Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 13 Nov 2025 22:55:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Giorni di galera https://www.carmillaonline.com/2025/11/13/giorni-di-galera/ Thu, 13 Nov 2025 22:55:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91435 di Cesare Battisti

Non capita tutti i giorni, scendere per l’ora d’aria e trovare nel cortile una faccia nuova con cui parlare. Senza correre il rischio di sorbirsi la solita arringa d’innocenza, condita di insulti all’avvocato per quel processo andato male. Il truffaldino ha il passo ondulante, ha conosciuto i miei stessi cortili di galera, sa che in fondo c’è sempre un muro e non ha nessuna fretta di arrivare. Lui è della “vecchia”, come si suol dire da queste parti, di quelli che non sprecano parole, nemmeno quando la battuta appena fatta sembra sganciata da un pensiero vero.

Abbiamo in comune [...]]]> di Cesare Battisti

Non capita tutti i giorni, scendere per l’ora d’aria e trovare nel cortile una faccia nuova con cui parlare. Senza correre il rischio di sorbirsi la solita arringa d’innocenza, condita di insulti all’avvocato per quel processo andato male. Il truffaldino ha il passo ondulante, ha conosciuto i miei stessi cortili di galera, sa che in fondo c’è sempre un muro e non ha nessuna fretta di arrivare. Lui è della “vecchia”, come si suol dire da queste parti, di quelli che non sprecano parole, nemmeno quando la battuta appena fatta sembra sganciata da un pensiero vero.

Abbiamo in comune poco o niente, tranne le rughe e un inatteso ritorno in carcere dopo quasi mezzo secolo. Quelli come me, lui li ha conosciuti nei Settanta, quando ancora politici e comuni respiravano insieme l’aria dello stesso cortile. Deve aver poi seguito la mia storia sui giornali e adesso non gli sembra vero di aver trovato proprio qui un veterano per ricordare i tempi in cui il carcere era una “cosa seria e dentro ci finivano solo i criminali”. È un truffaldino, ha l’occhio lungo e il sorriso vago di certi pescatori, che hanno appena gettato l’amo dove sanno di pescare.
Fa un vago gesto con la mano:
«Mancano i medici e c’è pure carestia di preti, malati e anime perse adesso li fanno carcerati. E sì, noi sì che si era un’altra cosa.»

Il carcere che ricorda lui era fatto di violenza, di regole omertose e di fetore. Si sopravviveva ai soprusi e alla sofferenza grazie all’unione, era la solidarietà di tutti coloro che quella violenza la vivevano sulla propria pelle. Adesso qui, sembra che chi affonda nella disperazione e nell’abbandono non trovi nessuno a tendergli la mano. Perché non ci si unisce più in nome di un diritto dovuto e spesso non concesso, ma si insegue in solitario il beneficio personale. Quasi sempre a discapito dell’altro che ti sta accanto e soffre come te. Gli sguardi vuoti, i degenti ai quali si riferisce il Truffaldino appartengono a chi si sente sfinito davanti all’abuso di potere, spogliato perfino dall’iniquità di una pena. Che pur accetta, a momenti alterni, ma che non può sopportare perché non la capisce. Un delinquente, se lo fosse realmente, dovrebbe almeno saper dire come e dove è iniziata la sua rovina. Ma per farlo deve avere una coscienza, deve poter dire chi è, da dove viene, magari anche sapere dove sta andando, senza pestare i piedi a nessuno soprattutto i propri.

Il truffaldino ha ragione. Io stesso, appena arrivato qui, mi guardavo attorno e vedevo solo facce nemmeno più capaci di esprimere dolore. E nel panico, mi chiedevo se avevo perso anch’io l’orientamento. Come loro, come tutti, “come succede anche là fuori”. Così dice il Truffaldino e io non posso rispondere, perché dal Brasile sono andato dritto in carcere, senza passare dall’Italia, o meglio sì, quella penitenziaria. Una volta si concedeva alla popolazione detenuta il diritto di esistere, c’era chi lo rivendicava con spavalderia. Un atteggiamento che può essere discutibile, ma oggi pare che il detenuto sia stato spogliato anche di quest’ultima parvente identità.

Non si è più niente: malati, forse, ma senza cure. Il Truffaldino ha ragione, si è soli e senza speranza. Non si evade nemmeno più, chi lo fa ancora non cerca la libertà ma un muro diverso da questo contro cui scontrarsi. Non scappa, si abbandona per inedia.
Forse esagero, colpa del Truffaldino che mi è capitato tra capo e collo e adesso penso troppo e questo mi fa male. Si può essere nostalgici perfino della vecchia vita di prigione? O dell’identità che comunque essa allora dispensava? Era un’identità spesso edificata contro, forgiata nella lotta, anche dura, ma sempre e solo se necessaria e, talvolta, anche compresa dalla parte avversa. Erano tempi duri, con atti estremi per sottrarsi alla morsa dell’art 90, e la risposta devastante dello Stato. Ma mai ci siamo lasciati appiattire sulla condizione animale, ristretti all’istante presente, alla necessità feroce, ad assaltarci l’un l’altro per sopravvivere al rigore atroce, come invece avrebbero voluto certi nostri aguzzini.

Al contrario, è proprio in carcere, in condizioni estreme che ho incontrato persone insospettabili tendere la mano all’avversario di ieri: si può essere nemici nel conflitto, mai in tempi di pace.
È significativo il fatto che nonostante il regime duro, in confronto, non ci siano stati in tempi di conflitto così tanti suicidi in carcere. Non ricordo di agenti che si toglievano la vita. Non ci si uccide di fronte al nemico, si è troppo impegnati a difendersi. Se guardiamo alle statistiche, la differenza con l’attualità salta agli occhi. Oggi si muore in silenzio, nell’indifferenza generale. Muoiono a milioni gli innocenti sotto le bombe sganciate dai “Governi buoni”, a chi dovrebbero importare cento vite stanche di prigione?

Al suono della campanella, io e il mio Truffaldino ci siamo messi in fila come tutti gli altri. La schiena curva e lo sguardo a terra, per non doverci dire nemmeno con gli occhi quanto inutili siano le parole. Dette in un pomeriggio di mezza estate, tra vecchi reclusi che non non si vogliono adattare.

Eppure qualcosa resta. È come un suono lontano che continua a fluttuare, una reminiscenza di sapere che mi insegue fino in cella. Un’idea senza contorni che non mi lascia pensare agli affari miei, è maliziosa, si intromette, come se ne sapesse più di me e non me lo vuole dire.

 

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Il nuovo disordine mondiale / 30 – Israele sull’orlo dell’abisso https://www.carmillaonline.com/2025/11/12/il-nuovo-disordine-mondiale-30-israele-sullorlo-dellabisso/ Wed, 12 Nov 2025 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91456 di Sandro Moiso

Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro

In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni [...]]]> di Sandro Moiso

Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro

In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni o con le allusioni». Affermazione fatta in un contesto in cui Bibi Netanyahu, da sempre indicato come uno degli sponsor dell’odio che portò al più importante omicidio politico della storia dello stato ebraico per mano di un ebreo di origini yemenite, si è tenuto lontano dalle celebrazioni molto probabilmente per timore delle contestazioni nei suoi confronti.

Ma ciò che qui è interessante annotare, più che il ricordo di un uomo che quando era «ministro della Difesa – poi beatificato dall’Occidente in seguito al suo assassinio ad opera di fanatici oggi al governo in Israele – impiegò tutto il peso dell’IDF sui Territori rivelandone pienamente il carattere coloniale e di forza d’occupazione. Già nel 1987 il pugno della repressione – spari sulla folla, rastrellamenti, demolizioni e detenzione di massa – fu spietato, anche a fronte di un sollevamento prevalentemente civile e non armato», come ha giustamente ricordato Giovanni Iozzoli su Carmilla il 4 novembre di quest’anno, è costituito dal fatto che l’”abisso” evocato dall’attuale presidente israeliano è prossimo a quel “precipizio” indicato per il futuro di Israele da un altro ebreo israeliano, Michel Warschawski, fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984:

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza1.

In poche righe Warschawski, in quel testo di vent’anni or sono, anticipava ancor più che i timori espressi da Herzog i temi e le tesi esposte da Ilan Pappé nel suo testo più recente, edito da Fazi, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina.

L’autore è professore di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, e fa parte di quel consesso di storici israeliani (Tom Segev, Shlomo Sand, Norman Finkelstein e, un tempo, Benny Morris) che per anni, spesso a rischio della vita per mano degli estremisti sionisti, hanno messo in discussione una narrazione storiografica tutta intrisa di messianismo e revanscismo basato sulla necessaria riscossione del credito politico e coloniale accumulato attraverso le sofferenze inferte al popolo ebraico dalla Shoa; tutto a danno dei diritti degli arabi palestinesi a vivere sulla propria terra in pace e con gli stessi diritti degli altri cittadini di Israele.

Oltre che del presente testo, Pappé è stato anche autore di più di una dozzina di libri tra cui La pulizia etnica della Palestina (Fazi Editore, 2008), mentre per il medesimo editore ha anche pubblicato Palestina e Israele: che fare?, scritto insieme a Noam Chomsky (2015), La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (2022) e Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (2024). Mentre per Einaudi ha pubblicato Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (2014) e per Temu: Dieci miti su Israele (2022). Cui vanno ancora aggiunti: Ultima fermata Gaza. La guerra senza fine tra Israele e la Palestina, sempre con Noam Chomsky (Ponte alle grazie, 2023); Israele-Palestina. La retorica della coesistenza (Nottetempo, 2011) e Controcorrente. La lotta per la libertà accademica in Israele (Zambon, 2012).

Sempre attento, presente nel dibattito e schierato per tutto quanto riguarda la causa palestinese, Ilan Pappé non ha mai, però, separato le ragioni del popolo palestinese dalla necessità di trovare un punto di incontro con quelle frange, minoritarie ma non del tutto secondarie, del mondo ebraico, fuori e dentro Israele che da sempre o almeno fin dalla fondazione dello Stato hanno contestato l’assurdità del colonialismo sionista e proposto strade diverse per una comune convivenza su quelle stesse terre oggi totalmente rivendicate dal sionismo messianico di Bibi Netanyahu, Itamar Ben-Gvir o Bezalel Smotrich. Comunque senza mai illudersi che questo possa avvenire in mancanza di un cambiamento radicale all’interno della stessa società israeliana.
Da qui l’attenzione per la possibile “fine” di Israele.

Il passo da uno Stato in crisi alla sua fine può essere breve.
[…] Non prendo con leggerezza il processo che potrebbe portare alla fine di uno Stato di cui sono cittadino e in cui vivono milioni di persone. Gli Stati in realtà non finiscono come se niente fosse, e da questo punto di vista parlare di “fine” potrebbe essere esagerato; nella maggior parte dei casi gli Stati cambiano e a volte lo fanno in modo drastico. [Motivo per cui] Quando si auspica la fine dello Stato o se ne teme l’idea, bisognerebbe avere ben presente, alla luce dei precedenti storici, che questi processi sono sempre caratterizzati d auna violenza estrema.
[…] Sebbene io sostenga la visione di un unico Stato democratico per Israele e Palestina, il mio non vuole essere un appello perché si arrivi alla fine di Israele. Da storico, evidenzio che la fine di Israele sembra essere già cominciata. E la morte di uno Stato o il collasso di un’entità geopolitica creano un vuoto.[…] E quanto prima il vuoto sarà riempito, tanto meno violento sarà il processo di disintegrazione2.

L’ottica scelta pertanto è quella di individuare non soltanto le cause, ormai evidenti, del processo di disgregazione dello stato israeliano, ma anche le possibili soluzioni di una crisi quasi secolare che non potrà trovare risposta soltanto nel revanscismo arabo o nella continuazione e riaffermazione dell’espansionismo coloniale sionista. Entrambi forieri soltanto di guerre e sofferenze senza fine. Entrambi tunnel in cui, come per i soldati dell’Idf in quelli di Hamas nel sottosuolo di Gaza, sarebbe meglio non infilarsi.

