Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 06 Dec 2025 21:23:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Distopie in corpo I e II https://www.carmillaonline.com/2025/12/06/distopie-in-corpo-i-e-ii/ Sat, 06 Dec 2025 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91718 di Franco Pezzini

Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025. Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, [...]]]> di Franco Pezzini


Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025.
Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, senza troppo spoilerare, siamo in un pianeta non-terrestre di un lontanissimo futuro, nel secondo l’Oltremondo si incista in un’Italia futurologicamente prossima e autoritaria dove ai ribelli è possibile intervenire tra le pieghe del tempo. Ma entrambi gli affreschi, di notevole ampiezza e originalità rispetto ai pur individuabili modelli dickiani e ballardiani, cifrano tensioni e provocazioni di un presente inquietantemente vicino.
In entrambi i casi – in modo diverso – la distopia investe in prima battuta lo sguardo, il linguaggio, la voce: come in fondo inevitabile (anche se magari non chiaro a chi di distopie si sia occupato in modo meno profondo), perché sono proprio il modo di vedere e di narrare a costituire il marcatore primo di un mondo collassante. In entrambi i casi l’Homo narrans – protagonista narrante più o meno inaffidabile – si confronta con la ridefinizione di categorie dell’esistenza, di miti, di urgenze personali e collettive: ed entrambi sembrano rispondere in chiave provocatoria al crollo delle istanze del Novecento. Entrambi del resto fanno riferimento a una categoria che sguardo e voce possono scomporre ai minimi termini, ma che resta un’ancora fondamentale al nostro essere Homo, cioè il corpo. Un corpo ibridato nel primo, dove uomo e serpente si mixano, e i regni animale e minerale perdono il rispettivo limes – e non solo nella sfera dell’umano, ma nei serpenti-cavi elettrici, nelle macchine senzienti, nel mistero stesso di una Forza Sovrastante non necessariamente metafisica. Un corpo trattato nel secondo con farmaci e droghe come l’oblivion, e che si sbriciola in un tempo storico magmatico e mai fissato definitivamente, in uno stato perenne di stupefazione. Fino a costringere a domandarci se il protagonista ce la conti giusta, se e quanto sia capace di lucidità. Un corpo in entrambi che alla fine si fa linguaggio, voce – ma non è questa, in fondo, la natura prima di qualunque personaggio letterario? –, traducendosi in comunicazione frantumata e reiterata di stringhe alfanumeriche ne La città dei Serpenti, e in L’Oltremondo in conati espressivi, giochi di parole irriflessi, compulsioni verbali di una mente crackata.
In entrambi i casi, poi, alla storia soggiace una rivelazione radicale, che cioè sia l’essere umano in quanto tale l’elemento distruttivo della realtà: non solo imbullonando orride tecnocrazie autoritarie dove il tradimento e la violenza poliziesca, l’illusione e la menzogna paiono ingredienti fondamentali, ma stabilendo rapporti malsani con meccanismi di servizio e strutture sociali, fino a piagare relazioni personali. In modo diverso e autonomo i due romanzi esplorano l’ambiguità radicale con cui è possibile comprendere il reale: nel primo caso per la scarsa comprensibilità effettiva – a dispetto delle pretese degli “interpreti” – dell’Intelligenza Serpente e le faziosità delle lobby in scena, nel secondo per l’equivoco peso decisionale di intelligenze artificiali brandite da un potere sovranista, per cui a decidere norme e letture ufficiali non sono più camere di confronto umano, ma algoritmi da tecnocrati. Come spiega il protagonista de L’Oltremondo,

succede questo: tutti vorremmo sapere, ma nessuno oggi è più in grado di sapere nulla. È la macchina che sa e che proietta e impone il suo sa­pere intorno all’uomo, creandogli una realtà che lo abbraccia, lo culla, lo ghermisce. Realizzandolo. Rea­lizzando l’uomo.

Tanto più che strumento di distruzione è addirittura quello che offre le due storia come le leggiamo, il linguaggio: ne La città dei Serpenti troviamo esplicitato che

Il vettore della vostra infezione è la tecnologia che voi usate per definire la vostra infezione ▻▻▻ Linguaggio ▻▻▻ il Linguaggio umano usato ora progressivamente adeguato in apprendimento Macchina da noi per comunicare qui ora con la vostra inferiorità ▻ il vostro linguaggio è infetto di infezione ▻ il vostro linguaggio inutile contro la Macchina ▻ la vostra ▻ Parola infetta somministrata emanata in riproduzione tecnologica espansa non necessaria alla Macchina ▻

Cioè comunicazioni ossessive da amministrazione delirante, slogan ripetuti, elenchi di comandi, formule scandite: interessante e dialettico è il rapporto tra la professione di fedeltà degli Agenti della città (“Noi siamo gli Agenti, fedeli ai Serpenti”, una sorta di credo militante alla tutela dell’Equilibrio claustrofobico della città) e la Fede proclamata una volta uscitine. Mentre L’Oltremondo vede contribuire alla grande cospirazione i messaggi di un’influencer ragazzina (username b4by_flu666) e la diffusione del contenuto del Teorema di Lauda, nuovamente a considerare come infezione uomini e linguaggio:

Il professor Lauda, […] osteggiato da tutti gli atenei del mondo e morto in umiliazione e povertà, sostiene che l’uomo sia un virus, al pari del linguaggio ma più letale di esso, come virus. Il lin­guaggio uccide alcune categorie e sottocategorie del pensiero attraverso la selezione di parole e costrutti, dice Lauda, […] mentre l’uomo è con­centrato solo sulla riproduzione della specie, la quale specie si percepisce sempre sul baratro della scom­parsa. Ma la percezione del baratro della scomparsa è dovuta alla modificazione delle leggi naturali che lo sviluppo tecnologico dell’uomo, messo in atto per alimentare la sopravvivenza della propria specie, im­pone al pianeta e all’ambiente da cui l’uomo viene ospitato e di cui l’uomo si fa parassita, dice Lauda, quindi l’uomo fugge la distruzione della specie e lotta contro la sua propria scomparsa che però egli stesso sta architettando in nome di quella stessa sopravvi­venza della specie guidata e garantita dello sviluppo tecnologico che distrugge l’ambiente ospite del virus-uomo […].

In un caso e nell’altro il punto di riferimento con cui fare i conti sono le macchine: a contrastarle, una società ibrida di uomini & serpenti o invece una rete clandestina che tra varie strategie di lotta usa l’oblivion per aprire fenditure nel tempo e versioni modificate della Storia: i serpenti che prendono – tra lo sconcerto generale – a divorare se stessi come urobori evocano in fondo la possibilità che la Storia come la conosciamo sia finita, si riduca al loop di un ciclo e si possa solo stagnarci dentro.
In un caso e nell’altro un potente linguaggio mitico sottostà all’invenzione narrativa. La paranoica città dei serpenti del primo titolo è simbolizzata in un cranio, come il Golgota del cranio di Adamo, e l’ambiguità del serpente dell’Eden è il suo statuto costituzionale: in luogo dello sguardo terapeutico al Nehustan, il serpente di Mosè, sono previste immersioni “terapeutiche” degli Agenti in vasche di serpenti, che insieme possono però far pensare (in chiave di morte rituale, iniziatica) a quella in cui muore l’eroe vichingo Ragnarr catturato da Ælla di Northumbria. Alle vasche di serpenti del primo romanzo corrispondono idealmente i trattamenti farmacologici del secondo – entrambi imposti perché funzionali a equilibri d’un potere. Ma ne L’Oltremondo, persino più provocatoriamente politico e apertamente critico, si recuperano, in un presente racchiuso come nel cerchio uroborico o in un tempo mitico del Sogno, figure storiche (come Osip Ivanovich Komisarov, coperto di imbarazzanti onori per aver salvato la vita dello zar Alessandro II durante un tentativo di assassinio, Gavrilo Princip, lo studente serbo che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie, o magari Alberto Magno e la sua testa meccanica) o scorci del passato (Paesi Bassi 1469, Canada 1940, riprese dal set di The Circus del 1928), a iniettare nel presente sovranista elementi di discredito, frattura e fragilità. “Tu sai che il tempo è un sogno, […] e la vita è tempo”.
Certo i due romanzi conducono in direzioni diverse: il fanatico e vigoroso protagonista del primo, l’Agente 1 Kajus, riesce a uscire dalla Città-Teschio dei suprematismi Bianchi e Neri e la storia può continuare altrove, mentre nel secondo più amara è la parabola del povero Don, docente (di storia, non a caso) espulso dall’università, sedato coattivamente in un paese dove la svolta finale autoritaria è imposta – guarda caso – da una riforma della giustizia e il dissenso è liquidato in patologia. Ma in entrambi i romanzi crepitano lingue furiose a concedere al lettore non pigro e non timido davvero molto, in termini di forza espressiva e macchine per pensare.

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Il lungo sogno di Liliana Cavani https://www.carmillaonline.com/2025/12/05/il-lungo-sogno-di-liliana-cavani/ Fri, 05 Dec 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91085 di Neil Novello

Liliana Cavani, Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura, a cura di Fabio Francione, Mimesis, Milano-Udine 2025, 14,00 euro.

All’origine dell’impegno cinematografico di Liliana Cavani sulla biografia di Simone Weil gravano un mistero e una lettura sconvolgente, cioè un ricordo imprecisabile e un’esperienza decisiva. Nella Conversazione con Liliana Cavani, curata da Fabio Francione e Roberto Revello, istruttivo documento di soglia a Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura (Mimesis, 2025, già Einaudi, 1974), la regista di Milarepa confessa genericamente di «aver letto qualcosa su Simone Weil» sul «finire degli anni Sessanta». In seguito, menzionando un’imprecisata «testimonianza» di carattere [...]]]> di Neil Novello

Liliana Cavani, Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura, a cura di Fabio Francione, Mimesis, Milano-Udine 2025, 14,00 euro.

All’origine dell’impegno cinematografico di Liliana Cavani sulla biografia di Simone Weil gravano un mistero e una lettura sconvolgente, cioè un ricordo imprecisabile e un’esperienza decisiva. Nella Conversazione con Liliana Cavani, curata da Fabio Francione e Roberto Revello, istruttivo documento di soglia a Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura (Mimesis, 2025, già Einaudi, 1974), la regista di Milarepa confessa genericamente di «aver letto qualcosa su Simone Weil» sul «finire degli anni Sessanta». In seguito, menzionando un’imprecisata «testimonianza» di carattere autobiografico riferita alla pensatrice francese e relativa alla sua esperienza in fabbrica, implicitamente cita il celebre Diario di fabbrica, dolorosamente vissuto e scritto da Simone Weil alla metà degli anni Trenta del Novecento. Così l’autoritratto di Simone Weil operaia in fabbrica, in Liliana Cavani agisce come una struttura di risveglio, qualcosa che ricorda addirittura «Francesco», il santo di Assisi cui la regista di Carpi dedica il film televisivo del 1966 e il lungometraggio del 1989.

Come Francesco, così la pensa Liliana Cavani, Simone Weil «partecipa con tutta sé stessa» alle cose del mondo, rapita nel suo più spontaneo, reale atteggiamento di donna in medias res, di creatura calata «dentro la vita sociale», nella realtà. E ciò tocca un vertice nel momento in cui le due linee biografiche, quello della mistica e quella del poverello, si ‘incontrano’ proprio ad Assisi, il luogo in cui Simone Weil finalmente si reca a «trovare un fratello naturale». Di Simone Weil, di una tale «persona eccezionale» e della sua inclinazione umana, la sceneggiatura che Cavani scrive con Italo Moscati racconta la storia. È la vicenda esistenziale di una donna di passioni totali, una donna «che vuole vedere e capire», che «vuole partecipare» alla vita dell’inerme, del sofferente, del debole, dell’«indifeso», e che desidera, in realtà, conoscere il «vissuto» umano dall’interno, incardinata, ripiegata essa stessa proprio in quel concetto di interno equivalente a un’esperienza dal vero: il lavoro in fabbrica, e dunque il lavoro in campagna. E c’è anche altro. Per utilizzare due categorie care a Richard Sennet nell’Uomo artigiano, per Simone Weil si tratta di attraversare la linea di senso che corre da un modo all’altro di abitare il mondo del lavoro, il modo dell’homo faber e quello dell’animal laborans.

Così la sceneggiatura per un film mai realizzato su Simone Weil appare la descrizione di un «vissuto» totale, la ricerca di tracce in una travagliata, splendida biografia i cui salienti rimandano l’immagine di una figura grandiosa, di una pensatrice ritratta, tra le varie, radicali esperienze esistenziali, in un unico possibile luogo, inalterabile, sempre uguale a se stesso, nel cuore profondo dell’umano.

Così nelle aule del Liceo di Puy come per le strade della cittadina francese, tra la lezione scolastica e il lavoro di attacchinaggio notturno, la prima immagine di Simone Weil risponde a quella di una creatura alacremente all’opera. Ma tale opera non è solo impegno, è anche analisi, interpretazione, scrittura, pedagogia, cioè la disponibilità intelligente per l’altro, per la sua coscienza culturale, politica. La pensatrice si fa così testimone, o meglio «messaggera del vangelo marxista», secondo la definizione datane da un poliziotto, in sceneggiatura fissata nel suo colloquio con un commissario. È, questa, una prova evidente dell’engagement in Simone Weil. Esso emerge, già nella parte iniziale della sceneggiatura, nel corso di una «riunione dei professori» del Liceo Puy. Qui troviamo una prova relativa al suo metodo di pensiero, alla visione diretta e non tradita dei «reali problemi», insomma al mestiere di intellettuale impegnato e disorganico, cioè qualcosa che restituisce, forse più trivialmente, l’epiteto pronunciato dal bidello del Puy per indicare Simone Weil come una «Sporca marxista!».

La sceneggiatura di Cavani, la cui cifra strutturale e formale è fondata sull’interpellazione dello spettatore, dunque sull’intervista a più testimoni, dal compagno operaio all’infermiera del sanatorio britannico, in Simone Weil ritrae una voce aperta, a sua volta interpellante, un’intervistatrice inattuale, una voce che indaga, domanda, denuncia e al potere chiede risposte, come accade nella visita alle Fonderie Bernard. Qui la professoressa, per la prima volta intuisce la necessità di un’esperienza operaia personale, poiché avverte la parzialità di ogni giudizio sul lavoro se il lavoro non è svolto, vissuto sul campo. Il tracciato biografico di Cavani, infatti, espone la vita di fabbrica di Simone Weil alle Officine Lecourbe, nell’inferno del «lavoro alla pressa», aggiogata all’oggetto di una tortura interminabile, il «pezzo», e nell’affannoso tormento di una mostruosa «cadenza»: realizzare ottocento pezzi l’ora.

A tale riguardo, agli amici sindacalisti Claudius Vidal e Paul Simone Weil confessa di voler «conoscere sulla pelle» l’esperienza di operaia alla catena, e in segreto scrive il diario, tra inclinazione scientifica e indagine antropologica, di un martirio. È quindi rappresentata la condizione inumana di chi, tra la pressa e, in seguito, l’altoforno, sa che dovrà «smettere di pensare» per diventare essa stessa la macchina davanti a sé, mutando così la propria identità intellettuale in quella di una anonima «schiava». A Claudius Vidal, che idealmente l’ascolta in una sua meditazione solitaria, Simone Weil confessa che «davanti alla macchina si deve uccidere la propria anima per nove ore al giorno». L’esito più catastrofico del lavoro in fabbrica, cui la sceneggiatura di Cavani dedica il corpo centrale, è la perdita della «spensieratezza», lo stato di un’anima che finalmente si ritiene perduta al «termine» di una logorante esperienza.

Dopo aver richiesto e ottenuto un congedo bimestrale dal Liceo di Bourget, dove insegna dopo l’estenuante parentesi di operaia in fabbrica, Simone Weil è in viaggio. La memoria culturale, umana, del periodo di lavoro, in sé informa anche l’altra grande decisione della sua vita: «combattere» in Spagna contro i «falangisti». Ma la guerra di Simone Weil, nella sceneggiatura di Cavani non è una guerra, anzi è la sintesi di un’esperienza ridotta a un aneddoto, la ferita provocata dalla caduta di olio bollente sul «piede destro», e l’inaccettabile consapevolezza di «non essere un buon soldato». Al pari del significato ‘eterodosso’ del lavoro in fabbrica, l’altro grande capitolo, sia per le implicazioni umane sia per quella più propriamente spirituale, riguarda il menzionato lavoro in campagna. È un periodo di vendemmia, che Simone Weil trascorre presso il filosofo-contadino Gustave Thibon, nella sceneggiatura Marcel Thibon. «La sua idea era di mettersi a lavorare qui, in campagna, nella mia campagna. Aveva fatto l’operaia, ora voleva fare la contadina» dichiara Thibon. La «contadina», infatti, pensa proprio come l’«operaia», e ciò perché possiede una «vocazione speciale» per le «condizioni che la gente definisce “basse”».

Al momento dell’occupazione tedesca di Parigi, Lettere dall’interno fornisce un saggio letterario, quasi alla maniera ariostesca, di montaggio incrociato tra le sequenze sulla capitale occupata dai tedeschi e le sessioni di lavoro, da parte di Simone Weil, nella terra di Thibon. In altre parole, l’avvento dell’occupante pone il problema tra l’ebraismo di Simone Weil e il nazismo. Ciò determina la fuga della pensatrice, una fuga strumentale dapprima a New York, in seguito, e solo per ricongiungersi con la «Resistenza francese», a Londra, presso il Commissariato d’azione per la Francia. L’ultima tappa del «cervellone», che non esclude di ritornare in Francia per compiere più decisive azioni di «sabotaggio» o «spionaggio», è appunto cadenzata tra il Commissariato e la casa a pigione di Mrs Francis. Qui Simone Weil scrive a lungo sul tema dello «sradicamento», e più in generale lavora a La prima radice, vi lavora prima di essere ricoverata, dopo un inatteso sbocco di sangue, presso di Grosvenor Sanatorium ad Ashford, il luogo della sua morte.

Il momento più descrittivo della sceneggiatura ripercorre circa l’ultimo decennio della vita di Simone Weil. Tuttavia, essa racconta una vicenda umana esemplare, unica. Nell’apparente variazione del tracciato esistenziale (liceo, fabbrica, Spagna, campagna, religiosità, resistenza, Londra), in Simone Weil persiste e dura un’idea di vita come esclusiva esperienza reale, qualcosa che misura il nome stesso dell’esistenza in ciò che è radicalmente umano, in una sorta di permanente, ostinata discesa verso quel ‘basso’, quel limite inferiore in cui chi pensa, chi è chiamato a pensare, da Diogene di Sinope a Simone Weil, pensa al solo scopo di cercare l’uomo.

