Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Sep 2025 22:01:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Logistica: il panta rei della merce https://www.carmillaonline.com/2025/09/16/logistica-il-panta-rei-della-merce/ Mon, 15 Sep 2025 22:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90546 di Luca Cangianti

Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitti, Carocci, 2025, pp. 120, € 14,00.

Un mondo liscio, lubrificato, incanalato, senza conflitti, attrito e soluzioni di continuità. È questo il paradiso sognato dall’inconscio logistico: il panta rei, il tutto scorre della merce. La logistica è costituita da tutte le attività necessarie da far giungere un prodotto ai clienti. Solo allora sarà merce, perché, come giustamente ricorda Karl Marx, il trasporto è parte integrante della produzione. La logistica in Italia, il nuovo saggio di Andrea Bottalico, illustra attraverso documenti d’archivio, interviste e osservazione partecipante, come questo settore industriale, che [...]]]> di Luca Cangianti

Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitti, Carocci, 2025, pp. 120, € 14,00.

Un mondo liscio, lubrificato, incanalato, senza conflitti, attrito e soluzioni di continuità. È questo il paradiso sognato dall’inconscio logistico: il panta rei, il tutto scorre della merce.
La logistica è costituita da tutte le attività necessarie da far giungere un prodotto ai clienti. Solo allora sarà merce, perché, come giustamente ricorda Karl Marx, il trasporto è parte integrante della produzione. La logistica in Italia, il nuovo saggio di Andrea Bottalico, illustra attraverso documenti d’archivio, interviste e osservazione partecipante, come questo settore industriale, che costituisce oltre l’8% del pil italiano, rappresenti la nuova frontiera avanzata del capitalismo contemporaneo. Le navi, i camion, le gru, i treni, gli aerei, i nastri trasportatori, i software e i robot utilizzati da multinazionali quali Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc, non spostano meramente prodotti, ma scompongono e riassemblano continuamente processi produttivi agendo sul valore complessivo, sui tassi di profitto e sulla composizione della forza lavoro.

Nata con la scienza bellica, lo sviluppo delle infrastrutture e il mercato degli schiavi, la logistica, secondo l’autore, attraversa tre fasi principali. Nella prima, dagli anni cinquanta ai settanta  del secolo scorso, siamo ancora a un livello da sussunzione meramente formale, con il trasporto ferroviario che cede progressivamente il passo a quello su gomma. La seconda fase, negli anni ottanta e novanta, è connotata dalla rivoluzione del container1: la centralità fordista della produzione viene scomposta e il trasporto diventa uno degli aspetti cruciali del processo di accumulazione. In questo modo si pone in essere il bisogno di nuovi porti, interporti, ferrovie, strade, ma anche di infrastrutture immateriali e sociali: «Se in passato il trasporto delle merci era costituito da un seguito di segmenti operati da vettori diversi», afferma Bottalico, «ora il container elimina la cosiddetta “rottura del carico”, trasformando il trasporto in un unico flusso ininterrotto e riducendo sia i tempi che i costi». Infine, nella terza fase in corso, l’autore individua i seguenti fattori principali: utilizzo dell’informatica e delle pratiche just in time, sviluppo dell’intermodalità, consolidamento della figura dello spedizioniere come organizzatore del trasporto integrato, frammentazione, esternalizzazione dei servizi logistici e di trasporto, subappalto e precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Stando a quanto emerge perfino da alcune ordinanze di tribunali, queste ultime due componenti nel modello logistico italiano raggiungono livelli parossistici mediante l’utilizzo spesso fraudolento di cooperative, lavoro nero, evasione fiscale e contributiva. Si inserirebbero in questo contesto le morti per investimento del lavoratore egiziano Abd Elsalam Ahmed Eldanf nel 2016 e del lavoratore marocchino Adil Belakhdim nel 2021, nonché vari raid punitivi ai danni di altri lavoratori. D’altro canto, mentre il sindacato confederale legato al mondo delle cooperative non ha saputo guadagnarsi la rappresentanza della forza lavoro migrante del comparto, emergono nuove forme di lotta radicale che hanno conseguito vittorie contrattuali e miglioramenti delle condizioni lavorative.
Il sogno capitalista dell’inarrestabile fluire non riesce a prescindere dalla rugosità operaia – una contraddizione che il saggio di Bottalico mette bene in luce, con equilibrio sociologico, ma senza ossificare un presente privo di dinamica e di speranze.


  1. Al tema l’autore ha dedicato un volume specifico recensito qui

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A perdifiato e voltandosi indietro https://www.carmillaonline.com/2025/09/15/a-perdifiato-e-voltandosi-indietro/ Sun, 14 Sep 2025 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90526 di Luca Baiada

Francesco Troccoli, Dugo e le stelle, L’asino d’oro edizioni, Roma 2025, pp. 252, euro 15.

Cos’è per un bambino rom, la corsa, quando a inseguirlo sono i fascisti che hanno bruciato il suo campo? E cos’era, per un bambino rom, piccola staffetta partigiana, correre per combattere i nazisti, in Jugoslavia nella Seconda guerra mondiale? Un romanzo spezzato per tempi e luoghi, fra il Montenegro, una cittadina del Nord Italia e Roma ci sorprende con passaggi incalzanti e cambi di scena.

Treni, stazioni, pericoli, fughe continue, rifugi precari. Luoghi non-luoghi che scorrono visti dal basso, sfuggenti, imprevedibili. Ci sono [...]]]> di Luca Baiada

Francesco Troccoli, Dugo e le stelle, L’asino d’oro edizioni, Roma 2025, pp. 252, euro 15.

Cos’è per un bambino rom, la corsa, quando a inseguirlo sono i fascisti che hanno bruciato il suo campo? E cos’era, per un bambino rom, piccola staffetta partigiana, correre per combattere i nazisti, in Jugoslavia nella Seconda guerra mondiale? Un romanzo spezzato per tempi e luoghi, fra il Montenegro, una cittadina del Nord Italia e Roma ci sorprende con passaggi incalzanti e cambi di scena.

Treni, stazioni, pericoli, fughe continue, rifugi precari. Luoghi non-luoghi che scorrono visti dal basso, sfuggenti, imprevedibili. Ci sono bambini, anzi ragazzini, in un’età aurorale fra ultima infanzia e prima adolescenza, fitta di incontri, conflitti inspiegabili, incerti corteggiamenti, fame di avventure. Piccoli e grandi protagonisti italiani e insieme cinesi, curdi, rom. Sono carichi di energia ma – è davvero un ma, oppure è un e quindi, cioè è la vita stessa? – anche dei pesi ingombranti lasciati da altri prima di loro. È una comunità palpitante, uno stormo di segnati dagli strappi dell’esistenza, dalle fatiche familiari, dalle nuove domande. Si portano addosso la ricerca di attenzione e il gusto dei nascondigli. Hanno una voglia matta di tane calde e appartate, quelle che piacciono ai cuccioli d’uomo e di donna.

Questi ragazzini vogliono anche loro correre, spendersi. Magari per aiutare uno appena più piccolo, che deve salvarsi la pelle ma nel frattempo deve anche mangiare, giocare, studiare. Proviamo a vedere Roma coi suoi occhi? Per un piccolo rom la capitale non è monumenti o bar da aperitivi:

Roma è un oceano di luce in cui nuotano pesciolini veloci, grandi piovre barcollanti e calamari dalle dubbie intenzioni. Gli squali e i pescecani, in questo momento, stanno mangiando da qualche altra parte. Nell’aria c’è un misto di profumo di tiglio e gas di scarico, e nel cielo azzurro stazionano nubi che sembrano zucchero filato. C’è molta spazzatura, i muri sono tutti disegnati e l’erba cresce in mezzo ai marciapiedi. Fra mendicanti stesi in terra, ragazzi in bicicletta con grandi borse sulle spalle e venditori ambulanti, avverte la piccola euforia di entrare a far parte di un mondo nuovo.

C’è forse qualcuno che nell’infanzia non ha avuto un luogo speciale – rimessa, soffitta, armadio, lavatoio, auto guasta – dove rintanarsi? Povero, chi non avesse mai apprezzato queste ombrose delizie. E allora godiamoci la tana coi piccoli amici: nel campo nomadi abbandonato c’è una roulotte nascosta, i ragazzini la conoscono e la scelgono per base: la chiamano «la bolla». È questa una cifra profonda di Dugo e le stelle, romanzo di bolle spazio-temporali che si formano, volano e scoppiano, seguite da improvvisi rovesci. Un romanzo a sprazzi, un libro di temporali e schiarite.

Compare il circo. Un’altra bolla, perché la sua gente sa fare la Resistenza travestendosi, mimetizzandosi, salendo sugli alberi. Il campo dei nomadi partigiani, poi, «la sosta», è ancora una bolla: «Un posto collegato con tutti i luoghi della vita, propria e altrui, un posto da cui si può andare da qualsiasi altra parte con la sola forza della volontà e dell’immaginazione».

Ed è una bolla, privata e notturna, la terra di mezzo fra sonno e veglia; è quel tempo senza tempo che sconvolge, che espone al pericolo ma può salvare: il piccolo rom è sonnambulo e ha gli incubi. Invece di respingerlo, i ragazzini si riconoscono nelle sue ferite:

«Che ne pensi?» fa Zihad con aria grave.

«Non so».

«Sai, mi sa che hai ragione».

«Su cosa?».

«In fondo la sua situazione è veramente simile alla mia. Anch’io ho visto cose brutte e per un po’ ho fatto dei sogni orrendi, che non ricordo. E ti giuro che non me li voglio ricordare. Mi fanno paura anche adesso».

«Quando eri in quel campo, in Bosnia? Quando il tuo vero papà…?».

I traumi sono di tutti. Ma proprio di tutti, perché una donna delle pulizie, pelle nera e niente permesso di soggiorno, non sta lì a farsi domande sulle carte bollate quando si tratta di salvare un uomo. Non lo sa, Nosine, che sta difendendo un antico combattente, ma riconosce al volo, lei coi cenci in mano, china sul pavimento in fondo a un corridoio, il grido di una vittima e il ringhio di un fascista: «L’assassino si lancia fuori e la investe scagliandola in terra: “Maledetta puttana di una negra, togliti di mezzo!”».

Però. La memoria non ha bisogno di venire da un altro continente, può essere vicinissima, confusa nel chiasso. Alla stazione la vecchia zingara ha il suo libro di storia invisibile, scritto in un fardello pesante: «“Porrajmos” sentenzia la donna, in tono piatto, lo sguardo lanciato nel vuoto. “Porrajmos”. Negli occhi stanchi di Esma si vede qualcosa, è qualcosa che viene da lontano».

C’è ancora da correre, quando la vita non fa sconti, e bisogna farlo sino all’estremo: «Sta correndo. Ancora una volta, corre come il vento». Chi è, a correre così? il piccolo rom oggi o il partigiano bambino in Jugoslavia? A chi legge Dugo e le stelle, scoprirlo. Forse corre la nostra voglia di conoscere, di sapere che la storia non fluisce invano:

Anche le terre hanno un cuore, proprio come gli uomini che le abitano. E non lo puoi imprigionare. Quante volte glielo aveva raccontato suo padre, che contadino non era e che le dispute che i gagi facevano sulla terra non le aveva mai capite. Alla sua gente, allora come oggi, non è mai servito mettere paletti e prendere possesso di un pezzo di suolo.

Sarebbe troppo facile un paragone fra questa terra comune e la letteratura. C’è di mezzo un prezzo da pagare. La corsa nella vita impone scelte, come quella dell’ufficiale italiano, prima fascista e stragista, poi combattente con gli jugoslavi. E da un vecchio zingaro viene una dura lezione. Ricorda la lettera scritta da quell’ufficiale, da quel nemico italiano che è diventato un alleato, e riflette: «Riaprire gli armadi, tirare fuori vecchi scheletri nascosti, non fa mai piacere a nessuno». Lui stesso, lo zingaro, per lungo tempo quella lettera non riesce né a spedirla né a distruggerla. Si vede che quando c’è da correre, è bello guardarsi accanto e scoprire che non si è soli.

 

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Quel che la città abbandona https://www.carmillaonline.com/2025/09/13/quel-che-la-citta-abbandona/ Sat, 13 Sep 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90088 di Franco Pezzini

William Fedi, Alfamaterico, prefaz. di Chiara Daino, UrsaMaior, pp. 55, € 16, Pistoia 2025.

