Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 02 Dec 2025 21:00:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le grandi storie della fantascienza https://www.carmillaonline.com/2025/12/02/le-grandi-storie-della-fantascienza/ Tue, 02 Dec 2025 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91244 di Valerio Evangelisti

[Il testo che segue riunisce due scritti pubblicati dall’autore su “Carmilla online” il 24 Gennaio 2009 e il 28 Marzo 2009, quando presso Bompiani erano apparsi 12 volumi, sui 20 previsti, de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov. Questi sono i testi introduttivi pubblicati nel risvolto di copertina. Assieme, formano una difesa di un genere letterario tra i più importanti del nostro tempo. Di seguito le prefazioni ai volumi da 1 a 10.]

1. Il nome Isaac Asimov è divenuto sinonimo di fantascienza. Nessuno come lui ha saputo rendere familiari ai lettori le dimensioni sconfinate [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Il testo che segue riunisce due scritti pubblicati dall’autore su “Carmilla online” il 24 Gennaio 2009 e il 28 Marzo 2009, quando presso Bompiani erano apparsi 12 volumi, sui 20 previsti, de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov. Questi sono i testi introduttivi pubblicati nel risvolto di copertina. Assieme, formano una difesa di un genere letterario tra i più importanti del nostro tempo. Di seguito le prefazioni ai volumi da 1 a 10.]

1.
Il nome Isaac Asimov è divenuto sinonimo di fantascienza. Nessuno come lui ha saputo rendere familiari ai lettori le dimensioni sconfinate dell’universo, e trascinarli in viaggi vertiginosi tra le galassie. Dunque, era il più titolato per scegliere le storie di fantascienza definibili come “grandi”. La sua attenzione, è ovvio, si concentra sulla cosiddetta “età d’oro”: quando, su rivistine popolari americane stampate su pessima carta, si concentravano idee, visioni allucinate ma credibili, proiezioni critiche del presente. Si era alle soglie degli anni ’40, ma già un pugno di scrittori intelligenti sollevava problematiche che sarebbero divenute attuali ai giorni nostri.
Asimov si concentra su Astounding Science Fiction, la pubblicazione diretta da John W. Campbell a partire dal 1937. Una palestra di testi sempre stimolanti e ben scritti, a firma dello stesso Asimov, di Robert A. Heinlein (i migliori della scuderia), di Jack Williamson, di Alfred E. Van Vogt, di Henry Kuttner. In Italia sarebbero approdati quindici o vent’anni dopo la loro prima apparizione. Avrebbero condizionato, ma in senso liberatorio, l’immaginario di decine di migliaia di giovani lettori. Lo avevano già fatto in patria.
In questo primo volume, alcuni racconti davvero memorabili. Il distruttore nero di A. E. Van Vogt (maestro di Philip K. Dick), che diverrà il primo capitolo del suo romanzo Crociera nell’infinito. Il triangolo quadrilatero di William F. Temple, un gioco d’ingegno irripetibile. E le prime narrazioni geniali di Heinlein1, di Theodore Sturgeon, dello stesso Asimov. Che cosa si vuole di più?
La fantascienza di allora non poteva saperlo, ma stava per divenire parte imprescindibile della letteratura.

2.
In questo secondo volume de Le grandi storie della fantascienza, Isaac Asimov continua l’esplorazione del periodo memorabile, alle soglie e a cavallo degli anni Quaranta del secolo scorso, in cui un genere letterario creduto marginale riuscì a conquistare l’immaginario di intere generazioni e a perpetuarsi fino ai giorni nostri.
Merito soprattutto di Astounding Science Fiction, la rivista diretta da John W. Campbell, che impose ai propri autori un rigore stilistico trascurato dalle pubblicazioni precedenti, senza tuttavia limitare la carica visionaria dei loro racconti.
Si formò quindi, negli Stati Uniti, uno straordinario gruppo di scrittori che comprendeva lo stesso Asimov, Robert A. Heinlein, Fritz Leiber, Theodore Sturgeon, A.E. Van Vogt e molti altri. A volte il tono era realistico, altre volte beffardo, altre ancora sognante (soprattutto nella rivista gemella di Astounding, Unknown). La costante era la ricchezza di idee, di spunti, di sguardi inediti, ispirati allo sviluppo di scienza e tecnologia ma non appiattiti su di esse.
Si usciva dunque dalla narrativa detta “di anticipazione” e si entrava nella fantascienza moderna, attenta ai cambiamenti della società sotto l’impatto di mutazioni tecnologiche o ambientali. L’elemento puramente avventuroso veniva dunque messo al servizio di un discorso quasi filosofico, in cui il futuro era metafora del proprio tempo.
Alcuni racconti scelti da Asimov (Requiem di Heinlein, La cosa di Sturgeon, La cripta della Bestia di Van Vogt, Uno strano compagno di giochi, dello stesso Asimov, ecc.), anche quando restano nel campo del puro intrattenimento, dimostrano una maturazione rilevante: solo pochi anni prima tante opere di fantascienza sarebbero state del tutto diverse, sciatte, scritte alla meno peggio, tese a descrivere improbabili (o probabili) invenzioni.
Senza queste “grandi storie”, la fantascienza sarebbe morta nel giro di pochi decenni, e non avrebbe contribuito a modellare il modo in cui, oggi, guardiamo il mondo.

3.
Il terzo volume de Le grandi storie della fantascienza, curato da Isaac Asimov, è in assoluto tra i più convincenti. Contiene infatti almeno tre gioielli: il mitico racconto Nightfall (“Cade la notte”) dello stesso Asimov, ritenuto una delle migliori storie brevi che la science fiction abbia mai prodotto; And He Built A Crocked House (“Ed egli costruì una casa deforme”), di Robert A. Heinlein: un racconto semplicemente geniale, mille volte riproposto; e, dello stesso Heinlein, Universe, all’origine di un romanzo omonimo che tuttora affascina e sorprende.
Asimov, Heinlein; e, oltre a questi due giganti, gli altrettanto grandi Fredric Brown, Theodore Sturgeon, A. E. Van Vogt, Alfred Bester, ecc. Erano gli anni ’40, la seconda guerra mondiale era imminente, ma su rivistine quasi artigianali si stava solidificando il genere narrativo che avrebbe dominato, a livello popolare, la fine del XX secolo e gli inizi del XXI. Capace di guardare al futuro, a volte remotissimo, senza scordare le inquietudini del presente. Anzi, trasportandovele.
Asimov, Van Vogt, Heinlein, Sturgeon e i loro colleghi, uniti tra loro da una comune marginalità rispetto al mondo ufficiale delle lettere, forse non sapevano nemmeno di dar vita a ciò che sarebbe diventato non solo letteratura, ma anche costume. Davanti ad antiquate macchine da scrivere battevano, per pochi soldi, i loro sogni e i loro incubi. Quelli che oggi ci ritroviamo, con pochissime varianti, nel cinema, nella televisione, nella pubblicità, nei fumetti, nei videogiochi.
Questa antologia è di una freschezza sorprendente. Pullula di idee e di visioni. Nessun critico serio dovrebbe prescinderne, non per cogliere l’avvenire, ma per interpretare il mondo che lo circonda. Sessantacinque anni fa un manipolo di scrittori, ignorato dai critici, vi aveva riflettuto. Si potrebbe dire altrettanto per ciò che si scrive oggi?

4.
Continua, sotto la qualificata guida di Isaac Asimov, l’esplorazione de Le grandi storie della fantascienza, ormai giunta al quarto capitolo. Storie che genereranno altre storie. Sono presenti, in questo quarto volume, racconti che saranno all’origine di cicli di romanzi memorabili. Da Fondazione dello stesso Asimov nascerà la famosa e omonima “trilogia galattica”, destinata in seguito a ramificarsi ulteriormente. Da Il negozio d’armi di A.E. Van Vogt prenderà vita il ciclo rutilante dei Negozianti d’Armi, aperto dall’indimenticabile Le armi di Isher.
Saghe stellari vertiginose, ospitate negli anni ’40 sulle riviste di John W. Campbell jr. Astounding e Unknown. Tuttavia, come antologista, Asimov si rivela duttile e si spinge oltre il genere avventuroso da lui coltivato. Troviamo così testi di Fredric Brown, maestro del racconto breve e fulminante, dell’ironico Lester del Rey, del complesso Alfred Bester e di molti altri.
A quei tempi nessuno poteva immaginare che la fantascienza, da genere popolare coltivato da una minoranza sia pur consistente di lettori, si sarebbe espansa al punto da invadere ogni campo mediatico: dal cinema alla televisione, dalla pubblicità ai videogiochi, dal fumetto alla musica, fino a divenire una componente essenziale della cultura contemporanea.
Il segreto di una tale vitalità va ricercato nelle pagine di questa antologia. Un’intera generazione di giovani scrittori americani, ancora oscuri e malpagati, profittavano della libertà che una condizione marginale offriva loro per tentare esperimenti arditi e affrontare tematiche assolutamente inedite, con la sola arma dell’intelligenza. Era una vera rivoluzione narrativa quella che silenziosamente, col mondo già travolto da un conflitto spaventoso, si stava preparando. Chi la tentava non poteva ancora sapere che si sarebbe trasformata in una rivoluzione di costume, capace di modificare il modo di vedere e di descrivere l’esistente con un impatto che nessun’altra forma letteraria aveva mai avuto.

5.
1943. Si è nel pieno di una guerra mondiale dagli esiti ancora incerti. Quasi tutti i migliori scrittori americani di fantascienza sono al fronte. Eppure Astounding e le altre riviste di sf seguitano a uscire, e propongono nuovi nomi e nuovi racconti.
Isaac Asimov dedica al 1943 questo quinto volume de Le grandi storie della fantascienza, e la messe è ricca. Degli autori più popolari figurano solo Van Vogt e Lewis Padgett (pseudonimo di Henry Kuttner, spesso in compagnia di Catherine L. Moore). Poi Leigh Brackett, moglie di un altro scrittore presente nell’antologia, Edmund Hamilton. Famosa anche come sceneggiatrice di film noir e di fantascienza, tra cui L’impero colpisce ancora di George Lucas.
C’è anche la riconferma di Fredric Brown quale maestro del racconto brevissimo e crudele. Più nuove scoperte: Peter Schuyler Miller, attivo da oltre un decennio nella rete dei fan, o l’inglese Eric Frank Russell, versato nell’ironia, proposto finalmente come merita al pubblico americano. Si obietterà che, del conflitto in corso, non ci sono in questi racconti che impalpabili riflessi. Il fatto è che la fantascienza aveva trattato di guerre mondiali fin dalla nascita — si pensi a La guerra dei mondi di Wells, parabola eloquente del disfacimento dell’impero inglese — ed era abituata a guardare lontano. Nelle pieghe dei racconti si troveranno spunti e problematiche inerenti non alla guerra, bensì al dopoguerra.
La fantascienza ha dunque valore profetico? No, per nulla. Semplicemente si guarda intorno, scopre linee evolutive e ne fa oggetto letterario. Certo, ogni tanto divaga, sogna, si abbandona alla fantasia più bizzarra. Ma chi non lo farebbe, mentre è in corso il più grave conflitto nella storia dell’umanità?
Chiamiamola evasione, se vogliamo. Dove evasione significa distogliersi da un presente intollerabile e chiedersi cosa potrà avvenire dopo.

6.
Il sesto volume de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov, comprende racconti scritti nel 1944, quando la seconda guerra mondiale volgeva al termine e già si intuiva chi ne sarebbe uscito vincitore. Include un racconto che fece scalpore, e contribuì ad attirare l’attenzione sul più eclettico dei generi letterari: Termine ultimo, di Cleve Cartmill.
Non un grande autore, né un grande racconto. Tuttavia vi era descritta molto in dettaglio una bomba potentissima assai simile alla bomba atomica che gli scienziati del Progetto Manhattan, a Los Alamos, stavano elaborando in segreto. Cartmill si trovò alle prese con l’FBI, sospettato di collaborare con il nemico. Poi l’accusa cadde, e restò alla fantascienza l’aura leggendaria di essere narrativa profetica.
Alcuni vi si crogiolarono, eppure mai nomea fu tanto falsa. Lo dimostrano altri testi dell’antologia, come quelli firmati da Clifford D. Simak. Soprattutto City sarà l’incipit di un romanzo memorabile, trasognato e malinconico, che tratta del lento prevalere delle formiche sugli umani, fino al costituirsi di una società ibrida.
Una fantasia poetica, una fuga da una realtà sanguinosa e bestiale? No, per niente. Il conflitto che si stava combattendo in Europa era proprio contro chi intendeva disciplinare gli uomini come formiche. Simak, pur usando la metafora, era in fondo più realistico di Cartmill. Non descriveva bombe future, bensì scenari presenti trasfigurati. La solita operazione condotta dalla migliore fantascienza e dalle sue “grandi storie”.

7.
E’ il 1945 e il secondo conflitto mondiale volge al termine. Scrittori di fantascienza tornano dal fronte; altri, esentati dall’ecatombe, continuano a scrivere come se nulla fosse; altri ancora si preparano a una fase ulteriore, la “guerra fredda”, che scoppierà di lì a poco.
Nessuno di loro forse immagina che la catastrofe più grande nella storia dell’umanità — stermini basati sull’appartenenza a una presunta “razza”, mezzi terrificanti di massacro, armate in lotta su ogni quadrante del mondo — rilancerà la fantascienza. Genere trascurato, e tuttavia capace di descrivere, sia pure in via metaforica, grandi sistemi in lotta. Cosa che la letteratura mainstream non riesce a fare se non di rado.
Il settimo volume de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov, riflette bene la transizione in corso. C’è il recupero insistito di un caposcuola della sf degli anni Venti, Murray Leinster. Generazioni hanno sognato sulle sue forse ingenue fantasie, zeppe di scienziati brillanti, di astronavi misteriose, di messaggi enigmatici provenienti dallo spazio, di energia positivista. Ma ci sono anche, molto più problematici, Fredric Brown, Lewis Padgett, Fritz Leiber e molti altri. Quasi un’antitesi a Leinster. Quale futuro luminoso, dopo una guerra che aveva imbruttito e fatto sanguinare il mondo intero?

8.
Il discrimine è la bomba atomica. Nel 1945 la si subiva, nel 1946 la si riconsidera. Una previsione della fantascienza si è avverata: esiste un’arma capace, si suppone, di distruggere il mondo conosciuto. E, spenta la guerra aperta, sta per aprirsi l’era della guerra fredda.
L’ottavo volume de Le grandi storie della fantascienza, curato da Isaac Asimov, riflette il momento di transizione. Il testo fondamentale è il racconto Monumento, di Theodore Sturgeon, dedicato alla bomba definitiva e allo sviluppo logico del suo uso. Non si troveranno molti riferimenti a quel cambiamento epocale, nella narrativa corrente dello stesso periodo. Solo la science fiction, attenta alla tecnologia, intuisce che si sta entrando in un periodo storico totalmente inedito.
Lo testimoniano anche gli altri racconti antologizzati, di Ray Bradbury (una nuova stella destinata a future glorie), dello stesso Asimov, di Arthur C. Clarke, di Henry Kuttner, che morirà pochi anni dopo, di altri ancora.
Si è alle soglie di un revival della fantascienza. Non perché, in un mondo in rovine, ci si distragga a pensare futuri remoti. E’ vero il contrario. La fantascienza è, più di ogni altra forma narrativa, ancorata al presente. Guarda lontano in quanto le contingenze storiche impongono di farlo. La visione non è molto ottimistica, ma ciò non dipende dagli scrittori.
Non sono stati loro a fare del fungo atomico il simbolo degli anni a venire.