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Fotografia e psichiatria https://www.carmillaonline.com/2025/12/04/fotografia-e-psichiatria/ Thu, 04 Dec 2025 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91365 di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice [...]]]> di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice che gravava sul Paese sorprendentemente disponible a sperimentare cambiamenti radicali.

Si tratta del volume curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Einaudi, 1969) e del libro di Luciano D’Alessandro, Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale (Il Diaframma, 1969). Individuando in queste due pubblicazioni le fondamenta di una nuova iconografia della malattia mentale Francesca Orsi indaga il rapporto tra fotografia e psichiatria che si è sviluppato tra la fine degli anni Sessanta e oggi.

In linea con l’idea benjaminiana che individua nel frammento, nel suo interrompe la narrazione lineare della storia, un potenziale critico utile a svelare le contraddizioni della modernità aprendola a nuove e inedite prospettive, con La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria Orsi ha inteso modellare «un nuovo atlante visivo della “follia” per accostamenti di tasselli che messi insieme creano significati inediti, tesi a definire un percorso alternativo verso un’iconografia destigmatizzante della malattia mentale e, contemporaneamente, a creare un senso collettivo di giustizia, di espressività artistica, di storia e di pensiero critico» (p. 228).

L’autrice sottolinea come le fotografie di Morire di classe abbiano avuto un ruolo importate non soltanto nel far conoscere le condizioni dei pazienti rinchiusi nei manicomi, ma anche nel rompere il sodalizio di estrazione positivista tra fotografia e psichiatria. Gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno istituito «un nuovo alfabeto visivo della salute mentale, che affonda le sue radici nelle finalità politiche di Morire di classe, nella sua intrinseca urgenza civile e sociale» (p. 15), un alfabeto che si è evoluto nel corso del tempo rapportandosi con i cambiamenti occorsi non solo in ambito psichiatrico, sociale e politico, ma anche a livello di comunicazione visiva. Nel ricostruire quelle nuove visioni su malattia mentale, devianza e alterità, Orsi si è avvalsa delle testimonianze dirette di chi le ha prodotte. Nel volume si trovano interviste raccolte tra il 2008 e i giorni nostri a: Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli.

Se tanto gli scatti di D’Alessandro, realizzati presso l’ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore, ove operava il dottor Sergio Piro, pubblicati nel volume Gli esclusi, quanto quelli di Cerati e Berengo, effettuati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze, diffusi da Morire di classe, hanno messo la società italiana di fronte a una realtà sino ad allora sconosciuta attraverso la crudezza delle immagini, sono state soprattutto le fotografie di questi ultimi a sconvolgere l’opinione pubblica e ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che queste hanno saputo trasmettere l’urgenza da cui erano mossi i fotografi di mostrare, denunciare e rivelare la violenza dell’istituzione psichiatrica in linea con la battaglia basagliana. È probabilmente la mancanza di questo senso di urgenza ad aver reso all’epoca meno dirompenti gli scatti di D’Alessandro, mossi invece da premesse di ordine estetico-autoriale e intenzionati a riflettere la solitudine dell’essere umano. Mentre le fotografie di Cerati e Berengo agiscono da «urlo», quelle di D’Alessandro, mosse più da uno sguardo autoriale che non reportagistico, sono riconducibili «al silenzio esistenziale», al «mondo interiore». Gli esclusi, afferma lo stesso D’Alessandro, ha preso il via come una riflessione sull’esistenza umana, da cui, soltanto dopo, è derivata la denuncia sociale.

Mentre Morire di classe fu voluto da Franco Basaglia e Franca Ongaro come un atto d’accusa all’istituzione psichiatrica, usando il libro come ponte verso l’esterno, verso la società, verso la politica e verso l’opinione pubblica, Gli esclusi fu voluto da Sergio Piro partendo dalla stessa tensione nei confronti della psichiatria, ma procedendo a una sua “demolizione” dall’interno, usando la propria esperienza e la propria visione come primo tassello da abbattere (p. 31).

Se Gli esclusi si è presentato come un libro fotografico elegante, Morire di classe, ricorda Berengo, si è proposto esplicitamente come «un manifesto politico di protesta, fatto con urgenza e con delle modalità che permettessero un costo molto basso, per arrivare a un pubblico più ampio» (p. 57). L’incidenza esercitata sulla società italiana dalle fotografie di Morire di classe non può che essere messa in relazione con l’importanza che, come ricorda la stessa Cerati, aveva la fotografia negli anni Sessanta nell’ambito della denuncia sociale, della divulgazione e della comunicazione. Due libri mossi da progettualità differenti ma altrettanto importanti nel rinnovamento della fotografia psichiatrica: Morire di classe per l’adozione di una strategia comunicativa efficace nel fare irrompere nella società italiana il tema della malattia mentale, Gli esclusi per la sua capacità di aprire una riflessione sull’istituzionalizzazione psichiatrica, sul ruolo del fotografo e sulla natura dell’immagine che intende raccontarla.

Se gli scatti di Morire di classe e de Gli esclusi hanno inteso denunciare l’istituzione psichiatrica, più che raccontare il cambiamento al suo interno, le fotografie realizzate negli anni Settanta presso l’ospedale psichiatrico triestino allora diretto da Basaglia di autori come Claudio Ernè, Paola Mattioli, Gian Butturini, Emilio Tremolada, Neva Gasparo e Mark Smith rappresentano un nuovo modo di guardare ai pazienti, ora considerati indissociabili dalla loro storia e dalla loro identità, in linea con il passaggio nella psichiatria basagliana dall’utopia goriziana degli anni Sessanta alle pratiche sperimentate nel decennio successivo.

Se in precedenza, dalla fine dell’Ottocento, la fotografia aveva assunto, rispetto all’istituzione psichiatrica, un ruolo di “strumento scientifico” per definire la malattia mentale e alla fine degli anni Sessanta era stata l’arma di denuncia della condizione manicomiale, negli anni Settanta i fotografi arrivati, per motivi diversi, a Trieste si resero parte loro stessi dell’ingranaggio del cambiamento in atto e testimoniandolo lo vivevano in prima persona (p. 71).

Le fotografie degli anni Settanta, insomma, tendevano a restituire ciò che gli stessi fotografi stavano vivendo nel loro rapportarsi con chi era affetto da malattia mentale.

Per i fotografi giunti nella città friulana, la realtà manicomiale, oltre a essere diventata una storia personale, data la prossimità fisica e umana, era anche una questione politica, un battersi per degli ideali in cui si credeva, un momento condiviso di forte critica al sistema. Il fotografo, nel suo essere coinvolto, perdeva la sua tecnicità e si mescolava agli altri volti e alle altre miriadi di storie che punteggiavano il parco del San Giovanni (p. 73).

Ernè ricorda come per i fotografi che, come lui, si confrontarono con la struttura triestina negli anni Settanta, lo scopo non fosse quello di denunciare, bensì quello di «fotografare una rinascita» di cui si sentivano parte. La stessa Mattioli conferma il clima di partecipazione e condivisione umana in cui si trovano immersi quanti e quante si erano presentati con la macchina fotografica nella struttura triestina.

Orsi si concentra poi su tre fotografi – Emilio Tremolada, Uliano Lucas e Dario Coletti – che «hanno espresso un ruolo di raccordo storico ma anche narrativo e meta fotografico. Il loro lavoro ha avuto il merito di documentare l’evoluzione di un movimento nel suo fluire temporale, ma anche di mostrare come tale evoluzione politica e ideologica fosse accompagnata da quella del linguaggio fotografico e del loro personale sentire estetico e compositivo» (p. 103). Tre autori che, per quanto differenti per stile e concezione della fotografia, sono riusciti «a raccontare tre momenti in cui la fotografia, procedendo nel suo percorso storico e formale, si è messa in dialogo con il suo passato per mostrare un concetto di cambiamento che riguardava la sua natura, il panorama psichiatrico e la società stessa» (p. 104).

Tremolada ribalta l’intento classificatorio e regolatore della fotografia positivista sui corpi dei pazienti proponendosi di guardare alla «personalizzazione degli oggetti che tornano ad assumere la loro funzione identitaria, che tornano a raccontare la specificità delle storie di vita, simboli di un cambiamento che ha fatto sì che il corpo del paziente non fosse più un “suppellettile assimilabile agli arredi del manicomio”» (p. 108). Oltre al soggetto delle immagini, il fotografo cambia la tecnica narrativa basandola su «inquadrature che stringevano, isolavano, facevano diventare gli oggetti dei concetti, delle astrazioni, degli spazi di riflessione» (p. 111).

Lucas affronta, invece, la malattia mentale allontanandosi dalla sua abituale narrazione reportagistica militante, proponendosi una una nuova iconografia attenta a non stigmatizzante la malattia mentale. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, egli si è focalizzato sull’essere umano, sulla sua riconquistata fisicità, sulle sue piccole storie vissute al di fuori delle mura delle strutture psichiatriche, sulle esperienze di integrazione sociale sperimentate dai nuovi indirizzi psichiatrici. «Se la fotografia psichiatrica di fine XIX secolo era servita a classificare la malattia mentale e a renderla visibile, quello che produsse Uliano Lucas fu un atlante di immagini teso a raccontare le sfaccettature dell’umano, senza che la fotografia fosse usata al servizio, ma a favore di qualcosa, di un pensiero che non stigmatizzasse più i “volti della follia”» (p. 114).

Mentre la fotografia di Cerati, Berengo e D’Alessandro raccontava la reclusione e la disperazione dell’essere umano, gli scatti di Lucas, per sua stessa ammissione, «rappresentano l’inizio della lotta, seguono l’impegno civile nel suo evolversi, rispecchiano la trasformazione del panorama psichiatrico dopo la riforma» (p. 137). Se con la fotografia, fino agli anni Settanta, ci si proponeva di suscitare un sentimento di pietà, successivamente, sostiene Lucas, si è voluto raccontare la riconquista della libertà dei soggetti, la loro vita, i loro affetti e la loro consapevolezza. «Le fotografie in ambito psichiatrico, con il tempo, hanno iniziato a raccontare il fluire di quella che una volta veniva definita “follia” nella normalità, la complessità della condizione umana» (p. 137). A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, sostiene Lucas, la fotografia rivolta ai malati di mente ha smesso di documentare preferendo comunicare; se prima «il focus era il malato e la sua condizione, dopo, è diventato il suo confondersi nella società, di cui diventò parte» (p. 137).

Dalla sua esperienza partecipativa all’interno di una struttura mentale romana, Coletti ha voluto estrarre un racconto delle nuove forme di assistenza psichiatrica territoriale guardando ai volti e ai corpi degli assistiti in maniera autoriale, riprendendo, per certi versi, l’immaginario artistico adottato da D’Alessandro negli anni Sessanta.

Se D’Alessandro aveva intessuto il suo lavoro della semanticità del corpo, delle mani soprattutto, e i fotografi degli anni Settanta avevano raccontato, invece, la sua dinamicità figurativa, Coletti, con il suo lavoro, si pone, precisamente, al centro; raccordo tra iconografie passate ed espressione, però, di qualcosa che prima non era mai stato visto insieme e per questo nuovo (p. 117).

L’ultima parte del volume si concentra su alcuni casi recenti in cui l’arte e la fotografia si occupano di disagio mentale guardando in particolare a Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli, in un contesto mutato, contraddistinto da una sovrastimolazione visiva che ha profondamene modificato l’immaginario visivo e le modalità di comunicazione.

La pratica artistica di Turba, che Orsi annovera tra gli artisti contemporanei che stanno dando vita a un nuovo alfabeto visivo della malattia mentale, si manifesta spesso come un processo collettivo di cui la fotografia offre testimonianza. «In un certo modo, le sue immagini sono documento di un qualcosa che si plasma per creare una connessione identitaria» (p. 166). Si tratta di un metodo generativo incentrato sulla condivisione; come per altri fotografi, anche per Turba il tempo trascorso nella comunità o con l’individuo di cui intende raccontare rappresenta un elemento imprescindibile nella produzioni di immagini.

A partire dalla sua riflessione sullo stato della fotografia contemporanea, nel rapportarsi all’iconografia della malattia mentale, Fontcuberta giunge a elaborare un metodo di “creazione visiva” in cui vecchie e nuove fotografie vengono elaborate digitalmente, ricorrendo anche all’intelligenza artificiale, dando luogo a particolari contaminazioni postfotografiche. Risulta interessante, scrive Orsi, notare come l’artista catalano, «attento più al processo rispetto al risultato e alla specificità del tema, riesca a sollevare in maniera critica il concetto di “anormalità”, applicato sia alle nuove espressività contemporanee sia, parallelamente, ai vecchi dogmi psichiatrici, creando una continuità tra la dimensione artificiale e quella umana» (p. 175).

Nell’affrontare la malattia mentale, Viver lavora spesso sul patrimonio visivo ottocentesco rimodellandone esclusivamente la narrazione, la sequenza, l’interazione tra le immagini dando luogo a una struttura aperta in cui le fotografie cessano di presentarsi come semplice simulacro dell’istituzione psichiatrica prestandosi a un’indagine attenta della condizione umana.

Infine, Fogarolli, «per riflettere sull’immaginario non solo della malattia mentale, ma, più diffusamente, della devianza e dell’alterità, utilizza l’arte nella sua accezione più vasta, non riconducendola esclusivamente alla natura dell’immagine, ma estendendola alle sue materializzazioni installative, scultoree e performative» (p. 180).

Orsi domanda ai fotografi interpellati come pensano sia cambiato nel corso del tempo il rapporto tra fotografia e disagio mentale. Rispetto alla fotografia degli anni Sessanta, da cui tutto è partito, quella attuale, sostiene Berengo, mostra maggiore aggressività, «una tendenza a drammatizzare, a confezionare un’immagine da “pugno nello stomaco”» (p. 60), sia nel momento dello scatto che in quello della stampa, le immagini sembrano volere a tutti i costi generare angoscia. D’Alessandro sottolinea come mentre la sua generazione era stata espressione di un’identità collettiva desiderosa di partecipare alla ricostruzione fisica, sociale e culturale del Paese uscito da poco dalla guerra, la generazione attuale di fotografi sembra mancare di un’identità collettiva, di un orizzonte comune. «Il mio, quello di Berengo e Cerati, era un progetto d’intervento, un contributo alla consapevolezza sociale e civile. Con i fotografi che raccontarono quello che successe dopo è come se avessimo fatto un unico lavoro a più mani, ognuno ha fatto un pezzo» (p. 40).

Come D’Alessandro, anche Lucas, pur facendo riferimento nel suo caso alla generazione di fotografi che si è occupata dei malati di mente negli anni Settanta, mette in luce l’aspetto collettivo e partecipativo che animava la loro pratica. «Molti artisti ai giorni nostri trattano il tema della salute mentale, da un punto di vista scientifico, storico, anche concettuale, ma il loro sguardo è uno sguardo spesso intellettualistico, che non rispecchia un sentire politico e sociale comune, come invece successe per la nostra generazione» (p. 141). Dalla metà degli anni Settanta, secondo Coletti, nel rapportarsi con la malattia mentale, la fotografia ha spostato il suo focus «verso una resa dinamica della realtà, che andava a simboleggiare il processo di riacquisizione identitaria dei pazienti. I loro corpi non erano più colti nella loro immobilità, suscitando un sentimento di pietà nello sguardo di chi vedeva le immagini» (p. 153). Difficile dire, sostiene il fotografo, «se questo cambio di registro dipenda dall’evoluzione del linguaggio in sé o dal percorso intrapreso dalla “nuova psichiatria”» (p. 153). Venendo poi alla stretta attualità, a parere di Coletti, la fotografia sembra avere ormai perso il suo valore di denuncia e dovendo immaginare un lavoro fotografico su tali tematiche sarebbe meglio concentrarsi sulle storie intime dei pazienti seguendo da vicino il loro percorso quotidiano.

Terminata l’epopea in cui si pensava e si agiva credendo nella possibilità di grandi e radicali trasformazioni, gli artisti e i fotografi contemporanei, sostiene Turba, si trovano a pensare e agire in “scala ridotta” rispetto alla prospettiva basagliana, concentrandosi su comunità e contesti specifici. Circa gli indirizzi assunti negli ultimi tempi dall’iconografia mentale nelle arti visuali e nella fotografia, che ha condotto diversi autori a lavorare sugli archivi fotografici, Viver ritiene che, in generale, questi sembrano caratterizzati da una propensione a sperimentare liberamente percorsi di ricerca della realtà più profonda in reazione ad un periodo eccessivamente caratterizzato da un approccio razionalista, empirico e materialista.

Una volta abbandonato il manicomio concentrazionario, la psichiatria istituzionale ha introdotto nuovi metodi di gestione dei devianti basati sulle etichette diagnostiche e sulla prescrizione di psicofarmaci, trasferendo così il manicomio dalle mura direttamente alla testa degli individui. Viene così introdotto un nuovo tipo di manicomio basato sulla diagnostica, sulla catalogazione e sull’etichettatura identitaria applicata ad ampio raggio a chiunque risulti affetto da un disturbo o da una malattia mentale. A partire dalla ricostruzione dell’iconografia della malattia mentale proposta da Francesca Orsi, vale ora la pena di domandarsi quali strade prenderà in futuro il rapporto tra fotografia e psichiatria alla luce delle profonde trasformazioni che hanno toccato entrambe.


Sul rapporto fotografia/psichiatria:

Senza distogliere lo sguardo: Carla Cerati, La classe è morta. Storia di un’evidenza negata, Prefazione di John Foot. A cura di Pietro Barbetta. Postfazione di Silvia Mazzucchelli (Mimesis 2023).

Manicomi. Immagini di violenza istituzionalizzata: Gianni Berengo Gardin, Manicomi. Psichiatria e antipsichiatria nelle immagini degli anni settanta (Contrasto 2015)

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Elogio dell’eccesso / 10 – Straniero in terra straniera: Curzio Malaparte https://www.carmillaonline.com/2025/12/03/elogio-delleccesso-10-straniero-in-terra-straniera-curzio-malaparte/ Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91605 di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera [...]]]> di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera di riferimento culturale e letterario del primo, più che a quella dello scrittore friulano, era vicina alle esperienze di altri due autori e uomini di cultura europei quali Ernst Jünger (1895-1998) e André Malraux (1901-1976). Intellettuali colti e raffinati che, però, avevano tutti nascosto, sotto un tappeto di intuizioni spesso geniali e una patina di anticonformismo elitario, una contraddittorietà in materia politico-culturale talvolta disorientante e talaltra indisponente non solo per i semplici lettori, ma anche per i loro estimatori.

