Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 12 Jun 2025 22:15:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il genocidio di Gaza tra decolonizzazione e competizione vittimaria https://www.carmillaonline.com/2025/06/13/il-genocidio-di-gaza-tra-decolonizzazione-e-competizione-vittimaria/ Thu, 12 Jun 2025 22:15:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88346 di Fabio Ciabatti

Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, pp. 320, € 20,00.

Sentimento di impotenza di fronte alla tragedia, senso di “colpa metafisica” per non aver fatto tutto il possibile per evitare l’abisso, sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto. Il libro Il mondo dopo Gaza ci descrive queste angoscianti emozioni del suo autore, lo scrittore e saggista indiano Pankaj Mishra, di fronte al terrificante destino riservato ai palestinesi. Reazioni più che giustificate se è vero che la posta in gioco, politica ed etica, non è mai stata così alta come quella che ci propongono le vicende [...]]]> di Fabio Ciabatti

Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, pp. 320, € 20,00.

Sentimento di impotenza di fronte alla tragedia, senso di “colpa metafisica” per non aver fatto tutto il possibile per evitare l’abisso, sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto. Il libro Il mondo dopo Gaza ci descrive queste angoscianti emozioni del suo autore, lo scrittore e saggista indiano Pankaj Mishra, di fronte al terrificante destino riservato ai palestinesi. Reazioni più che giustificate se è vero che la posta in gioco, politica ed etica, non è mai stata così alta come quella che ci propongono le vicende della martoriata Striscia di terra tra Israele e Egitto: le atrocità commesse a Gaza, approvate senza vergogna dall’élite politica e mediatica del cosiddetto mondo libero e sfacciatamente rivendicate dagli israeliani, non si limitano a minare la nostra fiducia nel progresso, ma mettono in discussione la nostra stessa concezione della natura umana, soprattutto l’idea che essa sia capace di empatia.

L’antisemitismo, oramai lo sappiamo, è stato cinicamente trasformato nella foglia di fico dietro cui si nasconde la ferocia di un genocidio trasmesso in diretta. Ma “La narrazione secondo cui la Shoah conferisce legittimità morale illimitata a Israele non è mai apparsa più debole”.1 Infatti “molta più gente, dentro l’Occidente e fuori, ha iniziato ad abbracciare una contronarrazione secondo cui la memoria della Shoah è stata pervertita per consentire degli omicidi di massa, mentre al tempo stesso si oscurava una storia più ampia di moderna violenza occidentale al di fuori dell’Occidente”.2
Come è possibile che tanta atrocità abbia un appoggio internazionale così ampio, nonostante il comportamento israeliano neghi alla radice qualsiasi forma di autorappresentazione della civiltà occidentale? Certamente ci sono fondamentali ragioni di natura geopolitica. Ma c’è anche qualcosa di più che ha a che fare con il fatto che il cosiddetto mondo sviluppato si rispecchia in qualche modo nello stato sionista.

Tra i movimenti maggioritari c’è un forte senso di identificazione con uno stato etnonazionale che scatena la sua forza letale senza alcun vincolo. Questo spiega, molto meglio di qualsiasi calcolo di interesse geopolitico ed economico, la sorprendente complicità di molti occidentali in quella che è una trasgressione morale assoluta, vale a dire un genocidio3

Tutto ciò ha a che fare con il ritorno del suprematismo bianco nel cuore dell’Occidente che, a differenza del passato, non è la baldanzosa ideologia di una civiltà che si impadronisce del resto del mondo, ma l’espressione delle paure di quella stessa civiltà che oggi si percepisce sotto assedio.

Il 7 ottobre 2023 il suo feroce atteggiamento difensivo si è infiammato, quando Hamas ha distrutto, in modo definitivo, l’aura di invulnerabilità di Israele. Quest’assalto a sorpresa da parte di persone che si presumeva fossero state schiacciate rappresenta, per molte maggioranze bianche turbate e inorridite, la seconda Pearl Harbor del Ventunesimo secolo, dopo l’11 settembre. E, come è già successo, la percezione diffusa che il potere bianco sia stato pubblicamente violato, ha ‘scatenato’, secondo le parole di John Dower, ‘una rabbia che rasenta la furia genocida’4.

Insomma Israele è assurta al ruolo di avamposto ideologico di un mondo sviluppato che si sente asserragliato nelle cittadelle del suo benessere ed è pronto a respingere con la più feroce violenza i barbari invasori. Non è un caso che “La vecchia linea del colore separa oggi chi tra gli ex colonizzati è istintivamente solidale con i palestinesi dalle classi dominanti dei vecchi domini […], che difendono Israele”.5 Già nel 1972 lo storico israeliano Jacob Talmon, citato da  Mishra, aveva scritto che era difficile aspettarsi “che lo straordinario successo del piccolo Stato di Israele nella sua lotta per l’esistenza contro milioni di persone che lo assediano non ricordi loro il successo dei conquistatori bianchi nel loro tentativo di dominare le razze di colore”.6 Non è un caso l’opera inaugurale degli studi post-coloniali, Orientalismo, sia stata scritta da un palestinese, Edward Said. 

Oggi, la risonanza mondiale dell’accusa a Israele di genocidio davanti alla Corte dell’Aia da parte del Sud Africa, attesta la diffusione di un’indignata consapevolezza di massa sull’interconnessione tra i destini dei miserabili della terra. Come risponde l’Occidente a questa nuova consapevolezza? Solo per citare alcuni esempi riportati da Mishra, sull’Atlantic, una delle più antiche e prestigiose riviste degli Stati Uniti, mentre esplodono le proteste pro-palestinesi nei campus universitari, si afferma che la decolonizzazione è una “teoria tossica e disumana” che sta corrompendo le giovani menti al pari della teoria critica della razza, null’altro che un mix di marxismo, propaganda sovietica e antisemitismo. Dal canto suo Elon Musk vuole vietare la parola decolonizzazione che, secondo il suo illuminato parere, è generata dal “virus della mentalità woke” e comporta “necessariamente” un genocidio.
In questo scontro ideologico assistiamo a “Un’identità ebraica fondata sulla memoria di essere state vittime [che …] è aggressivamente sfidata da altre identità costruite in modo simile”.7 Dalla memoria dei popoli colonizzati. Se in un recente passato sembrava possibile costruire una società civile globale attorno alla ridefinizione della Shoah come l’atrocità suprema e dell’antisemitismo come la forma più odiosa di intolleranza, oggi altri gruppi avanzano rivendicazioni analoghe e, denunciando genocidi, schiavitù e imperialismo razzista, chiedono riconoscimenti e risarcimenti. E tutto questo si inscrive in un processo storico di respiro ancora più ampio.

Se gli occidentali bianchi hanno affermato di aver creato il mondo moderno, oggi molte più persone si riconoscono in una narrazione della decolonizzazione altrettanto avvincente, in cui i bianchi hanno soggiogato e denigrato gran parte della popolazione mondiale e ora devono rinunciare alle loro crudeli prerogative8.

Detto altrimenti l’evento più importante del secolo scorso per una parte consistente dell’umanità non è stata la prima o la seconda guerra mondiale e neanche la Shoah, ma la decolonizzazione: non si è trattato soltanto di “un processo di liberazione per la maggioranza non bianca del mondo” ma anche di “una promessa seducente e perpetuamente rinnovabile di uguaglianza”.9 Tutto bene dunque? Abbiamo trovato il villain della storia, il suprematismo bianco e il suo campione israeliano, nonché l’eroe che sconfiggerà il male, i popoli del Sud globale in viaggio verso la definitiva decolonizzazione?
Non proprio, sottolinea l’autore, perché autocrati come il premier indiano Modi e il presidente turco Erdoğan incarnano il tradimento delle promesse della decolonizzazione e il decadimento morale e politico di molti stati postcoloniali. 

I nazionalisti indù e gli islamisti turchi usano spudoratamente narrazioni di vittimizzazione ereditaria per fa passare come emancipatrici politiche autoritarie ed escludenti e per forgiare una nuova identità nazionale ipermaschile dai loro racconti di umiliazione, impotenza e insicurezza10

Modi ha addirittura lanciato una politica commemorativa che imita da vicino quella di Israele: il giorno della memoria indiano celebra le sofferenze degli indù durante la partizione dell’ex colonia britannica che nel 1947 ha stabilito la creazione del Pakistan a maggioranza musulmana. Le nuove identità derivanti dalla vittimizzazione ereditaria rivendicano un’innocenza storica simile a quella degli ebrei, escludendo vaste aree dell’esperienza individuale e collettiva e creando uno stallo politico apparentemente insolubile.  

È ormai evidente che il pregiudizio etnico-razziale costituisce una forza politica permanente della modernità, potente e mutevole. Inseparabile sia dal nazionalismo sia dal capitalismo, fiorisce su entrambi i lati della vecchia linea del colore e divora continuamente nuove vittime: ieri ebrei europei, asiatici e africani, oggi musulmani e immigrati11.

Non basta essere stati delle vittime per stare dalla parte giusta della storia. E questo vale sia per gli israeliani sia per i popoli del Sud globale. Oggi sappiamo che “la sofferenza, lontana nel tempo e nello spazio, si trasforma in uno spettacolo competitivo”.12 Se questo è vero,  dobbiamo forse cambiare prospettiva, sostiene l’autore. Solo se partiamo dall’intuizione “di una sofferenza indivisibile, possiamo iniziare a cercare modi per conciliare le narrazioni contrastanti della Shoah, della schiavitù e del colonialismo”.13 Non è stato forse il palestinese Edward Said a definirsi “l’ultimo intellettuale ebreo”, in quanto portavoce di un popolo perseguitato che sostiene le virtù della solidarietà e della fratellanza?  Per resistere alla barbarie che avanza, Pankaj Mishra fa appello a un’etica della solidarietà tra gli esseri umani che non “finisce con la linea di colore”. Solo una “memoria multidirezionale”, secondo l’espressione coniata da Michael Rothberg, può avere la capacità di unire storie separate e di scoprire una versione più ampia di solidarietà umana che vada al di là delle comunità etnico-raziali.
Lo scrittore indiano non è certo ottimista. Ritiene molto probabile che Israele riesca a portare a termine la pulizia etnica a Gaza e anche in Cisgiordania. Pensa però che i crimini israeliani e i numerosi atti di complicità che li hanno resi possibili abbiano avuto un impatto più profondo tra i giovani nella tarda adolescenza e nei ventenni, molti dei quali, ebrei compresi, si sono mobilitati a loro rischio e pericolo. Anche se la loro sconfitta appare probabile, le loro manifestazioni e i loro atti di resistenza “potrebbero avere in qualche modo alleviato la grande solitudine del popolo palestinese. E possono offrire una speranza per il mondo dopo Gaza”.

Personalmente, sono ben lontano dal minimizzare questo livello etico-morale della resistenza. Ma temo che difficilmente potrà bastare. A cos’altro appellarsi? Qualche indizio lo troviamo nello stesso testo di Mishra. Per esempio quando afferma che “In un mondo in cui flussi economici indisciplinati compromettono la sovranità nazionale, le vecchie fantasie di purificazione culturale e di unità etnico-razziale sono diventate più forti”.14 Oppure quando rileva che India e Israele hanno avuto traiettoria storica molto simile essendo passati da un regime secolare e di ispirazione socialista a uno di natura religiosa e millenarista praticamente in contemporanea. Per quello che qui ci interessa, questo passaggio è stato favorito dal rifiuto degli ideali di una crescita inclusiva ed egualitaria in favore delle idee reaganiane-thatcheriane di privatizzazione, liberalizzazione e decimazione dello stato sociale. L’enorme crescita della diseguaglianza economica ha contribuito a creare nuovi panorami elettorali in cui si sono facilmente inseriti demagoghi ultranazionalisti che hanno riversato la frustrazione sociale su nemici esterni ed interni. Senza considerare queste dinamiche socio-economiche diventa difficile comprendere i processi politico-ideologici che Mishra descrive, compresi quelli che accomunano India e Israele.

I dalit indiani, probabilmente il più numeroso tra i gruppi storicamente vittime di persecuzioni, si erano uniti ai loro aguzzini di casta superiore nell’uccidere e stuprare i musulmani durante il pogrom coordinato nel 2002 da Narendra Modi nello stato del Gujarat. Gli ebrei di origine mediorientale, un tempo soggetti ad abusi razziali e discriminazioni da parte della classe dirigente israeliana di origine europea, ora dettavano i termini dell’umiliazione ai palestinesi15.

Insomma, in passato si è pensato, in modo troppo schematico, che bastasse la guida della classe operaia per cementare l’unione tra i popoli e le classi oppresse di tutto il mondo. Anche se oggi possiamo considerare simili idee troppo semplicistiche, rimane il fatto che la solidarietà di classe, la concreta complicità tra gli esseri umani in quanto proletari e sfruttati e non solo in qualità di vittime, è ancora necessaria per dare gambe materiali a una nuova fratellanza umana. Più facile a dirsi che a farsi, certo. Comunque da farsi, ora più che mai. 


  1. P. Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, p. 187, edizione kindle. 

  2. Ivi, p. 188. 

  3. Ivi, p. 155. 

  4. Ivi, p. 211. 

  5. Ivi, p. 174. 

  6. Ivi, p. 177. 

  7. Ivi, p. 189. 

  8. Ivi, p. 178. 

  9. Ivi, p. 176. 

  10. Ivi, p. 197. 

  11. Ivi, p. 211. 

  12. Ivi, p. 197. 

  13. Ivi, p. 220. 

  14. Ivi, p. 210. 

  15. Ivi, p. 70. 

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Schiacciati per aver deciso di combattere. Ancora su Haymarket Square, Chicago e la memoria di classe https://www.carmillaonline.com/2025/06/11/schiacciati-per-aver-deciso-di-combattere-ancora-haymarket-square-ancora-chicago-ancora-la-memoria-della-lotta-di-classe/ Wed, 11 Jun 2025 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88777 di Sandro Moiso

Martin Cennevitz, Verrà il giorno. La origini del Primo maggio, Elèuthera 2025, pp. 200, 18 euro

Right behind you, I see the millions On you, I see the glory From you, I get opinion From you, I get the story (Tommy – Pete Townshend & the Who, 1968)

In tempi di insignificanti concertoni per il Primo Maggio, in cui la miseria culturale e musicale si traveste da impegno politico e sindacale, vale la pena di girare ancora il coltello nella piaga per ricordare gli eventi da cui lo show televisivo nazionale trae origine, probabilmente senza nemmeno lontanamente [...]]]> di Sandro Moiso

Martin Cennevitz, Verrà il giorno. La origini del Primo maggio, Elèuthera 2025, pp. 200, 18 euro

Right behind you, I see the millions
On you, I see the glory
From you, I get opinion
From you, I get the story

(Tommy – Pete Townshend & the Who, 1968)

In tempi di insignificanti concertoni per il Primo Maggio, in cui la miseria culturale e musicale si traveste da impegno politico e sindacale, vale la pena di girare ancora il coltello nella piaga per ricordare gli eventi da cui lo show televisivo nazionale trae origine, probabilmente senza nemmeno lontanamente conoscerli.