Ieri in pullman vedevo lo schermo informativo della nostra azienda di trasporti locale proporre tra le novità, oltre a un po’ di pubblicità progresso e alcune info su linee deviate, le pur belle foto di una mostra tenutasi due anni fa – una pubblicità pregresso il cui effetto era curioso, straniante. Quella mostra si era chiusa nel 2023: era come se questi due anni non fossero trascorsi, con tutti gli eventi (clamorosi, tragici…) inanellati. Poi per carità, può essere anche piacevole rivedere foto [...]]]> di Franco Pezzini


William Fedi, Alfamaterico, prefaz. di Chiara Daino, UrsaMaior, pp. 55, € 16, Pistoia 2025.

Ieri in pullman vedevo lo schermo informativo della nostra azienda di trasporti locale proporre tra le novità, oltre a un po’ di pubblicità progresso e alcune info su linee deviate, le pur belle foto di una mostra tenutasi due anni fa – una pubblicità pregresso il cui effetto era curioso, straniante. Quella mostra si era chiusa nel 2023: era come se questi due anni non fossero trascorsi, con tutti gli eventi (clamorosi, tragici…) inanellati. Poi per carità, può essere anche piacevole rivedere foto di una mostra d’arte, ma a colpire era l’apparenza di novità e l’effetto-scarto sul tempo.
Similmente, al riprendere in mano vecchie riviste, un tipo di contenuti che trattiene lo sguardo sono le locandine pubblicitarie: incollate a un mondo che contribuivano come ruote dentate a far muovere commercialmente, oggi rappresentano soltanto flebili echi, tracce di parole e magari di musiche, vaghe memorie di lontani Caroselli. Molti dei marchi sono scomparsi o inglobati in altri: e non parliamo di quei prodotti peculiarmente datati come le presunte scimmie di mare pubblicizzate sui giornali per ragazzi degli anni Sessanta, o certe conchiglie che, tenute in acqua, liberavano fiori farlocchi. Si compravano per corrispondenza (li ricordate?), in un’epoca in cui Amazon non era stata neppure sognata. Se in vena di paradossi temporali io scrivessi oggi a quelle ditte per ordinare scimmie di mare, nessuno mi risponderebbe: neppure gli eventuali figli o nipoti dei vecchi inserzionisti.
Tutto questo mondo passato e lo scarto tra il ricordo di ciò che eravamo e la realtà odierna può colpire ai nostri giorni anche per un diverso motivo: cancellate con un colpo di spugna dell’amministrazione le antiche forme di documentazione cartacea a favore di quella incorporea on line – un provvedimento che certo limita i danni all’Amazzonia ma soprattutto mira al risparmio delle amministrazioni, caricando sulla popolazione il relativo onere con menefreghistico cinismo nei confronti di chi sia meno giovane, duttile o tecnologizzato – a restare a beneficio dei posteri sono sempre meno archivi cartacei. Mentre sopravvive, come constatavo in una giornata di vento sui viali tra voli surreali alla Remedios Varo di locandine pubblicitarie, foglietti di pizzerie e promozioni di idraulici, un’altra e minore documentazione in cellulosa. Come scrive Ingeborg Bachmann, “perché la carta svolazza, / allora nemmeno io posso riposare, / e svolazzo a brandelli / sulla strada”. Documentazione sempre più scollegata dal presente (la pizzeria nel frattempo ha chiuso, l’idraulico è tornato in Polonia) ma reperibile dai futuri archeologi a far loro immaginare la nostra società come alimentata esclusivamente di pizze o compulsivamente piastrellante.
Fuor d’ogni battuta, l’effimero che rimane cambia spesso natura anche fisica, conosce un processo – si passi il termine – alchemico con tanto di opera al nero per l’azione di agenti atmosferici: diventa altro, nella decomposizione parallela della memoria e del suo supporto. E su tale suggestione del trasfigurarsi di una comunicazione pubblica, sempre più libera da implicazioni commerciali o istituzionali ma latrice di un peculiare memento, in qualcosa che resta insieme memoria storico-artistica e ramo d’oro per scendere tra i morti, lavora da anni un fotografo pistoiese, William Fedi, classe 1978.
Un frutto del suo lavoro (che, tiene a sottolineare, è più testimoniale che artistico, da osservatore / flâneur, come emerso già mesi fa nella sua prima mostra personale) è appunto questo bel volume dell’elegante casa editrice UrsaMaior, che raccoglie un corpus di foto (a partire dal 2023) di manifesti o supporti di manifesti pubblicitari trovati peregrinando per Pistoia.
Come sintetizzato in un opuscolo sul progetto fotografico,

 

L’ambiente cittadino viene descritto mediante visioni parziali e frammentarie, ottenute fotografando manifesti pubblicitari rovinati dal tempo e dagli agenti atmosferici. Le ruggini, gli strappi, le infiorescenze di muffa, le carte sedimentate nei mesi e negli anni creano textures imprevedibili e incontrollabili che possono alludere alla decomposizione sociale di certi ambienti urbani, soprattutto periferici.

 

Al centro è dunque idealmente la città, con le ossessioni superstiziose del pubblico decoro e assai minori attenzioni ai buchi nel manto stradale, le gentrificazioni spudorate e gli sgomitanti potentati immobiliari, le linee di trasporti da viaggio della speranza e le disattenzioni sociali. Il lascito di Caino, si dirà, primo fondatore d’una città… Eppure tra le pieghe della medesima qualcosa di interessante emerge tra i suoi stessi abbandoni. E la decomposizione di ciò che è manifesto inizia a suggerire qualcosa su un piano più sottile.
Coronato dalle visionarie parole di Chiara Daino – poeta, scrittrice, attrice, cantante – il testo si presenta come successione di fotografie, articolata in quattro parti. Ogni immagine – mostra l’autore – inizia a prendere senso autonomo nel momento in cui l’affiche fotografata non possiede più utilità pratica: a trionfare sono i materiali grezzi, tanto più se collocati in zone dimenticate della città, dove pure si coglie un residuo caparbio di vita. E la scelta di Fedi è di utilizzare tecniche diverse dalla foto d’arte, a base di scatti veloci con lo smartphone, a sua volta feticcio di quel consumismo indefinitamente stratificato in scena anche nei cartelloni. A provocare sul nostro rapporto con gli oggetti, con i messaggi visivi offertici e il modo di raccontarsi di una città anche e proprio attraverso ciò che lascia alla deriva del tempo: eventi pubblici, proposte culturali, sconti da supermercato…
In scena sono cartelloni pubblicitari a brandelli, locandine in vorace e confusa sovrapposizione, superfici devastate dalla pioggia e dal vento e dove pure restano frantumi visivi ad additare insieme singole particelle di senso (quegli ATOMI titolo della citata mostra): cartapesta di immagini cancellate, mozziconi di frase, colori alterati di una più generale sovrapposizione di livelli della realtà urbana. Da ciò voci flebili del passato e nuove narrazioni: quanto era stato inizialmente concepito come effimero – si pensi alla pubblicità, con diritti d’affissione drasticamente limitati nel tempo, o all’evento di una serata – si ribella a quel limite almeno in forma fantasmatica, si combina archeologicamente con altri strati precedenti o successivi, e lascia impronte memoriali durevoli. Certo, ogni spettatore può vedervi qualcosa di diverso, come nelle macchie di Rorschach: del resto l’astrattezza delle tavole rende impossibile un’interpretazione definitiva o anche sono una denominazione appropriata, per cui l’opera resta aperta a visioni differenti. E in quei frantumi possiamo ritrovare la nostra vita. Credo riconoscerei le tracce di manifesti che mi avevano colpito da bambino (quel singolo film, proiettato per pochi giorni), anche se mischiate a tracce di tutto ciò che è venuto disordinatamente dopo… Quindi decomposizione, certo – eminentemente quella sociale – ma anche memoria liofilizzata di qualcosa che dentro di noi tratteniamo intero.
In questo senso l’unica forma congrua di suddivisione del tema in capitoli, ha compreso l’autore, resta quella legata ai materiali-base più evidenti. Per secoli l’iconografia di infinite incisioni e fantasie simboliche ha seguito l’antica dottrina su quattro elementi fondamentali della realtà – aria, acqua, terra, fuoco – che in fondo sottostanno agli stessi agenti atmosferici consumatori di questi reperti. Essi si sostanziano però similmente di quattro altri elementi, marcatori di trasformazione e decadimento d’un supporto originale.
A partire dalla Carta, forse il più essenziale, dove la sovrapposizione di lacerti non si limita a velare ma forma increspature, brandelli ripiegati come grumi – come nella vita reale, dove gli eventi non si succedono semplicemente, non calzano in modo perfetto lungo i giorni l’uno sull’altro, ma reagiscono; tradisce piccoli loghi o singole lettere di comunicazioni perdute, ormai inattingibili ma echeggianti; tradisce strappi e l’ombra della mano che ha lacerato la carta senza riuscire a eradicarla completamente. I colori arlecchineschi lasciano spesso spazio al biancheggiare di una base cartacea, come quando apriamo un cono gelato confezionato e lo strato superiore coloratissimo viene via lasciando una base bianca.
La seconda sezione, Muffa, è emblematica delle alterazioni recate da tempo e agenti atmosferici. I colori si trasformano alchemicamente, una vita fungina, sporica segna una nuova fase di vita dei brandelli di manifesti impregnando le parole scritte a renderle illeggibili come antichi documenti archeologici: se nella prima sezione le basi erano biancastre, qui sono scure a richiamare l’umidità e fioritura muschiata delle pareti di fondo.
Terza sezione, Colla: in questo caso l’elemento-chiave della sovrapposizione, la soluzione adesiva che la permette e rinsalda, è enfatizzato negli effetti-collage, nell’azione diseguale dei pennelli intuibile alla base, nella policromia imposta dagli strappi dei manifesti.
E infine Ruggine, a suggerire le trasformazioni del metallo e le derive di antiche archeologie industriali attraverso ombre brune come dilavature nel sangue mestruale di un’epoca.
Cambia, insomma, il messaggio: resta come un balbettio medianico, una traccia audio ronzante, un crepitio su un nastro vhs consumato che rilascia fantasmi, messaggio comunque reso fisico da una base materiale. A sua volta decorporata dal passaggio attraverso la fotografia: a salvare quante di questi tavole siano state nel frattempo coperte o rimosse dall’amministrazione per lasciare spazio a nuovi effimeri. Un minuetto dove materiale e immateriale finiscono col fondersi e confondersi – come in fondo un po’ tutto, nelle nostre vite.

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Politeismo italiano https://www.carmillaonline.com/2025/09/12/politeismo-italiano/ Fri, 12 Sep 2025 21:55:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90537 di Geraldina Colotti

Più di un secolo fa, il sociologo Max Weber spiegò con autorevolezza come l’individuo moderno fosse destinato al cosiddetto «politeismo dei valori». Queste riflessioni famose, anche se non necessariamente persuasive, servivano a delineare la situazione nuova di società disincantate, costrette a convivere con l’assenza di baricentri ideologici assoluti e col proliferare di dilemmi etici e normativi inevitabilmente drammatici.

Nessun dramma, però, sembra affliggere l’odierno politeismo italiano, che nel 2025 ha segnato un notevole salto di qualità con la morte e la santificazione di Pippo Baudo e di Giorgio Armani. «Santo subito!», gridavano i più sfrenati fedeli cattolici, dopo [...]]]> di Geraldina Colotti

Più di un secolo fa, il sociologo Max Weber spiegò con autorevolezza come l’individuo moderno fosse destinato al cosiddetto «politeismo dei valori». Queste riflessioni famose, anche se non necessariamente persuasive, servivano a delineare la situazione nuova di società disincantate, costrette a convivere con l’assenza di baricentri ideologici assoluti e col proliferare di dilemmi etici e normativi inevitabilmente drammatici.

Nessun dramma, però, sembra affliggere l’odierno politeismo italiano, che nel 2025 ha segnato un notevole salto di qualità con la morte e la santificazione di Pippo Baudo e di Giorgio Armani.
«Santo subito!», gridavano i più sfrenati fedeli cattolici, dopo la morte di Karol Wojtyla, papa scenografico e reazionario. Come possiamo constatare, l’esperienza non è andata perduta, vista l’ondata di selvaggio conformismo che si è scatenata all’indomani della scomparsa del «re» della televisione e del «re» della moda.
Notiamo che questi «re» sono monarchi dell’apparenza. Baudo «scopriva» i cantanti, facendoli apparire a Sanremo per dischiudere loro le porte del successo. Armani «copriva» attori e politici, facendoli apparire nella miscela di stile e originalità che conferiva loro eleganza e sicurezza.