Interventista dalle radici anarco-nietzschiane nella Prima guerra mondiale e fascista della prima ora l’italiano che, però, alla fine della sua vita, dopo un soggiorno nella Cina di Mao, lasciò in eredità alla Repubblica Popolare la sua villa di Capri; giovanissimo volontario nella Legione straniera, autentico esteta e aedo della guerra che osservò e descrisse con lo sguardo di un entomologo, il tedesco, spesso avvicinato (forse a torto) al nazismo; avventuriero e ladro di tesori nelle colonie francesi dell’Estremo Oriente, poi militante anti-colonialista e comunista in Cina, combattente repubblicano in Spagna e, per finire, ammiratore e seguace di De Gaulle, fino a diventare Ministro della Cultura nel suo governo, il francese. Vite al limite si potrebbe dire, condotte da abili funamboli tutti attenti a non perdere mai la presa su una corda tesa nel vuoto, al di sopra delle catastrofi politiche e militari del XX secolo.

Nessuno dei tre poteva vantare le nobili origini che forse tutti avrebbero voluto poter rivendicare. Il più fortunato, dal punto di vista famigliare, fu forse Jünger, figlio di un imprenditore e chimico tedesco, mentre Malraux non avrebbe mai parlato con nessuno o avrebbe diffuso notizie inesatte su un’ infanzia passata in provincia con la madre e la nonna. Cosa cui avrebbe cercato di provvedere sposandosi nel 1921 con una ricca ereditiera di una famiglia ebraica di origini tedesche, la cui fortuna fu però rapidamente dilapidata da errati investimenti in borsa.

Erich Suckert, vero nome di Curzio Malaparte che aveva rinnegato in età adulta il cognome paterno, nacque invece a Prato da Edda Perelli e dal tintore sassone Erwin Suckert. Come terzogenito di sette fratelli, poco dopo la nascita fu affidato a balia alla famiglia dell’operaio tessile Milziade Baldi e di sua moglie, che lui avrebbe poi considerato come i suoi autentici genitori, mentre i pessimi rapporti con il padre tedesco avrebbero influenzato per tutta la sua vita una particolare antipatia verso la nazione e la cultura germaniche. Spingendolo così tra le braccia di quella francese. Un amore poi deluso, come dimostra il diario appena pubblicato da Adelphi, ma che lo spinse fin dalla dichiarazione di guerra del 1914 ad arruolarsi ancora sedicenne nelle fila, anch’egli, della Legione straniera.

Se queste sono, per così dire le origini del viaggio di Malaparte attraverso la Storia del ‘900. il Giornale di uno straniero a Parigi trasmette al lettore le impressioni dell’autore successive alla fine del secondo conflitto mondiale, al ritorno da un soggiorno in Francia tra l’estate del 1947 e la fine del 1949. Ma come lo stesso Malaparte ci avverte nel suo Abbozzo di una prefazione:

Ogni “giornale” è ritratto, cronaca, racconto, ricordo, storia. Delle note prese giorno per giorno non sono un giornale: sono momenti presi a caso nello scorrere del tempo, nel fiume del giorno, che passa. Un “giornale” è un racconto: il racconto di una tranche de vie (definizione di romanzo di una famosa scuola), di un periodo, un anno, più anni, della nostra vita. E poiché la vita segue la logica di un racconto, ha un inizio, uno sviluppo, una conclusione (una vita umana è una serie di inizi, di sviluppi, di conclusioni, all’interno del cerchio chiuso dell’inizio, dello sviluppo, della conclusione della vita, nel cerchio della vita). Non è vero che un “giornale” comincia a caso, si sviluppa a caso, non si conclude, se non con la fine della vita. Un giornale, come ogni racconto, comporta un inizio, un intreccio, uno scioglimento. L’argomento del Giornale di uno straniero a Parigi è il mio ritorno a Parigi dopo quattordici anni d’assenza, è la scoperta di una Francia nuova, di un popolo francese nuovo, è il ritratto di un momento, nella storia della nazione francese, della civiltà francese, che coincide con un momento particolare della mia vita, della storia della mia vita. Non pretendo di rinnovare il genere del “giornale”. Suggerisco soltanto che un giornale è un racconto, come è un racconto il teatro. E qui tocco il punto importante: un “giornale” è un’opera teatrale portata sulla scena della pagina. È il punto in cui il racconto si avvicina di più al teatro. Tutto vi tende a un fine, a una conclusione, secondo le leggi classiche dell’unità, ma attorno al personaggio che si chiama « io »1.

Le poche righe appena citate non servono soltanto come viatico per la comprensione del “diario” parigino di Malaparte, ma anche per quella di tutta la sua opera che, per quanto suddivisa tra articoli di giornale, cronache, diari, “romanzi”, sempre avrebbe rappresentato una sorta di palcoscenico sul quale intrecciare le vicende drammatiche oppure mondane comprese tra il primo conflitto mondiale e gli anni ‘50 del XX secolo con la vita dell’autore e le sue personali opinioni.

Si potrebbe, infatti, dire che se nell’opera di Ernst Jünger ogni evento ed osservazione si trasforma in distaccato giornale di osservazioni di carattere entomologico2, in Malraux ogni evento doveva per forza essere “romanzato”. Tanto da far rimettere spesso in discussione, da parte della critica o dei suoi avversari “politici”, molti aspetti delle sua presunta o autentica partecipazione agli eventi narrati con estrema dovizia di particolare (battaglie, massacri, insurrezioni, eroismi nelle guerre nell’aria e per terra). Una reinvenzione letteraria dell’esperienza personale che avrebbe spinto lo scrittore francese ad intitolare Antimemorie la sua autobiografia, pubblicata nel 1967, un abile e spregiudicato gioco letterario in cui la vita, gli incontri e le vicende di Malraux sono spesso nascosti o distorti ad arte, mascherati sotto l’immagine che di se stesso voleva dare al pubblico3.

Il testo di Malaparte, oggi edito da Adelphi, era invece rimasto tra le sue carte e fu pubblicato postumo nel 1966, a cura di Enrico Falqui, da Vallecchi nelle «Opere complete». Come afferma Monica Zanardo, in quella che può essere considerata come una postfazione all’edizione attuale, il Journal:

offre un sottile e disincantato spaccato della Francia del dopoguerra, dove l’autore aveva soggiornato tra il giugno del 1947 e la fine del 1949. Pensato per essere pubblicato in Francia e scritto per lo più in francese, il ‘diario’ malapartiano si ricostruisce cucendo una serie di fogli sciolti che denunciano stadi diversi di elaborazione [..]. È difficile dunque stabilire con certezza con quali tempi e modi Malaparte si sia dedicato alla composizione di questa sua opera, ma possiamo rilevare che, a dispetto del titolo, non ci troviamo di fronte a un journal in senso stretto.
Siamo ad esempio molto lontani da quel Giornale segreto dove, tra l’aprile del 1941 e l’ottobre del 1944, aveva registrato dialoghi e fatti di cui era stato testimone come corrispondente di guerra e che poi, opportunamente finzionalizzati, avevano nutrito la stesura di Kaputt.
[…] I materiali relativi al Giornale di uno straniero a Parigi, invece, non hanno nulla dell’annotazione cursoria ed estemporanea: le varie entrate si depositano in forma dattiloscritta a un livello di rielaborazione già avanzato, con un notevole scarto rispetto alla registrazione del dato puramente evenemenziale. Non si tratta per Malaparte – né mai è così per questo autore – di offrire un mero referto testimoniale o un affondo introspettivo: luoghi, date, persone e fatti sono per lui la materia grezza che solo l’arte del romanziere può rendere a tutti gli effetti viva e parlante; come già ricordava Falqui, nel Giornale parigino non v’è dunque « nulla di affidato unicamente alla trascrizione o rievocazione, cronachistica e basta, dell’episodio: incontro, invito, visita, conversazione, spettacolo o incidente che sia stato ». È del resto lo stesso Malaparte a sottolinearlo nella prefazione: « Un “giornale” è un racconto » dichiara, e del racconto assume di conseguenza tutti gli elementi di costruzione e narrativizzazione4.

Il tema conduttore del testo rimasto incompiuto è quello dell’estraneità vissuta dall’autore in quella che riteneva la sua seconda se non autentica patria, la Francia, dopo i cambiamenti intervenuti successivamente alla seconda guerra mondiale. Guerra che, comunque, lo avevano reso meno interessante per quelli che credeva essere gli “amici francesi”. E anche se non tutti lo avrebbero rifiutato, spesso nei suoi confronti avrebbero dimostrato la freddezza che si manifesta nei confronti di un nemico o ex-amico, proprio a causa della guerra scatenata nel giugno del 1940 dal regime fascista nei confronti del paese d’oltralpe, già sotto attacco da parte delle forze armate tedesche.

Così un Malaparte che, nonostante la partecipazione alla marcia su Roma e la firma apposta sul manifesto degli intellettuali fascisti, era sempre rimasto un elemento scomodo per il regime, come egli stesso afferma nel Journal – «Sono stato arrestato undici volte in vent’anni, non posso dormire tranquillo da nessuna parte, in Italia»5 – si ritrova apolide, lontano da quelle sponde che sperava volessero ancora accoglierlo e allo stesso tempo rifiutato da quell’Italia che, prima in armi poi sotto le bandiere mussoliniane e infine al servizio degli occupanti anglo-americani6, egli aveva sempre creduto di servire.

Un opportunista, certo e in maniera evidente, ma che per le sue idee era stato allontanato dal quotidiano «La Stampa» di cui era stato direttore, espulso del Partito Nazionale Fascista e condannato a cinque anni di confino all’isola di Lipari, anche se già nel 1934 il confino era stato commutato in soggiorno obbligato a Forte dei Marmi.

In particolare a disturbare, per così dire, il regime era stata, oltre che la sua vicinanza al fascismo cosiddetto di sinistra e a Giuseppe Bottai, la pubblicazione in Francia nel 1931 di un testo che in Italia sarebbe stato tradotto soltanto nel 1948: Technique du Coup d’État (Tecnica del colpo di Stato), sostanzialmente un manuale per la conquista del potere attraverso il rovesciamento dello Stato.

Nel libro, bruciato sulla pubblica piazza per volontà di Hitler ma che giunse a ventisette edizioni in Francia e fu tradotto anche in inglese, spagnolo, polacco e cecoslovacco, si analizza e critica sia l’ascesa al potere del Partito bolscevico in Unione Sovietica che di quello nazionalsocialista in Germania. Come ebbe modo di affermare lo stesso autore nel Memoriale scritto nel 1946:

Nel 1930, mentre ero direttore della «Stampa» […] invece di scrivere per il giornale articoli laudativi e cortigianeschi, dedicai il poco tempo che mi rimaneva libero a scrivere la Technique du Coup d’État per l’editore francese Bernard Grasset. […] Quando lasciai la «Stampa» nel gennaio del 1931, il libro era pronto ad andare in stampa e, conoscendo, la natura del libro, decisi di recarmi in Francia perché la sua pubblicazione non mi sorprendesse in Italia. […] L’edizione italiana fu proibita da Mussolini sia per il tono del libro, sia per il capitolo su Hitler e il nazismo. Esso è il primo libro apparso in Europa contro Hitler. Il successo del libro mi portò di colpo alla ribalta di celebrità internazionale. Furono pubblicati su di me centinaia di articoli, concesse centinaia e centinaia di interviste, ebbi inviti per conferenze, per collaborazioni, offerte per contratti editoriali, molte università, fra cui l’Università americana di Yale, mi invitarono a tenere corsi di lezioni sulla letteratura moderna europea. In Italia i giornali fascisti attaccarono il mio libro e io fui accusato di fuoruscitismo. Non sto a ridire le ingiurie di cui fui coperto7.

Affermazioni in cui si può riscontrare l’attitudine del Malaparte a mettersi al “centro del mondo”, in un senso molto prossimo a Malraux, ma anche la volontà di rimarcare le distanze “prese per tempo” dal regime. Come sottolinea ancora Giorgio Luti nella medesima introduzione:

Sta di fatto che l’opera nelle sue linee generali era già stata progettata prima della improvvisa «defenestrazione» dalla «Stampa» dovuta sicuramente all’atteggiamento di fiancheggiamento che Malaparte aveva assunto nei confronti delle rivendicazioni operaie in tutta l’Europa (si pensi alle corrispondenze dall’estero sullo scottante argomento a cui il giornale torinese concedeva larga ospitalità) e in particolare nella città sede della FIAT, cioè dell’industria i cui proprietari finanziavano il giornale8.

Quest’ultima osservazione induce a rilevare la complessità di una figura e di un percorso politico e intellettuale in cui, comunque, hanno sempre avuto un ruolo di rilievo i comportamenti contraddittori che spesso hanno caratterizzato molte personalità della cultura del ‘900, ma non solo. Motivo per cui occorre ancora ricordare come Enrico Falqui, in occasione della pubblicazione per Vallecchi, nel 1971, dell’allora ancora inedito Ballo del Cremlino dello stesso Malaparte9, si augurasse:

che finalmente fosse scaduto per lo scrittore pratese il tempo del «purgatorio» in cui lo aveva ingiustamente relegato la cultura italiana dell’epoca ormai lontana della repentina scomparsa nel luglio del 1957. Era tempo che nascesse – scriveva Falqui – l’occasione di impostare su altre basi un incontro che per troppo tempo e non certo per colpa di Malaparte, era stato rimandato sotto la spinta di equivoci e risentimenti che poco avevano a che fare con la cultura, con la letterartura e con l’arte. Cose che del resto capitano quando ci si incontra con uno scrittore che prima di tutto è stato un personaggio pubblico, un protagonista di primo piano della vita politica italiana del ventennio fascista e nei primi anni del dopoguerra: un intellettuale inquieto sempre in bilico tra «rosso» e «nero»10.

La riproposta delle opere di Malaparte, il cui elenco si potrebbe definire sterminato, intrapresa da diversi anni dalle Edizioni Adelphi forse risponde a questa necessità di riscoperta auspicata da Falqui ed è, come spesso accade per questo editore, sicuramente meritoria11. Tipica comunque di una casa editrice il cui principale artefice, Roberto Calasso (1941-2021), si era rivelato spesso altrettanto scomodo per la bigotteria culturale italiana, sia di destra che di sinistra.

Poiché quasi tutte le opere di Malaparte richiederebbero un’analisi ben più lunga di quello che lo spazio di una recensione come questa potrebbe loro dedicare, è necessario ritornare in chiusura al diario parigino del 1947-1949. Senza però dimenticare di ricordare che, tra i tanti passaggi di fronte che caratterizzarono sempre la vita dello scrittore, negli anni successivi al conflitto non poté mancare, come per tanti altri transfughi del fascismo di sinistra o del fascismo tout court, un tentativo di avvicinamento dello stesso al Partito comunista.

Con cui, per sollecitazione dello stesso Togliatti, avrebbe dovuto collaborare attraverso le pagine della rivista settimanale «Vie Nuove», cui inviò gli appunti redatti nel 1957, in occasione di un viaggio nella Cina comunista, dove, osservando la vita nelle città e soprattutto nel campagne, era rimasto affascinato dai fermenti rivoluzionari in atto e aveva avuto anche modo di intervistare Mao Zedong. Appunti che, però, non vennero pubblicati a causa dell’opposizione di Calvino, Moravia, e altri intellettuali, che avevano sottoscritto una petizione affinché “il fascista Malaparte” non potesse pubblicare su una ”rivista comunista”12.

Il diario francese è sicuramente di altro tenore e riporta immediatamente il lettore in quel mondo intellettuale, e spesso salottiero, che da sempre e non soltanto in Francia, aveva attratto lo scrittore per le storie infinite che ne potevano derivare. Come, ad esempio, quelle narrate dall’ambasciatore italiano in Francia, Quaroni, ma un tempo Ministro d’Italia in Afghanistan di cui conservava, come si trattasse di un viaggiatore del XVIII secolo, memorie straordinarie.

[Quaroni] mescola l’erudizione allo spirito della scoperta, la meraviglia dell’esploratore al diplomatico dotato di uno spirito d’osservazione nutrito di letture e di esperienze. Mi parla dei cavalli e dei cani del re dell’Afghanistan, della caccia reale, dei ricordi, ancora vividi, che Alessandro Magno ha lasciato in quelle contrade misteriose. Mi parla della straordinaria popolarità del poeta persiano ****, che ogni contadino afgano conosce a memoria. Ama l’Afghanistan, e quando gli dico che c’è una sola contrada al mondo che eccita la mia immaginazione, che c’è una sola contrada che vorrei visitare, dove vorrei vivere, ed è l’Asia centrale, l’altopiano dell’Altai, e le immense solitudini delle steppe persiane e afgane, del Turkmenistan, donde si vede all’orizzonte la linea di matita azzurra dell’Himalaya, sorride, deliziato. Amo i diplomatici, amo la loro compagnia, la loro conversazione. Solo i diplomatici, ai giorni nostri, possono prendere nella società il posto dei dotti gesuiti del XVII secolo, che tornavano dall’Oriente, dall’Africa, dall’America centrale, e che portavano con sé tutto un tesoro di conoscenza, la cui fragilità, la cui delicatezza, davano alle loro parole, quando parlavano di una montagna o di un fiume immenso, o di un deserto, o di un forte, o di un castello, l’impressione che parlassero di minuscoli, fragili, trasparenti oggetti di porcellana13.

Un giornale in cui alle intuizioni fulminanti, «Il cinema è la patria degli stranieri» (a proposito del cinema di Roberto Rossellini, p. 14), si accompagnano ricordi che riportano al clima successivo al primo grande macello imperialista di cui Malaparte fu attento cronista e magnifico cantore in un’opera, che nel 1921 costituì anche il suo battesimo letterario e che si spera le Edizioni Adelphi, in tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo, vogliano al più presto riproporre al pubblico: Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti14.

La prima opera a prendere una posizione decisamente opposta alla leggenda militarista e perbenista fondata sulla presunta viltà dei soldati italiani al fronte e che in realtà, come lo stesso Malaparte sottolinea facendone un’apologia, diedero vita ad una enorme ribellione disfattista che soltanto l’assenza di un partito volto al rovesciamento dell’ordine monarchico e borghese impedì che si trasformasse in autentica rivoluzione, così come era invece accaduto sul fronte russo nell’inverno tra il 1916 e il 1917. Un tema, quello dei patimenti dei militari al fronte e successivi alla guerra, che viene ripreso, come s’è detto poc’anzi, nelle pagine del Giornale là dove viene ricordato un episodio successivo alla fine della guerra, nel 1919.