Una giornata di lotta e mobilitazione più che una festa, quale almeno dovrebbe essere, che affonda le sue radici nella radicale determinazione degli operai immigrati, quasi tutti di origine tedesca o irlandese, che alla fine dell’Ottocento si opposero, con ogni mezzo necessario, ad uno sfruttamento capitalistico che disvelava il vero volto di quella che avrebbe dovuto essere la Land of Freedom.

Il romanzo saggio, o il saggio “romanzato”, di Martin Cennevitz appena pubblicato da Elèuthera, ma uscito in Francia nel 2023 con il titolo Haymarket. Récit des origines du 1er Mai che rende meglio l’idea di racconto che lo pervade, porta il lettore a toccare con mano sia i presupposti che lo sviluppo degli avvenimenti che portarono alla condanna e all’esecuzione di coloro che sarebbero passati alla storia come i “martiri di Chicago”: Albert Parsons, Louis Lingg, August Spies, Adolph Fischer e George Engel. Ai quali occorre aggiungere i tre condannati all’ergastolo, e in seguito graziati: Michael Schwab, Oscar Neebe e Samuel Fielden.

Per raggiungere questo obiettivo, l’autore, che lavora come insegnante a Tours, in Francia, si è avvalso degli appunti autobiografici scritti in carcere dagli stessi condannati mentre erano in attesa dell’esecuzione, oltre che di un’attenta ricostruzione dei fatti storici che formano l’ossatura della sua ricerca, dando in questo modo vita ad una narrazione corale che inizia ben prima dei fatti di Haymarkket.

La storia della città fenice, come Chicago è stata denominata dopo la sua ricostruzione in seguito al grande incendio del 1871 che ne distrusse gran parte, affonda le sue radici in un processo di spossessamento che ha inizio con la cacciata dei nativi Potawatomi che abitavano quei territori da ben prima che i Wasi’chu, gli uomini bianchi, si affacciassero sulle rive dei lago Michigan sulle cui sponda sudoccidentale sarebbe sorta.

Nel 1833 Chicago contava trecentocinquanta abitanti. Sette anni dopo, ce ne sono quattromila in più […] Nel 1850 a Chicago risiedono trentamila persone, e in città cominciano ad arrivare immigrati tedeschi […] Nel 1860, piu di centomila persone abitano in città. Ventimila sono tedeschi. Chicago è sempre più rumorosa […] Via via che il paese si copre di binari, strade, ponti, veicoli, manifatture e fabbriche, le foreste arretrano e la selvaggina scompare. La città si libera ogni giorno di tonnellate di rifiuti che discendono su chiatte i fiumi Chicago e Calumet per essere gettati nel lago Michigan. Nel porto galleggiano pesci morti.
[…] Potawatomi significa «Coloro che conservano il fuoco». Il fuoco, quell’antichissimo segreto che aveva illuminato il cuore della nazione amerindia, che ora brucia nei forni e nelle caldaie di Chicago. Il fuoco che portando a ebollizione l’acqua produce il vapore e aziona le turbine. Il fuoco che aggregando le particelle di argilla in mattoni permette di erigere edifici. Il fuoco che fondendo il minerale dà forma ai ponti, alle ferrovie, agli attrezzi, alle macchine. Le acciaierie hanno bisogno del fuoco primordiale. Ma hanno bisogno anche dell’acqua. E del carbone che si estrae dalla terra. Occorrono sempre più fabbriche, acqua e miniere per fondere, trasformare, edificare, produrre, vendere…per plasmare un nuovo mondo.
Siamo nel 1870. La città si è espansa ancora. Ora raggiunge le trecentomila persone. E questa crescita sembra inarrestabile. Ma nell’ottobre 1871 Chicago si trasforma in un immenso braciere. Le case di legno bruciano come fiammiferi. La popolazione fugge precipitosamente davanti alle fiamme. L’incendio devasta la citta, uccide un centinaio di persone e ne lascia piu di centomila in mezzo alla strada, perlopiù lavoratori poveri. Il sindaco Roswell B. Mason dichiara la legge marziale per impedire sommosse e saccheggi. La solidarietà si mobilita, soprattutto in Europa. La Chicago Relief and Aid Society raccoglie 5 milioni di dollari. Ma alcuni ricchi industriali, come George Pullman o Marshall Field, vengono accusati di distoglierne una parte a profitto delle loro imprese. Il cinismo trionfa. Chicago e il grande Athanor1 del capitalismo. Vi si forgiano le più grandi fortune. E proprio come la fenice, Chicago non puo perire. Il fuoco l’ha fatta nascere. Il fuoco la farà rinascere.
La città diventa un immenso cantiere. Verrà ricostruita in pochi anni. Attenendosi alla loro concezione igienista e razionalista, gli urbanisti tracciano le strade a scacchiera, lasciandosi alle spalle la sporcizia dei vecchi quartieri. Ma i venti, gli stessi che avevano attizzato le fiamme del grande incendio, si ingolfano in quelle strade e sembra che non facciano altro se non portare freddo. Perché l’aria di Chicago rimane viziata. I porti e i macelli fanno planare sulla citta un odore nauseabondo. Il fumo grigiastro e la fuliggine hanno nuovamente invaso la città, sporcando tutto, ingrigendo le facciate, ostruendo i polmoni. Nel 1873 una nuova crisi colpisce il paese. La banca Jay Cooke & Co. fallisce, migliaia di fabbriche chiudono, la disoccupazione esplode. Con 5 centesimi al giorno, a malapena gli operai riescono a sopravvivere. Talvolta i salari non vengono neppure versati. E quelli che sbuffano vengono immediatamente rimpiazzati. L’inverno del 1873 è particolarmente rigido. Un vento glaciale soffia sull’Illinois. Ma un altro vento spazza Chicago. A dicembre, quasi ventimila persone convergono verso il municipio per reclamare il denaro della Chicago Relief and Aid Society che è stato rubato. Alcuni striscioni minacciano: «Pane o sangue». Vogliono cibo, vestiti, alloggi… riceveranno manganellate. Il sindaco manda la polizia e la manifestazione viene dispersa con la violenza. Gli operai comprendono ben presto che non ci si può limitare a chiedere quella dignità e quel futuro migliore che reclamano2.

E’ un quadro, quello tratteggiato da Cennevitz, che non può non rinviare immediatamente a La situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels (1845), al di là delle differenti posizioni teoriche del francese e del sodale di Karl Marx e in cui al posto di Chicago si parla di Manchester. Ma occorre partire da questa ricostruzione, in cui la distruzione dell’ambiente, che quasi sempre ricade principalmente sulle spalle dei poveri, si accompagna a quella dei nativi e delle vite dei proletari immigrati in nome dell’accumulazione capitalistica, per comprendere le origini di un movimento operaio combattivo e determinato cui sia lo Stato che i padroni e i loro infami giornali dichiararono una guerra spietata e senza quartiere ec he proprio con i fatti di Haymarket Square raggiunse il culmine.

Gli operai e i loro rappresentanti coinvolti e condannati in seguito erano tutti, escluso Albert Parsons, immigrati giunti negli Stati Uniti dopo la Guerra di secessione, forse attratti, oltre che dalla promessa di trovar lavoro, anche dalla diffusione di un’idea di libertà individuale e sociale che una volta giunti sul suolo americano avrebbero rapidamente scoperto essere nient’altro che una miserabile invenzione, un’autentica, con linguaggio odierno, fake news.

Mentre Marx ed Engels avevano chiesto ai rappresentanti dei lavoratori e agli operai tedeschi emigrati in America del Nord di combattere in funzione dell’evoluzione di un più moderno sistema di relazioni sociali e di lavoro3, questa non aveva fatto altro che ingigantire gli appetiti degli industriali del Nord senza l’obbligo di mantenere in seguito alcuna promessa. Compresa quella, fatta agli schiavi “liberati” di donare loro «quaranta acri di terra e un mulo» per dare inizio ad una nuova vita come piccoli proprietari e coltivatori di terre, di cui invece si sarebbero appropriati i carpetbagger4. Come scoprirà Samuel Fielden, dopo aver percorso in lungo e in largo gli stati del Sud alla ricerca di un lavoro giornaliero.

Le sue speranze si scontrano rapidamente con la dura realtà. Dopo aver lavorato per qualche tempo in una fabbrica di cappelli di Brooklyn e in un’officina tessile di Providence, finisce poi in una fattoria dell’Ohio per raggiungere infine Chicago, dove partecipa alla costruzione dell’Illinois and Michigan Canal. […] Nell’autunno successivo, s’imbarca su un battello a ruota e scende lungo il Mississippi verso sud, dove l’inverno offre più opportunità di guadagnare un po’ di denaro come
lavoratore giornaliero. Missouri, Tennessee, Arkansas, Mississippi, Louisiana… quello che era un fervente antischiavista scopre che da nessuna parte l’ex schiavo ha ottenuto i 40 acri e il mulo promessi dagli unionisti. Molti anni dopo, racconterà l’esperienza di un nero da poco liberato che aveva incrociato in Tennessee. Come molti altri, anche lui aveva proposto i suoi servizi a un proprietario terriero nella speranza di una giusta remunerazione. Una volta effettuato il lavoro, l’ex schiavo aveva dovuto rimborsare il prestito e il cibo degli animali da tiro, la locazione del terreno e gli attrezzi, così che si era ritrovato debitore ed era stato costretto a lavorare gratuitamente per il suo ex padrone. Il mito della grande nazione libera e fraterna crolla. Samuel Fielden riparte per Chicago. Al suo ritorno, lavora alla ricostruzione della città in gran parte devastata dall’incendio del 18715.

I miti di giustizia, uguaglianza e libertà connessi all’immagina dell’America si sgretolano in fretta agli occhi di chi debba sopportarne leggi (inique) e rapporti e orari di lavoro. Ed è in questo contesto che si svilupperà un vasto movimento di richiesta dela giornata lavorativa di otto ore che sarà uno dei primi ad unificare una classe operaia ancora divisa per nazionalità, categorie e sindacati di mestiere più simili alle corporazioni medievali che a quelli moderni, che da lì prenderanno le mosse. Nulla da stupirsi quindi se tra i “martiri” l’americano Parsons6 sarà anche membro della Massoneria cui erano collegati i Knights of Labor, una delle prime organizzazioni dei lavoratori americani, di cui faceva parte.

Durante la guerra di Secessione, dal 1861 al 1865, Chicago diventa un centro nevralgico dell’economia e le sue fabbriche si dimostrano indispensabili per sostenere lo sforzo bellico degli unionisti. Il Nord ha bisogno di viveri e di armi per le sue truppe; di carne e di acciaio. Ha bisogno della carne dei mattatoi di Chicago per arrivare alla vittoria. E gli stabilimenti Armour lo aiuteranno. In tempi rapidi, l’uomo d’affari Philip Armour mette in piedi un sistema che assicurera una redditività massima alla sua impresa.
[…] Le mobilitazioni operaie si vanno addensando in varie fabbriche, ma soprattutto in questi mattatoi. Grazie alla guerra di Secessione e al suo imperioso bisogno di viveri, i padroni hanno ceduto qualche acro di terra. Bisogna pur mostrare che la guerra non serve solo ad arricchire i Vanderbilt, gli Armour, i Carnegie, i Rockfeller o i Morgan. Occorre provare che non si muore per niente sui campi di battaglia. E’ necessario che la vittoria dell’Unione sia quella del popolo che lavora per una certa idea di America, per una certa idea di giustizia e libertà. Così, dopo la vittoria del Nord, molti Stati adottano ufficialmente la giornata di otto ore, incluso il Congresso per tutti i dipendenti statali. Ma queste misure non diventeranno mai esecutive 7.

Il riferimento ai macelli di Chicago è importante sia dal punto di vista economico che politico e, forse soprattutto, simbolico. Non soltanto lì si sviluppò nei fatti il lavoro “a catena” che poi avrebbe raggiunto la sua forma più smagliante con la catena di montaggio di Taylor e Ford, ma anche perché da lì sarebbero scaturite le mobilitazioni, e la repressione poliziesca, che avrebbero portato ai fatti di Haymarket Square del 4 maggio 1886. Ma il fatto che ancora oggi rappresentino uno dei luoghi di lavoro più pericolosi per numero di incidenti tra i dipendenti di tutto il territorio degli Stati Uniti non fa altro che rafforzare l’immagine di uno sviluppo capitalistico che è sempre passato come un rullo compressore su ogni forma di vita, umana e animale, senza alcun rispetto per l’ambiente e la società.

Anche per questa chiarezza di visione, forse, il movimento de lavoratori statunitensi, ancor prima di darsi organizzazioni politiche e sindacali comuni, si attrezzò militarmente dando vita a milizie armate aventi il compito sia di proteggere le manifestazioni e gli scioperi che di reagire adeguatamente alla violenza dello Stato, delle milizie private e della polizia.

Negli Stati Uniti, l’appartenenza a una milizia era una cosa piuttosto comune dopo la guerra d’Indipendenza e testimoniava del patriottismo dei suoi aderenti. A Chicago, le milizie operaie tedesche, irlandesi o ceche prendono slancio dopo il grande sciopero del 1877, in risposta alla repressione feroce condotta dalle guardie private assoldate da Marshall Field o George Pullman. Soltanto a Chicago, la Lehr und Wehr Verein8 conta diverse centinaia di membri suddivisi in quattro sezioni che si riuniscono ogni settimana per la formazione, per le esercitazioni e talvolta persino per le simulazioni di scontri. Su pressione degli imprenditori piu ricchi, la Corte suprema dell’Illinois vieta le sfilate armate che non abbiano avuto l’autorizzazione del governatore. Alcuni gruppi vengono sciolti e altri passano alla clandestinità9.

E’ anche per questo che i giornali di Chicago più vicini agli interessi degli industriali si scatenano, in ogni occasione, nell’indicare i militanti rivoluzionari come individui da eliminare oppure giungendo a suggerire di avvelenare i poveri per superare la crisi suscitata dall’eccessiva disponibilità di manodopera impossibilitata a trovare impiego.

Così, ogni volta, l’azione degli agenti della Pinkerton, della polizia o della guardia nazionale si fa sempre più violenta, causando morti e feriti tra i manifestanti, Che pure vanno avanti con le loro richieste, adeguandosi al livello di scontro messo in atto dalla parte avversa. Ma anche se tra le differenti organizzazioni politiche e sindacali non c’è sempre accordo sull’uso o meno della violenza, non sarà questo a guidare i giudici nel condannare gli otto militanti cicagoani.

Perché per il padronato non si tratta soltanto di una questione di posizioni politiche espresse o di azioni effettivamente svolte, ma solo ed esclusivamente di classe. E chi appartiene a quella proletaria, se resiste agli abusi anche soltanto esprimendo le proprie idee, deve essere punito duramente, schiacciato, eliminato una volta per tutte. Come già era successo ai contadini tedeschi e al loro capo riconosciuto: Thomas Muntzer.

