Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 20 Dec 2025 21:00:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Lo sguardo obliquo del cinema per rappresentare l’irrappresentabile https://www.carmillaonline.com/2025/12/20/lo-sguardo-obliquo-del-cinema-per-rappresentare-lirrappresentabile/ Sat, 20 Dec 2025 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91704 di Gioacchino Toni

Pierre Dalla Vigna, Rappresentare l’irrappresentabile. Lo sguardo “obliquo” nel cinema sulla Shoah e in altre catastrofi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 120, € 14,00

Su come l’arte e il cinema possano o meno trattare l’enormità della Shoah si sono accumulate nel corso del tempo numerose e importanti riflessioni; diverse voci autorevoli hanno messo in guardia dai tentavi di illustrare, trattare, esprimere la Shoah nelle diverse forme artistiche in quanto destinate a dar luogo, loro malgrado, a forme di estetizzazione, banalizzazione, spettacolarizzazione, inverosimiglianza e voyeurismo. L’enormità della Shoah e le riflessioni che si sono generate attorno ad essa la rendono un [...]]]> di Gioacchino Toni

Pierre Dalla Vigna, Rappresentare l’irrappresentabile. Lo sguardo “obliquo” nel cinema sulla Shoah e in altre catastrofi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 120, € 14,00

Su come l’arte e il cinema possano o meno trattare l’enormità della Shoah si sono accumulate nel corso del tempo numerose e importanti riflessioni; diverse voci autorevoli hanno messo in guardia dai tentavi di illustrare, trattare, esprimere la Shoah nelle diverse forme artistiche in quanto destinate a dar luogo, loro malgrado, a forme di estetizzazione, banalizzazione, spettacolarizzazione, inverosimiglianza e voyeurismo. L’enormità della Shoah e le riflessioni che si sono generate attorno ad essa la rendono un ambito privilegiato per indagare come le manifestazioni artistiche e, in particolare, l’ambito cinematografico, abbiano finito per far ricorso a “visioni oblique” per affrontare quanto è stato ritenuto non direttamente rappresentabile.

È proprio alle visioni oblique a cui ha fatto ricorso il cinema per affrontare l’Olocausto nazista ed altri orribili crimini, nel tentativo di evitare di scivolare nella spettacolarizzazione e nel voyeurismo della violenza più estrema, che guarda il volume Rappresentare l’irrappresentabile (Mimesis 2025) di Pierre Dalla Vigna. La disamina proposta dallo studioso prende il via con alcune opere che, evitando di affrontare direttamente il genocidio, incentrano la narrazione su eventi che lo precedono ma che al tempo stesso lo fanno percepire come imminente: Il giardino dei Finzi-Contini (1970) di Vittorio De Sica, derivato dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, a sua volta ispirato a vicende autentiche di una famiglia ferrarese sterminata ad Auschwitz; Cabaret (1972) di Bob Fosse, musical ambientato durante la Repubblica di Weimar in cui lo spettro dell’Olocausto è evocato da personaggi secondari; La nave dei folli (Ship of Fools, 1965) di Stanley Kramer, film in cui viene messo in scena l’atteggiamento vessatorio ed emarginante nei confronti di un ebreo e un nano da parte di un gruppo di tedeschi dalle esplicite simpatie naziste nel corso di una crociera del 1933.

Della Shoah, ricorda Dalla Vigna, esistono alcuni frammenti visivi e si ritrovano nelle fotografie scattate clandestinamente nel 1944 da appartenenti a un Sonderkommando operante ad Auschwitz-Birkenau e in alcune riprese aeree anglo-americane, oltre che nei documentari girati dalle truppe sovietiche e statunitensi al loro arrivo nei campi di sterminio. Proprio questi ultimi materiali visivi sono poi stati utilizzati da Alain Resnais nel suo docu-film Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1956), insieme a materiali audiovisivi dell’epoca nazista e sequenze a colori girate in Polonia sui luoghi che furono teatro dello sterminio con il commento di una voce fuori campo. «Il tutto è di estremo coinvolgimento e conduce il pubblico a ricostruire il genocidio senza spettacolarizzare l’orrore, ma imprimendo nella memoria il senso più profondo dell’evento» (p. 35).

Dalla Vigna si sofferma anche su Un vivo che passa (Un vivant qui passe, 1999) di Claude Lanzman, opera che riflette sull’ottundimento di quanti pur avendo visto qualcosa non sono stati in grado di comprendere quanto visto in riferimento al campo di Theresienstadt, in Boemia, allestito ad arte dai nazisti per mostrare le buone condizioni di prigionia dei detenuti per essere mostrato attraverso immagini documentarie girate dal regime e, in forma diretta, attraverso le visite pianificate per alcuni osservatori internazionali. Il ricorso a operazioni di mascheramento della realtà, che non di rado sfruttano il credito acritico che si tende a concedere alle immagini nonostante la consapevolezza della loro sempre più facile manipolabilità, caratterizza evidentemente anche la contemporaneità più stretta, ma al di là delle messe in scena esplicitamente truffaldine e delle immagini volutamente falsificanti la realtà, resta il difficile rapporto tra testimonianza-documentazione storica e verosimiglianza cinematografica.

Non potevano mancare riflessioni sul controverso Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, liberamente derivato da Se questo è un uomo scritto da Primo Levi tra il 1945 ed il 1947. Il  film è incentrato su una giovane ebrea francese disposta a tutto pur di sopravvivere al Lager che troverà modo di redimersi sacrificandosi per consentire la fuga di un gruppo di prigionieri. Il ricorso a scene particolarmente crude ha indotto cineasti e critici come Jacques Rivette e Serge Daney ad accusare il film di voyeurismo, ostentazione dell’orrore, estetizzazione della morte, mentre altri, come Alberto Moravia, hanno evidenziato come, a fronte di una corretta ricostruzione scenica, è come se Pontecorvo guardasse più allo spettatore che non al materiale su cui dovrebbe concentrarsi il film. La storia d’amore messa in scena nella seconda parte del film, scrive Dalla Vigna, «costruisce un artificio falsificante che contrasta con una realtà troppo orrorifica per essere rappresentata a freddo. Il divario tra il mettere in mostra l’indicibile di Auschwitz, che rischia di scivolare nel compiacimento dell’orrore, e le necessità di una trama cinematografica consolatoria per rendere più sopportabile l’orrore stesso, ha dunque come risultato una duplice insoddisfazione» (p. 38).

A modalità oblique di affrontare la Shoah ricorrono anche Il pianista (The Pianist, 2003) di Roman Polanski, derivato dall’autobiografia scritta nel 1946 del musicista ebreo-polacco Władysław Władek Szpilman scampato al genocidio, e Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) di László Nemes, che incentra il film su un membro di un Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau alla ricerca di un rabbino che possa recitare la preghiera funebre per il figlio che crede di aver riconosciuto tra i cadaveri. Sullo sfondo della vicenda messa in scena viene mostrato il tentativo di alcuni detenuti del Sonderkommando di lasciare una testimonianza fotografica degli eventi.

Ad essere preso in esame dallo studioso è anche il recente La zona d’interesse (The Zone of Interest, 2023) di Jonathan Glazer, film liberamente tratto dall’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis che mostra l’ostinazione con cui la famiglia del comandante del Lager di Auschwitz desidera vivere come idilliaca la quotidianità che trascorre in una dimora confinante con il campo di sterminio non vedendo e non volendo vedere ciò che accade oltre le mura di cinta. Se la contiguità tra l’idillio della famiglia nazista e i prigionieri condannati alle camere a gas può rimandare alla “zona grigia” dei privilegiati all’interno dei lager di cui parla Primo Levi ne I sommersi e i salvati, scritto nel 1986, tuttavia, sottolinea Dalla Vigna, la “zona d’interesse” è di ben altra natura, essendo situata «nel campo dei carnefici meno consapevoli del proprio ruolo, dei parenti degli esecutori diretti, in diretto rapporto con la banalità del male che Hannah Arendt ha voluto riscontrare persino in uno degli artefici più significativi dell’Olocausto, Adolf Eichmann» (p. 42), tesi contrastata da quanti hanno invece preferito insistere sulla malvagità intrinseca del criminale nazista e sulla sua  spietata consapevolezza genocida. Evidentemente, scrive Dalla Vigna, «risulta più facile accogliere la tesi che vi possa essere un male assoluto, e quasi onnipotente, piuttosto che meditare sulla mediocrità di una malvagità più contraddittoria, ma capace di mostruosità illimitate proprio in ragione della sua miseria» (p. 42).

In L’uomo del banco dei pegni (The Pawnbroker, 1964) di Sidney Lumet, tratto dall’omonimo romanzo scritto da Edward Lewis Wallant nel 1961, l’Olocausto viene evocato indirettamente attraverso i ricordi traumatici dei reduci dei Lager che continuano a manifestarsi anche a distanza di tempo. Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, invece, scrive Dalla Vigna,

può rappresentare in modo paradigmatico un’aporia in cui la verità storica s’infrange nella categoria estetica del bello. Il falso può esser seducente e ammiccante più di una ricostruzione autentica, e questo film, che Primo Levi, in I sommersi e i salvati, definì appunto come “bello e falso”, è una dimostrazione plateale dell’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz, non a causa di un limite estetico, ma proprio a causa della sua piena riuscita. Contro la messa in scena di una fiction sadomasochistica, Levi rivendicava il diritto a definirsi “vittima innocente” e confutava con veemenza l’equazione dell’intercambiabilità dei ruoli di carnefici e vittime (pp. 44-45).

Al film di Liliana Cavani è stato rimproverato di far riferimento all’esperienza dei Lager nazisti come pretesto per affrontare «le complessità dell’attrazione amorosa e delle sue contraddizioni» (p. 45). Susan Sontag individua ne Il portiere di notte una versione “di qualità” di quella erotizzazione dell’estetica nazista a cui fanno ricorso, sin dagli anni Settanta, i film del filone nazi-sploitation.

Dalla Vigna si sofferma su due produzioni hollywoodiane accusate di aver spettacolarizzato la Shoah: la miniserie televisiva Olocausto (Holocaust, 1978) di Marvin J. Chomsky e Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg. A quest’ultimo film può essere contestato, tra le altre cose, anche di non aver concesso, del resto in linea con la tradizione hollywoodiana, il ruolo di protagonista a una vittima, preferendo assegnarlo a un tedesco “buono”.

Se opere come Kapò, Olocausto, Il pianista e Schindler’s List contribuiscono a trasformare la mera conoscenza dei fatti del pubblico in percezione intima, film come La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, Il bambino col pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas, 2008) di Mark Herman e Il portiere di notte della Cavani, scrive Dalla Vigna,

introducono un regime del falso del tutto fuorviante, poiché anche nel richiamo producono una cesura di tipo negazionista, incentivando buoni sentimenti che azzerano i problemi, nel profluvio di lacrime, e possono convincere gli spettatori stessi di essere nel giusto e dalla parte del bene. Abbiamo quindi anche nel falso un doppio regime di verità, sotteso tra denuncia e consolazione, che non sempre è nettamente separabile. Per un verso c’è una società dello spettacolo che si sovrappone al reale fino a soffocarlo, come ipotizzava Jean Baudrillard, e che costruisce i simulacri ingannevoli di “un inferno costellato di buone intenzioni”. Dall’altro abbiamo il risveglio di una conoscenza epidermica, fisica, certamente l’invenzione di una rappresentazione, che però richiama alla memoria un evento che merita di essere tramandato per impedirne la ripetizione. Infine, come mediazione originata da percorsi altri ed esterni alla dicotomia, abbiamo la costruzione di mondi narrativi autonomi, che pur ricollegandosi alla storia, si sentono esentati dall’aderirvi (p. 50).

Con il venire meno dei testimoni delle atrocità e di quanti ne hanno raccolto il racconto, le immagini dell’Olocausto, anziché risultare funzionali al ricordo e alla denuncia, sono divenute un bacino da cui attingere liberamente per meri scopi narrativi. Tutto ciò, sottolinea Dalla Vigna, non solo è evidente nel filone nazi-splotation di bassa qualità, ma è ravvisabile anche in opere di maggiore spessore, come nel caso di Fuga da Sobibor (Escape from Sobibor, 1987) di Jack Gold (1987), in cui la specificità totalitaria dell’Olocausto è piegata alle esigenze del genere avventuroso.

In uno scenario in cui presidenti ebrei dirigono brigate naziste, oligarchi russi si proclamano eredi di Stalin o di Piero il grande, e il popolo erede della memoria dell’Olocausto finisce col giustificare o addirittura esaltare una strage di oltre duecentomila civili a Gaza, nel Libano e in Siria, con la complicità di buona parte dell’informazione democratica d’Occidente, ogni fiction, per quanto inverosimile e azzardata, finisce con l’apparire un format credibile (p. 52).

Anche la fantascienza, nelle sue varianti distopiche, fantapolitiche e ucroniche, ha strutturato modalità oblique con cui rappresentare la Shoah. In particolare, concentrandosi sul solo ambito audiovisivo, Dalla Vigna fa riferimento al film Delitto di stato (Fatherland, 1994) di Christopher Menaul, liberamente derivato dall’omonimo romanzo del 1992 di Robert Harris, in cui si ipotizza il compimento della soluzione finale hitleriana. Scenari futuri in cui a trionfare sono state le forze naziste si ritrovano anche nelle serie televisive L’uomo nell’alto castello (The Man in the High Castle, 2015-2019) di Frank Spotnitz, derivata dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (titolato inizialmente in italiano La svastica sul sole) e Il complotto contro l’America (The Plot Againist America, 2020) di Minkie Spiro e Thomas Schlamme, serie ispirata all’omonimo romanzo del 2004 di Philip Roth. Mantenendo un finale tutto sommato aperto, le tre opere citate, scrive Dalla Vigna, «malgrado le evidenti differenze di stile, hanno un effetto in qualche modo consolatorio: l’orrore evocato nell’ucronia di una vittoria del male, lascia spazio all’effetto catartico che nella realtà il bene abbia trionfato, ripristinando il corso di una progressione storica positiva» (p. 55).