Voglio bene a questi uomini, a questi Francesi: sono della mia stessa razza. Anch’io sono un uomo del 1914. Ma mi si stringe il cuore, al ricordo di come li vidi tornare a casa, dopo la guerra, dopo la vittoria, nel 1919. Tutte le volte che incontro di questi uomini, non posso difendermi dal ricordare quell’episodio. Era il primo maggio 1919, un grande comizio di protesta per la vita cara, per non so che, era stato organizzato in Piazza della Concordia. Da tutte le parti dell’immensa città, giungevano colonne e colonne di uomini ancora in uniforme bleu horizon, migliaia e migliaia di mutilati sorretti dai compagni, e folle enormi di anciens combattants, tutti in uniforme terrosa, stinta, sgualcita delle trincee. Nelle prime ore del pomeriggio, la Place de la Concorde era occupata da un immenso esercito di antichi soldati, da migliaia e migliaia di soldati fra i più valorosi del mondo. […] Erano i migliori soldati del mondo, i più tenaci, i più duri, i più ostinati, i più coraggiosi. Cantavano i loro canti di guerra, […] qua e là, sventolavano su quell’esercito bandiere rosse; i mutilati, ammassati sotto l’Hotel Crillon, agitavano le loro grucce, i loro bastoni. Era un esercito di veterani, pronto alla lotta, invincibile e vittorioso. Dalla terrazza dell’Hotel Crillon, mescolato alla piccola folla di spettatori delle delegazioni straniere per la pace, io contemplavo quell’immenso esercito, col quale avevo sofferto, combattuto. Erano i miei compagni di guerra, ero fiero di loro. A un tratto, dal giardino delle Tuileries, dalla Rue Boissy-d’Anglas, dalla Rue de Rivoli, dai Champs-Élysées, dal ponte, sbucarono folti gruppi di agenti, armati di sfollagente, che si gettarono su quell’invincibile esercito di veterani, li massacrarono, li bastonarono, li dispersero, li inseguirono a calci nel sedere. Quell’immenso, invincibile esercito di veterani fuggì, si disperse, sul pavé della sterminata Piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti, grucce, bandiere. Addossato a una colonna, io frenavo a stento le lacrime. Fu quel giorno che io sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra15.

Ma se l’autore sentiva ancora di essere vicino a quei francesi con cui aveva combattuto in passato, una fascia consistente di (ex-) amici e conoscenti non provava invece più lo stesso sentimento nei suoi confronti.

A sorprendermi un po’, e a turbarmi, è l’aria con cui mi guarda François Mauriac. Con uno sguardo di rimprovero, dall’alto, come se, dal nostro ultimo incontro, fossero accadute delle cose che mi si possano rimproverare. Faccio un rapido esame di coscienza. Non ho fatto niente di male, niente che mi si possa rimproverare, niente contro la Francia e i francesi, niente contro l’onore, la giustizia, la verità, la libertà, niente contro François Mauriac. In tutti questi anni, ho sofferto come tutti, ho passato diversi anni in carcere, come molti. Per me, François Mauriac è rimasto lo stesso. Perché io non sono lo stesso per François Mauriac? Ah, sono italiano. Il mio paese ha dichiarato guerra alla Francia, i soldati del mio paese hanno occupato dei territori francesi. Ecco. Ma quando ero nel carcere di Regina Coeli, quando ero a Lipari, quanti francesi salivano la scalinata di Palazzo Venezia e andavano a rendere omaggio a Mussolini. Politici, scrittori, francesi di ogni sorta. Comunque sia, non serbo loro rancore, erano nel loro diritto16.

Come il personaggio di un romanzo di Robert Heinlein, Malaparte, pur ispirato da buoni propositi e nostalgici sentimenti si sente “straniero in terra straniera”, ormai sia in Italia che in Francia17. Un destino che lo accomuna a molti profughi e superstiti della catastrofe del ‘900 europeo che determinò la fine del predominio delle culture e delle economie europee sul resto del mondo, nonostante lo sforzo di estenderlo e difenderlo con una seconda guerra mondiale che, però, finì soltanto col determinare la fine del colonialismo europeo; mentre la successiva lunga pausa illusoria di pace e prosperità globale, almeno dall’inizio del XXI secolo, sembra essersi fatta sempre più labile e incerta.

Per comprendere molti aspetti di un presente dalle radici molto profonde e sparse la lettura di molte opere di Malaparte, tra cui quest’ultima, si rivela illuminante e necessaria, nonostante lo stigma che, come per Céline, non a caso lo colpì, come si è già detto, negli anni del secondo dopoguerra.

Céline e Malaparte furono scrittori emblematici per la singolarità delle loro esistenze e il carattere peculiare della loro letteratura che si situa al centro dei dibattiti socio-ideologici della loro epoca; scrivere è un modo per definirsi attraverso il rifiuto e la solitudine, è il desiderio di un io che rigetta la società e vuole esprimere la propria denuncia attraverso la letteratura. Gli autori riusciranno quindi con questa loro pretesa di verità, di critica continua espressa senza alcuna moderazione, a farsi criticare, censurare e addirittura esiliare. Il pensiero di Malaparte e Céline si basa su un’osservazione critica e attenta della società in cui vivono, osservazione che i due scrittori riescono a rendere attraverso una scrittura molto elaborata e personale. La loro critica va alla storia scritta dai potenti, nel tentativo di mettere in scena la tragedia della povertà e della sottomissione ai poteri invisibili, lasciando spazio a chi nella storia non ha nessuna autorità, buttando giù le false verità e la facile retorica. I due autori, di cui non è immediato trovare la chiave di interpretazione, propongono quindi una riflessione sul rapporto tra gli uomini, sulla relazione tra l’individuo e il potere politico-economico, sempre mostrando una coscienza della lingua e del loro ruolo di scrittori che li rende estremamente interessanti nel contesto letterario del primo Novecento e che non ha smesso di affascinare i critici sino ai giorni nostri. Céline e Malaparte, come molti romanzieri loro contemporanei, esprimono il rifiuto del mondo, coscienti dell’impossibilità di salvarsi dal disastro che la guerra ha lasciato: l’uomo ha mostrato la sua crudeltà, si è denudato ed ogni forma di coesione e di unione è crollata. In tale contesto disastrato i due letterati si mostrano solitari, individualisti nelle loro scelte, avversari di ogni chiesa e partito. La loro è anche scrittura di immersione nel marcio della società, tra gli sventurati, attraverso uno stile singolare ed un lessico aspro e dirompente18.

Una poetica che, per quanto riguarda lo scrittore italiano, si manifestò violentemente e visionariamente nelle sue due opere più celebri: Kaputt (1944) e La pelle (1949). La prima delle quali fu definita dallo stesso Malaparte come «un libro crudele. La [cui] crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra».

Maria Antonietta Macciocchi, iniziale destinataria degli appunti sulla Cina cui si è accennato più sopra e che gli fu vicina negli ultimi momenti della vita, ha ricordato in un convegno tenutosi a Prato nel 1987, a trent’anni dalla scomparsa dello scrittore, che almeno in Francia l’«anno malapartiano» aveva ricevute cospicue e convinte adesioni da parte di molti intellettuali e tre intere pagine dedicate allo stesso dal quotidiano «Le Monde», tutte tese a rompere il silenzio ufficiale intorno all’«infame Malaparte»19.

La Macciocchi può avere ragione nell’estendere a tutti o quasi gli intellettuali italiani il cliché di fascisti pentiti dopo il colpo di bacchetta magica del 25 luglio, e pentiti senza esami di coscienza, ma con opportunistici colpi di spugna, che escludevano per l’intelligenza italiana esiti tragici come quelli di Drieu de la Rochelle, di Brasillach o di Céline, donde il «regolamento di conti» della società dei colti ai danni di un suo adepto, che «rompeva tutti gli schemi del vecchi provincialismo, e si ricollegava a grandi momenti complessi del pensiero e della vita, talora contraddittori, fatti di abiure e di speranze, di negazione della fede e di fede, vale a dire di un uomo che riassumeva in sé la fantastica razionalità dell’europeo e l’irrazionalità del «maledetto toscano». In altre parole Malaparte amplificava in modi addirittura spettacolari il percorso […] che era stato di molti, quasi di tutti, «oberato in patria di tutti i “vizi” della sua generazione, e dell’intero ceto intellettuale italiano», e si attirava perciò i fulmini dalla corporazione delle lettere e delle scritture20.

Con buona pace di Alberto Moravia che con il suo “stile” velenoso lo aveva invece definito scrittore strumentale perché lo scrivere libri «gli consentiva di brillare con le donne nei salotti», mettendosi «in smoking»21.


  1. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 9-10.  

  2. L’entomologia fu una grande passione dello scrittore tedesco che alle osservazioni degli insetti dedicò numerose pagine e momenti della sua vita “privata”. Nel testo Cacce sottili (Guanda, 2022) è riassunta la storia di questa passione cui Jünger non cesserà di dedicarsi per tutta la vita: negli anni della guerra come nel corso di viaggi in Italia, nel Medio Oriente, in Asia. Gli insetti offrirono sempre allo scrittore occasione di riflessione sul tempo e sul mutare del volto della natura, sui desideri umani, sulla ricerca inesausta, infaticabile, del sapere e del piacere. Il mondo sottile degli insetti, scenario di bellezza e crudeltà, diventava così una metafora del cosmo. E dei suoi drammi.  

  3. A. Malraux, Antimemorie, Bompiani, Milano 2022.  

  4. M. Zanardo, Straniero in due patrie: Curzio Malaparte a Parigi, in C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, op. cit., pp. 415-416.  

  5. C. Malaparte, op. cit., p. 14.  

  6. Dopo aver rifiutato nel settembre del 1943 l’adesione alla RSI, nel novembre dello stesso anno era stato arrestato dal Counter Intelligence Corps (CIC), il controspionaggio alleato, per le sue attività diplomatiche e da allora aveva iniziato a collaborare col CIC.  

  7. Cit. in G. Luti, Il cronista dell’Europa «catilinaria», Introduzione a C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Vallecchi Editore, Firenze 1994, pp. 22-23.  

  8. G. Luti, op. cit., p. 23.  

  9. C. Malaparte, Il ballo al Kremlino (Materiale per un romanzo), Adelphi Edizioni, Milano 2012.  

  10. G. Luti, op. cit., p. 19.  

  11. Di Curzio Malaparte fino ad oggi le Edizioni Adelphi hanno ripubblicato, oltre al già citato Ballo al Kremlino: Il buonuomo Lenin (2018), Maledetti toscani (2017), La pelle (2015), Kaputt (2014), Tecnica del colpo di Stato (2011) e Coppi e Bartali (2009).  

  12. In realtà le note dei viaggi in Russia e in Cina di Malaparte, furono pubblicate, a cura di Giancarlo Vigorelli, l’anno successivo alla sua morte da Vallecchi Editore: C. Malaparte, Io, in Russia e in Cina, Firenze 1958.  

  13. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, pp. 17-18.  

  14. C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (secondo il testo della prima edizione del 1921),Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  15. C. Malaparte, Giornale, op. cit., pp. 38-39.  

  16. Ivi, pp. 22-23.  

  17. R. Heinlein, Straniero in terra straniera (titolo originale Stranger in a Strange Land, prima edizione 1961), Fanucci, Roma 2025.  

  18. L. Libeccio, Céline, Malaparte. Malaparte, Céline: una poetica del disincanto, «Cahiers d’études italiennes», 24/2017.  

  19. M. A. Macciocchi, Ricordo di Malaparte scrittore europeo, in Malaparte scrittore d’Europa. Atti del convegno (Prato 1987) e altri contributi, Marzorati Editore- Comune di Prato, 1991. 

  20. M. Biondi, I giorni dell’ira: «Viva Caporetto!» Apologia di una disfatta, Inroduzione a C. Malaparte, Viva Caporetto!, op. cit., pp. 10-11.  

  21. Cit. in G. Grana, Il «camaleonte» e il sistema letterario italiano, in Malaparte scrittore d’Europa, op. cit., p. 2.  

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Le grandi storie della fantascienza https://www.carmillaonline.com/2025/12/02/le-grandi-storie-della-fantascienza/ Tue, 02 Dec 2025 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91244 di Valerio Evangelisti

[Il testo che segue riunisce due scritti pubblicati dall’autore su “Carmilla online” il 24 Gennaio 2009 e il 28 Marzo 2009, quando presso Bompiani erano apparsi 12 volumi, sui 20 previsti, de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov. Questi sono i testi introduttivi pubblicati nel risvolto di copertina. Assieme, formano una difesa di un genere letterario tra i più importanti del nostro tempo. Di seguito le prefazioni ai volumi da 1 a 10.]

1. Il nome Isaac Asimov è divenuto sinonimo di fantascienza. Nessuno come lui ha saputo rendere familiari ai lettori le dimensioni sconfinate [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Il testo che segue riunisce due scritti pubblicati dall’autore su “Carmilla online” il 24 Gennaio 2009 e il 28 Marzo 2009, quando presso Bompiani erano apparsi 12 volumi, sui 20 previsti, de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov. Questi sono i testi introduttivi pubblicati nel risvolto di copertina. Assieme, formano una difesa di un genere letterario tra i più importanti del nostro tempo. Di seguito le prefazioni ai volumi da 1 a 10.]

1.
Il nome Isaac Asimov è divenuto sinonimo di fantascienza. Nessuno come lui ha saputo rendere familiari ai lettori le dimensioni sconfinate dell’universo, e trascinarli in viaggi vertiginosi tra le galassie. Dunque, era il più titolato per scegliere le storie di fantascienza definibili come “grandi”. La sua attenzione, è ovvio, si concentra sulla cosiddetta “età d’oro”: quando, su rivistine popolari americane stampate su pessima carta, si concentravano idee, visioni allucinate ma credibili, proiezioni critiche del presente. Si era alle soglie degli anni ’40, ma già un pugno di scrittori intelligenti sollevava problematiche che sarebbero divenute attuali ai giorni nostri.
Asimov si concentra su Astounding Science Fiction, la pubblicazione diretta da John W. Campbell a partire dal 1937. Una palestra di testi sempre stimolanti e ben scritti, a firma dello stesso Asimov, di Robert A. Heinlein (i migliori della scuderia), di Jack Williamson, di Alfred E. Van Vogt, di Henry Kuttner. In Italia sarebbero approdati quindici o vent’anni dopo la loro prima apparizione. Avrebbero condizionato, ma in senso liberatorio, l’immaginario di decine di migliaia di giovani lettori. Lo avevano già fatto in patria.
In questo primo volume, alcuni racconti davvero memorabili. Il distruttore nero di A. E. Van Vogt (maestro di Philip K. Dick), che diverrà il primo capitolo del suo romanzo Crociera nell’infinito. Il triangolo quadrilatero di William F. Temple, un gioco d’ingegno irripetibile. E le prime narrazioni geniali di Heinlein1, di Theodore Sturgeon, dello stesso Asimov. Che cosa si vuole di più?
La fantascienza di allora non poteva saperlo, ma stava per divenire parte imprescindibile della letteratura.

2.
In questo secondo volume de Le grandi storie della fantascienza, Isaac Asimov continua l’esplorazione del periodo memorabile, alle soglie e a cavallo degli anni Quaranta del secolo scorso, in cui un genere letterario creduto marginale riuscì a conquistare l’immaginario di intere generazioni e a perpetuarsi fino ai giorni nostri.
Merito soprattutto di Astounding Science Fiction, la rivista diretta da John W. Campbell, che impose ai propri autori un rigore stilistico trascurato dalle pubblicazioni precedenti, senza tuttavia limitare la carica visionaria dei loro racconti.
Si formò quindi, negli Stati Uniti, uno straordinario gruppo di scrittori che comprendeva lo stesso Asimov, Robert A. Heinlein, Fritz Leiber, Theodore Sturgeon, A.E. Van Vogt e molti altri. A volte il tono era realistico, altre volte beffardo, altre ancora sognante (soprattutto nella rivista gemella di Astounding, Unknown). La costante era la ricchezza di idee, di spunti, di sguardi inediti, ispirati allo sviluppo di scienza e tecnologia ma non appiattiti su di esse.
Si usciva dunque dalla narrativa detta “di anticipazione” e si entrava nella fantascienza moderna, attenta ai cambiamenti della società sotto l’impatto di mutazioni tecnologiche o ambientali. L’elemento puramente avventuroso veniva dunque messo al servizio di un discorso quasi filosofico, in cui il futuro era metafora del proprio tempo.
Alcuni racconti scelti da Asimov (Requiem di Heinlein, La cosa di Sturgeon, La cripta della Bestia di Van Vogt, Uno strano compagno di giochi, dello stesso Asimov, ecc.), anche quando restano nel campo del puro intrattenimento, dimostrano una maturazione rilevante: solo pochi anni prima tante opere di fantascienza sarebbero state del tutto diverse, sciatte, scritte alla meno peggio, tese a descrivere improbabili (o probabili) invenzioni.
Senza queste “grandi storie”, la fantascienza sarebbe morta nel giro di pochi decenni, e non avrebbe contribuito a modellare il modo in cui, oggi, guardiamo il mondo.

3.
Il terzo volume de Le grandi storie della fantascienza, curato da Isaac Asimov, è in assoluto tra i più convincenti. Contiene infatti almeno tre gioielli: il mitico racconto Nightfall (“Cade la notte”) dello stesso Asimov, ritenuto una delle migliori storie brevi che la science fiction abbia mai prodotto; And He Built A Crocked House (“Ed egli costruì una casa deforme”), di Robert A. Heinlein: un racconto semplicemente geniale, mille volte riproposto; e, dello stesso Heinlein, Universe, all’origine di un romanzo omonimo che tuttora affascina e sorprende.
Asimov, Heinlein; e, oltre a questi due giganti, gli altrettanto grandi Fredric Brown, Theodore Sturgeon, A. E. Van Vogt, Alfred Bester, ecc. Erano gli anni ’40, la seconda guerra mondiale era imminente, ma su rivistine quasi artigianali si stava solidificando il genere narrativo che avrebbe dominato, a livello popolare, la fine del XX secolo e gli inizi del XXI. Capace di guardare al futuro, a volte remotissimo, senza scordare le inquietudini del presente. Anzi, trasportandovele.
Asimov, Van Vogt, Heinlein, Sturgeon e i loro colleghi, uniti tra loro da una comune marginalità rispetto al mondo ufficiale delle lettere, forse non sapevano nemmeno di dar vita a ciò che sarebbe diventato non solo letteratura, ma anche costume. Davanti ad antiquate macchine da scrivere battevano, per pochi soldi, i loro sogni e i loro incubi. Quelli che oggi ci ritroviamo, con pochissime varianti, nel cinema, nella televisione, nella pubblicità, nei fumetti, nei videogiochi.
Questa antologia è di una freschezza sorprendente. Pullula di idee e di visioni. Nessun critico serio dovrebbe prescinderne, non per cogliere l’avvenire, ma per interpretare il mondo che lo circonda. Sessantacinque anni fa un manipolo di scrittori, ignorato dai critici, vi aveva riflettuto. Si potrebbe dire altrettanto per ciò che si scrive oggi?

