Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinato a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate aventi dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero ne frenare ne comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

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Palestina, colonialismo sionista e capitalismo fossile americano https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/palestina-colonialismo-sionista-e-capitalismo-fossile-americano/ Tue, 18 Nov 2025 23:30:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90984 di Fabio Ciabatti

Adam Hanieh, Robert Knox, Rafeef Ziadah, Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine, Verso Book, London-New York 2025, pp. 112, € 11,87

Forse un tempo si sarebbe parlato di banalità di base, ma oggi certe cose è bene non darle troppo per scontate: per comprendere la tragica situazione dei palestinesi e le strutture del dominio di Israele occorre considerare, in una prospettiva di lungo periodo, il ruolo del Medio Oriente nell’ambito dell’ordine capitalistico regionale e mondiale incentrato sul petrolio, così come è stato plasmato dall’egemonia americana a partire dagli anni ’60. In questa logica, anche il concetto di [...]]]> di Fabio Ciabatti

Adam Hanieh, Robert Knox, Rafeef Ziadah, Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine, Verso Book, London-New York 2025, pp. 112, € 11,87

Forse un tempo si sarebbe parlato di banalità di base, ma oggi certe cose è bene non darle troppo per scontate: per comprendere la tragica situazione dei palestinesi e le strutture del dominio di Israele occorre considerare, in una prospettiva di lungo periodo, il ruolo del Medio Oriente nell’ambito dell’ordine capitalistico regionale e mondiale incentrato sul petrolio, così come è stato plasmato dall’egemonia americana a partire dagli anni ’60. In questa logica, anche il concetto di colonialismo di insediamento, che è essenziale per comprendere la formazione dello stato sionista, per avere forza analitica deve essere contestualizzato nell’ambito della più ampia espansione del capitalismo europeo e collegato al processo di formazione di nuove classi di capitalisti e lavoratori nei territori colonizzati. Per inquadrare il cosiddetto conflitto israelo-palestinese in questo tipo di cornice, che unisce un approccio storico-materialistico con il pensiero decoloniale, è utile leggere Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine (Resistere alla cancellazione. Capitale, imperialismo e razza in Palestina), scritto da Adam Hanieh, Robert Knox e Rafeef Ziadah. Un approccio che ci aiuta anche a non essenzializzare questo conflitto evitando di ridurlo a un metastorico scontro di civiltà tra mondo giudaico-cristiano, l’Occidente, e quello arabo musulmano, l’Oriente, senza considerare il moderno contesto politico-economico in cui si è sviluppato.

Ovviamente gli autori non negano che la Shoah abbiano abbia costituito un fattore decisivo di legittimazione per il progetto sionista. Sottolineano, però, che questo progetto non avrebbe potuto essere coronato da successo in mancanza di una convergenza con gli interessi imperialisti inglesi nel Medio Oriente agli inizi del Novecento. Interessi focalizzati sul controllo del petrolio, in particolare attraverso l’Anglo-Persian Oil Company in Iran (nel 1911 il governo britannico decide di sostituire il carbone con il petrolio come combustibile per la sua flotta navale), e sul controllo del canale di Suez, rotta commerciale che connetteva i mercati europei con l’Est e in particolare con l’India, al tempo baricentro dell’impero britannico. Nel 1916, con l’accordo di Sykes-Picot, Inghilterra e Francia si accordano segretamente per spartirsi i territori dell’Impero Ottomano in vista della sua sconfitta nella Prima guerra mondiale in corso. Nel 1917, con la famigerata dichiarazione di Balfour, gli inglesi danno il via libera alla colonizzazione sionista della Palestina, destinata di lì a poco a diventare un mandato britannico, al fine di costituire una fedele testa di ponte in Medio Oriente in vista della futura indipendenza degli stati arabi.

Dopo la Seconda guerra mondiale, però, lo scenario in questa area geografica cambia radicalmente per effetto dell’intrecciarsi di due diverse dinamiche, come mette in evidenza il testo. In primo luogo il petrolio si afferma come principale fonte di energia per i paesi sviluppati alimentando il boom economico di quegli anni: dal 28% del consumo complessivo di combustibili fossili nel 1950 passa a più della metà alla fine degli anni Sessanta per i paesi più ricchi rappresentati nell’OCSE. Più o meno nello stesso periodo il consumo globale di combustibili fossili raddoppia. A metà degli anni Cinquanta circa il 40% delle risorse accertate di petrolio si trova nel Medio Oriente (soprattutto nei paesi della penisola arabica), un’area che ha anche il vantaggio di trovarsi in prossimità dell’Europa.
Il secondo elemento che cambia lo scenario regionale è l’emergere dell’egemonia statunitense nel quadro della guerra fredda con l’URSS. L’ultimo colpo di coda del colonialismo anglo-francese nell’area è rappresentato dal tentativo nel 1956 di riprendere manu militari, insieme a Israele, il controllo del Canale di Suez, nazionalizzato dal presidente egiziano Nasser, il più importante rappresentante del nazionalismo panarabo. Tentativo bloccato proprio dagli USA (provvisoriamente in accordo con l’URSS) che l’anno successivo formulano la cosiddetta dottrina Eisenhower, implicitamente rivolta contro lo stesso Nasser, dichiarandosi pronti a utilizzare la loro forza militare per difendere l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di ogni nazione del Medio Oriente. Ma è il 1967 a rappresentare il vero momento di svolta che designa Israele come perno di un nuovo sistema di sicurezza egemonizzato dagli Stati Uniti: nella guerra dei sei giorni lo stato sionista ottiene una schiacciante vittoria contro Egitto, Siria e Giordania che gli permette di occupare Cisgiordania, Gaza, alture del Golan e penisola del Sinai (quest’ultima restituita nel 1979 all’Egitto). È un colpo mortale per il nazionalismo panarabo di Nasser la cui maggiore attrattiva, sottolinea il testo, era costituita dal considerare il petrolio come “un inalienabile diritto arabo” in grado di unificare i popoli del Medio Oriente contro l’imperialismo occidentale. Un progetto che trovava supporto popolare in tutta l’area, compresi i paesi che si consolideranno come la seconda gamba dell’egemonia statunitense: l’Arabia Saudita e le piccole monarchie del Golfo.
Il progetto nasseriano, sostenuto dall’URSS, doveva essere sconfitto per consolidare il potere del capitalismo fossile a guida americana e Israele si è prestato a fare il lavoro sporco con la sua potenza militare. Con altri mezzi, ma altrettanto sporchi, era stato sconfitto anche il progetto del premier iraniano Mossadegh, colpevole di aver effettuato la prima nazionalizzazione del petrolio nel Medio Oriente. Un colpo di stato orchestrato da Regno Unito e Stati Uniti nel 1953 fa salire al potere lo Shah Reza Pahlavi, fedele alleato dell’Occidente fino alla rivoluzione del 1979 che si conclude con la fondazione della repubblica islamica guidata dall’ayatollah Khomeini.  

Come testimoniano le vicende iraniane ed egiziane, la lealtà agli USA dei paesi arabi e musulmani è sempre a rischio a causa delle pressioni dal basso delle loro popolazioni. Da questo punto di vista Israele presenta per gli USA un grande vantaggio, legato alla sua natura di colonia di insediamento. In alcuni casi, sostengono gli autori, il capitalismo caratteristico di questo tipo di colonie fa affidamento sullo sfruttamento della manodopera indigena (per esempio in Sud Africa), ma per lo più è spinto dall’imperativo di eliminare, marginalizzare o  rimuovere la popolazione locale, come è accaduto per Israele. Per questo c’è bisogno di una classe lavoratrice non nativa che trae sostanziali vantaggi economici e politici dall’espropriazione degli abitanti originari e che, di conseguenza, è portata ad assumere un carattere sciovinistico.
Allo stesso tempo, le colonie di insediamento tendono a favorire la crescita delle proprie classi capitaliste locali che finiscono per promuovere la separazione politica dalle rispettive madrepatrie pur mantenendo spesso forti legami con esse e fungendo così da avamposti per la loro proiezione imperiale. Il caso di Israele è certamente sui generis, mancando di una madrepatria in senso stretto. Ciò nonostante ha dovuto fare affidamento su un padrino esterno anche dopo la sua nascita. Questo perché, sintetizzano gli autori, le colonie di insediamento, dovendo costantemente rafforzare le strutture di oppressione razziale, sfruttamento di classe ed espropriazione, sono tipicamente società altamente militarizzate e violente che devono fare affidamento sul sostegno esterno per mantenere i propri privilegi materiali in un ambiente regionale ostile. In effetti Israele è il Pese che ha ricevuto di gran lunga più aiuti economici da parte degli Stati Uniti, anche senza considerare i miliardi di garanzie sui prestiti che hanno consentito allo stato sionista di ottenere finanziamenti a basso costo sul mercato mondiale (privilegio, quest’ultimo, che gli USA hanno riservato solo ad altri cinque stati).  

Tanta munificenza non si può certo spiegare con l’influenza delle lobby ebraiche negli Stati Uniti che pure esistono e sono molto potenti. Si può solo comprendere, sottolinea il testo, con il ruolo fondamentale di Israele per gli interessi americani nell’area. Un ruolo che non si esaurisce con la sconfitta di Nasser perché le sfide si moltiplicano, per esempio con la creazione dell’OPEC nel 1960 e la nazionalizzazione del petrolio in molti paesi dell’area durante gli anni Settanta e Ottanta. Processi che avrebbero potuto preludere alla creazione di un polo di potere autonomo se non fosse stato per la continua ingerenza degli Stati Uniti supportati dal loro fedele alleato sionista. In questo contesto, l’interesse americano non è solo quello controllare l’offerta del petrolio sul mercato mondiale, ma anche quello di governare l’immane flusso di denaro che scaturiva dai proventi della sua vendita, soprattutto dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 che fanno impennare il prezzo del greggio. Questioni legate a doppio filo al dominio americano sul mercato finanziario globale a sua volta connesso con il ruolo del dollaro come moneta di riserva mondiale.
A tutto ciò si connette il tentativo di normalizzare i rapporti politici ed economici tra Israele e i Paesi dell’area, con particolare attenzione al secondo polo del dominio americano in Medio Oriente, le monarchie del Golfo. Un esempio di questa politica è rappresentato dal programma delle Qualifying Industrial Zones, istituite per la prima volta alla fine degli anni Novanta in Egitto e Giordania. Queste aree manifatturiere con basso costo del lavoro e attive prevalentemente nel settore tessile e abbigliamento vengono esentate da dazi doganali per le loro esportazioni verso gli Stati Uniti a patto di produrre congiuntamente con investitori israeliani. Meno fortunato è stato il progetto di costituire la Middle East Free Trade Area (MEFTA), un’area di libero scambio che entro il 2013 avrebbe dovuto abbracciare l’intero Medio Oriente. Ciò nonostante Gli Stati Uniti ad oggi hanno stipulato cinque Accordi di libero scambio nell’area (con Israele, Bahrain, Marocco, Giordania e Oman) sui quattordici complessivi che hanno siglato in tutto il mondo. Su questa scia si collocano gli Accordi di Abramo, firmati durante la prima presidenza Trump, che hanno portato Emirati Arabi Uniti e il Bahrain a regolarizzare i propri rapporti con Israele. 

Comprendere le dinamiche capitalistiche che investono il Medio Oriente ci aiuta a spiegare le posizioni dei governi arabi, pronti ad assumere una postura antimperialista per ottenere una facile legittimazione agli occhi dei propri cittadini, purché si rimanga entro i limiti di una retorica fine a sé stessa. Le medesime dinamiche ci consentono anche di comprendere come la società palestinese sia attraversata al suo interno da profonde differenze politiche e di classe, sebbene troppo spesso venga considerata come un tutto omogeneo. Per inquadrare questo ultimo aspetto è utile una breve disamina della situazione che si è sviluppata dopo gli Accordi di Oslo. Con questa intesa, siglata nel 1993, Israele si è limitata a riconoscere l’OLP come legittimo rappresentante dei palestinesi, ma non ha mai accettato il diritto di questo popolo a un suo proprio stato, al contrario della stessa OLP che ha riconosciuto il diritto all’esistenza dello allo stato sionista. Di fatto, Israele ha subappaltato le responsabilità per la sua sicurezza alla neocostituita Autorità Nazionale Palestinese, mentre ha tenuto per sé tutte le leve economiche per governare i territori di Gaza e Cisgiordania.
La moneta, l’energia elettrica, le telecomunicazioni, le risorse acquifere e quelle del sottosuolo, il movimento di merci e persone rimangono infatti sotto il controllo israeliano. Non sorprende che l’interscambio commerciale palestinese abbia come controparte assolutamente preponderante lo stato sionista (74% delle importazioni e 88% delle esportazioni nel 2005). Per di più, la maggior parte delle risorse finanziarie a disposizioni dell’Autorità palestinese, destinate per una quota maggioritaria agli apparati di sicurezza addestrati dalle potenze occidentali, derivano dalle imposte indirette che sono riscosse dallo stato sionista e poi trasferite all’Autorità stessa, salvo essere trattenute ogni qual volta l’esattore lo ritenga opportuno.
In questo contesto, la manodopera proveniente dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza diventa una riserva di lavoratori che può essere assunta o licenziata a seconda delle contingenze economiche e politiche. La tendenza di fondo è però quella di sostituirla con lavoratori stranieri: negli anni immediatamente successivi agli accordi di Oslo, tra il 1992 e il 1996, la quota dei lavoratori palestinesi impiegati in Israele scende dal 33% al 6% della forza lavoro di Cisgiordania e Gaza, mentre i corrispondenti guadagni crollano dal 25% al 6% del PIL di questi stessi territori. Nel 2000, i lavoratori del settore pubblico rappresentano circa un quarto dell’occupazione totale palestinese, un livello quasi raddoppiato dalla metà degli anni ’90. L’altra principale fonte di occupazione è il settore privato dei servizi, dominato in modo schiacciante da piccole imprese a conduzione familiare a causa di decenni di politiche di de-sviluppo israeliane che fanno leva anche sulla frammentazione del territorio palestinese in piccole enclave separate tra loro da colonie, check point, muri e strade ad utilizzo esclusivo degli israeliani.  In questo contesto di particolare importanza è stata la separazione, attraverso un anello di colonie, di Gerusalemme dalle aree circostanti della Cisgiordania perché questa città non rappresentava solo un centro religioso, ma anche il nodo principale delle attività economiche, commerciali e finanziarie dell’intera West Bank.

Allo stesso tempo si consolida un piccolo ma crescente strato di classe capitalistica autoctona che ha finito per dominare i settori più redditizi dell’economia, come le banche e l’edilizia, anche se i segmenti maggiori del capitale palestinese sono rimasti all’estero, soprattutto negli stati del Golfo, dove la componente più benestante della società proveniente dall’ex mandato britannico era emigrata dopo il 1948 e il 1967. Con gli accordi di Oslo una parte di questa facoltosa diaspora è rimpatriata andando a costituire una componente fondamentale della base sociale dell’Autorità palestinese insieme all’élite tradizionale pre-1967 (soprattutto i vecchi proprietari terrieri) e agli strati imprenditoriali che, grazie alle loro connessioni con il potere sionista e con quello palestinese, si occupano prevalentemente di importazione e distribuzione di merci. Una classe che ha promosso le ben note politiche neoliberiste, sponsorizzate dalle istituzioni finanziarie internazionali, favorendo privatizzazioni e tagli della spesa pubblica, fatta eccezione per quella destinata alla sicurezza. In breve, esiste un blocco politico-economico la cui fedeltà alla causa nazionale è indebolita dal suo intreccio di interessi con l’occupante sionista e con gli stati arabi da cui provengono circa metà dei finanziamenti a disposizione di palestinesi.