Se è pur vero che le ucronie citate, proprio in quanto tali, dovrebbero indurre a un sospiro di sollievo, visto che si presentano come l’alternativa che, fortunatamente, non si è data, si potrebbe paradossalmente affermare, scrive Dalla Vigna, che

la vittoria postuma del nazismo, con il suo obiettivo di espellere l’ebraismo dall’Europa, si sia compiuta, infettando le coscienze degli eredi delle vittime, distorcendo la storia e assuefacendo le coscienze occidentali a un crescendo di orrore. Inoltre, com’è stato da più parti sottolineato, la politica di sterminio israeliana, che viene comunque tollerata e sotterraneamente favorita dalle democrazie occidentali, con la fornitura di armi e appoggi diplomatici, produce una ripulsa nel resto del mondo e finirà col provocare nuove ondate di antisemitismo che il movimento sionista voleva combattere (p. 60).

Lo studioso evidenzia come anche la Nakba manifesti problematiche di irrappresentabilità, tanto che il cinema che se ne è occupato lo ha fatto adottando visioni oblique. Tra le diverse produzioni audiovisive che hanno affrontato la questione israelo-palestinese lo studioso ricorda: No Other land (2024), documentario incentrato sulla resistenza araba alle distruzioni dei coloni israeliani realizzato da un collettivo comprendente gli arabi Basel Adra e Hamdan Ballal e gli ebrei Rachel Szor e Yuval Abraham; Israelism (2024), opera documentaria realizzata dai registi ebrei-americani Erin Axelman e Sam Eilertsen che hanno fatto ricorso a interviste di personalità della cultura e attivisti per i diritti umani, diversi dei quali ebrei; Paradise Now (2005) del palestinese cittadino israeliano Hany Abu-Assad, fiction incentrata sulla preparazione di un attentato sucida palestinese che termina prima che questo venga portato a termine lasciando così il dubbio circa la decisione finale presa dal protagonista; Valzer con Bashir (Waltz with Bashir, 2008) di Ari Folman, opera d’animazione che narra delle ferite psichiche di alcuni militari israeliani attivi nei massacri di Sabra e Shatila del 1982; Il giardino dei limoni (Lemon Tree, 2008) dell’israeliano Eran Riklis, film incentrato sulla controversia legale tra le autorità israeliane e una donna palestinese caparbiamente decisa a difendere il suo limoneto sventuratamente confinante con la dimora di un ministro.

A sguardi obliqui hanno fatto ricorso anche i film che hanno voluto occuparsi delle torture statunitensi nella prigione di Abu Ghraib, divenute note grazie alle fotografie scattate e diffuse dai torturatori stessi. Boys of Abu Ghraib (2014) di Luke Moran evita di affrontare direttamente i fatti preferendo imbastire una storia basata su di essi che può dirsi, per certi versi, autoassolutoria. Ne Il collezionista di carte (The Card Counter, 2021) di Paul Schraderi i tragici eventi compaiono a distanza di tempo e in maniera sfumata nei ricordi di chi vi ha preso parte. Anche in questo caso, sottolinea Dalla Vigna, manca il punto di vista delle vittime: che si tratti dello sterminio dei nativi americani o di quello dei vietnamiti, anche le pellicole mosse da sincero spirito di denuncia non mancano di filtrare gli eventi attraverso il punto di vista, per quanto critico possa essere, degli invasori.

Il documentario I fantasmi di Abu Ghraib (Ghosts of Abu Ghraib, 2007) di Rory Kennedy, che ricorre a interviste sia di vittime che di militari implicati nei soprusi, denuncia come le torture siano derivate, oltre che da precise politiche adottate dalle autorità militari e governative, dal clima di caos e paura regnante nella prigione. Per certi versi, scrive Dalla Vigna, il documentario di Kennedy ricalca il cinema di Lanzmann, con la differenza che in questo caso le immagini sono presenti e sono quelle scattate dagli aguzzini.

Abbiamo qui l’autodenuncia dei torturatori, presi dall’enfasi del loro ruolo e divenuti inconsapevolmente, essi stessi, prove provate delle loro atrocità. I segreti che i capi delle SS si sforzavano di nascondere, distruggendo documentazioni, edifici e financo gli ordini di sterminio, nell’epoca della società dello spettacolo globale sono misfatti rivelati in modo plateale, trasformando i più modesti esecutori nelle incarnazioni del male. Naturalmente, i canali d’informazione, per lo meno quelli dei vincitori, cercheranno poi di raccontare la fiaba di poche “mele marce” intorno a un sistema di per sé sano e democratico, occultando le responsabilità dei mandanti e di un intero sistema (pp. 66-67).

La parte finale del volume si concentra su come anche i film che hanno affrontato i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki e più in generale il rischio dell’olocausto nucleare, si siano trovati a fare i conti con le categorie dell’indicibile e dell’irrappresentabile, dunque alla necessità di ricorrere a visioni oblique. Non a caso, sottolinea Dalla Vigna, tra coloro che si sono cimentati sul disastro atomico nipponico, o sul rischio dell’olocausto nucleare, si trovano registi che come Alain Resanis, con il suo Hiroshima mon amour (1959), e Sidney Lumet, con A prova di errore (Fail-Safe, 1964), che si erano precedentemente occupati dei campi di sterminio nazisti. Se Resnais ricorre a una storia d’amore ambientata alcuni decenni dopo la catastrofe nipponica per far affiorare le terribili memorie dell’evento, Lumet mostra come possa generarsi un conflitto nucleare a partire da una serie di fraintendimenti. Se quest’ultimo film rappresenta la versione drammatica di come un conflitto nucleare possa essere generato da un concatenamento di errori, Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick rappresenta invece la versione comico-grottesca di come si possa giungere al disastro. Entrambi i film, evidenzia Dalla Vigna, trattano l’olocausto nucleare limitandosi ad evocare le vittime senza mostrarle.

A modalità oblique di trattare la tragedia nucleare ricorrono anche i film Vivere nella paura (Ikimono no kiroku, 1955) e Rapsodia in agosto (Hachigatsu no kyōshikyoku, 1991) di Akira Kurosawa. Godzilla (1954) di Ishirō Honda inaugura invece un fortunato filone di b-movie giapponesi e americani incentrato su mostri generati o risvegliati dalle esplosioni nucleari. Riferimenti agli ordigni atomici sul Giappone si ritrovano in L’impero del Sole (Empire of the Sun, 1987) di Steven Spielberg, derivato dall’omonimo romanzo parzialmente autobiografico di James G. Ballard, per poi tornare centrale, dopo un periodo di oblio, nel film Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan che, nuovamente, come da tradizione hollywoodiana, evita il punto di vista delle vittime. Dalla Vigna ricorda anche il docu-drama La morte è scesa a Hiroshima (The Beginning or the End, 1947) di Norman Taurog che ricorre all’espediente del ritrovamento di immagini e filmati storici riguardanti la preparazione, l’esplosione e gli effetti degli ordigni. Tornando alle opere di pura fiction, altre modalità oblique di trattare il disastro nucleare si ritrovano in numerosi film hollywoodiani, di qualità decisamente variabile, incentrati sul “dopobomba”, quando davvero i sopravvissuti potrebbero trovarsi a invidiare i morti.

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Gli inferni in tasca https://www.carmillaonline.com/2025/12/19/gli-inferni-in-tasca/ Fri, 19 Dec 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91482 di Franco Pezzini

August Strindberg, Libri blu. Antologia a cura di Franco Perrelli, pp. 288, € 18,50, Carbonio, Milano 2025.

Arriviamo così al 15 giugno 1906. Quella mattina in cui, passeggiando, per la prima volta ho visto il tram n. 365. Fui colpito dal numero e pensai alle 365 pagine che avrei dovuto scrivere. Scesi quindi per una stradina stretta; un carretto procedeva al mio fianco e recava un vessillo rosso, quello che segnala esplosivi. Il carretto mi seguiva di fianco e cominciò a irritarmi. Allora, per distogliermi dal vessillo degli esplosivi, guardai in cielo, ed ecco! Il mio sguardo [...]]]> di Franco Pezzini

August Strindberg, Libri blu. Antologia a cura di Franco Perrelli, pp. 288, € 18,50, Carbonio, Milano 2025.

Arriviamo così al 15 giugno 1906. Quella mattina in cui, passeggiando, per la prima volta ho visto il tram n. 365. Fui colpito dal numero e pensai alle 365 pagine che avrei dovuto scrivere.
Scesi quindi per una stradina stretta; un carretto procedeva al mio fianco e recava un vessillo rosso, quello che segnala esplosivi.
Il carretto mi seguiva di fianco e cominciò a irritarmi. Allora, per distogliermi dal vessillo degli esplosivi, guardai in cielo, ed ecco! Il mio sguardo incrociò, ostentatamente, un colossale vessillo rosso (quello inglese). Guardai giù daccapo, e una signora vestita di nero con un cappello rosso fuoco tagliò la strada. Aumentai il passo e, all’improvviso, mi ritrovai di fronte la vetrina d’una cartoleria, dove si esibiva un avviso, scritto a lettere dorate: Herbarium.
Va da sé che tutto questo m’impressionò, e quindi presi la decisione, avrei approntato la mia santabarbara, che sarebbe così diventata il Libro blu. Sarebbe passato un anno, lento, penoso. La cosa più notevole che accadde fu la seguente. In teatro si cominciò a provare il mio dramma Un sogno e, contemporaneamente, avvenne un cambiamento nella mia vita d’ogni giorno. La mia serva si licenziò, la casa andò in malora; cambiai sei serve in quaranta giorni, una peggio dell’altra. Alla fine dovetti rigovernare, apparecchiare e riscaldare da me; mangiare porcherie di trattoria – in una parola, dovetti soffrire quanto di più amaro la vita riservi, senza comprenderne la ragione.

Ai funerali di Strindberg, morto sessantatreenne a Stoccolma nel maggio 1912 d’un cancro allo stomaco, si formò un corteo spontaneo di lavoratori. Negli ultimi anni ne aveva sostenuto la causa, spiccando come portavoce delle critiche dell’ala socialista più radicale contro i liberali: certo si trattava dell’ennesima scelta inattesa – o trasmutazione, in fondo solo apparente – di una vita fitta di contraddizioni, svolte imprevedibili, prese di posizione anche spiacevoli e discutibili, furiose virulenze ideali. Comunque una scena, questa del corteo di lavoratori, che, leggendo i Libri blu (Blå böcker), non avremmo immaginato.
A fronte di una produzione prodigiosa quanto quella di Johan August Strindberg (1849-1912) – cinquanta volumi sparigliati sui più vari generi letterari compreso ovviamente il fondamentale teatro, più dipinti, fotografie, ventidue volumi di corrispondenza – e degli innumerevoli filoni dei suoi interessi, potrebbe sembrare un mero sfizio affrontare un’opera personalissima come questa. Eppure in tale prodigioso zibaldone (1907-1912) conclusivo e quasi riassuntivo della sua intera opera ed esistenza – ricorda il curatore Perrelli, che qui ne trae un’appassionata e ragionata selezione – Strindberg esprime i percorsi mutevoli della propria esperienza ideologicamente erratica. Al punto da poterla considerare una delle sue opere più interessanti e provocatorie.
Sorta di prosecuzione polemica dalle aspirazioni pedagogiche allo scandaloso non-proprio-romanzo Bandiere nere (Svarta fanor, 1904) in cui tra strali satirici e coprofagici prendeva le distanze da intellettuali radicali, materialisti e positivisti già a lui legati in passato – come i romanzieri Gustaf af Geijerstam e Viktor Rydberg, e la femminista Ellen Key –, esponenti di una “decadenza” intellettuale e spirituale gabellata per Rinascenza (pagana) in un mondo di errori e sofismi, Strindberg vagheggia una religiosità informale, una forma di teosofia in grado di spiegare l’antico bagaglio streghesco e paranormale,  abbinata però a una sorta di monismo mistico.
Nessuno stupore per l’interesse di Strindberg verso l’occulto e quell’alchimia associata in chiave di trasformazione e conversione spirituale allo stessa forma letteraria dei Libri blu, dove l’autore si mette a nudo come uomo. Nessuno stupore anche considerando la fioritura nella Svezia coeva di Teosofia, Antroposofia e altre dottrine iniziatiche e occulte (i Rosacroce del Joséphin Péladan guardato con interesse da Strindberg, lo spiritismo dal vecchio interlocutore Gustav Edvard Klemming…) in fondo sulla scia del grande Swedenborg cui è dedicato il primo Libro blu ma con connotazioni d’epoca peculiari. Il Maestro degli apologhi del primo Libro blu è appunto una maschera di Klemming con qualche misura di Swedenborg. D’altronde centrale nella sua filosofia, per quanto liberamente riletto, è il Platone dei Dialoghi, ma con un’apertura (anche qui, non strana, dati epoca e approccio) a Schopenhauer.
Dalla crisi spirituale del 1896-98 esposta in Inferno (Inferno, 1897) e Leggende (Legender, 1898), il Nostro si definisce ora come un uomo “dai bisogni religiosi” nell’ambito di un pessimismo mistico radicale dove si mixano appunto Swedenborg e Nietzsche, in un rifiuto rabbioso degli idoli culturali di un mondo al trapasso tra Otto e Novecento, dei concetti di precisione e metodologia in un’apertura totale al fluire degli eventi. Di qui attacchi furenti in campo musicale allo “smusicato Wagner” “rappresentante musicale del Male”, in quello scientifico al darwinismo e allo “sterilizzato Pasteur”, sul piano letterario a “quello stupido di Ibsen”.

Chi è relativamente saggio allora comincia a volgere le spalle ai fantasmi e alle ombre della realtà e a cercarne un’altra, la realtà reale.
Lo Stato, quindi, si presenta come una galera, nella quale la Difesa della Patria è in mano ai sorveglianti; la società un manicomio, nel quale ufficiali e polizia fanno i guardiani; la famiglia un concubinato; la scienza camorra; i capitalisti usurai; le belle arti superflue, la letteratura chiacchiere a stampa; l’industria lusso superfluo; le comunicazioni strumenti di tortura; la luce elettrica un danno alla vista, tutte le benedizioni della civilizzazione o maledizioni o superflue.
Quando lo si comprende, si volta le spalle a tutto e si cerca la sola cosa che abbia un senso, che dia risposte autentiche, che mantenga quel che promette!