9.
Nel nono volume de Le grandi storie della fantascienza, Isaac Asimov comincia a raccogliere le inquietudini che, nel dopoguerra, serpeggiano nella società americana, come in ogni altra società. E’ il 1947, l’euforia per la guerra vinta dalle potenze antifasciste si sta attenuando. Sorgono altri problemi, che dividono gli stessi vincitori: politici, geopolitici, sociali.
La fantascienza di stampo avventuroso resta appannaggio di un Jack Williamson, che aggiorna le formule degli anni ’20, mentre quella che pare occuparsi di pura tecnologia ha in Arthur C. Clarke il più illustre esponente.
Accanto a questi nomi ne emergono altri, e nuove tendenze ancora embrionali. Sturgeon e Bradbury paiono interessarsi più all’uomo che agli “effetti speciali”. Il quasi esordiente William Tenn, con il suo caustico umorismo, mette in luce i difetti della società che lo circonda, e anticipa la science fiction che verrà.
E’ un disagio collettivo, quello che mettono in luce, a volte trasfigurato in ironia, gli scrittori che Asimov chiama a raccolta: da un veterano come Lewis Padgett (pseudonimo di Henry Kuttner, quando scrive con la moglie Catherine L. Moore) all’inglese Eric Frank Russell.
Rispetto alla fantascienza delle origini, quella del secondo dopoguerra è profondamente diversa. Niente positivismo, piuttosto smarrimento. Carenza di finali lieti. E, se c’è da divertirsi, sarà un ghigno, più che una risata.

10.
Nel 1948 la fantascienza americana è in piena forma, anche perché gli Stati Uniti sono emersi dalla guerra come la maggiore potenza mondiale, grazie a una tecnologia rimasta intatta e incentivata dal conflitto. Pare aprirsi una fase di espansione senza limiti, si respira ottimismo. Nessuno dubita che l’esplorazione degli spazi, cui stanno già lavorando scienziati nazisti passati al nemico, possa tardare.
Naturalmente il progresso ha come sempre un lato oscuro. L’Unione Sovietica, da alleata che era, si è trasformata in rivale (per fortuna non ha ancora la bomba atomica), il comunismo si espande e lambisce l’Europa occidentale, il maccartismo fa la sua apparizione, limitata per il momento al mondo del cinema. L’uccisione, all’inizio dell’anno, del mahatma Gandhi, che Asimov ricorda nella prefazione, sembra preannunciare la fine di un periodo di pace durato solo due anni.
La fantascienza, narrativa intrinsecamente ambigua, da un lato vive di ottimismo, dall’altro si alimenta di tensioni. Prevale il gusto dolceamaro, nel decimo volume de Le grandi storie della fantascienza. Gli autori antologizzati da Asimov, dal Ray Bradbury di Marte è il paradiso!, che colpirà profondamente un giovane Stephen King, al caustico Fredric Brown, all’epico Van Vogt, a molti altri, tra esordienti e veterani, non adottano l’uno o l’altro registro, ma spesso li fondono tra loro. Perché dolceamara è la società occidentale che, fuori delle camere in affitto in cui lavorano, sta prendendo forma.


  1. Per una questione di diritti, nessun racconto di Heinlein, tra quelli citati qui e in seguito, figura effettivamente nell’antologia. Circostanza ignota al prefatore, che aveva tra le mani l’originale americano. 

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Appunti cinesi ep. 1 – Ferro e led https://www.carmillaonline.com/2025/12/02/appunti-cinesi-ep-1-ferro-e-led/ Mon, 01 Dec 2025 23:04:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91737 di Jack Orlando

Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe. Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto. Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe [...]]]> di Jack Orlando

Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe.
Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto.
Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe e visi spigolosi avrebbero suscitato sempre meno ilarità; annunciando morte, sfruttamento e rapina.

Ora le vecchine lungo il marciapiede ridono delle barbe del gruppetto di laowai, stranieri, gesticolano indicandosi le guance e vociano assolutamente incuranti dell’abisso linguistico che le separa dai loro interlocutori, né dei loro sguardi interrogativi.
Nessuno ormai può ignorare la Cina, eppure fuori dai circuiti canonici di Pechino, Hong Kong, Shangai è ancora abbastanza difficile vedere facce da occidente. La qual cosa è assai spesso motivo di risate e generale euforia.

Durante il Secolo delle umiliazioni c’era poco da sghignazzare in faccia a un occidentale. Il vanto di una cultura millenaria e raffinata, di una consolidata attitudine allo scambio e all’interazione con l’altro non avevano presa sulle facce barbute.
L’efficienza, specialmente militare, era l’unica cosa che comprendevano e l’interesse era rivolto verso le ricchezze che potevano riportare alle proprie coorti.
Gli stivali delle truppe d’Europa hanno globalizzato il mercato mondiale al prezzo di un olocausto seriale. Vite in cambio di oro, sangue per tessuti, lacrime per spezie e orfani per terreni.
E la Cina ha conosciuto a fondo e per lungo tempo cosa significasse avere a che fare con gli europei.
Il Secolo delle umiliazioni è terminato, per la precisione nel 1949, con la vittoria della rivoluzione comunista del presidente Mao e un costo spaventoso in termini di vite umane, un tributo pesante pagato al dio dell’autodeterminazione, cui se ne aggiungeranno parecchi altri alle Parche della modernizzazione. Ma oggi le vecchiette possono ridere delle facce dei laowai e proverebbero ben poca impressione davanti alle piccole città da cui sono arrivati.

Chongqiing è infatti una megalopoli grande pressappoco quanto l’Austria, con oltre trenta milioni d’abitanti. Diversi paesi europei hanno una popolazione totale più ridotta di questa.
Un macroscopico labirinto di cemento, vetro e acciaio, inondato dai neon e dal vociare dei megafoni. Le piazze possono inaspettatamente essere il tetto di un palazzo e una strada asfaltata corre trenta piani sopra un’altra, sottopassaggi diventano centri commerciali che a loro volta sfociano in stazioni metro e lungofiumi.
Delirio architettonico pluridimensionale.

La città si codifica in livelli differenti e perennemente intrecciati, mostra i suoi grattacieli e li fa svettare in pirotecnici giochi di luci e droni, ogni sera tra le 20:00 e le 23:00 circa, come le altre città; a beneficio degli occhi un popolo che a quanto pare ha sviluppato una fissazione per tutto ciò che è luminoso.
E allo stesso tempo nasconde nel loro ventre alveari di vita produttiva, gettati alla rinfusa tra lusso e abbandono, dove lo stesso edificio ospita alberghi, condomini, cliniche, discoteche e dio sa cos’altro, tanto da poterci vivere senza mai conoscere completamente la destinazione d’uso del proprio palazzo.

Non è semplicemente lo sviluppo economico a intagliare le forme e, fortunatamente, non tutte le metropoli del paese sono così tortuose.
Le antiche fortificazioni fluviali dei diversi centri di Chongqing si inerpicavano lungo la collina a gradoni attraverso case a palafitta, diaojiaolou, producendosi in vicoli, scale e terrazzamenti dove le finestre delle case affacciavano per lo più verso l’interno nei tentacolari budelli della costruzione. Un ventre di undici piani. Botteghe e mense sopperivano alla carenza di spazi domestici vivibili, i bagni erano – e spesso ancora sono – pubblici. Una forma di vita collettiva e alvearica che conservava il germe di quella che è oggi l’esperienza di massa.

Hongyadong è un esemplare di questa forma, anche se è difficile definirlo originale visto che i suoi edifici hanno appena un ventennio. Diventato obsoleto e fatiscente, dopo essere stato per secoli fortezza, mercato e condominio; con i suoi abitanti trasferiti in nuovi edifici popolari, il complesso è stato abbattuto e poi ricostruito ampliando la pianta originaria.
L’attraversamento di Hongyadong non ha nulla dell’esperienza storica, almeno per lo standard europeo settato sulla conservazione museale, che rimane allibito da un dedalo di scale e viuzze che ora traboccano di merci, di corpi in cerca di consumo e di schiere di ragazzine in finti abiti tradizionali che si mettono in posa per farsi un photobook nella vecchia rocca ora invasa dalle luci.

L’occhio è soggetto alla pressione di una contraddizione poliforme che inonda lo spazio visivo. La cura maniacale dello spazio pubblico, di cui pure sembra esserci un discreto orgoglio, è frustrata dalla decisa incuria degli spazi privati.
La pianificazione, cardine che determina lo sviluppo economico del paese è assi difficile da vedere, tanto più che la città non ha mai lo stesso volto, nemmeno in relazione allo scorrere della giornata.

L’alba trova una giungla di cemento che è una sinfonia di grigi. Vecchi grattacieli condominiali della classe operaia, fatiscenti pachidermi decorati dai motori dei condizionatori e improbabili gabbie alle finestre.
Di case e palazzine basse quasi non è rimasto traccia in questo intricato omaggio all’industria pesante. Chongqing vanta una vita millenaria: centro nevralgico del commercio fluviale per gran parte della storia cinese, finisce ad essere la capitale della Repubblica di Cina del generalissimo Chiang Kay-shek durante la guerra antigiapponese e arriva agli anni ’50 del doporivoluzione vedendosi destinata al ruolo di fulcro dell’industria pesante della nazione e motore trainante dell’economia delle regioni centro-meridionali; ha poco più di un milione di abitanti, sopravvissuti ai bombardamenti giapponesi, alla fame e alla guerra civile; in meno di dieci anni la popolazione è più che triplicata, nutrita da immigrati delle campagne divenuti operai.

Quando diventa prefettura autonoma, nel 1997, assorbe le masse sfollate dai villaggi estinti dalla costruzione della Diga delle Tre Gole. Esplode demograficamente, superando la terza decina di milioni, e urbanisticamente: i palazzoni operai si vedono superare dallo slancio megalomane della speculazione del XXI secolo, acciaio e vetro, forme variabili a soddisfare il gusto degli architetti. Anch’essi però vestono grigio, riflettendo i toni dei tre fiumi e del cielo, che pare accordarsi da sé alla scala cromatica.
È dalle 20:00 in poi che la città cambia volto, sfida il tramonto accendendo quasi ogni singolo edificio con giochi di luci che deformano lo skyline fino a renderlo irriconoscibile, un’epifania di estetica alla Blade Runner per l’occhio europeo.
Spettacolo insolito, forse l’immagine più evidente dell’evoluzione cittadina, che ha mutato pelle ancora una volta e, dismessa la tuta dell’operaio di fonderia, veste quella dell’ingegnere Hi-Tech: è a questo che si è votata ora Chongqin, uno degli epicentri dello Sviluppo delle Nuove Forze Produttive di Qualità; definizione sinomarxiana per il processo di ricerca del primato mondiale in fatto di sviluppo tecnologico e intelligenza artificiale.

Gli abitanti hanno smesso di respirare l’aria ammorbata dalle ciminiere, sono uno dei centri propulsivi del ceto medio continentale e hanno convertito, con un gigantesco contributo pubblico, le vecchie fabbriche dismesse in coworking, pub alla moda e centri culturali.
Le statue di Mao sorvegliano lo scorrere incessante di una vita che, da quest’altro lato del mondo avevamo imparato ad associare all’eccezionalità newyorkese.
Non è scontato vedere in giro falci e martello e altri emblemi del partito, nonostante la tradizione radicalmente maoista della città. Ciò che compare di più sono gli striscioni rossi di propaganda che sottolineano la campagna statale di ringiovanimento delle aree rurali.

È fuori dalle metropoli invece che è presente il partito, ramificato in sedi e attività parastatali che innervano il tessuto delle campagne. Per governare gli squilibri dello sviluppo economico, dopo aver attinto a piene mani dall’inurbamento – anche forzato – dei contadini; ora si è imposta una linea politica fatta di limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, che non possono più trasferirsi facilmente in città, per prevenire fenomeni di spopolamento, e di investimenti in tecnologie produttive e infrastrutture di servizio alla popolazione.
Fatto il ceto medio, ora si rifanno le campagne.

Interessante che tutto ciò venga messo sotto l’etichetta di Ringiovanimento. Per la prima volta questo paese vede ora una leggera flessione demografica e l’aumento dei suoi anziani, tendenziale effetto dello sviluppo economico che produce benessere e aspirazioni extrafamiliari.
Per avere un’intuizione di cos’è lo spirito di questo paese c’è da considerare lo sguardo di un novantenne: un uomo nato in un paese martoriato dal colonialismo, sotto il tallone di ferro dell’occupazione nipponica. Diventato bambino nel mezzo della guerra civile e fattosi uomo nella costruzione della nazione socialista. Un uomo che ha visto le carestie spezzare intere province e la disciplina collettiva muovere masse e innalzare città. I cui capelli sono ingrigiti tra nubi di smog mentre il suo paese diveniva la fabbrica del mondo, e oggi arriva al capolinea con i figli in carriera e i nipoti ben nutriti in una metropoli sfavillante, frammento di una potenza nazionale che impone al mondo di osservarla finalmente con occhi diversi.
La parabola che l’Occidente ha coperto in quasi tre secoli, lui l’ha attraversata dritta nel solo arco di una vita.

Tre ore di led accecanti e proiezioni pantagrueliche come sfondo dello svago notturno si concludono attorno alle 23:00, quando la città si congeda alla vista lasciando accese manciate di insegne e sporadiche finestre nei grattacieli, ora sinistramente neri come le torri di Mordor, a sorreggere un cielo che ha da tempo scordato l’esistenza delle stelle.
Ma in basso, sotto i lampioni delle strade, prosegue incessante la vita collettiva: carretti che grigliano spiedini e locali che servono noodles in brodo lavorano a pieno regime, bar karaoke sono ben lontani dal cacciare l’ultimo cliente ubriaco, minimarket e laboratori notturni non spengono mai la luce.

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Le bombe di Savona https://www.carmillaonline.com/2025/11/30/le-bombe-di-savona/ Sun, 30 Nov 2025 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91262 di Roberta Cospito

Per andare al lavoro, ogni mattina attraverso la mia città, Savona, percorrendo una delle sue arterie principali. Ferma a uno dei tanti semafori, spesso mi ritrovo a spostare lo sguardo dalla strada verso una piccola aiuola un po’ trasandata e sporca. Al primo sguardo nulla si nota se non delle foglie e delle piccole bacche rosse, ma io so che, rosso del semaforo permettendo, se guardo oltre il fogliame posso intravedere il grigio di una pietra. È una piccola lapide dedicata, come spiega l’iscrizione, a Fanny Dallari: “Il Comune di Savona – medaglia d’oro della Resistenza – ricorda Fanny [...]]]> di Roberta Cospito