La fine di Israele di cui parla Pappè nel suo libro è già da tempo stata individuata anche da molti altri osservatori, non obbligatoriamente di parte. Come si afferma ad esempio in un recente editoriale di «Limes»: «Lo Stato ebraico rischia la pelle perché cercando di scongiurare o ritardare la resa dei conti fra le sue fazioni, estesa alle istituzioni civili, militari e di intelligence, si è cacciato in conflitti infinibili mascherati da prologhi alla Vittoria Decisiva»3. Un’affermazione cui, sullo stesso numero della rivista di geopolitica, Giuseppe De Ruvo può aggiungere:

Nonostante Israele stia combattendo una guerra su sette fronti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Qatar, Iran – il più scottante continua ad essere quello domestico. Netanyahu ne è perfettamente consapevole, dunque agisce secondo un principio paradossale: per non perdere la guerra, quella che per gli ebrei realmente conta e che riguarda l’esistenza dello Stato di Israele, è necessario prolungare e allargare ad infinitum il conflitto che dall’ottobre 2023 vede Gerusalemme opporsi a mezzo Medio Oriente. Altro che vittoria definitiva.
[…] Solo Israele può fermare Israele. O completarne l’autodistruzione. A ritenere pericoloso il piano di Netanyahu e dei suoi alleati sono infatti interi pezzi di Stato ebraico, che vanno dalle Forze armate al Mossad. Apparati che ormai esplicitano a mezzo stampa le loro critiche, rifiutandosi di compiere operazioni che ritengono insensate e che sanno contribuire al crollo della credibilità internazionale di Israele. Autentica assicurazione sulla vita di un paese minuscolo, la cui legittimità deriva(va) dall’essere garante della sicurezza degli ebrei. Anche di quelli che non vi risiedono.
Queste tensioni, sempre meno latenti, non sono ancora esplose. L’esercito israeliano, nonostante gli scontri e i cambi al vertice, continua infatti a eseguire gli ordini di Netanyahu. E tuttavia ciò non significa che la situazione sia sotto controllo. Molto peggio. Quello cui stiamo assistendo non è infatti uno strappo dovuto al disaccordo tra Bibi e i suoi generali, ma il risultato del progressivo sfilacciamento dei rapporti di fiducia tra leadership politica, militare e securitaria. Per lo Stato ebraico, il fronte decisivo è dunque quello interno, l’ottavo. attorno al quale si combatte per l’anima e il futuro del paese [mentre] la sfiducia reciproca tra leadership civile e militare non è effetto ma causa della guerra4.

Situazione che in altra parte dell’articolo l’autore non esita a definire come un redde rationem interno o come autentiche prove di “guerra civile”. Una situazione che sottolinea la fragilità della forza e del progetto espansivo sionista, al contrario di ciò che molti analisti dell’antagonismo sociale e palestinese troppo spesso intendono come univoco e vincente. Eliminando dunque dal quadro di riferimento critico tutte le crepe e le enormi contraddizioni che ne minano gli intenti.

Compreso l’ingresso a gamba tesa di Donald Trump e della sua “politica di pace” nella Striscia di Gaza. Che, come si afferma ancora nell’editoriale di «Limes» citato più sopra, fa vincere al presidente americano, a mani basse, il premio per la migliore “fiction geopolitica” volta a redimere il Caos in Cosmo, disordine in ordine, guerra in pace. Piano che, pur essendo definito per la pace eterna e «che scioglie nodi plurimillenari in Medio Oriente a partire dal martirio dei palestinesi della Striscia da volgere in Riviera, non pare avviato a redimere la regione».

Fa bene la rivista a definire “fiction geopolitica” il piano trumpiano (?) per la Striscia poiché da diverso tempo a questa parte tutte le narrazioni che si susseguono, sia attraverso la voce o i messaggi postati da Trump su Truth oppure quelle recitate a soggetto dagli infiniti esperti solipsisti che si accorgono che la Storia volge in altra direzione da quella auspicata soltanto, e forse nemmeno allora, quando vanno a sbatterci contro, magari violentemente, ricordano sempre più quel “romanzo scritto male” di cui parlava Francesco Guccini in una sua canzone5. Oppure, rimanendo nel campo della fiction televisiva, quelle serie senza capo né coda in cui gli autori si ostinano ad andare avanti con stratagemmi sempre più banali e ripetitivi destinati a risvegliare l’attenzione di un pubblico sempre più sfinito e disattento.

Una narrazione che finge potenza e determinazione là dove tutto sembra smentire, a livello di ordine internazionale, quel nuovo ordine mondiale che l’Occidente e gli Stati Uniti si immaginavano di aver instaurato, o poter instaurare, a partire dalla fine dell’URSS e dalla globalizzazione intensiva dei commerci e dei rapporti finanziari su scala planetaria.
Una narrazione ormai fallita e rimasta farlocca proprio a partire dal centro dell’impero. Là dove un biondo (tinto) imperatore finge di poter fare ciò che vuole e rispondere a tutte le difficoltà mentre, di volta in volta, è costretto a smentirsi quasi quotidianamente per non subire del tutto le conseguenze degli eventi che hanno segnato la strada in altre direzioni da quelle previste.

Non cogliere questo elemento di forzatura rappresentativa del potere americano o sionista significherebbe soltanto accettare una narrazione tutta tesa a nascondere le difficoltà militari, economiche politiche, esterne e interne, che ne contraddistinguono ormai l’andatura sbilenca. Un’andatura sbilenca per cui, come era facile prevedere da molto tempo a questa parte, gli Stati Uniti di Trump, ma anche del futuro, non potranno più appoggiarsi soltanto su Israele per difendere i propri interessi mediorientali.

Una zoppia politico-militare che fa sì che i paesi musulmani, e non solo quelli del Golfo, debbano sostenere i bisogni americani sia geo-strategici che economici. I miliardi promessi da Qatar e Arabia Saudita indicano che questi nuovi possibili attori della scena internazionale potrebbero avere un ruolo importante per l’economia americana e non soltanto per i fondi di investimento di Trump e Kushner che già ne hanno incassato una parte. Potrebbero indicare che mentre l’attenzione nei loro confronti può costituire davvero un investimento conveniente, anche in vista di un progressivo disinvestimento cinese nei titoli di stato americani, la spesa militare per l’aiuto ad Israele potrebbe costituire in prospettiva soltanto più una perdita.

Da qui gli accordi di Abramo e il tentativo, già messo in atto durante il primo mandato di Trump, di chetare i rapporti tra tutti paesi dell’area, Iran compreso. Ma tutto ciò ha un costo, che la guerra di Gaza ha messo in rilievo: gli emirati, il Qatar, l’Egitto, la Turchia e la stessa Arabia Saudita, solo per citare alcuni dei possibili “alleati” hanno bisogno di ricevere in cambio qualcosa di consistente. Sia in termini economici che strategici, come guadagno diretto di un contratto che ha anche un suo versante politico, quello di tenere a bada masse popolari, arabe ma non solo, messe in agitazione da ciò che avviene a Gaza. In cui riconoscono il proprio destino e la necessità di giungere un giorno a rovesciare Stati e governi.

Ma lo Stato di Israele non può più, nonostante i suoi bombardamenti, le sue operazioni militari mirate, le sue stragi, costituire il garante dell’ordine sociale locale, anzi rischia di diventare con la sua sconsiderata azione il detonatore di rivolgimenti ben più vasti e incontrollabili. E anche gli Stati Uniti, dopo essersi illusi di rappresentare i garanti dell’ordine capitalistico occidentale, se non mondiale, devono oggi ammettere per bocca dello stesso Trump che «non possono più agire come gendarme internazionale».

Gli imperi declinano, poi crollano. L’impero americano è crollato prima di finir di declinare. Giacché nessun impero esiste per moto proprio ma a due condizioni: se può volerlo e se è riconosciuto tale dagli altri imperi e dalle potenze che contano. Oggi l’egemone che si ostentava globale, garante degli amici e nemesi per i nemici, non si vuole più tale perché stanco di mondo e nostalgico di nazione. Fra la vita e la morte gli americani scelgono l’America. Per conseguenza, né i suoi imbaldanziti avversari né i satelliti in panico abbandonico lo considerano più superiore gestore dell’ordine planetario6.

Fatto rilevabile nella crescente sfiducia che gli alleati arabi del Golfo hanno nei confronti di entrambi, soprattutto dopo l’attacco, fallimentare negli intenti dichiarati, condotto dall’IDF in Qatar. Una sfiducia apertamente manifestata dal principe saudita Mohammad bin Salman che non ha esitato a rivolgersi al Pakistan, altro paese musulmano, per mettersi al riparo di un ombrello nucleare che gli Stati Uniti sembrano non poter più garantire7. E anche se quest’ultimo fatto potrebbe fare parte di una strategia volta ad ottenere di più dal governo americano in occasione del prossimo viaggio del principe saudita a Washington, certamente è uno dei fattori che hanno “costretto” Trump a dichiarare la possibile ripresa dei test nucleari (soprattutto dopo il fallimento dell’azione militare americana nei confronti dei siti nucleari iraniani, confermato anche dalla stessa intelligence statunitense).

Ma tutto ciò non basta ancora: se è vero, infatti, che gli investimenti a Gaza per la ricostruzione rappresentano per le finanze arabe una magnifica occasione di guadagno, è altresì vero che tali investimenti dovranno essere “garantiti”. Senza inoltre contare che gli stessi paesi arabi stanno opponendo forti resistenze a una proposta sostenuta dagli Stati Uniti di ricostruire una ‘nuova’ Gaza esclusivamente nella metà dell’enclave attualmente posta sotto il controllo di Israele, visto che sia Israele che Washington hanno escluso che i fondi possano essere destinati alle aree sotto Hamas.

I sauditi sono abituati a mescolare assieme politica e affari, proprio nello stile preferito dal presidente Usa. Hanno anche un’innata simpatia per quest’ultimo che ha sempre scelto il loro paese per i suoi interventi e le sue prime visite ufficiali. Ma ora il vento è cambiato e la “parentela” Usa-Israele pare a Riad troppo limitante e senza garanzie di successo (o di guadagno). Basta far riferimento all’Ue: quanti milioni ha buttato in Cisgiordana e a Gaza che Israele non si è affrettata a distruggere in tante guerre? L’Israele di Netanyahu e della destra estrema oggi al potere è un paese spaccato, intriso d’odio e diviso al suo interno. E’ anche un paese imprevedibile: troppi luoghi di potere contrapposti e in competizione permanente fra di loro [e] certamente gli americani faranno fatica a spiegare ai sauditi chi comanda davvero a Tel Aviv. La fiducia dei sauditi si è notevolmente ridotta con possibili lunghe e amare ripercussioni8.

Ecco allora che la presenza di un contingente internazionale a Gaza, magari di paesi islamici, più che al disarmo di Hamas sarebbe rivolto, prima di tutto a garantire gli investimenti arabi nella Striscia. Come già ha ben compreso il governo israeliano, tutto rivolto ad evitare una governance mandataria americana nei confronti delle sue azioni e ad impedire la presenza dei militari turchi a Gaza. Considerato che la Turchia, proprio grazie all’azione disgregatrice di Israele, è giunta alle porte dello Stato ebraico attraverso la Siria oggi governata da Mohammed al-Bashir, l’ex-jihadista fortemente sponsorizzato dallo stesso Recep Tayyip Erdoğan, capo dello stato turco e teorico del rilancio degli interessi ottomani in tutta l’area mediorientale.