4.
Continua, sotto la qualificata guida di Isaac Asimov, l’esplorazione de Le grandi storie della fantascienza, ormai giunta al quarto capitolo. Storie che genereranno altre storie. Sono presenti, in questo quarto volume, racconti che saranno all’origine di cicli di romanzi memorabili. Da Fondazione dello stesso Asimov nascerà la famosa e omonima “trilogia galattica”, destinata in seguito a ramificarsi ulteriormente. Da Il negozio d’armi di A.E. Van Vogt prenderà vita il ciclo rutilante dei Negozianti d’Armi, aperto dall’indimenticabile Le armi di Isher.
Saghe stellari vertiginose, ospitate negli anni ’40 sulle riviste di John W. Campbell jr. Astounding e Unknown. Tuttavia, come antologista, Asimov si rivela duttile e si spinge oltre il genere avventuroso da lui coltivato. Troviamo così testi di Fredric Brown, maestro del racconto breve e fulminante, dell’ironico Lester del Rey, del complesso Alfred Bester e di molti altri.
A quei tempi nessuno poteva immaginare che la fantascienza, da genere popolare coltivato da una minoranza sia pur consistente di lettori, si sarebbe espansa al punto da invadere ogni campo mediatico: dal cinema alla televisione, dalla pubblicità ai videogiochi, dal fumetto alla musica, fino a divenire una componente essenziale della cultura contemporanea.
Il segreto di una tale vitalità va ricercato nelle pagine di questa antologia. Un’intera generazione di giovani scrittori americani, ancora oscuri e malpagati, profittavano della libertà che una condizione marginale offriva loro per tentare esperimenti arditi e affrontare tematiche assolutamente inedite, con la sola arma dell’intelligenza. Era una vera rivoluzione narrativa quella che silenziosamente, col mondo già travolto da un conflitto spaventoso, si stava preparando. Chi la tentava non poteva ancora sapere che si sarebbe trasformata in una rivoluzione di costume, capace di modificare il modo di vedere e di descrivere l’esistente con un impatto che nessun’altra forma letteraria aveva mai avuto.

5.
1943. Si è nel pieno di una guerra mondiale dagli esiti ancora incerti. Quasi tutti i migliori scrittori americani di fantascienza sono al fronte. Eppure Astounding e le altre riviste di sf seguitano a uscire, e propongono nuovi nomi e nuovi racconti.
Isaac Asimov dedica al 1943 questo quinto volume de Le grandi storie della fantascienza, e la messe è ricca. Degli autori più popolari figurano solo Van Vogt e Lewis Padgett (pseudonimo di Henry Kuttner, spesso in compagnia di Catherine L. Moore). Poi Leigh Brackett, moglie di un altro scrittore presente nell’antologia, Edmund Hamilton. Famosa anche come sceneggiatrice di film noir e di fantascienza, tra cui L’impero colpisce ancora di George Lucas.
C’è anche la riconferma di Fredric Brown quale maestro del racconto brevissimo e crudele. Più nuove scoperte: Peter Schuyler Miller, attivo da oltre un decennio nella rete dei fan, o l’inglese Eric Frank Russell, versato nell’ironia, proposto finalmente come merita al pubblico americano. Si obietterà che, del conflitto in corso, non ci sono in questi racconti che impalpabili riflessi. Il fatto è che la fantascienza aveva trattato di guerre mondiali fin dalla nascita — si pensi a La guerra dei mondi di Wells, parabola eloquente del disfacimento dell’impero inglese — ed era abituata a guardare lontano. Nelle pieghe dei racconti si troveranno spunti e problematiche inerenti non alla guerra, bensì al dopoguerra.
La fantascienza ha dunque valore profetico? No, per nulla. Semplicemente si guarda intorno, scopre linee evolutive e ne fa oggetto letterario. Certo, ogni tanto divaga, sogna, si abbandona alla fantasia più bizzarra. Ma chi non lo farebbe, mentre è in corso il più grave conflitto nella storia dell’umanità?
Chiamiamola evasione, se vogliamo. Dove evasione significa distogliersi da un presente intollerabile e chiedersi cosa potrà avvenire dopo.

6.
Il sesto volume de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov, comprende racconti scritti nel 1944, quando la seconda guerra mondiale volgeva al termine e già si intuiva chi ne sarebbe uscito vincitore. Include un racconto che fece scalpore, e contribuì ad attirare l’attenzione sul più eclettico dei generi letterari: Termine ultimo, di Cleve Cartmill.
Non un grande autore, né un grande racconto. Tuttavia vi era descritta molto in dettaglio una bomba potentissima assai simile alla bomba atomica che gli scienziati del Progetto Manhattan, a Los Alamos, stavano elaborando in segreto. Cartmill si trovò alle prese con l’FBI, sospettato di collaborare con il nemico. Poi l’accusa cadde, e restò alla fantascienza l’aura leggendaria di essere narrativa profetica.
Alcuni vi si crogiolarono, eppure mai nomea fu tanto falsa. Lo dimostrano altri testi dell’antologia, come quelli firmati da Clifford D. Simak. Soprattutto City sarà l’incipit di un romanzo memorabile, trasognato e malinconico, che tratta del lento prevalere delle formiche sugli umani, fino al costituirsi di una società ibrida.
Una fantasia poetica, una fuga da una realtà sanguinosa e bestiale? No, per niente. Il conflitto che si stava combattendo in Europa era proprio contro chi intendeva disciplinare gli uomini come formiche. Simak, pur usando la metafora, era in fondo più realistico di Cartmill. Non descriveva bombe future, bensì scenari presenti trasfigurati. La solita operazione condotta dalla migliore fantascienza e dalle sue “grandi storie”.

7.
E’ il 1945 e il secondo conflitto mondiale volge al termine. Scrittori di fantascienza tornano dal fronte; altri, esentati dall’ecatombe, continuano a scrivere come se nulla fosse; altri ancora si preparano a una fase ulteriore, la “guerra fredda”, che scoppierà di lì a poco.
Nessuno di loro forse immagina che la catastrofe più grande nella storia dell’umanità — stermini basati sull’appartenenza a una presunta “razza”, mezzi terrificanti di massacro, armate in lotta su ogni quadrante del mondo — rilancerà la fantascienza. Genere trascurato, e tuttavia capace di descrivere, sia pure in via metaforica, grandi sistemi in lotta. Cosa che la letteratura mainstream non riesce a fare se non di rado.
Il settimo volume de Le grandi storie della fantascienza, a cura di Isaac Asimov, riflette bene la transizione in corso. C’è il recupero insistito di un caposcuola della sf degli anni Venti, Murray Leinster. Generazioni hanno sognato sulle sue forse ingenue fantasie, zeppe di scienziati brillanti, di astronavi misteriose, di messaggi enigmatici provenienti dallo spazio, di energia positivista. Ma ci sono anche, molto più problematici, Fredric Brown, Lewis Padgett, Fritz Leiber e molti altri. Quasi un’antitesi a Leinster. Quale futuro luminoso, dopo una guerra che aveva imbruttito e fatto sanguinare il mondo intero?

8.
Il discrimine è la bomba atomica. Nel 1945 la si subiva, nel 1946 la si riconsidera. Una previsione della fantascienza si è avverata: esiste un’arma capace, si suppone, di distruggere il mondo conosciuto. E, spenta la guerra aperta, sta per aprirsi l’era della guerra fredda.
L’ottavo volume de Le grandi storie della fantascienza, curato da Isaac Asimov, riflette il momento di transizione. Il testo fondamentale è il racconto Monumento, di Theodore Sturgeon, dedicato alla bomba definitiva e allo sviluppo logico del suo uso. Non si troveranno molti riferimenti a quel cambiamento epocale, nella narrativa corrente dello stesso periodo. Solo la science fiction, attenta alla tecnologia, intuisce che si sta entrando in un periodo storico totalmente inedito.
Lo testimoniano anche gli altri racconti antologizzati, di Ray Bradbury (una nuova stella destinata a future glorie), dello stesso Asimov, di Arthur C. Clarke, di Henry Kuttner, che morirà pochi anni dopo, di altri ancora.
Si è alle soglie di un revival della fantascienza. Non perché, in un mondo in rovine, ci si distragga a pensare futuri remoti. E’ vero il contrario. La fantascienza è, più di ogni altra forma narrativa, ancorata al presente. Guarda lontano in quanto le contingenze storiche impongono di farlo. La visione non è molto ottimistica, ma ciò non dipende dagli scrittori.
Non sono stati loro a fare del fungo atomico il simbolo degli anni a venire.

9.
Nel nono volume de Le grandi storie della fantascienza, Isaac Asimov comincia a raccogliere le inquietudini che, nel dopoguerra, serpeggiano nella società americana, come in ogni altra società. E’ il 1947, l’euforia per la guerra vinta dalle potenze antifasciste si sta attenuando. Sorgono altri problemi, che dividono gli stessi vincitori: politici, geopolitici, sociali.
La fantascienza di stampo avventuroso resta appannaggio di un Jack Williamson, che aggiorna le formule degli anni ’20, mentre quella che pare occuparsi di pura tecnologia ha in Arthur C. Clarke il più illustre esponente.
Accanto a questi nomi ne emergono altri, e nuove tendenze ancora embrionali. Sturgeon e Bradbury paiono interessarsi più all’uomo che agli “effetti speciali”. Il quasi esordiente William Tenn, con il suo caustico umorismo, mette in luce i difetti della società che lo circonda, e anticipa la science fiction che verrà.
E’ un disagio collettivo, quello che mettono in luce, a volte trasfigurato in ironia, gli scrittori che Asimov chiama a raccolta: da un veterano come Lewis Padgett (pseudonimo di Henry Kuttner, quando scrive con la moglie Catherine L. Moore) all’inglese Eric Frank Russell.
Rispetto alla fantascienza delle origini, quella del secondo dopoguerra è profondamente diversa. Niente positivismo, piuttosto smarrimento. Carenza di finali lieti. E, se c’è da divertirsi, sarà un ghigno, più che una risata.

10.
Nel 1948 la fantascienza americana è in piena forma, anche perché gli Stati Uniti sono emersi dalla guerra come la maggiore potenza mondiale, grazie a una tecnologia rimasta intatta e incentivata dal conflitto. Pare aprirsi una fase di espansione senza limiti, si respira ottimismo. Nessuno dubita che l’esplorazione degli spazi, cui stanno già lavorando scienziati nazisti passati al nemico, possa tardare.
Naturalmente il progresso ha come sempre un lato oscuro. L’Unione Sovietica, da alleata che era, si è trasformata in rivale (per fortuna non ha ancora la bomba atomica), il comunismo si espande e lambisce l’Europa occidentale, il maccartismo fa la sua apparizione, limitata per il momento al mondo del cinema. L’uccisione, all’inizio dell’anno, del mahatma Gandhi, che Asimov ricorda nella prefazione, sembra preannunciare la fine di un periodo di pace durato solo due anni.
La fantascienza, narrativa intrinsecamente ambigua, da un lato vive di ottimismo, dall’altro si alimenta di tensioni. Prevale il gusto dolceamaro, nel decimo volume de Le grandi storie della fantascienza. Gli autori antologizzati da Asimov, dal Ray Bradbury di Marte è il paradiso!, che colpirà profondamente un giovane Stephen King, al caustico Fredric Brown, all’epico Van Vogt, a molti altri, tra esordienti e veterani, non adottano l’uno o l’altro registro, ma spesso li fondono tra loro. Perché dolceamara è la società occidentale che, fuori delle camere in affitto in cui lavorano, sta prendendo forma.


  1. Per una questione di diritti, nessun racconto di Heinlein, tra quelli citati qui e in seguito, figura effettivamente nell’antologia. Circostanza ignota al prefatore, che aveva tra le mani l’originale americano. 

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Cartoline cinesi ep. 1 – Ferro e led https://www.carmillaonline.com/2025/12/02/appunti-cinesi-ep-1-ferro-e-led/ Mon, 01 Dec 2025 23:04:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91737 di Jack Orlando

Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe. Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto. Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe [...]]]> di Jack Orlando

Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe.
Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto.
Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe e visi spigolosi avrebbero suscitato sempre meno ilarità; annunciando morte, sfruttamento e rapina.

Ora le vecchine lungo il marciapiede ridono delle barbe del gruppetto di laowai, stranieri, gesticolano indicandosi le guance e vociano assolutamente incuranti dell’abisso linguistico che le separa dai loro interlocutori, né dei loro sguardi interrogativi.
Nessuno ormai può ignorare la Cina, eppure fuori dai circuiti canonici di Pechino, Hong Kong, Shangai è ancora abbastanza difficile vedere facce da occidente. La qual cosa è assai spesso motivo di risate e generale euforia.

Durante il Secolo delle umiliazioni c’era poco da sghignazzare in faccia a un occidentale. Il vanto di una cultura millenaria e raffinata, di una consolidata attitudine allo scambio e all’interazione con l’altro non avevano presa sulle facce barbute.
L’efficienza, specialmente militare, era l’unica cosa che comprendevano e l’interesse era rivolto verso le ricchezze che potevano riportare alle proprie coorti.
Gli stivali delle truppe d’Europa hanno globalizzato il mercato mondiale al prezzo di un olocausto seriale. Vite in cambio di oro, sangue per tessuti, lacrime per spezie e orfani per terreni.
E la Cina ha conosciuto a fondo e per lungo tempo cosa significasse avere a che fare con gli europei.
Il Secolo delle umiliazioni è terminato, per la precisione nel 1949, con la vittoria della rivoluzione comunista del presidente Mao e un costo spaventoso in termini di vite umane, un tributo pesante pagato al dio dell’autodeterminazione, cui se ne aggiungeranno parecchi altri alle Parche della modernizzazione. Ma oggi le vecchiette possono ridere delle facce dei laowai e proverebbero ben poca impressione davanti alle piccole città da cui sono arrivati.

Chongqiing è infatti una megalopoli grande pressappoco quanto l’Austria, con oltre trenta milioni d’abitanti. Diversi paesi europei hanno una popolazione totale più ridotta di questa.
Un macroscopico labirinto di cemento, vetro e acciaio, inondato dai neon e dal vociare dei megafoni. Le piazze possono inaspettatamente essere il tetto di un palazzo e una strada asfaltata corre trenta piani sopra un’altra, sottopassaggi diventano centri commerciali che a loro volta sfociano in stazioni metro e lungofiumi.
Delirio architettonico pluridimensionale.

La città si codifica in livelli differenti e perennemente intrecciati, mostra i suoi grattacieli e li fa svettare in pirotecnici giochi di luci e droni, ogni sera tra le 20:00 e le 23:00 circa, come le altre città; a beneficio degli occhi un popolo che a quanto pare ha sviluppato una fissazione per tutto ciò che è luminoso.
E allo stesso tempo nasconde nel loro ventre alveari di vita produttiva, gettati alla rinfusa tra lusso e abbandono, dove lo stesso edificio ospita alberghi, condomini, cliniche, discoteche e dio sa cos’altro, tanto da poterci vivere senza mai conoscere completamente la destinazione d’uso del proprio palazzo.

Non è semplicemente lo sviluppo economico a intagliare le forme e, fortunatamente, non tutte le metropoli del paese sono così tortuose.
Le antiche fortificazioni fluviali dei diversi centri di Chongqing si inerpicavano lungo la collina a gradoni attraverso case a palafitta, diaojiaolou, producendosi in vicoli, scale e terrazzamenti dove le finestre delle case affacciavano per lo più verso l’interno nei tentacolari budelli della costruzione. Un ventre di undici piani. Botteghe e mense sopperivano alla carenza di spazi domestici vivibili, i bagni erano – e spesso ancora sono – pubblici. Una forma di vita collettiva e alvearica che conservava il germe di quella che è oggi l’esperienza di massa.

Hongyadong è un esemplare di questa forma, anche se è difficile definirlo originale visto che i suoi edifici hanno appena un ventennio. Diventato obsoleto e fatiscente, dopo essere stato per secoli fortezza, mercato e condominio; con i suoi abitanti trasferiti in nuovi edifici popolari, il complesso è stato abbattuto e poi ricostruito ampliando la pianta originaria.
L’attraversamento di Hongyadong non ha nulla dell’esperienza storica, almeno per lo standard europeo settato sulla conservazione museale, che rimane allibito da un dedalo di scale e viuzze che ora traboccano di merci, di corpi in cerca di consumo e di schiere di ragazzine in finti abiti tradizionali che si mettono in posa per farsi un photobook nella vecchia rocca ora invasa dalle luci.

L’occhio è soggetto alla pressione di una contraddizione poliforme che inonda lo spazio visivo. La cura maniacale dello spazio pubblico, di cui pure sembra esserci un discreto orgoglio, è frustrata dalla decisa incuria degli spazi privati.
La pianificazione, cardine che determina lo sviluppo economico del paese è assi difficile da vedere, tanto più che la città non ha mai lo stesso volto, nemmeno in relazione allo scorrere della giornata.

L’alba trova una giungla di cemento che è una sinfonia di grigi. Vecchi grattacieli condominiali della classe operaia, fatiscenti pachidermi decorati dai motori dei condizionatori e improbabili gabbie alle finestre.
Di case e palazzine basse quasi non è rimasto traccia in questo intricato omaggio all’industria pesante. Chongqing vanta una vita millenaria: centro nevralgico del commercio fluviale per gran parte della storia cinese, finisce ad essere la capitale della Repubblica di Cina del generalissimo Chiang Kay-shek durante la guerra antigiapponese e arriva agli anni ’50 del doporivoluzione vedendosi destinata al ruolo di fulcro dell’industria pesante della nazione e motore trainante dell’economia delle regioni centro-meridionali; ha poco più di un milione di abitanti, sopravvissuti ai bombardamenti giapponesi, alla fame e alla guerra civile; in meno di dieci anni la popolazione è più che triplicata, nutrita da immigrati delle campagne divenuti operai.