Tornando allo scenario internazionale, gli autori sottolineano che, nonostante tutti gli sforzi degli Stati Uniti che abbiamo brevemente tratteggiato, negli ultimi anni abbiamo assistito a un’erosione del predominio americano in Medio Oriente legato alla riconfigurazione del capitalismo globale. Stati come Iran, Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno ampliato significativamente il loro raggio di azione politico ed economico, per non parlare del ruolo importante svolto da potenze esterne come Russia e Cina. Il Medio Oriente è stato fondamentale nello spostamento verso est del mercato mondiale: oggi la maggioranza delle esportazioni di petrolio e gas provenienti da quest’area si dirige verso l’Asia, in particolare verso la Cina, piuttosto che verso i paesi occidentali. Per di più, la rete dei rapporti economici che connette il Medio Oriente, la Cina e l’Asia orientale, spazia oramai dalla finanza alle tecnologie “verdi”, dall’intelligenza artificiale all’edilizia e agli investimenti infrastrutturali.
Anche in questa nuova situazione, la politica americana ha cercato di rafforzare i suoi tradizionali orientamenti strategici nell’ambito della continua espansione del capitalismo fossile. Ciò è stato confermato anche con l’annuncio nel settembre 2023 del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa, un’iniziativa sponsorizzata dall’UE e sostenuta dagli Stati Uniti che prevede una rete commerciale e di trasporto per collegare l’India all’Europa attraverso Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Israele e Grecia. Un progetto che si configura esplicitamente come una sfida alla Belt and Road Initiative cinese e che assume particolare rilievo a fronte dell’interruzione dei rifornimenti energetici provenienti dalla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Uno dei principali ostacoli ai progetti guidati dagli Stati Uniti nel Medio Oriente rimane la continua resistenza del popolo palestinese. Per questo, la sua liberazione dal giogo sionista, conclude il testo, non può prescindere dallo smantellamento dell’ordine del capitalismo fossile a guida americana e delle alleanze su cui questo ordine si basa. In altre parole, la straordinaria battaglia per la sopravvivenza condotta oggi dai palestinesi assume un significato che va al di là delle sorti di questo eroico popolo.

La valenza generale della sua lotta è confermata anche dal fatto che il razzismo sistemico nei confronti del popolo palestinese si inscrive nel più ampio quadro di quello oramai dilagante nell’Occidente che si rivolge contro il Sud globale e, in particolare, contro il mondo islamico e gli immigrati. Il pregiudizio etnico-religioso di cui sono oggetto i palestinesi, infatti, parla il linguaggio della guerra al terrorismo ed è giustificato dal bisogno di sicurezza. È lo stesso linguaggio, notano gli autori, che hanno adottato gli Stati Uniti per lanciare la guerra globale al terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e che ha legittimato guerre preventive e omicidi mirati, con una logica del tutto simile a quella utilizzata da Israele contro la resistenza palestinese e gli stati circostanti. Insomma, il razzismo che giustifica il genocidio palestinese come atto difensivo contro il terrorismo la vediamo all’opera in molte altre aree del mondo, insieme all’ampia gamma di armi e di sistemi di sicurezza che, dopo essere stati testati a Gaza e nella Cisgiordania, rappresentano una delle maggiori voci dell’export israeliano.

In questo contesto, il suprematismo occidentale (di cui quello sionista è una singola fattispecie, ma particolarmente rilevante) non deve essere considerato come il mero frutto di pregiudizio etnico o religioso, di un’atavica paura dell’Altro, ma come uno strumento di dominio, espropriazione e sfruttamento a servizio delle potenze capitalistiche. Per questo, possiamo aggiungere in conclusione, per i popoli e le classi sociali che vogliono oggi sottrarsi alla necropolitica del capitalismo contemporaneo, la solidarietà nei confronti dei palestinesi non è soltanto un atto necessario per rimanere umani, ma anche un primo passo concreto verso la propria stessa liberazione. 

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Sillabario della terra di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2025/11/17/sillabario-della-terra-di-giacomo-sartori/ Mon, 17 Nov 2025 21:25:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91576 Piano B edizioni, Prato 2025 pagg 152 € 15,43

Dopo Coltivare la natura (Kellermann 2023) Giacomo Sartori, che scrive prevalentemente romanzi, porta avanti il suo percorso narrativo-scientifico sulla materia che conosce meglio: la terra, i suoli, quella sezione dell’ambiente che ci ospita e ci dà da vivere. E’ un agronomo e un geologo, studia i terreni, indaga sul loro uso e abuso – l’edilizia selvaggia, l’agricoltura intensiva – li ama, quasi in una simbiosi con gli odori, i colori, e ne denuncia il saccheggio e la violenza della società dei consumi. E’ un testo ibrido, in cui le osservazioni storico-scientifiche si [...]]]> Piano B edizioni, Prato 2025 pagg 152 € 15,43

Dopo Coltivare la natura (Kellermann 2023) Giacomo Sartori, che scrive prevalentemente romanzi, porta avanti il suo percorso narrativo-scientifico sulla materia che conosce meglio: la terra, i suoli, quella sezione dell’ambiente che ci ospita e ci dà da vivere. E’ un agronomo e un geologo, studia i terreni, indaga sul loro uso e abuso – l’edilizia selvaggia, l’agricoltura intensiva – li ama, quasi in una simbiosi con gli odori, i colori, e ne denuncia il saccheggio e la violenza della società dei consumi. E’ un testo ibrido, in cui le osservazioni storico-scientifiche si uniscono in osmosi con le esperienze personali del narratore. Racconta il mondo sotterraneo affollatissimo di creature piccole o invisibili sempre in attività, i lombrichi, la infinità di batteri che la rendono un organismo vivente e addirittura senziente, come la Gaia di Asimov. Il testo è illustrato coi disegni a china di Elena Tognoli. Di seguito pubblichiamo la prefazione di Paolo Pileri, professore ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, e alcuni estratti del libro. (MB)

Dare voce alla terra

Innumerevoli volte ho scritto che una delle prime cose che possiamo fare tutti noi per tutelare il suolo è quella di parlarne, di raccontare cosa è il suolo, la sua bellezza, la sua potenza, le sue funzioni ma anche le sue fragilità. Insomma, noi tutti possiamo e dobbiamo, ognuno con le proprie forze e capacità, dare voce al suolo che voce non ha. Ogni speranza di cambiamento ha nell’uso libero della parola il suo primo atto rivoluzionario. Il sillabario di Giacomo Sartori è questo: una forma possibile, e creativa, per tenere viva quella possibilità di cambiamento aiutando il lettore ad acquisire e/o rafforzare le proprie conoscenze e consapevolezze sul suolo così da essere più efficace nel dare voce alla terra e nel far valere i diritti del suolo davanti a chi pretende di aggredirlo. Con un linguaggio accessibile e sempre chiaro, il sillabario riesce a raccontarci cosa è la terra, forse il più antico tra gli ecosistemi. Lo fa attraverso venti storie più un prologo e una conclusione.

Trovo efficace e pulita l’idea del sillabario perché è un modo sincero e originale di raccontare le cose come stanno e per tenerci svegli. Già perché il suolo può morire, come scrive nel prologo. Una tremenda verità contro la quale dobbiamo opporre tutte le nostre forze, inventandoci sempre nuove tattiche perché la terra non può, ma soprattutto non deve, morire. La sopravvivenza del suolo dipende da noi. O spariamo dal pianeta Terra o dovremo imparare a fare un passo indietro che possiamo fare con convinzione se ci sforziamo di conoscere la terra in quanto corpo ecologico allontanandoci dal pensiero unico che la vede solo come risorsa da sfruttare. Ecco allora dispiegarsi nelle pagine, con meritorio tono divulgativo, quelle argomentazioni scientifiche utili a spiegarci i segreti della terra, le sue proprietà, le sue capacità generative. Una spiegazione mai didascalica e neutra, sempre acutamente disincantata perché capace di guardare negli occhi noi uomini predoni e le nostre invenzioni tecnologiche fintamente conservative per il suolo, ma in verità sempre troppo obbedienti agli interessi di giganti globali ovvero quelle grandi multinazionali e imprese, da sempre posizionate laddove si formano e si prendono le decisioni in tema di politiche agricole e quindi di uso del suolo. Giganti globali che hanno spavaldamente dettato l’agenda colturale e culturale tutta la filiera agricola e agroalimentare incuranti del suolo e condizionando le nostre scelte alimentari. Ma il sillabario di Giacomo Sartori è un testo dalla parte del suolo e quindi il suo modo di porsi non poteva che essere di aiuto a vedere con chiarezza i ‘nonsense’ di alcune agricolture o di alcune produzioni alimentari; le esiguità degli studi scientifici sul suolo a causa della carenza di investimenti pubblici in ricerca indipendente; la inazione della politica che continua a non avere il suolo in cima alla propria agenda.

Nel sillabario impariamo che il suolo non si ammala da solo, non viene eroso dalla natura per un vezzo della natura stessa, non perde sostanza organica da solo, né decide di avvelenarsi in una sorta di spirale suicida. Quando qualcosa di ciò accade è perché in qualche punto del sistema siamo intervenuti noi umani rapinando terra, inquinandola, deportandola, sfruttandola e così via. E il sillabario lo racconta aiutandoci a prendere posizione in una società sempre più innaturale che decide con disarmante leggerezza di consegnare a una intelligenza artificiale le redini delle decisioni. Decisioni che così saranno sempre più povere di senso etico. Occorre allora cambiare, e in fretta. Ma per cambiare servono le persone che costruiscono le basi di ogni cambiamento e ci aiutano a vedere come scegliere di evitare lo sfruttamento del suolo nascosto in tante nostre scelte quotidiane che possiamo evitare o migliorare.

L’autore chiude il sillabario svelandoci la doppia sensazione che lo ha spinto a scriverlo. Da un lato il fatto che gli pareva che la terra avesse bisogno di aiuto e questo ci riporta al concetto iniziale di dare voce alla terra così da ingigantire le fila degli alfieri per la sua tutela. Dall’altro c’è il riconoscere che siamo noi ad aver bisogno dell’aiuto della terra. Siamo noi che dobbiamo imparare ad ascoltarla facendoci umili (parola che deriva da humus, peraltro) per poi, come dicevo, ripensare completamente i diversi modi con i quali interagiamo e impattiamo, ovvero abitiamo la terra e la Terra. Se al nostro pianeta i nostri antenati meno incoscienti di noi hanno dato il nome Terra è perché sapevano bene e meglio di noi quale fosse la parte più importante del globo su cui abitiamo e la prima di cui prenderci cura: la terra con la t minuscola. Eppure noi abbiamo scordato tutto ciò e ci muoviamo con spavalderia e la disgrazia di elefanti in una cristalleria.

Termino ricordando che, sebbene il libro guardi in prevalenza al suolo nel mondo agricolo – l’autore, lo ricordo di nuovo, è un agronomo –, i suoli sono fortemente minacciati dall’aggressione spietata operata dalle trasformazioni urbanistiche volute dall’uomo in nome di quel che lui chiama ‘sviluppo’, una parola che dobbiamo far uscire di scena.

Questo libro è quindi da consigliare a tutti perché tutti abbiamo bisogno di tenere gli occhi ben aperti e arricchire le nostre parole in difesa del suolo.

Estratti

Vocazione p. 10
Adesso però ero a mio agio, ero in sintonia con la terra. Ora la sentivo respirare, percepivo che stava solo attendendo, sotto la sua apparenza tramortita. Sapeva che alla lunga l’avrebbe vinta lei, la tracotanza degli uomini li avrebbe portati alla sconfitta. Non lo intuivo, ma ormai la terra mi aveva preso, non mi avrebbe più
lasciato.

Pedologi p. 28-29
Anch’io sono un pedologo, quando sono in una buca perdo la cognizione del tempo e di me stesso, e mi lascio cullare dagli odori di umido e di funghi. Mi sforzo di cogliere quanti più dettagli possibile della sezione terrosa che ho davanti, e questa tensione mi assorbe completamente. Forse proprio perché so bene che molti aspetti mi sfuggono, e che non posso capire tutto. Ma certo non si tratta di una pura concentrazione cerebrale con qualche spruzzatina filosofica, le sensazioni fisiche restano sempre presenti. Spesso chi mi sorprende così dedito mi domanda qual è il mio vero impiego, non possono pensare che quello sia un lavoro retribuito.

I colori della terra p.39
I colori della terra hanno pochi ingredienti, che sono facili da reperire. Il pigmento fondamentale è costituito dagli ossidi di ferro, i quali hanno un legame molto stretto con il clima. Nelle regioni calde o comunque con una stagione calda e secca, come quelle mediterranee, hanno gradazioni rossastre o decisamente rosse, e insomma rugginose. Sono le Terre rosse che tutti conosciamo. E anche quando il clima si avvicina a quello mediterraneo, senza esserlo davvero, come in molte zone del nord Italia, i toni tendono al rosellino o al bruno arrossato. Le varie sfumature terra di Siena, per intenderci.

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Camera senza vista https://www.carmillaonline.com/2025/11/16/camera-senza-vista/ Sun, 16 Nov 2025 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91529 di Emanuela Monti

Si era decisa a cercare casa troppo tardi. Aveva aspettato la sua amica del cuore, sperando di andare a a vivere con lei, ma poi Francesca aveva rinunciato all’idea di trasferirsi a Perugia.

Anna invece voleva andarsene dal paese. Voleva allontanarsi a ogni costo da quel luogo tossico. Aveva un amore finito alla spalle e poi era stanca della sua vita monotona, di quelle facce che invecchiavano prima del tempo e di quelle quattro vie, percorse milioni di volte da quando era bambina.

Era stanca soprattutto di suo padre, che le sbraitava contro per ogni sciocchezza e le [...]]]> di Emanuela Monti

Si era decisa a cercare casa troppo tardi. Aveva aspettato la sua amica del cuore, sperando di andare a a vivere con lei, ma poi Francesca aveva rinunciato all’idea di trasferirsi a Perugia.

Anna invece voleva andarsene dal paese. Voleva allontanarsi a ogni costo da quel luogo tossico. Aveva un amore finito alla spalle e poi era stanca della sua vita monotona, di quelle facce che invecchiavano prima del tempo e di quelle quattro vie, percorse milioni di volte da quando era bambina.

Era stanca soprattutto di suo padre, che le sbraitava contro per ogni sciocchezza e le piombava in camera all’improvviso, spegnendole di prepotenza lo stereo perché il volume era troppo alto. Era stufa di sua madre, che le dava della “zingara” perché la sua camera era sempre in disordine e le chiedeva se non si vergognasse, “una donna di vent’anni, una donna in età da famiglia”, a tenere la propria stanza in quello stato.

No, Anna, che oltretutto aveva diciotto anni, e non venti, come le rammentava sempre sua madre, non si vergognava. Semmai la imbarazzava fingere di studiare, per evitare di essere chiamata ad aiutare, giù nella botteguccia di alimentari. E non per motivi di ordine morale: si vergognava davanti a se stessa, per quel suo sentirsi in dovere di fare la messinscena.

Se non fosse stata così vile e così orgogliosa le avrebbe urlato contro che in fondo lei non doveva niente a nessuno, perché non l’avevano mai amata.

Ma siccome questa spavalderia le faceva difetto, Anna vedeva nell’università l’unica via di fuga. Era sempre stata una studentessa brillante, nonostante l’impegno discontinuo, e i suoi trovavano naturale che approdasse all’università. Del tutto fuori luogo giudicavano invece l’idea che Anna si trasferisse a Perugia, ma lei aveva fatto un’opera di persuasione molto sottile, convincendoli che per via dell’obbligo di frequenza era impossibile fare la pendolare: si sarebbe ammazzata di stanchezza e poi, a conti fatti, tra biglietti dei mezzi pubblici, colazioni e panini al bar, avrebbe finito per spendere di più. Di fronte a questa argomentazione, come Anna aveva previsto, ogni loro resistenza era crollata.

Anna si ritrovò così, a metà novembre, a cercare un posto letto in affitto a Perugia.
Nella bacheca della facoltà c’era rimasto ben poco e i prezzi, anche solo dei posti letto, erano alle stelle. Alla fine notò un annuncio per una camera in appartamento con altre studentesse. Il prezzo era ottimo e Anna immaginò che ci fosse sotto qualche imbroglio, tuttavia provò a telefonare e fissò un appuntamento.