Una politica che negli ultimi tempi ha fatto sì che la Procura generale di Istanbul abbia emesso 37 mandati di arresto per altrettanti dirigenti politici e militari israeliani con l’accusa, documentata, di genocidio nei confronti della popolazione di Gaza. Tra i trentasette spiccano i nome di Bibi Netanyahu, di Itamar Ben-Gvir, di quello del Capo di stato maggiore Eyal Zamir e del ministro della Difesa Israel Katz. Questa provocazione causerà sicuramente qualche problema per Trump, considerata la sua predilezione per il capo di stato turco. Il quale ha anche ospitato ad Istanbul un vertice dei ministri degli Esteri di dieci paesi musulmani per coordinare la pressione per la forza multinazionale di stabilizzazione per Gaza, con il chiaro intento di mettersi a capo della stessa9.

E’ in mezzo a questo mare tempestoso che si deve muovere Donald Trump che, in un non lontano futuro, potrebbe scegliere di abbandonare oppure di affidarsi decisamente di meno alle scelte di un governo condannato, per non affondare insieme ad esso e mantenere quel minimo di influenza politica nei confronti degli alleati arabi. E se qualcuno, in un tale contesto, volesse ancora fare riferimento esclusivamente alla volontà di potenza sionista o alla determinazione imperialista statunitense per comprendere ciò che avviene sul campo, lo faccia pure, ma sapendo che gli errori, soprattutto di valutazione, prima o poi si pagano sempre.

E’ allora forse utile ricordare un’affermazione di Hannah Arendt, espressa nel 1948, ma ancora valida oggi a giudizio di chi scrive, secondo la quale: «Il modo più realistico per valutare il costo degli avvenimenti […] per i popoli del Vicino Oriente, non è costituito dalla perdita di vite umane, dai danni economici, dalla distruzione provocata dalla guerra o dalle vittorie militari, ma dai mutamenti politici». Quei mutamenti politici, ieri, erano rappresentati, sempre secondo la filosofa ebrea, dalla « creazione di una nuova categoria di persone senzapatria, i profughi arabi», cosa che non faceva altro che confermare l’assunto secondo il quale «gli ebrei miravano semplicemente a cacciare gli arabi dalle loro case».

Oggi, pur rimanendo evidente l’intento colonialista e liquidazionista della destra ebraica, i mutamenti politici si sono fatti più evidenti su scala mondiale, in un contesto in cui, come si è già detto prima lo Stato di Israele, con la sua azione spintasi ben oltre Gaza, sembra aver perso qualsiasi aspetto di legittimità davanti agli occhi della maggioranza della popolazione mondiale. Ben oltre i confini del mondo arabo in cui tale percezione condivisa era principalmente limitata prima del conflitto degli ultimi due anni. Una rimessa in discussione non solo dei principi che ne hanno validato l’esistenza per decenni, ma che costringono anche ad una progressiva, ancor che lenta agli occhi di molti, revisione delle alleanze che ne hanno garantito la sopravvivenza fino ad ora. Ed è a questo punto che occorre ritornare al testo di Pappé, là dove afferma, ad esempio:

Non sorprende che la guerra scoppiata nel 2023 tra Israele e Hamas sia vista da alcuni come preludio dell’Armageddon. Ma è possibile andare oltre la semplice visione apocalittica e presentare invece una valutazione più ottimistica di un potenziale esito di quello che sembra essere una disintegrazione inevitabile, caotica e violenta dello Stato ebraico.
[Infatti] diversi processi che si svolgevano davanti ai miei occhi mi hanno portato a concludere, non come attivista politico o visionario bensì come accademico, che stiamo assistendo alla fine dello Stato di Israele, o se non altro del progetto sionista come lo conosciamo. Benché promossi dalle azioni di gruppi di individui e organizzazioni, oggi questi processi hanno raggiunto una dimensione tale che la loro spinta è inarrestabile e condurrà a un cambiamento sul campo davvero fondamentale, rivoluzionario, in quelli che attualmente sono Israele, la Cisgiordania occupata e la striscia di Gaza distrutta10.

Però, per fare sì che queste affermazioni non rappresentino soltanto delle semplici e utopiche speranze, l’autore si preoccupa di aggiungere subito dopo:

Come molti miei amici palestinesi, anch’io mi riferisco alla fine di Israele come a un processo di decolonizzazione. In qualità di storico so bene dei casi del passato in cui la decolonizzazione è avvenuta attraverso trasformazioni violente e brutali. La storia, la migliore maestra che abbiamo, ci fornisce anche innumerevoli esempi in cui le lotte di per la liberazione e la decolonizzazione sono sfociate nella creazione di nuovi sistemi di ingiustizia, per usare un eufemismo.
Realisticamente, sarebbe ingenuo immaginare la fine del progetto sionista o dello Stato di Israele come una felice e rapida trasformazione da un luogo di occupazione, oppressione e, da ultimo, di genocidio in un paese dove le libertà sono garantite a tutti e dove viene ristabilita la giustizia per chi in passato abbia subito dei torti. Ma è importante aspirare a una transizione […] che vada innanzitutto a beneficio delle vittime dell’oppressione e degli spargimenti di sangue, ma anche di coloro che temono che perdere la propria posizione di privilegio e superiorità li trasformerà in vittime, da agiati oppressori quali sono attualmente..
Per riassumere quanto detto fin qui: il progetto sionista si sta sbriciolando e con esso lo Stato di Israele come uno Stato ebraico. E questa non è una pia illusione né lo scenatio cui si potrebbe arrivare nel peggiore dei casi. E’ qualcosa di inevitabile, non perché io stia adottando una prospettiva determinista sulla storia o perché possieda una sfera di cristallo, ma perché è una situazione già in essere, anche se non se ne parla11.

Spesso anche negli ambienti dell’antagonismo, abituati da decenni di vittimizzazione a non aspirare ad altro che ad una vendetta. Dimenticando che il dio della vendetta è esattamente quello esaltato dalla destra israeliana ed evangelica e che la vendetta non può mai costituire un buon metro di giudizio o di programmazione per il futuro. Una cecità che impedisce di cogliere crepe importanti non soltanto ai vertici dell’intelligence e delle forze di difesa dello Stato di Israele, come la mancata riuscita del bombardamento dei vertici di Hamas a Doha oppure la vicenda dell’avvocato generale militare, Yifat Tomer-Yerushalmi, arrestata per aver diffuso un video che mostra gli abusi dei soldati su un detenuto palestinese e ancora rinchiusa in carcere per aver fatto tale scelta, già mettono in evidenza .

Crepe che si manifestano nel rifiuto dei riservisti di tornare sul fronte di Gaza oppure nelle manifestazioni dei parenti degli ostaggi che, anche se spesso sono state rivolte soltanto alla salvezza dei propri cari oppure alla richiesta di un’azione più energica nei confronti di Hamas, talvolta sono sfociate in dichiarazioni individuali o collettive tese alla ricerca di un nuovo modus vivendi con la popolazione arabo-palestinese12.

Le fondamenta dell’Israele sionista hanno crepe così grosse che nessuna opera di manutenzione potrà ripararle. Non si tratta di stabilire se l’edificio crollerà, ma quando ciò avverà.
[…] Per riassumere, il collasso di Israele non è una posizione politica, qualcosa che si possa ccettare o rifiutare. E’ un processo oggettivo che è già cominciato. La sua probabilità dovrebbe essere discussa come argomento principale nella conversazione a lungo termine sul futuro di Israele e della Palestina, anziché concentrarsi -come facciamo noi- sul futuro dei palestinesi. La sorte dei palestinesi nei prossimi anni è comprensibilmente la nostra più grande preoccupazione, ma nel lungo periodo sarà la sorte degli ebrei nella Palestina storica la questione da risolvere.
Il tentativo secolare dell’Occidente, Regno Unito in testa, di imporre uno Stato ebraico su un paese arabo sembra essere arrivato alla fine. E’ riuscito a creare una società organica di milioni di colonizzatori, molti dei quali ormai di seconda o terza generazione, ma la cui sorte dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla capacità di imporre con la forza violenta la loro volontà su milioni di palestinesi indigeni che non hanno mai rinunciato al proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà sulla propria terra natia. L’unica speranza per il futuro degli ebrei sarà data dalla loro disponibilità a vivere da cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata. Sono convinto che molti lo faranno13.

Tutto il testo di Pappé, diviso in tre parti, è teso a individuare le contraddizioni e le formule politiche e sociali che potranno contribuire al raggiungimento di un tale risultato, ben diverso e lontano dalla tanto sbandierata ed inefficace soluzione dei “due popoli due stati”. Formula che conviene tanto ai sionisti quanto ai paesi occidentali e arabi e ai loro governi per mantenere divisi e in stato di inimicizia costante palestinesi ed ebrei.

Anche se, per chi scrive, un percorso di guerra civile sembra delinearsi come un passaggio obbligato all’interno della società israeliana, sarà comunque soltanto cercando un’unità di lotta dal basso tra i due popoli che si potrebbe giungere al superamento dell’oppressione di tutti coloro che vivono in Palestina, al di là delle troppo facili retoriche della lotta di classe e dei suoi miracolosi effetti sulla psiche collettiva oppure, ancor peggio, di quelle vuote, pericolose e razziste della vendetta antisemita.


  1. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 115-124.  

  2. I. Pappé, Prefazione a I. Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 11-13.  

  3. Zero Stati?, editoriale del n°9, 2025 di «Limes» dal titolo Gli Stati di Israele, p. 10.  

  4. G. De Ruvo, L’ottavo fronte di Israele in «Limes» n°9/2025, pp. 41-42.  

  5. F. Guccini, Incontro, nell’album Radici del 1972.  

  6. L. Caracciolo, Il declino dell’impero americano, “la Repubblica”, 8 novembre 2025.  

  7. Si veda: M. Giro, Il tycoon e la variabile saudita. Riad non si fida più degli Usa, «Domani» 4 novembre 2025.  

  8. M. Giro, Riad non si fida più degli Usa, cit.  

  9. F. Magri, Nuovo mandato d’arresto per Netanyahu. La Turchia accusa Israele di genocidio, “La Stampa”, 8 novembre 2025.  

  10. I. Pappé, op. cit., p.14.  

  11. Ibidem, pp. 15-16. 

  12. Si veda su tutto questo: F. Borri, Israele contro Israele, in «Limes» n°9/2025, pp. 97-101.  

  13. Ivi, pp. 16-18.  

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Razionalità al collasso: il conflitto tra potere, controllo e caos in A House of Dynamite, il nuovo film di Kathryn Bigelow https://www.carmillaonline.com/2025/11/11/razionalita-al-collasso-il-conflitto-tra-potere-controllo-e-caos-in-a-house-of-dynamite-il-nuovo-film-di-kathryn-bigelow/ Tue, 11 Nov 2025 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91292 di Fosca Gallesio

A House of Dynamite, l’ultimo film di Kathryn Bigelow, è un interessante thriller politico che esplora le possibili implicazioni di un attacco nucleare diretto contro gli Stati Uniti. Il film adotta una particolare struttura tripartita, offrendo il punto di vista di tre luoghi differenti impegnati nella gestione della crisi.

Si inizia con l’unità di crisi della Casa Bianca, dove il personaggio centrale è il capitano capo dello staff, interpretato da Rebecca Ferguson. Il secondo segmento si sposta nell’ufficio del Segretario alla Difesa, interpretato da Jared Harris. Infine, il terzo segmento narrativo riguarda direttamente il Presidente degli Stati Uniti, [...]]]> di Fosca Gallesio

A House of Dynamite, l’ultimo film di Kathryn Bigelow, è un interessante thriller politico che esplora le possibili implicazioni di un attacco nucleare diretto contro gli Stati Uniti. Il film adotta una particolare struttura tripartita, offrendo il punto di vista di tre luoghi differenti impegnati nella gestione della crisi.