Per andare al lavoro, ogni mattina attraverso la mia città, Savona, percorrendo una delle sue arterie principali. Ferma a uno dei tanti semafori, spesso mi ritrovo a spostare lo sguardo dalla strada verso una piccola aiuola un po’ trasandata e sporca.
Al primo sguardo nulla si nota se non delle foglie e delle piccole bacche rosse, ma io so che, rosso del semaforo permettendo, se guardo oltre il fogliame posso intravedere il grigio di una pietra. È una piccola lapide dedicata, come spiega l’iscrizione, a Fanny Dallari: “Il Comune di Savona – medaglia d’oro della Resistenza – ricorda Fanny Dallari caduta in uno degli attentati fascisti che nel 1974-75 colpirono la città che con la mobilitazione unitaria e la vigilanza popolare respinse e sconfisse l’attacco del terrorismo”.
Savona è un raro, forse l’unico, esempio di città italiana bombardata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In città e negli immediati dintorni, dall’aprile del 1974 al maggio 1975 vennero collocate e fatte esplodere dodici bombe. Una delle due vittime fu, appunto, Fanny Dallari che morì il giorno dopo l’esplosione di Via Giacchero, mentre l’altra vittima fu Virgilio Gambolati morto tre mesi dopo per complicazioni. I feriti furono una ventina e tanti i danni a edifici pubblici e non.
La prima bomba è un ordigno al plastico che esplode il 30 aprile 1974, alla vigilia del Primo Maggio, vicino al cinema che aveva in cartellone il film di Carlo Lizzani Mussolini: ultimo atto. Gli attentati proseguono con due bombe al plastico che colpiscono la centrale elettrica dell’Enel della zona industriale di Vado Ligure e un trasformatore di tensione. Non ci sono vittime, ma potenzialmente poteva essere una strage. A novembre viene fatto esplodere il locale caldaie della sede della provincia di Savona, nel centro città, sulla sponda del torrente Letimbro. Un dipendente rimane ferito. Nel giorno dell’attentato era stato inaugurato un cippo in ricordo dell’uccisione di un gruppo di partigiani da parte dei nazifascisti.  Solo tre giorni dopo cinque chili di tritolo scoppiano nell’atrio della Scuola Media Bartolomeo Guidobono, vicino alla Camera del Lavoro. Poi il 16 novembre due ordigni, il primo sui binari, e la strage è evitata solo dall’intervento di due uomini che corrono incontro al treno e riescono a fermarlo prima che deragli, la seconda in un condominio, direttamente contro gli abitanti, poche ore dopo. È il 20 novembre quando un ordigno esplode nel portone di via Giacchero 22, causando i due morti e tredici feriti. L’analisi degli attentati, il potere esplosivo degli ordigni e i luoghi di collocazione indicano che le perdite umane avrebbero potuto essere molto superiori. La scia terroristica prosegue con un’autobomba che esplode nelle vicinanze di una caserma dei carabinieri a Varazze, poi un ordigno sull’autostrada Torino-Savona, vicina a Quiliano, un comune del ponente savonese. Una pausa di due mesi e alla fine di febbraio ancora due attentati, contro la Prefettura, dove rimangono ferite otto persone, e a un traliccio dell’alta tensione. L’ultimo attentato, forse l’unico solamente dimostrativo, alla Fortezza di Monte Ciuto, sulle alture di Savona, il 26 maggio 1975. A parte un disturbo alle trasmissioni televisive in cui si distingue la frase “Qui Ordine Nero. Vi faremo a pezzi”, nessuna rivendicazione. Nella percezione degli abitanti di Savona, le bombe scoppiavano a caso, o così sembrava, e ovunque: abitazioni private, edifici pubblici, impianti dell’energia elettrica. La penultima bomba, “quella di via Cava”, era nascosta nel fustino di un detersivo in polvere per lavatrice; alcuni bambini che videro una strana fiammella uscire dal cartone posto nell’atrio di un portone della via, portano ancora oggi le cicatrici delle schegge che li colpirono. Anch’io, all’epoca delle bombe, ero una bambina.
Ricordo confusamente i fatti, ma ho ben presente la strana atmosfera che si respirava. Mi piaceva che in certe giornate si stesse a casa da scuola per gli “allarme bomba”, ma ricordo anche la mia incredulità nel sentirmi ordinare da mia madre di non uscire fuori a giocare. Fu una generica ma spiazzante sensazione che qualcosa d’insolito e spaventoso stava accadendo. Ricordo anche gli strani racconti di adulti che trascorrevano la notte fuori casa, lasciando i ragazzi soli a cenare.
Gli adulti che la sera non restavano coi figli andavano a fare le ronde. Era questo il motivo di quell’assenza, per quei tempi, pressoché senza precedenti.
Dopo le prime bombe, infatti, i savonesi si mobilitarono velocemente e spontaneamente a tutela del territorio: vennero presidiati quei luoghi indicati come sensibili non dalle autorità o da soggetti terzi, ma dagli stessi cittadini che li reputavano importanti: le scuole dei propri figli – una bomba scoppiò nell’atrio di una scuola media, per fortuna fuori dall’orario scolastico –, le proprie fabbriche, i propri uffici, il proprio posto di lavoro.

La forte reazione popolare portò tantissima gente in strada anche in cortei e manifestazioni. Si scendeva tutti in piazza: adulti, giovani, anziani e anche noi bambini. Ricordo cortei popolosi e popolari. Dalle foto viste in seguito, ho riconosciuto interi spezzoni di cortei composti da operai che venivano dalle numerose fabbriche che allora costituivano la Savona industriale.
Maccaja. Le bombe di Savona è un film documentario diretto da Diego Scarponi e realizzato in collaborazione con gli studenti del Liceo scientifico savonese Orazio Grassi dedicato alla drammatica vicenda delle dodici bombe scoppiate in quel breve lasso di tempo a metà anni Settanta, attraverso decine di testimonianze e materiale di archivio, in alcuni casi inedito. Immancabilmente, alla fine della proiezione, ci si ritrova a domandarci come sia stato possibile dimenticare questa vicenda di cui non si sente quasi mai parlare, se non quando qualcuno decide di rispolverare il film di Scarponi, nonostante sia stata vissuta una storia unica nel suo genere. Non solo: ho chiesto ad amici e conoscenti genovesi che all’epoca dei fatti avevano quindici/vent’anni, cosa sapevano delle bombe di Savona, ma questa storia pare non aver oltrepassato i confini della mia città o, se lo ha fatto, lo ha fatto in maniera vaga senza lasciare traccia. Eppure, avere a poche decine di chilometri di distanza una città bombardata avrebbe dovuto allarmare il capoluogo ligure, mentre invece gli episodi legati alle bombe di quegli anni sembrano essere relegati alla memoria delle singole persone che hanno vissuto direttamente i fatti senza mai riuscire a diventare patrimonio di una memoria collettiva. È un oblio difficile da spiegare. Una memoria così ricca, una vicenda così partecipata è caduta troppo presto nel dimenticatoio. Tutti eravamo coinvolti e le ronde popolari credo siano un modello unico in Europa. Una cancellazione tanto brutale spinge a chiedersi il perché di questa rimozione, come se l’eliminare il tutto rientrasse in un qualche particolare disegno. Secondo alcuni, pare si sia lavorato in questa direzione poiché nelle indagini vennero coinvolti anche figli di uomini “importanti”, appartenenti alle istituzioni che poi, però, si sono rivelati del tutto estranei alla vicenda ma, nel dubbio, si è preferito da subito mantenere basso il livello mediatico.
È stata vittima dell’oblio, della rimozione dei fatti anche la “Relazione Trivelloni”. Nel dicembre del 1982 l’avvocato Carlo Trivelloni venne incaricato dalla Presidenza dell’A.N.P.I. della Provincia di Savona di fare una ricerca, uno studio sulle eventuali connessioni tra la loggia massonica P2 e le bombe di Savona. Era un tentativo di analizzare il contesto sociale e politico dell’epoca cercando di riunire aspetti che non erano mai stati presi in considerazione a livello investigativo.
Il fatto di aver individuato in Savona una struttura in qualche modo ambigua, vicina alla P2, interna al Partito socialista e vicina o almeno alleata al Partito comunista, ha probabilmente contribuito a far restare chiuso nei cassetti il dossier che viene integralmente pubblicato solo a fine 2014 nel libro Novembre Nero, appunti, note e riflessioni su le Bombe di Savona del 1974-’75 e la strategia della tensione, edito dalla casa editrice Fuoricontrollo, curato dall’associazione Comitato bombe Savona.
Ci si chiede anche se non aver accertato alcuna responsabilità, non avere individuato “il nemico” abbia contribuito alla rimozione di questa storia. A oggi, non c’è ancora chiarezza, e forti sono i sospetti sulla modalità di gestione delle indagini: non si è mai riusciti a trovare né i responsabili materiali né i mandanti né tantomeno si sono riuscite a capire le ragioni di una simile violenza impunita da ormai mezzo secolo.
Le bombe di Savona probabilmente s’innestano nella strategia della tensione e, riguardo questo, l’obiettivo fu sicuramente centrato, visto che vivemmo giornate di paura e gli atti terroristici subiti portarono allo sconvolgimento delle reti sociali del territorio, al disfacimento degli equilibri esistenti e alla creazione di nuove realtà, come i Comitati di Quartiere che vigilavano sul territorio.
Chiaramente, a seconda della spiegazione che si dà al perché delle bombe, si privilegiano alcune interpretazioni e se ne escludono altre. Una delle teorie per spiegare quanto successo, ruota attorno a un personaggio politico preciso, Paolo Emilio Taviani, ministro dell’Interno dal luglio 1973 al novembre 1974.
Taviani – genovese, antifascista e democristiano che aveva fatto la Resistenza, tra i costitutori del Comitato di Liberazione Nazionale clandestino, un partigiano “bianco” – durante il suo mandato mise fuori legge il movimento neofascista Ordine Nuovo e, secondo alcuni, le bombe furono un monito al politico che aveva estromesso dal sistema i neofascisti e che aveva come bacino elettorale Genova e Savona. Questa ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che una bomba venne fatta esplodere presso l’abitazione del senatore democristiano Franco Varaldo di Savona che, politicamente, faceva riferimento a Taviani. Il ministro si dimetterà proprio a fine 1974, uscendo dalla politica attiva, per cui inserire le bombe di Savona in questo panorama politico potrebbe essere realistico.
Una vulgata popolare racconta che la base Nato di Pian dei Corsi, una montagna dell’Appenino Ligure in provincia di Savona, insediata nel secondo dopoguerra e dismessa agli inizi degli anni Novanta, con la fine della Guerra fredda, sotto il controllo dell’esercito statunitense, non sarebbe stata dotata solo di apparecchiature radar per il controllo dello spazio aereo, com’era indicato nei cartelli che la circondavano, ma sarebbe stata una vera e propria base missilistica equipaggiata con ordigni nucleari.
Nel periodo dei fatti, l’Italia era fortemente a rischio di un colpo di stato, così come accaduto in Cile e in Grecia, con la conseguente formazione di qualche forma di resistenza, di una reazione armata e popolare magari fomentata dai partiti di sinistra dell’epoca, come il Partito Comunista Italiano. In tutte queste destabilizzazioni, come il permanere della dittatura fascista in Spagna, era evidente la direzione strategica degli Stati Uniti e un’ipotesi consiste nell’interpretare l’ondata di terrorismo a Savona come a un test sulla reazione di una popolazione di una città come Savona, Medaglia d’oro al valor militare per aver lottato contro la prepotente sopraffazione nazifascista, potendo teoricamente impadronirsi di una base fornita di armi di distruzione di massa. In pratica, le bombe di Savona sarebbero state una simulazione, un test per vedere come una città di provincia avrebbe reagito a un attacco terroristico ad ampio spettro cosicché gli organismi di sicurezza statunitensi potessero studiare ogni scenario possibile a tutela della loro struttura militare in Liguria.
Tuttora, buona parte della popolazione savonese è convinta d’essere stata vittima di un esperimento, se non degli Stati Uniti, del terrorismo di destra che avrebbe scelto Savona come luogo ideale, forse per le sue dimensioni ridotte rispetto alla confinante Genova molto più metropolitana, per testare la reazione a un loro eventuale colpo di stato futuro. Così fosse, con la loro tanto decisa quanto numerosa reazione di massa, i savonesi avrebbero fatto fallire il test.
Questa teoria, come anche tutte le altre, manca in realtà di un riscontro fattuale ma, poiché racconta i savonesi come una sorta di salvatori della patria, è forse per questo la versione che più spesso si sente raccontare.
Alla fine, le bombe tacquero ma tacque pure tutto il resto.

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L’Islam come anarchismo mistico https://www.carmillaonline.com/2025/11/29/lislam-come-anarchismo-mistico/ Sat, 29 Nov 2025 22:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91270 di Marco Sommariva

Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, Malamente, pp. 160, euro 16,00 stampa

Nella prefazione al libro di Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, il traduttore Alessandro Paolo racconta che lesse per la prima volta con stupore questo titolo a Santiago, nel febbraio 2013, su uno sbilenco tavolino espositivo allestito da rivenditori di libri autogestiti presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università del Cile, in occasione di un convegno di ecologia politica. Paolo, oltre a dirsi emozionato per aver curato l’edizione italiana a dodici anni di distanza dal convegno cileno, ci mette al corrente che l’autore, lo studioso musulmano catalano Abdennur Prado, [...]]]> di Marco Sommariva

Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, Malamente, pp. 160, euro 16,00 stampa

Nella prefazione al libro di Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, il traduttore Alessandro Paolo racconta che lesse per la prima volta con stupore questo titolo a Santiago, nel febbraio 2013, su uno sbilenco tavolino espositivo allestito da rivenditori di libri autogestiti presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università del Cile, in occasione di un convegno di ecologia politica.
Paolo, oltre a dirsi emozionato per aver curato l’edizione italiana a dodici anni di distanza dal convegno cileno, ci mette al corrente che l’autore, lo studioso musulmano catalano Abdennur Prado, in quest’opera coraggiosa ha proposto una possibile rilettura in chiave anarchica degli insegnamenti spirituali dischiusi dal Santo Corano e dalla Sunna, la Tradizione dei detti e dei fatti del Profeta Muhammad – non ho scritto Maometto perché mi è stato spiegato che proviene dallo spregiativo cattolico “mal-commetto”, mentre Muhammad significa Elogiato dal Signore.
Detto che non si debba concordare integralmente con tutte le argomentazioni espresse su queste pagine, meno sovversive di quanto possa far supporre il titolo, e sebbene si possano espandere ben oltre i confini dottrinali dell’Islām, l’opera di Prado può essere ricondotta a quella galassia di pensatori, da Jacques Ellul a Hakim Bey da Lev Tolstoj a Simone Weil, fautori e testimoni di pratiche e teorizzazioni che incrociano una fede nel Divino con idee di comunità social-libertarie gioiose, disciplinate e autosufficienti.
L’introduzione di Prado ci aiuta a entrare in argomento facendoci prendere confidenza col titolo che contiene tre parole difficili da definire – Islām, anarchia e mistica –, che rimandano a possibilità non realizzate ma che continuano a vivere in noi, non necessariamente tutte e tre contemporaneamente, come possibilità latenti di realizzazione individuale e collettiva, a margine della religione istituzionalizzata, del Capitale, dello Stato e di tutte le altri grandi strutture di potere che schiavizzano l’essere umano.
I primi tre capitoli del libro sono dedicati, appunto, a queste tre parole: Islām, anarchia e mistica.
Nel primo si fanno puntualizzazioni che dovrebbero permettere anche ai più scettici di proseguire nella lettura di un libro che tratta un argomento che in tanti hanno evaso con un rapido “Per me l’anarchia è né dio né stato, quindi, discorso chiuso”. Le precisazioni di cui sopra sono passaggi come questo: “Non ci riferiremo […] agli Stati-nazione contemporanei che si qualificano come islamici. Questi ultimi, infatti, hanno tanto a che fare con l’Islām di Muhammad, quanto può averne il cristianesimo di Gesù con i governi dell’imperatore Costantino o del generale Franco. L’utilizzo reazionario della religione è stato una costante nel corso della storia”. O come questo: “Una cosa è l’Islām praticato e vissuto nella comunità profetica di al-Madīna – in cui non esistevano né chierici, né giureconsulti, né dotti, né tribunali, né una legge codificata, né polizie e neanche la benché minima struttura politico-amministrativa –, un’altra cosa è la religione codificata con le sue istituzioni posteriori, sorte da un processo di elaborazione sottomesso alle influenze del potere e ai fattori condizionati di ciascuna epoca”.