Nel risultato rabbiosamente soggettivo pur nell’ambizione pedagogico-missionaria che connota i Libri blu, e che a tratti potrebbe far pensare al Libro Rosso di Jung (non per lo spirito né per la forma, ma per la latitudine immaginale, sapienziale e gli incubi e miracoli d’un diario intimo) corre il groviglio dei fili sottostanti il panorama dell’opera strindberghiana: compresi i bandoli emotivi più o meno patologici, le asprezze, le affermazioni spiacevoli o senz’altro ulceranti, le miserie umane, le invettive contro una società opportunista. Negli anni della stesura vive tra l’altro momenti di totale disperazione – i rapporti con le donne e in particolare con la terza moglie Harriet Bosse, una giovane attrice – vagheggiando persino il suicidio: qualcosa che si combina in modo ovviamente non banalizzabile con la disturbante misoginia attestata anche in queste pagine, e contestualizzabile in una fortissima corrente antifemminile d’epoca (Schopenhauer, Weininger…). Nei nevrotici Libri blu si trova anzi cifrato un Libro dell’amore erotico-occultista a testimoniare una misoginia nutrita di deprezzamento delle potenzialità culturali delle donne (l’ostilità verso la matematica Sonia Kovalevski o la scienziata Marie Curie eruttava in Bandiere nere) e curiose teorie occulte sul sesso in rapporto alla moglie separata e ai suoi nuovi partner.
Se poi consideriamo l’integralismo religioso “più superstizioso che dottrinario” ma latore di untuosi strascichi moralistici, il creazionismo e certe eccentriche idee antiscientifiche – tra cui, respingenti fino all’imbarazzo, le aperture grondanti razzismo all’orrenda e ridicola ariosofia di Jörg Lanz von Liebenfels (il guru prenazista di Teozoologia – La scienza delle nature scimmiesche sodomite e l’elettrone divino, per intenderci) – certo si potrebbe domandarsi perché leggere i Libri blu. E la risposta sta, nonostante tutto, nella presenza (ricorda Perrelli) di

penetranti indagini psicologiche ai limiti della psicanalisi, improvvisi (e persino luminosi) squarci di poesia esistenziale, sinceri momenti di sofferta religiosità e nobile riflessione pessimistica, sartriane riflessioni su les autres come enfer, oltre ad alcuni poemetti in prosa, che andrebbero annoverati tra le pagine più intense scritte da Strindberg.

Se a ciò aggiungiamo l’estrema originalità della forma di questo zibaldone dove “si gioca con le idee e si sperimenta con i punti di vista” e la necessità di comprendere meglio un autore dall’impatto tanto significativo – si pensi in particolare al teatro, ben documentato nei cartelloni anche nostrani – ecco che la lettura rivela un suo estremo interesse. Tanto più che con gli aspetti oscuri del passato ideologico del nostro Occidente dobbiamo in qualche modo fare i conti.
Delle oltre 1500 pagine dell’originale, più di 650 brani su tutto lo scibile umano in forma aforistica e di apologhi la presente antologia spigola una ricca scelta – “all’incirca un terzo […], decisamente privilegiando i brani più leggibili di qualità letteraria e consistenza speculativa”. Il materiale riguarda quattro Libri blu (l’estratto dal quarto è brevissimo), più un Supplemento al primo e un’Appendice dove il concetto italianissimo di Camorra assurge a fenomeno universale e si specula sulla natura quasi massonica della Classe Superiore e il suo sgomitante dominio su tutta la vita spirituale, arte e letteratura comprese.
Forte di un’incredibile abilità di scrittura, Strindberg pone al centro un Io capace di espandersi fino alle più profonde plaghe del mondo dell’inconscio, sia pure nell’ambito di inquietudini non soltanto sue, ma di tutta un’epoca. Per quanto rifiuti a priori l’appartenenza del poeta a scuole o correnti, per salvaguardare la libertà dell’arte, nei fatti l’autore nuota all’interno e nel profondo delle correnti simboliste che traghetteranno all’espressionismo: al punto che si parlerà poi di peste strindberghiana per indicare una tensione allo squilibrio nichilistico e al rabbioso soggettivismo che presto impressionerà un po’ tutti i movimenti d’avanguardia – particolarmente l’espressionismo tedesco.
Le ombre sono calate, l’autore ha finalmente pace. E torniamo idealmente alla scena dei lavoratori al funerale.

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Quaranta segni di pioggia https://www.carmillaonline.com/2025/12/18/quaranta-segni-di-pioggia/ Thu, 18 Dec 2025 21:04:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91585  

di Franco Ricciardiello

Kim Stanley Robinson, Quaranta segni di pioggia (titolo originale Forty signs of rain, 2004), trad. Eleonora Antonini, Fanucci, pp. 304, euro 18,oo stampa

In un recente articolo sul romanzo Quello che possiamo sapere di Ian McEwan, il Corriere della Sera titola: “La fantascienza senza la scienza”, quasi che questo fosse un valora aggiunto; come dire, “cari lettori, ecco una storia visionaria ma senza l’astruso linguaggio para-scientifico della SF”. Ma davvero la componente “scientifica” è così rilevante nella SF contemporanea? Capita di leggere, in qualche gruppo social dedicato, commenti che lamentano il contenuto troppo “hard” (nel senso di scienza [...]]]>  

di Franco Ricciardiello

Kim Stanley Robinson, Quaranta segni di pioggia (titolo originale Forty signs of rain, 2004), trad. Eleonora Antonini, Fanucci, pp. 304, euro 18,oo stampa

In un recente articolo sul romanzo Quello che possiamo sapere di Ian McEwan, il Corriere della Sera titola: “La fantascienza senza la scienza”, quasi che questo fosse un valora aggiunto; come dire, “cari lettori, ecco una storia visionaria ma senza l’astruso linguaggio para-scientifico della SF”. Ma davvero la componente “scientifica” è così rilevante nella SF contemporanea?
Capita di leggere, in qualche gruppo social dedicato, commenti che lamentano il contenuto troppo “hard” (nel senso di scienza “dura”) di alcuni romanzi; c’è ancora un nutrito gruppo di lettori che considera la SF un genere esclusivamente avventuroso, un contenitore per storie che scopiazzano le atmosfere dei film d’effetti speciali. Ciò che manca veramente nelle narrazioni di SF è il funzionamento pratico della scienza. Lasciando da parte scienziati pazzi e scienziati geniali simili a supermen, concentrandosi su quelli che fanno ricerca negli istituti, che si danno da fare per trovare fondi, che analizzano masse di dati senza avere intuizioni fulminanti, che la sera tornano a casa dal marito o dalla fidanzata, dai figli, e raggiungono risultati significativi grazie a comparazioni, esperimenti, errori, e non per un’ispirazione spirituale.
Per fortuna c’è Kim Stanley Robinson. Chi ha letto la sua formidabile Trilogia marziana conosce la sua capacità di penetrare e restituire personaggi assolutamente realistici (ci sono infatti lettori che si lamentano per le “troppe descrizioni tecnologiche” del suo Marte futuro), e la competenza con cui racconta retroscena economici e tecnologici e dinamiche politiche — si veda anche il suo Il Ministero per il Futuro. Non è quindi un caso, vista la considerazione del lettore italiano medio per la SF, che questo Quaranta segni di pioggia, uscito negli USA nel 2004, sia rimasto inedito in Italia per oltre vent’anni.
L’ambientazione è un futuro così ravvicinato da confondersi con il presente. Il romanzo inaugura la trilogia Science in the Capital, che racconta i tentativi di fronteggiare la catastrofe climatica, visti dal centro del potere USA, Washington. Tre punti di vista si susseguono a capitoli alterni: Anna Quibler, giovane e motivata scienziata della National Science Foundation; il suo collega Frank Vanerwal, che dopo un distacco alla NSF è in procinto di tornare a lavorare in un istituto di ricerca privato a San Diego; il marito di Anna, Charlie, che lavora per un senatore progressista teoricamente interessato a una legislazione sul clima, ma nella pratica molto attento alle dinamiche parlamentari.

“Guardò con aria cupa passargli l’America davanti. Chi erano quelle persone che riuscivano a vivere così tranquillamente mentre il mondo sprofondava in una crisi ambientale globale senza precedenti? Esperti negazionisti. Esperti nel filtrare le loro informazioni per sentire solo ciò che li legittimava a comportarsi come si comportavano. Molti di quelli che passavano, andavano in chiesa la domenica, credevano in Dio, votavano repubblicano, passavano il loro tempo a fare shopping e a guardare la TV. Ovviamente brave persone. Il mondo era condannato.” (pag 164)

Certo, il realismo delle situazioni va a discapito del lato avventuroso, tranne che negli ultimi capitoli; ma il romanzo è pieno di dettagli straordinari: il catastrofico impatto di un uragano marino sulle scogliere presso San Diego; i monaci buddisti di Khembalung che stabiliscono un’ambasciata a Washington per perorare la causa del loro stato insulare che rischia la sommersione; l’illuminazione di Frank Vanderwal sul suo rapporto con la scienza durante una conferenza buddista.
Robinson racconta l’inefficienza e l’inerzia di un sistema parlamentare liberale, come quello statunitense, nel reagire a una crisi globale:

“[…] il riscaldamento globale non solo poteva essere reale, ma persino suscettibile di mitigazioni umane. Il che andava un po’ troppo oltre quell’amministrazione. La loro linea era che nessuno potesse affermarlo con certezza e che, anche in caso contrario, sarebbe stato troppo costoso intervenire. Sarebbe dovuto cambiare tutto: i sistemi di produzione dell’energia, le automobili, il passaggio dagli idrocarburi all’elio o qualcosa di simile, non lo sapevano; e non possedevano brevetti o infrastrutture per quel genere di novità, quindi avrebbero eluso la questione e lasciato che fosse la generazione successiva a occuparsene a tempo debito. In altre parole, al diavolo! Più facile distruggere il mondo che intaccare il capitalismo, anche solo di poco (pag. 125)”

Posso immaginare la reazione del lettore-tipo di SF italiano davanti alle pagine in cui Robinson descrive la procedura con cui Anna Quibler si tira il latte dal seno per congelarlo, così che il marito possa nutrire il figlio Joe mentre lei è al lavoro — eppure anche questa, in fondo, è tecnologia.

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La storia caotica di uno strano guerriero alla conquista di Macondo: il proletariato indiano https://www.carmillaonline.com/2025/12/17/la-storia-caotica-di-uno-strano-guerriero-alla-conquista-di-macondo-il-proletariato-indiano/ Wed, 17 Dec 2025 20:25:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91685 di Emilio Quadrelli

[ In occasione del pomeriggio di studio organizzato a Bologna sul tema «Emilio Quadrelli e la guerra» ripubblichiamo, ringraziando Sandro Mezzadra per averlo ritrovato e segnalato, un intervento su “Rock e Proletariato” redatto da Emilio, quando era detenuto politico nel carcere di Palmi, sul n° 29 di «Rockerilla» del dicembre 1982.]

L’umanità della natura c’è soltanto per l’uomo sociale giacché solo qui la natura esiste per l’uomo come legame con l’uomo, come esserci dell’uomo per l’altro e dell’altro per lui. Karl Marx – Manoscritti economico-filosofici del 1844)

L’immagine ricorrente che il proletariato moderno più volte si è [...]]]> di Emilio Quadrelli

[ In occasione del pomeriggio di studio organizzato a Bologna sul tema «Emilio Quadrelli e la guerra» ripubblichiamo, ringraziando Sandro Mezzadra per averlo ritrovato e segnalato, un intervento su “Rock e Proletariato” redatto da Emilio, quando era detenuto politico nel carcere di Palmi, sul n° 29 di «Rockerilla» del dicembre 1982.]

L’umanità della natura c’è soltanto per l’uomo sociale giacché solo qui la natura esiste per l’uomo come legame con l’uomo, come esserci dell’uomo per l’altro e dell’altro per lui. Karl Marx – Manoscritti economico-filosofici del 1844)

L’immagine ricorrente che il proletariato moderno più volte si è dato di sé, è quella di una identificazione analogica, non mitizzata con il popolo rosso, con gli indiani d’America. Questo non è casuale, così come non è casuale che questo “esercito” selvaggio che non riconosce altra legge, altra disciplina se non quella della distruzione dei rapporti sociali esistenti, mai si sia pensato, abbia avuto davanti il “déjà-vu” delle divise ordinate e pulite, dei capelli a spazzola, del “passo dell’oca” di una qualche piazza rossa che non gli appartiene, chi ha provato a limitarlo con un overdose-ideologica, alla fine si è ritrovato solo, e la siringa può usarla solo con se stesso, per trovare, costruirsi ancora una volta un paradiso artificiale, ideologico appunto, mentre iI proletariato costruisce il suo eden qua, ora; Macondo è la sua ‘utopia’. A chi ci obbietterà che questo è la fine di tutto, o in altra maniera che ‘non c’è più religione’ risponderemo che non è vero, che questa è la fine di tutte le religioni, di tutti i preti, di tutti gli inganni, che gli intellettuali organici e non li abbiamo seppelliti, che il loro mondo di morte, fatto di spaventi senza fine, non ci interessa, che noi siamo altro, Macondo appunto.

Ma torniamo agli indiani. Un proletariato che non ha passato ha trovato nel popolo rosso un’identità ideale. Come quello si sente colonizzato, come quello si sente accerchiato da una cultura che non gli appartiene, come quello trova, nella rivolta ultima e definitiva, l’unico modo per affermarsi. Ma non solo, egli riscopre dentro quella storia tutto quello che la società reificata da sempre gli nega, un rapporto uomo-natura e uomo-uomo, armonico e non antagonista, non mediato o meglio dominato dalla forma/merce.

Riscopre nel popolo rosso, il guerriero che sa parlare il linguaggio dell’amore, il cacciatore che ama e rispetta la sua selvaggina, il guerriero che sa anche piangere e commuoversi e che per poter commuoversi ancora una volta combatte fino all’ultima freccia, fino all’ultimo proiettile, fino ad attaccare i cannoni col solo coltello.
Come iI popolo rosso, il proletariato non può vivere sotto una dominazione-mediata, non c’è integrazione perché i due linguaggi non hanno segni in comune, o accetta di essere schiavo e fa ‘lo scout’ per la forma/merce tra le montagne e le praterie proletarie o abbandona la riserva, sconfina, inizia la rivolta. Come per l’uomo bianco l’unico indiano buono è quello morto, per il capitale l’unico proletario buono è il proletario zombie. Ma se la metropoli è una città di spettri, il proletariato ha già inventato la sua ‘danza degli spettri’, che lo rende invulnerabile ai proiettili ideologici.