Si inizia con l’unità di crisi della Casa Bianca, dove il personaggio centrale è il capitano capo dello staff, interpretato da Rebecca Ferguson. Il secondo segmento si sposta nell’ufficio del Segretario alla Difesa, interpretato da Jared Harris. Infine, il terzo segmento narrativo riguarda direttamente il Presidente degli Stati Uniti, interpretato da Idris Elba.

Il film, dunque, è parcellizzato: da un lato analizza in profondità scomponendo il racconto, dall’altro moltiplica i punti di vista in una sorta di mise en abyme della realtà, triplicata in una struttura narrativa a spirale che si avvolge su se stessa, precipitando verso l’esplosione finale.

L’intera struttura narrativa ruota attorno ai venti minuti chiave della storia: un’unità temporale precisa che costituisce la trama del film e che viene ripetuta in tre versioni differenti. Questo lasso di tempo va dal momento in cui sui radar viene individuato un missile diretto verso il territorio americano, fino al tentativo di intercettazione, fallito, e alla successiva individuazione della traiettoria del missile nemico. Quando si riconosce che l’obiettivo probabile, con una percentuale di certezza del 90%, è la città di Chicago, viene stimata l’entità dei danni: solo le vittime immediate, colpite dall’esplosione senza considerare il fallout radioattivo, sarebbero circa dieci milioni.

Tutti questi elementi di trama vengono esplorati nel primo segmento, che in un certo senso esaurisce la componente di suspense puramente narrativa. Infatti, se A House of Dynamite adotta una struttura da thriller, l’elemento classico del “vedere come va a finire” viene risolto molto presto. L’interesse del film si sposta così altrove: non sull’esito della storia, ma sul modo in cui i diversi personaggi — chiamati, per ruolo e posizione, a gestire l’emergenza — riescono o meno a mantenere il controllo, a dare risposte operative, a gestire la paura.

La regia di Bigelow concentra l’attenzione non tanto sulla componente operativa o militare, che pure è resa con grande dettaglio e con uno stile quasi documentaristico, ma sulla dimensione umana. Il linguaggio tecnico, fitto di acronimi e termini specifici, crea volutamente un effetto di cripticità: lo spettatore non capisce sempre nel dettaglio cosa stia accadendo sul piano operativo, ma percepisce chiaramente la tensione.

Ciò che interessa alla regista non è la precisione del linguaggio militare, bensì la capacità dei personaggi di mantenere la lucidità, la freddezza e la logica necessarie in una situazione estrema, pur dovendo affrontare l’impatto emotivo e psicologico dell’evento. C’è lo sgomento, la sorpresa, la consapevolezza di trovarsi davanti a un attacco nucleare reale: emozioni che cozzano contro il ruolo istituzionale, imponendo un equilibrio quasi impossibile tra razionalità e panico.

Proprio in questa tensione interiore — tra l’istituzionalità logica e la reazione umana — si sviluppa il cuore del film. L’attrito cresce progressivamente, perché nel corso dei tre segmenti il livello dei personaggi coinvolti si alza: dalla manager della Casa Bianca si arriva fino al Presidente stesso.

Bigelow gioca abilmente con il desiderio dello spettatore di sapere “come andrà a finire”, pur costruendo un racconto in cui il finale non è la rivelazione decisiva, ma l’esito coerente di un ragionamento politico e morale. Il finale, infatti — senza rivelare troppo — non è una sorpresa, ma un punto di arrivo che serve il messaggio complessivo del film: una riflessione sulla corsa agli armamenti, sul concetto di deterrenza e sulla sua effettiva utilità.

A House of Dynamite non si basa sulla domanda “cosa succederebbe se?”, ma sul dilemma etico e politico del “cosa dovremmo fare quando accadrà”. L’esplosione della bomba, in sé, è secondaria: ciò che interessa è la reazione umana e le decisioni che vengono prese di fronte a una minaccia irrisolvibile da chi lavora all’interno dei sistemi di potere.

Il film esplora con grande precisione il dilemma centrale: come reagire a una minaccia nucleare imminente e ineluttabile. Il giovane assistente del Segretario alla Sicurezza Nazionale diventa la figura chiave in questa dinamica: non abituato a gestire situazioni di massimo livello, viene però investito della responsabilità di fornire indicazioni operative e morali cruciali.

Attraverso di lui, Bigelow mette in scena la tensione tra reazione immediata e riflessione ponderata. Si tratta di decidere se lanciare una ritorsione preventiva o attendere conferme certe sull’origine dell’attacco. Il film insiste su questa dialettica, ripetendo l’azione dei venti minuti cruciali attraverso i tre punti di vista: ogni iterazione rivela nuovi dettagli, nuove incertezze, nuove responsabilità e nuove sfumature emotive dei personaggi coinvolti.

L’elemento etico emerge con particolare forza nel confronto diretto tra il Presidente e il giovane vice del segretario della NSA. Viene chiarito che il paese più potente del mondo non può apparire debole, e che la pressione internazionale — la percezione di forza o di cedimento — diventa parte integrante della decisione. Questa tensione tra ruolo istituzionale, moralità e sopravvivenza collettiva costituisce l’asse portante del film.

A House of Dynamite è una lente di lettura attenta delle dinamiche geopolitiche mondiali. Il missile, pur sospettato di provenire dalla Corea del Nord, in realtà pone interrogativi su possibili responsabilità esterne, incluso il coinvolgimento della Russia, tradizionale avversario strategico degli Stati Uniti.

Bigelow mostra come la gestione di un attacco nucleare non sia solo questione di intercettazioni o capacità militari, ma anche di diplomazia, comunicazioni internazionali e prevenzione di escalation incontrollate. Il film evidenzia inoltre il limite del concetto di deterrenza: la certezza dell’arsenale nucleare non garantisce immunità. Anzi, la dotazione di armi nucleari sempre più potenti e numerose, ne prefigura la necessità di utilizzo in caso di un attacco, la deterrenza è solo un falso velo protettivo morale, perché qualsiasi bomba è fatta per esplodere, qualsiasi arma è fatta per essere usata. Una volta che ci si costruisce l’immagine di superpotenza mondiale, se provocati, bisogna metterla in atto e concretizzarla di fronte al mondo intero, non ci si può tirare indietro.

L’esplosione di una bomba — anche isolata — può scatenare risposte automatiche, movimenti politici, fraintendimenti e decisioni basate sulla paura e sulla volontà di potere, piuttosto che sulla razionalità strategica e sul desiderio di pace mondiale.

Uno dei punti di forza del film è l’approfondimento psicologico dei personaggi. La sceneggiatura di Noah Oppenheim sceglie uno stile documentaristico per raccontare le azioni dei personaggi in un contesto di crisi, mettendone in evidenza l’ambiguità delle scelte morali e aprendo una prospettiva umana sul messaggio politico del film.

Il capitano capo dello staff, il Segretario della difesa e il Presidente vengono esplorati nella loro complessità: ognuno deve bilanciare competenza, autorità, responsabilità istituzionale e fragilità umana. Nell’emergenza non c’è tempo per farsi influenzare dalle emozioni personali, che non sono mai esplicitate attraverso il dialogo diretto, ma emergono dalle azioni, dagli sguardi, dai gesti minimi: un anello, una fotografia di famiglia, una video-chiamata alla moglie, diventano strumenti per raccontare l’angoscia. Non c’è spazio per farsi dominare dall’emotività, ma la profondità psicologica emerge inevitabilmente nel comportamento operativo, che da logico e strategico, diventa umano, emotivo e caotico.

Il Presidente, interpretato da Idris Elba, appare come un leader vicino alle persone, alla mano, ma di fronte alla crisi rivela la rigidità del ruolo: la necessità di non poter apparire debole, pur mantenendo un senso morale e politico coerente. Come Presidente USA spetta a lui la decisione impossibile imposta dal film: bisogna scegliere tra la resa e il suicidio. Tra l’accettare di essere colpiti al cuore dell’America senza fare niente, e il dare una risposta di forza, sfoderando l’arsenale più potente della terra, pur non avendo la certezza di chi sia il vero nemico e rischiando di aprire una frattura che condurrà all’olocausto nucleare mondiale.

La regia di Bigelow privilegia un iperrealismo dettagliato, che si manifesta nella sceneggiatura, nella fotografia e nel montaggio. Le inquadrature seguono i personaggi da vicino, facendo sentire lo spettatore dentro la scena, come se fosse parte integrante della crisi. Il montaggio è preciso e calibrato, dosando suspense e ritmo in un film interamente basato sui dialoghi, in cui la tensione nasce dall’intensità emotiva e dall’ansia della responsabilità più che dall’azione fisica.

Rispetto ad altri film di Bigelow, A House of Dynamite si svolge prevalentemente in ambienti chiusi — la sala crisi della Casa Bianca, gli uffici e le basi militari, perfino il presidente è all’interno di un’auto al telefono — dove i personaggi si interfacciano tra di loro attraverso gli schermi, in una conference-call determinante per il futuro del mondo. Questa virtualizzazione telematica mette in evidenza lo scarto tra l’esigenza umana di affrontare la crisi condividendo uno spazio reale di confronto e dialettica, e il dispositivo di gestione militare ottimizzato per fornire una risposta razionale, rapida ed efficace. La conference-call determina il destino del mondo, ma rivela la distanza tra la gestione algoritmica della crisi e l’angoscia fisica di chi ne subisce gli effetti.

Come negli altri film della regista c’è una riflessione sui dispositivi di esperienza e di visione del reale, ma se nei lavori precedenti si sfruttava appieno la grandezza di visione dell’esperienza cinematografica, in questo film si insiste sull’alienazione claustrofobica della visione attraverso gli schermi dei computer e dei telefoni. In questo senso la distribuzione del film sulla piattaforma Netflix non è solo un elemento produttivo, ma diventa un fattore che definisce il linguaggio, creando un rispecchiamento tra i personaggi chiusi nei bunker ad affrontare la minaccia nucleare e gli spettatori chiusi nelle loro case che assistono sul teleschermo all’agghiacciante epilogo della crisi.

House of Dynamite è un thriller politico che va oltre la tensione narrativa: il film invita a riflettere sul significato della guerra, della vita militare e del ruolo di chi è chiamato a prendere decisioni di portata globale. Il punto in discussione rimane la visione morale e politica che determina il senso di efficacia. La scelta e la decisione finale non può che essere umana. Ma come può essere umana all’interno di un dispositivo meccanico e funzionale, di stampo militare, che offre una sola alternativa: la resa o il suicidio.

La narrazione tripartita, la reiterazione dei venti minuti centrali e l’analisi dettagliata dei personaggi costruiscono un’opera che è al contempo realista, politica e profondamente umana. Bigelow conferma il suo ruolo di maestra del thriller politico-militare, capace di combinare rigore tecnico, profondità psicologica e riflessione etica in un film di altissimo livello, in cui la suspense nasce dalla tensione morale e non dall’azione spettacolare.

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10 lettere https://www.carmillaonline.com/2025/11/10/10-lettere/ Mon, 10 Nov 2025 22:55:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91437 di Francisco Soriano

«10» sono le lettere indirizzate da Rainer Maria Rilke, tra il 1903 e il 1908, a Franz Xaver Kappus, giovanissimo allievo dell’accademia militare di Wiener Neustadt. Un miracoloso quanto «inatteso» carteggio fra un cadetto, aspirante poeta, e un gigante della letteratura. L’epistolario è oggi riferimento ineludibile sia per l’esegesi del pensiero poetico rilkiano che per la sua visione del mondo della letteratura. In questo enorme spazio creato dallo stesso Rilke, i temi sono la maieutica come modalità di comporre versi e la «messa in prova» della vita quotidiana durante la quale urge un comportamento solitario e redentivo, dedito [...]]]> di Francisco Soriano

«10» sono le lettere indirizzate da Rainer Maria Rilke, tra il 1903 e il 1908, a Franz Xaver Kappus, giovanissimo allievo dell’accademia militare di Wiener Neustadt. Un miracoloso quanto «inatteso» carteggio fra un cadetto, aspirante poeta, e un gigante della letteratura. L’epistolario è oggi riferimento ineludibile sia per l’esegesi del pensiero poetico rilkiano che per la sua visione del mondo della letteratura. In questo enorme spazio creato dallo stesso Rilke, i temi sono la maieutica come modalità di comporre versi e la «messa in prova» della vita quotidiana durante la quale urge un comportamento solitario e redentivo, dedito all’amore e all’arte come sublimazione e senso della propria esistenza, così come affermato dallo stesso poeta: «l’arte è solo una maniera di vivere, e ci si può preparare a essa vivendo».