August Spies, ad esempio, secondo il procuratore che conduce l’accusa «sarebbe un “barbaro”, un “selvaggio”, un “analfabeta”, un “anarchico ignorante dell’Europa centrale” incapace di “comprendere lo spirito delle libere istituzioni americane”», così nella sua risposta, il militante di origini tedesche, oltre a citare Goethe, Paine, Jefferson ed Esopo «Fa riferimento anche a Muntzer che, accusato di aver capeggiato una “banda di contadini saccheggiatori e assassini”, pagò con la vita l’essere insorto contro l’ingiustizia. A distanza di secoli, gli stessi epiteti vengono ancora utilizzati dai potenti per calunniare coloro che hanno osato sfidarli»10.

Così il processo, condotta iniquamente e vergognosamente sotto lo sguardo attento dei maggiori imprenditori di Chicago, potrà avere un solo finale, nonostante i rinvii, gli appelli e le mobilitazioni oltre che lo sforzo degli avvocati difensori e in particolare dell’avvocato Black, eroe rispettato della Guerra di secessione. Forse, come oggi a Gaza, per aver per un attimo smascherato i potenti e i loro vili scherani.

Dopo l’esplosione dell’ordigno e la susseguente sparatoria su Haymarket Square: «I poliziotti sono scioccati. Quasi settanta agenti colpiti, sei dei quali gravemente, e uno di loro e morto sul posto. Sono stati colti di sorpresa. Sono andati in panico e hanno sparato in ogni direzione, colpendo anche i loro colleghi. Alcuni sono persino fuggiti. E ora, dopo l’umiliazione, in questi uomini abituati a essere temuti cresce il risentimento»11.

Fermiamoci qui, anche se la ricchezza di dati e di personaggi che circondano i protagonisti degli avvenimenti sono davvero tanti ed occorre ricordare come la lotta per la liberazione delle donne e la lotta di classe siano necessariamente e indissolubilmente intrecciate, come ha modo di riflettere Emma Goldman in una delle pagine di Cennevitz in cui viene descritta la sua visita, nel settembre del 1898, all’ormai morente Schwab, per la tubercolosi contratta durante la detenzione.

Sono ormai molti minuti che Emma Goldman tace. Anche lei ripensa alla sua giovinezza, quando all’età di tredici anni deve cominciare a lavorare, mentre avrebbe dovuto studiare […] Dovunque ritrova l’atmosfera feudale dei laboratori di manifattura nei quali le donne diventano prede. Quando, davanti agli occhi servili degli operai, che subito abbassano lo sguardo sul loro lavoro, qualche ragazzina viene trascinata via dal padrone, tutti sanno bene cosa significa. Una madre trattiene le lacrime sotto le palpebre affaticate, la mascella di un padre si contrae, un fratello stringe i pugni nelle tasche. Emma Goldman ha quindici anni quando un caporeparto la violenta. Lei pensa con disgusto a quell’ «incontro fisico brutale e doloroso»12.

La forma di romanzo-saggio permette a Cennevitz di dare vita a una ricostruzione storica di parte che non ha bisogno della presunta obiettività di una ricerca scientifica che troppo spesso ha dimostrato la sua parzialità e neppure di una oggettività paralizzante per il pensiero e per l’azione, contro la quale ha strenuamente lottato Emilio Quadrelli nel corso del suo lavoro13. Suggerendo così, indirettamente, che la storiografia di oggi e domani o sarà radicale e destrutturante oppure altro non potrà fare che certificare l’irrimediabile continuità del modo di produzione dominante. Una radicalità che non va, però, confusa con la semplificazione di carattere ideologico, ma rappresentare un punto di vista “altro” rispetto al discorso scientifico dominante. Anche nei confronti di quello che si pensa essere di “sinistra”.

Da questo punto di vista vale la pena di sottolineare, all’interno del libro di Cennevitz e dei fatti storici narrati, come i tre “ergastolani”, che tali furono per aver accettato di scrivere una lettera in cui prendevano le distanze non solo dall’attentati, cui tutti si dichiararono comunque estranei, ma soprattutto dalla professione di violenza esercitata in alcuni articolo e volantini pubblicati nei giorni precedenti il 4 maggio, mai furono visti dagli altri condannati e da buona parte del movimento anarchico dell’epoca come dei traditori. Prova ne sia la commossa visita di Emma Goldman al capezzale di Michael Schwab di cui si è già parlato poc’anzi. All’interno di un proletariato che ancora ricordava come fosse “l’arte della dissimulazione tanto necessaria nella vita” dei poveri14, motivo per cui una posizione intransigente nei confronti dell’avversario, ma ben diversa da quelle espresse frettolosamente dalle ideologie degli ultimi decenni per separare i “puri” dai traditori”, non poteva dimenticare che la militanza politica soggiace a leggi che sfuggono materialmente a quelle dell’ideologia e al suo preteso e freddo razionalismo etico.

Così, più che il Primo Maggio ufficiale, oggi devastato e prostituito dall’azione dei sindacati ufficiali e dai media, a ricordare i martiri di Chicago possono essere piuttosto azioni come quelle citate, tra le tante altre, alla fine del libro.

5 ottobre 1970. In piena notte, una violenta detonazione frantuma centinaia di vetri nella zona intorno a Union Park. Un anno dopo un precedente attentato con caratteristiche simili, i Weathermen attaccano di nuovo a colpi di dinamite la statua che omaggia i poliziotti caduti a Haymarket Square. L’esplosivo recide di netto una gamba di bronzo che viene ritrovata cento metri piu in la, mentre la statua giace sul dorso lungo la strada, rivolgendo il suo ridicolo gesto di autorità alle impassibili stelle.

1° maggio 2020. A Islamabad i manifestanti non sono numerosi quel giorno. A causa della pandemia di coronavirus, ma anche perché ci vuole molto coraggio per scendere in strada in Pakistan. Alla testa del raduno, una decina di donne rimangono immobili in un piccolo cerchio di gesso bianco tracciato sull’asfalto. Alcune sono velate, altre no. Tutte indossano un’ampia djellaba e una mascherina chirurgica, e inalberano un cartello su cui campeggia uno slogan o il ritratto di un prigioniero politico del quale chiedono la liberazione. Una di quelle donne brandisce un grande pannello rosso sul quale compaiono otto volti che vengono dal passato, quelli di Parsons, Spies, Schwab, Fielden, Neebe, Fischer, Engel e Lingg.
Perché anche nel crepuscolo di un venerdi nero appare sempre un orizzonte luminoso su cui s’intravedono forme di vita piu degne ancora da conquistare.


  1. Athanor (o Atanor) in alchimia è il termine che viene usato per designare il forno il cui calore serve a eseguire il procedimento della digestione alchemica [N.d.T.].  

  2. M. Cennevitz, Verrà il giorno. La origini del Primo maggio, Elèuthera 2025, pp. 12-16  

  3. In proposito si vedano: K.Marx, F. Engels, De America vol.1°. La guerra civile, a cura di E. Forni, Silva Editore, Roma 1971; K. Oberman, Joseph Weydemeyer. Pioniere del socialismo in America 1851- 1866, Edizioni Pantarei, Milano 2002; F. A. Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America 1783–1892, Edizioni Pantarei, Milano 2002 e H. Schlüter, La prima internazionale in America. Un contributo alla storia del movimento operiao negli Stati Uniti, edizioni Lotta Comunista, Milano 2015.  

  4. Carpetbagger, letteralmente colui che porta una borsa di tessuto dozzinale, è un peggiorativo usato dagli abitanti del Sud degli Stati Uniti per descrivere gli opportunisti e i profittatori che dopo la guerra civile calarono come avvoltoi dal Nord e che furono percepiti come sfruttatori della popolazione locale per il proprio guadagno finanziario, politico o sociale, approfittando dello stato caotico dell’economia locale dopo la guerra. Di fatto, il termine carpetbagger fu spesso applicato a tutti i “nordisti” che erano presenti nel sud durante l’era della Ricostruzione (1865-1877).  

  5. M. Cennevitz, op. cit., pp. 178-179.  

  6. Albert «era fiero dei suoi antenati, passeggeri del secondo viaggio del Mayflower, e dei suoi avi eroi della guerra di Indipendenza. Suo padre dirigeva una modesta fabbrica di scarpe a Montgomery, in Alabama, e aveva sposato una metodista devota che gli avrebbe dato dieci figli. Albert era il più giovane, e quando all’età di cinque anni diventerà orfano, sarà suo fratello William, di vent’anni più vecchio, ad accoglierlo nella sua casa. Sarà l’amorevole zia Esther, una schiava che lo alleva come una madre, a occuparsi di lui,[…] ed è dunque in Texas che Albert crescerà.» (Cennevitz, p. 20)  

  7. Ibidem, pp. 55-57.  

  8. Milizia composta da operai di origine tedesca e militanza socialista o anarchica  

  9. Cennevitz, op. cit., p. 114.  

  10. Ibidem, pp. 135-136.  

  11. Ivi, p. 122.  

  12. Ibid., pp. 88-89.  

  13. Si veda in particolare: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  14. Citazione tratta dalle memorie di un affittuario agricolo francese del diciannovesimo secolo ora in J. C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera editrice 2021, p. 17.  

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Haymarket, Chicago https://www.carmillaonline.com/2025/06/11/88630/ Wed, 11 Jun 2025 05:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88630 di Ferdinando Fasce

Stefano Gallo, Primo maggio, il Mulino, Bologna, 2025, pp. 176, euro 14,00.

Non tutti sanno che le prime manifestazioni per il Primo maggio si tennero un po’ il tutto il mondo l’11 novembre 1888. Fa bene a ricordarlo questa efficace sintesi che ci restituisce la travagliata vicenda della festa del lavoro a 140 anni dal tragico evento che la originò, l’impiccagione di quattro anarchici, l’11 novembre 1887, ritenuti responsabili della bomba lanciata, a conclusione di una pacifica manifestazione a Haymarket, a Chicago, parte a sua volta di una più ampia mobilitazione per le otto ore lavorative, il 4 maggio [...]]]> di Ferdinando Fasce

Stefano Gallo, Primo maggio, il Mulino, Bologna, 2025, pp. 176, euro 14,00.

Non tutti sanno che le prime manifestazioni per il Primo maggio si tennero un po’ il tutto il mondo l’11 novembre 1888. Fa bene a ricordarlo questa efficace sintesi che ci restituisce la travagliata vicenda della festa del lavoro a 140 anni dal tragico evento che la originò, l’impiccagione di quattro anarchici, l’11 novembre 1887, ritenuti responsabili della bomba lanciata, a conclusione di una pacifica manifestazione a Haymarket, a Chicago, parte a sua volta di una più ampia mobilitazione per le otto ore lavorative, il 4 maggio 1886. Da questa storia americana parte il libro di Gallo, uno dei nostri migliori storici del lavoro. Quel comizio del 4 maggio 1886 era stato indetto per protestare contro la brutale repressione antioperaia attuata il giorno prima dalla polizia, che aveva aperto il fuoco sulla folla, provocando quattro morti fra i lavoratori che protestavano contro i licenziamenti della grande fabbrica di macchine agricole McCormick. Il comizio di protesta del giorno seguente, il 4, in Haymarket Square, terminò con un attacco delle forze dell’ordine verso il palco quando l’evento si era praticamente concluso. Ne seguì un’esplosione che uccise un poliziotto e provocò una sparatoria da parte degli agenti, con un bilancio di sette poliziotti morti (in gran parte vittime del fuoco amico), quattro lavoratori deceduti e una settantina di feriti. La repressione, ricorda Gallo sulle orme del superbo affresco delineato vent’anni fa dal grande e compianto storico americano James R. Green[1], fu immediata ed esemplare. Vennero arrestati duecento tra anarchici, socialisti e sindacalisti. Otto tra gli esponenti più in vista delle mobilitazioni, tutti militanti anarchici dell’agguerrita International Working People’s Association e quasi tutti immigrati, furono portati in giudizio: i tedeschi August Spies, Louis Lingg, Michael Schwab, Adolph Fischer e George Engel, l’inglese Samuel Fielden, Oscar Neebe, nato a New York da genitori tedeschi, tornato negli Stati Uniti dopo aver trascorso gran parte della gioventù in Germania, e infine Albert Parsons, nato in Alabama. Cinque di loro non erano neppure presenti alla manifestazione, i presenti erano sicuramente disarmati. Negli anni e nei giorni più vicini al fatto questi anarchici non avevano mancato di incitare a più riprese i loro colleghi ad adottare forme risolute di autodifesa, se occorreva armata, e avevano minacciato il ricorso a soluzioni estreme. Ma l’accusa non riuscì a provare in alcun modo un legame fra nessuno degli accusati e la bomba.  Piuttosto cavalcò l’ondata emotiva del terribile momento, con il procuratore generale Julius S. Grinnell, che, nell’appello finale alla giuria, disse che gli imputati non erano in fondo “più colpevoli delle migliaia di persone che li seguono” e proprio per questo, aggiunse, rivolto ai giurati, “date un esempio, impiccateli e salverete le nostre istituzioni”.

L’esito fu la condanna a morte di sette degli imputati, poi commutata in carcere a vita per quei due di loro che fecero richiesta di grazia. Solo quattro, però, furono impiccati perché Louis Lingg morì, nella sua cella, in circostanze mai chiarite. La corte di Chicago, sottolinea opportunamente Gallo, mise dunque sotto giudizio la condotta politica degli imputati, la propaganda di idee anarchiche, l’incitamento alla lotta – anche violenta – contro un sistema economico e sociale oppressivo. Un processo politico, quindi, che mirava a colpire il sindacalismo più radicale della città, capace di mobilitare ampi segmenti della vasta colonia tedesca locale (un quinto della popolazione cittadina). Sarebbe stata Lucy Parsons, moglie di Albert, nata schiava in Texas, con sangue misto indiano, latino e afroamericano, a dedicarsi con straordinaria energia a sostenere l’innocenza degli accusati, sia nel suo paese che all’estero. E a difenderne, con altrettanta dedizione, la memoria. La ritroveremo, vent’anni dopo, a uno degli eventi-chiave della storia del mondo del lavoro, statunitense e mondiale, la fondazione, sempre a Chicago, degli Industrial Workers of the World, una delle più coraggiose espressioni di solidarietà operaia del Novecento[2].

Ma bisogna leggere le lucide pagine di Gallo per capire come dalle manifestazioni prevalentemente anarchiche dell’11 novembre 1888 (ne parla, fra gli altri, l’intrepido “Nuovo combattiamo”, stampato a Sampierdarena, vicino agli stabilimenti Ansaldo, fra censure e repressioni incessanti), si sia passati alla festa del 1 maggio. E come questa data sia stata oggetto di battaglie sulla memoria che hanno visto già a fine Ottocento negli Stati Uniti, con il consenso del Congresso, il radicale Primo maggio venir sostituito dal più moderato Labor Day, indetto sin dal 1882, del primo lunedì di settembre[3]. Ma che non hanno potuto impedire un uso militante del Labor Day e la ripresa dello stesso May Day, in varie occasioni, nel corso del Novecento. Sino ai nostri travagliati giorni e alle recentissime marce anti-Trump del Primo maggio 2025. Parlando dei nostri tempi, al termine di una serrata ricostruzione dell’evoluzione della festa in Europa e a casa nostra in una prospettiva internazionale, Gallo conclude come “i volti del Primo maggio, espressi e in potenza, sono innumerevoli e riflettono un bisogno insopprimibile di mettere al centro ciò che continua a tormentare e a realizzare l’umanità: il lavoro”.