Il palazzo era proprio in centro. Aveva un magnifico atrio, che immetteva in una corte interna abbellita da aiuole di camelie e rododendri e da statue antiche. Anche l’appartamento era d’epoca, con pavimenti in marmo a scacchiera e soffitti molto alti, e la ragazza che glielo mostrava, sebbene sembrasse uscita da una rivista patinata, pareva cordiale.
L’appartamento era suo e lo divideva con due amiche, con le quali aveva frequentato il liceo e con le quali si era poi iscritta a Economia. Siccome le spese condominiali erano piuttosto alte e le seccava chiedere i soldi alle amiche o al padre, aveva deciso di affittare una stanza che si trovava in fondo al corridoio.

Nell’avvicinarsi alla stanza, non senza imbarazzo, Eleonora disse che la camera era grande e che però, essendo nata come guardaroba, non aveva finestra.

Anna pensò con sgomento: “sarebbe come stare in una tomba”. Ma poi si disse che, a dispetto delle finestre, anche la sua casa al paese per lei era come una tomba e scorrendo nella mente l’immagine delle tre stanze in cui consumava la sua esistenza grigia, ricordò che di notte le capitava spesso di svegliarsi di soprassalto, con la sensazione di essere morta e le sagome degli oggetti familiari popolavano il suo inferno silenzioso, come anime di dannati.

E poi la sistemazione nella stanza senza finestre poteva essere una soluzione provvisoria. Avrebbe cercato qualcosa di meglio, quando si fosse ambientata.

Eleonora disse che comunque, se voleva, poteva studiare nel salone e utilizzare la stanza senza finestre soltanto per dormire.

Così Anna si convinse e due giorni dopo si trasferì a Perugia.
I primi giorni trascorsero sereni. La situazione cambiò quando arrivarono Silvia e Marella.

Marella in particolare si rivelò una pessima compagna di appartamento. Era una ragazza altezzosa, che riservava ad Anna quel minimo di cortesia impostole dall’educazione, ma che dava chiaramente a intendere di non voler approfondire la conoscenza. Di sicuro la scelta della stanza senza finestre era bastata a farle giudicare Anna una pezzente. Qualsiasi dubbio residuo fu comunque spazzato via la sera in cui Marella le chiese in modo esplicito: “di che cosa si occupa tuo padre?”. La risposta “ha una bottega di alimentari” fu accolta da uno sguardo di gelo e da un silenzio penoso e segnò l’alba e il tramonto della relazione tra Anna e Marella.

Il peggio è che Marella aveva un forte ascendente su Eleonora e Silvia, per cui, quando erano tutte e tre insieme, non degnavano Anna di alcuna considerazione.

A tavola le tre amiche scartavano i loro pacchettini di alta gastronomia e chiacchieravano senza sosta, escludendo Anna dalla loro conversazione. Talvolta le rivolgevano un distratto “ne vuoi?” e riprendevano a parlare, senza neppure aspettare la risposta, che, comunque, era sempre negativa. Anna infatti si sentì a disagio fin dal primo momento e le sarebbe parso di umiliarsi assaggiando una delle loro prelibate insalate russe o quel patè di salmone per cui Marella andava pazza. Quindi Anna mangiava in fretta il suo piatto di pasta e si ritirava in camera sua.
Col tempo si stufò di sostenere una parte che in fondo nessuno le aveva richiesto e cominciò a consumare i pasti quando le altre erano fuori o quando avevano già mangiato. E presto smise anche di studiare nel salone o di trascorrere la serata, come le era capitato a volte i primi giorni, insieme alle compagne di appartamento.
Quando non usciva, passava il tempo nella sua stanza senza finestre.

Non aveva ancora stretto molte amicizie, ma una compagna di corso le aveva proposto di studiare insieme. Così ogni pomeriggio si incontrava con Lisa in facoltà e non tornava a casa prima delle sette. In questo modo riusciva a tenere lontano il pensiero della stanza senza finestre.

Quando usciva dall’università, però, l’angoscia l’assaliva e non l’abbandonava più fino al mattino. Dormiva poco e male. Le sembrava di trascorrere la notte in uno stato di dormiveglia continuo e al mattino non riusciva a ricordare i sogni che forse aveva fatto.

Anche qui, di colpo, aveva la sensazione di essere morta, ma nell’oscurità assoluta della stanza senza finestre non riusciva neppure a intravedere le sagome minacciose degli oggetti. Ne percepiva comunque la presenza. Presto si animavano e li sentiva strisciare, bisbigliare, sibilare. Nel buio ogni rumore si amplificava e la sopraffaceva.
Anna voleva andarsene da lì, ma non aveva soldi e al paese non ci voleva tornare.

Quello sarebbe stato ancora peggio. Almeno di giorno a Perugia respirava e ogni momento poteva portare con sé un’esperienza nuova e nuove possibilità.

Come la sera in cui Lisa la invitò a teatro. Davano l’Amleto di Shakespeare e Anna non si fece ripetere due volte l’invito.

Indossò un vestito nero dalla linea diritta e si truccò con cura, ma in modo leggero. Lisa insisté per prestarle degli orecchini di ametista, che si intonavano al grigio screziato dei suoi occhi, esaltandone lo splendore.
Quella sera si sentiva bella e le sembrò che per strada la gente si voltasse a guardarla. Quella sensazione andò aumentando nel foyer del teatro, durante l’intervallo, quando si sentì sfiorare dalla sguardo di molti uomini. Di uno in particolare si accorse, forse perché si distingueva subito in mezzo alla folla azzimata, per l’abbigliamento meno ricercato, ma soprattutto per la bellezza e la nobiltà dei lineamenti.

Dirigendosi con Lisa verso il bar, Anna gli passò accanto tenendo gli occhi bassi per la timidezza, ma proprio allora si sentì chiamare da qualcuno che stava in piedi vicino a lui. Con disappunto riconobbe Eleonora e, dietro di lei Silvia, che la salutarono stupite. Anna farfugliò qualcosa mentre sentiva il suo viso farsi di brace.
Con l’audacia garbata che solo gli uomini affascinanti possono permettersi, Alberto si presentò, senza aspettare che le ragazze intercedessero per lui. Ci tenne a precisare che era il cugino di Eleonora e quindi chiese scherzando se anche Anna fosse destinata a diventare una donna in carriera. Anna scosse la testa sorridendo e rispose che studiava filosofia, ma non sapeva ancora che avrebbe fatto da grande.

Dopodiché, temendo di diventare importuna, salutò e si allontanò con Sonia.
Era agitata da sensazioni e pensieri contrastanti: da un lato la certezza che Alberto l’avesse notata tra tutte le altre, dall’altro lo sconforto più nero all’idea che Alberto venisse a sapere qualcosa sul suo conto tramite Eleonora e le sue amiche. Era facile immaginare i commenti che potevano fare su di lei. Per un attimo le sembrò di sentirle parlare sul serio, le sentì ridacchiare mentre Marella chiedeva: “com’è che la zombie è uscita dal loculo?”

Si perse il seguito perché Lisa interruppe il corso dei suoi pensieri, chiedendole qualcosa, ma per tutta la serata provò un dolore acuto all’idea che le compagne di appartamento l’avessero ridicolizzata.

In effetti avrebbe preferito che Alberto non l’avesse degnata di uno sguardo. Aver destato il suo interesse per poi essere fatta a pezzi ai suoi occhi dall’ironia di Marella senza alcuna possibilità di difesa le pareva una beffa. Così sperò di non incontrarlo mai più. La mattina dopo, però, mentre usciva dal bagno, sentì che Eleonora diceva a Marella: “indovina chi viene a cena stasera?”

Marella non indovinò. Anna invece intuì subito che Eleonora si riferiva ad Alberto. Per un momento provò il piacere del trionfo, perché l’istinto le diceva che l’onore di quella visita era tutto per lei, ma il piacere si spense subito, sopraffato dall’orrenda prospettiva di una serata con loro nel ruolo dell’esclusa oppure da sola nella stanza senza finestre. Così decise che non sarebbe rientrata per cena.

Trascorse la serata fuori con due compagni del liceo e per alcuni giorni non vide Alberto, né sentì parlare di lui.
Una sera però, uscendo dalla facoltà, vide qualcuno staccarsi dal muro di cinta e farlesi incontro.
“Ciao Anna, mi riconosci?”
“Sì, che ci fai qui?” chiese lei in modo brusco.
“Ti aspettavo. Sono giorni che ti dò la caccia. Mi sono anche fatto invitare a cena da mia cugina, ma tu non c’eri. E ogni volta che vengo lì da voi sei sempre fuori”
“Sono una zombie anomala. Entro nella tomba di notte e di giorno vago tra la folla”, disse Anna con tono di sfida, nell’intento di suscitare una reazione rivelatrice.
“Perché? Che è questa storia della tomba?”
“Non ti hanno raccontato che dormo nella stanza senza finestre?”
“Quale stanza? Vuoi dire il guardaroba? Io pensavo che dormissi nel salone!”
L’espressione di Alberto sembrava sincera e Anna si rese conto che non avevano detto niente di lei. Dopotutto che c’era di strano? Erano talmente disinteressate alla sua esistenza che forse non la prendevano neppure in giro.
Anna pensò che avrebbe potuto evitare quell’accenno, ma dopotutto forse era meglio così. Meglio che Alberto sparisse subito, se doveva sparire.

Alberto invece non lo fece. Le restò accanto per oltre quattro anni.
Anna non dormì più nella stanza senza finestre, ma nell’attico di Alberto, un open space di ben 200 metri quadri, dove di finestre ce n’erano otto e da cui si dominava tutta la città.

Condivisero tutto e ad Anna parve che davvero nulla potesse dividerli. Alberto era diverso dalla sua famiglia. Non ostentava la propria estrazione sociale, non giudicava la gente per quello che possedeva. Anzi, non giudicava affatto, perché era una persona nobile e disinteressata.
Anche quando la lasciò lo fece con nobiltà.

Alberto frequentava la scuola di cinematografia sperimentale di Roma da un anno, quando un compagno di corso gli propose di partecipare al progetto di un film in Spagna.

Anna rimase da sola a casa di Alberto. Aveva declinato l’invito ad accompagnarlo in Spagna, con la scusa degli ultimi esami e della tesi. Qualche anno prima non avrebbe esitato a infilare qualche cambio d’abito in valigia e partire con lui, ma ora, ora aveva la sensazione che qualcosa di impercettibile, di infinitamente piccolo, ma con una portata devastante, si fosse insinuato tra loro e fosse sopraggiunto a turbare l’equilibrio del loro rapporto.
Alberto stava scoprendo un mondo nuovo e lo stava facendo senza di lei; stava crescendo senza di lei e ad Anna pareva che la sua immagine stesse impallidendo sullo sfondo.

Improvvisamente, con Alberto, le capitava di sentirsi di troppo e l’imbarazzante vestito color carta da zucchero che suo padre indossava per le feste comandate tornò a pesarle.

Non c’era nulla che potesse rimproverare ad Alberto; come sempre era pieno di attenzioni per lei. Facevano meno spesso l’amore, ma questo in fondo era naturale, dopo diversi anni. Era naturale, si diceva, ma non per lei. Era addestrata al disamore e aveva sviluppato antenne potentissime, così, nel profondo, si ostinava a leggerci i prodromi della fine.

Scelse di passare anche le vacanze estive da sola, in un orgoglioso isolamento, fingendo di studiare, in realtà aspettando con il cuore in gola le telefonate di Alberto dalla Spagna. Ma non le aspettava con gioia. Ora aveva paura. Aveva paura di lui e di quel suo mondo nuovo, da cui era tagliata fuori.
Aveva paura di sentirsi dire con delicatezza, perfino con dolcezza, che si era innamorato di un’altra, finché Alberto lo fece davvero. Finalmente pronunciò quelle parole e Anna provò un dolore lancinante mischiato a un senso di sollievo.

Alberto le disse che poteva rimanere nel suo attico fino alla laurea e magari dopo, se ne avesse avuto bisogno. Lui si sarebbe trasferito a Madrid dalla sua nuova ragazza, che aveva a disposizione un grande appartamento, perché era figlia di un diplomatico.

Ecco, ora tutto tornava. Tutto si concludeva com’era nell’ordine delle cose.
Anna ovviamente declinò l’offerta. Meglio una stanza senza finestre, meglio una camera senza vista, piuttosto, si disse.

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Cronache da un paese che non esiste. Forse https://www.carmillaonline.com/2025/11/15/cronache-da-un-paese-che-non-esiste-forse/ Sat, 15 Nov 2025 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91333 di Francesco Gallo

Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta. Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana, pp. 264, € 20, Blackie, Milano 2025.

1. Tra le più importanti espressioni di quel “revival magico” che tra gli anni Sessanta e Settanta ebbe luogo nel nostro Paese – un rinnovato interesse verso l’occulto in espressioni tanto “artistiche” quanto “reali”: da un lato, opere di finzione come il film Giulietta degli spiriti (1965) di Federico Fellini, il best seller Non è terrestre (1969) di Peter Kolosimo, lo sceneggiato Il segno del comando (1971) di Daniele Danza; dall’altro, la proliferazione di [...]]]> di Francesco Gallo

Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta. Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana, pp. 264, € 20, Blackie, Milano 2025.

1.
Tra le più importanti espressioni di quel “revival magico” che tra gli anni Sessanta e Settanta ebbe luogo nel nostro Paese – un rinnovato interesse verso l’occulto in espressioni tanto “artistiche” quanto “reali”: da un lato, opere di finzione come il film Giulietta degli spiriti (1965) di Federico Fellini, il best seller Non è terrestre (1969) di Peter Kolosimo, lo sceneggiato Il segno del comando (1971) di Daniele Danza; dall’altro, la proliferazione di medium, cartomanti e sedicenti parapsicologi come, per esempio, il sensitivo Gustavo Rol – occorre menzionare, sicuramente, “I misteri d’Italia” di Dino Buzzati: un insieme di pezzi giornalistici, commissionati e pubblicati sul “Corriere della sera” nel 1965, pubblicati da Mondadori nel 1978.
Con l’obiettivo di narrare alcuni dei personaggi più strani, originali, stravaganti, e, perché no, anticonformisti che popolavano, e, in certi casi, popolano ancora (per fortuna e per sfortuna, dipende dai casi), il nostro Paese, l’esponente più autorevole del fantastico italiano (assieme a Italo Calvino e Tommaso Landolfi) traccia i contorni di uno spettacolo che, nei suoi momenti migliori, possiede la precisione fantasmatica dei paesaggi delle fiabe.
La penna di Buzzati – sempre distante da qualsiasi intellettualismo – passeggia in mezzo alle figure talvolta bizzarre, talvolta strampalate, del suo vastissimo diorama letterario, portandoci a fare la conoscenza, tra gli altri, di: Giuseppe Maria Abbate fu Carmelo, un barbiere siciliano che, trasferitosi a «Nuovaiorche», afferma «di avere abitato su Marte e di essere un Messaggero Celeste presso gli uomini»; Melissa, la «strega del Gran Sasso», la quale vive in un borgo sperduto «tra boschi, ripidi prati e magri campi» e di se stessa, affranta, racconta: «Pianse la mamma quando io nacqui, per giorni e notti mi hanno detto che pianse, e morì pochi mesi dopo, credo che morì proprio per questo, perché ero nata io figlia maledetta. […] Settima femmina di una famiglia senza maschi, nata al settimo mese avvolta nella placenta, sette e sette, numero della malasorte. Chi mai nacque più strega di me?».
Detto ciò, a una prima occhiata, ma, attenzione: soltanto a una prima occhiata, potremmo essere portati a sistemare accanto a “I misteri d’Italia” di Dino Buzzati anche questo ultimo lavoro di Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta (Blakie Edizioni), dotato di un sottotitolo che recita: Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana.