Rilke, sin dalle prime battute della missiva spedita da Viareggio il 5 aprile del 1903, avverte Kappus che non dovrà sorprendersi per la sua tardiva o mancata risposta alle lettere e, per questo motivo, chiede «indulgenza». Soprattutto, aggiunge il poeta, «nelle cose più profonde e importanti»1, bisognerà essere «indicibilmente soli»2. Profondità e solitudine sono dunque lo stato di grazia e la conditio sine qua non irrinunciabili, al fine di consentire a un qualsiasi essere umano il tentativo di scrivere un testo poetico. Rilke appare sinceramente preoccupato nei confronti di Kappus, che lo ha investito di responsabilità con la sua richiesta di un giudizio sulle proprie poesie: «un’intera costellazione di cose – aggiunge il poeta austriaco – si deve congiungere perché una volta si arrivi a buon fine»3. L’uomo e il poeta dunque impongono una condotta, una linea di demarcazione e una soglia che può essere oltrepassata soltanto se si è disposti al sacrificio assoluto dell’informe vociare, del rumore, del quotidiano, dell’inconsistenza e dell’inutilità del superficiale. Questo è un primo comandamento per il «poeta» che voglia assumere dignità e consolidare nella sua parola poetica l’esito di una consapevole quanto faticosa riuscita. Una seconda condizione è inoltre necessaria: non lasciarsi dominare dall’ironia, «specialmente nei momenti di aridità»; «nei fecondi – suggerisce Rilke al suo interlocutore – tentate di servirvene come di un mezzo di più di afferrare la vita»4. L’ironia è concetto arduo da decifrare e, in poesia, da determinare. L’affermazione di Rilke va forse letta alla luce della dicotomia classica fra tragedia e commedia, laddove la commedia – intrisa appunto di ironia – si rivolge agli uomini. E dunque Rilke continua: «se vi sentite troppo in confidenza con essa […] rivolgetevi a grandi e gravi oggetti, davanti ai quali essa si fa piccola e inerme»5.

Franz Xaver Kappus (Timisoara, 17 maggio 1883 – Berlino, 9 ottobre 1966)

Dunque è nella sfera della profondità, dove sarà impossibile che l’ironia arrivi tanto è inestricabile e irraggiungibile, che la poesia trova il suo perfetto habitat. Infatti tanto più la profondità viene sfiorata, tanto più sarà possibile capire se questo modo di vedere possa essere stato generato dalla «necessità» del nostro essere. Indissolubile relazione fra la propria e reale visione della vita vissuta e lo stato di necessità che ci agita, che ci distingue, che realizza il suo fine nobile. Parole che scandiscono una condotta coerente che non può essere distaccata, comodamente o per opportunismo, dalla realtà, dallo stile di vita propria che non è semplicemente forma ma sostanza. Il secondo aspetto al quale fa riferimento Rilke è semplicemente un consiglio di lettura. Due libri indispensabili che lo accompagnano in ogni dove: Sei novelle e Niels Lyhne di Jens Peter Jacobsen. Questi libri rappresentano per il poeta la felicità, la ricchezza, «l’inafferrabile grandezza di un mondo». L’amore per questi libri, racconta il poeta, «sarà compensato a mille e mille doppi, […] penetrerà la trama della vostra vita quale uno dei fili più importanti fra tutti i fili delle vostre esperienze, delusioni e gioie»6. Inoltre, l’apprendimento di qualcosa sull’essenza della creazione è dovuto non solo alle opere di Jacobsen, ma anche del più grande scultore fra gli artisti contemporanei a Rilke: Auguste Rodin.

Molto probabilmente in una missiva il giovane Kappus segnala a Rilke di aver letto Qui dovevano esserci rose di Jacobsen, insieme al suo disappunto per l’introduzione al testo, ricevendo per questo motivo le lodi dello scrittore viennese, che aggiunge: «E qui subito una preghiera: leggete il meno possibile scritti di critica estetica, sono o opinioni faziose, impietrate e ormai senza senso nel loro inanimato irrigidimento, o abili giochi di parole, in cui oggi vince questo parere e domani il contrario»7. Conferma dunque la solitudine nell’arte come prassi e comportamento, un consiglio che oggi sarebbe molto utile ai chiassosi aspiranti poeti e artisti che invadono platee fra proclami entusiastici accompagnati da giubilanti recital poetici. Non a caso Rilke pone l’accento sul percorso saggio che ogni artista dovrebbe fare, la crescita naturale da seguire partorita soltanto dalla «intima vita nella quale è possibile», “lentamente”, ravvedersi e migliorarsi. Mai sottomettersi o relativizzare la propria opera con il giudizio dei critici, possibilmente lasciati a se stessi nelle loro elucubrazioni, nel tentativo di non far né reprimere né accelerare i processi che devono realizzarsi senza impedimenti in se stessi: «Lascia compiersi ogni impressione e ogni germe d’un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile, alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto d’una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere d’artista: nel comprendere come nel creare»8. Inutile dunque è la misurazione del tempo o termini imposti nel compiere il gesto artistico, si è come alberi a crescere senza apprensioni, sgombri d’ansia, dove la pazienza è tutto.

René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Les Planches, 29 dicembre 1926)

Per Rilke la lotta è quella col desiderio di abbandonare la propria solitudine, uscirne e vivere nel caos brulicante delle superficialità, copiose e incalcolabili. La solitudine è quella dei bambini che osservano gli adulti indaffarati in mille faccende che appaiono importantissime e, in fondo, molte di esse sono addirittura miserabili. Quella dei bambini è una «sapiente incomprensione», un’incomprensione che è suo malgrado saggia, più vicina al vero di quanto sappia. Sono gli adulti e le persone in generale che hanno dissipato il tutto in facilità: è nel difficile che bisogna vivere, infatti è bene tenersi soli perché la «solitudine è difficile». Anche l’amore appartiene alla dimensione del difficile, il compito più estremo con i suoi tempi lunghissimi e la sua clausura, la solitudine più intensa. In questo caso Rilke capovolge l’assunto amoroso: amare non è schiudersi, né donare, né unirsi a qualcuno: «che cosa sarebbe infatti l’unione di un elemento indistinto, immaturo, non ancora libero?» 9.

Dunque il tempo e la solitudine diventano spazi in divenire, in grandezze e attraversamenti lenti, il contrario di quello che generalmente perpetriamo. In questa dimensione ben si percepiscono le istanze dell’ignoto che ci vengono incontro anche se non lo vogliamo. Per questo la vita ci pone in un bivio costante che perennemente bisognerebbe affrontare con una buona dose di coraggio, perché la viltà ci concede solo insoddisfazione e miseria. Il coraggio verso l’insondabile e l’inaudito è motore cosciente, affronto alla comodità, allo spregevole, al superficiale. Così come l’angoscia, l’amarezza, la sofferenza sono stati d’animo che lavorano dentro di noi e dei quali non bisogna provare sgomento: il tutto è trasformazione, progresso. Meravigliosa intuizione di questo straordinario poeta è l’affermazione che «la malattia è il mezzo con cui l’organismo si libera dall’estraneo»10. Anche nella malattia bisogna essere pazienti e nello stesso tempo medici di se stessi nell’attesa.

L’arte è davvero una maniera di vivere. Lontani da certo giornalismo, da tutta la critica e «tre quarti di ciò che si chiama e vorrebbe chiamarsi letteratura»11. Per questo è necessario distaccarsi, allontanarsi, sentire l’essenza della solitudine, combattere ogni desiderio di manifestarsi a tutti i costi, portare con sé questo libro di Rilke come un amuleto. Il contrario di quello che oggi succede nel vociare informe della insopportabile pornografia di una certa letteratura e del dolore.


  1. Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1998, p. 19.  

  2.  Ibid.  

  3.  Ibid.  

  4.  Ivi, p. 20.  

  5.  Ibid.  

  6. Ivi, p. 21.  

  7.  vi, p. 24.  

  8.  vi, p. 25.  

  9.  Ibid.  

  10.  Ivi, p. 61.  

  11.  Ivi, p. 71.  

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Il Metaverso. Profili strutturali, socio-mediologici, economici e giuridici https://www.carmillaonline.com/2025/11/09/il-metaverso-profili-strutturali-socio-mediologici-economici-e-giuridici/ Sun, 09 Nov 2025 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91028 di Gioacchino Toni

Luca Di Majo, Gino Frezza, a cura di, Il Metaverso. Profili strutturali, socio-mediologici, economici e giuridici, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 472, € 36.00

Avvalendosi di una serie di contributi di ingegneri informatici, sociologi, mediologi, economisti e giuristi, il volume Il Metaverso (Mimesis, 2025), curato da Luca Di Majo e Gino Frezza, dopo un primo gruppo di scritti utili a introdurre agli ambienti tecno-relazionali dei mondi paralleli delineandone la struttura e il funzionamento, presenta una serie di approfondimenti degli aspetti culturali, sociali e di consumo del Metaverso per poi, nella parte finale, affrontarne gli aspetti legali ed economici, evidenziando come [...]]]> di Gioacchino Toni

Luca Di Majo, Gino Frezza, a cura di, Il Metaverso. Profili strutturali, socio-mediologici, economici e giuridici, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 472, € 36.00

Avvalendosi di una serie di contributi di ingegneri informatici, sociologi, mediologi, economisti e giuristi, il volume Il Metaverso (Mimesis, 2025), curato da Luca Di Majo e Gino Frezza, dopo un primo gruppo di scritti utili a introdurre agli ambienti tecno-relazionali dei mondi paralleli delineandone la struttura e il funzionamento, presenta una serie di approfondimenti degli aspetti culturali, sociali e di consumo del Metaverso per poi, nella parte finale, affrontarne gli aspetti legali ed economici, evidenziando come il diritto fatichi a tenere il passo del progresso tecnologico e il rischio che si vengano a creare inedite forme di sovranità compromettenti i diritti fondamentali degli esseri umani.

In apertura del suo contributo, Massimiliano Rak introduce il Metaverso, gli avatar che in/con esso si relazionano e la Realtà Estesa, intesa come soluzione tecnologica per la percezione di tale ambiente tecno-relazionale, in questo modo:

Il Metaverso in quanto Mondo Virtuale è caratterizzato da un ecosistema autosufficiente, all’interno del quale è possibile interagire, con altri partecipanti o con gli oggetti digitali del mondo stesso, secondo regole sue proprie e con regole di interazione che sono limitate solo dalle caratteristiche del mondo virtuale stesso. Gli avatar sono l’altra faccia della medaglia del mondo virtuale: sono il modo in cui l’individuo si pone nel Metaverso e nella ricostruita realtà. La forma con la quale interagisce con gli altri e il modo in cui gli altri percepiscono chi a quel mondo partecipa. La Realtà Estesa infine è la soluzione tecnologica per la percezione del Metaverso stesso: l’utilizzo di strumenti che ampliano (potenziano? Alterano?) i sensi per permettere l’interazione nel mondo virtuale e immergere il partecipante nel mondo virtuale e impersonare il suo avatar, ad oggi la parte meno diffusa e consolidata nella gestione dei Metaversi, a causa della immaturità e il costo delle tecnologie coinvolte (p. 19).