Mi viene in mente Simone Weil quando, in Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale pubblicato nel 1934, scrive che “I potenti, siano essi sacerdoti, capi militari, re o capitalisti, credono sempre di comandare in virtù di un diritto divino; e quelli che sono loro sottomessi si sentono schiacciati da una potenza che pare loro divina o diabolica, in ogni caso soprannaturale. Ogni società oppressiva è cementata da questa religione del potere, che falsifica tutti i rapporti sociali permettendo ai potenti di ordinare al di là di ciò che possono imporre […]”.
Nel secondo capitolo si parla di anarchia in un modo che, a mio parere, non fa una piega, ossia di un’ideologia che s’è spesso presentata come confutazione o denuncia di quella politica teatro di rappresentazioni e mascheramenti, una corrente di pensiero distruttrice di tutti quei miti su cui uno Stato fonda il suo potere – patria, razza, morale, religione, proprietà, popolo, famiglia, eccetera –, che predica una forma di vita profondamente etica, imperniata su una visione del mondo e dell’essere umano come creatura integrata della natura, che abbraccia come fratelli gli emarginati – pazzi, prigionieri, vagabondi, prostitute, eccetera – considerandoli più degni di rispetto di re, vescovi, giudici, generali o banchieri. Così come non fa un plissé leggere che l’anarchico trova insopportabile veder afflitto da ingiustizie qualsiasi suo simile e che per questo vive in permanente ribellione, che ritiene l’autorità dello Stato fonte di numerosi mali, un canale attraverso cui l’egoismo di pochi domina al di sopra degli interessi della maggioranza e che tutto ciò prescinde dalla forma in cui lo Stato è governato, può riguardare una dittatura del proletariato, una democrazia parlamentare o un sistema apertamente fascista perché, benché sia indubbio che alcuni Stati siano più benevoli di altri, per l’anarchico lo Stato resta il veicolo mediante il quale altri poteri esercitano il proprio dominio: “Oppressione politica, oppressione culturale, oppressione militare e oppressione economica vanno di pari passo”. Mi ha dato anche soddisfazione leggere che “l’anarchico cerca ciò che è autentico e si allontana da tutto ciò che abbrutisce” e che “l’etica anarchica è piuttosto ascetica: elogia la semplicità e la frugalità, disprezza il lusso e il superfluo”, sì, ammetto d’essermici ritrovato in pieno.
Nel terzo capitolo, quello dedicato alla mistica, si allude al mistero, al fatto che la mistica è segreta proprio perché indescrivibile, “semplicemente” perché i concetti creati dall’essere umano non sono capaci di esprimerla, e questo ci costringe a esprimerci per mezzo di metafore, ossimori, come la musica silenziosa, la luce nera, la quadratura del cerchio. Il mistico è così, fa scoppiare il linguaggio, lo spezzetta alla ricerca di una parola nuova che riesca a descrivere quell’indicibile che s’è fuso nella Realtà. Il mistico fa scomparire le categorie create dall’umano, si libera da un Dio lontano assiso maestoso in trono, un Dio infinito, buono, perfetto, tutto amore, che altro non è che una proiezione delle umane miserie, della nostra cattiva coscienza e delle nostre carenze. Il mistico si distacca dal teologo e dal religioso, anzi, si scontra proprio con l’istituzione religiosa, anteponendo l’esperienza alla credenza. Per contro, in questo stesso capitolo non ci si dimentica di ricordare che la parola misticismo sia apparsa spesso in testi anarchici come sinonimo di irrazionalità e superstizioni, di una religiosità esaltata e lontana da ciò che è sano e ragionevole, rea di mantenere le persone alienate dai problemi economici ed effettivi della vita quotidiana, così come si ricorda quanto l’anarchico sia radicalmente anticlericale e, nella stragrande maggioranza dei casi, antireligioso.
Dopo questi tre capitoli e prima di entrare nel merito, l’autore chiarisce di non pretendere che l’Islām debba essere definito “un anarchismo mistico”, e lo fa sottolineando il fatto che la quarta parola contenuta nel titolo, l’avverbio “come”, ci situa nella dimensione dell’analogia che, come tale, non denota un’identità totale, ma rimanda a una serie di vasi comunicanti che possono giustificare un incontro. Tutto questo è utile anche a immaginare nuove forme di resistenza nel presente, in un frangente in cui la ribellione all’oppressione avviene su scala planetaria e urge cercare punti d’incontro fra mondi che sembrano lontani, perché cercare punti di incontro – pratica sempre più rara di questi tempi che ci vedono continuamente intenti a dividerci, spaccarci, polverizzarci per una minima divergenza, un nonnulla – e pensare a obiettivi condivisi non significa pretendere l’equivalenza, e pazienza se esistono anche aspetti che cozzano tra loro o che possono risultare difficili da conciliare, perché è giusto che ognuno porti avanti la propria battaglia personale ma è bene assicurarsi che tale combattimento acquisisca una dimensione comunitaria, si incontri l’altro: “Vivere come anarchico in mezzo alla società di controllo e dello spettacolo, unirsi ad altri uomini e donne liberi che rifiutano la tirannia, voltare le spalle a tutta la spazzatura al neon con cui ci ipnotizzano, creare spazi liberati al centro di un presente sequestrato”. Senza mai dimenticare un altro concetto fondamentale su cui si regge tutto il Sistema, ossia che questo si nutre di piccole resistenze, desidera lo scontro diretto, la violenza che lo giustificherà agli occhi delle masse, non a caso preferisce arruolarci piuttosto che annientarci.
Ho sempre creduto nell’esercizio del singolo che porta avanti la propria battaglia, la propria rivoluzione, quotidianamente, e al fatto che questa pratica possa risultare più esplosiva di qualsiasi Manuale del rivoluzionario, così come scriveva nel 1999 Raoul Vaneigem nel suo Trattato del saper vivere: “Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che c’è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro si riempiono la bocca di un cadavere. […] La rivoluzione si fa tutti i giorni contro i rivoluzionari specializzati, una rivoluzione senza nome, preparando, nella clandestinità quotidiana dei gesti e dei sogni, la sua coerenza esplosiva”.
In questo periodo storico in cui le grandi corporation – da Apple a Microsoft da Amazon ad Alibaba a Facebook – e i poteri mediatici detengono un’egemonia e una capacità di controllo pressoché illimitate, le forme di resistenza non si manifestano come grandi ideali o progetti di carattere totalitario, bensì come piccole resistenze individuali e comunitarie.
In questo testo che invita alla riflessione e all’apertura interculturale, si parla di emancipazione dell’essere umano da ogni forma di potere o costrizione esterna, di un anarchismo non meramente politico ma visto come un’emancipazione dal politico, un’emancipazione individuale ma non individualista, bensì comunitaria; si parla di incontri con la divinità senza mediazioni né rappresentazioni, di incontri che possono verificarsi nel cuore di ogni creatura; si parla di libertà, di solidarietà fra uguali, di mutuo sostegno, chiudendo così: “L’anarchismo allude alla politica liberata dalla tirannia del potere e il misticismo allude alla spiritualità liberata dalle pastoie delle religione. L’Islām è una sintesi di entrambi”.
Sapevo che mi stavo avventurando in un argomento complicato, oltretutto con la quasi certezza di non avere “competenze” a sufficienza che mi sostenessero, mi guidassero, ma credo sia stato proprio tutto questo a indurmi a leggere queste pagine e a scriverne.
Però qualcosa che avevo fatto mio in passato mi è tornato alla mente, magari non per sostenermi o guidare, ma di certo per essere impastato con quest’ultima mia lettura e aggiunto a quella malta su cui poggio la mia esistenza quotidiana. Mi sono ricordato, per esempio, ciò che aveva scritto nel 1991 Hakim Bey in T.A.Z.: “Proprio come i radicali culturali cercano di infiltrare e sovvertire i media popolari e proprio come i radicali politici producono simili funzioni nelle sfere del lavoro, nella Famiglia e in altre organizzazioni sociali, così c’è bisogno di radicali che penetrino l’istituzione della religione stessa piuttosto che continuare a sputare frasi fatte del XIX secolo a proposito di materialismo ateo”. E anche cosa scrisse nel 1904-1905 Lev Tolstoj in Guerra e rivoluzione: “[i cristiani] si allontanano sempre di più dalla vita cristiana. Il senso della loro dottrina si oscura, ed essi sono arrivati infine alla loro triste situazione attuale: divisione dei popoli cristiani in campi nemici, spendendo tutte le loro forze ad armarsi per essere pronti in qualsiasi momento a dilaniarsi tra di loro. In più: essi hanno provocato l’odio dei popoli non cristiani che si sollevano da ora contro di loro. Infine, e soprattutto, essi sono arrivati alla negazione completa non solo del cristianesimo, ma di tutte le leggi aventi un carattere elevato”.
Mi è venuto in mente Jacques Ellul che riteneva il messaggio biblico capace di delineare un’etica di vita che si oppone alla logica del potere, della violenza e della tecnica; che riteneva l’approccio critico alla modernità non andasse mosso in chiave nostalgica verso un passato perduto, ma guardando al futuro; che vedeva il cristiano impegnato in una vita d’amore e servizio come un essere coraggioso e autentico perché costretto a muoversi controcorrente rispetto ai valori dominanti; che riteneva fondamentale la responsabilità individuale sostenendo che ogni persona ha il dovere di prendere posizione anche attraverso piccoli atti di resistenza per difendere il bene raro e prezioso della libertà.
Dopodiché, sono andato a rileggere un passaggio della postfazione che l’amico don Andrea Gallo scrisse per l’edizione pubblicata nel 2011 dai tipi di Elèuthera, di Anarchia e cristianesimo di Jacques Ellul, appunto: “[…] oggi l’unico modo per parlare di Dio è quello di confrontarsi con una molteplicità di espressioni della fede. I termini «protestante», «agnostico», «cattolico», o anche «anarchico», non contano più. Anni fa, Fabrizio De André mi diceva che secondo lui Madre Natura ci aveva semplicemente dotato di «un quoziente di intelligenza, di un quoziente di creatività e di un quoziente di spiritualità». Ciò che attualmente alcuni antropologi mi sembra chiamino addirittura «punto di Dio». Comunque sia, sono sempre le religioni che vogliono monopolizzare e strumentalizzare la spiritualità”.
Non solo. Lo scorso 1° agosto, mentre al bar leggevo L’Islam come anarchismo mistico, vedo sul tavolino accanto al mio, copia cartacea del quotidiano genovese Il Secolo XIX di quel giorno, e decido di sfogliarla. Mi fermo quando vedo un’intervista di Emanuela Schenone al teologo Vito Mancuso e mi dico che, forse, qualche divinità mi ha suggerito di prendermi una pausa dal libro perché, a poca distanza da me, c’era qualcosa di non estraneo alla lettura che mi stava severamente impegnando.
Fra le tante cose interessanti, Mancuso dice che Dio può rappresentare la via per la liberazione, ma spesso può essere a sua volta una trappola perché la coscienza religiosa potrebbe essere la più pericolosa trappola dentro cui un essere umano può capitare se diventa chiusura, estremismo e che, all’opposto, può essere una sorgente di consapevolezza e di liberazione. Dice che la differenza sta nel modo in cui vengono vissute queste coscienze, che gli esempi più clamorosi li troviamo nei fanatismi dei nostri giorni nati da quella diabolica connessione di religione e politica che rappresenta, appunto, una trappola.
Il teologo aggiunge che molte persone ritengono la religione la cosa più importante in assoluto, che tutto debba essere al suo servizio e che ciò porta all’intolleranza, mentre invece dovremmo capire che c’è qualcosa di più importante, che è l’etica, e che le religioni si dovrebbero porre al servizio di un’etica mondiale “facendo pulizia in casa”, cercando di capire quali sono state le ragioni del fallimento che non sono riconducibili solo all’imperfezione umana, ma anche all’imperfezione della religione in se stessa, e qui ricorda come alcune pagine della Bibbia ebraica siano cariche di odio e violenza e come queste possano generare odio e violenza in chi legge e le ritiene parole di Dio, “e lo stesso vale per il Corano e per il Nuovo Testamento”.
Mancuso pensa che Dio sia dentro di noi e che quando rispondiamo a quella domanda di bene, bontà e bellezza che nasce in noi, stiamo facendo il più grande atto di culto possibile, e che questa voce della coscienza possiamo benissimo chiamarla Dio, ma che va bene lo stesso se qualcuno vuole chiamarla in un altro modo perché la sostanza non cambia.
Il teologo parla anche di consapevolezza, della capacità di saper riconoscere che non siamo liberi, che viviamo in trappola l’intera nostra vita, e che la trappola è lo stato di prigionia in cui tutti ci troviamo, una condizione che costringe a correre indipendentemente dalla nostra volontà sul tapis roulant dell’esistenza che procede verso un destino che non abbiamo scelto.
Questa trappola, questa prigionia, questo nostro Dio interiore che a un certo punto della nostra Storia abbiamo deciso di porlo in alto nei Cieli trasformandolo in una specie di super-eroe onnipresente, onnipotente e onnisciente, potrebbe non essere altro che l’umana risposta a un forte bisogno dell’Uomo per salvarsi dal nulla che è; lo spiega meglio di me Simone Weil ancora nel suo Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale: “Il corpo umano non può in alcun caso smettere di dipendere dal potente universo di cui è prigioniero; quand’anche l’uomo non fosse più sottomesso alle cose e agli altri uomini attraverso i bisogni e i pericoli, egli ne sarebbe ancora più completamente preda a causa delle emozioni che lo assillerebbero di continuo e da cui nessuna attività regolare potrebbe più difenderlo”.
Sapevo che mi stavo avventurando in un argomento complicato con la quasi certezza di non avere “competenze” in grado di guidarmi, aiutarmi in questa navigazione fra marosi che mi spaventano, sotto un cielo senza stelle, e infatti non è andata benissimo: mi sono perso nel potente universo che ci circonda, ci imprigiona, ci intrappola ma, potrete anche non credermi, l’attuale mio naufragio m’è dolce in questo mare.

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Istvàn ovvero una vita come tante https://www.carmillaonline.com/2025/11/28/istvan-ovvero-una-vita-come-tante/ Fri, 28 Nov 2025 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91257 di Anna Da Re

David Szalay, Nella carne, tr. it. Anna Rusconi, Adelphi, pp. 330, euro 20 stampa, euro 10,99 epub

Che libro bellissimo, questo Nella carne di David Szalay. Lo dico subito perché non è una cosa che capita spesso, di leggere un romanzo che, dopo che lo abbiamo finito, ci rivisita con piccoli squarci di comprensione, ci si riaffaccia alla memoria con frasi di eccezionale chiarezza, o ci risveglia sensazioni dimenticate. D’altro canto Nella carne (Flesh nell’edizione originale) è il vincitore del Booker Prize 2025, e alla presentazione milanese, a cui ero felicemente presente, Szalay aveva come partner Marco Balzano. Tutti segnali di buon auspicio.

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di Anna Da Re

David Szalay, Nella carne, tr. it. Anna Rusconi, Adelphi, pp. 330, euro 20 stampa, euro 10,99 epub

Che libro bellissimo, questo Nella carne di David Szalay.
Lo dico subito perché non è una cosa che capita spesso, di leggere un romanzo che, dopo che lo abbiamo finito, ci rivisita con piccoli squarci di comprensione, ci si riaffaccia alla memoria con frasi di eccezionale chiarezza, o ci risveglia sensazioni dimenticate.
D’altro canto Nella carne (Flesh nell’edizione originale) è il vincitore del Booker Prize 2025, e alla presentazione milanese, a cui ero felicemente presente, Szalay aveva come partner Marco Balzano. Tutti segnali di buon auspicio.

Nella carne è la storia di István, che incontriamo quindicenne in una piccola città ungherese, e che seguiamo nel corso di una vita che forse è una vita come tante, che si svolge tra l’Ungheria e Londra, e che è avventurosa e normale, ricca e vuota, fortunata e disgraziata. István parla poco, la parola che pronuncia con più frequenza è okay. Il corpo , la carne, sono il suo modo di esprimersi, di interagire con gli altri, di essere contento e di soffrire. Non ci viene mai descritto, István, non sappiamo se è biondo o moro, alto o basso, bello o brutto. Possiamo immaginarci che sia piuttosto forte, visto che a un certo punto della sua vita lavora nella sicurezza. Possiamo anche immaginare che sia seducente, attraente, perché i suoi incontri cominciano e finiscono con il sesso. Sesso piuttosto crudo, silenzioso, essenziale. Sesso che serve a comunicare in tutte le situazioni in cui mancano le parole. Sesso che avvicina, scalda, consola.
Dal primo incontro con una donna molto più grande di lui alla relazione con Helen, István cresce e diventa un uomo, si trasferisce dall’Ungheria a Londra, diventa ricco e diventa padre. Poi un incidente interrompe il flusso della vita, porta una devastazione in cui tutto viene perso e si torna al punto di partenza, e in Ungheria. Gli “okay” che István pronuncia nel corso della sua vita sono ognuno diverso dall’altro, ed è sorprendente come una sola parola possa assumere significati così diversi e variegati. Gli okay sono il suo accettare la vita e quello che succede come inevitabile e fuori dalla nostra portata.