Quando diventa prefettura autonoma, nel 1997, assorbe le masse sfollate dai villaggi estinti dalla costruzione della Diga delle Tre Gole. Esplode demograficamente, superando la terza decina di milioni, e urbanisticamente: i palazzoni operai si vedono superare dallo slancio megalomane della speculazione del XXI secolo, acciaio e vetro, forme variabili a soddisfare il gusto degli architetti. Anch’essi però vestono grigio, riflettendo i toni dei tre fiumi e del cielo, che pare accordarsi da sé alla scala cromatica.
È dalle 20:00 in poi che la città cambia volto, sfida il tramonto accendendo quasi ogni singolo edificio con giochi di luci che deformano lo skyline fino a renderlo irriconoscibile, un’epifania di estetica alla Blade Runner per l’occhio europeo.
Spettacolo insolito, forse l’immagine più evidente dell’evoluzione cittadina, che ha mutato pelle ancora una volta e, dismessa la tuta dell’operaio di fonderia, veste quella dell’ingegnere Hi-Tech: è a questo che si è votata ora Chongqin, uno degli epicentri dello Sviluppo delle Nuove Forze Produttive di Qualità; definizione sinomarxiana per il processo di ricerca del primato mondiale in fatto di sviluppo tecnologico e intelligenza artificiale.

Gli abitanti hanno smesso di respirare l’aria ammorbata dalle ciminiere, sono uno dei centri propulsivi del ceto medio continentale e hanno convertito, con un gigantesco contributo pubblico, le vecchie fabbriche dismesse in coworking, pub alla moda e centri culturali.
Le statue di Mao sorvegliano lo scorrere incessante di una vita che, da quest’altro lato del mondo avevamo imparato ad associare all’eccezionalità newyorkese.
Non è scontato vedere in giro falci e martello e altri emblemi del partito, nonostante la tradizione radicalmente maoista della città. Ciò che compare di più sono gli striscioni rossi di propaganda che sottolineano la campagna statale di ringiovanimento delle aree rurali.

È fuori dalle metropoli invece che è presente il partito, ramificato in sedi e attività parastatali che innervano il tessuto delle campagne. Per governare gli squilibri dello sviluppo economico, dopo aver attinto a piene mani dall’inurbamento – anche forzato – dei contadini; ora si è imposta una linea politica fatta di limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, che non possono più trasferirsi facilmente in città, per prevenire fenomeni di spopolamento, e di investimenti in tecnologie produttive e infrastrutture di servizio alla popolazione.
Fatto il ceto medio, ora si rifanno le campagne.

Interessante che tutto ciò venga messo sotto l’etichetta di Ringiovanimento. Per la prima volta questo paese vede ora una leggera flessione demografica e l’aumento dei suoi anziani, tendenziale effetto dello sviluppo economico che produce benessere e aspirazioni extrafamiliari.
Per avere un’intuizione di cos’è lo spirito di questo paese c’è da considerare lo sguardo di un novantenne: un uomo nato in un paese martoriato dal colonialismo, sotto il tallone di ferro dell’occupazione nipponica. Diventato bambino nel mezzo della guerra civile e fattosi uomo nella costruzione della nazione socialista. Un uomo che ha visto le carestie spezzare intere province e la disciplina collettiva muovere masse e innalzare città. I cui capelli sono ingrigiti tra nubi di smog mentre il suo paese diveniva la fabbrica del mondo, e oggi arriva al capolinea con i figli in carriera e i nipoti ben nutriti in una metropoli sfavillante, frammento di una potenza nazionale che impone al mondo di osservarla finalmente con occhi diversi.
La parabola che l’Occidente ha coperto in quasi tre secoli, lui l’ha attraversata dritta nel solo arco di una vita.

Tre ore di led accecanti e proiezioni pantagrueliche come sfondo dello svago notturno si concludono attorno alle 23:00, quando la città si congeda alla vista lasciando accese manciate di insegne e sporadiche finestre nei grattacieli, ora sinistramente neri come le torri di Mordor, a sorreggere un cielo che ha da tempo scordato l’esistenza delle stelle.
Ma in basso, sotto i lampioni delle strade, prosegue incessante la vita collettiva: carretti che grigliano spiedini e locali che servono noodles in brodo lavorano a pieno regime, bar karaoke sono ben lontani dal cacciare l’ultimo cliente ubriaco, minimarket e laboratori notturni non spengono mai la luce.

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Le bombe di Savona https://www.carmillaonline.com/2025/11/30/le-bombe-di-savona/ Sun, 30 Nov 2025 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91262 di Roberta Cospito

Per andare al lavoro, ogni mattina attraverso la mia città, Savona, percorrendo una delle sue arterie principali. Ferma a uno dei tanti semafori, spesso mi ritrovo a spostare lo sguardo dalla strada verso una piccola aiuola un po’ trasandata e sporca. Al primo sguardo nulla si nota se non delle foglie e delle piccole bacche rosse, ma io so che, rosso del semaforo permettendo, se guardo oltre il fogliame posso intravedere il grigio di una pietra. È una piccola lapide dedicata, come spiega l’iscrizione, a Fanny Dallari: “Il Comune di Savona – medaglia d’oro della Resistenza – ricorda Fanny [...]]]> di Roberta Cospito

Per andare al lavoro, ogni mattina attraverso la mia città, Savona, percorrendo una delle sue arterie principali. Ferma a uno dei tanti semafori, spesso mi ritrovo a spostare lo sguardo dalla strada verso una piccola aiuola un po’ trasandata e sporca.
Al primo sguardo nulla si nota se non delle foglie e delle piccole bacche rosse, ma io so che, rosso del semaforo permettendo, se guardo oltre il fogliame posso intravedere il grigio di una pietra. È una piccola lapide dedicata, come spiega l’iscrizione, a Fanny Dallari: “Il Comune di Savona – medaglia d’oro della Resistenza – ricorda Fanny Dallari caduta in uno degli attentati fascisti che nel 1974-75 colpirono la città che con la mobilitazione unitaria e la vigilanza popolare respinse e sconfisse l’attacco del terrorismo”.
Savona è un raro, forse l’unico, esempio di città italiana bombardata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In città e negli immediati dintorni, dall’aprile del 1974 al maggio 1975 vennero collocate e fatte esplodere dodici bombe. Una delle due vittime fu, appunto, Fanny Dallari che morì il giorno dopo l’esplosione di Via Giacchero, mentre l’altra vittima fu Virgilio Gambolati morto tre mesi dopo per complicazioni. I feriti furono una ventina e tanti i danni a edifici pubblici e non.
La prima bomba è un ordigno al plastico che esplode il 30 aprile 1974, alla vigilia del Primo Maggio, vicino al cinema che aveva in cartellone il film di Carlo Lizzani Mussolini: ultimo atto. Gli attentati proseguono con due bombe al plastico che colpiscono la centrale elettrica dell’Enel della zona industriale di Vado Ligure e un trasformatore di tensione. Non ci sono vittime, ma potenzialmente poteva essere una strage. A novembre viene fatto esplodere il locale caldaie della sede della provincia di Savona, nel centro città, sulla sponda del torrente Letimbro. Un dipendente rimane ferito. Nel giorno dell’attentato era stato inaugurato un cippo in ricordo dell’uccisione di un gruppo di partigiani da parte dei nazifascisti.  Solo tre giorni dopo cinque chili di tritolo scoppiano nell’atrio della Scuola Media Bartolomeo Guidobono, vicino alla Camera del Lavoro. Poi il 16 novembre due ordigni, il primo sui binari, e la strage è evitata solo dall’intervento di due uomini che corrono incontro al treno e riescono a fermarlo prima che deragli, la seconda in un condominio, direttamente contro gli abitanti, poche ore dopo. È il 20 novembre quando un ordigno esplode nel portone di via Giacchero 22, causando i due morti e tredici feriti. L’analisi degli attentati, il potere esplosivo degli ordigni e i luoghi di collocazione indicano che le perdite umane avrebbero potuto essere molto superiori. La scia terroristica prosegue con un’autobomba che esplode nelle vicinanze di una caserma dei carabinieri a Varazze, poi un ordigno sull’autostrada Torino-Savona, vicina a Quiliano, un comune del ponente savonese. Una pausa di due mesi e alla fine di febbraio ancora due attentati, contro la Prefettura, dove rimangono ferite otto persone, e a un traliccio dell’alta tensione. L’ultimo attentato, forse l’unico solamente dimostrativo, alla Fortezza di Monte Ciuto, sulle alture di Savona, il 26 maggio 1975. A parte un disturbo alle trasmissioni televisive in cui si distingue la frase “Qui Ordine Nero. Vi faremo a pezzi”, nessuna rivendicazione. Nella percezione degli abitanti di Savona, le bombe scoppiavano a caso, o così sembrava, e ovunque: abitazioni private, edifici pubblici, impianti dell’energia elettrica. La penultima bomba, “quella di via Cava”, era nascosta nel fustino di un detersivo in polvere per lavatrice; alcuni bambini che videro una strana fiammella uscire dal cartone posto nell’atrio di un portone della via, portano ancora oggi le cicatrici delle schegge che li colpirono. Anch’io, all’epoca delle bombe, ero una bambina.
Ricordo confusamente i fatti, ma ho ben presente la strana atmosfera che si respirava. Mi piaceva che in certe giornate si stesse a casa da scuola per gli “allarme bomba”, ma ricordo anche la mia incredulità nel sentirmi ordinare da mia madre di non uscire fuori a giocare. Fu una generica ma spiazzante sensazione che qualcosa d’insolito e spaventoso stava accadendo. Ricordo anche gli strani racconti di adulti che trascorrevano la notte fuori casa, lasciando i ragazzi soli a cenare.
Gli adulti che la sera non restavano coi figli andavano a fare le ronde. Era questo il motivo di quell’assenza, per quei tempi, pressoché senza precedenti.
Dopo le prime bombe, infatti, i savonesi si mobilitarono velocemente e spontaneamente a tutela del territorio: vennero presidiati quei luoghi indicati come sensibili non dalle autorità o da soggetti terzi, ma dagli stessi cittadini che li reputavano importanti: le scuole dei propri figli – una bomba scoppiò nell’atrio di una scuola media, per fortuna fuori dall’orario scolastico –, le proprie fabbriche, i propri uffici, il proprio posto di lavoro.

La forte reazione popolare portò tantissima gente in strada anche in cortei e manifestazioni. Si scendeva tutti in piazza: adulti, giovani, anziani e anche noi bambini. Ricordo cortei popolosi e popolari. Dalle foto viste in seguito, ho riconosciuto interi spezzoni di cortei composti da operai che venivano dalle numerose fabbriche che allora costituivano la Savona industriale.
Maccaja. Le bombe di Savona è un film documentario diretto da Diego Scarponi e realizzato in collaborazione con gli studenti del Liceo scientifico savonese Orazio Grassi dedicato alla drammatica vicenda delle dodici bombe scoppiate in quel breve lasso di tempo a metà anni Settanta, attraverso decine di testimonianze e materiale di archivio, in alcuni casi inedito. Immancabilmente, alla fine della proiezione, ci si ritrova a domandarci come sia stato possibile dimenticare questa vicenda di cui non si sente quasi mai parlare, se non quando qualcuno decide di rispolverare il film di Scarponi, nonostante sia stata vissuta una storia unica nel suo genere. Non solo: ho chiesto ad amici e conoscenti genovesi che all’epoca dei fatti avevano quindici/vent’anni, cosa sapevano delle bombe di Savona, ma questa storia pare non aver oltrepassato i confini della mia città o, se lo ha fatto, lo ha fatto in maniera vaga senza lasciare traccia. Eppure, avere a poche decine di chilometri di distanza una città bombardata avrebbe dovuto allarmare il capoluogo ligure, mentre invece gli episodi legati alle bombe di quegli anni sembrano essere relegati alla memoria delle singole persone che hanno vissuto direttamente i fatti senza mai riuscire a diventare patrimonio di una memoria collettiva. È un oblio difficile da spiegare. Una memoria così ricca, una vicenda così partecipata è caduta troppo presto nel dimenticatoio. Tutti eravamo coinvolti e le ronde popolari credo siano un modello unico in Europa. Una cancellazione tanto brutale spinge a chiedersi il perché di questa rimozione, come se l’eliminare il tutto rientrasse in un qualche particolare disegno. Secondo alcuni, pare si sia lavorato in questa direzione poiché nelle indagini vennero coinvolti anche figli di uomini “importanti”, appartenenti alle istituzioni che poi, però, si sono rivelati del tutto estranei alla vicenda ma, nel dubbio, si è preferito da subito mantenere basso il livello mediatico.
È stata vittima dell’oblio, della rimozione dei fatti anche la “Relazione Trivelloni”. Nel dicembre del 1982 l’avvocato Carlo Trivelloni venne incaricato dalla Presidenza dell’A.N.P.I. della Provincia di Savona di fare una ricerca, uno studio sulle eventuali connessioni tra la loggia massonica P2 e le bombe di Savona. Era un tentativo di analizzare il contesto sociale e politico dell’epoca cercando di riunire aspetti che non erano mai stati presi in considerazione a livello investigativo.
Il fatto di aver individuato in Savona una struttura in qualche modo ambigua, vicina alla P2, interna al Partito socialista e vicina o almeno alleata al Partito comunista, ha probabilmente contribuito a far restare chiuso nei cassetti il dossier che viene integralmente pubblicato solo a fine 2014 nel libro Novembre Nero, appunti, note e riflessioni su le Bombe di Savona del 1974-’75 e la strategia della tensione, edito dalla casa editrice Fuoricontrollo, curato dall’associazione Comitato bombe Savona.
Ci si chiede anche se non aver accertato alcuna responsabilità, non avere individuato “il nemico” abbia contribuito alla rimozione di questa storia. A oggi, non c’è ancora chiarezza, e forti sono i sospetti sulla modalità di gestione delle indagini: non si è mai riusciti a trovare né i responsabili materiali né i mandanti né tantomeno si sono riuscite a capire le ragioni di una simile violenza impunita da ormai mezzo secolo.
Le bombe di Savona probabilmente s’innestano nella strategia della tensione e, riguardo questo, l’obiettivo fu sicuramente centrato, visto che vivemmo giornate di paura e gli atti terroristici subiti portarono allo sconvolgimento delle reti sociali del territorio, al disfacimento degli equilibri esistenti e alla creazione di nuove realtà, come i Comitati di Quartiere che vigilavano sul territorio.
Chiaramente, a seconda della spiegazione che si dà al perché delle bombe, si privilegiano alcune interpretazioni e se ne escludono altre. Una delle teorie per spiegare quanto successo, ruota attorno a un personaggio politico preciso, Paolo Emilio Taviani, ministro dell’Interno dal luglio 1973 al novembre 1974.
Taviani – genovese, antifascista e democristiano che aveva fatto la Resistenza, tra i costitutori del Comitato di Liberazione Nazionale clandestino, un partigiano “bianco” – durante il suo mandato mise fuori legge il movimento neofascista Ordine Nuovo e, secondo alcuni, le bombe furono un monito al politico che aveva estromesso dal sistema i neofascisti e che aveva come bacino elettorale Genova e Savona. Questa ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che una bomba venne fatta esplodere presso l’abitazione del senatore democristiano Franco Varaldo di Savona che, politicamente, faceva riferimento a Taviani. Il ministro si dimetterà proprio a fine 1974, uscendo dalla politica attiva, per cui inserire le bombe di Savona in questo panorama politico potrebbe essere realistico.
Una vulgata popolare racconta che la base Nato di Pian dei Corsi, una montagna dell’Appenino Ligure in provincia di Savona, insediata nel secondo dopoguerra e dismessa agli inizi degli anni Novanta, con la fine della Guerra fredda, sotto il controllo dell’esercito statunitense, non sarebbe stata dotata solo di apparecchiature radar per il controllo dello spazio aereo, com’era indicato nei cartelli che la circondavano, ma sarebbe stata una vera e propria base missilistica equipaggiata con ordigni nucleari.
Nel periodo dei fatti, l’Italia era fortemente a rischio di un colpo di stato, così come accaduto in Cile e in Grecia, con la conseguente formazione di qualche forma di resistenza, di una reazione armata e popolare magari fomentata dai partiti di sinistra dell’epoca, come il Partito Comunista Italiano. In tutte queste destabilizzazioni, come il permanere della dittatura fascista in Spagna, era evidente la direzione strategica degli Stati Uniti e un’ipotesi consiste nell’interpretare l’ondata di terrorismo a Savona come a un test sulla reazione di una popolazione di una città come Savona, Medaglia d’oro al valor militare per aver lottato contro la prepotente sopraffazione nazifascista, potendo teoricamente impadronirsi di una base fornita di armi di distruzione di massa. In pratica, le bombe di Savona sarebbero state una simulazione, un test per vedere come una città di provincia avrebbe reagito a un attacco terroristico ad ampio spettro cosicché gli organismi di sicurezza statunitensi potessero studiare ogni scenario possibile a tutela della loro struttura militare in Liguria.
Tuttora, buona parte della popolazione savonese è convinta d’essere stata vittima di un esperimento, se non degli Stati Uniti, del terrorismo di destra che avrebbe scelto Savona come luogo ideale, forse per le sue dimensioni ridotte rispetto alla confinante Genova molto più metropolitana, per testare la reazione a un loro eventuale colpo di stato futuro. Così fosse, con la loro tanto decisa quanto numerosa reazione di massa, i savonesi avrebbero fatto fallire il test.
Questa teoria, come anche tutte le altre, manca in realtà di un riscontro fattuale ma, poiché racconta i savonesi come una sorta di salvatori della patria, è forse per questo la versione che più spesso si sente raccontare.
Alla fine, le bombe tacquero ma tacque pure tutto il resto.