L’idea di mondo virtuale, come spazio simulato, retto da regole proprie e abitato da entità che interagiscono secondo dinamiche locali producendo comportamenti, precede quella di Metaverso. Rak riporta esempi pionieristici ancora privi di interattività con esseri umani a cui hanno fatto seguito, in ambito ludico, i Role Playing Games (RPG) e, successivamente, i Massively Multiplayer Online Role-Playing Games (MMORPG) che hanno trovato diffusione nel nuovo millennio. Tra gli esempi più conosciuti di game che si espandono in vere e proprie piattaforme creative e sociali associabili al concetto di Metaverso, Rak indica Minecraft (dal 2009), sandbox che consente ai gamer di intervenire creativamente sullo spazio virtuale creando regole e narrazioni e di agire sulle meccaniche di gioco, mentre tra i precursori veri e propri del concetto di Metaverso l’autore indica Second Life (dal 2003), Roblox (2006), Spatial (dal 2017), Cryptovoxels (2018), Horizon Worlds (dal 2019) e Decentraland (dal 2020).

Rak si sofferma sull’impiego in ambito non ludico dei diversi tipi di Metaverso facendo riferimento al ricorso a mondi virtuali come strumenti utili per valutazioni economiche e sociali, al loro utilizzo per simulare politiche, modelli di business e dinamiche sociali con modalità interattive: dall’introduzione di un’economia virtuale in Second Life all’uso degli spazi virtuali da parte di multinazionali come J.P. Morgan, dall’ambito didattico (es. Educa360 e Virbela) a quello sanitario, come nel caso delle cliniche virtuali di supporto da remoto ai pazienti (es. XRHealth e Thumbay Group), dalla formazione professionale alla prototipazione industriale e alla collaborazione remota. Al di là del tecnoentusiasmo dispensato da chi guarda al Metaverso soprattutto dal punto di vista del business e delle possibilità di esercitare controllo, resta difficile, sostiene Rak, prevedere l’impatto sulla società che avranno le tecnologie di realtà virtuale indirizzate «a fondere completamente i mondi virtuali (non più immaginari, ma virtuali) con la realtà fisica (la cosiddetta realtà estesa)» (p. 33).

Nel suo intervento, Leo Sorge definisce il Metaverso come «una collezione di mondi digitali diversi, con rappresentazione tridimensionale sul piano o nello spazio, che seguono le stesse regole», mondi che simulano caratteristiche spaziali e sensoriali del corpo umano e delle modalità con cui quest’ultimo percepisce il mondo. Sorge si sofferma sul Metaverso industriale privo della componete umanizzata, il Digital Twin (gemello digitale), utile per «riprodurre digitalmente il funzionamento di tutte le componenti di determinate attività quali magazzini, fabbriche, città […], eventualmente parti del corpo umano e via via scalando fino al mondo intero» (p. 38). A farne ricorso sono colossi come Siemens, General Electric, Dassault Systèmes, Nvidia e Microsoft. Il Digital Twin consente non solo di verificare il funzionamento dell’insieme nel tempo ma anche di prevedere improvvisi cambiamenti.

Nonostante l’importanza assunta dal Metaverso nel discorso pubblico contemporaneo, nota Christiano Presutti, la sua definizione rimane sfuggente e in continua trasformazione, dipendente com’è dall’evoluzione tecnologica, dalla mutevolezza delle pratiche sociali e, ovviamente, dal mutare delle interpretazioni teoriche che ne ridefiniscono i confini. Per quanto alcuni studiosi e sviluppatori lo descrivano come «un ambiente digitale persistente e immersivo, in cui gli utenti interagiscono attraverso avatar e oggetti virtuali», è evidente, continua Presutti, che, lungi dall’essere un’entità monolitica, il Metaverso è piuttosto «un insieme di spazi virtuali eterogenei, che si evolvono attraverso tecnologie, architetture e standard differenti» (p. 62). Nonostante il tentativo di creare una condizione immersiva attraverso il coinvolgimento sensoriale abbia una lunga storia, è soltanto sul finire del Novecento che, con la rivoluzione telematica e con il diffondersi della cultura cyberpunk nel discorso pubblico, secondo Presutti, si può parlare propriamente di Metaverso a prescindere dall’appropriazione del termine da parte di Mark Zuckerberg nel 2021.

Per quanto, come detto, ogni definizione non possa che essere provvisoria, per fornire un quadro concettuale utile all’analisi tecnologica, a oggi, il Metaverso potrebbe essere definito come «un ecosistema digitale persistente e interoperabile, composto da spazi virtuali interconnessi, in cui gli utenti interagiscono attraverso avatar e oggetti digitali, sfruttando tecnologie di realtà estesa, blockchain e intelligenza artificiale» (pp. 64-65). Sottolineando come il Metaverso non sia riconducibile a mero ambiente tecnologico, bensì occorra guardare ad esso come un terreno di negoziazione sociale, politica ed economica, nel suo scritto Presutti ricostruisce le tappe principali dell’evoluzione storica del concetto di Metaverso determinato dall’intrecciarsi di sviluppi tecnologici, di trasformazioni dell’industria videoludica, di cambiamenti socio-economici e di momenti di svolta nell’immaginario collettivo, evidenziando, al contempo, i limiti sensoriali delle tecnologie immersive contemporanee, ancora in buona parte concentrate sull’udito e sulla vista, e come l’ambito videoludico rappresenti al momento il settore di sperimentazione trainante.

A partire dall’importanza storicamente assegnata all’immagine nel tentativo di superare i limiti fisici dell’essere umano per «visitare mondi possibili in cui non valgono le regole della natura e dove è possibile vivere storie nelle quali immergerci» (p. 77), Francesco Parisi guarda alle due strade con cui, a partire dagli albori della modernità, si è guardato all’immagine: la via rinascimentale italiana incentrata sulla rappresentazione di un evento intenzionalmente progettato e costruito e quella olandese mirante invece alla descrizione oggettiva del mondo senza implicare una narrazione compiuta e autoriferita, strade destinate a confrontarsi con l’avvento ottocentesco della fotografia, strumento tanto narrativo quanto descrittivo che ha imposto un importante cambio di paradigma percettivo.

Al fine di analizzare la Realtà Virtuale (RV) e la Realtà Aumentata (RA) che fanno seguito alla stagione in cui il cinema e gli audiovisivi hanno forgiato l’immaginario novecentesco, Parisi riprende la distinzione proposta da Jonathan Friday fra due diverse logiche che sottostanno rispettivamente all’immagine rinascimentale albertiana ed a quella kepleriana. Nella prima si guarda all’immagine come a «finestra dalla quale l’osservatore si affaccia per contemplare un mondo finzionale, parallelo e alternativo al mondo reale, in cui si sviluppa una storia che ha un inizio e una fine e che ha senso compiuto all’interno della cornice», un’immagine incentrata sulla volontà del pittore di «creare un mondo finzionale che risponda a una propria logica e sia completamente sganciato da ogni riferimento al mondo reale». Nel caso kepleriano, invece, l’immagine si propone come materializzazione dell’esperienza visiva di un osservatore, come frammento di mondo che, come tale, «non deve necessariamente avere o rappresentare una storia, ma solo essere visto per ciò che è» (p. 78).

Parisi guarda dunque alla realtà virtuale come alla più avanzata manifestazione del principio albertiano, e alla realtà aumentata come all’attuale punto di arrivo dell’immagine kepleriana evidenziando come, a suo avviso, «l’altalenante fortuna del Metaverso della quale si discute da tempo sia riconducibile all’eccessivo sbilanciamento, alimentato dai visori di RV, verso la logica dell’immagine albertiana», e come «l’adozione del paradigma kepleriano, mediante i dispositivi che vengono definiti oggi smart glasses, possa favorire non tanto la contemplazione di un Metaverso ma l’esplorazione di un diaverso, un universo che non sta altrove, ma che è già di fronte a noi e che possiamo espandere attraversandolo tecnologicamente» (p. 79). L’immagine kepleriana, nel suo «non propone un mondo fittizio in cui una storia si articola, ma solo la prospettiva descrittiva di un pezzo di mondo visto da qualcun altro», sostiene Parisi, «non ha lo scopo di trasferirci altrove, ma di essere strumento mediante cui accedere a un frammento di realtà altrimenti inaccessibile»; essa è dunque «la materializzazione di un’opportunità visuale» (p. 81), da qui la proposta di ricorrere al prefisso dià, a significare per mezzo di, attraverso.

A concludere la sezione dedicata ai profili strutturali del Metaverso, Leo Sorge riprende i principali snodi trattati dai diversi autori evidenziando come per quanto il mondo attuale continui a pensarsi strutturato da confini fisici, si trovi a fare i conti con una realtà rimodellata dall’espansione nel cyberspazio e nella space economy.

La sezione del volume dedicata agli aspetti socio-mediologici si apre con un saggio di Gino Frezza che invita a non guardare al Metaverso come se si trattasse di un’innovazione estemporanea priva di una storia. Lo studioso evidenzia, infatti, come la condizione di immersività all’interno di un ambiente visivo dall’apparenza tridimensionale in cui si interagisce con altri soggetti permessa dal Metaverso derivi da una serie di innovazioni tecnico-sociali che lo precedono. Il Metaverso andrebbe dunque guardato come risultato di un lungo processo che ha preso il via con la fotografia e che si è poi sviluppato nel cinema che, con la sua capacità di creare l’identificazione degli spettatori sullo schermo, ha posto le basi per l’esperienza immersiva consentita dal muovo ecosistema digitale.

Marco Centorrino ripercorre invece la storia della Rete mostrando come questa, tradendo le sue promesse libertarie, abbia finito per indirizzarsi verso il capitalismo digitale. Essendo i presupposti libertari con cui era nata la Rete ben diversi da quelli profit oriented da cui nasce il Metaverso, sarebbe sbagliato, sostiene lo studioso, vedere in quest’ultimo una nuova versione della Rete. Quello del Metaverso è infatti uno spazio concepito e realizzato direttamente dalle aziende private per scopi commerciali, per raccogliere dati biometrici degli utenti (salute, umore, emozioni) e per la vendita di prodotti virtuali in un contesto in cui muta il concetto stesso di proprietà. Non si tratta, dunque, di una semplice evoluzione della Rete, il Metaverso si sta configurando come un universo destinato a dotare le aziende di esercitare inedite forme di potere nei confronti degli utenti.

Riprendendo Friedrich Kittler nel suo denunciare la non neutralità tecnologica, nel convincimento che ogni dispositivo digitale sia contraddistinto da una precisa architettura di potere e controllo e che le operazioni mediate da macchine dipendano ben più dalle configurazioni fisiche (hardware) dell’apparecchiatura che dal software, Mario Tirino applica tale prospettiva di lettura anche al Metaverso rivelando come dietro alle lusinghe delle esperienze immersive sia possibile cogliere come le sue tecnologie non siano affatto «semplici strumenti di connessione», bensì «elementi che ristrutturano le relazioni sociali e i processi economici, rendendo gli utenti sempre più dipendenti dalle piattaforme digitali» (pp. 112-113). Nonostante le tecnologie e le applicazioni del Metaverso tendano ad essere presentate come una rivoluzione epocale priva di storia, anche Tirino evidenzia come, in realtà, queste siano costruite su modelli precedenti di controllo e archiviazione. Guardando alla dimensione materiale delle tecnologie digitali del Metaverso è possibile deostruire l’idea di un mondo virtuale completamente immateriale: «dietro la realtà simulata si nasconde il lavoro di sviluppatori, designer e operatori di data center, spesso sottopagati e sfruttati». Senza dimenticare che la digitalizzazione delle interazioni sociali nel Metaverso «implica nuove forme di alienazione, manipolando in diversi modi e per differenti finalità l’esperienza corporea e sensoriale dell’individuo» (p. 114).