È uno strano proletariato davvero, un proletariato che non ha seggi in parlamento, santi in paradiso, intellighenzia a cu i affidare i propri destini, un proletariato che non può essere rimodellato e manipolato, che non può essere allineato né come ‘l’esercito degli impiegati Ford’ né come l’esercito dello spettacolo socialista, è un proletariato che odia la finzione, lo spettacolo che non conosce, ma anzi abolisce ogni separatezza, arte e produzione, amore e guerra, gioco e fatica usciti dalla vita per essere ‘specializzati’ si ricompongono in lui, suonando la campana funebre per ogni specialista, come potrebbe un proletario così ‘barbaro’ accettare lo specialista per eccellenza: il politico? Infatti non lo sopporta, lo distrugge o lo ignora, lo calpesta o non risponde al richiamo sottile e mellifluo dell’ideologia.
Gli incendi di Detroit e Stettino, i saccheggi di New York e Danzica, inceneriscono e stritolano tutti gli ‘ismi’, uccidono il ‘sogno americano’ e il ‘sogno socialista’ e per il capitale rimangono solo i carri armati di colore diverso di segno identico.

È un’introduzione caotica, certamente, come è caotica la ricchezza che la ‘critica radicale’ alla società del capitale ha mostrato nel suo divenire. Possiamo provare a dare ordine, ma non troppo, a questo magma che dilaga tra le arterie inerti e pietrificate della metropoli, un ordine che è continuamente movimento e che non ama essere preso al laccio, come un branco selvaggio il proletariato ora fugge, ora travolge il mondo dell’apparente, ma non sempre gli riesce, il nemico è astuto, sa combinare forza e persuasione, intelligenza e inganno.

Chiude il proletariato in ‘riserve’ illudendolo di essere libero e quando anche questo non gli riesce lo cattura con ‘l’acqua di fuoco’ delle metropoli, l’alienazione dell’eroina. II proletariato si trova a combattere mille battaglie, perché l’agguato è dietro a ogni segno.

Possiamo grosso modo dividere in due periodi la storia di questo strano guerriero: il periodo della rivolta negativa, il periodo della guerra di liberazione.
(I can’t get no) Satisfaction era l’inno di guerra più amato e sentito del proletariato moderno degli anni ’60, non ce ne stupiamo di certo. Sono gli anni dell’ultima rottura, quella che vede sempre più il movimento operaio diventare una variabile del capitale (fino a diventarne il suo stato dentro la classe), e il formarsi dell’altro movimento, il proletario senza antenati. Sono gli anni in cui la tradizione dell’internazionale comunista è solo un appello, un ricordo della preistoria, un limite al divenire stesso della rivoluzione. È in questi anni che inizia a darsi un processo di transizione della preistoria alla storia, quella dell’uomo sociale che distrugge spettri e fantasmi. È una rottura violenta non sempre capitale, specialmente se si guarda il movimento reale con la lente dell’ideologia.

Eppure, nella sua immediatezza, la classe parlava chiaro; il nemico non era più solo quello classico, il padrone, il capo, il poliziotto, il politico borghese; lo diventava anche il sindacato, mediatore del prezzo della schiavitù; il partito operaio, teso a guidare una società a lui estranea e nemica, erano tutti quelli che non capivano o non volevano capire che il proletariato da classe per sé, inizia a diventare classe contro di sé, che il suo fine è negarsi come proletariato per affermarsi come uomo sociale, come classe universale liberata. Non solo, il nemico era diventato tutto l’esistente, perché qua dentro era impossibile “trovare soddisfazione”, ecco che come per incanto non sono il pane e lavoro a scuotere e infiammare il cuore proletario, pane e lavoro che rimandano a un mondo di tristezza senza fine, è il bisogno di prendere in mano la propria vita, il proprio quotidiano di rimodellare la società senza l’utopia di un ‘uso proletario’, della miseria capitalistica.

C’è in pratica la negazione di tutte le ipotesi ‘tempiste’ che i cattedratici non potranno mai capire, ma è ovvio il ‘profeta’ più vero e immediato della classe, non sta in qualche biblioteca ammuffita ad aspettare Lenin. È in mezzo ai parchi e alle piazze, è un tale Jim Morrison, che con la sua voce unica, urla, grida, minaccia: “Vogliamo iI mondo, lo vogliamo ora”. A Mirafiori più o meno contemporaneamente gli operai gridavano: “Cosa vogliamo: vogliamo tutto”. Ma abbiamo saltato qualche passaggio. Stiamo già arrivando alla fase della progettualità, del divenire positivo della rivolta proletaria.

Negli anni ’60, benché poi certe forme continuino a rimanere, vi è un carattere prevalentemente distruttivo, puramente ‘negativo’ del movimento. Questo è capitale e anche necessario.

Come un monello il proletariato moderno cresce nella strada, non sopporta la scuola e i bambini che la popolano, non assomiglia neppure ai bambini tristi della scuola pianificata; insomma, percepisce quello che non vuole essere, più in là non riesce ancora ad andare, le volte che e prova e s’inventa un qualche ‘suo’ modello è un fallimento, tutta la storia della comunità, della società underground ne sono una conferma, perciò quello che si massifica è solo l’odio distruttivo. Odio che viene esercitato/praticato come classe, mentre quando si guarda alla propria vita, ai propri giorni, si ricade spesso e volentieri nel soggettivismo, o, per dirla tutta, nell’individualismo, nel senso che si prova a ‘inventare’ isole comuniste; dentro la società reificata si cercano le mille scappatoie per fuggire al lavoro, diventando extralegale anche per scelta oltre che per necessità, si cerca di procurarsi/comprarsi la maggior quantità di tempo liberato, non lavorato, dimenticando o volendo dimenticare che anche questo è tempo del capitale. Si cerca infine di creare rapporti qualitativamente nuovi, con altri soggetti, finendo non di rado con l’impazzirci dentro. Ma questa contraddizione ha una ricchezza infinita, ha in sé i germi per farsi progetto, per ridiventare ‘politica’ nell’ultima forma storicamente possibile.

Tra iI ’60 ed il ’70, il proletariato moderno ha costruito le sue prime forme di linguaggio, di comunicazione, la sua prima cultura trasgressiva; il capitale proverà, a volte riuscendovi, a riciclare anche questa nella sua logica, creando “l’industria della trasgressione”, ma questo è un altro discorso che ora non c’entra. Questi dieci anni sono stati attraversati dai più svariati ‘stati d’animo’. E l’instabilità che contraddistingue una rivolta puramente ‘negativa’. Dalla rabbia collettiva di Satisfaction, da questo inno di rivolta che il proletariato urla quando saccheggi le metropoli o critica a modo suo la fabbrica, si passa a Blowin’ in the wind al momento cioè in cui questo strano guerriero interroga se stesso, e non può che affidare al vento le mille risposte o più semplicemente la risposta che cerca, per arrivare a Mister Tambourine Man, l’inno privato di questo soggetto sempre più strano che quando non distrugge, può solo cercare, aspettare il venditore di ‘roba’ per regalarsi un altro sogno, un’altra notte magica, che non trova nella realtà. Dentro questa instabilità arriva a volte a farsi egemonizzare da un Let it be che sembra quasi una dichiarazione di resa, per esplodere con la triade maledetta, le tre J, che sono il momento di passaggio della rivolta negativa, al divenire della dialettica distruzione/costruzione.
Nell’anno nero del ’70 muoiono Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, la ‘poesia’, la ‘musica’, la ‘politica’ della cultura trasgressiva, una tristezza senza fine avvolgerà il mondo per un attimo.

La ‘triade maledetta’ muore, si autodistrugge, perché è arrivata a una contraddizione così lacerante che non ha soluzione se non nella fine di ogni dialettica, la morte.

Ma questi nomi che rimarranno sempre dentro di noi, dentro tutti quelli che iI comunismo lo hanno nel cuore, prima ancora che nel cervello, hanno aperto una strada che percorreremo fino in fondo. Nei loro corpi, nella loro mente, si sviluppano, si combattono fino in fondo, fino alia schizofrenia, tutte le contraddizioni di un decennio, espressioni di un linguaggio di rottura, si ritrovano essi stessi a diventare nuovi modelli normativi, espressioni di una cultura che vive nei ghetti, nelle fabbriche, nelle galere, si ritrovano completamente assorbiti dentro la faraonica industria musicale, simbolo della moderna e attuale gioventù della rivolta, si ritrovano ad essere stereotipo dell’eterna rivolta della gioventù: tutto questo dentro un corpo, dentro un cervello, reggeranno ancora un attimo, cercando con l’aiuto di intrugli esplosivi, di salvarsi come forma ‘d’arte’, provando così a stare fuori dalla mischia. Quando capiscono che ciò non è possibile, non è dato, non si vendono all’uomo bianco, preferiscono farla finita. E qua si chiude il ciclo con iI popolo rosso. Come gli indiani non potevano accettare la prigionia e, se catturati, quasi sempre evadevano o si lasciavano morire, così il proletariato moderno non conosce forme di ‘libertà coatta’, di ‘semilibertà’ o ‘libertà vigilata’. Non ha mediazioni: o negandosi diventa soggetto, recupera, inventa, crea la sua umanità o non è altro che capitale variabile.

“NON SI PUO’ FERMARE IL VENTO, NON SI PUO’ FERMARE IL TEMPO…!!!
L’autodistruzione delle tre J, la musica che accompagna il loro ultimo ‘viaggio’ è un messaggio pieno di implicazioni, di limiti, di pericoli ma soprattutto di possibilità che il proletariato moderno, ma non meno il capitale, percepiranno.

La ‘triade maledetta’ è la fine di un sogno, ma un sogno che non si spezza, è un flirt che muore perché trova il ‘grande amore’, è il monello che inizia a farsi grande, che deve porsi altri problemi, che non può non limitarsi a distruggere, calpestare tutto ciò che lo opprime, perché questo non basta perché se la distruzione, la negatività è l’inizio della liberazione, se non instaura un permanente dualismo di potere dentro la società, tutta la sua carica tende a disperdersi, non ha soluzione o peggio può essere integrata, riciclata dentro la piovra-capitale, che ha o sta imparando a stravolgere anche l’emozionalità, il desiderante dentro la forma/merce.

I suoni — che mai nessuno riuscirà più a ripetere — che escono dalla chitarra ‘impazzita’ di Hendrix, la magia che percorre le sue dita, di cui lui stesso ha una coscienza limitata, e a chi glielo domanderà non sarà in grado si svelare da dove saltano fuori certi ‘passaggi’, sono al contempo la fine di una storia, ma anche il dispiegarsi delle immense possibilità, che il proletariato moderno ha di fronte a sé, la possibilità di trasformare le rivolte spontanee, immediate, nell’ultima rivolta, quella che seppellisce la forma/merce nel museo degli orrori.

La musica di Hendrix si separa dal suo corpo, dal suo cervello, egli può solo percepirla, buttarla lì; il suo corpo è come quello di una madre che muore nel momento del parto, trasmette le caratteristiche genetiche alla vita, nel momento che muore dà impulso a ciò che sarà, lo racchiude in sé, ma saranno altri che percorreranno il sentiero della liberazione.

Noi chiamiamo guerra di liberazione proletaria la forma che la lotta di classe assume nell’epoca del dominio reale del capitale, perché in quest’epoca la condizione di vita dei proletari è quella di colonizzati prigionieri dentro la forma/merce in ogni ambito delta vita sociale. Di più: in questa fase l’intera giornata sociale diventa tempo del capitale, il proletariato, anche fuori del rapporto di produzione, non inizia mai una ‘sua’ vita, perché ogni rapporto sociale è sussunto dal capitale stesso, e l’unica vita che può vivere è quella funzionalizzata al capitale. Ciò che ne deriva, però, è che tra proletariato e borghesia esiste un rapporto di antagonismo assoluto, dentro e contro tutti gli aspetti della formazione economico sociale. Questo seppellisce, ed era ora, la “sacralità del rapporto struttura-sovrastruttura” ed ogni mediazione del politico rispetto al divenire della rivoluzione sociale. Ciò che l’ottusità terzo-internazionalista, non capiva, e non ce ne stupiamo, era proprio questo passaggio oggettivo, ciò che non capiva era che il mondo non si stava popolando di spettri piccolo-borghesi con il trip “esistenziale” ma di proletari che volevano cambiare la vita, prima che la vita cambiasse loro.

Sarebbe stato anche relativamente semplice capire che tutta questa proliferazione di ‘piccola-borghesia’ era un po’ sospetta, e comunque difficile da trovare nelle fabbriche, nei ghetti, nelle galere, o forse molto più semplicemente era la paura, iI terrore che il proletariato, elevando la ricchezza e la qualità dei suoi bisogni, si liberasse anche degli organizzatori dello spettacolo della liberazione.

Abbiamo lasciato questo strano proletariato, alle prese con se stesso, a cercare la risposta nel vento; lo ritroveremo di lì a poco con le armi in pugno prendere a calci e non solo ogni fantasma del passato. Ma ancora una volta il nemico non rimane a guardare, come il proletariato raccoglie il canto di vita che sta nella morte dei tre J, così il capitale comprende, percepisce, e neanche poco, che quell’inno di guerra può essere la sua morte, che la ‘danza degli spettri’ che si sta ballando nelle metropoli sarà la sua tomba. Piovra e camaleonte allo stesso tempo, corre ai ripari, sull’instabilità del proletariato della negazione, crea l’industria della trasgressione, per spezzare, annullare, privare quanto di nuovo, di rivoluzionario, di trasgressivo e trasgredente il linguaggio del proletariato si era dato; non solo, il progetto era ancora più ambizioso, si tratta di guidare, panificare, controllare anche la sfera dell’emotività, dell’io desiderante della classe, del suo bisogno ‘estetico’, insomma: si tratta di voler dare al proletariato, costruendogliela, una cultura trasgressiva ma già normata, dargli un’altra riserva in cui seppellirlo, dargli l’illusione di star cambiando la vita, mentre è solo la logica mortuaria della mercificazione che guida questa operazione.

E su questo terreno, diciamolo, si sono perse non poche battaglie. Nell’ultimo decennio non si è mai data una forma unificante di questo strano proletariato in termini di linguaggio, non c’è un inno che abbia raccolto i cuori, le emozioni, la rabbia di tutta una classe, un linguaggio che abbia saputo/potuto legare, comunicare immediatamente, perché ogni volta che emergeva veniva puntualmente imbastardito, manipolato dall’industria delle trasgressioni, la quale, da una parte ha cercato di dare contenuti puramente ‘artistici’ a ciò te era altro, dall’altro, ha dettato nella rete della comunicazione trasgressiva i propri mostri costruiti in laboratorio. Patti Smith, tanto per citare il caso limite.