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L’Islam come anarchismo mistico https://www.carmillaonline.com/2025/11/29/lislam-come-anarchismo-mistico/ Sat, 29 Nov 2025 22:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91270 di Marco Sommariva

Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, Malamente, pp. 160, euro 16,00 stampa

Nella prefazione al libro di Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, il traduttore Alessandro Paolo racconta che lesse per la prima volta con stupore questo titolo a Santiago, nel febbraio 2013, su uno sbilenco tavolino espositivo allestito da rivenditori di libri autogestiti presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università del Cile, in occasione di un convegno di ecologia politica. Paolo, oltre a dirsi emozionato per aver curato l’edizione italiana a dodici anni di distanza dal convegno cileno, ci mette al corrente che l’autore, lo studioso musulmano catalano Abdennur Prado, [...]]]> di Marco Sommariva

Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, Malamente, pp. 160, euro 16,00 stampa

Nella prefazione al libro di Abdennur Prado, L’Islam come anarchismo mistico, il traduttore Alessandro Paolo racconta che lesse per la prima volta con stupore questo titolo a Santiago, nel febbraio 2013, su uno sbilenco tavolino espositivo allestito da rivenditori di libri autogestiti presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università del Cile, in occasione di un convegno di ecologia politica.
Paolo, oltre a dirsi emozionato per aver curato l’edizione italiana a dodici anni di distanza dal convegno cileno, ci mette al corrente che l’autore, lo studioso musulmano catalano Abdennur Prado, in quest’opera coraggiosa ha proposto una possibile rilettura in chiave anarchica degli insegnamenti spirituali dischiusi dal Santo Corano e dalla Sunna, la Tradizione dei detti e dei fatti del Profeta Muhammad – non ho scritto Maometto perché mi è stato spiegato che proviene dallo spregiativo cattolico “mal-commetto”, mentre Muhammad significa Elogiato dal Signore.
Detto che non si debba concordare integralmente con tutte le argomentazioni espresse su queste pagine, meno sovversive di quanto possa far supporre il titolo, e sebbene si possano espandere ben oltre i confini dottrinali dell’Islām, l’opera di Prado può essere ricondotta a quella galassia di pensatori, da Jacques Ellul a Hakim Bey da Lev Tolstoj a Simone Weil, fautori e testimoni di pratiche e teorizzazioni che incrociano una fede nel Divino con idee di comunità social-libertarie gioiose, disciplinate e autosufficienti.
L’introduzione di Prado ci aiuta a entrare in argomento facendoci prendere confidenza col titolo che contiene tre parole difficili da definire – Islām, anarchia e mistica –, che rimandano a possibilità non realizzate ma che continuano a vivere in noi, non necessariamente tutte e tre contemporaneamente, come possibilità latenti di realizzazione individuale e collettiva, a margine della religione istituzionalizzata, del Capitale, dello Stato e di tutte le altri grandi strutture di potere che schiavizzano l’essere umano.
I primi tre capitoli del libro sono dedicati, appunto, a queste tre parole: Islām, anarchia e mistica.
Nel primo si fanno puntualizzazioni che dovrebbero permettere anche ai più scettici di proseguire nella lettura di un libro che tratta un argomento che in tanti hanno evaso con un rapido “Per me l’anarchia è né dio né stato, quindi, discorso chiuso”. Le precisazioni di cui sopra sono passaggi come questo: “Non ci riferiremo […] agli Stati-nazione contemporanei che si qualificano come islamici. Questi ultimi, infatti, hanno tanto a che fare con l’Islām di Muhammad, quanto può averne il cristianesimo di Gesù con i governi dell’imperatore Costantino o del generale Franco. L’utilizzo reazionario della religione è stato una costante nel corso della storia”. O come questo: “Una cosa è l’Islām praticato e vissuto nella comunità profetica di al-Madīna – in cui non esistevano né chierici, né giureconsulti, né dotti, né tribunali, né una legge codificata, né polizie e neanche la benché minima struttura politico-amministrativa –, un’altra cosa è la religione codificata con le sue istituzioni posteriori, sorte da un processo di elaborazione sottomesso alle influenze del potere e ai fattori condizionati di ciascuna epoca”.

Mi viene in mente Simone Weil quando, in Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale pubblicato nel 1934, scrive che “I potenti, siano essi sacerdoti, capi militari, re o capitalisti, credono sempre di comandare in virtù di un diritto divino; e quelli che sono loro sottomessi si sentono schiacciati da una potenza che pare loro divina o diabolica, in ogni caso soprannaturale. Ogni società oppressiva è cementata da questa religione del potere, che falsifica tutti i rapporti sociali permettendo ai potenti di ordinare al di là di ciò che possono imporre […]”.
Nel secondo capitolo si parla di anarchia in un modo che, a mio parere, non fa una piega, ossia di un’ideologia che s’è spesso presentata come confutazione o denuncia di quella politica teatro di rappresentazioni e mascheramenti, una corrente di pensiero distruttrice di tutti quei miti su cui uno Stato fonda il suo potere – patria, razza, morale, religione, proprietà, popolo, famiglia, eccetera –, che predica una forma di vita profondamente etica, imperniata su una visione del mondo e dell’essere umano come creatura integrata della natura, che abbraccia come fratelli gli emarginati – pazzi, prigionieri, vagabondi, prostitute, eccetera – considerandoli più degni di rispetto di re, vescovi, giudici, generali o banchieri. Così come non fa un plissé leggere che l’anarchico trova insopportabile veder afflitto da ingiustizie qualsiasi suo simile e che per questo vive in permanente ribellione, che ritiene l’autorità dello Stato fonte di numerosi mali, un canale attraverso cui l’egoismo di pochi domina al di sopra degli interessi della maggioranza e che tutto ciò prescinde dalla forma in cui lo Stato è governato, può riguardare una dittatura del proletariato, una democrazia parlamentare o un sistema apertamente fascista perché, benché sia indubbio che alcuni Stati siano più benevoli di altri, per l’anarchico lo Stato resta il veicolo mediante il quale altri poteri esercitano il proprio dominio: “Oppressione politica, oppressione culturale, oppressione militare e oppressione economica vanno di pari passo”. Mi ha dato anche soddisfazione leggere che “l’anarchico cerca ciò che è autentico e si allontana da tutto ciò che abbrutisce” e che “l’etica anarchica è piuttosto ascetica: elogia la semplicità e la frugalità, disprezza il lusso e il superfluo”, sì, ammetto d’essermici ritrovato in pieno.
Nel terzo capitolo, quello dedicato alla mistica, si allude al mistero, al fatto che la mistica è segreta proprio perché indescrivibile, “semplicemente” perché i concetti creati dall’essere umano non sono capaci di esprimerla, e questo ci costringe a esprimerci per mezzo di metafore, ossimori, come la musica silenziosa, la luce nera, la quadratura del cerchio. Il mistico è così, fa scoppiare il linguaggio, lo spezzetta alla ricerca di una parola nuova che riesca a descrivere quell’indicibile che s’è fuso nella Realtà. Il mistico fa scomparire le categorie create dall’umano, si libera da un Dio lontano assiso maestoso in trono, un Dio infinito, buono, perfetto, tutto amore, che altro non è che una proiezione delle umane miserie, della nostra cattiva coscienza e delle nostre carenze. Il mistico si distacca dal teologo e dal religioso, anzi, si scontra proprio con l’istituzione religiosa, anteponendo l’esperienza alla credenza. Per contro, in questo stesso capitolo non ci si dimentica di ricordare che la parola misticismo sia apparsa spesso in testi anarchici come sinonimo di irrazionalità e superstizioni, di una religiosità esaltata e lontana da ciò che è sano e ragionevole, rea di mantenere le persone alienate dai problemi economici ed effettivi della vita quotidiana, così come si ricorda quanto l’anarchico sia radicalmente anticlericale e, nella stragrande maggioranza dei casi, antireligioso.
Dopo questi tre capitoli e prima di entrare nel merito, l’autore chiarisce di non pretendere che l’Islām debba essere definito “un anarchismo mistico”, e lo fa sottolineando il fatto che la quarta parola contenuta nel titolo, l’avverbio “come”, ci situa nella dimensione dell’analogia che, come tale, non denota un’identità totale, ma rimanda a una serie di vasi comunicanti che possono giustificare un incontro. Tutto questo è utile anche a immaginare nuove forme di resistenza nel presente, in un frangente in cui la ribellione all’oppressione avviene su scala planetaria e urge cercare punti d’incontro fra mondi che sembrano lontani, perché cercare punti di incontro – pratica sempre più rara di questi tempi che ci vedono continuamente intenti a dividerci, spaccarci, polverizzarci per una minima divergenza, un nonnulla – e pensare a obiettivi condivisi non significa pretendere l’equivalenza, e pazienza se esistono anche aspetti che cozzano tra loro o che possono risultare difficili da conciliare, perché è giusto che ognuno porti avanti la propria battaglia personale ma è bene assicurarsi che tale combattimento acquisisca una dimensione comunitaria, si incontri l’altro: “Vivere come anarchico in mezzo alla società di controllo e dello spettacolo, unirsi ad altri uomini e donne liberi che rifiutano la tirannia, voltare le spalle a tutta la spazzatura al neon con cui ci ipnotizzano, creare spazi liberati al centro di un presente sequestrato”. Senza mai dimenticare un altro concetto fondamentale su cui si regge tutto il Sistema, ossia che questo si nutre di piccole resistenze, desidera lo scontro diretto, la violenza che lo giustificherà agli occhi delle masse, non a caso preferisce arruolarci piuttosto che annientarci.
Ho sempre creduto nell’esercizio del singolo che porta avanti la propria battaglia, la propria rivoluzione, quotidianamente, e al fatto che questa pratica possa risultare più esplosiva di qualsiasi Manuale del rivoluzionario, così come scriveva nel 1999 Raoul Vaneigem nel suo Trattato del saper vivere: “Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che c’è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro si riempiono la bocca di un cadavere. […] La rivoluzione si fa tutti i giorni contro i rivoluzionari specializzati, una rivoluzione senza nome, preparando, nella clandestinità quotidiana dei gesti e dei sogni, la sua coerenza esplosiva”.
In questo periodo storico in cui le grandi corporation – da Apple a Microsoft da Amazon ad Alibaba a Facebook – e i poteri mediatici detengono un’egemonia e una capacità di controllo pressoché illimitate, le forme di resistenza non si manifestano come grandi ideali o progetti di carattere totalitario, bensì come piccole resistenze individuali e comunitarie.
In questo testo che invita alla riflessione e all’apertura interculturale, si parla di emancipazione dell’essere umano da ogni forma di potere o costrizione esterna, di un anarchismo non meramente politico ma visto come un’emancipazione dal politico, un’emancipazione individuale ma non individualista, bensì comunitaria; si parla di incontri con la divinità senza mediazioni né rappresentazioni, di incontri che possono verificarsi nel cuore di ogni creatura; si parla di libertà, di solidarietà fra uguali, di mutuo sostegno, chiudendo così: “L’anarchismo allude alla politica liberata dalla tirannia del potere e il misticismo allude alla spiritualità liberata dalle pastoie delle religione. L’Islām è una sintesi di entrambi”.
Sapevo che mi stavo avventurando in un argomento complicato, oltretutto con la quasi certezza di non avere “competenze” a sufficienza che mi sostenessero, mi guidassero, ma credo sia stato proprio tutto questo a indurmi a leggere queste pagine e a scriverne.
Però qualcosa che avevo fatto mio in passato mi è tornato alla mente, magari non per sostenermi o guidare, ma di certo per essere impastato con quest’ultima mia lettura e aggiunto a quella malta su cui poggio la mia esistenza quotidiana. Mi sono ricordato, per esempio, ciò che aveva scritto nel 1991 Hakim Bey in T.A.Z.: “Proprio come i radicali culturali cercano di infiltrare e sovvertire i media popolari e proprio come i radicali politici producono simili funzioni nelle sfere del lavoro, nella Famiglia e in altre organizzazioni sociali, così c’è bisogno di radicali che penetrino l’istituzione della religione stessa piuttosto che continuare a sputare frasi fatte del XIX secolo a proposito di materialismo ateo”. E anche cosa scrisse nel 1904-1905 Lev Tolstoj in Guerra e rivoluzione: “[i cristiani] si allontanano sempre di più dalla vita cristiana. Il senso della loro dottrina si oscura, ed essi sono arrivati infine alla loro triste situazione attuale: divisione dei popoli cristiani in campi nemici, spendendo tutte le loro forze ad armarsi per essere pronti in qualsiasi momento a dilaniarsi tra di loro. In più: essi hanno provocato l’odio dei popoli non cristiani che si sollevano da ora contro di loro. Infine, e soprattutto, essi sono arrivati alla negazione completa non solo del cristianesimo, ma di tutte le leggi aventi un carattere elevato”.
Mi è venuto in mente Jacques Ellul che riteneva il messaggio biblico capace di delineare un’etica di vita che si oppone alla logica del potere, della violenza e della tecnica; che riteneva l’approccio critico alla modernità non andasse mosso in chiave nostalgica verso un passato perduto, ma guardando al futuro; che vedeva il cristiano impegnato in una vita d’amore e servizio come un essere coraggioso e autentico perché costretto a muoversi controcorrente rispetto ai valori dominanti; che riteneva fondamentale la responsabilità individuale sostenendo che ogni persona ha il dovere di prendere posizione anche attraverso piccoli atti di resistenza per difendere il bene raro e prezioso della libertà.
Dopodiché, sono andato a rileggere un passaggio della postfazione che l’amico don Andrea Gallo scrisse per l’edizione pubblicata nel 2011 dai tipi di Elèuthera, di Anarchia e cristianesimo di Jacques Ellul, appunto: “[…] oggi l’unico modo per parlare di Dio è quello di confrontarsi con una molteplicità di espressioni della fede. I termini «protestante», «agnostico», «cattolico», o anche «anarchico», non contano più. Anni fa, Fabrizio De André mi diceva che secondo lui Madre Natura ci aveva semplicemente dotato di «un quoziente di intelligenza, di un quoziente di creatività e di un quoziente di spiritualità». Ciò che attualmente alcuni antropologi mi sembra chiamino addirittura «punto di Dio». Comunque sia, sono sempre le religioni che vogliono monopolizzare e strumentalizzare la spiritualità”.
Non solo. Lo scorso 1° agosto, mentre al bar leggevo L’Islam come anarchismo mistico, vedo sul tavolino accanto al mio, copia cartacea del quotidiano genovese Il Secolo XIX di quel giorno, e decido di sfogliarla. Mi fermo quando vedo un’intervista di Emanuela Schenone al teologo Vito Mancuso e mi dico che, forse, qualche divinità mi ha suggerito di prendermi una pausa dal libro perché, a poca distanza da me, c’era qualcosa di non estraneo alla lettura che mi stava severamente impegnando.
Fra le tante cose interessanti, Mancuso dice che Dio può rappresentare la via per la liberazione, ma spesso può essere a sua volta una trappola perché la coscienza religiosa potrebbe essere la più pericolosa trappola dentro cui un essere umano può capitare se diventa chiusura, estremismo e che, all’opposto, può essere una sorgente di consapevolezza e di liberazione. Dice che la differenza sta nel modo in cui vengono vissute queste coscienze, che gli esempi più clamorosi li troviamo nei fanatismi dei nostri giorni nati da quella diabolica connessione di religione e politica che rappresenta, appunto, una trappola.
Il teologo aggiunge che molte persone ritengono la religione la cosa più importante in assoluto, che tutto debba essere al suo servizio e che ciò porta all’intolleranza, mentre invece dovremmo capire che c’è qualcosa di più importante, che è l’etica, e che le religioni si dovrebbero porre al servizio di un’etica mondiale “facendo pulizia in casa”, cercando di capire quali sono state le ragioni del fallimento che non sono riconducibili solo all’imperfezione umana, ma anche all’imperfezione della religione in se stessa, e qui ricorda come alcune pagine della Bibbia ebraica siano cariche di odio e violenza e come queste possano generare odio e violenza in chi legge e le ritiene parole di Dio, “e lo stesso vale per il Corano e per il Nuovo Testamento”.
Mancuso pensa che Dio sia dentro di noi e che quando rispondiamo a quella domanda di bene, bontà e bellezza che nasce in noi, stiamo facendo il più grande atto di culto possibile, e che questa voce della coscienza possiamo benissimo chiamarla Dio, ma che va bene lo stesso se qualcuno vuole chiamarla in un altro modo perché la sostanza non cambia.
Il teologo parla anche di consapevolezza, della capacità di saper riconoscere che non siamo liberi, che viviamo in trappola l’intera nostra vita, e che la trappola è lo stato di prigionia in cui tutti ci troviamo, una condizione che costringe a correre indipendentemente dalla nostra volontà sul tapis roulant dell’esistenza che procede verso un destino che non abbiamo scelto.
Questa trappola, questa prigionia, questo nostro Dio interiore che a un certo punto della nostra Storia abbiamo deciso di porlo in alto nei Cieli trasformandolo in una specie di super-eroe onnipresente, onnipotente e onnisciente, potrebbe non essere altro che l’umana risposta a un forte bisogno dell’Uomo per salvarsi dal nulla che è; lo spiega meglio di me Simone Weil ancora nel suo Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale: “Il corpo umano non può in alcun caso smettere di dipendere dal potente universo di cui è prigioniero; quand’anche l’uomo non fosse più sottomesso alle cose e agli altri uomini attraverso i bisogni e i pericoli, egli ne sarebbe ancora più completamente preda a causa delle emozioni che lo assillerebbero di continuo e da cui nessuna attività regolare potrebbe più difenderlo”.
Sapevo che mi stavo avventurando in un argomento complicato con la quasi certezza di non avere “competenze” in grado di guidarmi, aiutarmi in questa navigazione fra marosi che mi spaventano, sotto un cielo senza stelle, e infatti non è andata benissimo: mi sono perso nel potente universo che ci circonda, ci imprigiona, ci intrappola ma, potrete anche non credermi, l’attuale mio naufragio m’è dolce in questo mare.

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Istvàn ovvero una vita come tante https://www.carmillaonline.com/2025/11/28/istvan-ovvero-una-vita-come-tante/ Fri, 28 Nov 2025 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91257 di Anna Da Re

David Szalay, Nella carne, tr. it. Anna Rusconi, Adelphi, pp. 330, euro 20 stampa, euro 10,99 epub

Che libro bellissimo, questo Nella carne di David Szalay. Lo dico subito perché non è una cosa che capita spesso, di leggere un romanzo che, dopo che lo abbiamo finito, ci rivisita con piccoli squarci di comprensione, ci si riaffaccia alla memoria con frasi di eccezionale chiarezza, o ci risveglia sensazioni dimenticate. D’altro canto Nella carne (Flesh nell’edizione originale) è il vincitore del Booker Prize 2025, e alla presentazione milanese, a cui ero felicemente presente, Szalay aveva come partner Marco Balzano. Tutti segnali di buon auspicio.

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di Anna Da Re

David Szalay, Nella carne, tr. it. Anna Rusconi, Adelphi, pp. 330, euro 20 stampa, euro 10,99 epub

Che libro bellissimo, questo Nella carne di David Szalay.
Lo dico subito perché non è una cosa che capita spesso, di leggere un romanzo che, dopo che lo abbiamo finito, ci rivisita con piccoli squarci di comprensione, ci si riaffaccia alla memoria con frasi di eccezionale chiarezza, o ci risveglia sensazioni dimenticate.
D’altro canto Nella carne (Flesh nell’edizione originale) è il vincitore del Booker Prize 2025, e alla presentazione milanese, a cui ero felicemente presente, Szalay aveva come partner Marco Balzano. Tutti segnali di buon auspicio.