Notiamo anche un’altra cosa. Questi sovrani dell’esteriorità hanno imposto la loro supremazia solo a partire dagli anni Ottanta. Anni di simulazione portata all’eccesso, anni di narcisismo compulsivo, anni (bisogna dirlo) di controrivoluzione.
E qui viene in mente Leopardi: il Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, dove i comportamenti dei suoi contemporanei gli apparivano determinati «quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti».

Questo è il quadro. La maggioranza degli italiani ha bisogno di idoli, e, a dispetto delle austere considerazioni di Weber, è disposta ad accogliere nel proprio pantheon Baudo e Armani, e a mescolarli senza difficoltà con Carlo Acutis, ricchissimo e sfortunato figlio di finanzieri, dedito alla beneficenza e santo molto opportuno di Internet.
Sono le divinità del nostro tempo. La gente le acclama. Le piange e le rimpiange. Le commemora (notiamo infine questo) ricorrendo se necessario alle parole e alle sfumature della cultura alta, e attingendo se utile al linguaggio e alle emozioni della cultura popolare. Un conformismo selvaggio, abbiamo detto. Un piattume ubriaco, cieco, da gregge, che contrasta in modo osceno con la realtà: quella delle cassiere imprigionate nei supermercati, dei sikh vampirizzati nelle campagne, dei morti sul lavoro, della mattanza genocida di Gaza.

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Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio https://www.carmillaonline.com/2025/09/11/global-sumud-flotilla-eterotopie-di-contestazione-nello-spazio-liscio/ Thu, 11 Sep 2025 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90487 di Paolo Lago

Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, al fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”. Se l’utopia si configura come un “non luogo”, l’eterotopia si presenta come un luogo reale separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”1. Sono svariate le eterotopie secondo l’analisi dello studioso francese: i giardini, [...]]]> di Paolo Lago

Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, al fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”. Se l’utopia si configura come un “non luogo”, l’eterotopia si presenta come un luogo reale separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”1. Sono svariate le eterotopie secondo l’analisi dello studioso francese: i giardini, i teatri, le prigioni, le colonie, le fiere, le biblioteche. Alla fine della conferenza, Foucault definisce però la nave come “eterotopia per eccellenza”: la nave è un “frammento di spazio fluttuante, un luogo senza luogo, che vive per sé, che è chiuso su se stesso e che, nello stesso tempo, è abbandonato all’infinito del mare”2; è “anche la più grande riserva di immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza barche i sogni si inaridiscono, lo spionaggio prende il posto dell’avventura e la polizia quello dei corsari”3.

L’immagine della nave come “contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”, come “riserva di immaginazione”, come una specie di scrigno di sogni scaturiti da un immaginario libero e liberato prende corpo in questi giorni nella Global Sumud Flotilla, partita carica di aiuti umanitari pochi giorni fa alla volta della Striscia di Gaza con l’intento di rompere il blocco israeliano. Sono tante imbarcazioni a vela che assumono una dimensione quasi mitica nel loro movimento sulla superficie del mare alla volta della Striscia. Esse si muovono in quello che, secondo una definizione di Deleuze e Guattari, è lo “spazio liscio” per eccellenza, il mare, che l’apparato degli stati ha sempre cercato di rendere “striato”, cioè sottoposto al controllo4. Ma, andando per mare – proseguono i due studiosi – “anziché striare lo spazio lo si occupa con un vettore di deterritorializzazione in movimento perpetuo”5.

Il movimento delle navi, quegli scrigni di sogni e di immaginazione, libera lo spazio marino dal sistema del controllo restituendolo alla deterritorializzazione tipica degli spazi lisci abitati dai nomadi. Le navi della flottiglia sono mitiche anche perché si spostano come le navi degli eroi antichi creatrici di storie: le navi dell’Odissea, la nave Argo delle Argonautiche di Apollonio Rodio, come scrive Bertrand Westphal, “inanellano i luoghi come perle sulla collana di parole del poeta”6. È lo spostamento del viaggio per mare a creare il racconto, a farlo scaturire dall’immaginazione del poeta: gli esseri mitici e fantastici incontrati, i luoghi strani e meravigliosi visitati sono creati dal movimento delle navi sulla distesa marina. Così, la Flotilla apre il nostro immaginario a un’idea di libertà, scava in profondità nel malato immaginario contemporaneo occidentale incasellato in vuoti e imposti schemi di pensiero dominati dall’indifferenza, colpisce e ferisce nel profondo il pensiero unico dell’Occidente capitalista, irreggimentato dalle pratiche di controllo digitale e mediatico dell’epoca post-Covid. Il viaggio della Flotilla è anche questo: un poema che apre nuovi squarci possibili al nostro immaginario, apre varchi di fuga e di resistenza all’irreggimentazione incasellante del pensiero.

Foucault, nella sua conferenza, mette in opposizione la “polizia” e i “corsari”: se la prima rappresenta il controllo, ciò che secondo l’analisi di Deleuze e Guattari possiamo definire come “spazio striato”, i secondi sono invece l’immagine dello “spazio liscio” abitato dai nomadi, vettori di deterritorializzazione. Nella prima versione radiofonica della sua conferenza, lo studioso accentuava in modo poetico la dimensione del sogno e dell’immaginazione che si scontra con le dinamiche del controllo: “le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”7. Naturalmente, si tratta di una visione essa stessa per certi aspetti ‘mitica’ e fantastica dei corsari e dei pirati, venata di connotazioni romantiche: come ha scritto Valerio Evangelisti, autore di una Trilogia dei pirati, la figura storica dei pirati e dei corsari è ben lontana dalla “favola del pirata romantico e vendicatore”8. Il corsaro della fantasia romantica è simbolo di sogno e di libertà, di pensiero liberato da qualsiasi orpello incasellante; la “polizia”, invece, è la macchina burocratica del controllo, l’apparato statale e militare che blocca, controlla, incasella, deporta e arresta. È quello stato che afferma che gli attivisti di Flotilla “saranno trattati come terroristi”, che conferisce un senso unico e vuoto alle parole, manipolandole fino al loro contrario e utilizzando quindi una parola come “terrorista” applicata a degli attivisti non violenti e pacifici. Gli stati e le loro macchine del controllo, irreggimentati nella ripetitività perennemente uguale dei loro gesti di divieto e ostruzione, non conoscono l’assolata bellezza dei corsari, niente sanno di quel “poema del mare” cantato da Rimbaud in Le bateau ivre.

Le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla sono anche una contestazione reale dello spazio in cui viviamo: alcune di esse procedono infatti a vela, rifiutando una velocità che nell’universo contemporaneo si associa spesso alla produzione capitalistica anche violenta e alla manipolazione silenziosa degli individui: la costruzione dell’alta velocità che sventra montagne e vallate, la velocità come efficienza e iperproduzione, la flessibilità lavorativa, la competitività e la necessità di formazione continua, una sempre più pervasiva digitalizzazione della vita quotidiana. Gli attivisti vanno per mare lentamente, ponendosi contro l’idea di dominio del capitalismo contemporaneo che “supera i limiti degli apparati di Stato e passa in complessi energetici, militari-industriali, multinazionali”9 in una struttura che oggi assume l’aspetto di una guerra globale non dichiarata, fatta con qualsiasi mezzo. La Flotilla conosce l’idea di distanza, annientata oggi da un pervasivo processo di velocizzazione10: la sua navigazione viene incalzata da droni che la sorvegliano e la controllano, droni che altro non sono se non appendici violente della distruttiva velocità contemporanea.

Oltre che di immaginazione, le eterotopie della Flotilla sono una riserva anche di umanità perché rappresentano una possibilità importante, per l’Occidente, di restare umano, lontano dall’indifferenza e dal vuoto che circondano la società contemporanea. In un clima di disumanità diffusa sono capaci di restare umani, infatti, non soltanto coloro che sono a bordo delle imbarcazioni ma anche i loro sostenitori e i manifestanti pro Palestina che invadono le strade nonché quei lavoratori portuali pronti a scendere in piazza e a bloccare tutto se succederà qualcosa alle imbarcazioni umanitarie: insieme sfidano, ancora una volta, quel potere striato e reticolare che vorrebbe intorno a sé soltanto una squallida indifferenza. Il senso di umanità che si trova nelle stive delle imbarcazioni rappresenta anche una resistenza contro qualsiasi forma di fascismo, perché l’indifferenza, l’irrisione e ogni becera ironia mediatica di fronte al viaggio della Flotilla, altro non rappresentano se non una insidiosa e pericolosa ‘fascistizzazione’ della società.


  1. M. Foucault, Eterotopie in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, Milano, 2020, p. 311. 

  2. Ivi, p. 316. 

  3. Ibid

  4. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma, 2010, p. 458. 

  5. Ibid

  6. B. Westphal, Geocritica. Reale, Finzione, Spazio, Armando, Roma, 2009, p. 115. 

  7. M. Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio, Napoli, 2011, p. 28. 

  8. V. Evangelisti, Un mondo di canaglie, in “Carmilla online”, 12 luglio 2008. 

  9. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani, cit., p. 458. 

  10. cfr. P. Virilio, La velocità di liberazione, a cura di U. Fadini e T. Villani, Mimesis, Milano, 2000, p. 151. 

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Un’apocalisse contadina https://www.carmillaonline.com/2025/09/10/apocalisse-contadina/ Wed, 10 Sep 2025 18:11:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90187 di Sandro Moiso

Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia. Analisi e documenti di una rivoluzione tardo medievale (a cura di Daniele Pepino), edizioni Tabor, Valsusa 2025, pp. 295, 15 euro.

«Cari fratelli, con lo sguardo alla legge di Dio e al bene comune, che ogni uomo che sa maneggiare un bastone o scagliare una pietra si faccia avanti per lottare… Noi stiamo raccogliendo il popolo da ogni parte contro questi nemici di Dio e devastatori della terra di Boemia. Voi stessi proclamate sulle piazze dei mercati che tutti quelli cui l’età lo consente siano pronti a sollevarsi in qualsiasi momento. Con [...]]]> di Sandro Moiso

Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia. Analisi e documenti di una rivoluzione tardo medievale (a cura di Daniele Pepino), edizioni Tabor, Valsusa 2025, pp. 295, 15 euro.

«Cari fratelli, con lo sguardo alla legge di Dio e al bene comune, che ogni uomo che sa maneggiare un bastone o scagliare una pietra si faccia avanti per lottare… Noi stiamo raccogliendo il popolo da ogni parte contro questi nemici di Dio e devastatori della terra di Boemia. Voi stessi proclamate sulle piazze dei mercati che tutti quelli cui l’età lo consente siano pronti a sollevarsi in qualsiasi momento. Con l’aiuto di Dio, presto verremo a trovarvi; procuratevi del pane, della birra, del foraggio per i cavalli d ogni sorta di armi, perché è giunto il momento di combattere» (Jan Žiżka del Calice, capitano del popolo taborita, 1422)

Più di cento anni prima della guerra dei contadini tedeschi del 1525, in terra di Boemia, migliaia di contadini insorsero sia contro la rapacità della chiesa cattolica che contro le esose richieste dei proprietari, in gran parte tedeschi, delle terre lavorate col sudore e la fatica delle comunità agrarie dell’Europa centrale. E centrale lo era davvero la terra di Boemia per l’Europa di quel tempo, considerato che, come ci ricorda il curatore nell’introduzione:

La Boemia (la regione che insieme alla Moravia costituisce l’attuale Cechia o Repubblica Ceca), sembra oggi sonnecchiare ai margini della storia, ma la sua posizione e il suo ruolo sono stati per secoli letteralmente centrali. E’ sufficiente guardare una carta geografica di quella “penisola asiatica” che chiamiamo “Europa”, dall’Atlantico agli Urali per rendersi conto della sua centralità. Se tracciassimo due assi – uno tra Lisbona e Mosca, diciamo, e l’altro tra Edimburgo e Ankara – troveremmo il centro di questa Europa proprio lì, nei dintorni di Praga. Una centralità geografica che si interseca anche con una particolarità “etnica” o “linguistica” tutt’altro che irrilevante: i cechi rappresentano il primo avamposto slavo in terra germanica. Un confine linguistico, quindi, un crocevia tra popoli slavi e popoli “europei”, con tutto ciò che ne consegue1.