Qua bisogna essere chiari e non farsi imbambolare dalla borghesia. La partita non si gioca solo ed unicamente sul piano ‘estetico’: questo è un limite, una restituzione, un confine della società dello spettacolo, dove la borghesia può fare il bello ed il cattivo tempo come e quando vuole. II ‘nuovo’ non è un problema tecnico, sono anni che la borghesia sperimenta nuove forme di comunicazione musicale, per ora destinate solo agli addetti ai lavori, come ad es. la musica dodecafonica, e questo da un punto di vista del ‘nuovo’ è senz’altro il ‘meglio’ che c’è, peccato però che sia un prodotto uscito dai laboratori e non dalla strada.

II nuovo che c’interessa è quello che il ‘linguaggio’ on the road si dà, che questo proletariato/indiano costruisce, inventa dentro le sue praterie: le arterie metropolitana.
II resto è ancora una volta spettacolo, trasgressione sì, ma normata e compatibile, dobbiamo ballare ancora una volta e con più rabbia la nostra ‘danza degli spettri’ perché i proiettili dell’ideologia ci stanno perforando.

II mondo della rappresentazione non è sempre facile riconoscerlo; la sua critica ancora più difficile. La comunicazione trasgressiva è altro ed è difficile riallacciarla, proprio perché il potere fa di tutto per impedirla, camuffarla, ricondurla dentro i propri ambiti. Proprio l’oggi ne è un esempio macroscopico, ma che fortunatamente offre entrambe le valenze: la trasgressione normata e quella rivoluzionaria.

II capitale ha fatto sforzi veramente immani a proposito, ha costruito l’immagine del proletariato demenziale, in decomposizione, in perfetta sintonia con ciò che è diventata la metropoli, una società di rifiuti i cui abitanti si cibano di questi. Questa è l’immagine, iI bisogno che il capitale ha di vedere, ridurre il proletariato rivoluzionario. Questa è la riserva in cui lo deve rinchiudere per non fargli più trovare l’ascia di guerra. Un proletariato demenziale, che non sconfina, prigioniero di un linguaggio che ha fatto della incomunicabilità la sua forma più elevata.

No, non è questo che ci appartiene, non sono questi suoni privi di vita, d’amore ma carichi solo di morte, di abbandono, ciò che il proletariato comunica nella sua guerra di liberazione. Brixton ne è un esempio, l’inno-manifesto della rivolta ‘la città degli spettri’ è un reggae, e qua ogni cosa torna al suo posto.

Un reggae, e non un punk rock scatenato o altro, perché? Perché il linguaggio, la comunicazione, questo strano guerriero, se la costruisce, la crea mentre produce la sua storia. Perché la trova dentro le forme che immediatamente visualizzano le emozioni, i bisogni, i progetti che un pezzo di questa guerra gli dà, non se lo va a cercare nelle ambigue riviste specializzate, è il suo punto di vista che esprime, non quello del capitale, proprio perché il suo percorso è dentro la logica distruzione/costruzione, riempie la musica di progetto, va oltre la negazione, virtualmente fa vivere un inno, la sua visione della società, e la sua visione non è certo quella della decomposizione, non è certo quella di un linguaggio neutro, robotizzato, al contrario è linguaggio sociale che nel presente trasmette il futuro, è il ‘nuovo’ perché è il nuovo livello raggiunto dalla guerra di liberazione proletaria, non perché la ricerca estetica è andata un po’ avanti, non c’è continuità tra l’alienazione capitalista e la felicità (intesa come insieme dei sentimenti, delle emozioni umane e quindi anche come tristezza e, perché no, dolore) comunista. C’è rottura; al contrario della borghesia, il proletariato comunica la fine delle separatezze, non la sua estrema dilatazione, così come iI guerrigliero metropolitano non è la forma perfezionata delle ‘teste di cuoio’, così il linguaggio trasgressivo, non è l’estensione sociale delle ricerche di laboratorio.

Proprio per questa guerra continua tra trasgressione e sua norma, diventa praticamente impossibile ripetere il lavoro sullo schema della prima parte; possiamo solo trovare dei filoni, degli spezzoni qua e là, a volte con carattere solamente locale (certe espressioni contemporanee del la ‘musica napoletana’ tanto per dirne una) di questo linguaggio che è altro; della musicabilità della guerra proletaria. Da qui la quotidianità della lotta contro l’industria della trasgressione, la sua articolazione immediata nella metropoli: i modelli normati della trasgressione.

Passare dalla rivolta negativa, alla guerra di liberazione, vuol dire anche porsi il problema di costruire modelli ‘alternativi’ a quelli dati; questo è ancora più vero se si pensa che il quotidiano e la famiglia sono stati e sono dei pilastri della critica radicale. Ma questo terreno è estremamente complesso, e continuamente in movimento, la capacita di recupero del capitale enorme, è una continua corsa che ha i ritmi dello sprinter, dobbiamo partire da una angolatura precisa, se non vogliamo perderci in un labirinto dalle mille insidie.

I modelli della trasgressione si danno sempre come relativi e in mutazione permanente, volerli fissare significa già farli morire, relegarli al capitale, pietrificarli, rendere inerte ciò che è vita e quindi in continuo movimento. In altre parole si possono scrivere solo se intrecciati alla transizione, solo se visti dentro questo percorso.

L’intreccio dei rapporti fra i soggetti che trasgrediscono è la continua sperimentazione che fa vivere la sfera dell’emotività, della sessualità, dell’ “arte” che ridiventa vita, dentro forme che non siano lo stereotipo della spettacolarità e quindi finzione, dell’esistente capitalista; e I’ “utopia” situazionista di raggiungere un linguaggio privo di parola, perché ogni detto diventa freno di un dirsi liberato. Non possiamo sottoscrivere appieno questa tesi: ciò che però ci interessa è la ricerca di un comunicare che non è dialogo, scambio già dato, già scontato, un comunicare che non sia la somma delle varie ‘banalitá di base’, ma il reciproco trasmettersi/conoscersi dell’uomo poliritmico che ritrova identità nella diversità. Ciò che ci interessa di questa ‘utopia’, è il volersi costruire come soggetti collettivi, non mutilati, che sanno comunicare/comunicarsi percorrendo tutti i sentieri, ricoprendoli, reinventandoli, della comunicazione non normata.

Come leggere, se non dentro questa logica, la teoria del linguaggio dei corpi, come leggere la ‘riscoperta del corpo’ se non come bisogno/necessità di rompere anche le separatezze, le schizofrenie che il dominio capitalista impone agli stessi corpi? Si potrà obbiettare che su questi, come su mille cose del resto, i vari “ismi”, i vari specialisti di turno vi hanno impiantato su chili, se non quintali di merda ideologica, snaturandone i contenuti, salvandone la forma; questo è un gioco non solo vecchio, ma è la sola forma che la borghesia ha per mantenersi come classe dominante, fare propri i modelli rivoluzionari, snaturandoli e mercificandoli, per trovargli un mercato e venderli; il risultato sarà quello di una conchiglia uccisa e svuotata, senza non ha più vita, nonostante il suo fascino rimanga inalterato.

Questo non è poi diverso da operazioni a cui da tempo siamo abituati, contrapporre ciò che ormai si è assimilato che si conosce, che e controllabile, al nuovo che spaventa, contrapporre i ragazzi del ’68 (buoni e impegnati) a quelli del ’77 (cattivi e dissacratori) tanto per fare un esempio chiaro a tutti; è il gioco di voler pietrificare uno stadio della lotta di classe ormai assorbito e riciclato, per utilizzarlo contro ciò che ora invece è vita.

È una lotta tutta in difesa quella che la borghesia deve giocare, perché la creatività dell’uomo nuovo, multidimensionale e poliritmico non si fa chiudere in forme pietrificate, sconfina continuamente dalle riserve, combatte dentro e contro tutti i rapporti sociali, è un esercito che combatte, ama, canta, balla, rinnova continuamente ‘divise’, linguaggio, che quando credi di averlo preso e catturato è già evaso, si è già trasformato. Questa l’immensa ricchezza, questa capacità/potenzialità può avere un solo ostacolo, un solo confine: la capacità o meno di saper osare, di voler osare di chi questo processo lo deve storicamente rendere cosciente. II vero pericolo è di voler confinare questa ricchezza, senza parametri storici, ricchezza che ha distrutto ogni certezza, dentro dei limiti che, se offrono delle garanzie, sono solo la garanzia della noia organizzata.

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Occhio attonito e gambe di donna https://www.carmillaonline.com/2025/12/16/occhio-attonito-e-gambe-di-donna/ Tue, 16 Dec 2025 21:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91713 di Franco Pezzini

David Pinner, Ritual, ed. orig. 1967, pp. 286, € 17, trad. di Stefania Renzetti, Agenzia Alcatraz, Milano 2025.

Testimonia l’amico Fabrizio Foni, che insegna all’Università di Malta e ha avuto l’onore di aver lì ospite l’anziano regista Robin Hardy (1929-2016) poco prima che mancasse, la straordinaria disponibilità e cortesia del vecchio gentiluomo nel rapportarsi non solo ai docenti e al personale di segreteria, ma agli studenti. In un mondo dove il sussiego e la boria dilagano sui social, l’umanità elegante del regista di The Wicker Man, 1973 – forse il più bel film horror britannico e uno [...]]]> di Franco Pezzini

David Pinner, Ritual, ed. orig. 1967, pp. 286, € 17, trad. di Stefania Renzetti, Agenzia Alcatraz, Milano 2025.

Testimonia l’amico Fabrizio Foni, che insegna all’Università di Malta e ha avuto l’onore di aver lì ospite l’anziano regista Robin Hardy (1929-2016) poco prima che mancasse, la straordinaria disponibilità e cortesia del vecchio gentiluomo nel rapportarsi non solo ai docenti e al personale di segreteria, ma agli studenti. In un mondo dove il sussiego e la boria dilagano sui social, l’umanità elegante del regista di The Wicker Man, 1973 – forse il più bel film horror britannico e uno dei più belli di tutti i tempi, certamente il più amato dal mattatore Christopher Lee e oggetto di un vero e proprio mito filmico – colpisce e affascina.
Restaurato, il film è stato proposto nell’aprile 2024 dal TOHorror Film Festival al cinema Massimo di Torino permettendo di godere su grande schermo – occasione rara, in Italia – questo capolavoro assoluto: un film dove è splendido tutto, dall’intelligente e crudele sceneggiatura di Anthony Shaffer, alla favolosa fotografia di Harry Waxman, all’incredibile colonna sonora di Paul Giovanni e Gary Carpenter. E le interpretazioni, poi: Lee rende il villain con scatenata gigioneria (canta, balla…) e vorrebbe l’amico Peter Cushing nella parte del religiosissimo poliziotto protagonista – che finisce sacrificato in un rituale pagano tra le maglie dell’uomo di vimini. Cushing è però occupato su altro, perdendo in tal modo un ruolo in cui sarebbe risultato grandioso: gli subentra – peraltro con grande professionalità – un intenso Edward Woodward. In ogni caso, l’atmosfera del film è indimenticabile, e rappresenta un vero e proprio marcatore d’epoca – a richiamarne le inquietudini, i desideri inconfessabili, le fascinazioni culturali (anche peculiarmente britanniche). D’altronde The Wicker Man è un film che fa paura ai censori, e nell’Italietta d’epoca non arriva in sala.
Sarebbe ingiusto ridurre Hardy – come a volte accade con autori di capolavori – a regista essenzialmente unius operae, anche se è vero che il resto rimane minore. Persino la coppia di film proposti a formare con l’apripista del 1973 una trilogia sul revival pagano (uno realizzato, The Wicker Tree, 2011, di nuovo con Lee in un cameo – dal romanzo Cowboys for Christ dello stesso regista, 2006 – e un altro in progettazione al tempo della sua morte, The Wrath of the Gods) non presentano la forza fulminante del primo, pur svelando le qualità visionarie del timoniere. Non sono comunque sequel, mentre quello totalmente folle ipotizzato in uno script dello sceneggiatore Shaffer – e che lasciava Hardy piuttosto tiepido –, The Loathsome Lambton Worm, forse fortunatamente non è stato realizzato. Dimenticabile è invece il remake americano Il prescelto (The Wicker Man) di Neil LaBute, 2006, con Nicolas Cage.
Ma sia il film di Hardy che il pallido remake di LaBute menzionano come testo ispiratore il romanzo Ritual dell’attore, drammaturgo e romanziere inglese David Pinner (classe 1940), apparso nel 1967 con una strana, disturbante copertina: un pezzo di legno sagomato spalanca al centro un occhio attonito, mentre la parte superiore sembrare mostrare capovolte delle gambe di donna con tanto di pube. Un seguito tardivo, The Wicca Woman, comparirà nel 2014.
Ora Ritual appare finalmente in Italia (senza la descritta copertina), proposto meritoriamente da Agenzia Alcatraz, e leggendolo capiamo il livello di libertà giocate da Hardy e Shaffer, a fronte di quella che è nei fatti un’altra storia, pur con alcuni punti forti comuni. A partire da un’atmosfera generale di sopravvivenza pagana, che permette di riconoscere a Ritual un ruolo pionieristico nello sviluppo del Folk Horror e lo colloca (con altre testimonianze d’epoca o precedenti, basti pensare a certe opere di Dennis Wheatley o al film del 1957 Curse of the DemonLa notte del demonio – di Jacques Tourneur ispirato a M. R. James) tra i prodromi di quel revival magico e pagano anglosassone consacrato pochi anni dopo dall’uscita della monumentale, epocale enciclopedia Man, Myth & Magic, 1970. Va detto che un certo sottomondo tradizionale inglese lì semplicemente erompe alla pubblica attenzione, come in generale nel più ampio panorama di quel revival che Margaret Murray (1863-1963) non arriva a vedere:

La quercia era molto antica. Uno dei suoi rami più bassi era stato spezzato di recente e, circa un metro e mezzo più giù, una testa di scimmia e tre fiori d’aglio erano stati fissati al tronco con uno spillone da cappello. Eppure la bambina, addormentata alla sua ombra, sembrava ignara dell’albero e delle sue strane decorazioni. Non si accorse nemmeno del corvo che stava volando verso di lei. Non si accorse di nulla, mentre il sangue le sussurrava tra i denti e le scivolava lungo la gola. Presto le rigò i capelli color grano, ma lei continuò a non accorgersi di niente. Non stava dormendo. Dian Spark aveva otto anni ed era decisamente morta.