[1] Death in the Haymarket. A Story of Chicago, the First Labor Movement and the Bombing that Divided Gilded Age America, Pantheon Books, New York, 2006.

[2] L. Costaguta, Workers of All Colors Unite: Race and the Origins of American Socialism, University of Illinois Press, Urbana, 2023, pp. 123-126.

[3] J. R. Green, Taking History to Heart. The Power of the Past in Building Social Movements, University of Massachusetts Press, Amherst, 2000, pp. 121-146; A. Testi, I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti, il Mulino, Bologna, 2023, pp. 236-242.

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Guerriglia psichica https://www.carmillaonline.com/2025/06/10/guerriglia-psichica/ Tue, 10 Jun 2025 05:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88523 di Fabio Malagnini

Stefano Tevini, Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico, D Editore, Roma, 2025, pp. 224, 16,90 euro

In un futuro distopico dove sopravvivere è tutto ma vivere decentemente un lusso per adesso fuori dalla mia portata, mi sveglio con indosso l’avatar di un essere mutante dagli strani poteri psichici. In qualsiasi momento, mi viene ricordato, il mio corpo potrebbe venire catturato, torturato e sottoposto a un intervento per privarlo chirurgicamente delle sue capacità extraumane, in gergo chiamate “diapason”. Chi ha il diapason può, ad esempio, a seconda delle facoltà ricevute in dote da [...]]]> di Fabio Malagnini

Stefano Tevini, Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico, D Editore, Roma, 2025, pp. 224, 16,90 euro

In un futuro distopico dove sopravvivere è tutto ma vivere decentemente un lusso per adesso fuori dalla mia portata, mi sveglio con indosso l’avatar di un essere mutante dagli strani poteri psichici. In qualsiasi momento, mi viene ricordato, il mio corpo potrebbe venire catturato, torturato e sottoposto a un intervento per privarlo chirurgicamente delle sue capacità extraumane, in gergo chiamate “diapason”. Chi ha il diapason può, ad esempio, a seconda delle facoltà ricevute in dote da Madre Natura, manipolare la percezione della popolazione normale, dare vita ad allucinazioni collettive, diffondere calma e concentrazione tra le fila dei compagni o, infine, dialogare con i dispositivi elettronici nelle vicinanze per metterli in funzione. Il 99% della popolazione – stima arbitraria – il diapason non ce l’ha e non sospetta neppure l’esistenza di questa displasia evolutiva, ad accezione delle guardie e dell’apparato di sicurezza che conoscono i nostri poteri e sanno quasi sempre come neutralizzarli. Noi, cioè io e la mia squadra, siamo in definitiva, tipo i buoni.

Se questo scenario alla X Men vi è familiare, vi gioverà sapere che al termine di ogni missione, dall’esito imprevisto e per lo più catastrofico, la simulazione finisce e subito ci si ritrova in un’aula didattica al cospetto di una specie di Professor Xavier. È proprio la sua voce, anzi, che per tutto il tempo ha commentato la missione, sottolineando il valore della collaborazione, del gioco di squadra e altro, che alla fine valuta lo scenario strategico a cui ci siamo sottoposti e le modalità con cui abbiamo interagito, di regola bocciate.

La struttura di Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico non coincide, ovviamente, né con quella di un manuale di sopravvivenza per superumani o di altro genere, né con la linea di una spy story tradizionale. Semmai con un breviario situazionista, aggiornato all’epoca delle IA, a uso delle giovani generazioni. Ciò che colpisce maggiormente è, nell’ordine, la scelta di un linguaggio totalmente operativo, senza concessioni autoriali, dall’inizio alla fine, e la scelta di ricondurre ogni spunto narrativo, allo status di “simulazione”. In questo senso la narrazione si presenta anche come una macchina testuale funzionale, “anti romanzo”.

L’universo narrativo del Manuale è chiaro e definito, il suo world building non affiora tanto da una massa di dettagli spaziali in emersione quanto dai registri mentali che i componenti della squadra – Hector, Lex, Nina, Sooki, Khaled, che il prof chiama “i miei studenti” – intrecciano telepaticamente, in qualsiasi momento della “missione”.

Più che i mutanti Marvel, qui il mondo intermittente del Manuale incontra un altro ciclo a fumetti, forse meno noto ma destinato a definire negli anni Dieci il canone paranoico degli agenti segretissimi con poteri ESP, ovvero la serie Mind Mgmt (2012-2015) di Matt Kindt per Dark Horse, che Tevini nell’introduzione cita infatti tra le fonti di ispirazione del libro insieme al “nume” Grant Morrison. Il terzo e ultimo riferimento non rappresenta un credito letterario o ispirazionale, se non in senso molto lato: si tratta infatti The Turner Diaries (1978) di Andrew Macdonald (pseudonimo di William Luther Pierce, romanzo di formazione e testo sacro dei suprematisti bianchi che Tevini ha indagato magistralmente nel suo precedente studio White Power (Red Star Press, 2024), assieme all’immaginario dell’estrema destra razzista e rivoluzionaria statunitense. Di scarso valore letterario, tradotto in italiano da Bietti La seconda guerra civile americana, come il testo fu scritto non per fare nuovi proseliti ma per fare da cinghia di trasmissione tra cultura politica, ideologia e mito nel mondo leaderless dei nazisti americani. Tevini lo riconosce e, da una prospettiva politica diametralmente opposta, ammette che anche il Manuale aspira a una scrittura che, andando oltre l’introspezione del romanzo storico, psicologico o “borghese”, vuole collegare la narrazione alla pratica e all’azione politica.

Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico dopotutto non è solo un oggetto narrativo insolitamente originale e poco classificabile ma fa parte della neonata collana Intermundia, diretta da Claudio Kulesko per D Editore, aperta ai giovani autori, ma dedita negli obiettivi a nuovi, dirompenti immaginari di genere (weird, sf, horror e quant’altro).

Riassumendo: ho finito di leggere il Manuale e a caldo mi sembra il primo capitolo di un ciclo più lungo e articolato, la premessa di un progetto, forse multimediale, con una miccia che ne assicuri la detonazione ritardata nel tempo. È veramente così? Nel dubbio, l’ho chiesto direttamente al suo autore assieme a un paio di altri chiarimenti.

Il Manuale Diffuso del Guerrigliero Psichico va pensato come un esperimento a sé stante o come il primo capitolo di una ipotetica saga?

Il Manuale nasce come racconto lungo, quello che trovi a puntate su Metatron, la rivista di Claudio Kulesko, che corrisponde poi al romanzo alleggerito di tutta la parte della simulazione degli scenari. Il discorso della simulazione è figlio del periodo fertile e fin troppo breve che ho avuto con il gruppo che si radunava intorno al blog La Grande Estinzione (Antonio Vena, Andrea Meschiari e tanti altri), abbiamo ragionato moltissimo sull’immaginazione come strumento, come tool, come facoltà conoscitiva fondamentale per la sopravvivenza. Qui sono partito con meno pretese, per fare un lavoro di transizione rispetto ad altre idee che ho in mente, ma gli eventi hanno portato me e il libro verso un’altra direzione. Claudio ha apprezzato molto il mio lavoro e lo ha proposto, chiedendomi di trasformarlo in quel che hai letto perché inizialmente era troppo breve, a Intermundia. Quindi no, non nasce già alla sorgente come capitolo di una saga, lì è stato Emmanuele a vederci una futuribilità. A ogni modo sì, sto pensando al secondo capitolo e, pur senza una scaletta, un’idea a grandi linee della struttura e di dove voglio arrivare a livello di evoluzione del world building ce l’ho. E sì, l’idea di creare una proprietà intellettuale con output molteplici c’è. Bisogna poi vedere come effettivamente andranno le cose ma come minimo un seguito è in programma. Ma sì, vogliamo espandere i vari universi narrativi di Intermundia. Come lo scopriremo lungo la via.

Avevi in mente un lettore ideale? Se sì, quale?
Diciamo di sì, e con una punta di narcisismo ti potrei dire che il mio lettore ideale mi somiglia parecchio. Scrivo quel che mi sarebbe piaciuto leggere e le mie fonti di ispirazione, come avrai potuto notare, sono gli autori che piacciono a me, autori densi dal punto di vista delle idee ma al tempo stesso con un’anima pop. Non mi interessano gli intellettualoidi ma nemmeno l’intrattenimento vuoto. Un caro amico, Luca Tarenzi, ha definito il Manuale come “non un romanzo ma il file .zip di un romanzo” e credo ci abbia preso in pieno. Io quando leggo un lavoro di Grant Morrison, e ci trovo dentro compresso tanto materiale concettuale da farci altre cinque serie, mi carico tantissimo, voglio leggere roba così, voglio scrivere roba così e vorrei raggiungere lettori così.

In che senso il Manuale si collegherebbe anche a The Turner Diaries, come accenni nell’introduzione?

Il manuale diffuso del guerrigliero psichico è, letteralmente, un anti The Turner Diaries. Non so se avrà la stessa incisività a livello politico, temo di no, ma a livello ideale è un controincantesimo a I diari di Turner, anche qui in filigrana c’è un libro che parla di agire politico, che esorta all’agire politico. Parli di linguaggio operativo e sì, ce n’è a pacchi, con un meccanismo che fa venir giù la quarta parete e prova a raggiungerti, un po’ come ne I diari di Turner. Perché non riconoscere l’efficacia di uno strumento solo perché viene da un nemico è stupido, gli strumenti efficaci vanno usati.

La scelta di un linguaggio strettamente funzionale, operativo alla fine risuona come cifra espressiva del progetto. Da dove proviene questa scelta?

Il linguaggio è una cosa su cui lavoro a modo mio perché odio l’atto di identificare la letteratura con lo stile e di conseguenza la bella pagina fine a sé stessa. Figlio di un musicista, mi viene naturale cercare la musicalità nel linguaggio ma ritengo che l’aspetto più affascinante siano proprio le sue funzioni, il suo aspetto “magico”, e per me l’estetica non si slega dalla funzionalità e il linguaggio sì, o è operativo, o si fa da parte per lasciare spazio alle idee o mi irrita.

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Identità e maschere nell’era digitale https://www.carmillaonline.com/2025/06/08/identita-e-maschere-nellera-digitale/ Sun, 08 Jun 2025 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88600 di Gioacchino Toni

Edoardo Boncinelli, Marco Rossano, La maschera e il codice. Trasfigurare l’identità dai riti di passaggio agli avatar digitali, Fotografie di Ferdinando Scianna, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 168, edizione cartacea € 18,00, ebook € 9,99

Sebbene le maschere ed il mascheramento tendano spesso ad essere associati, negativamente, al nascondimento ed al menzognero, si tratta in realtà di prodotti culturali complessi che hanno assunto nei secoli e nelle diverse culture molteplici significati simbolici. Il volume steso da Edoardo Boncinelli e Marco Rossano, impreziosito da una serie di fotografie di Ferdinando Scianna, affronta l’universo delle maschere ricostruendone i meccanismi [...]]]> di Gioacchino Toni

Edoardo Boncinelli, Marco Rossano, La maschera e il codice. Trasfigurare l’identità dai riti di passaggio agli avatar digitali, Fotografie di Ferdinando Scianna, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 168, edizione cartacea € 18,00, ebook € 9,99

Sebbene le maschere ed il mascheramento tendano spesso ad essere associati, negativamente, al nascondimento ed al menzognero, si tratta in realtà di prodotti culturali complessi che hanno assunto nei secoli e nelle diverse culture molteplici significati simbolici. Il volume steso da Edoardo Boncinelli e Marco Rossano, impreziosito da una serie di fotografie di Ferdinando Scianna, affronta l’universo delle maschere ricostruendone i meccanismi di funzionamento sia storici che relativi alla contemporaneità digitalizzata. Se, come scrivono gli stessi autori, esistono numerosissimi studi sulle maschere, decisamente meno sono quelli che le accostano all’universo digitale e questo volume intende essere un contributo a questo ultimo ambito di analisi che merita assolutamente di essere approfondito.

Indossare una maschera comporta sempre una trasformazione di un individuo in un “altro”: indipendentemente dalla finalità per cui si ricorre al mascheramento, chi vi ricorre «esce momentaneamente dalla sua identità e subisce una sorta di metamorfosi; si trasforma transitoriamente in un personaggio contraddistinto dall’anonimato, spesso libero da qualsiasi inibizione, che agisce in modo inusuale e dà spazio a comportamenti trasgressivi» (pp. 15-16).

Oltre a modificare l’aspetto con cui ci si presenta o a rappresentare manifestazioni di una realtà soprannaturale, la maschera ed il maschermento «contribuiscono anche a tracciare i contorni fra le diverse sfere della realtà e della vita sociale ed individuale» (p. 17). Allo stesso tempo la maschera traccia i confini e mette in comunicazione ambiti diversi, consente di essere sé stessi ed al tempo stesso altro da sé, racchiude un doppio significato: ciò che si cela con il mascheramento e ciò che si mostra e si vuole rappresentare attraverso esso. La maschera funziona però soltanto nel momento in cui viene indossata, quando vive di una realtà sociale.

Nell’attuale universo digitalizzato la maschera assume forme e funzioni particolari: è attraverso essa che ci si presenta in quel “non-luogo virtuale” che rappresenta ormai un’estensione della vita quotidiana degli individui e delle società. Si può parlare di maschera, sostengono gli autori, anche facendo riferimento ai «rivestimenti virtuali propri delle tecnologie digitali» (p 42).

Se una delle funzioni delle maschere è quella di connettere la realtà umana con una realtà “altra”, allora «questo lo si può fare anche attraverso il virtuale per mezzo di un’identità virtuale, che sempre più spesso prende la forma di un avatar che è al tempo stesso virtuale e reale» (p. 42). Profili social, avatar nei mondi virtuali e identità digitali sono dunque le nuove forme assunte dalle maschere ai nostri giorni.

La realtà virtuale non è irreale, sottolineano Boncinelli e Rossano, ma una simulazione realistica ed immersiva in un ambiente digitale tridimensionale vissuta e controllata dagli utenti attraverso i movimenti del corpo e percepita attraverso i sensi. Attraverso le apparecchiature indossate, l’utente invia informazioni su di sé al computer mentre, al contempo, riceve immagini della situazione simulata. «Si tratta di vere e proprie maschere e mascheramenti che non mettono più solo in comunicazione con un “altrove”, ma che permettono di entrare e di vivere completamente questi spazi» (p. 45).