Ecco allora il motivo per cui, come già si è detto prima, l’insurrezione hussita-taborita portò con sé sia l’elemento della rabbia contro la «vecchia vaticana lupa cruenta»2 che quello politico “anti-tedesco” o, per meglio dire, “anti-imperiale” che racchiudeva in sé rivendicazioni di carattere economico, sociale e nazionale. Magari ancora espresse soltanto attraverso il linguaggio della fede, ma non per questo meno chiare ed efficaci per la mobilitazione dei rivoltosi.

Il testo delle edizioni Tabor, ancora una volta muovendosi in direzione «ostinata e contraria», riporta l’attenzione sui movimenti insurrezionali e di lotta che hanno accompagnato l’affermarsi di un modo di produzione che, dopo aver scardinato le antiche tradizioni comunitarie, ha progressivamente imposto il suo dominio proprietario e politico, rimuovendo la memoria della fiera opposizione che si manifestò sul continente “europeo” nel lungo passaggio dalla società feudale a quella mercantile, prima, e industriale, poi.

Un’autentica resistenza “anti-coloniale” che si manifestò sia nei confronti della chiesa di Roma e dei suoi avidi rappresentati che della formalizzazione politica, proprietaria e classista della società che sarebbe poi stata detta capitalistica. Una lunga opera di colonizzazione che precedette tutte le altre condotte in seguito negli altri continenti, ma che suscitò le stesse eroiche e, troppo spesso, disperate azioni di rivolta da parte di chi si trovò a subirla sulla propria pelle.

Per cui era gioco forza che, dopo L’incendio millenarista3, Settecento anni di rivolte occitane 4 e i “piccoli” testi della collana «Bundschuh» dedicati ai differenti aspetti delle resistenze e culture contadine e della loro repressione in età tardo medievale, le preziose edizioni valsusine giungessero alla pubblicazione di una raccolta di saggi storico-politici e di testi originari dell’epoca destinati a riportare alla luce un movimento che, pur sottovalutato dalla storiografia italiana ed europea-occidentale, ha visto negli ultimi decenni crescere l’attenzione nei suoi confronti nelle ricerche di lingua ceca e/o slava.

E’ un problema generale, di matrice coloniale, che attiene a come viene studiata la storia dalle nostre parti, concentrandosi quasi esclusivamente su quello che viene arbitrariamente trattato come il centro del mondo: l’Europa occidentale. Questo nostro sforzo editoriale vuole quindi essere ance un tentativo di abbattere queste barriere, gettando lo sguardo appena un po’ più in là5.

E qui, prima di procedere con il riassunto degli eventi di quella apocalisse contadina, occorre sottolineare che questa sorta di colonialismo culturale abbia fatto sì che anche la storiografia e le analisi politiche di sinistra, anche marxiste e pretese rivoluzionarie, abbiano finito con l’accettare una visione fin troppo riduttiva delle guerre e delle rivolte contadine di età pre-capitalistica e successive, contribuendo così a ridurle, come si è già affermato a proposito di un altro testo edito da Tabor (qui), a mero “rumore di fondo” delle trasformazioni avviate dall’avvento del capitalismo oppure a semplice anticipazione di quanto il movimento operaio avrebbe in seguito “più maturamente” avuto in modo di sviluppare, se non addirittura a movimenti reazionari e conservatori quando fossero avvenuti in epoche in cui il socialismo e il marxismo avessero già affermato la propria concezione del divenire della Storia.

Forse non a caso, nell’ambito del socialismo italiano degli inizi del XX secolo, sarebbe stato solo un ancor trentenne e socialista Benito Mussolini a cogliere la radicalità del movimento hussita in un libretto pubblicato in occasione di una previsto convegno della Società del libero pensiero che avrebbe dovuto tenersi a Praga per celebrare il quinto centenario del supplizio e della morte di Jan Hus (1371 ca. – 1415), ma che fu impedito dallo scoppio del primo macello imperialista6.

Una riflessione, quella sulla rimozione della radicalità anticapitalistica, antinobiliare e anticlericale dei movimenti contadini a cavallo tra Medio Evo ed età moderna, che si rivela assolutamente necessaria ai fini della rifondazione di una storiografia militante nemica del pensiero unico liberale e progressista, in cui l’elemento razionale e ragionevole è stato esaltato a discapito delle fede e della rabbia degli ultimi per narrare, ancora una volta, la storia dei vincitori. Anche quando si è ammantata da storia delle rivoluzioni, sottostimando il valore reale delle lotte senza quartiere condotte da anabattisti, hussiti e taboriti. Solo per citare alcuni esempi dell’eresia contadina rivoluzionaria.

Un percorso, quello delle eresie contadine, non privo di contraddizioni, ma la cui radicalità affondava le radici in una fede altrettanto radicale nel diritto all’uguaglianza in Terra, sia economica che sociale. Una fede ancora oggi troppo spesso irrisa da un laicismo borghese che vorrebbe apparentemente rimuovere qualsiasi “irrazionale spiegazione del mondo”, ma che in realtà si fonda sulla necessità di rimuovere qualsiasi “irrazionale tentazione di rovesciarlo”. Negando però, nei fatti una “fede”, che più che rivolgere lo sguardo verso l’alto e il regno dei cieli, affondava, e spesso ancora affonda, le sue radici nella concretissima materialità dei bisogni collettivi.

Fatte queste considerazioni, occorre ora riprendere il filo degli avvenimenti narrati e commentati nel testo delle edizioni Tabor. Ricordando come inizialmente il “teologo” Jan Hus, insegnante e poi rettore dell’Università di Praga, si fosse messo alla testa di un movimento riformatore che sosteneva la necessità di una profonda riforma della Chiesa e del ritorno alla semplicità evangelica,

Hus predicò contro le ricchezze della Chiesa, lo scandalo delle indulgenze e a favore della disubbidienza contro i «padroni ingiusti». Per questo motivo fu costretto a fuggire da Praga e, nel 1412, a rifugiarsi nei pressi di quella che sarebbe diventata in seguito la città di Tàbor, fondata nel 1420 da un gruppo di fuggitivi, provenienti da Praga, con l’intento di costruire una fortezza hussita nella Boemia Meridionale.

Questo a seguito del fatto che Jan Hus, convocato al Concilio di Costanza, malgrado fosse munito di salvacondotto imperiale, era stato imprigionato, condannato come eretico e bruciato sul rogo nel 1415, così come sarebbe poi capitato l’anno successivo al suo amico e seguace Girolamo da Praga.
I fondatori della città di Tábor, avrebbero sostenuto la causa hussita proclamando l’uguaglianza sociale, cosicché, seguendo un principio molto radicale, fu in essa bandita qualsiasi attività privata. In realtà, però, la storia della rivolta taborita prende avvio negli anni successivi alla morte di Jan Hus e trova in Jan Žiżka uno dei suoi “capitani”.

Jan Žiżka, il condottiero taborita più famoso, il cui soprannome (Žiżka: cieco) derivava dal fatto di aver perso un occhio in giovane età a seguito di una zuffa con i compagni di gioco, avrebbe poi perso anche l’altro in battaglia, ma nonostante la cecità “fisica” avrebbe avuto la capacità di vedere e anticipare il futuro delle lotte del movimento boemo, soprattutto dal punto di vista militare.

Come ci ricorda, però, ancora il curatore: «Žiżka non è solo una figura epica e gloriosa, per la sua genialità e il suo coraggio sui campi di battaglia, ma è anche una figura complessa, per certi versi tragica, in cui si incarnano le contraddizioni, gli errori, le lacerazioni e le lotte intestine che porteranno il movimento rivoluzionario boemo alla sua rotta finale. Una figura enorme, verrebbe da dire, guardando la sua statua che ancora oggi domina Praga dalla collina Viktov»7.

Jan non era un teologo come Hus, anzi sull’alba del XV secolo era a capo di una banda di briganti che conducevano una guerra di guerriglia contro i feudatari, durante la quale uno dei suoi fratelli venne catturato e decapitato nella città di Budweis. In seguito sarebbe diventato capitano di ventura, arrivando a combattere sul mar Baltico, nella battaglia di Grunwald (1410) durante la quale le forze polacco-lituane, appoggiate dalle milizie boeme, sconfissero i cavalieri teutonici, i monaci guerrieri destinati alla colonizzazione e sottomissione dei paesi di lingua slava.

Dopo la condanna a morte di Hus si erano levate in tutta la Boemia e a Praga forti proteste che spinsero il re Wenzel a chiudere tutte le chiese hussite, e fu in questo contesto che Žiżka strinse un forte legame di amicizia con il predicatore popolare Jan Želivsky, dando vita ad un sodalizio dalle conseguenze dirompenti.

Il 30 luglio 1419 infatti una moltitudine di persone, guidate dallo stesso Želivsky, abbattè il portone del palazzo comunale di Praga per esigere la liberazione dei prigionieri hussiti, scaraventando in strada una dozzina di consiglieri dalle finestre della torre e dando così vita alla prima defenestrazione di Praga (l’altra fu all’origine della Guerra dei trent’anni due secoli dopo). A seguito di ciò e del fatto che il popolo aveva preso il controllo della capitale, le istanze più radicali del movimento presero a rafforzarsi tra gli strati più poveri della popolazione e dei contadini.

A unire tutti gli scontenti e i diseredati fu il sogno millenarista di realizzare il Regno di Dio in terra. La profezia annunciava per il 1420 il ritorno di Cristo e il crollo di Babilonia (Praga) e del suo mondo di corruzione e iniquità. Le città dovevano essere abbandonate, i giusti dovevano salire sulle montagne per prepararsi al rinnovamento totale. E così fecero: smisero di lavorare, di pagare i tributi, abbandonarono le loro case e i loro campi […] perché sapevano che la pace non sarebbe durata a lungo. Misero tutti i loro beni in comune e si organizzarono in fratellanze armate per diffondere il verbo e combattere gli empi che si ostinavano a difendere il vecchi ordine. Ovviamente, anche Jan Žiżka era con loro8.

Il primo marzo 1420 il papa e l’imperatore promossero una prima crociata contro gli hussiti (ce ne sarebbero poi state altre quattro) e in risposta all’appello, che prometteva anche l’assoluzione da tutti i peccati per chi vi avesse preso parte, centomila soldati provenienti da tutta Europa invasero la Boemia. Nonostante, però, i rovesci iniziali e i massacri, le milizie taborite dell’est e dell’ovest condotte da Žiżka ebbero la meglio sulle armate crociate costringendole alla resa.

Questa iniziativa di guerra dal basso diede alla componente proletaria e radicale della rivoluzione hussita il ruolo di protagonista, compattando intorno a sé tutto il resto del movimento. Erano le armate dei poveri e dei contadini che avevano sconfitto l’esercito imperiale e salvato la Boemia dall’invasione straniera, e ciò diede una forza inedita anche ai poveri di Praga, relegando la componente più benestante e moderata a un ruolo subalterno9.

Ed è proprio l’aspetto militare della rivoluzione boema del XV secolo a costituire l’argomento di uno dei saggi scritti appositamente per l’occasione da Daniele Pepino: Aspetti tattici di una guerra di popolo.

Nel Quattrocento, in Europa, la guerra medievale stava cambiando volto, virando verso la modernità. La cavalleria, fino ad allora protagonista assoluta delle battaglie, stava gradualmente perdendo importanza, mentre cresceva il peso della fanteria, formata da schiere di “gente comune” in armi. I cavalieri erano una casta addestrata dalla nascita a un codice di comportamento e a un sistema di valori aristocratici, erano uomini che combattevano tra di loro, seguendo precise regole e rituali. L’affermazione della fanteria, ancor prima della comparsa delle armi da fuoco portatili, ribaltò tutto quanto. La guerra non fu più un gioco tra nobili, divenne una faccenda di popolo. Masse di poveri irruppero sulla scena, diventando protagoniste dei campi di battaglia.

È su questo spartiacque che si dispiegano le guerre hussite, quando il vecchio ordine feudale va disgregandosi e la modernità capitalista ancora fatica a cementare la sua egemonia. Prima che le classi dominanti riuscissero a inquadrare i loro eserciti, a mandare i loro sudditi al macello in ranghi disciplinati, il popolo si sollevò rivendicando il proprio ruolo autonomo nella storia. L’insurrezione taborita fu anche questo. La plebaglia che si rifiuta di andare al massacro per difendere privilegi altrui, si appropria delle tecniche (antiche, come i carri, e nuove, come le armi da fuoco) oltre che dell’immaginario (la Bibbia) e le fa proprie, rovesciandole contro i propri nemici di classe. Sono i poveri che combattono per sé stessi. Nelle guerre hussite, le fratellanze del popolo in armi fecero irruzione sui campi di battaglia del cuore d’Europa, dispiegando una possibilità storica incompiuta: se avessero vinto loro, molto probabilmente, il feudalesimo non sarebbe stato sostituito da un ordine ancora più iniquo e disumano10.