Szalay afferma di avere creato deliberatamente un protagonista non politicizzato, che non ha valori che gli permettano di schierarsi da una parte o dall’altra, che si fa attraversare e passare sopra dalla storia, proprio come simbolo di uno smarrimento storico e sociale, di un disagio interiore profondo, non esprimibile ma sempre presente in ogni gesto. Dall’Ungheria a Londra e ritorno, dal crollo della cortina di ferro alla pandemia, passando per la seconda guerra del Golfo e l’ingresso nell’Unione Europea dei Paesi dell’ex blocco sovietico, la storia determina e modella la vita di István come quella di chiunque, in modo concreto e tangibile e indipendentemente dai comportamenti o dalle attitudini che si possono avere.
La scelta di affidare alla fisicità il racconto della vita di István, il predominio del corpo sui pensieri, che non vengono mai descritti o analizzati, il sesso come modo di entrare in rapporto con gli altri, se in un primo momento fanno pensare alla mancanza di una dimensione psicologica, poi di fatto risultano avere l’effetto opposto. Come lettori, siamo vicini a István fin dalle prime righe. Viviamo con lui con la stessa sua intensità, restiamo sbalorditi di fronte agli improvvisi cambiamenti della vita, ci sentiamo come lui in balia degli eventi e sballottati senza poter far nulla, meno che mai scegliere. E non sentiamo l’esigenza di analizzare i motivi, di chiederci da dove vengono certi comportamenti. Perché ci rendiamo conto che ogni altra persona è inconoscibile, anche noi siamo per molti versi opachi a noi stessi, e quello che possiamo fare è guardare, osservare, e partecipare silenziosamente dei drammi altrui. Forse avvicinarci in un abbraccio. Forse dire “okay” e fare quel che bisogna fare. Dice lo stesso Szalay che non voleva mettere in scena un personaggio che si autospiegasse, come facciamo noi in continuazione, fino a perdere il senso di quello che siamo, cioè umani e animali al tempo stesso. Troppo spiegarsi tende a mascherare la vera umanità, che è anche animalità, che è Nella carne. Non a caso questo titolo, che era all’inizio quello di lavorazione del romanzo, poi è rimasto. Non se ne poteva trovare uno che esprimesse meglio quello che viene raccontato.

Ci sono molti silenzi, nella vita di István e nel libro. Dice Szalay nel suo incontro pubblico a Milano, che tutto il romanzo è un tentativo di avvicinarsi al silenzio. I dialoghi sono realistici e reali, non sono un modo per introdurre dei contenuti a cui l’autore tiene. Sono la rappresentazione della realtà, quegli scambi vuoti e inconcludenti, che girano a vuoto, che pratichiamo abitualmente nella vita, che a volte hanno anche un effetto comico. Ma soprattutto i dialoghi sfiorano il silenzio, così difficile da raccontare ma così importante anche nella letteratura.
Concludo dicendo che alla presentazione l’atmosfera era bellissima, perché le parole di Marco Balzano erano ricercate (nel senso letterale, di avere scelto accuratamente quelle più adatte) e precise, quelle di David Szalay erano inglesi ma ben tradotte da Sonia Folin, ed erano tutte parole nate da una necessità, interiore e di comunicazione e condivisione.

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La Sinistra Negata 06 https://www.carmillaonline.com/2025/11/27/la-sinistra-negata-06/ Thu, 27 Nov 2025 22:54:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91644 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. (Seconda parte)

2. I FATTORI SOGGETTIVI.

Malgrado quanto si è detto, non ci si deve illudere che il crollo subito dalla sinistra di classe nel corso degli anni Ottanta sia stato dovuto in via esclusiva all’iniziativa dell’avversario. La storia delle classi subalterne italiane e delle loro espressioni organizzate ha [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. (Seconda parte)

2. I FATTORI SOGGETTIVI.

Malgrado quanto si è detto, non ci si deve illudere che il crollo subito dalla sinistra di classe nel corso degli anni Ottanta sia stato dovuto in via esclusiva all’iniziativa dell’avversario.
La storia delle classi subalterne italiane e delle loro espressioni organizzate ha conosciuto momenti di repressione più dura (anche se non sotto il profilo della mistificazione ideologica, oggi acuta quanto mai in passato) senza che ciò comportasse un vero e proprio salto generazionale, né il formarsi di un drammatico vuoto di memoria.
È nostro avviso che, se ciò è avvenuto, la causa vada ricercata anche in debolezze interne, che hanno dettato reazioni sbagliate e confuse a quanto stava accadendo. Cercheremo di esaminare brevemente alcuni dei comportamenti dannosi e autolesivi che hanno consentito alla repressione di colpire tanto in profondità.

Durante l’emergenza.
Alla fine degli anni Settanta la sinistra rivoluzionaria coltiva un senso di potenza rasentante l’illusione dell’invincibilità. Non vi è scuola, non vi è quartiere, non vi è grande fabbrica, nelle maggiori città italiane, in cui non si respiri aria di insubordinazione. Inoltre il ’77 ha instaurato forme di socialità e
di aggregazione in gran parte sconosciute al ’68. È possibile vivere assieme, come una grande tribù, riducendo al minimo i contatti con la società “esterna”. Per molti resta indimenticabile l’enorme corteo che alla fine del 1977 si è mosso attraverso Bologna, a conclusione del convegno sulla repressione, e la sensazione respirata nei giorni precedenti di potersi quasi impadronire di una intera città.

In realtà, il potere non è stato nemmeno scalfito in nessuna delle sue strutture, per quanto terreno abbia perso nel controllo delle culture e del comportamenti. Di ciò ci si rende conto solo dopo il “caso Moro”, allorché ha inizio la repressione sistematica ed indiscriminata. La reazione di molti è la sorpresa, cui segue lo sbandamento, e anche le iniziative di autodifesa frettolosamente approntate sono del tutto inadeguate all’ampiezza dell’attacco avversario. Eppure la sopravvalutazione delle proprie forze, e la sottovalutazione delle forze altrui – primo degli errori che ci preme segnalare – continuano ad operare per alcuni anni ancora. Lo si vede allorché, nel 1980-81, inizia il grande “dibattito”  (se cosi si può chiamare) sull’amnistia.

Alcuni compagni (in particolare quelli che fanno capo alla rivista romana Assemblea, e molti di coloro che hanno trovato rifugio all’estero) vedono l’amnistia generalizzata, frutto di una campagna indirizzata in tal senso, quale soluzione del problema di quell’enorme fetta di movimento che da un paio d’anni popola le carceri italiane. Altri la giudicano invece uno sbocco di tipo riformistico, equivalente a un cedimento, e propongono una via d’uscita intermedia: una mobilitazione collettiva perché ai detenuti politici vengano concessi gli arresti domiciliari, quale premessa per una liberazione non patteggiata. Vi è infine chi ritiene riformistiche e perciò negative entrambe le soluzioni precedenti e, pur non appoggiando l’area delle formazioni armate, sostiene che la liberazione dei detenuti politici potrà risultare solo da un’azione di forza. Giudicate oggi, simili discussioni appaiono francamente demenziali, perché ispirate a una premessa demenziale: quella che il potere fosse tanto debole da concedere amnistie, arresti domiciliari o da tollerare soluzioni di forza, e la sinistra rivoluzionaria ancora tanto possente da poter imporre l’una o l’altra delle alternative.

L’esperienza degli anni successivi ha poi dimostrato che il potere é disposto ad attenuare l’emergenza e a concedere qualche brandello delle libertà sospese solo quando è ben certo di avere ridotto all’impotenza i propri antagonisti; ma l’eccessiva fiducia in se stessa che la sinistra di classe manteneva nei primi anni Ottanta la induceva a ignorare questa verità lapalissiana, dividendosi sull’opportunità di concessioni date per già acquisite, ma che nessuno era in realtà disposto ad accordare a titolo di pura elargizione.

Simile distorsione percettiva è in parte riconducibile ad un secondo errore in cui la sinistra di classe incorre negli anni bui, anche se non del tutto volontariamente. Gli arresti in massa e la presenza di tanti militanti in carcere fanno si che la tematica carceraria assorba quasi totalmente l’attenzione del compagni, rimasti in libertà, a scapito di ogni altro terreno d’intervento. Ciò è largamente comprensibile e dettato da uno stato di obiettiva necessità; questo non toglie che, sfogliando oggi le riviste di allora, si rimanga perplessi notando che il problema carcerario sovrasta praticamente tutti gli altri, che appaiono semplici appendici di quello.

L’errore di prospettiva consiste nel fatto che la situazione dei militanti incarcerati sarebbe stata di gran lunga migliore (e lo sarebbe ancor oggi) se il movimento si fosse mosso con decisione nella società, continuando la propria crescita e comunque mantenendo le posizioni già acquisite; invece la sinistra rivoluzionaria rimane immobile e con lo sguardo fisso sulle pareti delle prigioni, dove sono sì rinchiusi i compagni migliori, ma dove le possibilità di espansione sono pressoché inesistenti. Ciò fa sì che i detenuti, nel volgere di pochi anni, sentano provenire dall’esterno solo un silenzio via via più compatto, mentre chi è rimasto fuori paga le conseguenze dell’aver assunto una posizione meramente difensiva.

Ma l’indebolimento delle forze ancora libere di agire discende anche dall’incomprensione della nuova configurazione che la società sta assumendo. La sinistra rivoluzionaria, e in primo luogo quella di matrice operaista aveva a suo tempo dato scacco alla sinistra istituzionale analizzando e anticipando con enorme lucidità i processi di trasformazione che si stavano avviando: ristrutturazione industriale, diffusione a macchia d’olio del precariato, emergenza di un nuovo proletariato territoriale, e così via. Un’occhiata a riviste come Classe quaderni sulla condizione e sulla lotta operaia, Primo Maggio, Metropoli, Quaderni del Territorio, Magazzino, ecc. può confermarlo. Quando però quei processi assumono ritmi vertiginosi e si impongono all’attenzione di tutti, se l’analisi resta abbastanza lucida, la capacità di muoversi con disinvoltura nel nuovo contesto viene progressivamente meno.

Vi è chi dà per liquidata la classe operaia e si rivolge in via esclusiva ai “nuovi soggetti sociali”, senza tener conto che questi ultimi hanno per forza di cose un grado più attenuato di autoconsapevolezza e non sono facilmente mobilitabili come un corpo unico; vi è, di converso, chi si aggrappa ad una centralità operaia che le cronache si incaricano quotidianamente di smentire, parlando linguaggi che già negli anni Sessanta cominciavano ad essere obsoleti; vi è chi continua a ripetere che “precario è bello”, quando il precariato che ha sotto gli occhi è frutto non di una scelta, ma di un’imposizione padronale; vi è chi parla ancora di “rifiuto del lavoro” senza preoccuparsi di precisare il significato dell’espressione, urtando nell’incomprensione di chi vede che è il padrone che gli rifiuta il lavoro.

Errori generosi e ampiamente giustificabili, che tuttavia denunciano un progressivo scollamento dal reale e un venir meno della capacità di rappresentarlo. Il terzo errore capitale della sinistra rivoluzionaria, negli anni in cui la repressione è ancora al culmine, è dunque quello di smarrire una visione lucida della propria matrice sociale, liquidando vecchi soggetti senza trovarne di nuovi, o abbarbicandosi a referenti che da tempo hanno smarrito ogni ruolo protagonistico. Il tutto nel contesto di azioni di lotta di breve respiro (micro-agitazioni studentesche, occupazioni di case, ecc.) che nella loro frammentarietà e sporadicità rivelano l’assenza di una benché minima proiezione progettuale, e che non hanno risonanza alcuna al di fuori dello spazio limitatissimo (scuola, quartiere) in cui hanno luogo.

La microconflittualità costituisce, infatti il quarto errore fondamentale della sinistra rivoluzionaria. Si inseguono momenti di scontro prescindendo totalmente dal loro valore strategico, dal loro potenziale di continuità, dalla loro capacità di contagio. L’occupazione di un vecchio immobile, indifferente a tutti salvo che al proprietario, viene spacciata come trionfo della lotta di classe; l’incendio di un cassonetto della spazzatura assurge al rango di guerriglia urbana; un modesta autoriduzione in una mensa universitaria diviene momento esaltante di illegalità di massa.

Col tempo, anche queste pallide caricature degli espropri e delle ronde proletarie degli anni Settanta finiscono col rarefarsi e con lo scomparire quasi del tutto; sia per le repressioni che innescano, sproporzionate al pretesto, sia perché senza disegno politico forte che le sorregga tutte le forme di azione diretta non sono che materia per trafiletti nella cronaca locale. Ma chi si preoccupa più di manifestare una progettualità politica, quando si oscilla tra l’iperattivismo insensato e l’inazione, mentre la riflessione approfondita è delegata ai compagni in carcere o investe quasi esclusivamente il carcere?

E qui subentra il quinto errore capitale, vale a dire la scarsa cura per la propria immagine. Cortei sempre più striminziti lanciano slogan sempre più truculenti, nella speranza che facciano vibrare d’entusiasmo le masse derelitte e affamate. Si stenta a comprendere che parole d’ordine efficaci pochi anni prima risultano incomprensibili nel nuovo contesto socio- culturale, e servono solo ad isolare e ad annebbiare l’identità reale di chi continua a ritenerle veicolo per dimostrare di essere più a sinistra di chiunque altro.

Assai giustamente, negli anni di più dura repressione il movimento ha rifiutato di prendere le distanze dai partiti armati, ritenendoli comunque più vicini a se stesso dell’avversario di classe. Ma rifiutare di denigrare l’identità altrui, per quanto pericoloso e letale sia questo rifiuto dettato da coerenza politica ed umana, non può voler dire rinunciare ad affermare l’identità propria. Invece è questo che si finisce col fare, nell’illusione che una chiarezza predominante al proprio interno sia condivisa dall’intero corpo sociale. Il che significa trascurare il fatto che quest’ultimo è condizionato da forze che hanno tutto l’interesse ad alimentare la confusione e a fare il vuoto attorno agli antagonisti spacciandoli per “fiancheggiatori”.

Nella post-emergenza.
Alcuni degli errori citati vengono corretti man mano che ci si inoltra negli anni Ottanta. Ma il terreno perduto é molto ed è difficilmente riconquistabile, anche perché il potere è nel frattempo passato dalla pura repressione alla colonizzazione delle coscienze.
La sinistra di classe è stata drammaticamente ridimensionata, tanto che è sempre più difficile riferirsi a essa come a un “movimento”; le sue idee circolano poco e male, raggiungendo solo ambiti limitatissimi e per lo più privi di una spiccata fisionomia sociale; il reclutamento di nuovi militanti si è pressoché interrotto, e comunque non è tale da garantire un ricambio.
Dato che è il momento delle realtà frammentarie, isolate le une dalle altre o con contatti solo sporadici (salvo specifici spezzoni coordinati tra loro) non è più possibile individuare errori comuni a tutti. Esistono però comportamenti erronei abbastanza diffusi da poter essere indicati come caratteristici della fase, sebbene non manchi chi si sottrae ad essi e muove verso diverse prospettive.

Bologna, proteste in Piazza Verdi contro la privatizzazione all’interno della mensa universitaria. Foto di Luciano Nadalini

Il primo di questi comportamenti è l’auto-ghettizzazione. Il potere è riuscito a costringere la sinistra rivoluzionaria entro spazi limitatissimi e ben individuati, separandola con un cordone sanitario da buona parte della società circostante. Una tendenza negativa che si manifesta spesso è quella di adattarsi a vivere e a muoversi entro questi perimetri ristretti, non avendo occhi che per ciò che accade al loro interno e perdendo quindi la corretta percezione del reale.
Nascono modi di fare, di esprimersi, di agire indecifrabili per chiunque non sia interno al gruppo, al clan, alla tribù; l’attenzione rivolta al collettivo rivale supera quella dedicata alle forze concrete che agiscono nella società; ci si crogiola nella propria “diversità” senza accorgersi che attorno nessuno la nota.

L’esito peggiore che simile distorsione prospettica può avere è quello di illudersi di mantenere una dimensione politica, mentre si è solo un gruppo di amici o poco più. E come dei topi chiusi in una piccola gabbia finiscono col divorarsi a vicenda, così buona parte della propria aggressività viene rivolta verso chi sta più vicino, e distolta dall’avversario reale. I tentativi di incontro e di confronto della seconda metà degli anni Ottanta finiscono in risse e lacerazioni molto più spesso di quanto avvenisse nel passato decennio, quando la posta in gioco era ben maggiore e i motivi di divisione ben più concreti. Non ci si rende conto che uno sguardo proveniente dall’esterno del ghetto evidenzierebbe le similitudini ed attenuerebbe le differenziazioni. Se accade il contrario è solo perché si è incapaci di guardare oltre le pareti che il potere ha costruito perché il movimento antagonista vi restasse intrappolato.