Leggendo il macabro avvio di Ritual, con oggetti rituali affissi a una quercia, è in effetti inevitabile pensare a certi servizi della BBC di poco precedenti, come 1964: A Curious Case of Black Magic in Norfolk, che potrebbero aver contribuito all’ispirazione dell’autore e lasciano ampie tracce (bamboline rituali, materiali vari) nel meraviglioso Museum of Witchcraft and Magic di Boscastle, nella stessa Cornovaglia del romanzo.
Un contesto insomma di assoluto fascino che rappresenta un motivo in più per avvicinare questo Ritual, scoprendovi tasselli poi ripresi liberamente nel film: un poliziotto puritano che indaga sulla scomparsa – qui morte – di una bambina in un villaggio isolato – non nelle Ebridi ma in Cornovaglia – ritrovandosi alle prese con pagani usi a riti sessuali; un pittoresco negozio che vende anche dolciumi; una ragazza disinibita che dalla propria stanza suscita in lui turbamenti notturni; costumi rituali con teste di animali… Ma ci sono anche punti di distanza: qui non troviamo il carismatico Lord Summerisle di Lee ma uno Squire ridotto in miseria, in tandem con un losco attore in pensione; non c’è una comunità compatta ma un groviglio di figure in tensione, unite dall’omertà; e il finale è piuttosto diverso. Il protagonista David Hanlin, del resto, non è il nervoso, onesto sergente Neil Howie del film di Hardy, ma un nevrotico assai più frantumato interiormente: il progetto iniziale concepito come trattamento cinematografico nel 1966 in piena Swinging London – e in cui Pinner aveva voluto mixare una storia dell’occulto con un poliziesco – era stato considerato con favore dal regista Michael Winner, e l’interprete poteva essere John Hurt. Ma poi Winner s’era ritratto considerando il trattamento “troppo ricco di immagini” (in realtà un pregio che da lettori apprezziamo moltissimo), e, su consiglio del suo agente Jonathan Clowes, Pinner ne aveva tratto un romanzo. Dedicandolo proprio a Clowes, come vediamo qui in capo al testo.
Mentre poi in The Wicker Man brillano fotografia e musica, in questo caso a colpire è una scrittura sopra le righe come il poliziotto di cui segue le derive, ispida e visionaria, psichedelica, davvero molto interessante: trovate espressive folgoranti, un vago feroce sarcasmo, un passo che svela la lunga frequentazione professionale con il teatro. La lettura è una festa – pagana, ovviamente.

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Voci dal fronte degli invisibili. https://www.carmillaonline.com/2025/12/16/voci-dal-fronte-degli-invisibili/ Mon, 15 Dec 2025 23:23:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91927 Di Jack Orlando

Sara Reginella; Il Fronte degli invisibili; Exorma Edizioni; Roma 2025; 260 pp. 16,90€

Dal 2022, con lo scoppio della guerra, il Donbass è diventato una terra proibita per i testimoni occidentali. Non che prima fosse sulle prime pagine ma la caccia ai filoputiniani e la conseguente russofobia hanno avvelenato il discorso pubblico.

Tra i pochi testimoni che hanno raccontato dal campo le vicende della popolazione delle due repubbliche separate di Donetsk e Lugansk c’è Sara Reginella, reduce ormai di diversi viaggi. L’ultimo dei quali è raccolto ne “Il fronte degli invisibili”, un volume a metà tra [...]]]> Di Jack Orlando

Sara Reginella; Il Fronte degli invisibili; Exorma Edizioni; Roma 2025; 260 pp. 16,90€

Dal 2022, con lo scoppio della guerra, il Donbass è diventato una terra proibita per i testimoni occidentali. Non che prima fosse sulle prime pagine ma la caccia ai filoputiniani e la conseguente russofobia hanno avvelenato il discorso pubblico.

Tra i pochi testimoni che hanno raccontato dal campo le vicende della popolazione delle due repubbliche separate di Donetsk e Lugansk c’è Sara Reginella, reduce ormai di diversi viaggi. L’ultimo dei quali è raccolto ne “Il fronte degli invisibili”, un volume a metà tra il reportage e il diario di viaggio sentimentale.

Non cerca l’imparzialità; anzi, è chiara la sua affezione al mondo russo. Un’affezione però che non è da propagandista, ma da chi trova casa in una cultura e un luogo lontani da quello natio. Non a caso, infatti, il volume è un continuo gioco di rimandi tra le scene raccontate in presa diretta – tra le persone che vivono vicino alla linea del fronte, a ridosso delle trincee e sotto i bombardamenti – e i propri ricordi d’infanzia, ponti che si creano nella sua vicenda personale tra le geografie dell’Anconetano e quelle di Donetsk.

Ciò che rende interessante il volume è uno sguardo rivolto non tanto alla ricostruzione storica o geopolitica, né agli sviluppi della guerra sul fronte. Sono poche le testimonianze dei generali; piuttosto, quello che emerge è il ritratto delle famiglie, delle persone comuni, storie di lutti personali e aspirazioni frustrate, voci di chi lavora, vive e muore sul fronte senza indossare la divisa. Di quelle persone sulle cui teste si decidono i rapporti di forza delle grandi potenze.

Nei racconti di questi soggetti emerge la concretezza di ciò che significa vivere in guerra.
Viene restituita la realtà dei pensieri e delle ambizioni di una fetta di popolazione che i nostri media hanno rapidamente etichettato come filorussi senza tenere in considerazione, minimamente, le storie di quei territori, le differenti memorie ed eredità che vivono nelle menti di quei cittadini. Nati e cresciuti nello spazio post-sovietico, l’identità di ciascuno è segnata dalla storia del crollo dell’Unione Sovietica e da una vertiginosa quanto drammatica fine di un mondo che ancora non è riuscito a rimettere in equilibrio i propri pezzi.

Attraverso il racconto di Reginella e le altre testimonianze della vita sui due lati del fronte – dal punto di vista delle persone comuni e dei soldati di fanteria – ci si può affacciare oltre le retoriche belliche e dare corpo a questioni geopolitiche che altrimenti restano astratte e imperscrutabili in tutta la loro sterile crudeltà.
La realtà non fa male quando è ridotta a numeri e formule, il sangue lo restituiscono solo le storie.

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La rivoluzione come una bella avventura / 8 – Os Cangaceiros: storia di vite in fuga, sabotaggi, carte false e rock’n’roll https://www.carmillaonline.com/2025/12/14/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-8-os-cangaceiros-storia-di-vite-in-fuga-sabotaggi-carte-false-e-rocknroll/ Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91792 di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente [...]]]> di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente rubato ad una scritta comparsa su un muro di Marsiglia agli inizi degli anni ’80, per comprendere appieno il significato di un testo straordinario, provocatorio, irridente e unico come l’esperienza di cui traccia il percorso e la storia, sia collettiva che individuale. Un’autentica, e spesso esilarante, storia di vite fuggiasche per scelta e di rivolte sociali spontanee e imprevedibili.

Storie in cui la tradizione millenarista si sposa con uno sguardo disincantato, maturo e attualissimo sulle contraddizioni del capitalismo degli ultimi decenni del XX secolo e del contemporaneo disfacimento della classe operaia europea, delle sue ultime lotte e delle sue sconfitte. Lotte e sconfitte, come nel caso di quelle dei minatori inglesi in epoca tatcheriana, che mescolavano tra loro forti tradizioni identitarie frammiste ad una fiducia nel ruolo dei sindacati che avrebbe contribuito a bruciarle. Sia sul fronte del lavoro che su quello politico.

Una storia, quella del collettivo francese Os Cangaceiros, di cui l’autore è stato a lungo uno degli esponenti, in cui la scelta della fuga è dettata, ancor prima che dalle finali indagini poliziesche, da una voglia di vivere tesa a superare tutti gli ostacoli che gli attuali rapporti di produzione sociali ed economici frappongono alla realizzazione di un’esistenza libera, totale e felice.

In questa scelta si è manifestata apertamente una passione politica non dettata dall’ideologia e dai racket politici e sindacali che se ne sono fatti portavoce, ma da una necessità autenticamente biologica e collettiva che il termine fin troppo abusato di biopolitica non è sufficiente per riassumerne tutte le sue implicazioni sociali, culturali, economiche e, soprattutto, di vita, lotta e rivolta.

Una necessità di allontanamento dalle leggi del Capitale e dei suoi servi, anche quando apparentemente schierati su “posizioni di classe”, che si manifesta non in comportamenti codificati una volta per tutte, come le regole dell’”impegno politico” vorrebbero imporre attraverso il “racket partito” o le sue emanazioni aspiranti marxiste, ma in esplosioni improvvise, individuali e collettive, con un’energia che per decenni ha trovato la sua pubblica e più facilmente identificabile manifestazione nel rock’n’roll e nella musica che affonda le sue radici nel delta del Mississippi: il blues.

«Abbiamo sempre vissuto più o meno in fuga», afferma Alessi mentre racconta le disavventure e le indagini poliziesche che sul finire degli anni Ottanta pesarono sui membri attivi del gruppo. Ma rifiutando le logiche utilitaristiche, spesso messe in atto dai latitanti delle organizzazioni armate, che finivano, pur «mantenendo tutte le dovute proporzioni, nella logica puramente militare di una truppa che vive a spese del paese e dei suoi abitanti», Os Cangaceiros scelsero una particolare forma di fuga che:

invece, deve essere pensata in una prospettiva rivoluzionaria, non in una prospettiva utilitarista che rischia di farci diventare sordi nei confronti del mondo. Il che presuppone anche che la fuga non sia vissuta come un dato contingente (una volta nel mirino degli sbirri, bisogna scappare in fretta e furia e trovare un rifugio costi quel che costi), ma come l’elemento stesso in cui ci si muove, come un rapporto al mondo che si costruisce con pazienza e ostinazione. Allora la fuga non viene vissuta come una conseguenza fastidiosa, ma come l’essenza stessa del proprio agire. Hegel ha detto che essere liberi significa muoversi nel proprio elemento. La fuga era il nostro elemento1.

Una fuga che, anche se rivisitata nelle pagine finali del testo di Dell’Umbria, non faceva altro che sottolineare come per il capitale e i suoi servi, di ogni colore politico, sia proprio la libertà collettiva di coloro che dovrebbero invece solo e sempre adeguarsi alle loro leggi a costituire il crimine fondamentale, cosa che fa sì che siano la repressione e la carcerazione gli unici strumenti con cui lo Stato risponde a tale innata necessità della specie2. Strumenti che Os Cangaceiros, nel periodo intercorso tra la formazione del gruppo nel 1984 e la scelta di sciogliersi nei primi anni Novanta, sempre denunciarono e contribuirono a sabotare con mezzi alla portata di tutti.

Una scelta che, nonostante il tentativo dello Stato francese e dei suoi governi di accomunarli alle formazioni armate, fece in modo che i suoi appartenenti, spesso nomadi per scelta o per necessità, rifiutassero sempre non tanto la logica delle armi quanto piuttosto le logiche politiche imposte dall’uso delle armi alle formazioni clandestine militarizzate.

Puntare un’arma può effettivamente semplificare una situazione, ma al prezzo di altre complicazioni molto spesso più pesanti da assumere… In ogni caso, negli anni Settanta abbiamo visto troppe sbandate finite nel sangue per non sapere che dal momento in cui si prendono le armi, l’improvvisazione e il dilettantismo si pagano sempre cari. I combattenti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che uscivano allo scoperto all’inizio del 1994, si erano invece preparati metodicamente per anni prima di fare irruzione armati nelle città del Chiapas. Ma di queste armi, hanno sempre cercato di farne un uso strategico, ovvero meditato.
Non avevamo una posizione di principio riguardo il ricorso alle armi. Ciò che rifiutavamo in modo assoluto, era l’avanguardismo militante delle organizzazioni impegnate nella lotta armata. Se gente così diversa, – come per esempio Jacques Mesrine, i tre di Nantes, e più tardi l’EZLN, – ha fatto ricorso alle armi, tutti agivano a proprio nome e non a nome degli altri. Visto che alcune azioni contro la costruzione dei 13.000 avrebbero potuto richiedere l’uso delle armi, a causa soprattutto della presenza di vigilanti, avevamo affrontato la questione in occasione di una riunione nel 1989. Ma è bastata una mezz’ora di discussione affinché prevalesse l’unanimità: una decisione favorevole ci avrebbe trascinati rapidamente in una spirale impossibile da controllare, soprattutto in un contesto in cui gli sbirri non aspettavano altro. Nella nostra posizione, avevamo altre possibilità per agire. Appropriarsi di competenze e abilità in diversi campi ci sembrava molto più cruciale. Perché le questioni cosiddette “tecniche” ponevano anche questioni sociali e politiche3.

Il riferimento all’Esercito Zapatista di Liberazione non è affatto casuale, poiché proprio quell’esperienza agli occhi dei Cangaceiros francesi mostrava come l’azione politica, e militare, non fosse possibile lontana dalle radici su cui si appoggiava e, allo stesso tempo, dimostrava come le rivolte un tempo ritenute millenaristiche, arretrate e comunitarie, alle quali alcuni membri del gruppo avevano già dedicato nel 1987 una vastissima ricerca4, siano sempre state sottovalutate e sottostimate nella loro reale portata dagli “oggettivisti” della tradizione marxista e leninista.