2.
Già autore di programmi televisivi (Le invasioni barbariche, Dilemmi), libri (Figli delle stelle, Teneri violenti, Letà della tigre) e podcast (tra i tanti, La torre e il borgo fantasma, la storia di alcune delle più importanti colonie estive del Novecento: è bellissimo), Ivan Carozzi da qualche anno porta avanti, assieme al giornalista Enrico Deaglio (che di Cronache dall’Italia nascosta firma una pregevolissima prefazione), la stesura di una serie di volumi di storia – C’era una volta in Italia, si chiamano – di cui, per il momento, sono stati pubblicati: Gli anni sessanta (Feltrinelli, 2023) e Gli anni settanta (Feltrinelli 2024).
Forte di un approccio dichiaratamente “pop”, istruttivo e curioso (apprezzato sia da chi le decadi in questione le ha vissute sulla propria pelle e sia da chi le ha studiate tra le pagine dei sussidiari), la narrazione, impreziosita da un vastissimo apparato iconografico dalle scelte mai scontate, ripercorre una selezione significativa degli eventi, tra fatti noti e meno noti, che hanno contrassegnato l’arco temporale che va dal cosiddetto miracolo economico italiano (siamo alla fine degli anni ’50) agli attentati dell’11 settembre 2001. (Non a caso, la serie dovrebbe concludersi con Gli anni Duemila.)
Sarebbe facile, a questo punto, cadere nella convinzione che tra i mille e mille fatti (e Fattacci, per dirla con un bel libro di Vincenzo Cerami) raccolti da Deaglio e Carozzi – una über narrazione che tiene insieme la crescita vertiginosa dell’industria, la contestazione giovanile, la strategia della tensione, gli “anni di piombo” e le tante riforme sociali ed economiche vissute e subite dal Paese – ce ne siano stati alcuni che sono stati esclusi. Per una ragione o per l’altra.
In un caso, Cronache dall’Italia nascosta sarebbe da considerare una raccolta di postille, di chiose, di paralipomeni. Un’appendice, al massimo. Una parte qualitativamente simile a C’era una volta in Italia ma aggiunta a mo’ di aggiornamento, o completamento, in un secondo momento.
Nient’affatto, però.

3.
Il volume – che beneficia della bella copertina di Cristóbal Fortúnez e di una meritevole confezione grafica a cura di Luis Paadín e Tiziana Bonanni, che è uno dei marchi di fabbrica delle Blackie edizioni – è suddiviso in venti sezioni. Tante quante sono le regioni d’Italia.
Ogni sezione è introdotta da una Carta d’identità sentimentale che in breve riporta: il numero degli abitanti (così con stupore si apprende che in Sardegna vivono più persone che in Liguria), il reddito medio pro capite (che in Calabria è meno della metà di quello in Trentino Alto Adige), i cognomi tipici – Sabbatini nelle Marche (!), Magnani in Toscana (!), Proietti in Umbria (!) –, gli edifici e luoghi simbolo (Castel del Monte, in Puglia, che ha ispirato a Umberto Eco la pianta della biblioteca ne Il nome della rosa), le espressioni peculiari («Tasi e tira», tradotto: «Taci e continua a marciare» in Veneto), le scene madri (la camminata di Delia, vestita di un abito rosso leggero, ne L’amore molesto di Mario Martone, in Campania), lo spirito guida (Robert De Niro che cinquant’anni fa in segreto visitò il paese dei suoi bisnonni, Ferrazzano, in Molise, all’epoca in cui girò Novecento di Bernardo Bertolucci) e, per finire, gli alberi degni di nota (il S’Ozzastru, un olivo selvatico alto quattordici metri, in provincia di Sassari, in Sardegna, con un’età stimata tra i tremila e i quattromila anni).
La varietà tematica mostrata ribadisce il talento di Carozzi in quanto esploratore infaticabile di archivi. Nella prefazione, Deaglio lo definisce: «un Indiana Jones della celluloide, oltre che del rotocalco». La passione per la scrittura, invece, testimoniata da una successione di incipit sempre efficaci, dalla scelta di punti di vista capaci di valorizzare la materia trattata, dal desiderio di non spiegare sempre ogni cosa ma di lasciare a chi legge il compito (la libertà) di interpretare; tutto questo, ecco, testimonia la bravura di Ivan Carozzi in quanto scrittore tout court. Scongiura, inoltre, il pericolo che queste Cronache terminino la loro corsa editoriale in mezzo a quei volumi – interessanti, ma destinati a un altro pubblico – come l’Atlas Obscura di Joshua Foer e Dylan Thuras (Mondadori) oppure l’Atlante delle zone extraterrestri di Bruno Fuligni (L’Ippocampo).
Perché ci pare di cogliere in filigrana, come spiando le nervature di una foglia in controluce, uno stile che, nei suoi aspetti più sognanti, sa rendere omaggio al Dino Buzzati de “I misteri d’Italia” e de Le cronache terrestri («Lo stile di Jacques Couëlle, architetto autodidatta che lavorò in Costa Smeralda, potrebbe sembrare un furto ai danni del bizzarro mondo neolitico di Bedrock, il villaggio dove i protagonisti del cartone animato The Flintstones si spostano tra banche, aeroporti e centri commerciali fatti di grandi pietre megalitiche.»), mentre nelle sue capacità analitiche più riuscite («Se l’habitat naturale di una biglia è il quadretto vivace della spiaggia, con gli ombrelloni, le sedie sdraio e il suono cullante e ASMR della risacca, qui la biglia è collocata in uno spazio alieno: un brandello di sprawl padano, con tanto di affaccio sulla A14.») richiama le contaminazioni del Luciano Bianciardi de La vita agra (1962).

4.
La lettura di Cronache dall’Italia nascosta procede in maniera spedita e leggera, comunque. L’offerta delle storie è abbondante. (Ottantatré in totale.) Non annoiano e non saziano. Mai. Nonostante Carozzi neppure una volta sacrifichi, laddove lo ritiene opportuno, la possibilità di un approfondimento, oppure la convenienza di una digressione. (Anche perché, in un libro come questo, distinguere tra le due cose è piuttosto difficile.)
Ecco di seguito qualche esempio.
In Piemonte conosciamo Elva, uno dei comuni più poveri della Penisola, dotato di una popolazione stimata di 77 abitanti e di un’economia (conservata fino agli inizi del XX secolo) legata alla compravendita dei capelli. Merito delle persone che lavorano come «cavié», come «pellassier»: «[…] si spostano dalla montagna verso le valli e poi nelle campagne e nelle città della pianura, a Cremona, a Parma, a Reggio Emilia, in Friuli e in Veneto, per acquistare capelli, meglio se pettinati in lunghe trecce. Dormono dove capita, in fienili, stalle e granai. Una volta sforbiciati, i capelli finiscono in fondo a un sacco di iuta e quando i sacchi sono pieni, i “cavié” risalgono a Elva.»
In Basilicata, durante una serie di spedizioni, l’antropologo e filosofo Ernesto de Martino finisce per cadere sotto l’effetto (l’incantesimo?) di un paesino – Valsinni, vicino Colobraro, in provincia di Matera – con la fama di portare sfortuna: «[…] l’équipe aveva fissato un appuntamento con uno zampognaro, che de Martino avrebbe dovuto intervistare e registrare. Peccato che quando arrivarono in paese vennero informati di una tragica notizia: lo zampognaro era morto lungo il tragitto, in seguito a un incidente stradale. Il giorno dopo de Martino si presentò in casa dell’uomo per fare le proprie condoglianze e registrare su magnetofono il lamento funebre. Raccolte intorno alla bara, le donne e la moglie del defunto salmodiavano: “Sei caduto in mezzo alla via con la tua zampogna, sei caduto in mezzo alla via con la tua zampogna”. Come l’antropologo mise piede nella stanza, le donne modificarono il canto: “Ecco il forestiero biondo che è venuto a salutarti, ecco il forestiero biondo che è venuto a salutarti”. De Martino, a disagio, decise di andarsene e rinunciare alla registrazione.»
Nell’avvicendarsi di queste Cronache, tuttavia, la presenza di elementi, non certo di tipo sovrannaturale, ci mancherebbe, ma, per dire più correttamente, di tipo onirico, non mancano.
Nel Lazio, a Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo, c’è la Torre di Chia, «l’ultimo rifugio» di Pier Paolo Pasolini: «[…] 42 metri di altezza, pianta pentagonale e mura merlate in stile ghibellino. […] Basta guardare qualche foto per provare il desiderio d’infilarsi prima o poi in quei luoghi, magari in un mattino di novembre, con le foglie fradicie che scricchiolano sotto le scarpe.» Dopo l’assassinio del Poeta, nel 1975, gli eredi di Pasolini non erano più stati in grado di pagarne le spese di manutenzione. Venne acquistata da un attore, Gabriele Gallinari: «[…] solo dopo aver fatto, disse, un sogno: “Forse era anche giusto che la casa diventasse un bene pubblico. Per un mese non ci ho quasi pensato più, fino a quando una notte non ho sognato di stare seduto in una casa di vetro e di vedere passare Pasolini che sorrideva a bordo della sua Alfa Romeo. Ho considerato quel suo sogno come il nulla osta di cui avevo bisogno.”»

5.
Lo spirito guida che aleggia tra le pagine di queste Cronache, tuttavia, non è quello di Luciano Bianciardi e non è quello di Dino Buzzati – che pure appare, in queste Cronache dall’Italia nascosta, a San Pellegrino, in provincia di Belluno, in Veneto, mentre, da una delle finestre della casa avita, osserva, nel gruppo montuoso delle Dolomiti, la sua montagna preferita, la Schiara, che ha il potere di trasformare, in una fantasia pittorica dello scrittore intitolata La piazza del Duomo di Milano, l’oscura cattedrale meneghina: «[…] in un bianco massiccio gotico-dolomitico, di fronte al quale non ci sono passanti, lampioni, colombi, automobili che si fanno largo a colpi di clacson, ma un sereno prato verde, tutto scaldato dal sole, con tanto di alberelli, covoni di fieno e contadini intenti a falciare l’erba in bucolica solitudine». Invece di apparire in un pentacolo tracciato sulle assi scricchiolanti di una polverosa soffitta, lo spirito guida di queste Cronache si manifesta tra le strade anguste di una piccola città situata nelle Marche: Ascoli Piceno. Risponde al nome di Giorgio Manganelli.
Tra il 1980 e il 1995, lo scrittore Clio Pizzingrilli diresse una misconosciuta rivista: Marka. Un giorno, tramite l’invio di una lettera, Pizzingrilli chiese a Manganelli un contributo. Un contributo breve; due, tre cartelle al massimo. A proposito di una città di periferia: Ascoli Piceno, appunto. Dove Clio Pizzingrilli era nato. Dove la rivista, Marka, veniva stampata e pubblicata. Dove Manganelli, però, non sapeva o non ricordava di essere stato mai. La sua risposta fu uno strabiliante trucco di magia. Spalancando le porte della scrittura al gusto dell’incertezza, del sospetto e della titubanza, e affidandosi a un totale scetticismo nei confronti della “realtà”, Manganelli mise in dubbio l’esistenza stessa di Ascoli Piceno. Siccome: «[…] nessun ricordo dà la certezza che qualcosa sia veramente accaduto. […] se Ascoli Piceno esistesse, e quindi potrebbe, niente più che potrebbe, esistere una rivista, e se questa rivista mi chiedesse un racconto di due-tre cartelle, io risponderei positivamente? Non credo. Io non scrivo facilmente, non scrivo se me lo chiedono, la mia fantasia è pigra e viziosa, sono di cattivo carattere e sebbene troppo vigliacco per essere litigioso, sono certamente rancoroso.»
Quanto Carozzi scrive a proposito di Manganelli – il quale: «[…] offre un ritratto della società […] e della sua borghesia professionale» – ci sentiamo di poterlo scrivere noi a proposito di queste Cronache dall’Italia nascosta.

6.
Esiste l’Italia?, pare chiedersi Carozzi. E risponde: sì, certo. Assolutamente sì! Questo suo racconto (dei racconti) ne scopre, e recupera, alcune delle storie, dei luoghi e dei personaggi più straordinari; rimossi, censurati, abbandonati. Grattando lo strato di ruggine che impedisce di scorgere l’essenza intima delle cose, Carozzi tenta la sistematizzazione di un mosaico che, sebbene il più delle volte si mostri ai nostri occhi in una forma irriconoscibile per colpa della sua secolare bruttezza, incivile e criminale, certe altre riesce ancora, attraverso la sua effimera bellezza, ad abbagliarci e a colmarci di meraviglia.

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Itinerari da nessun luogo (Victoriana 59/2) https://www.carmillaonline.com/2025/11/14/itinerari-da-nessun-luogo-victoriana-59-2/ Fri, 14 Nov 2025 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91488 di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

Agendo da uomini, falliremo da uomini

William Morris, Il sogno di John Ball, a cura di Wu Ming 4, pp. 144, € 15, Alegre, Roma 2025.

“A volte il mio grande impegno nelle questioni del presente viene ripagato da un bel sogno inatteso. S’intende quando dormo”: e il narrante si trova così proiettato non in un “sogno a tema architettonico”, come facilmente gli dona l’amore competente per quell’aspetto della cultura britannica, ma in un paesaggio di campagna, con gente vestita in modo arcaico. Anche lui si scopre paludato da abiti di un’epoca molto [...]]]> di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

Agendo da uomini, falliremo da uomini

William Morris, Il sogno di John Ball, a cura di Wu Ming 4, pp. 144, € 15, Alegre, Roma 2025.

“A volte il mio grande impegno nelle questioni del presente viene ripagato da un bel sogno inatteso. S’intende quando dormo”: e il narrante si trova così proiettato non in un “sogno a tema architettonico”, come facilmente gli dona l’amore competente per quell’aspetto della cultura britannica, ma in un paesaggio di campagna, con gente vestita in modo arcaico. Anche lui si scopre paludato da abiti di un’epoca molto precedente la vittoriana: e camminando giunge in un villaggio dove un omone lo invita bonariamente a una taverna. Tale l’inizio, venato d’ironia affettuosa, di A Dream of John Ball di William Morris, pubblicato a puntate sul settimanale socialista “Commonweal” 1886-1887, e uscito in volume l’anno dopo: nel testo, presentato come un sogno dentro un sogno, l’autore crede di risvegliarsi nella primavera 1381 in Kent, e di rivivere in quel tempo un giorno e una notte.
Dall’aspro orizzonte delle saghe norrene ci spostiamo così al medioevo inglese, altra età amatissima da Morris e tanto ben evocata tra le stanze di Kelmscott Manor. Ma mettiamo subito le mani avanti: nessuna fuga passatista ne connota i richiami alla Bellezza, e del resto l’autore ha studiato troppo l’età di mezzo per annacquarne le fantasie. In questa breve meravigliosa opera, forte oltretutto di un’edizione italiana ottimamente curata, non troviamo dunque corti favolose o fantasie sul limite del disneyano: in scena, in una ricostruzione emozionante, è la rivolta popolare del 1381 suscitata appunto dal prete John Ball (c. 1338-1381). A curare il volume, con una Prefazione tersa e bellissima è Wu Ming 4, che offre conto anche della complessità di una traduzione equilibrata – e giustamente godibile – a confronto con arcaismi lessicali e sintattici molto precedenti l’epoca di stesura dell’opera. Si citava Tolkien, che in più punti del Signore degli Anelli mostra di cogliere echi di queste pagine bellissime.
Al timone è il Morris più schierato socialmente e politicamente, quello avvicinato un giorno in metropolitana da un lavoratore che l’aveva riconosciuto:

Mi dicono che siete un poeta, signor Morris. Be’, io non so niente di poeti e di poesia, ma sono dannatamente certo di saper riconoscere un uomo, e voi lo siete, per Dio!