L’autore descrive in seguito con estrema precisione le innovative tattiche militari che permetteranno a quell’esercito di popolo di tener testa per anni alle armate imperiali e ci ricorda come:

Dalle campagne inglesi alle città italiane, le comunità locali erano organizzate in società armate, in cui tutti gli uomini abili prestavano servizio, e che garantivano la sicurezza del proprio rione o villaggio; milizie che molto spesso, in caso di rivolte, si schieravano con la popolazione insorta costituendone la forza in armi. […] L’affermazione degli Stati territoriali richiedeva la confisca del diritto all’autodifesa delle comunità locali; il monopolio della violenza andava accentrato nelle mani di nuovi apparati burocratici sempre più lontani e impersonali, disgregando e disarmando ogni forma di organizzazione e di contropotere popolare. Fu un conflitto che diede vita a una serie impressionante di rivolte contadine e urbane che bruciarono l’Europa per secoli, assumendo i contorni di una guerra civile carsica. Intrecciandosi con le correnti più radicali della Riforma protestante, le comunità lottarono per mantenere al loro interno il controllo non solo delle risorse (l’uso collettivo di terre, pascoli, boschi, acque, ecc.) e della fede (la predicazione nella propria lingua, l’elezione diretta dei pastori, ecc.) ma anche della propria sicurezza (il diritto a portare le armi e a organizzarsi militarmente per l’autodifesa). La guerra a tutto campo condotta dalle fratellanze taborite fu quindi, in questo senso, anche l’accanita e gloriosa lotta armata della società – e della sua facoltà di autodifendersi – contro lo Stato11.

Le conclusioni del saggio racchiudono, forse, l’aspetto di maggiore importanza di una rivoluzione che se si fosse affermata sarebbe stata davvero apocalittica, a differenza di tante altre poi millantate come tali. Lontana dal pacifismo imbelle come dal militarismo delle armate al servizio degli imperi e del capitale, la lezione taborita e di Jan il cieco giunge ancora a noi in tutta la sua forza, soprattutto a riguardo dell’uso e dell’organizzazione della violenza dal basso.

Ma anche le fratture interne al movimento, così come i rovesci politici e le dinamiche militari sono poi ancora raccontate in dettaglio nei saggi contemporanei e nei testi dell’epoca raccolti in un’antologia che chi scrive non esita a definire imprescindibile per chiunque voglia ancora accollarsi la riflessione sulla necessità di cambiamento dell’ordine sociale esistente, ma mai dato una volta per tutte come si vorrebbe far credere, e sulle rivoluzioni di ieri e, forse, di domani.


  1. D. Pepino, Introduzione a Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia, edizioni Tabor, Valsusa 2025, p. 8.  

  2. Come ebbe a definire la Chiesa Cattolica Giosuè Carducci nella sua Ode alla città di Ferrara (1895), v. 163.  

  3. Yves Delhoysie, Georges Lapierre, L’incendio millenarista tra apocalisse e rivoluzione, Malamente/Tabor, Urbino-Valsusa 2024.  

  4. Gérard de Sède, Settecento anni di rivolte occitane, con una prefazione del Collettivo Mauvaise troupe occitana, Edizioni Tabor 2016  

  5. D. Pepino, op.cit., p. 7.  

  6. Sulle vicende del libello mussoliniano, Giovanni Huss il veridico, prima cancellato dal regime ai tempi dei Patti lateranensi poiché radicalmente anti-clericale e successivamente ignorato dalla cultura antifascista, si veda: F. Tasca, «Giovanni Huss il veridico» di Benito Mussolini. Riflessioni sul destino di un libro, «Bollettino della Società di studi valdesi» n° 218, giugno 2016, pp. 173182.  

  7. D. Pepino, op. cit., p. 9. 

  8. Ibidem, p. 11.  

  9. Ibid., p. 12.  

  10. D. Pepino, Aspetti tattici di una guerra di popolo in Taboriti. Apocalisse anarco-comunista in Boemia, op. cit. pp. 59–76, p. 59.  

  11. Ivi, pp. 75-76.  

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Né terroristi né vittime, i palestinesi come microcosmo della condizione umana https://www.carmillaonline.com/2025/09/09/ne-terroristi-ne-vittime-i-palestinesi-come-microcosmo-della-condizione-umana/ Tue, 09 Sep 2025 16:30:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90461 di Fabio Ciabatti

Mohammed El-Kurd, Perfect Victims And The Policy of Appeal, Haymarket Books, Chicago 2025, pp. 256, € 15,43 (traduzione italiana in corso di pubblicazione, Vittime perfette e la politica del gradimento, Fandango Libri, Roma 2025, pp. 288, € 19,00).

Secondo la narrazione mainstream occidentale, compresa quella progressista, i palestinesi sono intrappolati in una falsa e rigida dicotomia: o sono terroristi o sono vittime. Mai e poi mai possono essere i protagonisti, gli eroi della loro storia. O sono i villains, i nemici cattivi del racconto, o sono coloro che, inermi, vengono colpiti da un nemico innominabile e invisibile. Invisibile, si potrebbe [...]]]> di Fabio Ciabatti

Mohammed El-Kurd, Perfect Victims And The Policy of Appeal, Haymarket Books, Chicago 2025, pp. 256, € 15,43 (traduzione italiana in corso di pubblicazione, Vittime perfette e la politica del gradimento, Fandango Libri, Roma 2025, pp. 288, € 19,00).

Secondo la narrazione mainstream occidentale, compresa quella progressista, i palestinesi sono intrappolati in una falsa e rigida dicotomia: o sono terroristi o sono vittime. Mai e poi mai possono essere i protagonisti, gli eroi della loro storia. O sono i villains, i nemici cattivi del racconto, o sono coloro che, inermi, vengono colpiti da un nemico innominabile e invisibile. Invisibile, si potrebbe anche aggiungere, perché celato nelle pieghe della loro stessa interiorità dal momento che, in fin dei conti, i palestinesi, per loro natura irragionevoli e bellicosi, sono i veri nemici di se stessi, la causa ultima del male che li affligge e perciò, come recita il vecchio adagio, destinati a piangere se stessi.
Questa costruzione narrativa viene denunciata come palesemente assurda da Mohammed El-Kurd, poeta1 e corrispondente per la rivista statunitense The Nation. Lo scrittore, nato a Gerusalemme, ha dato alle stampe Perfect Victims And The Policy of Appeal,2 un pamphlet corrosivo e irriverente non certo per amore dello scalpore in sé, ma per la dichiarata volontà di rompere la gabbia ideologica in cui è condannata a girare a vuoto, come un criceto nella ruota, chiunque voglia supportare la causa palestinese senza liberarsi dalla narrazione dominante sul “conflitto” originato dalla colonizzazione sionista. Una gabbia confermata ulteriormente dalla perentoria ingiunzione a condannare l’attacco di Hamas del 7 ottobre ignorando bellamente tutta la sequela di orrori e ingiustizie cui sono stati sottoposti i palestinesi prima di quella data. Denigrare la violenza degli oppressi mentre si chiudono gli occhi di fronte alla violenza dell’oppressore, sostiene l’autore, non significa altro che sottomettersi alla logica coloniale e sostenere lo status quo.

Tornando alla dicotomia con cui abbiamo cominciato, i palestinesi che sono etichettati come terroristi non hanno mai l’opportunità di parlare per sé stessi e raramente sono oggetto di una qualche attenta considerazione. Sono creature quasi mitiche, puro e semplice materiale per storie spaventose, che non meritano neanche il dolore dei loro cari quando muoiono. Istinti fondamentali, come quello di sopravvivenza o di autodifesa, diventano un lusso per i palestinesi. Ciò che viene considerata una reazione naturale per una qualsiasi persona di fronte all’oppressione diventa un comportamento primordiale e incomprensibile nel loro caso. Ciò che rende alcune persone degli eroi fa dei palestinesi dei criminali: mentre la resistenza ucraina è glorificata per le sue tattiche di guerriglia, quella palestinese è considerata sconcertante, perversa e patologica. Poco importa se il presunto terrorista debba affrontare la sua personale Nakba ogni volta che viene perquisito per strada o picchiato con il calcio del fucile in un checkpoint. È irrilevante se ogni sfollamento, ogni demolizione e ogni funerale prematuro getti altra benzina sul fuoco della sua rabbia.
Tutto questo è trascurabile, denuncia El-Kurd. I palestinesi che resistono all’occupazione sionista sono dei terroristi e, in quanto tali, sono espulsi dalla condizione umana. Per guadagnarsi il diritto ad essere accolti nel consesso umano devono essere resi innocui. Devono dimostrare la loro innocenza. In breve, devono comprovare il loro status di vittime adeguandosi ad alcuni stringenti parametri. Per esempio, devono essere feriti e deboli: troppo feriti per combattere e troppo deboli anche per avere un’espressione corrucciata. Nella categoria di vittime rientrano le vedove il cui dolore è così inspiegabile da non poter essere contestualizzato o gli orfani i cui genitori assassinati non meritano neanche la menzione della “causa della morte” nei loro necrologi. E, più in generale, ci rientrano tutti coloro le cui grida angosciate esistono al di fuori della storia e della politica, le cui ferite possono essere descritte senza riportare alcun colpevole.
Le vittime alle volte sono invitate a parlare, ma devono narrare solo le loro tragedie personali. La loro protesta deve rimanere strettamente individuale. Non può essere mai collegata a una causa comune o portata avanti attraverso un collettivo organizzato. Le vittime non possono avere un’agency politica, per non parlare di una capacità militare. Si dà voce alla loro flebile protesta soltanto per cercare di porre rimedio a una crisi umanitaria, trattata alla stregua di un evento naturale come un terremoto. 

La risposta all’accusa di terrorismo è stata quella che El-Kurd definisce la politica dell’appeal,3 una pratica che utilizza una serie di tattiche creative per promuovere la causa palestinese, cercando incessantemente di soddisfare i requisiti sopra menzionati. Nella migliore delle ipotesi si tratta di una serie di scaltri tentativi di superare in astuzia il sistema, di batterlo al suo stesso gioco. Nella peggiore di una strategia strettamente riformista per alterare lo status quo, mai per demolirlo del tutto. Perché, in questa ottica, il potere è una struttura indistruttibile, scolpita nella pietra.
La politica dell’appeal ha come obiettivo l’umanizzazione dei palestinesi. L’umanizzazione, però, sposta l’attenzione critica dal colonizzatore al colonizzato, oscurando l’ingiustizia intrinseca del colonialismo. Non è il colonizzatore che deve giustificarsi per le sue politiche oppressive, ma il colonizzato che deve dimostrare di essere degno della libertà che gli viene negata. E c’è di peggio. La politica dell’appeal porta una interiorizzazione da parte dei palestinesi del modo in cui vengono percepiti dagli altri. Essi si sentono costretti a giustificare la loro stessa esistenza. Sentono la necessità di rispondere in modo preventivo alle accuse che hanno introiettato prima di fare qualsiasi  affermazione. Sempre sulla difensiva si autodefiniscono in primo luogo per negazione: non siamo terroristi, antisemiti, violenti ecc.
I palestinesi sanno che devono essere educati nella loro sofferenza perché ogni affermazione sgarbata danneggia le proprie rivendicazioni. Sanno che la violenza inflitta alle loro terre e ai loro corpi deve passare in secondo piano rispetto alle macchie che offuscano la loro immagine. Sin da bambini hanno interiorizzato la museruola. Essere palestinesi significa oggi essere intrappolati nelle allucinazioni di un altro. Significa essere interrogati sulle intenzioni genocide nascoste nei loro slogan (come nel caso del famigerato From the river to the see Palestine will be free), mentre i politici israeliani si vantano esplicitamente sui giornali della pulizia etnica.
Nel discorso dominante, le armi della retorica in mano dei palestinesi appaiono più letali delle armi vere e proprie che l’esercito israeliano ha a disposizione in gran quantità. Per questo il linguaggio diventa un campo minato. Una parola sbagliata, se pronunciata da un palestinese, ha il potere magico di far scomparire tutti gli oggetti reali: gli stivali che li calpestano, i proiettili che li trafiggono, i manganelli che li percuotono e i lividi che sono impressi sui loro corpi. La loro presunta violenza semantica è in grado di far svanire decadi di violenza sistematica e materiale praticata dall’autoproclamato stato ebraico. Rispettare le regole di un discorso politicamente corretto per i palestinesi diventa un esercizio funambolico. Un esercizio che sembra riguardarli tutti allo stesso modo, ma che nei fatti esclude chi non ha la formazione e le risorse necessarie per evadere dalla categoria dei disumanizzati. Esclude, cioè, i poveri e gli emarginati, i rifugiati e gli assediati, quelli che sono destinati a sopportare il peso maggiore del sionismo. L’umanizzazione, se non è direttamente al servizio di interessi di classe, è certamente complice di una visione del mondo classista, sostiene l’autore. 