Quando invece si parla di realtà aumentata, continuano gli autori, si fa riferimento ad una tecnologia immersiva che permette

l’uso in tempo reale, in un ambiente fisico reale, di informazioni e contenuti digitali, sotto forma di testo, grafica, audio, filmati che son integrati con oggetti del mondo reale in modo da arricchire la percezione sensoriale dell’utente, potenziare la sua interazione con il mondo materiale e avere una conoscenza più approfondita, o aumentata, dell’ambiente che lo circonda. La caratteristica principale della realtà aumentata è che stabilisce un legame tra gli oggetti presenti nella realtà materiale e quelli della realtà virtuale (p. 51).

Insomma, se nella realtà virtuale l’ambiente è ricostruito ed al suo interno l’utente può muoversi liberamente immerso all’interno dell’esperienza, nella realtà aumentata viene invece raffigurato il mondo materiale arricchito in tempo reale con elementi virtuali che si aggiungono ad esso sovrapponendosi a ciò che l’utente vede.

Nell’affrontare l’utilizzo ed il ruolo della maschera nell’era digitale, Boncinelli e Rossano prendono in esame alcune produzioni audiovisive che hanno consapevolmente affrontato la questione. Serie televisive come Black Mirror (dal 2011) ideata e prodotta da Charlie Brooker hanno il merito di essersi più volte occupate di come le maschere digitali (profili social, avatar…) possano alterare la percezione che si ha di sé stessi e degli altri soggetti con cui si interagisce.

In particolare gli autori fanno riferimento a episodi come Bianco Natale (White Christmas, 2014) diretto da Carl Tibbets, Caduta libera (Nosedive, 2016) diretto da Joe Wright, Giochi pericolosi (Playtest, 2016) diretto da Dan Trachtenberg e San Junipero (2016) diretto da Owen Harris. Si tratta di opere incentrate sul ruolo di maschera digitale che vengono ad assumere le esperienze immersive in realtà “altre” e di come l’identità online si riversi su quella offline.

Gli autori si soffermano anche sulla serie Altered Carbon (2018-2020) creata da Laeta Kalogridis e derivata dal romanzo Bay City (Altered Carbon) del 2002 di Richard K. Morgan, ove, narrando di una realtà in cui alla coscienza umana immagazzinata su un device digitale può essere assegnato corpo fisico intercambiabile, si propone una riflessione su quanto l’identità di un essere umano sia o meno legata al corpo.

Se ad assumere il ruolo di maschere in Altered Carbon sono i corpi, nella loro materialità, in Caprica (2010), serie tv che funge da prequel di Battlestar Galactica (20014-2009) creata da Ronald D. Moore (remake dell’omonima serie del 1979 di Glen A. Larson), le maschere, oltre che fisiche, sono anche psicologiche e virtuali.

Impiantando la conoscenza di un essere umano su una macchina dotata di intelligenza artificiale è come se lo si dotasse tanto di una maschera digitale che di una più materiale, meccanica consentendogli di operare e navigare in universi virtuali sperimentando versioni alternative di sé. «Questi mondi virtuali fungono da maschere, permettendo alle persone di esplorare desideri nascosti e identità alternative sena le conseguenze del mondo reale» (p. 65).

Attraverso le maschere, siano esse fisiche, digitali o psicologiche, diviene possibile esplorare la complessità della coscienza e della moralità in questi universi proiettati nel futuro. Le difficoltà identitarie che affliggono la protagonista di Caprica, la sui coscienza è stata impianta su una macchina dotata di intelligenza artificiale, divengono «una metafora della ricerca di sé stessi in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia» (p. 66).

La relazione tra identità umana, maschere e intelligenza artificiale è al centro delle serie televisive Westworld. Dove tutto è concesso (Westworld, 2016-2022) creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, derivata dall’omonimo film del 1971 diretto da Michael Crichton, e Raised by Wolves. Una nuova umanità (Raised by Wolves, 2020-2022) creata da Aaron Guzikowski e prodotta da Ridley Scott.

Nel caso di Westworld lo scenario è quello di un parco divertimenti a tema in cui operano robot antropomorfi indistinguibili dagli esseri umani programmati per soddisfare i desideri dei facoltosi visitatori sotto la discreta sorveglianza di operatori umani da una sala di controllo. Il concetto di maschera in tale serie è ravvisabile innanzitutto nel fatto che gli utenti del parco a tema si possono godere le loro avventure indossando maschere metaforiche che consentono loro di abbandonare le loro inibizioni e identità quotidiane.

In Westworld ad essere una maschera, sottolineano gli autori, è anche lo stesso parco a tema che non è che una facciata di una complessa costruzione che mantiene celato il dietro le quinte fatto non solo di macchinari e tecnologie ma anche di intenti non dichiarati. Maschere sono anche gli anfitrioni creati per duplicare gli umani, maschere che iniziano a sgretolarsi nel momento in cui anziché seguire meccanicamente quanto programmato per loro, questi iniziano a interrogarsi circa la loro natura e identità. Questo ultimo tipo di maschera induce a riflettere su ciò che differenzia l’umano dalla macchina dal momento che un’intelligenza artificiale si rivela in grado di sviluppare consapevolezza, memoria e desiderio.

Raised by Wolves propone invece uno scenario distopico collocato nel futuro su un lontano pianeta in cui una coppia di androidi sono stati programmati per proteggere alcuni bambini umani. Si tratta dunque di macchine che indossano una maschera di umanità sotto la quale, però, risiedono tecnologie, programmi ed obiettivi che spesso confliggono con le emozioni ed i comportamenti umani che i due androidi sono tenuti a manifestare. Nel conflittuale rapporto tra maschera e ciò che questa cela nei due esseri si palesa come la natura della coscienza e del libero arbitrio delle intelligenze artificiali siano ambiti di difficile definizione dal momento che la distinzione tra macchina ed essere vivente appare tutt’altro che definita.

L’universo virtuale è indubbiamente caratterizzato dall’incorporeità, chi lo frequenta manifesta una separazione dal corpo nella sua fisicità, questo è sostituito da una rappresentazione virtuale ed è in tale condizione che struttura le sue interazioni sociali che, sottolineano gli autori, non sono interazioni reali, non immaginarie. Sulla rete si crea «un’identità frammentata e flessibile in cui gli individui sembrano diventare maschere» (p. 70).

Attraverso mascheramenti (scelta dei nickname, creazione dei profili ecc.) nell’universo digitale gli individui plasmano l’immagine con cui ritengono utile mostrarsi celando al contempo ciò che non desiderano venga visto in un meccanismo che da un lato comporta parcellazione identitaria e dall’altro crea nuove possibilità identitarie.

Potremmo dire che si tratta di maschere/personae che permettono a ogni individuo di creare e sviluppare il proprio io telematico che ne cyberspazio interagisce e comunica con le maschere/personae create dagli altri utenti. Nel cyberspazio gli utenti si rappresentano come persone ne senso originario del termine, cioè maschere (p. 72).

Boncinelli e Rossano si soffermano anche sull’universo videoludico indagando quanto siano in esso oggi ravvisabili nuove forme di ritualità e iniziazione. Secondo gli autori i ragazzi di oggi sperimentano nei mondi virtuali in generale e in quello videoludico in particolare i desideri di avventura, di viaggio e di emancipazione dalla famiglia che non riescono o non vogliono più sperimentare nel mondo in cui si trovano a vivere. L’universo virtuale, soprattutto videoludico, diviene pertanto un luogo privilegiato per la messa inscena di riti iniziatici.

Il giovane iniziato un tempo doveva confrontarsi con le sue capacità di affrontare le proprie paure e le insidie della vita attraverso rituali di passaggio per accedere alla comunità adulta. Nel mondo digitalizzato i giovani gamer affrontano l’iniziazione nell’universo videoludico al fine di accedere a comunità di giocatori esperti. Il concetto di maschera trova applicazione nel mondo dei multi-user dungeon (Mud), dei giochi di ruolo e dei videogame multiplayer online. Si tratta di ambiti in cui la questione identitaria assume notevole importanza assumendo forme multiple e fluide che possono ricalcare quella reale o proiettarsi lontano da essa variando a piacere.

Boncinelli e Rossano insistono nel sottolineare come reale e virtuale non siano due universi separati bensì strettamente intrecciati. «Il virtuale diventa una categoria del reale, con delle particolari qualità diverse da quelle fisiche e tangibili» (p. 76). Gli utenti portano all’interno della sfera virtuale parte di quella reale e quest’ultima viene accresciuta delle esperienze virtuali che funzionano da rito di iniziazione.

Il giocatore non si incarna nell’avatar che lo rappresenta nel gioco, non diventa un’altra persona, è ben consapevole di trovarsi ad accedere a un mondo virtuale comodamente seduto sul divano di casa, ma, al contempo, nello spazio virtuale si muove liberamente, interagisce, agisce e stabilisce relazioni cognitive e percettive (p. 76).

Gli autori riportano alcuni casi in cui l’universo videoludico è stato investito da problematiche proprie del mondo reale: dalle proteste di Black Lives Matter che hanno raggiunto videogame di basket fino alle manifestazioni a difesa della libertà di informazione e di stampa che hanno dato luogo alla costruzione e alla messa a disposizione di una grande biblioteca online all’interno del videogame sandbox Minecraft che vanta attualmente una community di oltre 145 milioni di gamer. A sbarcare sugli scenari virtuali non sono soltanto campagne della società civile, visto che non mancano esempi di commistioni tra realtà virtuale e realtà materiale in ambito artistico o di grandi multinazionali che pubblicizzano i loro prodotti su tali scenari.

Nella parte finale del volume gli autori ragionano sulla codificazione nella comunicazione come forma di mascheramento sottolineando come il linguaggio permetta di riferirsi anche a cose differenti da quelle immediatamente presenti, cose che possono essere persino inesistenti. Boncinelli e Rossano spiegano dunque come la maschera sia una codificazione che assume significato esclusivamente all’interno di uno specifico contesto culturale e rituale e come le cerimonie rituali siano un sistema di comunicazione contraddistinto dalla rigidità e dalla ripetitività dei gesti, delle parole, dei costumi ecc. di cui hanno consapevolezza i partecipanti. È all’interno del rituale che la maschera assume un senso e trasmette un messaggio codificato all’interno di un sistema di segnali, simboli e credenze richiedenti partecipazione emotiva e sociale dei partecipanti.

In questo modo la maschera mette in comunicazione il mondo umano con altri mondi, visibili e invisibili, naturali e soprannaturali, possibili e virtuali. Ci mette in comunicazione con il nostro essere più profondo e nascosto facendoci varcare la soglia di un mondo “altro” in uno spazio senza tempo, che è il mondo del mito, dell’origine e dell’eternità (p. 158).

Nickname, ID digitali, avatar ecc., sono maschere che, per quanto non servano all’essere umano per entrare in contatto con il sacro e l’invisibile, permettono di interfacciarsi comunque con un mondo “altro”, quello digitale che è, a tutti gli effetti, un mondo reale, per quanto differente da quello abitato dal corpo.

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Et in arcade ego https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/et-in-arcade-ego/ Sat, 07 Jun 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88808 di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un [...]]]> di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un impianto anzitutto linguistico ma anche tematico (ossessioni e possessioni, catabasi ctonie, viaggi sciamanici e ritorno dei morti, ibridazioni cultuali, retaggi inferi arcaici), gettate le basi di una tassonomia febbrile ma perfettamente giustificata per il panorama che ha fondato le sue fantasie (L’orrore letterario, 2022), aperte le porte a una nuova – non diversa perché contigua – ramificazione nella direzione del mito (La Schiaffiatùra, 2024), l’autore le offre ora un nuovo sviluppo triforcuto come una zampa artigliata o il tridente di qualche divinità.

Cravuni (molto bella la veste grafica) è infatti la prima avventura di una trilogia pensata in modo transmediale: se da Lo Scuru stanno infatti emergendo a posteriori un videogioco e un film – linguaggi entrambi seminali per l’orizzonte narrativo di Labbate –, al contrario Cravuni è pensato a monte come prodotto che si muove sui tre piani. Senza tradirne alcuno: la scrittura è quella curatissima, indocile, delirante e francamente mannara degli altri romanzi, lingua delle ombre per scendere sotto le lande dove Ade rapì Kore e dove non si è mai sicuri se interagiamo – se siamo noi stessi – vivi a questo mondo, quindi una lingua letteraria in senso proprio; ma gli sviluppi visivi e d’azione trascinano già dentro gli spazi videoludici e cinematografici, deserti e cieli mossi, luoghi equivoci, miniere. Che ci piaccia o no, i diversi linguaggi sono ormai imprescindibili dall’occhio di un narratore: e come i vecchi gotici si muovevano negli spazi di altre arti – architettura, pittura, ovviamente teatro… – per definire le proprie oscurità, così oggi il gotico migliore si muove nel dedalo di tali differenti dimensioni. Walpole non avrebbe scritto il suo Castello d’Otranto senza l’appoggio del teatro da un lato, di architettura e arti figurative dall’altro; e per altro verso, Füssli ha influito direttamente su Mary Shelley e Poe, Le Fanu e Stoker, non solo nella sagoma-tormentone del suo Incubo dipinto, ma per tutto ciò che in generale vi sta dietro di allucinatorio, spettacolare e febbricitante.

Del tutto coerente dunque lo sviluppo crossmediale per cui è stata appositamente fondata la sinergia Grey Interzona (edizioni Polidoro, casa di produzione multimediale Grey Ladder, sviluppatore di videogiochi Tiny Bull Studios), la natura per Cravuni di “arcade letterario” – nel senso della parola “inglese arcade […], che indica genericamente una galleria commerciale, [e] significa in questo caso sala giochi” (Wikipedia) – con la scelta di un ritmo incalzante e uno sviluppo paginale congruo all’avventura.

Che richiama d’altronde (riflessioni non nuove, ma bello vedervi conferma) a una dimensione di mistero specifica del gotico. Mistero proprio nel senso tecnico, di riti collettivi appartati che nel mondo antico in chiave religiosa definivano attraverso azioni rituali più o meno indicibili il rapporto con la natura (agricoltura, eccetera) e via via con una sopravvivenza oltremondana; ma nella chiave moderna e laica di una società urbana, la natura passa quasi solo attraverso la percezione degli eventi nascita, sessualità e morte, che soltanto una narrazione fortemente intrisa di simbolo può dire. Proprio nell’esperienza di chi vive una sensibilità – e magari prassi comunitarie: rapporto con le arti, eventi, persino abbigliamento – nel segno del gotico è evidente che una certa mitopoiesi non si esaurisca nella facile mascherata, afferendo piuttosto a un linguaggio interiore con cui trattare per simboli e allusioni le grandi domande. Un linguaggio interiore fatto – si è detto – di riti (laici, per carità, ma densi di simbolismo) e brandendo oggetti transizionali e “liturgici”: e a ben vedere anche certe prassi videoludiche presentano elementi in senso lato rituali e il ricorso a certe attrezzature. Cravuni capitalizza tutto questo: la catabasi in scena sembra presentare delle componenti rituali, di azione “sacra” (nel senso di essere compiuta da figure divine).

