove forze” operaie.
Qui la prospettiva si dilata in un’analisi di largo respiro, in cui i dati emersi dall’inchiesta vengono inquadrati nei presupposti teorici da cui i “Quaderni Rossi” prendono le mosse. Ogni analisi pauperistica del capitalismo italiano viene respinta. Quel che caratterizza il sistema non è la sua arretratezza, ma anzi la sua “modernità”, mentre gli apparenti ritardi, lungi dal simboleggiare debolezza, sono “voluti” e funzionali allo sviluppo complessivo del capitale. Ora, giunto ad una fase “alta” di crescita, il capitalismo non è condannato all’anarchia, come pretendeva il marxismo superficiale. La maturità del capitalismo monopolistico (giunto ad identificarsi con lo Stato nella complessa figura del “capitale sociale”) si misura al contrario nella sua capacità di darsi un piano, di programmare razionalmente la propria espansione e il proprio dominio4.

Ma questo dominio nasce dalla fabbrica: dal terreno concreto dei rapporti dí produzione. È qui che il capitale, dovendo controllare l’antagonista storico che esso stesso ha prodotto (la classe operaia), avverte perla prima volta la necessità di pianificare sia il proprio sviluppo economico sia il proprio comando sociale, che poi estenderà all’intera società. Ne consegue che, «poiché con l’organizzazione moderna della produzione, aumentano “teoricamente” per la classe operaia le possibilità di controllare e dirigere la produzione, ma “praticamente”, attraverso il sempre più rigido accentramento delle decisioni di potere, si esaspera l’alienazione, la lotta operaia, ogni lotta operaia, tende a proporre la rottura politica del sistema5.

Il terreno dello sciopero, del conflitto sociale immediato, è dunque individuato come terreno ideale sul quale innestare il conflitto di potere, superando la tradizionale scissione tra lotta economica e lotta politica. L’indicazione non resta confinata al piano teorico. Il gruppo dei “Quaderni Rossi” (Raniero Panzieri, Dario e Liliana Lanzardo, Vittorio Rieser, Romano Alquati, ecc.) si impegna a propagandare davanti alle fabbriche (FIAT e Olivetti soprattutto)6, con un’opera capillare e paziente di sensibilizzazione, le proprie tesi. A questo scopo vengono intrecciati legami di collaborazione con la FIOM, la cui sezione torinese si rivela parzialmente sensibile al discorso della rivista, che trova una prima concretizzazione nel grande sciopero FIAT del 1962.

Ma il collegamento con gli organismi sindacali ‘ufficiali’ è destinato ad una vita breve e stentata. Da un lato, i redattori dei ‘Quaderni Rossi’, pur utilizzando la FIOM come ‘copertura’ al loro operato, invitano insistentemente gli operai ad organizzarsi autonomamente, manifestando senza mediazioni il loro spontaneo antagonismo, ritenuto di per sé, gravido di prospettive strategiche. »DOVETE DECIDERE VOI LA VOSTRA LOTTA», afferma ad esempio uno del tanti volantini distribuiti alla FIAT, «DOVETE CREARE VOI L’ORGANIZZAZIONE OPERAIA NELLA FABBRICA. Questa non può essere un prodotto di decisioni esterne, non può venire dall’alto. Deve sorgere dagli operai, officina per officina, reparto per reparto. Solo così la condizione operaia nella fabbrica potrà essere radicalmente trasformata»7.