Era il controfuoco che avevamo voluto accendere prima della celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese. Così, risalendo il tempo delle rivolte e delle insurrezioni schiacciate, ma non squalificate, andavamo controcorrente rispetto all’evoluzionismo storico. Alcuni di noi avevano letto anche il libro di Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania. Il problema era che quella stessa visione progressiva della storia che aveva impedito a Engels e a Marx di cogliere il cuore razionale della rivolta luddista, aveva impedito loro di cogliere anche quello del millenarismo, che restava ai loro occhi una forma di rivolta arcaica. Era d’altronde la vulgata che riprendeva Eric Hobsbawm ne I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. In pratica, tutte queste rivolte che nel sud della Spagna, così come in Italia, assumevano carattere di imminenza radicale, venivano considerate come delle forme immature, fatalmente condannate dall’evoluzione generale della società verso la modernità. Tale visione, che si ritrova anche nel suo libro I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, aveva la capacità di farci innervosire ancora di più visto che millenarismo e messianismo vi si ritrovavano oltraggiati in nome del partito staliniano, che agli occhi di Hobsbawm era la realizzazione della Ragione e dei Lumi. Solo il libro di Ernst Bloch, Thomas Münzer, teologo della rivoluzione, scoperto mentre redigevamo L’incendio millenarista, metteva in primo piano lo spirito rivoluzionario millenarista della guerra dei contadini in Germania.
Si trattava, in fondo, di rendere giustizia a tutta una serie di movimenti e di sedizioni che avevano attraversato l’Europa per un periodo di cinque secoli… Attraverso il gesto di tornare a prima della Rivoluzione francese, intendevamo proiettarci oltre quest’ultima, oltre quell’orizzonte insuperabile di cui gli stalinisti così rispettosi delle istituzioni repubblicane e i socialdemocratici convertiti al liberalismo si apprestavano a cantare le lodi. Ma le rivolte millenariste esprimevano esigenze anti-borghesi totali, immediate e senza compromessi, laddove invece la Rivoluzione francese consacrava il regno della borghesia5.

Non solo, poiché di quelle rivolte spesso la ricerca storica, anche di parte, ha sottolineato solo le contraddizioni e le aspirazioni apparentemente utopiche e/o religiose, senza peraltro considerare che proprio la soltanto apparente utopia della libertà e dell’autogestione comunitaria delle terra, del lavoro e dei suoi frutti costituiva la più radicale e intransigente rivendicazione materiale del bisogno di comunismo.
Non nella teoria di qualche gruppo o racket politico che si pretende in grado di dirigere le “masse”, ma nell’azione diretta e collettiva delle comunità in rivolta che finivano con l’andare ben oltre i temi sventolati inizialmente dai loro capi e promotori. Così come afferma Marco Natalizi in un suo studio sulla rivolta di Pugačëv nella Russia governata dall’imperatrice Caterina II nel XVIII secolo:

Di per sé, rilevare che le decisioni prese dalle guide di un movimento sono spesso foriere di conseguenze inattese non è certo una scoperta; ma il punto da evidenziare qui è che i ribelli incaricati di redigere i primi proclami […] non erano affatto consapevoli di introdurre novità sostanziali sul piano “politico” e che furono piuttosto l’impossibilità di gestire la rivolta come una scorreria e la necessità dell’assedio e della guerra di posizione a far sì che la loro azione si trasformasse in un esperimento di ingegneria sociale in cui le diverse istanze politiche e culturali confluirono, in un dialogo tra culture, sino a dar vita alla “visione” dei ribelli. E ciò per dire di una “folla” di uomini – costretta a fermarsi, a darsi un’organizzazione, a motivare i nuovi venuti – le cui credenze, sotto la spinta delle circostanze, vennero a poco a poco trasformandosi, nei diversi proclami e manifesti, in un’autonoma e peculiare concezione – secondo il punto di vista popolare – esercizio del potere: la storia di uomini che per sopravvivere e combattere dovettero pensare un’organizzazione […] e nel farlo, ripensarsi6.

Ma ancora non basta, poiché per Os Cangaceiros riscoprire il millenarismo oppure la novità costituita dalle rivolte e rivoluzioni indigene, come quella delle popolazioni del Chiapas, significava anche ricollegare il presente e l’attualità ad una storia spesso rimossa che diventava anche rimozione del tempo con cui occorreva ricollegarsi proprio per vivere pienamente e non essere poi costretti a scrivere come Roman Jakobson nel 1930:

Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente [motivo per cui] secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, l’altra gamba corre ancora nella via accanto7.

Questa visione è quella che ha fatto sempre in modo che i Cangaceiros, ribaldi ancor prima che rebeldes, di cui ci parla Alessi Dell’Umbria in questo testo a metà strada tra saggio e autobiografia collettiva, prendessero parte a molte delle rivolte e delle manifestazioni, spesso violente, che agitarono le due sponde della Manica negli anni Ottanta, senza però mai aver la pretesa di dare loro ulteriori contenuti o di spingerle oltre i limiti che gli stessi partecipanti si davano di volta in volta. E senza mai dimenticare che la vita deve essere vissuta in ogni suo momento, molto al di là o al di qua delle parole d’ordine politiche.

Non volevano esse avanguardie i compagni e le compagne dell’autore, ma nel vivere una vita libera dalla schiavitù salariale ebbero modo di riflettere sui danni che quelle stesse rischiavano di mettere in moto ogni qualvolta cercavano di mettersi alla testa delle proteste oppure sull’opera di imbonimento che i vari partiti e sindacati di Sinistra svolsero nei confronti delle richieste e delle intenzioni reali che stavano alla base di quei movimenti, spesso inizialmente spontanei.

Tutte azioni e scelte, quelle dei racket estremisti, sindacali o socialdemocratici, che non potevano far altro che portare a cocenti sconfitte e delusioni che, insieme al lento e inesorabile trionfo dello spettacolo della merce e delle illusioni proprietarie, avrebbero finito col far transitare il soggetto un tempo proletario, operaio e ribelle europeo nelle file della destra razzista e nazionalista.

Creando così, allo stesso tempo, un immaginario scontro istituzionalizzato tra Destra e Sinistra con cui lo sviluppo di movimenti come Podemos oppure France Insoumise non hanno fatto altro che sottolineare la debolezza e la mancanza, oggi, di un reale e condiviso movimento antagonista radicale oppure la sostanziale sottomissione alle esigenze della Nazione e della sua Economia dei gruppi che vorrebbero esserne i rappresentanti formali.

Sono 183 le pagine che compongono questo agile e denso manuale di sovversione e liberazione della vita sociale. Pagine in cui i suggerimenti sul come truffare, un tempo, le banche per vivere senza bisogno di lavorare in maniera coatta si mescolano a quelle per i sabotaggi a ferrovie e cantieri per aiutare i reclusi in lotta oppure a riflessioni fulminanti e importanti sulla composizione di classe, le culture di strada e sul rifiuto delle cariche istituzionali e universitarie così come di un’istruzione classista e di quasi tutta la ricerca prodotta nelle sedi del potere ad essa riconducibili.

Così le impressioni successive agli scontri dei minatori inglesi sotto la Tatcher si mescolano a quelle relative alle rivolte dei giovani immigrati e punk di Brixton, oppure agli scontri degli hooligans con la polizia in ogni angolo d’Europa o dei giovani che si oppongono alla chiusura oraria di un pub o all’apertura di un nuovo e devastante cantiere per una grande e velenosa opera desinata a distruggere vita umana e ambiente. Magari scientificamente motivata dal “progresso”.

Ma ci sono molte altre considerazioni che qui non possono essere tutte affrontate insieme, mentre il Jim Morrison di «We wanti the world and we want it now!» rimane lì come un faro ad illuminare la via tra gioie, sconfitte, amarezza e speranza che nessun progetto carcerario o politico istituzionale potrà mai contribuire a cancellare del tutto perché, come si afferma ancora nel testo, la memoria, per esser davvero tale, è sempre rivolta al futuro.

Note a margine
Per approfondire i temi affrontati in questo libro, si consiglia la visione della video-intervista ad Alèssi Dell’Umbria, realizzata nel marzo 2025 al bar de la Plaine a Marsiglia, dal titolo: L’histoire d’Os Cangaceiros. Banditisme, sabotages et théorie révolutionnaire, disponibile online sul sito lundi.am.

Dello stesso autore oltre al già citato Incendio Millenarista è stato pubblicato in Italia anche Il rogo della vanità, autoproduzioni fenix, Marsiglia Torino Parigi, primavera 2009 (Edizione originale francese: C’est de la racaille? Eh bien j‘en suis!, edizioni L’echappée, Marsiglia, maggio 2006).


  1. A. Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 120-121.  

  2. Si veda in proposito l’opuscolo: Un crimine chiamato libertà, edito in Italia nel 2003 dalle edizioni l’arrembaggio e NN, in cui sono raccolti alcuni testi pubblicati sul secondo numero della rivista «Os Cangaceiros» nel novembre 1985, dedicato alle rivolte dei detenuti francesi del maggio 1985, insieme ad altri sempre prodotti dall’omonimo collettivo francese  

  3. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 169-170.  

  4. Yves Delhoysie – George Lapierre, L’incendio millenarista. Tra apocalisse e rivoluzione, Malamente – Tabor, Urbino – Valsusa, 2024.  

  5. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 97–98. 

  6. M. Natalizi, La rivolta degli orfani. La vicenda del ribelle Pugačëv, Donzelli Editore, Roma 2011, p. 97.  

  7. R. Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 42.  

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Aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi. Le 72 stagioni del Giappone https://www.carmillaonline.com/2025/12/13/aprire-gli-occhi-e-prestare-ascolto-alla-natura-e-ai-suoi-ritmi-le-72-stagioni-del-giappone/ Sat, 13 Dec 2025 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91319 di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e della neve, della fioritura delle piante, della maturazione dei frutti e del complesso comportamento degli animali, seguendo con precisione il ritmo regolare della natura, tra periodi di crescita, riposo e trasformazione». Nonostante il passaggio al calendario gregoriano, le tradizioni legate alle 72 stagioni – sostiene Roberta Santagostino nel volume riccamente illustrato che vi ha dedicato – restano ancora oggi radicate nella cultura nipponica.

La sensibilità giapponese nei confronti dei mutamenti della natura affonda le sue radici nella società aristocratica del VII secolo assumendo valenze estetiche ed intime, oltre che pratiche. «Nella ricerca di un equilibrio che potesse mitigare le durezze dell’inverno e i calori estremi dell’estate, si sviluppò un’immagine idealizzata della natura, riflessa in molte forme artistiche: dalla pittura alla poesia, dai giardini paesaggistici alla cerimonia del tè, fino all’arte floreale ikebana. Attraverso i brevi poemi waka e con le poetiche suggestioni haiku, la natura e il ritmo delle stagioni vennero codificate in una serie di immagini e riferimenti condivisi» divenute con il tempo «linguaggio, memoria, credenza locale».

Le 72 stagioni si aprono con i giorni di inizio febbraio in cui termina il grande freddo ed inizia il disgelo proseguendo poi con i primi cinguettii dell’anno degli usignoli che annunciano l’arrivo della primavera. Dunque, con lo scioglimento del ghiaccio, seguono i periodi in cui i pesci iniziano a nuotare più in superficie in attesa del tepore primaverile, l’ammorbidimento del terreno ad opera della pioggia, la foschia che avvolge il paesaggio, lo spuntare dell’erba, il germogliare degli alberi e, con l’avvicinarsi all’equinozio, la ripresa della vita da parte degli insetti, lo spuntare dei fiori di pesco a segnalare il diffondersi della primavera, dunque il mutare dei bruchi in farfalle, la preparazione dei nidi da parte dei passeri e il far capolino dei fiori di ciliegio sul finire di marzo. Seguono poi i giorni dei primi tuoni e con essi l’arrivo dei temporali, il ritorno delle rondini, la partenza delle oche selvatiche per il nord, i giorni degli arcobaleni, lo spuntare delle canne dalle acque, la crescita delle piantine di riso, la fioritura delle peonie, il diffondersi delle rane con i loro gracidii nelle risaie e negli stagni, il riemergere dei lombrichi dal terreno, lo spuntare dei germogli del bambù “moso”, la ricomparsa dei bachi da seta ecc. in un susseguirsi delle 72 stagioni che vanno a terminare, a fine gennaio, con il periodo più freddo dell’anno in cui il ghiaccio ricopre i fiumi mentre sotto di esso la vita continua a manifestarsi e, nei giorni a cavallo tra gennaio e febbraio, con le galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera.

Ognuna di queste microstagioni, come detto, nella cultura nipponica assumono anche valenze estetiche e intime. Il canto dell’usignolo, ad esempio, è spesso presente nella poesia giapponese per rappresentare, oltre l’arrivo della stagione primaverile, «la consapevolezza malinconica della transitorietà delle cose» mentre la carpa, per le sue qualità di forza, vitalità e perseveranza, si ritiene possa portare fortuna, ricchezza e positività. Alla carpa è legata anche l’antica leggenda della “Porta del drago” che la celebra come esempio di forza e perseveranza necessarie al conseguimento degli obiettivi della propria vita.

Nei tempi antichi la foschia primaverile che avvolge i piedi delle montagne veniva paragonata all’orlo del kimono indossato da Sao-hime, la giovane dea della primavera immaginata nella sua veste candida e soffice come la nebbia primaverile. Le suggestioni del paesaggio avvolto nella foschia primaverile, scrive Santagostino, richiamano il termine yūgen che allude al mistero e all’ambiguità delle cose rarefatte, indistinte, incerte di cui è pervasa la natura. «Yūgen è la bellezza che possiamo percepire in un oggetto, anche se non immediatamente riconoscibile e non vista direttamente. Yūgen è suggestione, memoria persistente, retrogusto o implicazione». Nella cultura zen si ricorre a tale termine per il suo «comunicare naturalezza, effimera bellezza e mutevolezza, così come il vento che si sente soffiare ma non si vede e l’acqua che scorrendo cambia continuamente stato e forma. Yūgen è bellezza latente che va scoperta con l’immaginazione». Nel mondo giapponese il concetto di yūgen ha influenzato la letteratura, la pittura, il teatro e l’architettura, finendo per divenire un termine di uso comune nella cultura nipponica.

La microstagione in cui i bruchi iniziano a trasformarsi in farfalle e la comparsa dal nulla di queste ultime è stata vista in Orente, fin dall’antichità, come simbolo di rinascita e come incarnazione dell’anima. In Giappone, ricorda Santagostino, antiche credenze popolari vogliono che gli spiriti dei defunti assumano proprio la forma di una farfalla nel loro viaggio verso l’altro mondo, oppure che gli spiriti dei morti vengano guidati dalle farfalle nel loro percorso. Nella cultura giapponese, per la sua grazia e bellezza, la farfalla è anche associata alla femminilità, e non manca di essere vista come segno di buna fortuna per incontrare l’anima gemella. Il motivo della farfalla lo si ritrova spesso nelle decorazioni per i matrimoni e sugli yukata e sui kimono delle giovani. Nel periodo Edo, il soggetto della farfalla è ricorrente nelle opere degli artisti ukiyo-e come Utagawa Hiroshige, Kubo Shunman, Yanagawa Shigenobu, Totoya Hokkei e Utagawa Toyokuni.