Come scrive Gennaro Iorio, i saggi di Frezza, Centorrino e Tirino «dimostrano come il Metaverso non sia una semplice innovazione tecnica, ma un progetto che ridefinisce le regole dell’economia digitale e dell’interazione sociale, con implicazioni che vanno ben oltre il settore tecnologico» (p. 119). Insomma, più che un’opportunità di emancipazione e di innovazione democratica, il Metaverso si configura come un progetto volto ad estendere le dinamiche di controllo e sorveglianza già esistenti.

Se i toni entusiastici che accompagnarono la presentazione di Mark Zuckerberg del “suo” Metaverso nel 2021 si sono affievoliti, ciò è dovuto, sostiene Lorenzo Di Paola, soprattutto a tre fattori: la mancata attuazione in tempi rapidi della promessa di un mondo pienamente immersivo accessibile a tutti; il desiderio di recuperare pratiche sociali, di studio e di lavoro “in presenza”, dopo l’overdose di ricorso all’online dell’epoca della pandemia; la centralità assunta a livello mediatico ed economico dall’intelligenza artificiale a partire dal 2022 anche grazie alla sua capacità di interfacciarsi con i sistemi aziendali, creativi e sociali esistenti. Nonostante il progetto di Zuckerberg sia stato accompagnato/supportato da un’enfasi eccessiva rispetto alla sua concretizzazione pratica e diffusa (mentre nel frattempo si sono sviluppati mondi virtuali come Roblox, Fortnite e Decentraland) Di Paola invita a considerare quanto questo il progetto di Meta abbia comunque già influenzato le nostre vite. Il fatto stesso di essere stato presentato ha infatti posto una serie di problematiche con cui occorre sin da ora fare i conti:

La governance degli spazi (chi controllerà e come saranno regolamentati tali ambienti, quali quadri normativi saranno necessari); la sicurezza dei dati e della privacy degli utenti (con l’enorme quantità di dati che gli utenti metteranno a disposizione, sarà essenziale sviluppare sistemi di protezione avanzati per prevenire abusi e tutelare la fiducia degli utenti); le identità nel Metaverso (come gestire le identità degli utenti e garantire la sicurezza evitando truffe e manipolazioni); partecipazione equa e accessibile (per evitare nuove forme di esclusione socio-economiche e garantire accesso e opportunità a un pubblico più ampio possibile) (p. 126).

Di certo la progressiva immersione degli individui negli ambienti digitali è destinata a incidere radicalmente sulle dinamiche socio-tecnologiche contemporanee, a dar luogo a forme di sorveglianza e profilazione biometrica sempre più pervasive e a problematiche derivanti dall’indistinguibilità tra interazioni autentiche e manipolate, con relative implicazioni non solo a livello individuale ma anche sociale e politico. Un Metaverso di proprietà esclusiva di un ristretto numero di colossi tecnologici transnazionali comporterebbe, oltre che una sempre maggiore centralizzazione e mercificazione della rete, una concentrazione di potere incontrollabile dai governi nazionali, con evidenti ricadute sulle libertà individuali e sulle dinamiche sociali.

Antonella Napoli propone di guardare al Metaverso come «un crocevia tra l’immaginario sociale che elabora costantemente vie d’uscita e seconde occasioni […] in cui sono riversate paure e sogni socialmente prodotti» e «le ragioni tecnocratiche che, a partire da quello stesso immaginario, definiscono temi e narrazioni che rispondono in modi innovativi alle trasformazioni del capitalismo» (pp. 163-164). Il Metaverso può dunque essere visto come metafora di una contemporaneità attraversata da inquietanti contraddizioni tra potenzialità tecnomagiche e limitazioni tecnofeudali, tra crisi economiche legate a dinamiche di speculazione finanziaria, processi di crescente virtualizzazione dell’economia, dematerializzazione dei sistemi vitali e comunicativi e progressivo scivolamento verso l’indistinguibilità tra verità e menzogna.

Angelo Romeo indaga l’importanza degli attuali dispositivi tecnologici dell’agire comunicativo nella costruzione della conoscenza in un epoca in cui «ogni azione di intelligentia viene delegata sempre più spesso a una macchina» (p. 167), mentre Luigi Somma guarda ai rapporti fra la corporeità umana e le tecnologie del Metaverso in un contesto contraddistinto dall’indistinzione fra reale e virtuale, da identità sempre più dinisincarnate e da ambienti digitali despazializzati. «Le identità sociali che verranno a configurarsi nel Metaverso», scrive lo studioso, «saranno simulazioni iperrealistiche del proprio sé: simulacri della nostra identità, privi di qualunque ancoraggio a un referente reale». Allo stesso modo, «anche le relazioni, sotto l’insegna di un regime di (falsa) esibizione di trasparenza e autenticità, simuleranno le interazioni faccia a faccia, ma attraverso un alto grado di fluidità delle relazioni; le quali sempre più richiederanno una capacità di rekeying […] nel teletrasportarsi da un ambiente digitale all’altro, costituendo comunità multiple» (p. 183).

A partire dalla serie Black Mirror (Channel 4-Netflix, dal 2011) e dal film interattivo Black Mirror: Bandersnatch (2018) diretto da David Slade, entrambi creati da Charlie Brooker, Ivan Pintor Iranzo guarda al multiverso e al Metaverso come appiattimento del possibile. Entrambe le produzioni audiovisive mettono in scena l’impotenza umana nel plasmare il futuro, in esse le alternative offerte dalle tecnologie si palesano come accelerazione verso il nulla. Black Mirror, insomma, secondo lo studioso, induce a pensare multiversi e Metaversi come «un sintomo e una diagnosi di un presente esausto, segnato da fenomeni come l’economia dell’attenzione […], lo sfruttamento del capitale emotivo della popolazione, l’inscindibilità tra lavoro, svago ed emozioni e la creazione di un’economia globale della performance». Anziché meccanismi per scenari controfattuali, multiversi e Metaversi alternativi sembrano «rappresentazioni iterative dell’influenza che la tecnologia esercita sulla configurazione neuro-cognitiva della popolazione» (p. 208). I personaggi solitari immersi nei dispositivi tecnologici per accedere a un universo parallelo e interconnesso con l’esperienza di altre persone che popolano egli episodi della serie di Charlie Brooker, suggeriscono «un’impossibilità, quella dell’alleanza tra la tecnologia e un’immaginazione emancipatoria» (p. 209). Questi personaggi, appartenenti alla «classe media occidentale, perennemente sorvegliati in una società panottica e trasparente e spinti verso un’economia dell’attenzione che sovrappone il tempo libero con la produzione attraverso multiversi e Metaversi» (pp. 210-211), si configurano come testimonianza del realismo capitalistico, della propagandata impossibilità di immaginare un sistema alternativo.

Alcuni contributi della sezione dedicata agli aspetti socio-mediologici del Metaverso prendono in esame la sua incidenza su ambiti come la moda, lo sport, il gusto nell’alimentazione, l’universo museale e la salute. Michelle Grillo presenta una panoramica del rapporto attuale e in prospettiva tra mondo della moda e Metaverso soffermandosi sulla relazione di reciproca influenza tra i bisogni e i desideri di personalizzazione dei consumatori e le strategie commerciali dei brand che si approcciano a tale ambiente. Sarebbe limitativo vedere nel Metaverso una semplice replica digitale della realtà della moda; tale intersezione tra moda e tecnologia digitale introduce, oltre a nuovi modelli di business, inediti capitali simbolici e sociali che rafforzano le relazioni tra i brand e le community ponendo le premesse per un futuro in cui produzione e consumo sono sempre più intrecciati.

Delle trasformazioni che il Metaverso ha introdotto nel settore dello sport e di come le tecnologie immersive ne abbiano modificato il consumo mediale in termini di interattività e personalizzazione, trasformando l’esperienza del tifoso – investitore di prodotti digitali – in una una fonte continua di profitto per le società sportive si occupa Simona Castellano. Josephine Condemi riflette sull’incidenza delle rivoluzioni tecno-industriali sul senso del gusto e su come i Taste Media aprano inediti scenari di sofisticazione alimentare, mentre Marco Navarra guarda a come la digitalizzazione abbia trasformato il ruolo degli archivi e dei musei rendendoli spazi di fruizione e interazione virtuale e come l’avvento delle tecnologie immersive sia destinato a ridefinire ulteriormente il concetto stesso di esperienza museale promettendo da un lato un maggior accesso alla cultura e dall’altro ponendo interrogativi circa l’autenticità dell’esperienza estetica e la funzione sociale delle istituzioni museali. Di come il ricorso al Metaverso possa incidere sulla gestione della salute, tanto in ambito clinico che assistenziale, si occupa Cristiana Ferrigno ponendo attenzione su come la monetizzando dei dati sulla salute degli utenti attraverso sistemi di gamification promuova un’idea di benessere quantificabile attraverso pratiche di auto-monitoraggio dei parametrici fisici e delle performance nello svolgimento di attività. Se risulta problematica la scelta del soggetto o dei soggetti a cui affidare il controllo del Metaverso nell’ambito della salute, non lo è da meno, ricorda Ferrigno, l’individuazione di chi dovrà “controllare i controllori”.

A commento della corposa sezione dedicata ai profili socio-mediologici del Metaverso, Emanuela Piga Bruni evidenzia come lo «sfumare dei confini tra realtà e immaginazione, storia e memoria, naturale e artificiale» (p. 249) conduca al cyborg di Donna Haraway, al nuovo individuo che abita tale universo digitale immersivo. Riprendendo riflessioni che attraversano film e serie televisive di fantascienza come Blade Runner (1982) di Ridley Scott, Ghost in the Shell (1995) di Mamoru Oshii, Westworld (1973) di Michael Crichton e la serie televisiva Westworld (2016-2022) creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, la studiosa ritiene che ripartire dal corpo potrebbe essere «uno dei modi di abitare i mondi molteplici del Metaverso in modo tale che le istanze di anelito al sogno, alla consapevolezza di sé, alla connessione profonda con altre coscienze possano trovare spazio, insieme a esperienza di riconoscimento e trascendenza in ambienti dai confini sempre più porosi e iridescenti» (pp. 256-257)

Nella sezione finale del volume, dedicata economici e giuridici, come scrive Marco Bassini a commento e conclusione dei diversi saggi che la compongono, gli autori dei contributi «colgono efficacemente come il Metaverso non costituisca una dimensione futura ed eventuale, bensì una realtà all’interno della quale si spiegano già dinamiche che rassomigliano alle modalità tradizionali del potere, ancorché incanalate entro forme differenti» (pp. 375-376). Come sottolinea Bassini,

le trasformazioni che accompagnano l’affermazione del Metaverso si spingono oltre la frontiera del rapporto tra diritti e potere, coinvolgendo la dimensione antropologica che connota l’essenza stessa dell’individuo e descrive il mutare dei suoi predicati nell’ambito di tecnologie immersive, coinvolgendo aspetti legati anche a profili economici. Si tratta di recuperare a una dimensione che prescinde da confini spaziali la centralità dell’individuo, còlta finora dalle costituzioni e dalle carte dei diritti esistenti nella sua dimensione prettamente fisica e dunque ancorata a un paradigma spazialmente limitato (p. 376).

Francesca Paruzzo si concentra sul potere esercitato sugli utenti dalle imprese private che operano nel mondo digitale, in particolare all’interno del Metaverso, «mantenendo il controllo di ogni vicenda costitutiva, modificativa ed estintiva che si realizza all’interno di tali mondi» (p. 262). La studiosa guarda a come «il costituzionalismo possa offrire strumenti idonei a ridurre lo scarto, oggi più che mai esistente, tra l’esigenza di una regolamentazione politica – di un vincolo, appunto – all’azione di tali nuovi poteri digitali e la contrapposta pretesa di questi ultimi di rimettere la propria attività “alla negoziazione iure privatorum”» (p. 263), cioè alle norme di diritto privato. Quanto insomma negli ecosistemi digitali immersivi l’ambito pubblico sia piegato ad ambito privato. A partire dall’inedita peculiarità immersiva che contraddistingue tali ambienti, Maria Francesca De Tullio, una volta dichiarata l’esigenza di un intervento regolatorio per la tutela dei diritti fondamentali, della privacy e dell’autodeterminazione individuale e collettiva in tale nuovo contesto, si domanda quanto il Metaverso richieda una normativa specifica rispetto a quella più generale applicata a Internet.