D’altro lato la FIOM nazionale non può tollerare oltre certi limiti una politicizzazione delle lotte sindacali, tanto più se tale politicizzazione avviene su linee contrapposte a quelle sostenute dai partiti di sinistra (cui molti collaboratori dei “Quaderni Rossi” continuano ad essere iscritti, senza però che tale collocazione sia determinante). La rottura definitiva avviene nel 1962, con la già citata rivolta di Piazza Statuto. Nel corso dello sciopero alla FIAT inaspettatamente una folla di operai, fiancheggiati dal proletariato del quartiere, prende d’assalto la sede della UIL e, per tre giorni consecutivi (7, 8 e 9 luglio), affronta la polizia in violentissimi scontri. L’Unità parla di “elementi incontrollati ed esasperati”, “tentativi teppistici e provocatori”, “piccoli gruppi di irresponsabili”, “giovani scalmanati” , “anarchici”, “internazionalisti”8

Le fa eco l’intero arco della stampa di sinistra. Radicalmente diverso l’atteggiamento dei “Quaderni Rossi”. Pur definendo i disordini di piazza “squallida degenerazione” di una manifestazione di protesta, il gruppo redazionale indaga sulla condizione dei giovani immigrati dal Meridione, ne mette in luce la situazione di precarietà, esplora le radici della loro rivolta.
La conclusione è perentoria. I “Quaderni Rossi” rifiutano di definire”provocatori” e “fascisti” i giovani di Piazza Statuto, e ribadiscono – contro la sinistra ufficiale – l’accettazione della violenza rivoluzionaria tra i metodi ineliminabili di lotta9.
La rottura con la FIOM è a questo punto inevitabile, tanto più che, nell’ambito della sinistra, vi è stato chi ha accusato i ‘Quaderni Rossi’ e Renato Panzieri in prima persona, di aver fomentato disordini10.

Indebolitosi il già fievole legame con il movimento operaio strutturato, l’alternativa è tra il proseguire il lavoro d’analisi già iniziato in termini d’inchiesta, subordinando ad esso il lavoro politico concreto. e il cercare immediatamente nuove soluzioni organizzative e nuove modalità di agitazione. I “Quaderni Rossi” seguono la prima strada, ma una parte della redazione (Mario Tronti, Toni Negri, Alberto Asor Rosa, Romano Alquati, ecc,), che già non ha condiviso le cautele di Panzieri sulla sommossa di Piazza Statuto, se ne distacca e nel ’63 dà vita a Classe Operaia11.

Nel periodo successivo al 1963, caratterizzato, come si è visto, dalla crisi economica e dalla conseguente stasi nelle lotte operaie, i limiti impliciti nei presupposti teorici dei “Quaderni Rossi” risaltano in piena evidenza. In una fase cui íl proletariato di fabbrica viene decimato, in cui l’iniziativa è saldamente nelle mani del capitale e dello Stato, in cui si manifestano i primi fenomeni di dispersione territoriale delle forze operaie, un’ipotesi prevalentemente fabbrichista sconta i limiti della propria ristrettezza. Sfugge a Panzieri e ai suoi collaboratori la complessità del nesso fabbrica-società, per cui l’attenzione si concentra su pochi stabilimenti maggiori ritenuti paradigmatici (FIAT e Olivetti, ancora una volta) mentre lo sono sulla base di precise scelte ampiamente reversibili. Inoltre sfugge l’importanza dei rapporti di riproduzione, e quindi la necessità di associare alla figura dell’operaio quella del ‘proletario’, interpretando la prima anche alla luce della seconda. Eppure era proprio il ‘proletariato’ che si era affacciato a Piazza Statuto, come gli stessi ‘Quaderni Rossi’ avevano riconosciuto descrivendo la partecipazione agli scontri dei lavoratori delle piccole imprese12.

Una visuale così limitata conduce inevitabilmente a scorgere, in un temporaneo ripiegamento degli operai delle grandi fabbriche, la chiusura quasi totale dei possibili terreni di lotta. Di qui i due errori fondamentali che segnano l’ultima fase dell’esistenza della rivista. Da un lato, una sopravvalutazione della ‘astuzia’ del capitale e della sua capacità di “inghiottire” le lotte operaie, rendendole funzionali alla propria crescita13 (con conseguente esaltazione del ruolo dell’intellettuale quale portatore di una strategia ad una classe inchiodata alla tattica). Dall’altro la complementate tendenza a delegare interamente al sindacato la gestione concreta delle lotte, riservandosi un semplice compito di “chiarificazione” dei contenuti poltici delle lotte stesse.
Resta immutato, naturalmente, il grande valore dei ‘Quaderni Rossi’ come tentativo di ricostruire un movimento operaio modellandolo direttamente sulle esigenze degli operai medesimi; così come resta immutata l’acutezza delle analisi condotte sull’operaio-massa, sui significati della programmazione e sulle tendenze del capitale evoluto.