Bisogna invece essere fedeli alle strade palestinesi, afferma Mohammed El-Kurd, consapevole del rischio di scivolare con questa affermazione nel populismo o nelle politiche identitarie. Rischi che possono essere superati se questa fedeltà significa un impegno verso un analisi materiale della questione palestinese. Un impegno capace di fare tesoro dell’esperienza e della conoscenza delle persone in carne e ossa che sono messe ai margini dai mass media occidentali nonostante i loro corpi massacrati siano la materia prima per confezionare i loro notiziari e articoli. Fedeltà alle strade significa anche creare una pratica radicata nella dignità che non non cerchi di convincere il macellaio a mollare il suo coltello, ma provi a raccontare storie in cui i palestinesi sono i veri protagonisti e non mero oggetto della narrazione, qualsiasi cosa ne pensi l’audience straniera.
Alle orecchie del pubblico occidentale, infatti, i palestinesi che parlano degli orrori propri dell’ideologia sionista sono, nel migliore dei casi, dei passionari, nel peggiore, persone rabbiose e piene di odio. Ma in realtà sono soltanto dei narratori credibili. O, quantomeno, più credibili dei loro carnefici perché, come la storia ci insegna, coloro che hanno istituzionalizzato e monopolizzato la violenza non dicono mai la verità. Per aggirare questa presunta mancanza di credibilità, spesso si privilegiano quelle che l’autore definisce sarcasticamente le epifanie miracolose: le inaspettate rivelazioni sulle pratiche criminali dei sionisti provenienti da voci non palestinesi, siamo esse israeliane, ebraiche, americane o occidentali. Questa strategia, però, finisce per consolidare il pregiudizio che le voci palestinesi sono sempre sospette o scadenti. Per evadere dall’opprimente sguardo coloniale occorre invece che i palestinesi prendano la parola in prima persona, raccontandosi l’un l’altro la propria storia smettendo aprir bocca esclusivamente per rispondere al biasimo dei colonizzatori e dei loro alleati. 

Questo biasimo può attingere a un vasto campionario. Per esempio ai palestinesi, compreso l’autore, viene spesso chiesto se, con le loro rivendicazioni nazionali, vogliono gettare in mare tutti gli israeliani. O meglio, gli chiedono perché lo vogliono fare, dando per scontata l’intenzione genocidaria. La parola “vogliono”, sottolinea El-Kurd, è quella che rivela in modo più chiaro la logica coloniale: il solo fatto di fantasticare una vendetta va a inficiare la rivendicazione di giustizia palestinese. Soltanto immaginare una terra senza coloni, un cielo senza droni, delle strade senza checkpoint e perquisizioni equivale a pensare un genocidio nell’immaginazione sionista. Eppure,  sono solo i sionisti ad avere il potere di realizzare le loro fantasie, le loro favole e la loro teologia. E lo fanno ininterrottamente da molti decenni intrappolando i palestinesi in un eterno presente che rinnova ogni giorno la loro Nakba. Quelli che si preoccupano del destino dei coloni non hanno pensato neanche una volta al destino di sei milioni di rifugiati palestinesi che agonizzano in esilio. L’ipotetico futuro dei coloni viene prima del presente materiale che è già marchiato dallo sterminio.
E che dire dell’esplicita accusa di antisemitismo? L’autore affronta la questione senza assumere un atteggiamento difensivo. Al contrario, il suo ragionamento si fa apertamente provocatorio: se, dopo aver visto i suoi cari uccisi a sangue freddo dai soldati vestiti con la stella di Davide dell’autoproclamato stato ebraico, un palestinese cominciasse a odiare ossessivamente e irrazionalmente tutti gli ebrei, questo velenoso sentimento pregiudicherebbe forse il suo status di vittima? Giustificherebbe forse i crimini dei militari sionisti? Difendersi in continuazione dall’infondata accusa di antisemitismo finisce per elevare le vicende passate della sofferenza degli ebrei, una storia ininterrottamente studiata se non onorata, al di sopra della presente sofferenza dei palestinesi che è invece una storia negata e contestata nonostante sia continuamente trasmessa per televisione. Nel situare l’Olocausto al di fuori del tempo, il sionismo dà precedenza alla possibilità di un secondo Olocausto degli ebrei rispetto allo sterminio dei palestinesi che sta avvenendo proprio in questo momento. Perché, in questo momento, solo una delle parti in questo “conflitto” è attivamente impegnata nell’intenzionale e sistematico tentativo di estirpare un’intera popolazione dalla sua terra.

La propaganda filosionista è dunque palesemente illogica. Ma questo è proprio il suo punto di forza perché essa può così funzionare come una distrazione rispetto al problema reale: il colonialismo, l’assedio, l’occupazione militare. La sua assurdità fa pensare ai palestinesi che possa essere combattuta con argomentazioni logiche in grado di ripulire il loro nome da false accuse. Occorre invece accusare gli accusatori, smascherando la loro disonestà e la loro doppiezza. E un modo per farlo, sostiene El-Kurd, è quello di ridicolizzare il tribunale che li vuole mettere sul banco degli imputati per il solo fatto di esistere. L’irriverenza è un atto di dignitoso rifiuto che può contribuire a liberare la mente di coloro che sono assediati o incarcerati. Il sarcasmo costruisce un realtà alternativa in cui l’occupazione non è inscalfibile e gli occupanti non sono indistruttibili. La derisione è una forma di autopreservazione e di sfida, un ostinato rifiuto della soggezione psicologica. Mentre il riso rende le loro ferite un po’ meno dolorose, i palestinesi potrebbero scoprire che il sionismo, dietro la sua facciata di formidabile superpotenza, oggi è più vulnerabile di quanto voglia far apparire.
In conclusione, non sarà un appello alla morale dominante che potrà salvare i palestinesi perché essa si fonda su un universalismo dai connotati capitalistici e commerciali che può tranquillamente sorvolare sul potere, sulla storia e sul filo spinato. Per combattere i colonizzatori sionisti e i loro alleati occidentale, sostiene l’autore, è necessario fare appello a una differente forma di universalismo

che riconosca che la condizione palestinese è la condizione umana. La Palestina è un microcosmo del mondo: miserabile, furiosa, inquieta e frammentata. In fiamme. Testarda. Inammissibile. Dignitosa. La prospettiva che adottiamo nei confronti del palestinese rivela come ci guardiamo l’un l’altro, come vediamo tutto il resto.4


  1. La sua prima raccolta di poesie, intitolata Rifqa è stata pubblicata anche in italiano da Fandango Libri nel 2022. 

  2. Mentre chiudevo l’articolo ho appreso con piacere che a settembre verrà pubblicata in italiano per Fandango Libri la traduzione del libro qui recensito, con il titolo Vittime perfette e la politica del gradimento. 

  3. Il testo italiano in corso di pubblicazione traduce “politics of appeal” con “politica del gradimento”. Preferisco confermare l’espressione “politica dell’appeal”, che avevo utilizzato prima di vedere il titolo italiano, perché mi pare mantenga il senso di “politica del gradimento”, alludendo al tempo stesso una seconda possibile sfumatura di significato, quella cioè di politica dell’appello, intesa come invocazione a un’autorità esterna. 

  4. Mohammed El-Kurd, Perfect Victims And The Policy of Appeal, Haymarket Books, Chicago 2025, p 27, ed. Kindle, traduzione mia. 

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Sguardi extra-terrestri, esperienze mistiche stra-ordinarie, visioni antisociali e tecnologie di comunicazione https://www.carmillaonline.com/2025/09/07/sguardi-extra-terrestri-esperienze-mistiche-stra-ordianrie-visioni-antisociali-e-tecnologie-di-comunicazione/ Sun, 07 Sep 2025 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89531 di Gioacchino Toni

Giulia Roncucci, Noi siamo il messaggio, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 168, € 16,00

Riprendendo il pensiero di Henri Bergson, a partire dalla mesa in relazione dello straniante cambiamento di prospettiva derivato dall’overview effect con cui gli astronauti guardano la Terra dallo spazio con l’esperienza stra-ordinaria dei mistici cristiani incentrata sull’idea di coscienza come ascolto, come apertura uditiva al mondo, in Noi siamo il messaggio (Mimesis, 2025) Giulia Roncucci propone di guardare alle tecnologie di comunicazione come a un fenomeno potenzialmente indirizzato verso un’esperienza della connessione, della compartecipazione e dell’unione fra le persone verso un “noi” universale, come realizzazione della [...]]]> di Gioacchino Toni

Giulia Roncucci, Noi siamo il messaggio, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 168, € 16,00

Riprendendo il pensiero di Henri Bergson, a partire dalla mesa in relazione dello straniante cambiamento di prospettiva derivato dall’overview effect con cui gli astronauti guardano la Terra dallo spazio con l’esperienza stra-ordinaria dei mistici cristiani incentrata sull’idea di coscienza come ascolto, come apertura uditiva al mondo, in Noi siamo il messaggio (Mimesis, 2025) Giulia Roncucci propone di guardare alle tecnologie di comunicazione come a un fenomeno potenzialmente indirizzato verso un’esperienza della connessione, della compartecipazione e dell’unione fra le persone verso un “noi” universale, come realizzazione della “mondialità”, come sviluppo interiore di un pensiero immaginativo e visionario che parte dal centro della persona-mondo, dal centro dello spirito umano.

Nel tentativo di replicare l’esperienza degli astronauti di abbracciare il mondo nella sua interezza a cui stanno lavorando alcuni ricercatori negli Stati Uniti ricorrendo alla realtà virtuale, si può scorgere la volontà di cogliere le potenzialità di apertura percettiva delle tecnologie comunicative, il loro possibile contributo al “noi” universale, al raggiungimento della “mondialità”.

Per quanto Marshall McLuhan, ricorrendo all’espressione “Villaggio Globale”, prevedesse la tendenziale riduzione del mondo a un unico villaggio ad opera delle tecnologie della comunicazione, il fenomeno della globalizzazione ha recentemente mostrato come, nonostante il suo operare all’insegna dell’uniformazione delle identità e degli immaginari, il mondo contemporaneo, anziché essere divenuto un unico ed armonioso villaggio, appare diviso in blocchi di potere, in una pluralità di comunità conflittuali, di strutture claniche che danno luogo a uno stato di guerra civile globale permanente. «La realtà del fare, dell’apparire e del successo è diventata più grande del cosmo – più grande perché considerata più importante» (p. 30); ridotta a mera materialità, la realtà ha velato il suo lato spirituale.

La tecnologia è oggi esperienza diretta della connessione e della contemporaneità. Il villaggio globale rende le persone, gli stati e le nazioni compartecipi degli accadimenti, come avveniva già con la televisione, ma con internet il mondo dell’informazione ha spezzato il villaggio in piccoli frammenti che giocano come a evocarsi vicendevolmente. Le azioni che emergono da queste sub-comunità, che sono in contatto attraverso sub-canali del web, sono spesso manifestazioni violente in opposizione le une alle altre. L’apoteosi dello scontro è l’annullamento dell’Altro. Il mondo dominato dal tubo catodico, gerarchico e piramidale, che con la creazione di miti collettivi genera compartecipazione affettiva, emotiva e sociale, è sostituito oggi da una moltiplicazione di punti vista, una connessione continua alla quale corrisponde una contrapposizione continua. L’io in questa connessione sente minacciata la propria identità e, trasportato dal suo istinto più primitivo di paura, si pone in opposizione totale e radicale al mondo degli altri. L’altro da sé non viene considerato come soggetto pensante, generatore di idee, ma come ingenuo divulgatore di fatti non reali. Quando si chiede di ripensare la nostra contemporaneità si chiede al pensiero di ritornare a garantire la dignità, la nobiltà morale dell’Altro, anche se sconosciuto. Significa trovare i punti di contatto tra mondo e mondo, “come si è fatto ogni volta che si è voluto pensare al mondo nel suo insieme, nella sua contemporaneità appunto” (p. 33).