Se la comparsa primaverile dei fiori di ciliegio si lega all’antica tradizione hanami (visione dei fiori di ciliegio), è nel periodo Heian (794-1185) che, negli ambienti aristocratici, si iniziò a guardare ad essi come simbolo dei fiori primaverili, tanto da venire celebrati attraverso poesie waka e feste dedicate alla fioritura che avrebbero poi condotto, nel corso della società dei samurai, alla “visione dei fiori di ciliegio” che, nel periodo Edo, sarebbe poi divenuta parte della cultura popolare. «Ciò che i giapponesi ammirano dei fiori di ciliegio», sottolinea Santagostino, «non è solo la bellezza, ma anche la loro transitorietà, per questo l’hanami porta con sé un vago senso di malinconia e rimpianto per la fugacità della vita, per il passare inesorabile del tempo e per l’impermanenza di ogni cosa».

Per ognuna delle 72 stagioni, la studiosa si sofferma sulle cerimonie, le feste popolari e le rappresentazioni artistiche che le caratterizzano e per i colori che in qualche modo le caratterizzano, segnalando non solo gli aspetti simbolici, ma anche le pratiche per ottenerli in modo da poter essere utilizzati nei dipinti e nei tessuti. Con riferimento alla quarantaduesima stagione (Nogi sunawachi minoru), tra il 2 ed il 7 settembre, ad esempio, quando si giunge alla maturazione del riso e ci si avvicina al raccolto, e i campi si colorano di giallo, la studiosa si sofferma sul colore azzurro dei fiori mattutini della tsuyukusa, o “erba della rugiada” che compare a chiazze sulle rive dei torrenti e ai lati delle strade, utilizzati in passato per tingere la stoffa e per ottenere il pigmento blu che si ritrova in numerose xilografie Ukiyo-e del XVIII e XIX secolo.

A proposito della cinquantasettesima stagione (Kinsenka saku), tra il 17 ed il 21 novembre, caratterizzata dalla fioritura del narciso, il “fiore nella neve” elegante e dalla tenue fragranza, che compare all’inizio dell’inverno, apprezzato nell’arte dell’ikebana, Santagostino si sofferma sul colore delle “foglie verdi marcite” (Aokuchiba), «una sfumatura tra verde opaco e marrone giallastro, molto usata nei tessuti e nelle pitture tradizionali», spesso presente nelle vesti di corte del periodo Heian, «considerato un colore elegante e malinconico citato negli antichi elenchi cromatici per la stratificazione dei colori nei kimono di corte».

Riferendosi alla sessantaseiesima stagione (Yuki watarite mugi nobiru), 1-4 gennaio, caratterizzata dal germogliare del grano sotto a neve, l’autrice del volume si sofferma sulla prima raccolta di illustrazioni dedicata all’osservazione dei fiocchi di neve (Sekka Zusetsu) sul finire del periodo Edo, realizzata da Toshitsura Doi. «Il metodo che utilizzava per osservare la neve era sorprendentemente raffinato per l’epoca. La notte prima di una prevista nevicata, faceva raffreddare all’esterno un telo di stoffa nera. Durante la caduta della neve, i fiocchi si adagiavano delicatamente su questa superficie scura. Poi, con estrema cura, Toshitsura li prelevava con una pinzetta e li disponeva su una tavoletta nera laccata per aumentarne il contrasto. L’osservazione avveniva tramite uno strumento importato dai Paesi Bassi: il “Lan Mirror”, un microscopio occidentale che permetteva di ammirare i minimi dettagli delle strutture cristalline». La catalogazione di Toshitsura, “il Signore dei fiori di neve”, oltre che rivelarsi un’attenta opera di osservazione scientifica, mostra anche «come la bellezza della natura abbia influenzato profondamente il gusto estetico e la moda del Giappone premoderno».

Affrontando l’ultima delle 72 stagioni (Niwatori hajimete toya ni tsuku), tra il 30 gennaio ed il 3 di febbraio, caratterizzata dalle galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera, Santagostino ricorda come, prima dell’industrializzazione dell’avicoltura, in condizioni naturali le galline tendessero a rallentare, quando non a sospendere, la deposizione di uova in inverno, dunque le poche uova raccolte nei mesi più freddi fossero considerate particolarmente preziose. In particolare, le uova deposte il primo giorno del “Freddo maggiore” venivano considerate di buon auspicio. «Fin dall’antichità, le galline sono state considerate uccelli sacri perché annunciano l’alba, segnando il passaggio dalla notte, tempo degli dèi e degli spiriti, al giorno, in cui l’attività umana riprende. Proprio per questo motivo, sono simbolicamente perfette per annunciare anche la fine del lungo inverno».

Per quanto i cambiamenti climatici abbiano scombussolato i ritmi naturali su cui era stato pensato, l’antico calendario delle 72 stagioni ha ancora oggi molto da dirci e il volume di Roberta Santagostino, impreziosito da una miriade di illustrazioni, ha il merito non solo di esporre al lettore occidentale un universo culturale lontano e poco conosciuto, ma anche quello di suggerire la necessità impellente di un approccio alla natura altro rispetto a quello dello sfruttamento sconsiderato e (auto)distruttivo contemporaneo. Il calendario tradizionale scandito in attimi della tradizione nipponica suggerisce la necessità di imparare nuovamente ad aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi, oltre le distese di asfalto, di cemento armato e di schermi in cui si è finiti a vivere.

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Agonie di vivi e desolazioni di spettri (Victoriana 60) https://www.carmillaonline.com/2025/12/12/agonie-di-vivi-e-desolazioni-di-spettri-victoriana-60/ Fri, 12 Dec 2025 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91285 di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della [...]]]> di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della scrittura l’appannamento dei fantasmi. Un concerto incerto e ambiguo in cui alla visione si contrappone più frequentemente il suono, la voce, il sussurro o l’urlo.
Sostanzialmente ignota al grande pubblico italiano e del resto talora maltrattata anche da critici anglosassoni, Gertrude Atherton (1857-1948) è stata in realtà una notevolissima testimone del suo tempo – offrendo tra la valanga della sua produzione anche pregevoli prove nel genere oggi noto come weird.
Idealmente collocabile per fantasie e scrittura tra Bierce ed Henry James con un tocco di Dickens, questa signora dalla lunga vita vede cambiare il volto degli USA dov’è nata – a San Francisco, da famiglia abbiente – e il mondo dove ha modo di viaggiare, soprattutto a Londra e nello Yorkshire, in Bretagna e altri luoghi della Francia, a Monaco. Mai a proprio agio nel ruolo di madre e neppure in quello di moglie – né di amante – ha idee radicali nel condannare l’istituzione matrimoniale, nel rivendicare una propria indipendenza come scrittrice, nel supportare il suffragio femminile. Scrive forse troppo e di fretta ma con un buon successo: prevalentemente romanzi di costume – soprattutto vividi quelli di ambiente californiano –, ma anche politici e storici, con fascinazioni nietzschiane e darwinistiche magari non particolarmente originali ma che nel contesto non stupiscono. Comunque sarebbe ingiusto sottostimare una produzione di trentotto romanzi, tre raccolte di racconti, un’autobiografia e parecchie opere saggistiche, lascito di una personalità straordinaria: e lo stile è vivido, interessante. Meritevole, da parte di Hypnos, aver riscoperto l’autrice.
Atherton sopravvive a terremoto e incendio di San Francisco del 1906, e dopo un iniziale disinteresse per le cause della Grande Guerra abbraccia con forza la causa antitedesca a seguito dell’affondamento del Lusitania (1915). Aperta alle nuove arti, scrive persino una sceneggiatura per il cinema a richiesta di Samuel Goldwyn. Ultrasessantenne, sentendosi indebolita si sottopone a pionieristiche (e in seguito screditate) pratiche di ringiovanimento, con raggi X di basso livello sulle ovaie per stimolare la produzione di ormoni – e in apparenza non ne trae svantaggi. A seguito di dialoghi con l’occultista Cora Potter, giunge a ipotizzare di essere la reincarnazione di Aspasia, l’amata di Pericle, e ne trae spunto per romanzi storici di ambientazione anticogreca. A dispetto di una reciproca svalutazione come scrittrici, avvia anche un rapporto di piacevole frequentazione con Gertrude Stein. Scrive quasi fino alla fine e muore dopo la conclusione del Secondo conflitto mondiale, testimone inquieta del mutare dei mondi.
Che i suoi racconti weird rivelino dei nervi scoperti non è strano: la morte della nonna che è costretta a baciare cadavere, la morte di un figlio bambino (a seguito della quale prende a scrivere), e quella del marito su una nave verso Valparaiso (con l’impressionante conseguenza del corpo riportato a San Francisco in una botte di rum) sono solo tre degli eventi traumatici della sua vita. A seguito della lettura del macabro “Il guardiano dei morti” di Bierce (1889) gli scrive indignata per l’effetto scioccante recatole, evidentemente a traino di fatti vissuti.
Del suo canone weird, di cui Joshi valorizza nove titoli, l’edizione italiana propone sette racconti: tutti, appunto, dipanati attorno alla soglia ultima. Senso del macabro, orrore del trapasso, speculazioni sul rapporto sfuggente tra anima e corpo, miserie di età e di patologie: un orrore inscenato con spiegata eleganza. Troviamo così storie quasi bierciane di agonie, come nei racconti di orrore psicologico “La morte e la donna” (1992), che schiude a una potenziale sovrannaturalità solo in termini ambigui e ipotetici, “Una tragedia” (1893) dove a morire sono anzitutto – inaccettabilmente – le speranze di una vita, “La cosa migliore per tutti” (1900, 1905) in cui coscienza e approccio darwinistico vengono a collidere con intensità quasi intollerabile. In altri casi la morte erompe con la sua “tragica impersonalità”, come nel raggelante “Acque assassine” (1896, 1900), o ristagna nel dubbio (anche qui, nessuna certezza nel palpitare d’un fantastico alla Todorov) di possibili reincarnazioni, come nel bel “La campana nella nebbia” (1903), dove la presenza perturbante di una bimba incantevole strania un protagonista sosia di Henry James.
In questi casi il racconto mette in primo piano coppie di persone diversamente assortite, mentre un paio di testi evocano dimensioni corali: in particolare i due dove l’autrice, quasi a eco dei propri viaggi attraverso gli USA e nel Vecchio Mondo, lavora sul tema del lungo convoglio di morti o di vivi. Il topos è antico, ma la resa è molto originale. Ne “Le caverne della morte” (1886) al filtro del sogno di una notte di vigilia natalizia corrono veicoli dalla natura incerta che paiono prefigurare il bianco e nero del muto Il carretto fantasma di Victor Sjöström (1921): conducono a un Ade in cui permangono e ristagnano le follie e le vanità degli uomini – un’allegoria onirica, in tutta evidenza, che parla più del mondo dei vivi che di credenze (dubbie, nel caso di Atherton) in un aldilà. Mentre struggente è “Un cimitero inquieto” (1902) che incuriosirebbe Bernanos, morto per inciso lo stesso anno della Nostra: dove in un angolo del Finistère bretone il passaggio dei nuovi lunghi e fragorosi treni risveglia penosamente i morti, tra il dolente imbarazzo del vecchio prete e l’insoddisfazione di una giovane contessa morente (l’ennesima agonia), già “sepolta” socialmente in quella zona isolata.

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Emilio Quadrelli, un comunista eretico contro la guerra https://www.carmillaonline.com/2025/12/11/emilio-quadrelli-un-comunista-eretico-contro-la-guerra/ Thu, 11 Dec 2025 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91385 a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato [...]]]> a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato per radicalismo tendono ad offuscare o a rinnegare del tutto.

Un’eresia che si è manifestata in quasi tutti gli scritti del comunista genovese attraverso la riscoperta dei barbari, bianchi o di altra etnia, che insorgono contro l’esistente; dell’attenzione per quello che troppo spesso è definito, superficialmente e in maniera liquidatoria, come sottoproletariato; dei concetti di razza e genere come importanti fondamenta della rivolta contemporanea, fuori e dentro i confini di un impero occidentale in via di disgregazione; della guerra civile come parte integrante e ineludibile del percorso che guida sia gli stati in direzione di un conflitto allargato per il predominio del mercato mondiale sia la lotta dal basso indirizzata ad evitare la carneficina oppure a ribaltarla in processo rivoluzionario per molti versi inaspettato.

Ma, occorre qui aggiungere, Emilio oltre che eretico è stato indubbiamente un grande e significativo seguace del sincretismo in politica, non essendo interessato alla difesa della continuità di una particolare linea o corrente marxiana. Piuttosto, come di è già detto poc’anzi, è stato sempre interessato ad individuare nelle infinite correnti del pensiero e, soprattutto, dell’azione ispirati dall’utopia comunista, tutti gli elementi più utili per l’interpretazione e l’individuazione di quella soggettività di classe di cui è stato un costante osservatore, estimatore e promotore ovunque ciò fosse possibile. Dall’apprezzamento per «il bisogna sognare!» di Lenin al pensiero di Lukács; per certi aspetti dell’agire togliattiano e altri, teorici e ben diversi anche se mai apertamente dichiarati, di Bordiga; per l’azione militante di Lotta Continua oppure della concreta autonomia operaia di fabbrica e dei giovano barbari delle periferie torinesi e milanesi che negli anno Settanta diedero vita alle “ronde proletarie” fino a quella dei nuovi barbari delle banlieue parigine e marsigliesi o, ancora, del milieu genovese di cui fu grande conoscitore e amico rispettato.
E tutto questo soltanto per fare pochi e rapidi esempi.

Per approfondire lo studio del pensiero e la comprensione del contributo dato da Quadrelli al movimento antagonista contro la guerra e il capitale, giovedì 18 dicembre, a Bologna in via Zamboni 38, dalle 15 alle 19, si terrà un pomeriggio di studio dal titolo Emilio Quadrelli e la guerra, con il seguente programma:

ore 15

Apertura

Rosella Simone – “Emilio, il barbaro”

ore 15,30 -17

Atanasio Bugliari Goggia e Jack Orlando – “Il primeggiare del far morire dei nostri mondi all’epoca della crisi”

Marco Codebò – “Quale soggettività contro la guerra?”

Sandro Moiso – “Le eresie di Emilo Quadrelli”

Pausa caffé

ore 17,30 – 19

Dibattito

Apertura – Sandro Mezzadra

Chiusura – Bruno Turci

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