D’altronde, nell’ultimo anno di vita della rivista, dopo la morte di Raniero Panzieri, molti aspetti del “fabbrichismo” a lungo professato vengono rimessi in discussione. Riesaminando i risultati dell’inchiesta del ’60-’61, ad esempio, alcuni redattori ammettono (sulla scorta di un’osservazione autocritica di Panzieri) che la mancanza di una “dimensione economico-politica si rifletteva non solo direttamente sull’inchiesta, ma anche sul tipo di funzione assegnata alla lotta e nel tipo di previsioni che si formulavano in rapporto ad essa: anch’essa vista, per così dire, in un contesto aziendale isolato (sul piano economico, se non sul piano della comunicazione tra operai) dal contesto capitalistico circostante”. Pertanto “tutti i problemi posti dalle conseguenze che le lotte avrebbero avuto sullo sviluppo economico capitalistico, e dal modo con cui i capitalisti avrebbero reagito a queste conseguenze generali, e non solo a quelle aziendali, venivano trascurati o sottovalutati”14.

Non a caso, la riflessione sull’insufficienza del “fabbrichismo” avviene nel momento in cui i “Quaderni Rossi” tendono a trasformarsi, da nucleo teorico, in movimento politico vero e proprio, con sezioni in varie località dell’Italia centro-settentrionale (Torino, Milano, Biella, Ivrea, Massa Carrara, ecc.) e un intervento aperto in molte situazioni di lavoro (particolarmente fruttuoso quello tra i ferrovieri)15.

Questa evoluzione non può sfociare che nella caduta di ogni ambiguità nei confronti dei partiti di sinistra, e nella parallela affermazione della necessità di costruire un’organizzazione rivoluzionaria. Sempre presente in sottofondo durante tutto l’arco di vita della rivista, questa esigenza viene affermata in termini espliciti nell’ultimo numero dei “Quaderni Rossi”, in un editoriale significativamente intitolato “Movimento operaio e autonomia della lotta di classe16. Proprio il concetto di “autonomia” è il patrimonio teorico che i “Quaderni Rossi”, primo gruppo rivoluzionario italiano di ispirazione operaista, lasciano in eredità al movimenti degli anni successivi.

4. LA CLASSE IMMAGINARIA.
Minore spazio merita l’esperienza di ‘Classe Operaia’, rivista-movimento che costituisce, a nostro avviso, un’involuzione rispetto ai “Quaderni Rossi”. Il valore dell’inchiesta viene disconosciuto, i dati economici sono trascurati. L’analisi passa da un piano socioeconomico ad un piano prevalentemente politico-filosofico, non privo di sgradevoli punte letterarie. Ne esce l’immagine di una classe operaia elevata alla condizione di puro Spirito, la cui invincibilità costringe il capitale (altrettanto metafisico) ad una continua fuga-ristrutturazione.

L’editoriale del primo numero, ad opera di Mario Tronti, fornisce già tutte le coordinatedi questa impostazione:«Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico e poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cmbiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia17.
Se i “Quaderni Rossi” omettono l’errore di vedere il capitale come pressoché onnipotente, e la lotta operaia sempre subordinata al suo sviluppo, l’errore di “Classe Operaia” è quello opposto. Nel suo sforzo di non farsi superare dall’avversario di classe, il capitale è costretto ad una rincorsa faticosa e mai conclusa.
Le lotte del ’58-’63 costituiscono il momento di non ritorno, la “rottura definitiva della sequenza sviluppo-lotte-sviluppo”: d’ora in poi ogni tentativo di integrazione operaia risulterà impossibile, e sarà l’iniziativa proletaria a “definire la cornice” in cui si muoverà la ristrutturazione capitalistica18.