Un Morris di estrazione agiata e borghese, ma che era sceso in campo con onesta e convolta partecipazione per i diritti dei lavoratori e degli sfruttati – per la Causa, come diceva, e senza pose pauperistiche. Attirandosi anche le critiche e la freddezza di compagni di lotta come George Bernard Shaw e Friedrich Engels. Tanto più che era un militante entusiasta e visionario ma non un teorico, non aveva capito – lo ammetteva lui stesso – la teoria marxiana del valore, e pur continuando a teorizzare la rivoluzione proletaria accetterà a malincuore la soluzione parlamentare di un partito dei lavoratori. Ma al di là di limiti e sconfitte, nella polifonia delle sue personalità artistiche e umane Morris non si lascerà demoralizzare, lottando perché il bello e l’utile non conoscessero un rapporto schizoide e il capitalismo non rendesse la vita un inferno sulla terra.

Al marxismo era approdato tardi e per vie inusuali, proprio riflettendo sul passato tanto caro ai preraffaelliti, almeno inizialmente eversori delle convenzioni estetiche della borghesia vittoriana (che poi si approprierà anche del loro orizzonte fantastico). Morris non rigettava la tecnologia in sé ma il capitalismo che scippava all’artigiano la Bellezza, costringendo il lavoratore “a produrla come una merce qualsiasi”: ed era convinto che il lavoro libero dallo sfruttamento non fosse una condanna ma un’attività creativa fondamentale. Fino a raccontare in News from Nowhere (1890) un’Inghilterra comunista del XXI secolo con una vita più armonica a contatto con l’ambiente, un decentramento municipalista e una cooperazione locale dei lavoratori.
Per lui paesaggio e architettura sono importanti, salvaguardando – senza restauri o riqualificazioni, che osteggiava in quanto rigenerazione edilizia per produrre profitto (possiamo immaginare cosa direbbe delle nostre città in mano agli immobiliaristi) – un passato utile a contestualizzare il presente e proiettarsi nel futuro.
Ma il guardare nel passato non aveva funzione nostalgica e conservatrice, non lo accompagnava nessun sogno di cavalleria aristocratica o sacralità monarchica: l’interesse era alle gilde artigiane richiamate con il movimento Arts and Crafts e alle rivolte contadine prodromiche di lotte a lui coeve. Rifiutando un’idea di progresso legata alla “civilizzazione” e funzionale all’oppressione capitalistica e alla spregiudicata compravendita del lavoro, Morris non era cieco su una serie di conquiste fondamentali e sul rischio di un’ingenuità nel vagheggiare il passato, ma di quello intendeva recuperare un certo spirito di comunità e di Bellezza. Con la critica serrata al mito del progresso funzionale al capitale: non condivideva l’idea marxista di un’azione unificante del capitalismo come utile al collasso della realtà economica per l’affermarsi del comunismo. E piuttosto andava a cercare prodromi di comunismo nel medioevo: in quello di John Ball, appunto.
Per quanto si parli di rivolta dei contadini, l’insurrezione – scatenata da una nuova tassa sulle persone fisiche, 1380, legata alle necessità della casse del regno nella situazione della Guerra dei cent’anni (1337-1453) – coinvolse anche gli artigiani dei centri urbani. Considerando chi in quella guerra andava a grandi numeri a farsi ammazzare, la situazione era ancora più insostenibile. Vero, dopo l’epidemia di peste 1348, a popolazione dimezzata, i braccianti venivano pagati un tantino di più, ma il pronto soccorso istituzionale agli interessi dei nobili aveva subito frenato quei miglioramenti, fissando in particolare i salari alla situazione prima dell’epidemia e rendendo un crimine rifiutare il lavoro. Di qui, tra gli sfruttati, forme di resistenza e aggiramento legale (per esempio cambiando lavoro) e associazioni in gilde professionali.
Si partì dunque col contestare il nuovo balzello: seguirono attacchi agli archivi per bruciare gli atti di proprietà, e l’invasione di Londra in decine di migliaia. Costringendo così il quattordicenne Riccardo II ad abolire formalmente la servitù della gleba: siamo i suoi sudditi più fedeli, dicono gli insorti, che identificano il nemico in nobili, alto clero e grandi mercanti e, a un secondo livello, nei funzionari governativi. Di qualcuno di costoro venne anzi fatta giustizia sommaria. Facile immaginare la reazione spietata che sarebbe seguita.
Autopresentatosi nel racconto come uomo dell’Essex – dove un altro contingente di ribelli si sta radunando – il Nostro trova un protettore nel rude, espansivo e amabilmente sfottente Will Green, prototipo del yeoman, arciere reduce di guerra, forse una sintesi di caratteri e virtù del militante-tipo che Morris ha imparato ad apprezzare: è lui a portarlo a udire John Ball, il prete rivoluzionario, e poi in battaglia contro la milizia di aristocratici e sceriffi – dove il numero di caduti è però contenuto. “When Adam delved and Eve span, who was then the gentleman?”: brandendo la Bibbia, si arriva a prefigurare una società comunistica, che Morris rievoca con innamorata ammirazione.

Non seguiamo passo passo le vicende degli insorti legati dalla Fellowship (qui reso felicemente “Comunanza”), unione gentile dei poveri e dei santi e principio opposto a quello della concorrenza imposto dai più socialmente forti. Quelli non bisogna ascoltarli né discutere con loro, perché si sa già cosa diranno (cosa, oggi, continuano a dire):

“Bifolco, lascia che ti imbrigli e ti selli, e che mangi il sostentamento che ti sei guadagnato, e che ti chiami con nomi umilianti perché io sono quello che ti mangia. E non parlare e non dire e non fare nulla per tuo conto, se non te lo ordino io”. Questo è il succo di ogni loro discorso.

Ovviamente gli insorti, prima circuiti, verranno poi schiacciati con una sanguinosa repressione e resettando ogni loro conquista ottenuta. Ma lo struggente, bellissimo dialogo notturno tra il Nostro e John Ball (che continua “ad avere l’impressione che tu abbia visto cose che io non ho visto, né avrei potuto vedere” e dunque lo trattiene a parlare) strappa commozione al lettore – quello almeno che non aderisca all’altro schieramento. Il sacerdote ha capito di aver a che fare con un interlocutore speciale, e lo esorta a parlare del futuro – salvo incontrare grosse difficoltà a capire quel mondo. Come suona infatti il titolo del cap. 11, Difficile è per il vecchio mondo vedere il nuovo. Sconcertato dalla prospettiva del futuro sfruttamento capitalistico, Ball starebbe per cedere alla tristezza ma l’interlocutore può almeno tranquillizzarlo sul fatto che la Schiera della Comunanza ci sarà ancora e qualcosa alla fine cambierà. Ball allora si congeda benevolo: “Tu sei stato un sogno per me e io lo sono stato per te, e ci siamo rattristati e rallegrati a vicenda, come solo i racconti dei tempi passati e il desiderio dei tempi futuri possono fare”. Il narrante si risveglia nel suo letto, nel rumore in distanza delle sirene delle fabbriche: non assiste alla mattanza e alla morte del candido prete, impiccato, sventrato e squartato, secondo la barbarica giustizia medievale (ma in vigore almeno formale fino all’Ottocento) inglese. Però quel precedente, minaccioso per i governanti, non verrà dimenticato, ed è chiaro perché Morris lo prenda a sfondo del proprio Sogno. Come sintetizza il curatore,

William Morris sarebbe morto nel 1896, in un momento storico in cui il movimento operaio sembrava destinato o a ripiegare su un orizzonte riformista o ad attendere invano il collasso del capitalismo, che si sarebbe rivelato capace di rigenerarsi dopo ogni crisi ciclica. Ciò nonostante, per quanto attestato su posizioni minoritarie e sopportato da molti, Morris fino all’ultimo non si perse d’animo, continuando a prefigurare un mondo e un’umanità migliori di quanto il suo tempo gli avesse consegnato. Un’umanità che sapesse non soltanto uscire dall’alienazione capitalistica attraverso una presa di coscienza e un processo radicalmente rivoluzionario, ma anche recuperare il senso della storia, del passato, tornare a godere del meglio della tradizione artistica, fosse quella architettonica, artigianale e pittorica o quella poetico-letteraria, cioè autoformarsi coltivando l’unione del bello e dell’utile. Pochi intellettuali del suo tempo cercarono con altrettanta dedizione, anche a costo di apparire ingenui, di far convergere lotta di classe e battaglia culturale come due facce della stessa medaglia. E forse le parole che alla fine di A Dream of John Ball il protagonista rivolge al prete ribelle rivelano anche quello che Morris sperava per sé stesso: “nei giorni a venire il tuo nome rimarrà legato alla speranza che hai nutrito e non verrai dimenticato”.

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Giorni di galera https://www.carmillaonline.com/2025/11/13/giorni-di-galera/ Thu, 13 Nov 2025 22:55:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91435 di Cesare Battisti

Non capita tutti i giorni, scendere per l’ora d’aria e trovare nel cortile una faccia nuova con cui parlare. Senza correre il rischio di sorbirsi la solita arringa d’innocenza, condita di insulti all’avvocato per quel processo andato male. Il truffaldino ha il passo ondulante, ha conosciuto i miei stessi cortili di galera, sa che in fondo c’è sempre un muro e non ha nessuna fretta di arrivare. Lui è della “vecchia”, come si suol dire da queste parti, di quelli che non sprecano parole, nemmeno quando la battuta appena fatta sembra sganciata da un pensiero vero.

Abbiamo in comune [...]]]> di Cesare Battisti

Non capita tutti i giorni, scendere per l’ora d’aria e trovare nel cortile una faccia nuova con cui parlare. Senza correre il rischio di sorbirsi la solita arringa d’innocenza, condita di insulti all’avvocato per quel processo andato male. Il truffaldino ha il passo ondulante, ha conosciuto i miei stessi cortili di galera, sa che in fondo c’è sempre un muro e non ha nessuna fretta di arrivare. Lui è della “vecchia”, come si suol dire da queste parti, di quelli che non sprecano parole, nemmeno quando la battuta appena fatta sembra sganciata da un pensiero vero.

Abbiamo in comune poco o niente, tranne le rughe e un inatteso ritorno in carcere dopo quasi mezzo secolo. Quelli come me, lui li ha conosciuti nei Settanta, quando ancora politici e comuni respiravano insieme l’aria dello stesso cortile. Deve aver poi seguito la mia storia sui giornali e adesso non gli sembra vero di aver trovato proprio qui un veterano per ricordare i tempi in cui il carcere era una “cosa seria e dentro ci finivano solo i criminali”. È un truffaldino, ha l’occhio lungo e il sorriso vago di certi pescatori, che hanno appena gettato l’amo dove sanno di pescare.
Fa un vago gesto con la mano:
«Mancano i medici e c’è pure carestia di preti, malati e anime perse adesso li fanno carcerati. E sì, noi sì che si era un’altra cosa.»

Il carcere che ricorda lui era fatto di violenza, di regole omertose e di fetore. Si sopravviveva ai soprusi e alla sofferenza grazie all’unione, era la solidarietà di tutti coloro che quella violenza la vivevano sulla propria pelle. Adesso qui, sembra che chi affonda nella disperazione e nell’abbandono non trovi nessuno a tendergli la mano. Perché non ci si unisce più in nome di un diritto dovuto e spesso non concesso, ma si insegue in solitario il beneficio personale. Quasi sempre a discapito dell’altro che ti sta accanto e soffre come te. Gli sguardi vuoti, i degenti ai quali si riferisce il Truffaldino appartengono a chi si sente sfinito davanti all’abuso di potere, spogliato perfino dall’iniquità di una pena. Che pur accetta, a momenti alterni, ma che non può sopportare perché non la capisce. Un delinquente, se lo fosse realmente, dovrebbe almeno saper dire come e dove è iniziata la sua rovina. Ma per farlo deve avere una coscienza, deve poter dire chi è, da dove viene, magari anche sapere dove sta andando, senza pestare i piedi a nessuno soprattutto i propri.

Il truffaldino ha ragione. Io stesso, appena arrivato qui, mi guardavo attorno e vedevo solo facce nemmeno più capaci di esprimere dolore. E nel panico, mi chiedevo se avevo perso anch’io l’orientamento. Come loro, come tutti, “come succede anche là fuori”. Così dice il Truffaldino e io non posso rispondere, perché dal Brasile sono andato dritto in carcere, senza passare dall’Italia, o meglio sì, quella penitenziaria. Una volta si concedeva alla popolazione detenuta il diritto di esistere, c’era chi lo rivendicava con spavalderia. Un atteggiamento che può essere discutibile, ma oggi pare che il detenuto sia stato spogliato anche di quest’ultima parvente identità.

Non si è più niente: malati, forse, ma senza cure. Il Truffaldino ha ragione, si è soli e senza speranza. Non si evade nemmeno più, chi lo fa ancora non cerca la libertà ma un muro diverso da questo contro cui scontrarsi. Non scappa, si abbandona per inedia.
Forse esagero, colpa del Truffaldino che mi è capitato tra capo e collo e adesso penso troppo e questo mi fa male. Si può essere nostalgici perfino della vecchia vita di prigione? O dell’identità che comunque essa allora dispensava? Era un’identità spesso edificata contro, forgiata nella lotta, anche dura, ma sempre e solo se necessaria e, talvolta, anche compresa dalla parte avversa. Erano tempi duri, con atti estremi per sottrarsi alla morsa dell’art 90, e la risposta devastante dello Stato. Ma mai ci siamo lasciati appiattire sulla condizione animale, ristretti all’istante presente, alla necessità feroce, ad assaltarci l’un l’altro per sopravvivere al rigore atroce, come invece avrebbero voluto certi nostri aguzzini.

Al contrario, è proprio in carcere, in condizioni estreme che ho incontrato persone insospettabili tendere la mano all’avversario di ieri: si può essere nemici nel conflitto, mai in tempi di pace.
È significativo il fatto che nonostante il regime duro, in confronto, non ci siano stati in tempi di conflitto così tanti suicidi in carcere. Non ricordo di agenti che si toglievano la vita. Non ci si uccide di fronte al nemico, si è troppo impegnati a difendersi. Se guardiamo alle statistiche, la differenza con l’attualità salta agli occhi. Oggi si muore in silenzio, nell’indifferenza generale. Muoiono a milioni gli innocenti sotto le bombe sganciate dai “Governi buoni”, a chi dovrebbero importare cento vite stanche di prigione?

Al suono della campanella, io e il mio Truffaldino ci siamo messi in fila come tutti gli altri. La schiena curva e lo sguardo a terra, per non doverci dire nemmeno con gli occhi quanto inutili siano le parole. Dette in un pomeriggio di mezza estate, tra vecchi reclusi che non non si vogliono adattare.

Eppure qualcosa resta. È come un suono lontano che continua a fluttuare, una reminiscenza di sapere che mi insegue fino in cella. Un’idea senza contorni che non mi lascia pensare agli affari miei, è maliziosa, si intromette, come se ne sapesse più di me e non me lo vuole dire.

 

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Il nuovo disordine mondiale / 30 – Israele sull’orlo dell’abisso https://www.carmillaonline.com/2025/11/12/il-nuovo-disordine-mondiale-30-israele-sullorlo-dellabisso/ Wed, 12 Nov 2025 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91456 di Sandro Moiso

Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro

In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni [...]]]> di Sandro Moiso

Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro

In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni o con le allusioni». Affermazione fatta in un contesto in cui Bibi Netanyahu, da sempre indicato come uno degli sponsor dell’odio che portò al più importante omicidio politico della storia dello stato ebraico per mano di un ebreo di origini yemenite, si è tenuto lontano dalle celebrazioni molto probabilmente per timore delle contestazioni nei suoi confronti.

Ma ciò che qui è interessante annotare, più che il ricordo di un uomo che quando era «ministro della Difesa – poi beatificato dall’Occidente in seguito al suo assassinio ad opera di fanatici oggi al governo in Israele – impiegò tutto il peso dell’IDF sui Territori rivelandone pienamente il carattere coloniale e di forza d’occupazione. Già nel 1987 il pugno della repressione – spari sulla folla, rastrellamenti, demolizioni e detenzione di massa – fu spietato, anche a fronte di un sollevamento prevalentemente civile e non armato», come ha giustamente ricordato Giovanni Iozzoli su Carmilla il 4 novembre di quest’anno, è costituito dal fatto che l’”abisso” evocato dall’attuale presidente israeliano è prossimo a quel “precipizio” indicato per il futuro di Israele da un altro ebreo israeliano, Michel Warschawski, fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984:

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza1.