In genere, anche chi ha ben chiare le dimensioni dell’emorragia subita tende a comportarsi come se nulla fosse stato; e vedendo che un simile atteggiamento non produce risultati, riduce pian piano le dimensioni e le ambizioni della propria militanza, fino a fare di nuclei un tempo combattivi altrettanti CRAL perfettamente adattati all’esistente e a cui manca solo il biliardo per consacrarli regni della noia.

Le puntate precedenti le trovate: 01 qui, 02 qui, 03 qui, 04 qui e 05  qui

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Virus letale https://www.carmillaonline.com/2025/11/26/virus-mortale/ Wed, 26 Nov 2025 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91113 di Sandro Moiso e Jack Orlando

La parola è ora un virus. Una volta forse il virus dell’influenza era una cellula polmonare sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia i polmoni. Una volta forse la parola era una cellula neurale sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno ha perso la facoltà di scegliere il silenzio. (William S.Burroughs – Il biglietto che esplose, 1962)

Chissà se Ari Aster, quando ha iniziato a progettare Eddington, ha riflettuto sulle parole di William Burroughs inscritte in uno dei testi imprescindibili della [...]]]> di Sandro Moiso e Jack Orlando

La parola è ora un virus. Una volta forse il virus dell’influenza era una cellula polmonare sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia i polmoni. Una volta forse la parola era una cellula neurale sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno ha perso la facoltà di scegliere il silenzio. (William S.Burroughs – Il biglietto che esplose, 1962)

Chissà se Ari Aster, quando ha iniziato a progettare Eddington, ha riflettuto sulle parole di William Burroughs inscritte in uno dei testi imprescindibili della letteratura americana della seconda metà del ‘900. Il film, di cui Aster aveva scritto la sceneggiatura ancora prima di esordire nel 2018 con Hereditary – Le radici del male, amplia infatti l’intuizione di Burroughs ben oltre il linguaggio vocale per adattarla all’odierna trasformazione antropologica seguita alla diffusione dei social media e delle tecnologie digitali. Una diffusione virale di cui la pandemia da Covid 19, che fa da sfondo al film, ambientato nel 2020, non può che costituire l’ovvia metafora.

La trama, sostanzialmente, è riassumibile in poche righe. Nel maggio del 2020, nel pieno esplodere del Coronavirus, delle proteste organizzate da Black Lives Matter per la morte di George Floyd a Minneapolis e della campagna elettorale per le elezioni presidenziali del novembre dello stesso anno, la cittadina di Eddington, nel Nuovo Messico, sale agli onori della cronaca quando una disputa tra l’asmatico e conservatore sceriffo Joe Cross (interpretato da Joaquin Phoenix) e il sindaco finto-progressista Ted García (Pedro Pascal) degenera rapidamente in un tragico bagno di sangue, mettendo gli abitanti gli uni contro gli altri.

Definito come un “western contemporaneo” il film è, invece, ascrivibile a quello che sta diventando rapidamente un vero e proprio genere per il cinema statunitense: quello della “guerra civile” strisciante o che viene. A differenza però dell’altrettanto recente Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson, rifiuta l’ambientazione ucronica, che già aveva caratterizzato anche Civil War di Alex Garland (2024), per inserirlo in un contesto sociale, storico e politico ben definito, dove fa spesso capolino il volto di Trump. Dando così origine a qualcosa che si potrebbe definire come una sorta di neo-realismo dell’era della comunicazione digitale.

Il regista, nato nel 1986 a New York, si è sempre mosso tra atmosfere horror, dark e noir, di cui costituiscono una significativa testimonianza i precedenti Hereditary (2018), Midsommar – Il villaggio dei dannati (2019) e Beau ha paura (2023). Ma questa volta, pur non attenuando il gusto per il noir e la violenza esplicita, prova a sviluppare un discorso, così come ha spiegato in un’intervista ai «Cahiers du cinéma», su come la diffusione degli smartphone, dei social media e dell’Intelligenza Artificiale abbia finito col dare vita ad un mondo caratterizzato da una sorta di iper-individualismo di massa in cui nessuno sembra essere più d’accordo sul concetto di “reale” o, perlomeno, su quelli che sono, o dovrebbero essere, gli elementi che costituiscono concretamente la “realtà”.

Non a caso, sullo sfondo delle vicende troneggia la proposta di costruzione nelle vicinanze della cittadina posta ai margini del deserto, e già afflitta dalla siccità, di un enorme data center. Un data center vorace di acqua ma, secondo i promotori dell’iniziativa, sindaco Garcia in testa, necessario a riportare la prosperità (se non la modernità) in un contesto economico e sociale in cui la pandemia, con tutte le sue restrizioni, sembra aver dato il colpo di grazia.

Intorno a tutto questo, però, si muovono non soltanto gli appetiti economico-produttivi della ditta specializzata in gestione dati ma anche le speranze di una parte dei cittadini, le paure dei complottisti, la volontà di riscatto di uno sceriffo debole attanagliato dai suoi fallimenti, dalle sue paure e dalle preoccupazioni per una moglie mentalmente instabile (interpretata da Emma Stone), la pervasività di una farlocca moralità di origine religiosa e le denunce degli abusi sessuali su bambini e adolescenti in loco e nell’intera America dei cinquanta stati.

Si muove la politica con la campagna trumpiana per la Casa Bianca e i giovani Antifa che promuovono manifestazioni e confusi disordini in seguito alla morte di George Floyd. Con parole d’ordine e slogan che spesso appaiono grotteschi, come quelli che riguardano una “bianchezza” che, da metafora universale delle diseguaglianze di classe, genere e razza, si tramuta in discorso assoluto da realizzare individualmente.

Con tutto il seguito, ridicolmente pomposo, di autodenunce, scuse, vittimismo e rimozione della storia portate poi parzialmente a compimento dai movimenti della cancel culture1 che proprio nel 2020 esplodeva definitivamente e di cui, in qualche modo, in tempi recenti Donald Trump ha approfittato ribaltandone il significato, per proporre la rimozione dai 21 musei e dai 14 centri di ricerca dello Smithsonian Institute i riferimenti ritenuti eccessivi e fuorvianti alla schiavitù negli Stati Uniti, in occasione del 250esimo anniversario della nascita dello Smithsonian. Una revisione orientata a “ristabilire verità e sanità nella storia americana”. Un’iniziativa tesa, sempre secondo il presidente, “ad assicurare l’allineamento con la direttiva di celebrare l’eccezionalismo americano, rimuovere narrative divisive e di parte e ristabilire la fiducia nelle nostre condivise istituzioni culturali” (qui).

Un atteggiamento che, sempre secondo quanto ha dichiarato il regista ai «Cahiers», rivela le responsabilità della sinistra che a partire dagli anni Sessanta, stanno alla base delle distorsioni destinate a dare vita a molte teorie complottiste, che si ritengono oggi patrimonio della destra populista degli Stati Uniti e non soltanto. Ma che, ancor prima di costituire un discorso di propaganda, rappresentano l’esternazione di una società che ha perso i suoi punti di riferimento, materiali e simbolici, e con essi la capacità di tenere insieme le persone, che vanno ora cercando nuovi cardini nelle verità più assurde, senza alcuna capacità di confrontarsi su un terreno comune.

Una società del piagnisteo, dell’autocompatimento e dell’autocommiserazione, in cui tutti trovano sfogo e motivi di rivincita, grazie soprattutto alle tempeste che si scatenano a partire dai social media e dal loro uso ossessivo. Fornendo parole d’ordine vuote quanto roboanti e “cause” pret-a-porter a tutte le parti in causa.

Così, se le tematiche del western classico sono spesso indirizzate nella direzione della fondazione di nuova società, dell’invenzione di una legge di fronte all’anarchia sociale, con il deragliamento dei social media prima e l’avvento dell’intelligenza artificiale poi ci si trova di fronte a una specie di “nuova frontiera”. In cui le immagini generate dall’intelligenza artificiale, ormai virulente come le parole di cui sopra, sono quelle destinate a “dirigere tutto” come un tempo si pensava della classe operaia. Anche se, come afferma ancora lo stesso Aster, tutto ciò non è normale, ma semplicemente demenziale.

Esattamente come succede nel caso di Joe Cross, non un autentico villain o principe del male, ma, piuttosto, un fallito in tutti gli aspetti della vita (lavorativi, umani e affettivi) che, nelle distorsioni prodotte dai video e dalle foto pubblicate su Instagram, “trova la forza” per affrontare e risolvere le cause dei suoi mali, più che di un unico male.

Tutti elementi cui si aggiungerà, nel granguignolesco finale che altro non potrebbe essere in una società che letteralmente affoga tra le armi, l’arrivo di un presunto commando di suprematisti bianchi sotto copertura, a bordo di un jet privato che determina il definitivo abbattimento del muro tra finzione e reale, tipico della mente paranoide che sembra governare il comportamento sociale (non solo) americano. Probabilmente convocati dalla stessa agenzia risoluta a realizzare il grande data center di Eddington, nonostante l’apparente progressismo dei suoi intenti, per innaffiare l’incendio tutt’altro che latente con un’ultima tanica di benzina.

Un film dunque ad elevato grado di ottani, confusione, violenza e follia che lascia lo spettatore frastornato, stordito dal flusso degli eventi, delle immagini e delle parole trasmesse da smartphone e computer portatili. Sfondo uditivo permanente, che molesta ogni interazione e frantuma ogni silenzio in modo ossessivo. Un gioco di rinvii in cui le immagini prodotte dall’AI e i discorsi deliranti diventano normali e facilmente spendibili. Per qualsiasi causa. Un autentico virus, mortale e irrefrenabile allo stesso tempo.

Lo spettatore esce confuso anche in virtù di una colonna sonora minimale, curata da Bobby Krlić, alla sua terza collaborazione con Aster, dopo Midsommar e Beau ha paura, insieme a Daniel Pemberton. In cui oltre ai suoni si mescolano, quasi costantemente, le voci degli utenti dei servizi digitali. In una cacofonia che risulta poter essere l’unica colonna sonora possibile per una guerra civile sicuramente in arrivo, ma priva di alcuna linea di condotta. Sia politica che di classe.

Un film spiazzante e frastornante, e per questo assolutamente riuscito, che con il lungo fermo immagine che accompagna i titoli di coda rivela chi o cosa, almeno sul momento, è davvero uscito vincitore dallo scontro feroce e insensato che lo ha percorso dall’inizio alla fine.


  1. Si veda in proposito: C. Rizzacasa D’Ortogna, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Gius. Laterza e Figli S.p.a., Bari-Roma 2022.  

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Quando la fantascienza proviene dall’ucronia https://www.carmillaonline.com/2025/11/25/quando-la-fantascienza-proviene-dallucronia/ Tue, 25 Nov 2025 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91661 di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Eugenio Barzaghi, L’uomo dall’altro mondo. Fantascienza di un’Italia [im]possibile, Machina Libro / DeriveApprodi, Bologna, 2025, pp. 96, euro 12,00.

Immaginiamo un’Italia appartenente ad una dimensione alternativa, in cui negli anni Sessanta avviene un colpo di Stato militare; d’altra parte, se guardiamo alla storia di quegli anni (con il Piano Solo del 1964 e il tentativo del golpe Borghese del 1970), era ciò che sarebbe anche potuto succedere. Siamo quindi proiettati in una vera e propria ucronia, una immaginifica e possibile direzione degli eventi storici diversa rispetto a quella reale. L’aspetto più interessante del recente, godibilissimo libretto [...]]]> di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Eugenio Barzaghi, L’uomo dall’altro mondo. Fantascienza di un’Italia [im]possibile, Machina Libro / DeriveApprodi, Bologna, 2025, pp. 96, euro 12,00.

Immaginiamo un’Italia appartenente ad una dimensione alternativa, in cui negli anni Sessanta avviene un colpo di Stato militare; d’altra parte, se guardiamo alla storia di quegli anni (con il Piano Solo del 1964 e il tentativo del golpe Borghese del 1970), era ciò che sarebbe anche potuto succedere. Siamo quindi proiettati in una vera e propria ucronia, una immaginifica e possibile direzione degli eventi storici diversa rispetto a quella reale. L’aspetto più interessante del recente, godibilissimo libretto di Daniele Comberiati ed Eugenio Barzaghi, uscito per Machina Libro / DeriveApprodi, è quello di presentarci quasi un’ucronia dentro un’altra ucronia: gli autori allestiscono infatti un vero e proprio saggio documentaristico sul cinema di fantascienza italiano prodotto sotto il regime militare fra anni Sessanta e Settanta. Si tratta di un cinema possibile, come d’altronde la stessa Italia raccontata, in cui il prefisso “in” è posto fra parentesi quadre.

Cerchiamo quindi di capire cosa è avvenuto, secondo i due autori, in quest’Italia «[im]possibile»: il 6 gennaio 1965 ha buon esito un colpo di stato militare guidato da Giovanni Paoloni, consulente del Ministero dell’Interno, coadiuvato dai servizi segreti. La sera stessa gli Stati Uniti appoggiano e riconoscono il governo formato da Paoloni, il quale diventa presidente della Repubblica acquisendo un potere esecutivo inedito. Non si tratta di un nuovo ventennio mussoliniano – come avvertono anche gli autori – ma di un potere autoritario gestito in modo più sottile, come è avvenuto nelle dittature dell’Europa meridionale di quegli anni (Spagna, Portogallo, Grecia). Il libro, nelle pagine iniziali, offre una cronologia degli accadimenti di natura politica e sociale avvenuti sotto la giunta Paoloni in cui si mescolano eventi reali e inventati: ad esempio, il disastro di Seveso nel 1976 al quale si aggiungono però altre tre fabbriche che rilasciano diossina, un nuovo Piano Marshall approntato dagli Stati Uniti per sostenere l’Italia, l’esondazione dell’Arno nel 1966, il ritiro di Moro dalla scena politica e il Partito comunista dichiarato come illegale (i cui membri sono costretti a andare in esilio in Francia), un terrorismo anti-regime che proviene soprattutto dal Meridione, la completa assenza nel Paese di qualsiasi manifestazione legata al ’68, un Grande Piano Energetico Nazionale che promuove e incentiva l’energia nucleare. Vengono anche nominati dei personaggi reali legati alla cultura e allo spettacolo come, ad esempio, Luigi Tenco (nell’Italia ucronica il suo suicidio diventa un omicidio imputato a dei terroristi anarco-comunisti), Umberto Eco, Emilio de Rossignoli, Pier Vittorio Tondelli, Lucio Villari mentre manca del tutto la presenza di un intellettuale significativo di quel periodo come Pasolini: forse, chissà, eliminato e fatto sparire dalla stessa giunta Paoloni prima che nel mondo reale del 1975 venisse massacrato e ucciso e ai giorni nostri trasformato in un’icona-giocattolo utilizzabile anche dai post-fascisti.