Simili premesse spiegano gli equilibrismi cui i redattori di “Classe Operaia” sono costretti nel periodo successivo al ’63, quando la ristrutturazione capitalistica procede incontrastata mentre le lotte operaie non accennano a partire. Poiché la classe, entità sovrana e immateriale, è invincibile, occorre trovare la ragione reale del suo apparente ripiego. La prima spiegazione, più elementare e più prossima alla realtà, è quella dell’inadeguatezza degli strumenti sindacali. Da qui la tendenza del gruppo di “Classe Operaia” a sostituirsi al sindacato con un intervento diretto nelle fabbriche, superando le ambiguità dei ‘Quaderni Rossi’, il cui intervento, è volto ad influenzare (senza esito) le linee sindacali ufficiali.

A questo dato positivo fa però da contrappeso un dato pesantemente negativo. L’ostilità nei confronti del sindacato è, in “Classe Operaia”, almeno pari all’attrazione esercitata dal Partito, e dal PCI in primo luogo. Va detto che, su questo tema, esistono nel corpo redazionale, alcune rilevanti distinzioni. Il gruppo veneto (Toni Negri, Massimo Cacciari, ecc.) maggiormente teso all’intervento diretto, avverte immediatamente l’esigenza di una contrapposizione alle tradizionali forme organizzative della sinistra, e dopo due anni di difficile coesistenza lascia la redazione della rivista per iniziare un lavoro politico autonomo.
Il gruppo raccolto attorno a Tronti e alla FGCI romana insegue invece la propria ipotesi di un “uso operaio” del Partito, puntando a svincolare la lotta politica dalla lotta sociale e compensando con la prima l’insufficienza della seconda. Il fatto è che, per questo gruppo, esiste una seconda ragione al ripiego operaio. Essendo invulnerabile, la classe operaia non subisce sconfitte; di conseguenza, quando pare indietreggiare, in realtà si tratta di una “astuzia” che maschera la ricerca di un terreno più solido da cui scatenare una vittoriosa controffensiva19.

Nel nostro caso, l’astuzia consiste nell’”uso operaio” del partito di cui si diceva, e il terreno più solido nella sfera della politica pura, da cui aggirare l’avversario. Inutile aggiungere che Tronti, Asor Rosa e i loro collaboratori seguono lo stesso itinerario della “rude razza pagana”, chiudendo la loro breve esperienza ereticale con un addio pieno di promesse: «Adesso noi ce ne andiamo. Le cose da fare non ci mancano. Un monumentale progetto di ricerche e di studi viaggia nella nostra testa. E politicamente, con i piedi sulla terra ritrovata, c’è da conquistare un nuovo livello dell’azione. Non sarà facile»20.
Costituiranno una corrente minore del PCI, con molto prestigio e poco seguito.

Sta di fatto che, positive o negative che siano, le esperienze operaiste degli anni ’60 solidificano, sul finire dello stesso decennio, un largo tessuto di gruppi di fabbrica, di nuclei operai, di centri di intervento. Fioriscono i giornaletti locali, mentre i gruppi denominati “Potere Operaio” di Porto Marghera (nato dai dissidenti di “Classe Operaia”) e “Il Potere Operaio” di Pisa e Massa Carrara (filiazione dei “Quaderni Rossi”), assumono la struttura di autentiche organizzazioni rivoluzionarie, con centinaia di aderenti nelle dí grandi industrie.21.
Ad essi si affiancano “Potere Operaio” di Torino, “Lotta di Classe” di Ivrea, “Il Potere Operaio” di Pavia, “Il Potere Operaio” di Perugia, i residui gruppi dei “Quaderni Rossi” e molti altri.
È dalla confluenza di questi reticoli organizzativi e dal loro congiungimento col movimento studentesco che nasce la sinistra rivoluzionaria degli anni ’70.

(Segue nella prossima puntata la Parte seconda. Gli anni Settanta.)