«Il mondo globale non corrisponde al mondo immaginante e sognante, è il mondo della realtà produttiva. Se il mondo globale diventasse cosciente, si trasformerebbe in mondo immaginante e sognante: un mondo che immagina sé stesso, che contempla sé stesso ed è contemplato» (p. 35). Il raccontare la propria quotidianità sui social, sottolinea l’autrice, non ingigantisce il mondo sognante ma quello reale, aggiungendo realtà a realtà.

La verità è sempre più legata a ciò che è concreto, impiegabile, tangibile, misurabile e quindi vendibile. La riduzione del nostro relazionarci alle cose al semplice binomio “mi piace / non mi piace” (I like / I don’t like), è il risultato di questo processo. I desideri, che prendendo la forma di prodotti desiderabili si propongono come cose seducenti a cui dare un giudizio elementare, riducono la nostra coscienza critica ad un orientamento polarizzato e privo di profondità. Questo è il passaggio dal pensiero creativo al pensiero consumistico. La contemporaneità autentica è spostare il centro da me stesso qui e ora, per orientarmi verso un mondo invisibile, che è il mondo sognato (il mondo che ancora non è – il mondo che deve rivelarsi). Il mondo sognato è frutto del pensiero creativo dell’uomo, non più appiattito sul reale, ma proiettato verso la profondità del possibile, del non ancora, dell’invisibile (p. 37).

Ecco, dunque, la necessità di un cambio di prospettiva. Quando McLuhan afferma che “il medium è il messaggio” non vuole sostenere che “il mezzo fa il messaggio”, che “il messaggio è un prodotto del mezzo”, ma intende piuttosto sottolineare che i mezzi di comunicazione «hanno in sé un messaggio, ossia un contenuto in sé, che va al di là dei testi o delle parole che vengono diffuse attraverso di essi. In altri termini: “I media stessi e l’intero ambiente culturale sono forme di linguaggio” che hanno un potere trasformante» (p. 40). Nell’affermare che “Il medium è un messaggio”, McLuhan invita a guardare al mezzo tecnologico come a «uno strumento di trasformazione ed è in questa trasformazione che sta il suo messaggio. Il medium apre la coscienza alla rivelazione di una trasformazione che produce un ampliamento dello spirito, al quale deve corrispondere un conseguente ampliamento della coscienza stessa. Il mezzo, come strumento trasformante, modifica la nostra percezione, la nostra psiche e le nostre relazioni» (p. 40).

McLuhan insiste nel sottolineare che, nel loro agire da estensioni dei sensi e del corpo umano, non è sulle opinioni o sui concetti che incidono le tecnologie, bensì sull’ambiente e sulla natura umana e lo fanno alterando costantemente le reazioni sensitive o i modelli percettivi. Ecco perché fatichiamo ad assorbire il reale significato dell’affermazione “Il mezzo è il messaggio”: «perché il mezzo modifica lo spazio relazionale nel quale ci troviamo e noi ne siamo al tempo stesso trasformati e trasformatori» (p. 41). Da ciò deriva, sostiene Roncucci, la necessità di «sviluppare una visione distaccata dal reale e dal senso e, contemporaneamente, una profonda apertura all’analisi di noi stessi, di ciò che facciamo, di come pensiamo e perché» (p. 42). Lo stesso McLuhan, del resto, si dice convinto che i soggetti antisociali, come i poeti e gli artisti, possono vedere gli ambienti per quel che sono realmente grazie al loro porsi ai margini della società, fuori dal contesto.

Alla luce del fatto che, con la comunicazione digitale, si è passati dal “Villaggio Globale” alla “Babele Mondiale”, dal “Mondo villaggio”, «in cui ognuno aveva un ruolo», al “Mondo aperto” «in cui tutti hanno tutti i ruoli e nessun ruolo», Roncucci si domanda cosa voglia dire oggi pensare un “Mondo aperto”, quale pensiero possa cogliere una trasformazione di tale portata, dunque come guardare alle tecnologie di comunicazione visto il loro potere trasformativo.

Il medium è una manifestazione umana, un artefatto e in quanto tale è un prodotto e un messaggio dello spirito. Il medium materializza e ingigantisce facoltà archetipali dello spirito che diventano esperienze trasformanti. Il significato delle esperienze offerte dai mass media deve essere interpretato e compreso. In questo modo viene meno l’inconsapevole dipendenza nei confronti del mezzo stesso. Svelato come messaggio, il mezzo “non dà assuefazione”, ma lascia in noi l’amplificazione dello spirito. L’esperienza trasformante offerta da un medium ha un senso non esplicito e non immediatamente riconoscibile che viene assorbito, ovvero introiettato inconsciamente proprio attraverso l’esperienza. Il messaggio “dello spirito” è un messaggio subliminale. Recepito a livello inconscio. In psicologia con “subliminale” si indicano le sensazioni che hanno luogo sotto il livello della coscienza, troppo deboli per essere avvertite, ma sufficienti, secondo alcuni esperti, a influenzare l’inconscio e condizionare il comportamento. Uno spirito privo di coscienza si genera attraverso l’assuefazione al mezzo. Essere assuefatti al mezzo significa non resistere alla sua suggestione. […]. Contrariamente a quanto sostenuto da McLuhan, è il potenziamento delle facoltà dello spirito rappresentata dal medium ad avere in sé quella “potenza” necessaria a far arrivare alla coscienza il messaggio subliminale del mezzo. C’è una linea sottile che separa la presa di coscienza dall’assuefazione al mezzo. Quali anticorpi dobbiamo mettere in azione per non essere sopraffatti dal potere ipnotico del medium? La consapevolezza che il mezzo ha un messaggio dello spirito da offrire è l’anticorpo (pp. 153-154).

Alla luce delle potenzialità offerte dai mezzi digitali, sostiene l’autrice, occorre prendere atto della necessità di «cooperare, operare insieme, concorrere, partecipare positivamente, empaticamente al bene comune. Ma anche assistere, sostenere, contribuire, aiutare» (p. 155). Questo è, secondo Roncucci, «il messaggio dello spirito; l’esperienza trasformante che sta amplificando il nostro spirito personale e ri-configurando il sistema psichico collettivo» (p. 155).

Tradurre l’ambizione a un mondo immaginante e sognante in concretezza diffusa nel contesto economico, sociale, culturale e immaginario, oltre che mediatico, contemporaneo di certo non è facile, ma l’alternativa è la resa alla miseria del mondo reale.

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Spiriti della materia e altri fiati d’identità https://www.carmillaonline.com/2025/09/06/spiriti-della-materia-e-altri-fiati-didentita/ Sat, 06 Sep 2025 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89964 di Franco Pezzini

Giulia Massini, Idoli, prefaz. di Giacomo Ortolani, pp. 288, € 16,90, Hypnos, Milano 2025.

“[…] Vi dico a un esterno cosa sembra: il racconto di una mitomane e il quadro di un’isterica”. “Ah sì?” Don Thierry sollevò un sopracciglio. “Le sembra così, monsieur? Noi invece la chiamiamo possessione”.

Una delle scoperte più appassionanti dell’anno in corso, per quanto riguarda la narrativa che ormai, congruamente o meno a seconda dei casi, si definisce weird, è questo bellissimo romanzo. Appassionanti non solo per la trama, indubbiamente forte e molto originale, ma anche per il passo narrativo davvero letterario. Giulia Massini [...]]]> di Franco Pezzini

Giulia Massini, Idoli, prefaz. di Giacomo Ortolani, pp. 288, € 16,90, Hypnos, Milano 2025.

“[…] Vi dico a un esterno cosa sembra: il racconto di una mitomane e il quadro di un’isterica”.
“Ah sì?” Don Thierry sollevò un sopracciglio. “Le sembra così, monsieur? Noi invece la chiamiamo possessione”.

Una delle scoperte più appassionanti dell’anno in corso, per quanto riguarda la narrativa che ormai, congruamente o meno a seconda dei casi, si definisce weird, è questo bellissimo romanzo. Appassionanti non solo per la trama, indubbiamente forte e molto originale, ma anche per il passo narrativo davvero letterario. Giulia Massini trasfonde nell’opera una ricchezza di livelli, un’eleganza di scrittura, una potenza di suggestione che di rado si trovano attestati nel fantastico italiano contemporaneo.
Non solo ricorre dunque a un topos, la possessione, che da Blatty in poi ha ridefinito l’horror ed è letteralmente fradicio di possibilità e implicazioni, ma viene spesso gestito in chiave banale e stereotipata. La più affascinante eredità de L’esorcista di Friedkin, 1973 non sta nella pletora di invasamenti demoniaci inscenati in quello che ormai, a dispetto delle gloriose origini, è un filone tristanzuolo e ritrito: molto più intrigante di mille L’esorcista del papa, a quel punto, è la scena del film La grande bellezza in cui Jep Gambardella si congeda dall’anziano e papabilissimo cardinal Bellucci (Roberto Herlitzka) cultore di buona cucina, profitta del momento appartato per chiedergli conto delle voci sulla sua attività come esorcista, e quello non risponde, impartendo una benedizione e facendo ripartire la macchina. No, qui il discorso si amplia, punta verso l’ambiguità stessa del concetto di spirito possessore, verso il rapporto con frantumi di un’identità a interpellare l’etnopsichiatria…
Anzi, Massini non solo propone con autentico rispetto antropologico alcune categorie legate alle culture africane (bacino ormai tradizionale di analisi della possessione come fenomeno sociale) senza banalizzarle in caricature e conservandone la cifra di mistero e disinvoltura, ma problematizza il raccordo tra simili esperienze & impliciti e le società occidentali con le loro più pudiche psicoterapie.
Ancora: Massini pone in scena in modo convincente una catena di crisi originate da genitori ingombranti, divoranti. “Forse siamo tutti figli di un padre da annientare”, anche se persino questo si rivelerà falsante.
Diciamo che, leggendo, si coglie una profondità che è anzitutto quella umana dell’autrice (e questo è un bonus che nessuna scuola di scrittura può offrire), attraverso dimensioni sofferte evocate nei Ringraziamenti, alle quali Massini ha saputo rispondere creativamente con una maturità e una tostaggine che la fanno amare. Se davanti a un romanzo – qualunque, anche questo – non è tanto l’autore a essere importante ma piuttosto l’esito finale, qui il lettore vorrebbe essere in amicizia con una persona di tanta ricchezza interiore.
Brevemente e tentando di non spoilerare: la storia corre tra il 1999 e il 2000, scandita da storie, sogni, ricordi. Valerio Sergio Iacono, psicoterapeuta, figlio di un luminare cauteloso e ingombrante con la cui memoria è ancora in conflitto, si è specializzato in ipnosi regressiva con la convinzione della sua utilità per far riaffiorare dimensioni di psiche più duttili e sanabili. Un successo con il caso di una famosa attrice affetta da porfiria l’ha lasciato svuotato: il suo problema è di lasciarsi coinvolgere troppo – in modo, si direbbe, troppo affettivo – dal rapporto coi pazienti, lasciandosi colonizzare dagli inconsci altrui. Qualcosa che assume conturbanti eco storiche quando gli arriva un caso di estremo interesse e urgenza, quello dell’anziano Ernesto Kéréku, elegante antichista e antropologo figlio di un guaritore africano del Benin e di una veneziana: il suo problema è il rapporto ossessivo, feticistico con gli oggetti da cui è impossibilitato a separarsi. Ernesto, Nesto per la sua famiglia, ha cercato Iacono perché vuole scendere in trance ipnotica, liberarsi “e trovare… qualcosa”. Vive in una casa liberty centralissima e nascosta a Bologna, parossisticamente piena di libri e oggetti e colori africani, e che – lui ne è convinto – “vivrà in eterno”: una casa dove le cose sono “costrette a restare” in modo quasi osceno, e che brulica di oggetti particolari – come un certo calamaio  (“Con l’inchiostro che conteneva si potevano scrivere solo lettere di vendetta”), un fermacarte con un glifo vevè per entrare in comunicazione con gli spiriti, un feticcio summon di Makeba la potente guaritrice…
Di fronte a una storia di magia e feticci animati dove compare un Kéréku e c’entra l’Africa occidentale, inevitabile pensare al bellissimo lungometraggio animato franco-belga-lussemburghese del 1998 Kirikù e la strega Karabà di Michel Ocelot, ispirato a un racconto folkloristico di quel cantone del continente: ma la storia non c’entra e può avere al massimo influito sul nome dell’anziano signore (“Anche se lei non è il Kéréku cui loro pensano, fa parte di questa storia”, si dice in effetti a un certo punto).
Il fatto è che – apprende stupito Iacono – gli oggetti sarebbero impregnati di spiriti legati agli orizzonti della nostra vita interiore, con sentimenti fin troppo connessi. E fin da subito Nesto confida l’importanza per lui del culto beninese dei Marassa, i gemelli divini che sgomitano nei suoi sogni: quanto rilevino lo capiremo con un certo raccapriccio solo molto più avanti. D’altra parte Nesto si crede un mostro: e scopriremo via via perché.
Il quadro familiare che si spalanca è un terreno minato (“certe famiglie sono come un patto […] È qualcosa che non può essere sciolto”). Nesto è ancora schiacciato dall’ombra del padre Ben, guaritore e mago tirannico all’inizio presentato come un abile ciarlatano, ventriloquo, ma che poi emerge come un uomo d’impressionante potere in grado di curare come di colpire, un domatore di spiriti socialmente intoccabile persino negli anni del fascismo. La madre Maria aveva una figlia di primo letto e solo con grande fatica è riuscita ad avere Nesto: italianissima, per compiacere il marito ha assunto abitudini e posture africane. La figlia, la procace Ines sorellastra di Nesto, vorrebbe pure essere africana: anche lei non riesce a generare figli vivi e a un tratto prende a manifestare un rapporto morboso con la propria bambola. Al contrario Nesto vorrebbe avere pelle e tratti somatici da bianco: marginalizzato a scuola, viene affidato dal padre a don Ilario, un candido sacerdote locale che prende a frequentare lo stregone molto perplesso del suo sistema sincretico. Dei due angeli associati a ciascun essere umano, Ben è in grado di rubare quello piccolo, insomma la parte volatile, con risvolti via via più orridi.
Affascinato dal caso (“era tutto ciò che esaltava il mio spirito”), genuinamente affezionato a Nesto (cogliamo un’affettività terremotata che trova sfogo solo nel lavoro: più volte vorrebbe abbracciare il paziente, ma in terapia non si può), Iacono teme di finire assorbito come nel precedente caso dell’attrice. Un timore persino riduttivo, considerando in cosa precipiterà la sua deriva…
Quali sono i rischi veri della terapia ipnotica? Cos’è il piccolo pezzo di materia biologica ormai essiccata che Maria conserva, e perché gli ornati della villa ripropongono ossessivamente il tema della biforcazione? A cosa serve un cadavere vivente? Che forma può assumere un’anima, e cosa desidera? Iacono, che si crede un nuovo Charcot, vuole davvero risolvere il caso e guarire il paziente? Perché la giovane Laura Blanchard, sosia di Ines, dà segni d’essere ossessa? E don Thierry, giovane e corrucciato parroco haitiano, successore ideale del tenero Ilario buonanima, ha davvero capito la situazione? Ma soprattutto, cosa inabita rabbiosamente la bambola di Ines e poi una spilla con un cammeo d’onice effigiante una testa africana, in grazia di “qualche spiritismo insito nelle cose” e forme forse di magia nera?
Giulia Massini ci regala un testo capace di far riflettere e orripilare con squisita intelligenza e originalità.