Quest’Italia «[im]possibile» è però anche “possibile” e vengono in mente diverse sottili connessioni con la realtà di oggi e con ciò che è stato il Paese a partire dal Dopoguerra. Come affermano i due autori in una interessante intervista dal titolo Come si immagina «L’uomo dall’altro mondo»? uscita lo scorso 16 ottobre su «Machina» (qui), il nome inventato «Paoloni», con la terminazione in “-oni”, possiede una singolare assonanza con un rilevante personaggio politico della contemporaneità. Gli autori ricordano poi come l’idea del libro sia nata da una visita, una domenica pomeriggio del dicembre 2019, all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate, nel quartiere di Tor Marancia a Roma, un edificio enorme costruito negli anni Sessanta intriso di un’atmosfera un po’ inquietante, coi muri umidi e con l’acqua che cadeva da un punto del soffitto. Come afferma Comberiati, «il giorno dopo ci sarebbero state centinaia di impiegati a lavorare, eppure sembrava un luogo post-apocalittico, che della burocrazia moderna – una modernità già vecchia, rimasta davvero agli anni Sessanta – portava solo i segni della scomparsa». Questo luogo (definito da Barzaghi come uno dei «luoghi in bilico che raccontano il passato ma respirano il presente e lasciano vedere il futuro») visitato dagli autori assume un valore emblematico divenendo quasi il simbolo di un oscuro e sottile potere che ha continuato a sussistere attraverso il tempo, forse dalle derive più autoritarie e violente del fascismo. Quella «modernità già vecchia» ci può far pensare a certi uffici del potere del futuro messi in scena da David Cronenberg in Crimes of the Future (2022): si tratta degli spazi di un futuro decadente e già vecchio, intriso di un’opprimente burocrazia, che sembra appartenere a un orrendo e greve passato. In Italia, più che in altre nazioni – a Roma soprattutto ma non solo – è possibile incontrare queste squallide vestigia appartenenti al passato: non soltanto architetture dell’era fascista ma anche edifici risalenti alle ricostruzioni degli anni Cinquanta e Sessanta realizzate da un potere democratico che – pure se non avviatosi verso una deriva dittatoriale come immaginato nel libro – nelle sue buie viscere è rimasto legato a doppio filo a un fascismo sovversivo; quel potere legato alle “stragi di Stato”, a relazioni occulte e segrete, agli insabbiamenti, a omicidi e sparizioni ancora irrisolti. Questi edifici mostruosi e grevi, che paiono abbandonati e in rovina ma che pure vengono utilizzati ancora oggi dagli apparati di potere, sono un po’ l’immagine dello stesso potere oscuro e patriarcale, familistico e paternalistico, destrorso e razzista, che vige più o meno occultamente nell’Italia di oggi. Non si parla naturalmente di un potere centrale che proviene dall’alto, ma di una «microfisica del potere» in senso foucaultiano, presente in modo sottile nelle più svariate dinamiche sociali.

Un’altra somiglianza fra l’Italia ucronica inscenata da Barzaghi e Comberiati e quella reale riguarda la caratterizzazione sociale degli anni Ottanta. Come nota Comberiati nella citata intervista, «nel nostro caso, vediamo come l’Italia di oggi sia molto più una conseguenza degli anni Ottanta che degli anni Settanta, al punto che, se quel decennio fosse stato diverso, forse il nostro presente non sarebbe così dissimile da quello che è. Si tratta ovviamente di una provocazione, ma con un fondo di verità, se ci pensiamo bene». Infatti, poco prima lo stesso Comberiati ricorda come «nei tempi distopici che stiamo vivendo la fantascienza sia una sorta di nuovo realismo. Il genere popolare che, proprio come il neorealismo degli anni Cinquanta, sottolinea le contraddizioni della realtà. Ecco, se la fantascienza è il nuovo realismo, l’ucronia è un liquido di contrasto che ci fa vedere non un altro passato, ma un altro presente. O almeno il presente da una prospettiva diversa». Gli anni Ottanta sorti dopo la caduta della giunta Paoloni, nel 1979, rappresentano per l’Italia, come afferma un Umberto Eco ‘ucronico’ in un articolo uscito nel 1989, una vera e propria «ubriacatura democratica». Nella realtà sappiamo bene cosa sono stati quegli anni, dominati dal disimpegno e dal rampantismo sociale.

Veniamo quindi al cuore pulsante del libro, e cioè alla fantascienza, definita come «nuovo realismo» all’interno della ‘distopia’ reale che ci troviamo a vivere. L’uomo dall’altro mondo offre le schede dettagliate di 23 film di fantascienza, con tanto di foto di scena, locandine e bibliografia critica, girati in Italia nel periodo della giunta Paoloni. Se la maggior parte sono opere, se così si può dire, di propaganda del regime, che mirano alla sua esaltazione, alcune rappresentano una contestazione più o meno velata allo stesso. Qual è il background reale di questi film inventati? Ci risponde Eugenio Barzaghi, sempre nell’intervista uscita su «Machina»: l’Elio Petri di La decima vittima, Mario Bava, Antonio Margheriti, Luciano Salce, Ugo Gregoretti con Omicron, Ubaldo Ragona con L’ultimo uomo della Terra e diversi altri. I nomi inventati di registi e attori fanno tanto – se così si può dire – anni Sessanta e primi Settanta: suonano come reali possedendo quasi l’anima di tutto quell’universo cinematografico di matrice ‘popolare’, fatto di attori di sceneggiati e di stuntmen (“cascatori”, come si diceva all’italiana), di campioni sportivi convertitosi al cinema (ad esempio Carlo Pedersoli-Bud Spencer), di registi-attori più che, come diversi anni dopo, attori-registi. Ricordiamone alcuni, che spesso tornano di film in film: Dino Cipressi, Italo Quassi, Arrigo Speri, Giacomo Infanti, Giuseppe Fagiani, Attilio Biseglie, Aldo Moiso, Giacomo Alberti.

Fra i film inventati e analizzati dagli autori incontriamo, all’inizio della disamina, La fabbrica, del 1965, con la regia di Carlo Sacci, «probabilmente il primo film di fantascienza contro il regime, anche se giunse nelle sale il 3 gennaio, tre giorni prima dell’arrivo al potere della giunta militare» (p. 30). La storia si ambienta «in un ipotetico 1999, anno in cui l’Italia non esiste più, inglobata in un’alleanza transatlantica che fa pensare alla Nato e che è riuscita a conquistare anche il blocco sovietico. Il mondo è un’immensa megalopoli gestita dai padroni della Fabbrica, l’impresa dell’alleanza transatlantica che organizza il lavoro globale» (p. 30). Un altro film contro il regime è Dopo la bomba, sempre del 1965, di Francesco Billotti, che mette in scena una Roma devastata dall’esplosione atomica; il lungometraggio, progettato nel 1964, ebbe degli intoppi produttivi perché la Rai, che avrebbe dovuto co-produrlo, si tirò indietro all’ultimo momento su pressione del ministro della ricerca scientifica che vi intravedeva una critica al Grande Piano Energetico Nazionale, varato solo nel 1970 ma presentato fin dall’insediamento della giunta Paoloni nel 1965. Il film si ricorda anche perché lo scrittore Emilio de Rossignoli ne rimase colpito e ne trasse ispirazione per il suo romanzo H come Milano (1966), che inizialmente ha circolato solo in traduzione francese perché vietato in Italia. Un esempio di cinema di fantascienza clandestino è Passaggio vietato (1970), di Aristide Tirotti, un regista dal passato letterario, in quanto aveva svolto l’attività di traduttore di autori come Aldous Huxley e George Orwell. Nel film si immagina una società del futuro iperproduttiva divisa in due classi sociali, i Liur, manager ricchi e potenti, e gli Opres, proletari schiavizzati dai ricchi. Il film, oggi, costituisce una testimonianza del clima di angoscia che si respirava in Italia all’inizio degli anni Ottanta. Ricordiamo anche La morte dolce (1976), realizzato dai Collettivi autonomi proletari, considerati dalla giunta Paoloni un’organizzazione terroristica (gli attori, infatti, per non essere riconosciuti hanno tutti il volto oscurato o coperto). Il film intende denunciare il disastro di Seveso del 1976 e l’esplosione nello stesso anno di altre tre fabbriche (fra cui una fabbrica di gazzosa al caffè) che rilasciarono ingenti quantità di diossina: è la storia di una coppia di operai in una fabbrica di gazzose che vengono avvolti da una nuvola di fumo grigio e intossicati. L’ultima scena mostra in modo raccapricciante la giovane operaia che partorisce un neonato mostruoso in un ospedale dietro l’immagine pubblicitaria della bibita. Fra i film ostili al regime si può infine ricordare quello che offre il titolo – con una leggera modifica – al volumetto di Comberiati e Barzaghi, cioè L’uomo dell’altro mondo, del 1977, con la regia di Aldo Moiso. Si tratta di una produzione ufficiale della Rai, finanziata con soldi pubblici del Ministero della Propaganda, eppure venne recepito come un film ostile alla giunta militare. La storia si incentra sull’arrivo, in un’azienda statale, di un nuovo impiegato che giunge da una dimensione parallela, un «altro mondo» appunto. Il messaggio implicito nel film (la cui ucronia riflette en abyme quella che avvolge l’intero libro), probabilmente voluto dagli stessi autori, è allora che esiste un «altro mondo» rispetto all’Italia irreggimentata dalla giunta Paoloni.

Fra i film ufficiali e inneggianti al governo troviamo invece La camminata sbilenca del granchio (1968), di Giacomo Infante, appartenente al sottogenere dei mostri mutanti, «piuttosto utilizzato nella fantascienza ufficiale durante la giunta Paoloni» (p. 38). Uno scienziato crea un granchio gigante per debellare un virus che si trasmette attraverso le acque salate ma un gruppo di terroristi, venuto a conoscenza della scoperta, uccide il dottore e cattura la sua assistente. Il granchio, che aveva un debole per quest’ultima, li elimina e riesce a debellare il virus. Probabilmente, nella figura del granchio vi è una metafora delle azioni della polizia nel 1968 a Catanzaro, quando una rivolta di studenti venne repressa nel sangue grazie a una manovra militare detta appunto “del granchio”. Interessante è anche Alieni ad Asmara (1974), di Adriano Grimi (il libro è corredato anche di una foto del regista con la divisa da ufficiale coloniale del nonno) un film di propaganda mirante a perseguire la legittimazione dell’avventura coloniale italiana portata avanti dalla giunta Paoloni. Ad Asmara, nonostante gli italiani abbiano riportato l’armonia fra la popolazione, ci sono ancora alcuni eritrei ostili. Arriva quindi una nave spaziale aliena con intenti bellicosi: sarà solo grazie agli italiani e agli eritrei fedeli che gli extraterrestri verranno sconfitti e sarà riportata la pace. Film di regime è anche Le proprietà dello stralisco (1976): racconta la ribellione di un giovane a un proprietario terriero generoso e di buon cuore; il giovane, grazie a una pozione realizzata con foglie di stralisco, una pianta che cresce in quelle zone, acquista una forza sovrumana e aggredisce il proprietario terriero il quale però riuscirà a impadronirsi della pozione e a ristabilire l’ordine. Si tratta di una storia caratterizzata da un’originale ambientazione bucolica che possiede un riferimento all’uccisione di due proprietari terrieri avvenuta nel 1975 a Matera, in piena crisi economica, attribuita a cinque militanti dei Collettivi autonomi proletari arrestati alla frontiera con la Svizzera. In un momento di crisi del regime, vicino al suo tracollo, si colloca Domani, l’apocalisse (1978), ultimo film di finzione prodotto in Italia sotto la giunta militare. Il protagonista è Franco Aldi, ex campione di catch (lo vediamo anche in una foto di scena, con baffi posticci e collanona) passato al cinema: il suo personaggio è ispirato allo Zed interpretato da Sean Connery nel film Zardoz (1975) e si muove in una Roma deserta attraversata di notte da terribili creature che rappresentano i nemici del regime. Le violenze inscenate sono una metafora dei pericoli che correva l’Italia ad abbandonare la sicurezza del governo Paoloni. Ma il film appare alla «vigilia delle elezioni che sancirono il declino politico di Paoloni, che però non venne mai arrestato né inabilitato politicamente» (p. 85).

Dopo aver qui preso in considerazione alcuni dei film presentati, possiamo quindi pensare che uno dei temi principali di L’uomo dall’altro mondo sia proprio la stretta connessione fra la dimensione socio-politica e la produzione artistica legata al genere della fantascienza. Nella realtà come nell’ucronia immaginata dai due autori, la fantascienza rappresenta una significativa cartina di tornasole delle dinamiche sociali, economiche e politiche; abbiamo visto come sia nei film ostili al regime sia in quelli ad esso compiacenti si riflettano costantemente gli avvenimenti legati a queste dinamiche: scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, arresti, attentati, crisi economica, sociale e politica, momenti di debolezza o di forza del potere. Come leggiamo nell’introduzione a un saggio sulla narrativa di fantascienza italiana contemporanea dal significativo titolo di Ideologia e rappresentazione, realizzato da Comberiati assieme a Simone Brioni, la produzione di genere ha sempre affrontato «importanti temi nella cultura italiana contemporanea quali, fra gli altri, il colonialismo e la sua eredità, la robotica, il sessismo, l’ecocritica, le leggi sui manicomi, il terrorismo, il ‘ventennio’ berlusconiano, il complesso rapporto fra l’Italia e l’Europa, e la fine dell’antropocene»1. I due studiosi affermano poi che l’intrattenimento che deriva dalla fruizione di queste opere potrà servire «come l’ispirazione per la creazione di un sistema di norme e regole alternativo a quello esistente»2. Come ha scritto Valerio Evangelisti, «l’immaginario è dunque tra i terreni salienti di battaglia, per chi voglia sottrarsi alla dittatura più insinuante, senza scrupoli e invasiva che la storia ricordi»3 cioè quella del capitale. Un importante terreno di battaglia che anche oggi, più che mai, dovrebbe essere tenuto vivo e acceso perché il pericolo dell’arrivo di nuove giunte Paoloni mascherate da alfieri della democrazia è sempre in agguato.


  1. S. Brioni, D. Comberiati, Ideologia e rappresentazione. Percorsi attraverso la fantascienza italiana, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 12. 

  2. ivi, p. 15. 

  3. V. Evangelisti, Prefazione. La lotta per le “altre” otto ore, in AA.VV., Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis, Milano-Udine, 2018, p. 8. 

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Un’Anabasi post-sovietica. Storia del Gruppo Wagner. https://www.carmillaonline.com/2025/11/25/unanabasi-post-sovietica-storia-del-gruppo-wagner/ Mon, 24 Nov 2025 23:09:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91635 Di Jack Orlando

Barabanov, Korotkov; Il Nostro business è la morte; Nero ed.; Roma 2025; 241 pp. 18€

Gli uomini in mimetica camminano soli o a coppie dentro fitti banchi di nebbia, a malapena si intravedono i campi desolati attorno alla lingua di cemento. La colonna di fanti è accompagnata da moto da cross e automobili civili senza più sportelli, cariche di individui armati col volto coperto. Un drone riposa poggiato sull’asfalto.

Le immagini dell’esercito russo che completa la conquista di Pokrovsk, se evitiamo il solito florilegio di interpretazioni mediatiche campate per aria, offrono un’istantanea potente della guerra com’è oggi, [...]]]> Di Jack Orlando

Barabanov, Korotkov; Il Nostro business è la morte; Nero ed.; Roma 2025; 241 pp. 18€

Gli uomini in mimetica camminano soli o a coppie dentro fitti banchi di nebbia, a malapena si intravedono i campi desolati attorno alla lingua di cemento. La colonna di fanti è accompagnata da moto da cross e automobili civili senza più sportelli, cariche di individui armati col volto coperto. Un drone riposa poggiato sull’asfalto.

Le immagini dell’esercito russo che completa la conquista di Pokrovsk, se evitiamo il solito florilegio di interpretazioni mediatiche campate per aria, offrono un’istantanea potente della guerra com’è oggi, o forse come è sempre stata.
Qualcosa di inaspettato, di sporco e sgangherato simile alla “Nave dei folli”. Nulla a che vedere con truppe che marciano ordinate e storie di assalti eroici care a ogni propaganda bellicista. Il mondo delle trincee è un mondo che sconquassa le geografie, mentali, materiali, morali, e si impone come regno dell’assurdo. Solo nella coltre di questo disordine una volontà politica può imporre mutamenti drastici delle condizioni reali.


Il vociare provocato delle immagini di Pokrovks ricorda molto quello di un’altra sventurata località: Bakhmut, altro regno dell’assurdo più brutale, la cui contesa tra agosto ’22 e maggio ’23 gli è valsa il soprannome di Tritacarne.
A farsi macellare in prima linea per conquistare la città c’erano ex detenuti, ora mercenari del famigerato gruppo Wagner.