In poche righe Warschawski, in quel testo di vent’anni or sono, anticipava ancor più che i timori espressi da Herzog i temi e le tesi esposte da Ilan Pappé nel suo testo più recente, edito da Fazi, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina.

L’autore è professore di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, e fa parte di quel consesso di storici israeliani (Tom Segev, Shlomo Sand, Norman Finkelstein e, un tempo, Benny Morris) che per anni, spesso a rischio della vita per mano degli estremisti sionisti, hanno messo in discussione una narrazione storiografica tutta intrisa di messianismo e revanscismo basato sulla necessaria riscossione del credito politico e coloniale accumulato attraverso le sofferenze inferte al popolo ebraico dalla Shoa; tutto a danno dei diritti degli arabi palestinesi a vivere sulla propria terra in pace e con gli stessi diritti degli altri cittadini di Israele.

Oltre che del presente testo, Pappé è stato anche autore di più di una dozzina di libri tra cui La pulizia etnica della Palestina (Fazi Editore, 2008), mentre per il medesimo editore ha anche pubblicato Palestina e Israele: che fare?, scritto insieme a Noam Chomsky (2015), La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (2022) e Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (2024). Mentre per Einaudi ha pubblicato Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (2014) e per Temu: Dieci miti su Israele (2022). Cui vanno ancora aggiunti: Ultima fermata Gaza. La guerra senza fine tra Israele e la Palestina, sempre con Noam Chomsky (Ponte alle grazie, 2023); Israele-Palestina. La retorica della coesistenza (Nottetempo, 2011) e Controcorrente. La lotta per la libertà accademica in Israele (Zambon, 2012).

Sempre attento, presente nel dibattito e schierato per tutto quanto riguarda la causa palestinese, Ilan Pappé non ha mai, però, separato le ragioni del popolo palestinese dalla necessità di trovare un punto di incontro con quelle frange, minoritarie ma non del tutto secondarie, del mondo ebraico, fuori e dentro Israele che da sempre o almeno fin dalla fondazione dello Stato hanno contestato l’assurdità del colonialismo sionista e proposto strade diverse per una comune convivenza su quelle stesse terre oggi totalmente rivendicate dal sionismo messianico di Bibi Netanyahu, Itamar Ben-Gvir o Bezalel Smotrich. Comunque senza mai illudersi che questo possa avvenire in mancanza di un cambiamento radicale all’interno della stessa società israeliana.
Da qui l’attenzione per la possibile “fine” di Israele.

Il passo da uno Stato in crisi alla sua fine può essere breve.
[…] Non prendo con leggerezza il processo che potrebbe portare alla fine di uno Stato di cui sono cittadino e in cui vivono milioni di persone. Gli Stati in realtà non finiscono come se niente fosse, e da questo punto di vista parlare di “fine” potrebbe essere esagerato; nella maggior parte dei casi gli Stati cambiano e a volte lo fanno in modo drastico. [Motivo per cui] Quando si auspica la fine dello Stato o se ne teme l’idea, bisognerebbe avere ben presente, alla luce dei precedenti storici, che questi processi sono sempre caratterizzati d auna violenza estrema.
[…] Sebbene io sostenga la visione di un unico Stato democratico per Israele e Palestina, il mio non vuole essere un appello perché si arrivi alla fine di Israele. Da storico, evidenzio che la fine di Israele sembra essere già cominciata. E la morte di uno Stato o il collasso di un’entità geopolitica creano un vuoto.[…] E quanto prima il vuoto sarà riempito, tanto meno violento sarà il processo di disintegrazione2.

L’ottica scelta pertanto è quella di individuare non soltanto le cause, ormai evidenti, del processo di disgregazione dello stato israeliano, ma anche le possibili soluzioni di una crisi quasi secolare che non potrà trovare risposta soltanto nel revanscismo arabo o nella continuazione e riaffermazione dell’espansionismo coloniale sionista. Entrambi forieri soltanto di guerre e sofferenze senza fine. Entrambi tunnel in cui, come per i soldati dell’Idf in quelli di Hamas nel sottosuolo di Gaza, sarebbe meglio non infilarsi.

La fine di Israele di cui parla Pappè nel suo libro è già da tempo stata individuata anche da molti altri osservatori, non obbligatoriamente di parte. Come si afferma ad esempio in un recente editoriale di «Limes»: «Lo Stato ebraico rischia la pelle perché cercando di scongiurare o ritardare la resa dei conti fra le sue fazioni, estesa alle istituzioni civili, militari e di intelligence, si è cacciato in conflitti infinibili mascherati da prologhi alla Vittoria Decisiva»3. Un’affermazione cui, sullo stesso numero della rivista di geopolitica, Giuseppe De Ruvo può aggiungere:

Nonostante Israele stia combattendo una guerra su sette fronti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Qatar, Iran – il più scottante continua ad essere quello domestico. Netanyahu ne è perfettamente consapevole, dunque agisce secondo un principio paradossale: per non perdere la guerra, quella che per gli ebrei realmente conta e che riguarda l’esistenza dello Stato di Israele, è necessario prolungare e allargare ad infinitum il conflitto che dall’ottobre 2023 vede Gerusalemme opporsi a mezzo Medio Oriente. Altro che vittoria definitiva.
[…] Solo Israele può fermare Israele. O completarne l’autodistruzione. A ritenere pericoloso il piano di Netanyahu e dei suoi alleati sono infatti interi pezzi di Stato ebraico, che vanno dalle Forze armate al Mossad. Apparati che ormai esplicitano a mezzo stampa le loro critiche, rifiutandosi di compiere operazioni che ritengono insensate e che sanno contribuire al crollo della credibilità internazionale di Israele. Autentica assicurazione sulla vita di un paese minuscolo, la cui legittimità deriva(va) dall’essere garante della sicurezza degli ebrei. Anche di quelli che non vi risiedono.
Queste tensioni, sempre meno latenti, non sono ancora esplose. L’esercito israeliano, nonostante gli scontri e i cambi al vertice, continua infatti a eseguire gli ordini di Netanyahu. E tuttavia ciò non significa che la situazione sia sotto controllo. Molto peggio. Quello cui stiamo assistendo non è infatti uno strappo dovuto al disaccordo tra Bibi e i suoi generali, ma il risultato del progressivo sfilacciamento dei rapporti di fiducia tra leadership politica, militare e securitaria. Per lo Stato ebraico, il fronte decisivo è dunque quello interno, l’ottavo. attorno al quale si combatte per l’anima e il futuro del paese [mentre] la sfiducia reciproca tra leadership civile e militare non è effetto ma causa della guerra4.

Situazione che in altra parte dell’articolo l’autore non esita a definire come un redde rationem interno o come autentiche prove di “guerra civile”. Una situazione che sottolinea la fragilità della forza e del progetto espansivo sionista, al contrario di ciò che molti analisti dell’antagonismo sociale e palestinese troppo spesso intendono come univoco e vincente. Eliminando dunque dal quadro di riferimento critico tutte le crepe e le enormi contraddizioni che ne minano gli intenti.

Compreso l’ingresso a gamba tesa di Donald Trump e della sua “politica di pace” nella Striscia di Gaza. Che, come si afferma ancora nell’editoriale di «Limes» citato più sopra, fa vincere al presidente americano, a mani basse, il premio per la migliore “fiction geopolitica” volta a redimere il Caos in Cosmo, disordine in ordine, guerra in pace. Piano che, pur essendo definito per la pace eterna e «che scioglie nodi plurimillenari in Medio Oriente a partire dal martirio dei palestinesi della Striscia da volgere in Riviera, non pare avviato a redimere la regione».

Fa bene la rivista a definire “fiction geopolitica” il piano trumpiano (?) per la Striscia poiché da diverso tempo a questa parte tutte le narrazioni che si susseguono, sia attraverso la voce o i messaggi postati da Trump su Truth oppure quelle recitate a soggetto dagli infiniti esperti solipsisti che si accorgono che la Storia volge in altra direzione da quella auspicata soltanto, e forse nemmeno allora, quando vanno a sbatterci contro, magari violentemente, ricordano sempre più quel “romanzo scritto male” di cui parlava Francesco Guccini in una sua canzone5. Oppure, rimanendo nel campo della fiction televisiva, quelle serie senza capo né coda in cui gli autori si ostinano ad andare avanti con stratagemmi sempre più banali e ripetitivi destinati a risvegliare l’attenzione di un pubblico sempre più sfinito e disattento.

Una narrazione che finge potenza e determinazione là dove tutto sembra smentire, a livello di ordine internazionale, quel nuovo ordine mondiale che l’Occidente e gli Stati Uniti si immaginavano di aver instaurato, o poter instaurare, a partire dalla fine dell’URSS e dalla globalizzazione intensiva dei commerci e dei rapporti finanziari su scala planetaria.
Una narrazione ormai fallita e rimasta farlocca proprio a partire dal centro dell’impero. Là dove un biondo (tinto) imperatore finge di poter fare ciò che vuole e rispondere a tutte le difficoltà mentre, di volta in volta, è costretto a smentirsi quasi quotidianamente per non subire del tutto le conseguenze degli eventi che hanno segnato la strada in altre direzioni da quelle previste.

Non cogliere questo elemento di forzatura rappresentativa del potere americano o sionista significherebbe soltanto accettare una narrazione tutta tesa a nascondere le difficoltà militari, economiche politiche, esterne e interne, che ne contraddistinguono ormai l’andatura sbilenca. Un’andatura sbilenca per cui, come era facile prevedere da molto tempo a questa parte, gli Stati Uniti di Trump, ma anche del futuro, non potranno più appoggiarsi soltanto su Israele per difendere i propri interessi mediorientali.

Una zoppia politico-militare che fa sì che i paesi musulmani, e non solo quelli del Golfo, debbano sostenere i bisogni americani sia geo-strategici che economici. I miliardi promessi da Qatar e Arabia Saudita indicano che questi nuovi possibili attori della scena internazionale potrebbero avere un ruolo importante per l’economia americana e non soltanto per i fondi di investimento di Trump e Kushner che già ne hanno incassato una parte. Potrebbero indicare che mentre l’attenzione nei loro confronti può costituire davvero un investimento conveniente, anche in vista di un progressivo disinvestimento cinese nei titoli di stato americani, la spesa militare per l’aiuto ad Israele potrebbe costituire in prospettiva soltanto più una perdita.

Da qui gli accordi di Abramo e il tentativo, già messo in atto durante il primo mandato di Trump, di chetare i rapporti tra tutti paesi dell’area, Iran compreso. Ma tutto ciò ha un costo, che la guerra di Gaza ha messo in rilievo: gli emirati, il Qatar, l’Egitto, la Turchia e la stessa Arabia Saudita, solo per citare alcuni dei possibili “alleati” hanno bisogno di ricevere in cambio qualcosa di consistente. Sia in termini economici che strategici, come guadagno diretto di un contratto che ha anche un suo versante politico, quello di tenere a bada masse popolari, arabe ma non solo, messe in agitazione da ciò che avviene a Gaza. In cui riconoscono il proprio destino e la necessità di giungere un giorno a rovesciare Stati e governi.

Ma lo Stato di Israele non può più, nonostante i suoi bombardamenti, le sue operazioni militari mirate, le sue stragi, costituire il garante dell’ordine sociale locale, anzi rischia di diventare con la sua sconsiderata azione il detonatore di rivolgimenti ben più vasti e incontrollabili. E anche gli Stati Uniti, dopo essersi illusi di rappresentare i garanti dell’ordine capitalistico occidentale, se non mondiale, devono oggi ammettere per bocca dello stesso Trump che «non possono più agire come gendarme internazionale».

Gli imperi declinano, poi crollano. L’impero americano è crollato prima di finir di declinare. Giacché nessun impero esiste per moto proprio ma a due condizioni: se può volerlo e se è riconosciuto tale dagli altri imperi e dalle potenze che contano. Oggi l’egemone che si ostentava globale, garante degli amici e nemesi per i nemici, non si vuole più tale perché stanco di mondo e nostalgico di nazione. Fra la vita e la morte gli americani scelgono l’America. Per conseguenza, né i suoi imbaldanziti avversari né i satelliti in panico abbandonico lo considerano più superiore gestore dell’ordine planetario6.

Fatto rilevabile nella crescente sfiducia che gli alleati arabi del Golfo hanno nei confronti di entrambi, soprattutto dopo l’attacco, fallimentare negli intenti dichiarati, condotto dall’IDF in Qatar. Una sfiducia apertamente manifestata dal principe saudita Mohammad bin Salman che non ha esitato a rivolgersi al Pakistan, altro paese musulmano, per mettersi al riparo di un ombrello nucleare che gli Stati Uniti sembrano non poter più garantire7. E anche se quest’ultimo fatto potrebbe fare parte di una strategia volta ad ottenere di più dal governo americano in occasione del prossimo viaggio del principe saudita a Washington, certamente è uno dei fattori che hanno “costretto” Trump a dichiarare la possibile ripresa dei test nucleari (soprattutto dopo il fallimento dell’azione militare americana nei confronti dei siti nucleari iraniani, confermato anche dalla stessa intelligence statunitense).

Ma tutto ciò non basta ancora: se è vero, infatti, che gli investimenti a Gaza per la ricostruzione rappresentano per le finanze arabe una magnifica occasione di guadagno, è altresì vero che tali investimenti dovranno essere “garantiti”. Senza inoltre contare che gli stessi paesi arabi stanno opponendo forti resistenze a una proposta sostenuta dagli Stati Uniti di ricostruire una ‘nuova’ Gaza esclusivamente nella metà dell’enclave attualmente posta sotto il controllo di Israele, visto che sia Israele che Washington hanno escluso che i fondi possano essere destinati alle aree sotto Hamas.

I sauditi sono abituati a mescolare assieme politica e affari, proprio nello stile preferito dal presidente Usa. Hanno anche un’innata simpatia per quest’ultimo che ha sempre scelto il loro paese per i suoi interventi e le sue prime visite ufficiali. Ma ora il vento è cambiato e la “parentela” Usa-Israele pare a Riad troppo limitante e senza garanzie di successo (o di guadagno). Basta far riferimento all’Ue: quanti milioni ha buttato in Cisgiordana e a Gaza che Israele non si è affrettata a distruggere in tante guerre? L’Israele di Netanyahu e della destra estrema oggi al potere è un paese spaccato, intriso d’odio e diviso al suo interno. E’ anche un paese imprevedibile: troppi luoghi di potere contrapposti e in competizione permanente fra di loro [e] certamente gli americani faranno fatica a spiegare ai sauditi chi comanda davvero a Tel Aviv. La fiducia dei sauditi si è notevolmente ridotta con possibili lunghe e amare ripercussioni8.

Ecco allora che la presenza di un contingente internazionale a Gaza, magari di paesi islamici, più che al disarmo di Hamas sarebbe rivolto, prima di tutto a garantire gli investimenti arabi nella Striscia. Come già ha ben compreso il governo israeliano, tutto rivolto ad evitare una governance mandataria americana nei confronti delle sue azioni e ad impedire la presenza dei militari turchi a Gaza. Considerato che la Turchia, proprio grazie all’azione disgregatrice di Israele, è giunta alle porte dello Stato ebraico attraverso la Siria oggi governata da Mohammed al-Bashir, l’ex-jihadista fortemente sponsorizzato dallo stesso Recep Tayyip Erdoğan, capo dello stato turco e teorico del rilancio degli interessi ottomani in tutta l’area mediorientale.