NOTE:


  1. “Quaderni Rossi dell’Istituto Rodolfo Morandi. Note e documenti di lavoro”, 1964, n°4. Riprodotto In “Cronache e appunti dei Quaderni Rossi”. Roma 1978, p. 154.  

  2. Ivi, pp. 50-51.  

  3. Relazione di R. Alquati sulle “forze nuove” (Convegno del PSI sulla FIAT, gennaio 1961), in “Quaderni Rossi”, 1961, n°1.  

  4. Cfr. M. Trontí, ll piano del capitale, in: “Quaderni Rossi”, 1963, n° 3; ma soprattutto R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione, in ‘Quaderni Rossi’, 1964, n°4.  

  5. R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo in “Quaderni Rossi”, 1961, n°1, p.64.  

  6. All’Olivetti venne condotta, nel 1961 un’inchiesta analoga a quella svolta alla FIAT. I risultati furono simili. Cfr. M. Carrara. L’inchiesta all’Olivetti nel 1961, in “Quaderni Rossi”, 1965, n°5.  

  7. Cit. in D. De Palma, V. Riesce, E. Salvadori, L’inchiesta FIAT nel 1961, in “Quaderni Rossi”, 1965, n’5, p.246.  

  8. Cit. in D. De Palma, G. Lolli, Lo sviluppo della lotta dei metalmeccanici attraverso la stampa del movimento operaio, in “Cronache dei Quaderni Rossi”, 1962, n°1, p.56.  

  9. Cfr. Alcune osservazioni sui fatti di Piazza Statuto, in “Ctouche óel Quaderni Rossi”, 1962 n°1, pp. 57-61. L’articolo è redazionale.  

  10. Cfr. D.Lanzardo, op. cít., p. 69 e 194-196.  

  11. Un’esposizione analitica dei motivi della divisione è ín F. Schenone, Fare l’inchiesta, I “Quaderni Rossi”, in “Classe”, 1980, n°17, pp.202 ss.  

  12. Alcune osservazioni… cit. p.59.  

  13. Questa impostazione è molto esplicita nel citato articolo di Panzieri Plusvalore e pianificazione.  

  14. D. De Palma, V. Reiser, E. Salvadori, art. cit., pp. 242-243.  

  15. Cfr. “Lettere dei Quaderni Rossi”, 1965, n°8; Relazione di V. Reiser al seminario del 17-18 aprile 1965 Torino, in “Quaderni Rossi” dell’Istituto Rodolfo Morandi. Notizie e documenti di Lavoro, 1965, pp.219-220.  

  16. «Si sta verificando un allontanamento dei militanti dai partiti, e si va estendendo l’esigenza di una nuova organizzazione politica rivoluzionaria perché ci si rende conto che oggi non esistono margini per l’inserimento all’interno della struttura sindacale di una linea rivoluzionaria (o che questi margini esistono transitoriamente e solo in alcune situazioni particolari), e l’analisi della vita politica dei partiti rivela un crescente svuotamento dei tentativi di modifica dall’interno». Movimento operaio e autonomia della lotta di classe, in “Quaderni Rossi”, 1965, n°6, p.29.  

  17. M. Tronti, Lenin in Inghilterra, in ‘Classe Operaia’, 1964, n°1, p. l.  

  18. F. Schenone, op. cit., p. 203.  

  19. Per un’arguta chiarificazione di questa tesi cfr. R. Sbardella, La NEP di “Classe Operaia”, in “Classe”, 1980, n°17.  

  20. M. Tronti, Classe partito classe, in “Classe Operaia”, 1967, n°3, p.28.  

  21. Per ulteriori particolari cfr. E. Pasetto, G. Pupillo, II gruppo “Potere Operaio” nelle lotte di Porto Marghera (primavera ’66 – primavera ’70). in “Classe”, 1970, n°3; M. Bertozzi, Teoria e politica alla prova dei fatti: Il “Potere Operaio” pisano (1966-1969), in “Classe, 1980, n°17.  

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