E proprio coi piedi ben saldi tra miti e misteri, Labbate narra nella lingua e coi topoi del gotico siciliano – il rapporto tra America polverosa delle grandi strade e calcinate origini trinacrie, le mostruosità e il sincretismo ctonio – la vicenda naturaliter poliziesca (cfr. le partizioni individuate in L’orrore letterario) di un detective un po’ all’Angel Heart. Ma il paganesimo che sostanzia l’oscurità non è qui quello dei culti ibridati degli schiavi, bensì quello del mito antico mediterraneo, non meno meticcio e incerto. Se nella prima trilogia il substrato “cristiano” – con tutte le virgolette del caso, perché grondante antichi miti inferi del paganesimo – era più marcato, qui la sovrapposizione / compenetrazione è con gli dei di una grecità ben poco luminosa: siamo nei territori minacciosi dell’Apollo con il coltello in mano di Detienne, dei cani inferi di Ecate – l’uomo-cane Calorio (di nome Larrie, come l’uomo lupo Larry Talbot dei vecchi horror Universal) –, di una mafia trasfigurata in consorzio spettrale.

Il detective Frank LaBella, orbato di un occhio nel segno di quelle mutilazioni mitiche che lo accomunano a Odino e altri ciclopi, abbandona l’Oklahoma per tornare a Riesi in provincia di Caltanissetta, da dove veniva suo nonno. Sta seguendo una pista privata, l’orrendo omicidio di sua madre, e intanto specula sul Divino, in una continua opposizione venata di blasfemia tra le sue divinità misteriche – sfuggenti come i Grandi piccoli di Samotracia – e il Dio cattolico. Non è troppo strano: LaBella è a sua volta una divinità, un Apollo impegnato in una teomachia notturna, allucinata e fitta di oggetti simbolici e desueti alla Francesco Orlando come improbabili attrezzi liturgici (spadini, una forchettina a due punte, un graal di metallo, una bottiglietta di amaro, coltellini, “varie piccidde armi nate da un accoppiamento tra armi che facevano parte di altre armi”, su un altare “svariati oggetti che sembravano da toilette”, immaginette eccetera) nonché d’ombre di Cerberi e Arpie. Ma tutto il quadro è fervente di echi: i cannocchiali di Pino Badrose, carpentiere e “archeologo delle coscienze” (Efesto? vive tra i fornelli), sembrano usciti dalla bottega dell’equivoco Coppola de L’uomo della sabbia di Hoffmann, a ricollegare alla più solida tradizione gotica dell’onirico e della visione smaniante.

Dimentichiamo le malinconie romantiche da ritorno dell’emigrato, canzoni come Torno a casa o Paese mio. Qui come per il Giuseppe Buscemi di Suttaterra – amico del nonno di LaBella – è un ritorno dal sapore di morte legato a un bigliettino: la scrittura, in Suttaterra di una lettera, ha sempre potenzialità nel segno del passaggio. Il vilain con cui fare i conti è il tenebroso Boss Tony Lavuru (un Ermes degradato, deformato come in un altorilievo tardivo) di una Mafia spiritica, e LaBella dovrà affrontarlo.

La presenza di cereali (Kellogg’s Frosties, Kellogg’s d’Ermes e altro), in tutta questa storia, rimanda al loro ruolo negli antichi misteri, Eleusi e non solo, ma anche a un’antieucarestia nel segno dell’infezione; e lontano dagli scintillii di La Cabala di Thornton Wilder e dall’umbratile claustrofobia fiamminga di Malpertuis di Jean Ray, il ritorno degli antichi dei – a volerlo definire con Aby Warburg – si consuma nel sordido. Con Jung e Hillman “Gli dèi sono diventati malattie”, ma di statuto divino è anche l’incredibile psicopompa Cuncittina Bity con cui nascerà un amore. Nonché un nuovo sottogenere narrativo, il thriller della mitologia siciliana criminale, che qui trova qui un visionario, iniziatico cominciamento al ritmo serrato del videogioco. “Siamo costituiti di membra condite da stanchezze mostruose”. E a sovvenirvi, tanto più nei nostri tempi bui, ci sostengono le storie.

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L’Eternauta: neve letale su Javier Milei. https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/leternauta-neve-letale-su-javier-milei/ Fri, 06 Jun 2025 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88478 di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la [...]]]> di Walter Catalano

C’era molta attesa per l’uscita della serie Netflix tratta da L’Eternauta, il capolavoro del fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld, disegnato da Francisco Solano López, e pubblicato sul periodico argentino Hora Cero Suplemento Semanal dal 1957 al 1959, poi ristampato nel 1961 su testata omonima. Come il mate o i tanghi di Carlos Gardel, questa serie a fumetti è diventata un vero e proprio simbolo dell’identità argentina, in senso culturale, politico e sociale. In questo la versione filmata diretta da Bruno Stagnaro e interpretata da Ricardo Darín nel ruolo del protagonista Juan Salvo, con la consulenza per la sceneggiatura dello stesso nipote di Oesterheld, non smentisce affatto le proprie radici e proprio questi aspetti probabilmente non sono stati compresi dai critici (non pochi) che l’hanno attaccata, rinfacciandole la lentezza, il ritmo posato, la visione corale, e preferendole altre serie apocalittiche di origine statunitense – L’Eternauta, secondo loro, ha perso la sua originaria singolarità ed è diventata ormai scontata, inutile, una fra le tante. Niente di più sbagliato. L’Eternauta, molto semplicemente, ha rifiutato di svendersi ai canoni hollywoodiani della narrazione e ha scelto di restare per atmosfera, scenari e cadenza, profondamente argentina: perfino il gioco di carte che gli amici si trovano a giocare all’inizio della mortale avventura, significativamente, non è il poker ma il truco, gioco quasi sconosciuto fuori dall’America Latina.

Un’autenticità che le evita, per esempio, tutti i luoghi comuni fritti e rifritti in cui cadono gran parte delle altre serie fantascientifiche, più o meno catastrofiche, statunitensi, anche quelle che erano apparentemente partite bene come The Last of Us – della cui prima stagione avevo su queste pagine parlato positivamente ma che ho interrotto già alla prima puntata della seconda stagione dopo un patetico incipit fatto di ridicoli stereotipi: rapporto conflittuale padre-figlia, “brutalismo” femminista di maniera, immancabili e noiosissime storie di lesbiche, ecc. ecc. – e che sottolinea invece più della rappresentazione indiscriminata della violenza, ossessione tipicamente nordamericana, il rapporto di unione e di solidarietà delle comunità che fronteggiano la catastrofe. Altri critici, di opposto orientamento, non nordamericanofili ma invece troppo puristi, non hanno invece apprezzato i cambiamenti della serie rispetto al fumetto: che sia ambientato, per esempio, nell’Argentina contemporanea e non in quella degli anni ’50, che i protagonisti siano tutte persone di mezza età, se non anziane, e il trentenne Juan Salvo del fumetto abbia qui almeno trent’anni di più, una compagna matura e una figlia adulta. Alla prima obiezione risponde efficacemente lo stesso regista: Oesterheld usava la metafora fantascientifica per parlare della sua attualità, dell’Argentina del suo tempo; Stagnaro ha voluto mantenersi coerente con tali propositi non facendo dell’archeologia visiva ma denunciando – come avrebbe fatto Oesterheld – il presente, l’Argentina alla deriva di Javier Milei. Un taglio profondo sull’attualità che implica inserire anche una prospettiva storica: l’eco della dittatura di Videla, la tragedia dei desaparecidos – che colpì lo stesso Oesterheld con le sue quattro figlie e i loro compagni, tutti legati ai Montoneros, la frangia marxista dei peronisti – e questo giustifica l’età matura dei protagonisti, gli incubi ricorrenti di Juan Salvo che si rivede giovane, disperato combattente abbandonato in una trincea delle Malvinas sotto le incursioni inglesi e che quarant’anni dopo deve imbracciare ancora le armi, ma questa volta per una causa. “Se si vuole essere fedeli a tutto, non si è fedeli a niente”- aggiunge il regista Stagnaro.

Una prospettiva che ritengo sia un arricchimento rispetto al fumetto così come il tentativo di spiegazione “scientifica” dell’origine della nevicata mortale – imprecisata nel testo originale – il “collasso” delle fasce di Van Allen, come spiega Tano (César Troncoso), l’ingegnere elettronico: “È un anello di particelle radioattive che circonda la terra ed è sostenuto dalla forza magnetica dei due poli; è come uno scudo che protegge la Terra da venti solari e altri agenti. Ma se i poli si annullano le particelle radioattive ci piovono addosso”. I fiocchi di neve che cadono su Buenos Aires sono particelle radioattive provenienti dalle fasce di Van Allen. Il malfunzionamento delle bussole che risultano fuori asse, lo porta a sospettare che è in atto un’inversione dei poli magnetici terrestri che ha alterato il campo geomagnetico. Secondo la sua teoria, una forza sconosciuta ha innescato un’inversione dei poli, indebolendo temporaneamente la magnetosfera. Di conseguenza, quella che sta cadendo sulle loro teste non è semplice neve ma “frammenti della fascia di Van Allen in tempo reale”.

L’estrema qualità visiva e di scrittura conferma anche per questa serie il balzo in avanti di Netflix che ha realizzato ultimamente produzioni assai originali e fuori dai canoni abituali, come, in campo western, la bellissima American Primeval, o in quello noir, l’altrettanto sorprendente Ripley, tratta dal primo romanzo di Patricia Highsmith dedicato all’amorale Tom Ripley. Come quelle citate, anche L’Eternauta si discosta con vigore dagli stilemi correnti e corrivi: chi l’ha criticata, chi ha parlato di flop, di mancanza di ritmo, di occasione mancata, di noia, semplicemente è del tutto assuefatto a tali stilemi e non riesce ad apprezzare niente di quanto sfugga a temi, personaggi, situazioni e ritmi banalmente convenzionali. In realtà queste incomprensioni ci sembrano, se non analoghe, certo non del tutto dissimili da quelle che colpirono direttamente Oesterheld e la sua riscrittura del 1969 di El Eternauta, pubblicata sul settimanale argentino Gente y la Actualidad (e in seguito tradotta su varie pubblicazioni a fumetti come Linus, El Globo, alteralter, Il Mago, Charlie Mensuel, Métal Hurlant) e disegnata non più da Solano López, ma dall’assai più estremo e sperimentale Alberto Breccia. Qui lo sceneggiatore – divenuto nel frattempo responsabile della comunicazione dei Montoneros, e la cui funzione di autore partigiano si rese evidente anche nelle altre opere realizzate in quegli anni, come La guerra degli Antares, una serie simile all’Eternauta ambientata in un’Argentina alternativa ricca e prosperosa in cui il peronismo non è mai finito, ed Evita, vida y obra de Eva Perón, una biografia a fumetti dedicata a Evita Peròn – accrebbe i riferimenti politici, fece un’aperta critica al regime dittatoriale a cui il peronismo di destra dell’ultimo Peròn e dei governi retti dopo la sua morte dalla moglie Isabelita, stava aprendo la strada nel paese e denunciò in metafora l’imperialismo statunitense – il dettaglio simbolico degli invasori che collocano la loro base operativa nella Plaza del Congreso di Buenos Aires, per esempio – enfatizzando l’idea che la salvezza dei cittadini sia un’impresa collettiva.

Nonostante il risultato di sorprendente qualità grafica e narrativa, la nuova versione di El Eternauta non piacque. I lettori inviarono lettere alla redazione della rivista per protestare contro i cambiamenti nel personaggio e il contenuto rivoluzionario della storia, motivo per cui la direzione di Gente decise di sospendere la serie. Una decisione che costrinse Oesterheld e Breccia a sintetizzare la storia e a inserire ampi chiarimenti scritti, con l’obiettivo di dare al fumetto un finale coerente. Nonostante questa brutta esperienza, Oesterheld volle far rivivere il personaggio dopo il colpo di Stato del 1976 per aumentare ulteriormente il suo impegno politico. Il progetto, intitolato El Eternauta II, proseguiva la storia della lotta di Juan Salvo contro gli invasori ed era di nuovo illustrato dal primo disegnatore della serie, Solano López, al quale Oesterheld riuscì a inviare le sceneggiature che stava scrivendo in clandestinità. Anche qui la trama è sempre più orientata alla critica politica, con Oesterheld stesso che diventa un personaggio narrante nella storia e che, in un sorprendente rispecchiarsi di narrazione e realtà, continuò a scrivere i capitoli successivi fino alla sua scomparsa a seguito del rapimento e conseguente assassinio nell’aprile del 1977. La saga è continuata dopo la morte di Oesterheld, proseguita da altri autori come Alberto Ongaro e Pablo Maiztegui e sempre disegnata da Solano López ma senza serbare del tutto il mordente dei primi cicli. Chi storce il naso quindi di fronte alle inevitabili modifiche della versione filmata rispetto al fumetto originario si comporta un po’, magari non tanto per preclusioni politiche quanto prevalentemente estetiche, come i lettori conservatori di Gente che vollero l’interruzione del rinnovato Eternauta in versione engagé e pop.

Anche l’adattamento televisivo persegue affini obbiettivi di rinnovamento stilistico e tematico nel pieno rispetto dello spirito originario della narrazione. La recitazione composta, i volti segnati dagli anni dei personaggi, il ritmo lento e la fotografia gelida, conferiscono un’intensità immersiva e potente alla visualizzazione dell’incubo immaginato da Oesterheld, molto angosciante e tutt’altro che noiosa. Un incubo che inizia e si protrae nella prima parte delle sei puntate della prima stagione (una seconda è già stata annunciata, alla faccia dei criticoni) come mortale catastrofe climatica, che svolta a metà serie in invasione extraterrestre con l’apparizione improvvisa dei Cascarudos, gli insettoni micidiali e di misteriosi oggetti luminosi nel cielo, e nel finale prelude alle successive sorprese del fumetto: gli Uomini-Robot (umani sotto controllo mentale alieno) che già si sono manifestati; dei Kol invece, l’altra razza aliena schiavizzata dagli invasori, abbiamo visto per ora – proprio nell’ultima puntata – solo la mostruosa mano brulicante di dita; per la seconda stagione aspettiamo ancora i Gurbos, ciclopici e invulnerabili pachidermi, e infine Ellos, Loro, i manipolatori ultimi, gli inavvicinabili e invincibili padroni. Senza volto come le lobbies supreme del capitalismo multinazionale.

 

 

 

 

 

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Proletariato intellettuale e lavoro manuale nella fabbrica dei sogni https://www.carmillaonline.com/2025/06/05/le-basi-materiali-della-macchina-dei-sogni/ Thu, 05 Jun 2025 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88445 di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena [...]]]> di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena tradotto da Giuliana Lupi per le edizioni minimum fax.