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Il potere dietro il Trono https://www.carmillaonline.com/2025/09/05/il-potere-dietro-il-trono/ Fri, 05 Sep 2025 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90092 di Giorgio Bona

William Le Queux, Il ministro del male – La storia segreta di Rasputin, trad. di Sara Musarra Pizzo, pp. 237, € 18, Lorenzo de Medici Press, Firenze 2025.

Che cosa sappiamo veramente di Rasputin? Vi sono molte incertezze su gran parte della sua vita. Grigorij Efimovič Rasputin, ladro di cavalli prima e poi consigliere privato dei Romanov, quinto di nove figli di cui soltanto due raggiungeranno l’età matura, nacque nel 1869 in un villaggio della Siberia occidentale. Dopo il matrimonio (1887, con Praskov’ja Fëdorovna Dubrovina, da cui ebbe sette figli) abbandonò la famiglia e il lavoro nei campi [...]]]> di Giorgio Bona

William Le Queux, Il ministro del male – La storia segreta di Rasputin, trad. di Sara Musarra Pizzo, pp. 237, € 18, Lorenzo de Medici Press, Firenze 2025.

Che cosa sappiamo veramente di Rasputin? Vi sono molte incertezze su gran parte della sua vita. Grigorij Efimovič Rasputin, ladro di cavalli prima e poi consigliere privato dei Romanov, quinto di nove figli di cui soltanto due raggiungeranno l’età matura, nacque nel 1869 in un villaggio della Siberia occidentale.
Dopo il matrimonio (1887, con Praskov’ja Fëdorovna Dubrovina, da cui ebbe sette figli) abbandonò la famiglia e il lavoro nei campi per dirigersi verso un monastero a Verchotur’e e vestirsi dei panni del pellegrino (1892). Ben presto affermò di aver avuto una visione della Madonna di Kazan’ e dopo quel fatto decise di dedicarsi completamente alla vita mistica.
Spostandosi da monasteri e conventi e vivendo di elemosina, giunse a San Pietroburgo dove approdò alla corte dello zar Nicola II e della moglie Aleksandra (1905).
La biografia romanzata di William Le Queux (interessante figura di giornalista, attivissimo e versatile scrittore nonché diplomatico anglo-francese, 1864-1927) raccoglie l’insieme delle rivelazioni scritte, quasi in forma di resoconto storico, del giovane Feodor Rajevski, segretario e servitore di Rasputin. Intere pagine che riportano segreti, tradimenti, sotterfugi e sconvolgimenti intorno alla figura più inquietante della Russia moderna.
Feodor Rajevski era un giovane universitario che, grazie alle amicizie del padre trovò lavoro come impiegato negli uffici della polizia politica dell’impero, per ricoprire poi un ruolo importante grazie al generale Aleksej Nikolaevič Kuropatkin, amico intimo dell’imperatrice, che gli conferì il ruolo di sottosegretario di gabinetto al Ministero della guerra.
Fu il generale Kuropatkin a nominare Rasputin segretario dello Stareč (termine russo che indica i mistici cristiani ortodossi che hanno molto carisma e seguito), allora riconosciuto come il monaco mandato da Dio per essere la guida spirituale e il protettore della Russia.
Rajevskij fu successivamente trasferito al servizio di Rasputin con la mansione di segretario personale con il compito di rispondere alle centinaia di lettere che il monaco riceveva dai suoi adulatori, oltre a organizzare incontri e feste private con le sorelle-discepole che rappresentavano le donne più colte e ricche della capitale.

Alle dodici del giorno stabilito lasciammo Pietrogrado insieme. Il  monaco indossava, con pretesa umiltà, il vestito più vecchio e logoro, anche se sotto di esso, sia detto, i suoi abiti di seta erano i migliori della capitale, mentre al collo aveva una croce a buon mercato sospesa da una sottile catena di ottone. Era trasandato, sporco, con il viso giallognolo e marcato, eppure quegli occhi brillanti guardavano con straordinaria intensità espressiva. Le mani erano sporche e le unghie lunghe e affusolate non venivano tagliate da settimane. Affascinata dal suo sguardo questo era l’uomo che Alexandra Feodorovna aveva chiamato al suo fianco.
All’arrivo alla stazione di Tsarskoe-Selo trovammo una delle carrozze imperiale ad attenderci, con fante e cocchiere in livree di un blu scintillante, con le sentinelle.
Due tirapiedi, anch’essi in blu, avanzarono e, mettendo le mani sotto le braccia del santo, lo sollevarono nella carrozza, un onore sempre dovuto agli ospiti di Sua Maestà lo Zar. Io, invece, salii dopo, sorridendo allo spettacolo dello sporco monaco che veniva tirato su come se fosse invalido. Con noi c’era un ufficiale in uniforme e un civile, un agente dell’Ochrana.
Nel momento in cui ci sedemmo, i servi imperiali si tolsero il tricorno e lo misero inclinato da un lato come segno che all’interno della carrozza vi era un ospite di Sua Maestà e per segnalare ai passanti, mentre guidavamo, di togliersi il cappello e salutare.

Il romanzo è ambientato tra il crepuscolo dell’impero zarista e la Rivoluzione, dentro un crescendo di mistero e di tensione. Il Ministro del Male intende approfondire la figura di Rasputin dentro una narrazione ampiamente documentata. William Le Queux, da maestro della narrativa di genere, riesce a dare del personaggio un profilo ipnotico e agghiacciante nel cuore della corte imperiale russa fino a uno dei momenti più drammatici della storia: dalla prima guerra mondiale alla rivoluzione. Un uomo che esercita attraverso fascino e carisma propri un potere straordinario che non è soltanto spirituale, ma anche psicologico e politico.
Il ritratto che l’autore fa di Rasputin appare contraddittorio, misterioso, con tratti di genialità, attraverso un’introspezione psicologica di tutto interesse. Tradimenti, sotterfugi, colpi di scena si succedono con un ritmo incalzante. C’è in questo susseguirsi di notizie documentate e di voci d’epoca un intreccio di oscure passioni, un’ambizione che trascende il limite dell’umanità e l’incalzare di un’imminente tragedia.
Feodor Rajevski parla delle sue missioni diplomatiche all’estero al servizio dello zar, e già da subito entra nello specifico dell’azione di Rasputin dal momento che aveva libero accesso alla Corte Imperiale ed era al corrente delle informazioni più delicate.
Secondo molti, Rasputin sarebbe stato in grado di prevedere il futuro e guarire i malati, e dopo essere entrato nelle grazie della zarina Alexandra esercitò grande influenza sulla famiglia imperiale intervenendo e condizionando molte decisioni dello zar.

Tutti sapevano che il potere di Rasputin era, già nel 1912, più grande di quello dello stesso Zar Nicola. Il più forte della terra si inchinava davanti al furfante, mentre chiunque osasse sminuirlo o provasse a contrastare i suoi malvagi piani, veniva subito eliminato dall’ufficio. Grazie a Madame Vyrubova che riceveva la parte del bottino e influenzava l’imperatrice, Rasputin regnò in quanto lo Zar non fece altro che firmare i documenti che gli misero davanti.
Così la Russia era costretta a vedere una processione regolare di ufficiali nominati dall’uomo di Dio, secondo il danaro ricevuto. Persino Goremykin fu costretto a inchinarsi davanti al mistico imbroglione. Per cinque anni Rasputin nominò e licenziò tutti i vescovi, e guai a chi cercava di interferire con  il suo potere.
L’Arcivescovo Theophanus, pieno di rimorsi per aver aiutato l’imbroglione, cercò di spodestarlo denunciandone pubblicamente gli atti malvagi, mentre il vescovo Hermogenes che conosceva il passato del monaco, cercò di rivelarlo. La vendetta di Rasputin cadde subito su di loro, Theophanus fu mandato a Tradiz e Hermogenes venne isolato in un monastero. Helidor fu cacciato dalla polizia e cercò asilo all’estero; mentre un uomo chiamato Grinevitch, che aveva conosciuto Rasputin a Pokrovsky molto tempo prima, una sera fu invitato dal monaco a cena e la mattina fu ritrovato morto nel proprio letto; mentre un altro venne arrestato dalla polizia con la stessa accusa di complotto e fu mandato in prigione per dieci anni, sebbene perfettamente innocente.
L’arrogante insolenza di Rasputin non conosceva limiti. Ora che era il potere dietro il Trono, costringeva tutti a inchinarsi a lui, istruiti e contadini. Entrando nelle case, sia in quelle di un principe che in quella di un contadino, baciava sempre la donna giovane e carina mentre girava le spalle e addirittura si rifiutava di parlare con quelle più anziane.

Tale era l’uomo soprannominato l’immortale. In realtà era soltanto sorretto da una straordinaria forza fisica e se ne avvidero i congiurati che nella notte tra il 29 e il 30 dicembre del 1916 misero fine alla sua incredibile esistenza.
Era comunque tardi per evitare il crollo dell’impero russo. Come sostiene l’autore, Rasputin fu ucciso allo scopo di ripulire la Russia dalle forze oscure. Eppure la sua malvagia influenza recò frutti in favore della Germania anche dopo la Rivoluzione e la caduta dei Romanov.
Il risultato è il ritratto di una figura sinistra e sorprendente, terribile, che ancor oggi crea interesse e attenzione. La lettura del romanzo di Le Queux offre d’altra parte una visione a trecentosessanta gradi della società dell’epoca e di come abbia saputo riconoscere fin troppo facilmente potere al monaco siberiano, spalancando le porte a una delle menti più contorte e perverse del suo tempo.

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