Quegli uomini erano usciti apposta dai bagni penali, reclutati dentro le prigioni direttamente da Evgenij Prigožin, chiacchierato capo dei mercenari, con la promessa di soldi e libertà.
Anche con poca o nessuna esperienza militare, servivano a tamponare l’emorragia di truppe che costava una battaglia fatta di assalti suicidi e che anche un’organizzazione così potente aveva difficoltà a saturare.
Un episodio limite, ma che abbozza l’idea di cosa davvero fosse la Wagner.
Ed effettivamente proprio questa compagna mercenaria è un perfetto laboratorio per osservare le traiettorie che la guerra ha assunto oggi, senza mai cessare per un momento ma muovendosi lungo assi fluidi che travalicano i confini facendo, ora più ora meno, fracasso.

Ed è una felice intuizione quella di tradurre il libro-inchiesta di due giornalisti russi, Barabanov e Korotkov, che per anni hanno indagato il fenomeno e raccolto testimonianze interne e documenti riservati.
Una storia che merita di essere raccontata già solo per la sua immensa potenza narrativa, inscenando in veste russa una sorta di nuova Anabasi di Senofonte. La tragica spedizione dei mercenari greci di Ciro verso la conquista del trono di Persia e ritorno.
Ma soprattutto un lavoro giornalistico prezioso che è costato l’esilio agli autori, al pari di molti altri colleghi (per altri invece il conto è stato ancora più pesante), e che fa piazza pulita delle ricostruzioni rabberciate di redazioni prone a un modus sciatto e servile, delle ciarle di improvvisati “esperti” a caccia di follower.

Fino al 2022 pochi infatti, fuori dai circoli di cose militari, avevano sentito parlare del Gruppo Wagner. Venivano alla ribalta con l’invasione russa dell’Ucraina.
Eppure proprio in Donbass, otto anni prima in una guerra invisibile, avevano vissuto il loro battesimo di fuoco.
Impegnati da un lato a respingere le forze ucraine che tentavano di recuperare il territorio delle neonate repubbliche di Donetsk e Lugansk alle milizie che le difendevano, dall’altro a mettere ordine tra queste ultime attraverso omicidi mirati e sabotaggi, nel tentativo di riportare tutto sotto un possibile controllo russo.
Di fatto quel movimento che si era ribattezzato Primavera Russa e che aveva portato, dopo Euromaidan, alla secessione del Donbass; che in Occidente è sempre stato dipinto come un’univoca operazione del Cremlino, è rientrato dentro un’eterodirezione moscovita proprio grazie agli sforzi di entità grigie come l’allora sconosciuta Wagner.

Ma tra il Donbass prima del fronte congelato dagli accordi di Minsk e quello furente dell’invasione su larga scala, la Wagner ha accresciuto le sue fila e i suoi teatri operativi: impiegati in Siria come forze di terra a supporto del regime assadista, sono quelli che strapperano la città di Palmira al Califfato Islamico.
Conquistano e proteggono pozzi petroliferi da cui ricavano grossi guadagni, si spostano in Libia prendendo parte alla catastrofe post-gheddafiana. Imbracciano le armi in Sudan, in Mali, nella Repubblica Centrafricana.
Sono i responsabili dell’addestramento dei soldati e del contrasto allo jihadismo nel Sahel. Ovunque il loro operato va intrecciandosi con rapporti di potere, influenze diplomatiche ed estrazione di risorse: nessuna retorica umanitaria, niente proclami roboanti, solo accordi commerciali ed esecuzione di servizi.

Eppure se diversi paesi, sovente sotto governi appena instaurati in una rapida concatenazione di golpe, si sono spostati nell’orbita russa e un bel pò di truppe atlantiche, insieme ai residui di quel cancro coloniale della Francafrique, sono state buttate fuori dal continente, una discreta parte di responsabilità ce l’hanno questi mercenari.
E seppure dalle nostre parti si continua a leggerli come una diretta emanazione di Mosca, preferiamo la più complessa lettura dei due autori, per cui è molto difficile capire dove inizia il mandato esplicito dello Stato e dove finisce l’ambizione personale di Prigožin nel perseguire un’agenda di grandeur che vede fondersi insieme nazionalismo, affari, geopolitica e interesse nazionale.

Tanto più che se le imprese della Wagner, molto più delle altre PMC, ricordano quelle delle Compagnie di ventura della prima modernità; la tragica parabola del capo e dei suoi sottoposti sembra emergere direttamente dalla penna di Le Carrè.
C’è dell’incredibile in un Prigožin, piccolo delinquente appena scarcerato, che si arrabatta con un chiosco di hot dog nella ex-Leningrado del pieno collasso sovietico.
Un signor Nessuno che, in quella vasca di squali che è la democratizzazione russa, scala i ranghi della società come ristoratore e finendo per ottenere contratti milionari di forniture allo Stato, inserendosi direttamente nell’ascendente cerchia di un giovane Vladimir Putin.
Imprenditore gastronomico che mette su posticci cartelli mediatici e campagne di disinformazione e che decide, con megalomane spregiudicatezza, di costruire un proprio esercito privato.

Ogni miliardario postsovietico ha la sua stola di gorilla armati e non pochi sono quelli che assumono la forma di una vera e propria Compagnia Militare. Il riciclo delle competenze dell’Armata Rossa è stato un buon mercato per molti militari e disoccupati.
Prigožin, figlio del suo tempo, non fa eccezione in questo. Ciò che lo differenzia è la volontà di perseguire un’agenda politica para-nazionale in cui i suoi affari si intrecciano con l’interesse di Stato.
Da criminale a imprenditore a condottiero, il passo a mito è breve, e infatti il brand Wagner è dal 2022 una piccola moda del pubblico russo: facile acquistare t-shirt e magliette, ancora più facile imbattersi nel flusso memetico che accompagna le dichiarazioni sempre più ruvide di Prigožin sui social network.

E infatti l’ultimo atto della Wagner è accompagnato da un codazzo di apprezzamenti e selfie.
L’oggettivo strapotere ottenuto negli anni e la sovraesposizione dovuta alla battaglia Bakhmut portano prima all’inevitabile conflitto d’interessi tra chi dirige le forze armate ufficiali e chi gestisce uno spaventoso esercito fedele solo ai suoi capi.
Conflitto che Prigožin decide di risolvere passando, letteralmente, all’offensiva in uno strano tentato colpo di stato che vede i mercenari conquistare Rostov sul Don senza sparare un colpo e passando una giornata a posare per selfie e strette di mano con i passanti entusiasti, mentre una colonna marcia verso Mosca.
Un golpe che chiedeva la testa dei vertici dell’esercito e si risolve, nel giro di 24 ore, in un nulla di fatto. I mercenari si ritirano dopo un’opaca trattativa apparentemente senza ripercussioni.

Due mesi dopo, agosto 2023, l’aereo privato che trasportava Prigožin e i suoi comandanti, tecnicamente esiliati in Bielorussia, da Mosca a San Pietroburgo salta in aria uccidendo tutti i passeggeri. Pagavano il pegno del loro tradimento alla verticale del potere.
Da allora la Wagner viene in parte smantellata e in parte assorbita dalle forze armate, i suoi asset africani vengono riorganizzati sotto il (pessimo) nome di Afrika Korps.

Già dai primi giorni dopo la caduta dell’aereo si moltiplicano i memoriali con bandiere e fiori, foto di Prigožin e Utkin. Non solo in Russia: in Repubblica Centrafricana gli viene eretta più di una statua e in giro nel Sahel si tengono piccole dimostrazioni di cordoglio.
Che dei criminali di guerra attirino tutto questo affetto non è inedito e non dovrebbe scandalizzare più di tanto. Ciò che è da osservare è come, sedimentando un forte immaginario e tentando di strappare una legittimazione d’autorità, una compagnia militare privata per la prima volta nel mondo contemporaneo si imponga come soggetto politico.
Reclama la sua possibilità di decidere dei destini di una guerra ben oltre il proprio mandato. Una possibilità inattuabile perché ancora non c’è sufficiente spazio di manovra per i capitani di ventura ma che, se guardiamo ai movimenti simili dei capitani dell’industria Hi-Tech della Silycon Valley, dovrebbe far riflettere per il futuro prossimo.

In questa specie di Guerra dei trent’anni, che è diventata la globalizzazione, dove il fronte di guerra si sposta di luogo in luogo ignorando i confini tra nazioni, gettando odi e motivazioni in una centrifuga in cui è difficile tenere fermo il significato, nuovi predatori emergono e le prerogative tipiche degli Stati Nazione vanno diluendosi in nuove concentrazioni di potere privato.
E alla fine di tutto, quando un diverso ordine si imporrà con i suoi equilibri, non è detto che a vincere sarà uno Stato piuttosto che lo sconosciuto CEO di un comparto tecno-militare.

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Storia della velocità e del suo immaginario secondo Jeffrey Schnapp https://www.carmillaonline.com/2025/11/23/storia-della-velocita-e-del-suo-immaginario-secondo-jeffrey-schnapp/ Sun, 23 Nov 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90887 di Gioacchino Toni

Jeffrey Schnapp, Storia rapida della velocità, il Saggiatore, Milano 2025, pp. 280, € 18,00

Sin dai tempi antichi si è teso a sovrapporre l’idea di vita a quella di movimento, tanto da condurre al convincimento, scrive Jeffrey Schnapp nella sua Storia rapida della velocità (il Saggiatore, 2025), che “più movimento” significhi “più vita”, pensando al “più” in senso qualitativo o quantitativo, momentaneo o durevole, mentale o fisico. Il diffondersi dei mezzi di locomozione, siano essi di tipo animale o meccanico, hanno di fatto contribuito a riplasmare l’esperienza umana dello spazio, del tempo e della società, modificando radicalmente tanto il [...]]]> di Gioacchino Toni

Jeffrey Schnapp, Storia rapida della velocità, il Saggiatore, Milano 2025, pp. 280, € 18,00

Sin dai tempi antichi si è teso a sovrapporre l’idea di vita a quella di movimento, tanto da condurre al convincimento, scrive Jeffrey Schnapp nella sua Storia rapida della velocità (il Saggiatore, 2025), che “più movimento” significhi “più vita”, pensando al “più” in senso qualitativo o quantitativo, momentaneo o durevole, mentale o fisico. Il diffondersi dei mezzi di locomozione, siano essi di tipo animale o meccanico, hanno di fatto contribuito a riplasmare l’esperienza umana dello spazio, del tempo e della società, modificando radicalmente tanto il paesaggio esterno quanto la mente degli individui.

A Schnapp non interessa tratteggiare l’ennesima storia della tecnica o dei trasporti, quanto piuttosto indagare la relazione profonda tra velocità e civiltà che si è data nel corso del tempo, proponendo un viaggio nell’immaginario e nella sensibilità dell’essere umano moderno costantemente in bilico tra desiderio di trascendenza e limiti del corpo, dalle corse dello spartano Lada alla ruota cosmica che avvolge Dante nel Paradiso, dalla carrozza postale di Thomas de Quincey alle macchine da corsa futuriste, dal treno dipinto da William Turner ai microchip della Nvidia.

Ogni forma di accelerazione racconta una metamorfosi che se da un lato promette all’essere umano di superarsi, dall’altro lo pone di fronte al rischio di smarrirsi in un mondo che corre troppo in fretta. Ogni esperienza di una nuova velocità che determina un’accelerazione del ritmo umano rispetto a quello naturale – destinata ad essere presto naturalizzata nella quotidianità – ha dato luogo a “racconti di trasformazione”, «racconti che sostengono la premessa che l’equazione più movimento = più vita implichi un terzo termine: un passaggio dall’umano al più che umano, inteso come conquista di poteri sovrumani tramite mezzi animali, meccanici, elettronici, chimici o spirituali» (p. 17). È ripercorrendo alcuni di questi racconti che Schnapp struttura il suo libro.

Nei racconti di movimento e metamorfosi selezionati, l’autore individua due principali tipologie di trasformazione. Una di “trascendenza forte” (“trascendenza” in quanto l’accelerazione produce sul soggetto un veloce passaggio dallo status umano a quello più che umano, in un contesto in cui la velocità è concepita come qualità divina, “forte” in quanto si tratta di una trasformazione irreversibile in cui l’incidente rappresenta l’eccezione, anziché la norma). Una trasformazione che si determina alla velocità dei fenomeni più celeri in natura che avvicina l’umano al divino.

Il secondo tipo di trasformazione interpreta invece gli effetti della velocità come una forma di “trascendenza debole” (“debole” per la transitorietà dei momenti di eccitazione sensoriale e per l’inevitabilità dell’incidente che riconduce il soggetto alla situazione precedente il movimento). Si tratta di un tipo di trascendenza che, per quanto conduca temporaneamente l’umano verso il più che umano, manifesta il corpo carnale suggerendo l’inevitabile mortalità a cui va incontro. Questo tipo di trascendenza debole, nota Schnapp, tende a prevalere su quella forte nel corso delle ere industriali e postindustriali, anche se alcuni guru della Silicon Valley hanno rivitalizzato la tipologia forte «in una veste tecnocentrica, avvolgendo nel mantello delle nuove tecnologie il linguaggio della fede religiosa» (p. 19). Secondo costoro, grazie allo sviluppo tecnologico, la vita umana potrà presto trasformarsi oltrepassando i limiti dei corpi e dei cervelli biologici mentre le macchine diventeranno sempre più intelligenti, senzienti e autocoscienti.

Schnapp ricostruisce un’antropologia della velocità fatta di corpi, macchine, estasi e schianti a partire da alcuni punti fermi: la grande importanza che ha sempre avuto la velocità (reale e immaginata, somatica e mentale) nella storia della civiltà umana; il fatto che la cultura e le tecnologie si plasmino vicendevolmente; la constatazione di come i movimenti fisici e mentali determinino dinamiche di potere e gerarchie sociali; il fatto che la consapevolezza sempre più diffusa delle catastrofiche conseguenze climatiche determinate dal modello di sviluppo illimitato abbia fatto crollare la longeva fede nel progresso, nella crescita e nell’industrializzazione; la pressa d’atto che, con il passaggio dall’era industriale a quella dell’informazione, «le storie esterne e interne della velocità si sono scisse l’una dall’altra. Oggi si richiede alle menti di muoversi con sempre maggiore rapidità mentre i corpi si spostano tanto quanto, se non meno, rispetto a mezzo secolo fa. Decenni di accelerazione nei ritmi di produzione, circolazione e consumo delle informazioni sui dispositivi connessi hanno attuato una frattura tra le forme di mobilità mentale e corporea senza precedenti negli annali della civiltà» (p. 54).

Schnapp guarda ai mutamenti culturali, sociali e cognitivi che si sono manifestati nel passaggio dall’homo sapiens all’homo digitalis evitando di esprimere giudizi sommari, analizzando le nuove forme di mobilità che emergono in un’epoca caratterizzata da enormi flussi di dati e dallo spettro di un’imminente catastrofe climatica. Tale passaggio epocale ha fatto emergere nuovi modelli di comunità, di interazione sociale, di ordine istituzionale e di scambio economico, così come nuove forme di libertà e creatività e di ansie e sociopatologie. L’enorme ed insinuante flusso di dati che caratterizza la contemporaneità incide fortemente sui movimenti del capitale globale, sulla gestione urbana, sui principali parametri che regolano il funzionamento del corpo umano (sonno, temperatura corporea, pressione sanguigna, battito cardiaco ecc.), sulle modalità di attenzione, sui modelli di costruzione del sé, sulla concezione che si ha del divertimento e dello stesso tempo libero.

La diffusione di sistemi di intelligenza artificiale sempre più sofisticati e performanti con cui l’homo digitalis si trova a convivere ed a confrontarsi lo obbligherà, prima o poi, a fare i conti con i suoi limiti neurocognitivi o biologici. Mentre i futuristi dei nostri giorni, come i loro predecessori primonovecenteschi, restano fiduciosi del fatto che l’umanità saprà governare ogni trovata avveniristica che riuscirà a presentare, traendo da essa enormi benefici, dunque insistono nel sovrastimare le possibilità umane e nel sottovalutare quanto l’umanità sia radicata nel mondo naturale, scrive Schnapp, gli antropologi della velocità «scrutano l’anthropos e la sua storia con millenni di dati a portata di mano, cercando di articolare risposte che possano stimolare una riflessione critica e forse resistere all’ennesima prova del tempo» (p. 58).

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