David Mamet, nato a Chicago il 30 novembre del 1947, con ironia e perspicacia, fornisce risposte dirette, illuminanti e spesso sconcertanti a tali domande, rivelando allo stesso tempo le disfunzioni e i processi reali dell’industria cinematografica, la più grande e redditizia «macchina dei sogni» del pianeta. Mamet, di cui minimum fax ha già pubblicato in precedenza Note in margine di una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro (2012) e I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (2023), può farlo perché ha ricoperto praticamente tutti i ruoli più importanti che ruotano intorno alla “settima arte”: sceneggiatore, regista, attore, produttore, dedicando tutta la sua vita al cinema e alla scrittura.

E’ stato infatti lo sceneggiatore di film celebri come Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981), Il verdetto di Sidney Lumet (1982), Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e Hannibal di Ridley Scott (2001), solo per citarne alcuni, ma complessivamente ha al suo attivo 28 film (di 9 dei quali è stato anche regista), 34 opere teatrali, 3 fiction per la televisione, 21 saggi, 2 raccolte di poesie, 5 libri per bambini, 11 canzoni. Mentre il suo primo importante riconoscimento era arrivato con l’opera tetrale Glengarry Glen Ross, una feroce rappresentazione del mondo degli affari americano, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1984 e dalla quale avrebbe poi tratto la sceneggiatura per il film Americani, con Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin e Kevin Spacey nel 1992.

Tutto questo, però, non è stato qui ricordato soltanto per sottolineare il medagliere dell’autore e l’importanza della sua personalità per il mondo del cinema statunitense, ma piuttosto per sottolineare come i suoi saggi sul mondo del cinema e della scrittura cinematografica affondino le loro radici in una vasta e pluridecennale esperienza e una profonda conoscenza dello stesso ambiente culturale, economico e sociale che lo circonda e permea.

In tempi di dazi trumpiani che mettono in risalto come i prodotti del cinema non siano in fondo che merci e prodotti destinati al consumo di massa e in un paese, l’Italia, in cui si parla, troppo spesso e senza riguardo per la realtà, di “cinema d’autore”, Mamet si rivela utilissimo, lui che certamente “autore” è stato sia come sceneggiatore che come regista, per comprendere i meccanismi di quella che, in fin dei conti, non è altro che la più importante industria dell’immaginario collettivo, cosa già compresa all’inizio del XX secolo da rivoluzionari come Lenin e Trockij1.

Ma, probabilmente, non ancora qui da noi: in un ambiente socioculturale in cui non solo le tv, pubbliche e private, ma anche le sale cinematografiche snobbano quasi sempre i titoli di coda dei film tagliandoli o eliminandoli del tutto, quasi che il film fosse una sorta di magico prodotto del pensiero dei registi e degli sceneggiatori più celebri oppure, ancor peggio, della fisicità degli attori e delle attrici. Contribuendo così a coltivare nel pubblico il mito borghese e fetente dell’individuo e della sua “creatività”, avulso comunque dai processi della produzione sociale e della collaborazione collettiva. Continuando a separare il lavoro intellettuale da quello manuale, per mera convenienza ideologica di classe, mentre il prodotto di qualsiasi attività umana non deriva che dalla sintesi concretizzante tra i due2.

Non è un caso quindi che il saggio di Mamet inizi proprio da lì, dall’ambiente cinematografico come “fabbrica” in cui il contributo di tutti (operai, costumisti, scenografi, fotografi, attrezzisti, fonici, elettricisti, falegnami, tecnici degli effetti speciali, facchini, montatori, segretarie e segretari di produzione e tanti altri ancora) è fondamentale per la riuscita dell’impresa. Proprio per evitare quell’ignominia del ricordare i marchi delle auto o delle merci senza ricordare la manodopera che ha contribuito a realizzarle oppure le grandi battaglie parlando soltanto dei generali e dei “condottieri” senza ricordare i soldati che le hanno combattute sul campo e le loro sofferenze.

Certo, per gli amanti del “cinema d’autore” così come per i filosofi del demiurgo borghese, è utile alimentarne il culto rimuovendo il sudore, le fatiche, i sacrifici e i contributi, spesso altrettanto creativi, delle maestranza sui suoi luoghi di produzione come Hollywood o Cinecittà, ma non lo è per Mamet che, invece, vuole proprio sottolineare sia il contributo degli “altri” che le pecche dello star system e dei suoi “eroi” e delle sue “eroine”.

Lo diceva Billy Wilder: sai di aver finito di dirigere quando non ti reggono più le gambe […] Ma si affronta il giorno o la notte con un senso di responsabilità verso i propri collaboratori e con il terrore di deluderli. Perché la gente che lavora a un film si spacca il culo.
L’attore protagonista può protestare, e spesso lo fa. Viene coccolato. Giustificato e incoraggiato (con tanto di compenso in denaro) a coltivare la mancanza di controllo dei suoi impulsi. Quando la star fa una scenata […] la troupe rimane impassibile e il regista, io, osserva quello straordinario autocontrollo e pensa: «Ti ringrazio, Signore, di questa lezione».
Il regista, gli attori, il produttore e lo sceneggiatore sono sopra la riga, tutti gli altri sotto.
Esiste un sistema a due livelli nel cinema, proprio come nell’esercito. Chi sta sopra la riga si presume contribuisca al finanziamento o ai potenziali proventi del film molto più delle «maestranze» – cioè i tecnici – che lavorano sul set, in ufficio o nei laboratori.
[…] Parlavo di cattivi comportamenti, qualche film fa, con l’attrezzista capo. Lui mi raccontò di aver lavorato con una star maleducata che, per rallegrare l’atmosfera o in un eccesso di buonumore, si era messa a ballare con gli anfibi sul tetto di una Mercedes nuova di zecca. «Fece quasi diecimila dollari di danni», mi disse, «e ci rimasi davvero male, perché avevo rinunciato al mio giorno libero per cercare un attrezzo di scena: neanche ero pagato».
In alcuni divi non c’è solo belligeranza, ma anche la tendenza a litigare. Ne ho visto uno misurare con un metro a nastro la propria roulotte perché sospettava che non fosse perfettamente uguale (come da contratto) a quella del suo coprotagonista.
E intanto l’attrezzista rinuncia al suo giorno libero per garantire che, lunedì, il portafoglio, il coltello, la valigetta o l’orologio siano perfetti.
Questo, secondo la mia esperienza, non è un esempio isolato, bensì la norma nel mondo del cinema. Mentre la star esce in ritardo dalla sua roulotte, mentre il produttore sbraita al cellulare gridando oscenità all’assistente che, con ogni probabilità, ha fatto un errore nel prenotargli il ristorante, la gente sul set dà il massimo per realizzare un film perfetto. Non credo di esagerare.
[…] Alcuni uomini d’affari ritengono di poter realizzare un film pefetto (vale a dire con un buon ritorno economico) in generale, facendo a meno del rispetto, dell’abilità o dell’umiltà necessari, e ispirati e sostenuti soltanto dall’amore per il denaro.
[…] Mi torna in mente il vecchi adagio: in migliaia hanno lavorato negli anni per erigere le cattedrali, e nessuno ha messo il proprio nome su una sola di quelle costruzioni.
Noi, ovviamente, apprezziamo il film per il lavoro degli identificabili, gli attori, ma non potremmo goderne se non fosse per il lavoro degli anonimi, la troupe.
[…] Mentre riflettevo su questo, pensando alla star, pagata venti milioni di dollari che rovina il tetto di un’auto, e all’attrezzista, pagato ventimila dollari, che rinuncia al suo giorno libero per la riuscita dell’opera, credo di aver iniziato davvero a capire la teoria marxista del plusvalore. Domanda: di chi è il film? Passate una giornata sul set e lo saprete3.

Il saggio di Mamet parla di molto altro ancora e può funzionare come autentico viatico per chiunque voglia avvicinarsi al cinema anche da un punto di vista professionale, occupandosi di produzione, sceneggiatura (e di come presentarla) oppure di come siano state realizzate le migliori scene di film di azione o di guerra e perché, ma è l’attenzione rivolta al lavoro “anonimo” oppure al tentativo di Ronald Reagan di distruggere il movimento sindacale americano per abbassare i costi del lavoro, compreso quello delle troupe cinematografiche, per impedire il trasferimento delle attività produttive all’estero e a minor costo, che fa di questo saggio un testo da cui davvero non si può prescindere per comprendere, con i piedi saldamente piantati in terra, quali siano le basi materiali della “creazione” dell’immaginario contemporaneo.

In cui, però, come ricorda proprio in apertura l’autore, la standardizzazione della produzione industriale di stampo ancora fordista, spinge a ridurre sia la qualità del prodotto che quella delle attività di quel proletariato intellettuale di cui lo sciopero lungo degli sceneggiatori hollywoodiani ha rappresentato la più concreta e visibile manifestazione dello scontento.

Tutti i fiumi sfociano nel mare. Eppure il mare non si riempie. Il cinema, nato come l’ultima trovata commerciale in fatto di divertimento popolare, sembra essere tornato al punto di partenza. I giorni della sceneggiatura volgono al termine. Al suo posto troviamo una premessa alla quale appiccicare le varie gag. Questi eventi, che una volta non erano che ornamenti della storia vera e propria, sono ormai quasi l’unica ragione d’essere del film. Nei thriller gli eventi sono le scene d’azione e le esplosioni; nei film dell’orrore gli squartamenti; nei film polizieschi e di guerra le sparatorie e i bombardamenti. Il cinema basato soltanto sui “punti culminanti” è figlio del cinema porno.
[…] Oggi le case di produzione puntano tutto sui franchise movie, vale a dire sul richiamo di un pubblico che si è già creato autonomamente. Ed è sempre più difficile collocare sul mercato film non quantificabili, man mano che il modello del franchising prosegue la sua avanzata verso il controllo totale dei budget della casa di produzione e , quindi, del mercato. Tutte le attività industriali migrano infatti verso il monopolio, e la ridotta concorrenza provoca inevitabilmente un calo di qualità4.


  1. Si veda L. Trockij, Vodka, chiesa e cinema, «Pravda», 12 luglio 2023, ora in L. Trockij, Opere scelte, vol. 13, Cultura e socialismo, Roma 2004, pp. 87-90.  

  2. In proposito si veda il sempre attuale A. S. Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli editore, Milano 1977.  

  3. D. Mamet, Il duro lavoro in D. Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 15-20.  

  4. D. Mamet, op. cit., pp.9-10.  

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La retorica della prevaricazione nel passaggio tra vecchio e nuovo antisemitismo https://www.carmillaonline.com/2025/06/05/la-retorica-della-prevaricazione-nel-passaggio-tra-vecchio-e-nuovo-antisemitismo/ Wed, 04 Jun 2025 22:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88324 di Fabio Ciabatti

Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13,30.

Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.

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di Fabio Ciabatti

Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13,30.

Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.

Contrariamente al senso comune, ci ricorda l’autrice, l’antisemitismo non acquisisce centralità nel discorso pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando si scopre l’orrore del genocidio nazista degli ebrei. E questo vale anche per lo Stato di Israele che, subito dopo la sua nascita, è impegnato a prendere le distanze dall’immagine dell’ebreo come vittima che nella Shoah aveva avuto la sua massima espressione. D’altronde, una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale era stata favorevole allo stato israeliano nei suoi primi venti anni di vita. Ma le cose iniziano a cambiare con la guerra dei Sei Giorni del 1967 che porta Israele a occupare e a colonizzare Cisgiordania, Striscia di Gaza e alture del Golan. Cresce la solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi, fino a quel momento sostanzialmente ignorati, fino a che, nel 1975, su iniziativa dell’Unione Sovietica, l’Assemblea dell’Onu vota la Risoluzione 3379 nella quale si afferma che “il Sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale” (risoluzione che sarà abrogata nel 1991). L’ostilità nei confronti del sionismo cresce nel 1982 con l’invasione israeliana del Libano durante la quale vengono perpetrati i massacri di inermi civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila. Fioccano allora i paragoni tra Israele e il Terzo Reich invertendo la retorica della Shoah che, nel frattempo, si stava affermando come legittimazione dello stato sionista per opera dei conservatori israeliani, andati per la prima volta al governo nel 1977 con il partito Likud.
Anche a seguito degli eventi storici brevemente tratteggiati, il governo israeliano inizia a interessarsi alla lotta contro l’antisemitismo nel mondo. Solo nel 1988 viene istituito l’Inter-Ministerial Forum for Monitoring Anti-Semitism, cui viene affiancato lo Stephen Roth Institute for the Study of Contemporary Antisemitism and Racism dell’Università di Tel Aviv. Il fatto è che la nuova centralità assunta dall’antisemitismo si afferma insieme al discorso sul nuovo antisemitismo, inizialmente riferito alla citata risoluzione dell’Onu. Il sionismo delle origini aveva rifiutato l’idea di un “eterno antisemitismo” quale fondamento dell’ostilità dei paesi arabi perché questo avrebbe portato a immaginare un futuro di guerra perpetua. In contrasto con questa visione “guadagnò terreno la narrazione mitica […] del destino di Israele come un ciclo ininterrotto di catastrofi e redenzioni”, 1 rafforzata dalla retorica delle leadership arabe, non sempre esenti dall’attingere all’archivio antiebraico importato dall’Europa. 

Il passaggio dal nuovo antisemitismo all’antisionismo come forma per eccellenza dell’odio antiebraico necessita di un passaggio intermedio: l’idea, sostenuta dalla politica estera del Likud, di Israele come “ebreo collettivo”. Idea in base alla quale chi critica lo stato sionista vuole in realtà colpire tutti gli ebrei. In primo luogo bisogna notare il fatto paradossale che identificare Israele con tutte le persone di fede giudaica, attribuendo a tutti gli ebrei le responsabilità degli atti compiuti dal governo di Tel Aviv, è proprio uno di quegli atteggiamenti che è stato giustamente identificato come caratteristica di un antisemitismo mascherato da antisionismo. Insomma  l’idea di Israele come “ebreo collettivo” assomiglia molto a una forma di antisemitismo rovesciata di segno. Ma c’è di più. Parlare di “ebreo collettivo” significa personificare intere comunità nazionali o religiose (non solo Israele ovviamente) e immaginare questi “personaggi-sineddoche” come soggetti che si combattono nell’agone storico assumendo, attraverso grossolane semplificazioni, “tratti caratteriali semi-permanenti, biografie storiche, tradizioni ancestrali e motivazioni psicologiche profonde”.2 In breve la figura dell’ebreo e quella dei suoi nemici vengono essenzializzate.

Ma è proprio questo tipo di operazione concettuale che costituisce uno dei nuclei fondanti dell’antisemitismo. 

Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei, riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo. Ma la naturalizzazione delle categorie socialmente costruite è tipica di ogni discorso razzista3. 