Una politica che negli ultimi tempi ha fatto sì che la Procura generale di Istanbul abbia emesso 37 mandati di arresto per altrettanti dirigenti politici e militari israeliani con l’accusa, documentata, di genocidio nei confronti della popolazione di Gaza. Tra i trentasette spiccano i nome di Bibi Netanyahu, di Itamar Ben-Gvir, di quello del Capo di stato maggiore Eyal Zamir e del ministro della Difesa Israel Katz. Questa provocazione causerà sicuramente qualche problema per Trump, considerata la sua predilezione per il capo di stato turco. Il quale ha anche ospitato ad Istanbul un vertice dei ministri degli Esteri di dieci paesi musulmani per coordinare la pressione per la forza multinazionale di stabilizzazione per Gaza, con il chiaro intento di mettersi a capo della stessa9.

E’ in mezzo a questo mare tempestoso che si deve muovere Donald Trump che, in un non lontano futuro, potrebbe scegliere di abbandonare oppure di affidarsi decisamente di meno alle scelte di un governo condannato, per non affondare insieme ad esso e mantenere quel minimo di influenza politica nei confronti degli alleati arabi. E se qualcuno, in un tale contesto, volesse ancora fare riferimento esclusivamente alla volontà di potenza sionista o alla determinazione imperialista statunitense per comprendere ciò che avviene sul campo, lo faccia pure, ma sapendo che gli errori, soprattutto di valutazione, prima o poi si pagano sempre.

E’ allora forse utile ricordare un’affermazione di Hannah Arendt, espressa nel 1948, ma ancora valida oggi a giudizio di chi scrive, secondo la quale: «Il modo più realistico per valutare il costo degli avvenimenti […] per i popoli del Vicino Oriente, non è costituito dalla perdita di vite umane, dai danni economici, dalla distruzione provocata dalla guerra o dalle vittorie militari, ma dai mutamenti politici». Quei mutamenti politici, ieri, erano rappresentati, sempre secondo la filosofa ebrea, dalla « creazione di una nuova categoria di persone senzapatria, i profughi arabi», cosa che non faceva altro che confermare l’assunto secondo il quale «gli ebrei miravano semplicemente a cacciare gli arabi dalle loro case».

Oggi, pur rimanendo evidente l’intento colonialista e liquidazionista della destra ebraica, i mutamenti politici si sono fatti più evidenti su scala mondiale, in un contesto in cui, come si è già detto prima lo Stato di Israele, con la sua azione spintasi ben oltre Gaza, sembra aver perso qualsiasi aspetto di legittimità davanti agli occhi della maggioranza della popolazione mondiale. Ben oltre i confini del mondo arabo in cui tale percezione condivisa era principalmente limitata prima del conflitto degli ultimi due anni. Una rimessa in discussione non solo dei principi che ne hanno validato l’esistenza per decenni, ma che costringono anche ad una progressiva, ancor che lenta agli occhi di molti, revisione delle alleanze che ne hanno garantito la sopravvivenza fino ad ora. Ed è a questo punto che occorre ritornare al testo di Pappé, là dove afferma, ad esempio:

Non sorprende che la guerra scoppiata nel 2023 tra Israele e Hamas sia vista da alcuni come preludio dell’Armageddon. Ma è possibile andare oltre la semplice visione apocalittica e presentare invece una valutazione più ottimistica di un potenziale esito di quello che sembra essere una disintegrazione inevitabile, caotica e violenta dello Stato ebraico.
[Infatti] diversi processi che si svolgevano davanti ai miei occhi mi hanno portato a concludere, non come attivista politico o visionario bensì come accademico, che stiamo assistendo alla fine dello Stato di Israele, o se non altro del progetto sionista come lo conosciamo. Benché promossi dalle azioni di gruppi di individui e organizzazioni, oggi questi processi hanno raggiunto una dimensione tale che la loro spinta è inarrestabile e condurrà a un cambiamento sul campo davvero fondamentale, rivoluzionario, in quelli che attualmente sono Israele, la Cisgiordania occupata e la striscia di Gaza distrutta10.

Però, per fare sì che queste affermazioni non rappresentino soltanto delle semplici e utopiche speranze, l’autore si preoccupa di aggiungere subito dopo:

Come molti miei amici palestinesi, anch’io mi riferisco alla fine di Israele come a un processo di decolonizzazione. In qualità di storico so bene dei casi del passato in cui la decolonizzazione è avvenuta attraverso trasformazioni violente e brutali. La storia, la migliore maestra che abbiamo, ci fornisce anche innumerevoli esempi in cui le lotte di per la liberazione e la decolonizzazione sono sfociate nella creazione di nuovi sistemi di ingiustizia, per usare un eufemismo.
Realisticamente, sarebbe ingenuo immaginare la fine del progetto sionista o dello Stato di Israele come una felice e rapida trasformazione da un luogo di occupazione, oppressione e, da ultimo, di genocidio in un paese dove le libertà sono garantite a tutti e dove viene ristabilita la giustizia per chi in passato abbia subito dei torti. Ma è importante aspirare a una transizione […] che vada innanzitutto a beneficio delle vittime dell’oppressione e degli spargimenti di sangue, ma anche di coloro che temono che perdere la propria posizione di privilegio e superiorità li trasformerà in vittime, da agiati oppressori quali sono attualmente..
Per riassumere quanto detto fin qui: il progetto sionista si sta sbriciolando e con esso lo Stato di Israele come uno Stato ebraico. E questa non è una pia illusione né lo scenatio cui si potrebbe arrivare nel peggiore dei casi. E’ qualcosa di inevitabile, non perché io stia adottando una prospettiva determinista sulla storia o perché possieda una sfera di cristallo, ma perché è una situazione già in essere, anche se non se ne parla11.

Spesso anche negli ambienti dell’antagonismo, abituati da decenni di vittimizzazione a non aspirare ad altro che ad una vendetta. Dimenticando che il dio della vendetta è esattamente quello esaltato dalla destra israeliana ed evangelica e che la vendetta non può mai costituire un buon metro di giudizio o di programmazione per il futuro. Una cecità che impedisce di cogliere crepe importanti non soltanto ai vertici dell’intelligence e delle forze di difesa dello Stato di Israele, come la mancata riuscita del bombardamento dei vertici di Hamas a Doha oppure la vicenda dell’avvocato generale militare, Yifat Tomer-Yerushalmi, arrestata per aver diffuso un video che mostra gli abusi dei soldati su un detenuto palestinese e ancora rinchiusa in carcere per aver fatto tale scelta, già mettono in evidenza .

Crepe che si manifestano nel rifiuto dei riservisti di tornare sul fronte di Gaza oppure nelle manifestazioni dei parenti degli ostaggi che, anche se spesso sono state rivolte soltanto alla salvezza dei propri cari oppure alla richiesta di un’azione più energica nei confronti di Hamas, talvolta sono sfociate in dichiarazioni individuali o collettive tese alla ricerca di un nuovo modus vivendi con la popolazione arabo-palestinese12.

Le fondamenta dell’Israele sionista hanno crepe così grosse che nessuna opera di manutenzione potrà ripararle. Non si tratta di stabilire se l’edificio crollerà, ma quando ciò avverà.
[…] Per riassumere, il collasso di Israele non è una posizione politica, qualcosa che si possa ccettare o rifiutare. E’ un processo oggettivo che è già cominciato. La sua probabilità dovrebbe essere discussa come argomento principale nella conversazione a lungo termine sul futuro di Israele e della Palestina, anziché concentrarsi -come facciamo noi- sul futuro dei palestinesi. La sorte dei palestinesi nei prossimi anni è comprensibilmente la nostra più grande preoccupazione, ma nel lungo periodo sarà la sorte degli ebrei nella Palestina storica la questione da risolvere.
Il tentativo secolare dell’Occidente, Regno Unito in testa, di imporre uno Stato ebraico su un paese arabo sembra essere arrivato alla fine. E’ riuscito a creare una società organica di milioni di colonizzatori, molti dei quali ormai di seconda o terza generazione, ma la cui sorte dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla capacità di imporre con la forza violenta la loro volontà su milioni di palestinesi indigeni che non hanno mai rinunciato al proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà sulla propria terra natia. L’unica speranza per il futuro degli ebrei sarà data dalla loro disponibilità a vivere da cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata. Sono convinto che molti lo faranno13.

Tutto il testo di Pappé, diviso in tre parti, è teso a individuare le contraddizioni e le formule politiche e sociali che potranno contribuire al raggiungimento di un tale risultato, ben diverso e lontano dalla tanto sbandierata ed inefficace soluzione dei “due popoli due stati”. Formula che conviene tanto ai sionisti quanto ai paesi occidentali e arabi e ai loro governi per mantenere divisi e in stato di inimicizia costante palestinesi ed ebrei.

Anche se, per chi scrive, un percorso di guerra civile sembra delinearsi come un passaggio obbligato all’interno della società israeliana, sarà comunque soltanto cercando un’unità di lotta dal basso tra i due popoli che si potrebbe giungere al superamento dell’oppressione di tutti coloro che vivono in Palestina, al di là delle troppo facili retoriche della lotta di classe e dei suoi miracolosi effetti sulla psiche collettiva oppure, ancor peggio, di quelle vuote, pericolose e razziste della vendetta antisemita.


  1. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 115-124.  

  2. I. Pappé, Prefazione a I. Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 11-13.  

  3. Zero Stati?, editoriale del n°9, 2025 di «Limes» dal titolo Gli Stati di Israele, p. 10.  

  4. G. De Ruvo, L’ottavo fronte di Israele in «Limes» n°9/2025, pp. 41-42.  

  5. F. Guccini, Incontro, nell’album Radici del 1972.  

  6. L. Caracciolo, Il declino dell’impero americano, “la Repubblica”, 8 novembre 2025.  

  7. Si veda: M. Giro, Il tycoon e la variabile saudita. Riad non si fida più degli Usa, «Domani» 4 novembre 2025.  

  8. M. Giro, Riad non si fida più degli Usa, cit.  

  9. F. Magri, Nuovo mandato d’arresto per Netanyahu. La Turchia accusa Israele di genocidio, “La Stampa”, 8 novembre 2025.  

  10. I. Pappé, op. cit., p.14.  

  11. Ibidem, pp. 15-16. 

  12. Si veda su tutto questo: F. Borri, Israele contro Israele, in «Limes» n°9/2025, pp. 97-101.  

  13. Ivi, pp. 16-18.  

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Razionalità al collasso: il conflitto tra potere, controllo e caos in A House of Dynamite, il nuovo film di Kathryn Bigelow https://www.carmillaonline.com/2025/11/11/razionalita-al-collasso-il-conflitto-tra-potere-controllo-e-caos-in-a-house-of-dynamite-il-nuovo-film-di-kathryn-bigelow/ Tue, 11 Nov 2025 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91292 di Fosca Gallesio

A House of Dynamite, l’ultimo film di Kathryn Bigelow, è un interessante thriller politico che esplora le possibili implicazioni di un attacco nucleare diretto contro gli Stati Uniti. Il film adotta una particolare struttura tripartita, offrendo il punto di vista di tre luoghi differenti impegnati nella gestione della crisi.

Si inizia con l’unità di crisi della Casa Bianca, dove il personaggio centrale è il capitano capo dello staff, interpretato da Rebecca Ferguson. Il secondo segmento si sposta nell’ufficio del Segretario alla Difesa, interpretato da Jared Harris. Infine, il terzo segmento narrativo riguarda direttamente il Presidente degli Stati Uniti, [...]]]> di Fosca Gallesio

A House of Dynamite, l’ultimo film di Kathryn Bigelow, è un interessante thriller politico che esplora le possibili implicazioni di un attacco nucleare diretto contro gli Stati Uniti. Il film adotta una particolare struttura tripartita, offrendo il punto di vista di tre luoghi differenti impegnati nella gestione della crisi.

Si inizia con l’unità di crisi della Casa Bianca, dove il personaggio centrale è il capitano capo dello staff, interpretato da Rebecca Ferguson. Il secondo segmento si sposta nell’ufficio del Segretario alla Difesa, interpretato da Jared Harris. Infine, il terzo segmento narrativo riguarda direttamente il Presidente degli Stati Uniti, interpretato da Idris Elba.

Il film, dunque, è parcellizzato: da un lato analizza in profondità scomponendo il racconto, dall’altro moltiplica i punti di vista in una sorta di mise en abyme della realtà, triplicata in una struttura narrativa a spirale che si avvolge su se stessa, precipitando verso l’esplosione finale.

L’intera struttura narrativa ruota attorno ai venti minuti chiave della storia: un’unità temporale precisa che costituisce la trama del film e che viene ripetuta in tre versioni differenti. Questo lasso di tempo va dal momento in cui sui radar viene individuato un missile diretto verso il territorio americano, fino al tentativo di intercettazione, fallito, e alla successiva individuazione della traiettoria del missile nemico. Quando si riconosce che l’obiettivo probabile, con una percentuale di certezza del 90%, è la città di Chicago, viene stimata l’entità dei danni: solo le vittime immediate, colpite dall’esplosione senza considerare il fallout radioattivo, sarebbero circa dieci milioni.

Tutti questi elementi di trama vengono esplorati nel primo segmento, che in un certo senso esaurisce la componente di suspense puramente narrativa. Infatti, se A House of Dynamite adotta una struttura da thriller, l’elemento classico del “vedere come va a finire” viene risolto molto presto. L’interesse del film si sposta così altrove: non sull’esito della storia, ma sul modo in cui i diversi personaggi — chiamati, per ruolo e posizione, a gestire l’emergenza — riescono o meno a mantenere il controllo, a dare risposte operative, a gestire la paura.

La regia di Bigelow concentra l’attenzione non tanto sulla componente operativa o militare, che pure è resa con grande dettaglio e con uno stile quasi documentaristico, ma sulla dimensione umana. Il linguaggio tecnico, fitto di acronimi e termini specifici, crea volutamente un effetto di cripticità: lo spettatore non capisce sempre nel dettaglio cosa stia accadendo sul piano operativo, ma percepisce chiaramente la tensione.

Ciò che interessa alla regista non è la precisione del linguaggio militare, bensì la capacità dei personaggi di mantenere la lucidità, la freddezza e la logica necessarie in una situazione estrema, pur dovendo affrontare l’impatto emotivo e psicologico dell’evento. C’è lo sgomento, la sorpresa, la consapevolezza di trovarsi davanti a un attacco nucleare reale: emozioni che cozzano contro il ruolo istituzionale, imponendo un equilibrio quasi impossibile tra razionalità e panico.

Proprio in questa tensione interiore — tra l’istituzionalità logica e la reazione umana — si sviluppa il cuore del film. L’attrito cresce progressivamente, perché nel corso dei tre segmenti il livello dei personaggi coinvolti si alza: dalla manager della Casa Bianca si arriva fino al Presidente stesso.

Bigelow gioca abilmente con il desiderio dello spettatore di sapere “come andrà a finire”, pur costruendo un racconto in cui il finale non è la rivelazione decisiva, ma l’esito coerente di un ragionamento politico e morale. Il finale, infatti — senza rivelare troppo — non è una sorpresa, ma un punto di arrivo che serve il messaggio complessivo del film: una riflessione sulla corsa agli armamenti, sul concetto di deterrenza e sulla sua effettiva utilità.

A House of Dynamite non si basa sulla domanda “cosa succederebbe se?”, ma sul dilemma etico e politico del “cosa dovremmo fare quando accadrà”. L’esplosione della bomba, in sé, è secondaria: ciò che interessa è la reazione umana e le decisioni che vengono prese di fronte a una minaccia irrisolvibile da chi lavora all’interno dei sistemi di potere.

Il film esplora con grande precisione il dilemma centrale: come reagire a una minaccia nucleare imminente e ineluttabile. Il giovane assistente del Segretario alla Sicurezza Nazionale diventa la figura chiave in questa dinamica: non abituato a gestire situazioni di massimo livello, viene però investito della responsabilità di fornire indicazioni operative e morali cruciali.

Attraverso di lui, Bigelow mette in scena la tensione tra reazione immediata e riflessione ponderata. Si tratta di decidere se lanciare una ritorsione preventiva o attendere conferme certe sull’origine dell’attacco. Il film insiste su questa dialettica, ripetendo l’azione dei venti minuti cruciali attraverso i tre punti di vista: ogni iterazione rivela nuovi dettagli, nuove incertezze, nuove responsabilità e nuove sfumature emotive dei personaggi coinvolti.