Nella carne è la storia di István, che incontriamo quindicenne in una piccola città ungherese, e che seguiamo nel corso di una vita che forse è una vita come tante, che si svolge tra l’Ungheria e Londra, e che è avventurosa e normale, ricca e vuota, fortunata e disgraziata. István parla poco, la parola che pronuncia con più frequenza è okay. Il corpo , la carne, sono il suo modo di esprimersi, di interagire con gli altri, di essere contento e di soffrire. Non ci viene mai descritto, István, non sappiamo se è biondo o moro, alto o basso, bello o brutto. Possiamo immaginarci che sia piuttosto forte, visto che a un certo punto della sua vita lavora nella sicurezza. Possiamo anche immaginare che sia seducente, attraente, perché i suoi incontri cominciano e finiscono con il sesso. Sesso piuttosto crudo, silenzioso, essenziale. Sesso che serve a comunicare in tutte le situazioni in cui mancano le parole. Sesso che avvicina, scalda, consola.
Dal primo incontro con una donna molto più grande di lui alla relazione con Helen, István cresce e diventa un uomo, si trasferisce dall’Ungheria a Londra, diventa ricco e diventa padre. Poi un incidente interrompe il flusso della vita, porta una devastazione in cui tutto viene perso e si torna al punto di partenza, e in Ungheria. Gli “okay” che István pronuncia nel corso della sua vita sono ognuno diverso dall’altro, ed è sorprendente come una sola parola possa assumere significati così diversi e variegati. Gli okay sono il suo accettare la vita e quello che succede come inevitabile e fuori dalla nostra portata.

Szalay afferma di avere creato deliberatamente un protagonista non politicizzato, che non ha valori che gli permettano di schierarsi da una parte o dall’altra, che si fa attraversare e passare sopra dalla storia, proprio come simbolo di uno smarrimento storico e sociale, di un disagio interiore profondo, non esprimibile ma sempre presente in ogni gesto. Dall’Ungheria a Londra e ritorno, dal crollo della cortina di ferro alla pandemia, passando per la seconda guerra del Golfo e l’ingresso nell’Unione Europea dei Paesi dell’ex blocco sovietico, la storia determina e modella la vita di István come quella di chiunque, in modo concreto e tangibile e indipendentemente dai comportamenti o dalle attitudini che si possono avere.
La scelta di affidare alla fisicità il racconto della vita di István, il predominio del corpo sui pensieri, che non vengono mai descritti o analizzati, il sesso come modo di entrare in rapporto con gli altri, se in un primo momento fanno pensare alla mancanza di una dimensione psicologica, poi di fatto risultano avere l’effetto opposto. Come lettori, siamo vicini a István fin dalle prime righe. Viviamo con lui con la stessa sua intensità, restiamo sbalorditi di fronte agli improvvisi cambiamenti della vita, ci sentiamo come lui in balia degli eventi e sballottati senza poter far nulla, meno che mai scegliere. E non sentiamo l’esigenza di analizzare i motivi, di chiederci da dove vengono certi comportamenti. Perché ci rendiamo conto che ogni altra persona è inconoscibile, anche noi siamo per molti versi opachi a noi stessi, e quello che possiamo fare è guardare, osservare, e partecipare silenziosamente dei drammi altrui. Forse avvicinarci in un abbraccio. Forse dire “okay” e fare quel che bisogna fare. Dice lo stesso Szalay che non voleva mettere in scena un personaggio che si autospiegasse, come facciamo noi in continuazione, fino a perdere il senso di quello che siamo, cioè umani e animali al tempo stesso. Troppo spiegarsi tende a mascherare la vera umanità, che è anche animalità, che è Nella carne. Non a caso questo titolo, che era all’inizio quello di lavorazione del romanzo, poi è rimasto. Non se ne poteva trovare uno che esprimesse meglio quello che viene raccontato.

Ci sono molti silenzi, nella vita di István e nel libro. Dice Szalay nel suo incontro pubblico a Milano, che tutto il romanzo è un tentativo di avvicinarsi al silenzio. I dialoghi sono realistici e reali, non sono un modo per introdurre dei contenuti a cui l’autore tiene. Sono la rappresentazione della realtà, quegli scambi vuoti e inconcludenti, che girano a vuoto, che pratichiamo abitualmente nella vita, che a volte hanno anche un effetto comico. Ma soprattutto i dialoghi sfiorano il silenzio, così difficile da raccontare ma così importante anche nella letteratura.
Concludo dicendo che alla presentazione l’atmosfera era bellissima, perché le parole di Marco Balzano erano ricercate (nel senso letterale, di avere scelto accuratamente quelle più adatte) e precise, quelle di David Szalay erano inglesi ma ben tradotte da Sonia Folin, ed erano tutte parole nate da una necessità, interiore e di comunicazione e condivisione.

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La Sinistra Negata 06 https://www.carmillaonline.com/2025/11/27/la-sinistra-negata-06/ Thu, 27 Nov 2025 22:54:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91644 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. (Seconda parte)

2. I FATTORI SOGGETTIVI.

Malgrado quanto si è detto, non ci si deve illudere che il crollo subito dalla sinistra di classe nel corso degli anni Ottanta sia stato dovuto in via esclusiva all’iniziativa dell’avversario. La storia delle classi subalterne italiane e delle loro espressioni organizzate ha [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. (Seconda parte)

2. I FATTORI SOGGETTIVI.

Malgrado quanto si è detto, non ci si deve illudere che il crollo subito dalla sinistra di classe nel corso degli anni Ottanta sia stato dovuto in via esclusiva all’iniziativa dell’avversario.
La storia delle classi subalterne italiane e delle loro espressioni organizzate ha conosciuto momenti di repressione più dura (anche se non sotto il profilo della mistificazione ideologica, oggi acuta quanto mai in passato) senza che ciò comportasse un vero e proprio salto generazionale, né il formarsi di un drammatico vuoto di memoria.
È nostro avviso che, se ciò è avvenuto, la causa vada ricercata anche in debolezze interne, che hanno dettato reazioni sbagliate e confuse a quanto stava accadendo. Cercheremo di esaminare brevemente alcuni dei comportamenti dannosi e autolesivi che hanno consentito alla repressione di colpire tanto in profondità.

Durante l’emergenza.
Alla fine degli anni Settanta la sinistra rivoluzionaria coltiva un senso di potenza rasentante l’illusione dell’invincibilità. Non vi è scuola, non vi è quartiere, non vi è grande fabbrica, nelle maggiori città italiane, in cui non si respiri aria di insubordinazione. Inoltre il ’77 ha instaurato forme di socialità e
di aggregazione in gran parte sconosciute al ’68. È possibile vivere assieme, come una grande tribù, riducendo al minimo i contatti con la società “esterna”. Per molti resta indimenticabile l’enorme corteo che alla fine del 1977 si è mosso attraverso Bologna, a conclusione del convegno sulla repressione, e la sensazione respirata nei giorni precedenti di potersi quasi impadronire di una intera città.

In realtà, il potere non è stato nemmeno scalfito in nessuna delle sue strutture, per quanto terreno abbia perso nel controllo delle culture e del comportamenti. Di ciò ci si rende conto solo dopo il “caso Moro”, allorché ha inizio la repressione sistematica ed indiscriminata. La reazione di molti è la sorpresa, cui segue lo sbandamento, e anche le iniziative di autodifesa frettolosamente approntate sono del tutto inadeguate all’ampiezza dell’attacco avversario. Eppure la sopravvalutazione delle proprie forze, e la sottovalutazione delle forze altrui – primo degli errori che ci preme segnalare – continuano ad operare per alcuni anni ancora. Lo si vede allorché, nel 1980-81, inizia il grande “dibattito”  (se cosi si può chiamare) sull’amnistia.

Alcuni compagni (in particolare quelli che fanno capo alla rivista romana Assemblea, e molti di coloro che hanno trovato rifugio all’estero) vedono l’amnistia generalizzata, frutto di una campagna indirizzata in tal senso, quale soluzione del problema di quell’enorme fetta di movimento che da un paio d’anni popola le carceri italiane. Altri la giudicano invece uno sbocco di tipo riformistico, equivalente a un cedimento, e propongono una via d’uscita intermedia: una mobilitazione collettiva perché ai detenuti politici vengano concessi gli arresti domiciliari, quale premessa per una liberazione non patteggiata. Vi è infine chi ritiene riformistiche e perciò negative entrambe le soluzioni precedenti e, pur non appoggiando l’area delle formazioni armate, sostiene che la liberazione dei detenuti politici potrà risultare solo da un’azione di forza. Giudicate oggi, simili discussioni appaiono francamente demenziali, perché ispirate a una premessa demenziale: quella che il potere fosse tanto debole da concedere amnistie, arresti domiciliari o da tollerare soluzioni di forza, e la sinistra rivoluzionaria ancora tanto possente da poter imporre l’una o l’altra delle alternative.

L’esperienza degli anni successivi ha poi dimostrato che il potere é disposto ad attenuare l’emergenza e a concedere qualche brandello delle libertà sospese solo quando è ben certo di avere ridotto all’impotenza i propri antagonisti; ma l’eccessiva fiducia in se stessa che la sinistra di classe manteneva nei primi anni Ottanta la induceva a ignorare questa verità lapalissiana, dividendosi sull’opportunità di concessioni date per già acquisite, ma che nessuno era in realtà disposto ad accordare a titolo di pura elargizione.

Simile distorsione percettiva è in parte riconducibile ad un secondo errore in cui la sinistra di classe incorre negli anni bui, anche se non del tutto volontariamente. Gli arresti in massa e la presenza di tanti militanti in carcere fanno si che la tematica carceraria assorba quasi totalmente l’attenzione del compagni, rimasti in libertà, a scapito di ogni altro terreno d’intervento. Ciò è largamente comprensibile e dettato da uno stato di obiettiva necessità; questo non toglie che, sfogliando oggi le riviste di allora, si rimanga perplessi notando che il problema carcerario sovrasta praticamente tutti gli altri, che appaiono semplici appendici di quello.

L’errore di prospettiva consiste nel fatto che la situazione dei militanti incarcerati sarebbe stata di gran lunga migliore (e lo sarebbe ancor oggi) se il movimento si fosse mosso con decisione nella società, continuando la propria crescita e comunque mantenendo le posizioni già acquisite; invece la sinistra rivoluzionaria rimane immobile e con lo sguardo fisso sulle pareti delle prigioni, dove sono sì rinchiusi i compagni migliori, ma dove le possibilità di espansione sono pressoché inesistenti. Ciò fa sì che i detenuti, nel volgere di pochi anni, sentano provenire dall’esterno solo un silenzio via via più compatto, mentre chi è rimasto fuori paga le conseguenze dell’aver assunto una posizione meramente difensiva.

Ma l’indebolimento delle forze ancora libere di agire discende anche dall’incomprensione della nuova configurazione che la società sta assumendo. La sinistra rivoluzionaria, e in primo luogo quella di matrice operaista aveva a suo tempo dato scacco alla sinistra istituzionale analizzando e anticipando con enorme lucidità i processi di trasformazione che si stavano avviando: ristrutturazione industriale, diffusione a macchia d’olio del precariato, emergenza di un nuovo proletariato territoriale, e così via. Un’occhiata a riviste come Classe quaderni sulla condizione e sulla lotta operaia, Primo Maggio, Metropoli, Quaderni del Territorio, Magazzino, ecc. può confermarlo. Quando però quei processi assumono ritmi vertiginosi e si impongono all’attenzione di tutti, se l’analisi resta abbastanza lucida, la capacità di muoversi con disinvoltura nel nuovo contesto viene progressivamente meno.

Vi è chi dà per liquidata la classe operaia e si rivolge in via esclusiva ai “nuovi soggetti sociali”, senza tener conto che questi ultimi hanno per forza di cose un grado più attenuato di autoconsapevolezza e non sono facilmente mobilitabili come un corpo unico; vi è, di converso, chi si aggrappa ad una centralità operaia che le cronache si incaricano quotidianamente di smentire, parlando linguaggi che già negli anni Sessanta cominciavano ad essere obsoleti; vi è chi continua a ripetere che “precario è bello”, quando il precariato che ha sotto gli occhi è frutto non di una scelta, ma di un’imposizione padronale; vi è chi parla ancora di “rifiuto del lavoro” senza preoccuparsi di precisare il significato dell’espressione, urtando nell’incomprensione di chi vede che è il padrone che gli rifiuta il lavoro.

Errori generosi e ampiamente giustificabili, che tuttavia denunciano un progressivo scollamento dal reale e un venir meno della capacità di rappresentarlo. Il terzo errore capitale della sinistra rivoluzionaria, negli anni in cui la repressione è ancora al culmine, è dunque quello di smarrire una visione lucida della propria matrice sociale, liquidando vecchi soggetti senza trovarne di nuovi, o abbarbicandosi a referenti che da tempo hanno smarrito ogni ruolo protagonistico. Il tutto nel contesto di azioni di lotta di breve respiro (micro-agitazioni studentesche, occupazioni di case, ecc.) che nella loro frammentarietà e sporadicità rivelano l’assenza di una benché minima proiezione progettuale, e che non hanno risonanza alcuna al di fuori dello spazio limitatissimo (scuola, quartiere) in cui hanno luogo.

La microconflittualità costituisce, infatti il quarto errore fondamentale della sinistra rivoluzionaria. Si inseguono momenti di scontro prescindendo totalmente dal loro valore strategico, dal loro potenziale di continuità, dalla loro capacità di contagio. L’occupazione di un vecchio immobile, indifferente a tutti salvo che al proprietario, viene spacciata come trionfo della lotta di classe; l’incendio di un cassonetto della spazzatura assurge al rango di guerriglia urbana; un modesta autoriduzione in una mensa universitaria diviene momento esaltante di illegalità di massa.

Col tempo, anche queste pallide caricature degli espropri e delle ronde proletarie degli anni Settanta finiscono col rarefarsi e con lo scomparire quasi del tutto; sia per le repressioni che innescano, sproporzionate al pretesto, sia perché senza disegno politico forte che le sorregga tutte le forme di azione diretta non sono che materia per trafiletti nella cronaca locale. Ma chi si preoccupa più di manifestare una progettualità politica, quando si oscilla tra l’iperattivismo insensato e l’inazione, mentre la riflessione approfondita è delegata ai compagni in carcere o investe quasi esclusivamente il carcere?

E qui subentra il quinto errore capitale, vale a dire la scarsa cura per la propria immagine. Cortei sempre più striminziti lanciano slogan sempre più truculenti, nella speranza che facciano vibrare d’entusiasmo le masse derelitte e affamate. Si stenta a comprendere che parole d’ordine efficaci pochi anni prima risultano incomprensibili nel nuovo contesto socio- culturale, e servono solo ad isolare e ad annebbiare l’identità reale di chi continua a ritenerle veicolo per dimostrare di essere più a sinistra di chiunque altro.

Assai giustamente, negli anni di più dura repressione il movimento ha rifiutato di prendere le distanze dai partiti armati, ritenendoli comunque più vicini a se stesso dell’avversario di classe. Ma rifiutare di denigrare l’identità altrui, per quanto pericoloso e letale sia questo rifiuto dettato da coerenza politica ed umana, non può voler dire rinunciare ad affermare l’identità propria. Invece è questo che si finisce col fare, nell’illusione che una chiarezza predominante al proprio interno sia condivisa dall’intero corpo sociale. Il che significa trascurare il fatto che quest’ultimo è condizionato da forze che hanno tutto l’interesse ad alimentare la confusione e a fare il vuoto attorno agli antagonisti spacciandoli per “fiancheggiatori”.

Nella post-emergenza.
Alcuni degli errori citati vengono corretti man mano che ci si inoltra negli anni Ottanta. Ma il terreno perduto é molto ed è difficilmente riconquistabile, anche perché il potere è nel frattempo passato dalla pura repressione alla colonizzazione delle coscienze.
La sinistra di classe è stata drammaticamente ridimensionata, tanto che è sempre più difficile riferirsi a essa come a un “movimento”; le sue idee circolano poco e male, raggiungendo solo ambiti limitatissimi e per lo più privi di una spiccata fisionomia sociale; il reclutamento di nuovi militanti si è pressoché interrotto, e comunque non è tale da garantire un ricambio.
Dato che è il momento delle realtà frammentarie, isolate le une dalle altre o con contatti solo sporadici (salvo specifici spezzoni coordinati tra loro) non è più possibile individuare errori comuni a tutti. Esistono però comportamenti erronei abbastanza diffusi da poter essere indicati come caratteristici della fase, sebbene non manchi chi si sottrae ad essi e muove verso diverse prospettive.

Bologna, proteste in Piazza Verdi contro la privatizzazione all’interno della mensa universitaria. Foto di Luciano Nadalini

Il primo di questi comportamenti è l’auto-ghettizzazione. Il potere è riuscito a costringere la sinistra rivoluzionaria entro spazi limitatissimi e ben individuati, separandola con un cordone sanitario da buona parte della società circostante. Una tendenza negativa che si manifesta spesso è quella di adattarsi a vivere e a muoversi entro questi perimetri ristretti, non avendo occhi che per ciò che accade al loro interno e perdendo quindi la corretta percezione del reale.
Nascono modi di fare, di esprimersi, di agire indecifrabili per chiunque non sia interno al gruppo, al clan, alla tribù; l’attenzione rivolta al collettivo rivale supera quella dedicata alle forze concrete che agiscono nella società; ci si crogiola nella propria “diversità” senza accorgersi che attorno nessuno la nota.

L’esito peggiore che simile distorsione prospettica può avere è quello di illudersi di mantenere una dimensione politica, mentre si è solo un gruppo di amici o poco più. E come dei topi chiusi in una piccola gabbia finiscono col divorarsi a vicenda, così buona parte della propria aggressività viene rivolta verso chi sta più vicino, e distolta dall’avversario reale. I tentativi di incontro e di confronto della seconda metà degli anni Ottanta finiscono in risse e lacerazioni molto più spesso di quanto avvenisse nel passato decennio, quando la posta in gioco era ben maggiore e i motivi di divisione ben più concreti. Non ci si rende conto che uno sguardo proveniente dall’esterno del ghetto evidenzierebbe le similitudini ed attenuerebbe le differenziazioni. Se accade il contrario è solo perché si è incapaci di guardare oltre le pareti che il potere ha costruito perché il movimento antagonista vi restasse intrappolato.

In genere, anche chi ha ben chiare le dimensioni dell’emorragia subita tende a comportarsi come se nulla fosse stato; e vedendo che un simile atteggiamento non produce risultati, riduce pian piano le dimensioni e le ambizioni della propria militanza, fino a fare di nuclei un tempo combattivi altrettanti CRAL perfettamente adattati all’esistente e a cui manca solo il biliardo per consacrarli regni della noia.

Le puntate precedenti le trovate: 01 qui, 02 qui, 03 qui, 04 qui e 05  qui

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