Chi invece aspira liberarsi dalla narrazione antisemita, sostiene Pisanty, considera l’avversione contro gli ebrei come un fenomeno storicamente variabile interrogandosi sulle dinamiche che hanno di volta in volta reso possibile la sua insorgenza. Quando analizziamo queste dinamiche possiamo rilevare che l’antisionismo attinge allo stesso repertorio storico del pregiudizio antiebraico? Perché è proprio questo che bisognerebbe dimostrare, caso per caso, quando si cerca di identificare antisionismo e antisemitismo. Una dimostrazione tanto più necessaria alla luce del fatto che la storia ci dimostra come filosionismo e antisemitismo non siano mutuamente esclusivi. Il caso più clamoroso è probabilmente quello di Lord Arthur Balfour, il ministro degli esteri della Corona britannica che, con la sua famosa Dichiarazione del 1917, dà il via libera all’emigrazione ebraica della Palestina con l’obiettivo dichiarato di scongiurare il rischio di un’infiltrazione giudaico-bolsceviche nel suo paese. Sta di fatto che la dimostrazione della suddetta identità, afferma l’autrice, non viene mai fornita. La coincidenza tra i due tipi di fenomeni viene semplicemente presupposta. 

E allora chiediamoci chi è questo mitico ebreo bersaglio dell’odio antisemita.

Gli attributi antitetici di cui è portatore si ricompongono in un unico personaggio da feuilleton la cui caratteristica più saliente è per l’appunto la doppiezza. Come si fa a essere simultaneamente capitalisti e comunisti, apolidi e nazionalisti, prepotenti e servili, e chi più ne ha più ne metta? Basta immaginare che tutte le contraddizioni siano artifici di copertura. L’“Ebreo” non è mai colui che dice di essere. Dietro la maschera della povera vittima si nasconde il più perfido dei manipolatori.4

Se la doppiezza è la caratteristica essenziale presa di mira dal classico odio antiebraico “il nemico immaginario degli antisemiti non ha gli stessi tratti del nemico degli antisionisti, che di Israele detestano l’arroganza, la belligeranza, la ruvidezza, la chutzpah”.5 

Ma tutto ciò viene bellamente ignorato da chi, per comminare scomuniche o addirittura sanzioni legali, brandisce la Working definition dell’antisemitismo adottata nel 2016 dalla International Memorial Holocaust Allianche (Ihra). Questo atto ufficializza, di fatto, l’equivalenza tra antisionismo e antisemitismo. Abbiamo utilizzato l’espressione “di fatto” perché, come racconta dettagliatamente Pisanty, la Ihra in realtà accoglie soltanto la definizione generale della Working definition mentre, dopo un’aspra discussione tra i rappresentanti dei suoi trentacinque Stati suoi membri, esclude esplicitamente gli esempi che ne costituisco la parte più cospicua, consapevole della loro problematicità soprattutto per la parte che riguarda l’assimilazione tra antisemitismo e antisionismo. Nel 2018, tuttavia, vari sostenitori della versione integrale cominciarono ad affermare che l’accordo raggiunto due anni prima riguardava l’intera definizione e chi affermava il contrario era un “antisionista antisemita”. Questa è la versione oramai comunemente accettata della storia tanto che l’Eumc, l’organismo indipendente che aveva originariamente ideato la definizione operativa come mero strumento per individuare possibili fenomeni di antisemitismo, finisce per rinnegare la sua stessa Working definition

Insomma in questa vicenda i paradossi si accumulano. Tra questi uno dei più preoccupanti è quello che porta a sottovalutare le reali nuove insorgenze di odio antiebraico perché l’antisionismo non viene soltanto considerato come un equivalente dell’antisemitismo, ma soprattutto come l’unica forma realmente rilevante di antisemitismo. L’esempio più lampante di questa dinamica è il caso, evidenziato dall’autrice, dell’ungherese George Soros, individuato come nemico per eccellenza nella campagna elettorale del 2008 dal presidente magiaro Viktor Orban. Si tratta di una trovata escogitata dai consulenti delle campagne elettorali di Netanyahu che, assoldati da Orban sotto consiglio dello stesso premier israeliano, non si sono fatti scrupolo di mobilitare un intero arsenale di argomentazioni antisemite nei confronti del finanziere ebreo Soros. Argomentazioni riprese poi a piene mani da moltissimi leader politici di altri Paesi. Tra questi gli italiani Salvini e Meloni che hanno aggiunto a carico di Soros un altro classico della propaganda antiebraica: accusato di finanziare i flussi migratori verso l’Europa, il finanziere ungherese viene considerato l’architetto occulto di una nuova sostituzione etnica, secondo i dettami del famigerato piano Kalergi. Questa galleria degli orrori non può che finire con Netanyahu che accusa Soros di essere l’eminenza grigia dietro ai suoi guai giudiziari e con il figlio del premier che pubblica un meme, raffigurante il finanziere ungherese, dal tono inequivocabilmente antisemita.
La cosa più grave di tutta questa vicenda è che, nonostante il gran parlare del pericolo antisemita, attraverso il mito di Soros, frammenti dell’archivio antiebraico siano stati riscattati dalla latenza e abbiano ricominciato a circolare non solo nei circuiti dell’estrema destra, ma anche nei settori della cultura mainstream”.6 Ma c’è anche di peggio, sottolinea con dolore Pisanty: se si consolida l’idea che opporsi al massacro dei palestinesi significa essere antisemiti, l’antisemitismo stesso può, nel più tragico dei paradossi, acquisire un’accezione positiva per il senso comune. 

Se questi sono i risultati, sembra proprio che la difesa dagli ebrei da nuove insorgenze di antisemitismo non sia la principale preoccupazione di chi ha imposto come dogma di fede, in molti casi giuridicamente vincolante, il nuovo antisemitismo. In effetti in gioco sembra esserci qualcosa di diverso. Pisanty accenna a questo ordine di problemi quando sostiene che la già citata International Memorial Holocaust Alliance “è l’organizzazione internazionale cui si deve il progetto di riempire il vuoto ideologico creato dal crollo del comunismo con la narrativa ‘cosmopolita’ dell’Olocausto che ha plasmato l’immaginario politico occidentale dell’ultimo quarto di secolo”.7 In questo immaginario, sottolinea l’autrice, hanno trovato comodamente posto i diversi partiti di estrema destra che negli anni duemila hanno acquisito sempre più consenso. Il vecchio antisemitismo, incistato nel loro DNA, è stato prontamente condonato in cambio del ripudio del nuovo antisemitismo, cioè dell’appoggio incondizionato alle politiche di Israele. Lo Stato sionista gli ha così conferito una patente di democratica rispettabilità, noncurante del razzismo di cui sono ancora i campioni. È sufficiente che questo non si eserciti, almeno esplicitamente, nei confronti delle persone di fede e cultura ebraica.
Nel nuovo immaginario, invece, non trovano spazio l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antiamericanismo che vengono demonizzati in quanto correnti politiche ispiratrici di un antisionismo equiparato tout court all’antisemitismo. Insomma, ce n’è abbastanza per respingere senza indugio il nuovo dogma, come fa Pisanty nella conclusione del suo libro dove introduce, purtroppo solo di sfuggita, il tema del clima bellico in cui tutta questa vicenda sembra inscriversi.

Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando. A meno di non prendere atto che il mondo è entrato in una fase di guerra senza quartiere, o si vince o si muore, di cui la retorica della prevaricazione è il naturale corollario8.


  1. V. Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, p. 42, edizione Kindle. 

  2. Ivi, p. 56. 

  3. Ivi, p. 26. 

  4. Ivi, pp. 32-33. 

  5. Ivi, p. 55. 

  6. Ivi, p. 100. 

  7. Ivi, pp. 77-78. 

  8. Ivi, p. 104. 

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La cella dell’avvocato https://www.carmillaonline.com/2025/06/03/la-cella-dellavvocato/ Tue, 03 Jun 2025 21:55:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88578 di Edoardo Todaro

Gabriele Fuga, La cella dell’avvocato, Edizioni Colibrì; pp. 316;  € 17

“ Anni di piombo “ è questa la definizione che va per la maggiore nel definire un periodo importantissimo nella storia del conflitto sociale e politico, quello che si è prodotto negli anni ‘70. In questo paese, in quel periodo si è sviluppato un movimento che non ha avuto paragoni in altri paesi occidentali. Tanti i motivi sul perché in Italia si sia sviluppato tale percorso, certo non è questo l’ambito.  La liberazione dal nazifascismo sta subendo, da molti anni a questa parte, un percorso di omologazione tra vinti [...]]]> di Edoardo Todaro

Gabriele Fuga, La cella dell’avvocato, Edizioni Colibrì; pp. 316;  € 17

“ Anni di piombo “ è questa la definizione che va per la maggiore nel definire un periodo importantissimo nella storia del conflitto sociale e politico, quello che si è prodotto negli anni ‘70. In questo paese, in quel periodo si è sviluppato un movimento che non ha avuto paragoni in altri paesi occidentali. Tanti i motivi sul perché in Italia si sia sviluppato tale percorso, certo non è questo l’ambito.  La liberazione dal nazifascismo sta subendo, da molti anni a questa parte, un percorso di omologazione tra vinti e vincitori. Do you remember Violante e le ragioni dei vinti? La morte non fa distinzioni, di fronte ad essa siamo tutti uguali.

Questo in estrema sintesi, il percorso intrapreso in questi anni per arrivare ad una riscrittura della storia, per arrivare alla famosa memoria condivisa. Tutti uguali nella liberazione? Equiparare liberatori ed oppressori se si parla della lotta di liberazione avvenuta nel ’45. Rimuovere e silenziare se si parla degli anni’70; cosa sono stati gli “ anni ’70 “ in questo paese? Un conflitto sociale politico/sindacale/sociale si è manifestato e  come è stato possibile che in una”  democrazia compiuta “ si verificasse un possibile “ assalto al cielo “ che potesse rimettere in discussione  rapporti di forza consolidati a favore del potere capitalistico, messa in discussione concretizzatisi con “ il mettere paura “.

I protagonisti di quell’esperienza, spesso e volentieri finiti ad espiare il proprio essere soggetti di una rottura epocale nelle patrie galere, devono restare in silenzio, non farsi portatori del raccontare la propria esperienza , del proprio vissuto. Come si diceva un tempo “ a futura memoria “, a monito per le nuove generazioni che si affacciano nell’essere protagoniste della messa in discussione dello stato di cose presenti. Se prendi in considerazione che il tuo impegno politico, la tua appartenenza al conflitto sociale in atto possa esprimersi anche in forme incompatibili con l’ordine costituito, sappi che ti teniamo sotto controllo, anzi che se pensi di farla frana, ti raggiungeremo anche a distanza di decenni e te la faremo pagare, perché il potere non dimentica. .  Che sia capitato una volta? Ci può stare. Ma che non si ripeta mai!Abbandono queste considerazioni, sicuramente ci sarà occasione per tornarci, per dire alcune cose rispetto a “ La cella dell’avvocato “.

Gabriele Fuga, l’avvocato Gabriele Fuga, ci riporta ad un qualcosa di molto importante, un qualcosa che deve essere conosciuto. Per tantissimi anni il conflitto sociale aveva assunto tali dimensioni di scontro e di massa, che rispondere alla repressione rientrava nei compiti di tutti nessuno escluso. Certo c’era anche una nutrita schiera di legali che si prestavano a sostenere coloro che venivano colpiti dai provvedimenti repressivi, ma il farvi ricorso era, per così dire, una modalità tutta interna alle “ dinamiche di movimento “. Ad un certo punto, la repressione ha accentuato il suo agire ed il movimento ha attenuato la sua forza d’urto, anche su questo ritorneremo, e l’aspetto della difesa legale ha assunto proporzioni considerate, prima, importanti ma secondarie.  Prima, se un operaio veniva licenziato, rivolgersi ad un legale era ovvio; impugnare il licenziamento un percorso  da praticare ma sapendo che il rientro in fabbrica poteva avvenire non tanto grazie non solo a sentenze favorevoli ma soprattutto alla solidarietà dei propri compagni che ti riaccompagnavano in azienda portato a spalla. Quindi riprendendo il filo lasciato qualche riga sopra, Gabriele Fuga rappresenta una figura emblematica all’interno di un effetto a  catena: avvocato/imputato; imputato/avvocato e così all’infinito,infatti ad esempio lui sarà difensore di Spazzali e poi dovrà trovarsi un difensore. Numerosi i nomi che hanno segnato quel periodo da Spazzali, arrestato,  ad Arnaldi, suicidatosi per evitare l’arresto dovuto al pentito di turno, perché il numero di chi fa dichiarazioni infamanti si accentua.. La sua vicenda riporta alla luce, appunto, la figura del pentito, in questo caso Paghera, un detenuto comune politicizzato in carcere, addirittura l’assistito che diviene accusatore. Avvocati soprattutto, ma non solo, che si ritrovano attorno a una realtà fondamentali per la solidarietà che riuscì ad esprimere concretamente: “SOCCORSO ROSSO” ed il “Comitato Internazionale per la Difesa dei Detenuti Politici”.

L’accusa per l’avvocato Seguso/Fuga è quella usuale per coloro che svolgevano quell’attività: partecipazione a banda armata ed associazione sovversiva, anello di collegamento tra il difeso ed i “ complici “ fuori; accusa che farà sì che nessuno un domani accetterà di farsi difendere da loro, questo è quel succede ai compagni/avvocati, le idee sotto processo. Fuga che mantiene il proprio ruolo anche nella fase detentiva con consulenze, ovviamente gratuite, in carcere perché la sua professione deve essere un aiuto a coloro che in vari modi si pongono contro lo stato, ma anche per le guardie che sono al servizio dello stato. Fuga a San Vittore che diviene un inquilino a tempo indeterminato, tra l’incriminazione per appartenere ad Azione Rivoluzionaria e poi a Prima Linea. Carcere a confronto ieri/oggi: la descrizione delle celle d’isolamento; del rancio; del bugliolo; del sovraffollamento sempre presente; la sveglia; la perquisizione della cella; la corrispondenza in entrata ed uscita sottoposta a controllo; le domandine per qualunque cosa a cui poter accedere; l’autoerotismo; il consumo di playgil; ma sicuramente la solidarietà su tutto, quella solidarietà elemento importante in una comunità chiusa come il carcere, ed a quell’epoca, le discussioni politiche. Il tutto per dire che il carcere è uno zoo umano e l’aspettativa è riposta verso la decorrenza termini.

Un viaggio attraverso i carceri italiani da Volterra, con la rivolta,a Porto Azzurro dove si sta quasi bene, ai carceri della Toscana come Pisa molto simile al Sud America. Fuga sottoposto ad un processo, macchina del fango, costruito sulla credibilità di due pentiti. Su tutta questa vicenda avrà importanza particolar il rapporto con Mario Dalmaviva, uno dei tanti imputati/condannati della cosiddetta operazione 7 aprile, il quale metterà al servizio di Fuga le sue vignette, che di satirico avranno ben poco, se non il mettere in discussione il pianeta  carcere. Possiamo dire che l’esperienza di Fuga, e tanti altri, ha lasciato il segno a tal punto che sono numerosi gli avvocati che mettono le proprie conoscenze e capacità al servizio di chi è colpito dai provvedimenti repressivi, anche se l’auspicio, è che finalmente potremmo assistere di nuovo ad un movimento conflittuale che sostiene i propri compagni.

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