L’elemento etico emerge con particolare forza nel confronto diretto tra il Presidente e il giovane vice del segretario della NSA. Viene chiarito che il paese più potente del mondo non può apparire debole, e che la pressione internazionale — la percezione di forza o di cedimento — diventa parte integrante della decisione. Questa tensione tra ruolo istituzionale, moralità e sopravvivenza collettiva costituisce l’asse portante del film.

A House of Dynamite è una lente di lettura attenta delle dinamiche geopolitiche mondiali. Il missile, pur sospettato di provenire dalla Corea del Nord, in realtà pone interrogativi su possibili responsabilità esterne, incluso il coinvolgimento della Russia, tradizionale avversario strategico degli Stati Uniti.

Bigelow mostra come la gestione di un attacco nucleare non sia solo questione di intercettazioni o capacità militari, ma anche di diplomazia, comunicazioni internazionali e prevenzione di escalation incontrollate. Il film evidenzia inoltre il limite del concetto di deterrenza: la certezza dell’arsenale nucleare non garantisce immunità. Anzi, la dotazione di armi nucleari sempre più potenti e numerose, ne prefigura la necessità di utilizzo in caso di un attacco, la deterrenza è solo un falso velo protettivo morale, perché qualsiasi bomba è fatta per esplodere, qualsiasi arma è fatta per essere usata. Una volta che ci si costruisce l’immagine di superpotenza mondiale, se provocati, bisogna metterla in atto e concretizzarla di fronte al mondo intero, non ci si può tirare indietro.

L’esplosione di una bomba — anche isolata — può scatenare risposte automatiche, movimenti politici, fraintendimenti e decisioni basate sulla paura e sulla volontà di potere, piuttosto che sulla razionalità strategica e sul desiderio di pace mondiale.

Uno dei punti di forza del film è l’approfondimento psicologico dei personaggi. La sceneggiatura di Noah Oppenheim sceglie uno stile documentaristico per raccontare le azioni dei personaggi in un contesto di crisi, mettendone in evidenza l’ambiguità delle scelte morali e aprendo una prospettiva umana sul messaggio politico del film.

Il capitano capo dello staff, il Segretario della difesa e il Presidente vengono esplorati nella loro complessità: ognuno deve bilanciare competenza, autorità, responsabilità istituzionale e fragilità umana. Nell’emergenza non c’è tempo per farsi influenzare dalle emozioni personali, che non sono mai esplicitate attraverso il dialogo diretto, ma emergono dalle azioni, dagli sguardi, dai gesti minimi: un anello, una fotografia di famiglia, una video-chiamata alla moglie, diventano strumenti per raccontare l’angoscia. Non c’è spazio per farsi dominare dall’emotività, ma la profondità psicologica emerge inevitabilmente nel comportamento operativo, che da logico e strategico, diventa umano, emotivo e caotico.

Il Presidente, interpretato da Idris Elba, appare come un leader vicino alle persone, alla mano, ma di fronte alla crisi rivela la rigidità del ruolo: la necessità di non poter apparire debole, pur mantenendo un senso morale e politico coerente. Come Presidente USA spetta a lui la decisione impossibile imposta dal film: bisogna scegliere tra la resa e il suicidio. Tra l’accettare di essere colpiti al cuore dell’America senza fare niente, e il dare una risposta di forza, sfoderando l’arsenale più potente della terra, pur non avendo la certezza di chi sia il vero nemico e rischiando di aprire una frattura che condurrà all’olocausto nucleare mondiale.

La regia di Bigelow privilegia un iperrealismo dettagliato, che si manifesta nella sceneggiatura, nella fotografia e nel montaggio. Le inquadrature seguono i personaggi da vicino, facendo sentire lo spettatore dentro la scena, come se fosse parte integrante della crisi. Il montaggio è preciso e calibrato, dosando suspense e ritmo in un film interamente basato sui dialoghi, in cui la tensione nasce dall’intensità emotiva e dall’ansia della responsabilità più che dall’azione fisica.

Rispetto ad altri film di Bigelow, A House of Dynamite si svolge prevalentemente in ambienti chiusi — la sala crisi della Casa Bianca, gli uffici e le basi militari, perfino il presidente è all’interno di un’auto al telefono — dove i personaggi si interfacciano tra di loro attraverso gli schermi, in una conference-call determinante per il futuro del mondo. Questa virtualizzazione telematica mette in evidenza lo scarto tra l’esigenza umana di affrontare la crisi condividendo uno spazio reale di confronto e dialettica, e il dispositivo di gestione militare ottimizzato per fornire una risposta razionale, rapida ed efficace. La conference-call determina il destino del mondo, ma rivela la distanza tra la gestione algoritmica della crisi e l’angoscia fisica di chi ne subisce gli effetti.

Come negli altri film della regista c’è una riflessione sui dispositivi di esperienza e di visione del reale, ma se nei lavori precedenti si sfruttava appieno la grandezza di visione dell’esperienza cinematografica, in questo film si insiste sull’alienazione claustrofobica della visione attraverso gli schermi dei computer e dei telefoni. In questo senso la distribuzione del film sulla piattaforma Netflix non è solo un elemento produttivo, ma diventa un fattore che definisce il linguaggio, creando un rispecchiamento tra i personaggi chiusi nei bunker ad affrontare la minaccia nucleare e gli spettatori chiusi nelle loro case che assistono sul teleschermo all’agghiacciante epilogo della crisi.

House of Dynamite è un thriller politico che va oltre la tensione narrativa: il film invita a riflettere sul significato della guerra, della vita militare e del ruolo di chi è chiamato a prendere decisioni di portata globale. Il punto in discussione rimane la visione morale e politica che determina il senso di efficacia. La scelta e la decisione finale non può che essere umana. Ma come può essere umana all’interno di un dispositivo meccanico e funzionale, di stampo militare, che offre una sola alternativa: la resa o il suicidio.

La narrazione tripartita, la reiterazione dei venti minuti centrali e l’analisi dettagliata dei personaggi costruiscono un’opera che è al contempo realista, politica e profondamente umana. Bigelow conferma il suo ruolo di maestra del thriller politico-militare, capace di combinare rigore tecnico, profondità psicologica e riflessione etica in un film di altissimo livello, in cui la suspense nasce dalla tensione morale e non dall’azione spettacolare.

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10 lettere https://www.carmillaonline.com/2025/11/10/10-lettere/ Mon, 10 Nov 2025 22:55:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91437 di Francisco Soriano

«10» sono le lettere indirizzate da Rainer Maria Rilke, tra il 1903 e il 1908, a Franz Xaver Kappus, giovanissimo allievo dell’accademia militare di Wiener Neustadt. Un miracoloso quanto «inatteso» carteggio fra un cadetto, aspirante poeta, e un gigante della letteratura. L’epistolario è oggi riferimento ineludibile sia per l’esegesi del pensiero poetico rilkiano che per la sua visione del mondo della letteratura. In questo enorme spazio creato dallo stesso Rilke, i temi sono la maieutica come modalità di comporre versi e la «messa in prova» della vita quotidiana durante la quale urge un comportamento solitario e redentivo, dedito [...]]]> di Francisco Soriano

«10» sono le lettere indirizzate da Rainer Maria Rilke, tra il 1903 e il 1908, a Franz Xaver Kappus, giovanissimo allievo dell’accademia militare di Wiener Neustadt. Un miracoloso quanto «inatteso» carteggio fra un cadetto, aspirante poeta, e un gigante della letteratura. L’epistolario è oggi riferimento ineludibile sia per l’esegesi del pensiero poetico rilkiano che per la sua visione del mondo della letteratura. In questo enorme spazio creato dallo stesso Rilke, i temi sono la maieutica come modalità di comporre versi e la «messa in prova» della vita quotidiana durante la quale urge un comportamento solitario e redentivo, dedito all’amore e all’arte come sublimazione e senso della propria esistenza, così come affermato dallo stesso poeta: «l’arte è solo una maniera di vivere, e ci si può preparare a essa vivendo».

Rilke, sin dalle prime battute della missiva spedita da Viareggio il 5 aprile del 1903, avverte Kappus che non dovrà sorprendersi per la sua tardiva o mancata risposta alle lettere e, per questo motivo, chiede «indulgenza». Soprattutto, aggiunge il poeta, «nelle cose più profonde e importanti»1, bisognerà essere «indicibilmente soli»2. Profondità e solitudine sono dunque lo stato di grazia e la conditio sine qua non irrinunciabili, al fine di consentire a un qualsiasi essere umano il tentativo di scrivere un testo poetico. Rilke appare sinceramente preoccupato nei confronti di Kappus, che lo ha investito di responsabilità con la sua richiesta di un giudizio sulle proprie poesie: «un’intera costellazione di cose – aggiunge il poeta austriaco – si deve congiungere perché una volta si arrivi a buon fine»3. L’uomo e il poeta dunque impongono una condotta, una linea di demarcazione e una soglia che può essere oltrepassata soltanto se si è disposti al sacrificio assoluto dell’informe vociare, del rumore, del quotidiano, dell’inconsistenza e dell’inutilità del superficiale. Questo è un primo comandamento per il «poeta» che voglia assumere dignità e consolidare nella sua parola poetica l’esito di una consapevole quanto faticosa riuscita. Una seconda condizione è inoltre necessaria: non lasciarsi dominare dall’ironia, «specialmente nei momenti di aridità»; «nei fecondi – suggerisce Rilke al suo interlocutore – tentate di servirvene come di un mezzo di più di afferrare la vita»4. L’ironia è concetto arduo da decifrare e, in poesia, da determinare. L’affermazione di Rilke va forse letta alla luce della dicotomia classica fra tragedia e commedia, laddove la commedia – intrisa appunto di ironia – si rivolge agli uomini. E dunque Rilke continua: «se vi sentite troppo in confidenza con essa […] rivolgetevi a grandi e gravi oggetti, davanti ai quali essa si fa piccola e inerme»5.

Franz Xaver Kappus (Timisoara, 17 maggio 1883 – Berlino, 9 ottobre 1966)

Dunque è nella sfera della profondità, dove sarà impossibile che l’ironia arrivi tanto è inestricabile e irraggiungibile, che la poesia trova il suo perfetto habitat. Infatti tanto più la profondità viene sfiorata, tanto più sarà possibile capire se questo modo di vedere possa essere stato generato dalla «necessità» del nostro essere. Indissolubile relazione fra la propria e reale visione della vita vissuta e lo stato di necessità che ci agita, che ci distingue, che realizza il suo fine nobile. Parole che scandiscono una condotta coerente che non può essere distaccata, comodamente o per opportunismo, dalla realtà, dallo stile di vita propria che non è semplicemente forma ma sostanza. Il secondo aspetto al quale fa riferimento Rilke è semplicemente un consiglio di lettura. Due libri indispensabili che lo accompagnano in ogni dove: Sei novelle e Niels Lyhne di Jens Peter Jacobsen. Questi libri rappresentano per il poeta la felicità, la ricchezza, «l’inafferrabile grandezza di un mondo». L’amore per questi libri, racconta il poeta, «sarà compensato a mille e mille doppi, […] penetrerà la trama della vostra vita quale uno dei fili più importanti fra tutti i fili delle vostre esperienze, delusioni e gioie»6. Inoltre, l’apprendimento di qualcosa sull’essenza della creazione è dovuto non solo alle opere di Jacobsen, ma anche del più grande scultore fra gli artisti contemporanei a Rilke: Auguste Rodin.

Molto probabilmente in una missiva il giovane Kappus segnala a Rilke di aver letto Qui dovevano esserci rose di Jacobsen, insieme al suo disappunto per l’introduzione al testo, ricevendo per questo motivo le lodi dello scrittore viennese, che aggiunge: «E qui subito una preghiera: leggete il meno possibile scritti di critica estetica, sono o opinioni faziose, impietrate e ormai senza senso nel loro inanimato irrigidimento, o abili giochi di parole, in cui oggi vince questo parere e domani il contrario»7. Conferma dunque la solitudine nell’arte come prassi e comportamento, un consiglio che oggi sarebbe molto utile ai chiassosi aspiranti poeti e artisti che invadono platee fra proclami entusiastici accompagnati da giubilanti recital poetici. Non a caso Rilke pone l’accento sul percorso saggio che ogni artista dovrebbe fare, la crescita naturale da seguire partorita soltanto dalla «intima vita nella quale è possibile», “lentamente”, ravvedersi e migliorarsi. Mai sottomettersi o relativizzare la propria opera con il giudizio dei critici, possibilmente lasciati a se stessi nelle loro elucubrazioni, nel tentativo di non far né reprimere né accelerare i processi che devono realizzarsi senza impedimenti in se stessi: «Lascia compiersi ogni impressione e ogni germe d’un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile, alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto d’una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere d’artista: nel comprendere come nel creare»8. Inutile dunque è la misurazione del tempo o termini imposti nel compiere il gesto artistico, si è come alberi a crescere senza apprensioni, sgombri d’ansia, dove la pazienza è tutto.

René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Les Planches, 29 dicembre 1926)

Per Rilke la lotta è quella col desiderio di abbandonare la propria solitudine, uscirne e vivere nel caos brulicante delle superficialità, copiose e incalcolabili. La solitudine è quella dei bambini che osservano gli adulti indaffarati in mille faccende che appaiono importantissime e, in fondo, molte di esse sono addirittura miserabili. Quella dei bambini è una «sapiente incomprensione», un’incomprensione che è suo malgrado saggia, più vicina al vero di quanto sappia. Sono gli adulti e le persone in generale che hanno dissipato il tutto in facilità: è nel difficile che bisogna vivere, infatti è bene tenersi soli perché la «solitudine è difficile». Anche l’amore appartiene alla dimensione del difficile, il compito più estremo con i suoi tempi lunghissimi e la sua clausura, la solitudine più intensa. In questo caso Rilke capovolge l’assunto amoroso: amare non è schiudersi, né donare, né unirsi a qualcuno: «che cosa sarebbe infatti l’unione di un elemento indistinto, immaturo, non ancora libero?» 9.

Dunque il tempo e la solitudine diventano spazi in divenire, in grandezze e attraversamenti lenti, il contrario di quello che generalmente perpetriamo. In questa dimensione ben si percepiscono le istanze dell’ignoto che ci vengono incontro anche se non lo vogliamo. Per questo la vita ci pone in un bivio costante che perennemente bisognerebbe affrontare con una buona dose di coraggio, perché la viltà ci concede solo insoddisfazione e miseria. Il coraggio verso l’insondabile e l’inaudito è motore cosciente, affronto alla comodità, allo spregevole, al superficiale. Così come l’angoscia, l’amarezza, la sofferenza sono stati d’animo che lavorano dentro di noi e dei quali non bisogna provare sgomento: il tutto è trasformazione, progresso. Meravigliosa intuizione di questo straordinario poeta è l’affermazione che «la malattia è il mezzo con cui l’organismo si libera dall’estraneo»10. Anche nella malattia bisogna essere pazienti e nello stesso tempo medici di se stessi nell’attesa.

L’arte è davvero una maniera di vivere. Lontani da certo giornalismo, da tutta la critica e «tre quarti di ciò che si chiama e vorrebbe chiamarsi letteratura»11. Per questo è necessario distaccarsi, allontanarsi, sentire l’essenza della solitudine, combattere ogni desiderio di manifestarsi a tutti i costi, portare con sé questo libro di Rilke come un amuleto. Il contrario di quello che oggi succede nel vociare informe della insopportabile pornografia di una certa letteratura e del dolore.


  1. Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1998, p. 19.  

  2.  Ibid.  

  3.  Ibid.  

  4.  Ivi, p. 20.  

  5.  Ibid.  

  6. Ivi, p. 21.  

  7.  vi, p. 24.  

  8.  vi, p. 25.  

  9.  Ibid.  

  10.  Ivi, p. 61.  

  11.  Ivi, p. 71.  

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