Osservando la tendenza degli ecosistemi digitali a presentarsi come universi dotati di logiche regolatorie di derivazione tecnica, per certi versi assimilabili a Stati, Andrea Venanzoni evidenzia come ciò metta «in crisi la stessa elaborazione concettuale della scienza giuspubblicistica, evolutasi geologicamente per stratificazione sui concetti salienti dell’articolazione statale; popolo, territorio e sovranità» (p. 297). Lo studioso concentra dunque la sua riflessione sul territorio, l’elemento che risulta «storicamente e paradigmaticamente più inciso dal digitale, con la sua fisiologia di potere tecnico spazialmente a-territoriale» (p. 297). Dopo essersi soffermato sulla centralità del territorio nella teoria generale dello Stato, dunque sul suo passaggio dal territorio fisico allo spazio digitale, Venanzoni ripercorre l’architettura portante del Gaming, del Metaverso e della economia delle piattaforme.

Guardando al Metaverso come sintesi di una molteplicità di tecnologie interconnesse da cui deriva un nuovo habitat relazionale in cui si ridefiniscono governance, sistemi produttivi e dinamiche di valore e di consumo, è, possibile cogliere come in esso prenda forma, scrive Mario Passaretta, «un nuovo ordine giuridico del mercato, caratterizzato non tanto dalla sostituzione dei tradizionali attori economici, quanto dalla riconfigurazione dei rapporti secondo paradigmi del tutto innovativi» (p. 336). In un tale ambiente l’«economia digitale, sostenuta da un’architettura informativa reticolare, afferma il primato della disintermediazione, dell’integrazione funzionale, della commistione tra mercati contigui e della personalizzazione algoritmica, con il dato che assume progressivamente un ruolo centrale quale fattore produttivo primario e leva dell’organizzazione concorrenziale» (p. 336). Lo studioso passa dunque in rassegna come le istituzioni politiche e giuridiche stiano tentando di regolamentare il nuovo ecosistema digitale.

Miriam Abu Salem guarda invece all’uso del web fatto delle religioni cattolica e islamica, soffermandosi su come l’ecosistema digitale sviluppi un’inedita dinamica partecipativa che rende l’internauta-fedele parte attiva del discorso religioso più di quanto non lo sia il fedele al di fuori dello spazio digitale, incrementando interpretazioni eterodosse e sottraendo parte del potere di guida alle tradizionali autorità religiose.

L’intrecciarsi delle interazioni online con le esperienze quotidiane comportante una modalità di esistenza al contempo fisica e virtuale, induce Anna Papa, nella sua postfazione al volume, ad evidenziare come ciò abbia importanti ricadute sia sul piano individuale che collettivo. La studiosa concentra la sua riflessione sul tema spinoso dell’identità rapportata alla vita ibrida, all’onlife, un terreno per certi versi inedito dal punto di vista della tutela, alla luce del fatto che, focalizzati sull’identità fisica, i tradizionali ordinamenti giuridici faticano ad essere applicabili alle identità digitali che il soggetto viene ad assumere, con importanti ripercussioni sul percorso evolutivo della personalità individuale e sulla sua tutela. Non si può prescindere, chiosa Papa, dall’affermare l’assoluta «centralità della persona anche nello spazio digitale, garantendo che l’evoluzione tecnologica sia al servizio dello sviluppo umano e non la sua sostituzione» (p. 389).

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Itinerari da nessun luogo (Victoriana 59/1) https://www.carmillaonline.com/2025/11/08/itinerari-da-nessun-luogo-victoriana-59-1/ Sat, 08 Nov 2025 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91471 di Franco Pezzini

Pericolosamente a cavallo ai confini del mondo

William Morris, Diario d’Islanda, a cura di Luigi Marfè, illustrazioni di Edward Burne-Jones, pp. 240, € 20, Amos, Milano 2025.

“Naturalmente mi sentivo come se mi fossi lasciato alle spalle tutto, anzi, come se avessi dovuto lasciare anche me stesso”. Kelmscott Manor, una decina d’anni fa. Da qualche parte nel West Oxfordshire, presso l’omonimo villaggio nell’area dei Cotswolds, nota per i muri tutti grigi di una tipica pietra calcarea riconoscibile anche qui. Arrivare è una grande emozione, anche se troviamo non pochi altri turisti e l’atmosfera non trattiene molto dell’intimità degli [...]]]> di Franco Pezzini

Pericolosamente a cavallo ai confini del mondo

William Morris, Diario d’Islanda, a cura di Luigi Marfè, illustrazioni di Edward Burne-Jones, pp. 240, € 20, Amos, Milano 2025.

“Naturalmente mi sentivo come se mi fossi lasciato alle spalle tutto, anzi, come se avessi dovuto lasciare anche me stesso”.
Kelmscott Manor, una decina d’anni fa. Da qualche parte nel West Oxfordshire, presso l’omonimo villaggio nell’area dei Cotswolds, nota per i muri tutti grigi di una tipica pietra calcarea riconoscibile anche qui. Arrivare è una grande emozione, anche se troviamo non pochi altri turisti e l’atmosfera non trattiene molto dell’intimità degli artisti un tempo passati nella casa.
Kelmscott Manor appare come una costruzione cinquecentesca di una certa ampiezza, con porte aperte qui e là su giardini e prati: e per immaginare il tipo di vita qui condotto tra il 1871 e il 1896 si può ricorrere utilmente alla splendida ricostruzione televisiva BBC che ha offerto Ken Russell – immenso biografo su schermo di artisti, tanto più se un tantino sopra le righe – nel malinconico capolavoro Dante’s Inferno: The Private Life of Dante Gabriel Rossetti, Poet and Painter (1967), con Oliver Reed nei panni del protagonista. Al tempo Russell ha già dedicato ai preraffaelliti Old Battersea House (1961), documentario con una testimone di eccezione, Wilhelmina Stirling, che aveva conosciuto personalmente qualcuno degli artisti. In realtà il regista sta progettando al tempo un film-trittico sulle vite di Rossetti, Millais e Holman Hunt, quando si trova tra le mani la sceneggiatura di Austin Frazer dedicata al solo Rossetti: e la storia di un uomo che fa riesumare il corpo di una moglie amata, per poi trascinarsi addosso una sorta di ossessione, lo colpisce vividamente. Per Dante’s Inferno Russell sceglie vari dei suoi complici abituali più alcuni attori dilettanti, per esempio il poeta Christopher Logue nei panni di Swinburne e l’artista pop Derek Boshier come Millais. Molti degli esterni del raffinato bianco e nero – privo cioè dei delicati colori preraffaelliti per adeguarsi agli schermi televisivi, e semmai restituendo i colori della pietra dei Cotswolds – vengono in effetti girati a Keswick nel Lake District, qualche scena nel giardino della Red House di Bexleyheath, sotto Londra, ma altre si sarebbero potute ben ambientare qui a Kelmscott Manor.
William Morris (in Dante’s Inferno reso con vigore da Andrew Faulds, attore impegnato da poco entrato in Parlamento, 1966, su un seggio dei laburisti, e che qui rende felicemente – si è detto – il mix di entusiasmo fanciullesco e sensibilità romantica dell’artista) sta cercando un rifugio fuori dall’inquinamento pesante di Londra, e individua Kelmscott Manor: la prende in conduzione come residenza estiva assieme a Rossetti (20 maggio 1971, subito prima della partenza di Morris per l’Islanda), e tra questi muri si troverà a passare un certo numero dei nomi del movimento preraffaellita, tra febbrili condivisioni interiori e artistiche, gioie e dolori d’amore.
In queste stanze, troviamo una meravigliosa raccolta di oggetti e opere di Morris, di sua moglie Jane Burden – la Bellissima, la cui incredibile luce corre per tutta l’arte preraffaellita, ma è testimoniata parallelamente da un ricco corpus di fotografie – e di una serie di collaboratori. L’arredamento comprende gran parte dei mobili e molti dei famosi disegni tessili di Morris (esposti nella grande, luminosa soffitta dalle enormi travi) – tutto lasciato come alla sua morte. Nel piccolo cimitero a fianco della chiesetta locale di St. George, una tomba sobria accoglie l’artista e la moglie: visitarla per un omaggio è caro a chiunque ami quell’incredibile stagione.


In onore a tale dimora amatissima (che appare anche sulla raffinata copertina del romanzo utopico di Morris News from Nowhere, inizialmente pubblicato a puntate nel 1890), l’artista chiamerà Kelmscott House la sua casa a Londra e Kelmscott Press la casa editrice (1891-1898) fondata per portare avanti il suo progetto di stampe e libri all’insegna della Bellezza, nell’ambito della riflessione del movimento Arts and Crafts. Dove il vaglio con cura di carte, inchiostri e tecniche d’impaginazione per armonizzare caratteri e ornamenti rientra in un progetto fortemente politico: la degenerazione imperante del gusto è riconosciuta da Morris, tra i fondatori della Lega socialista inglese, come determinata dalla struttura socio-economica, per la forte pressione su consumatori, artisti e produttori. Editerà così più di cinquanta volumi che costituiscono altrettante meraviglie: e questa casa è idealmente un elemento propulsore di tanta ricchezza. Come peraltro di dinamiche molto più personali: Rossetti era stato attratto dalla bellissima Jane fin dal 1857, ma l’impegno con Lizzie e l’amore dell’amico Morris per la straordinaria modella hanno interrotto il rapporto; una diversa intimità riprende nel 1867, e si rafforza quando Morris lascia qui Jane in occasione dei suoi viaggi in Islanda (1871 e 1873), aprendo allo sviluppo tra lei e Rossetti di un legame sempre più stretto e complicato. Alla morte del marito (1896: Rossetti è morto nel 1882), Jane comprerà la proprietà, poi passata alle figlie.
Ma c’è, potremmo dire, un diverso tipo di nesso tra arte ed economia che i padri preraffaelliti non possono immaginare se non in parte. Nel prestare i volti a sante, dee e principesse, le loro incredibili modelle prefigurano cioè un rapporto con l’interpretazione cinematografica di dive e ruoli – e della relativa industria – dagli infiniti precipitati pop. Qualcosa che ha a che vedere con il teatro (tale è in fondo il camuffarsi da sante o regine, lo vediamo anche in una scena di Dante’s Inferno) ma molto di più con un prodotto – ecco la dimensione economica – che resta fissato nel tempo, come appunto un film. Per cui noi associamo una serie di immagini di personaggi archetipici a quei volti: e poi ci colpisce quando delle interessate vediamo le foto, attestazioni documentali che loro fossero anche donne in carne e ossa. Va detto che ruoli in qualche modo simbolici sono associati a questi volti femminili non solo nella produzione pittorica, ma per esempio nella stessa opera poetica di Rossetti: Lizzie Siddal come “the Beloved”, l’amata moglie perduta, Jane Burden Morris come “Innominata”, la nuova amata che le subentra in un complicato volgersi indietro e avanti grondante sensi di colpa, che Rossetti evocherà attraverso il mito di Orfeo. Lui che, visitato dall’ombra di Lizzie, tenta anche lo spiritismo e continua a riflettere sul suicidio ha indubbiamente un piede nello Thanatos, a fianco di quello nell’Eros.
Tutto questo mi viene in mente ora, una decina d’anni dopo, con l’apparire nelle librerie italiane di un paio di importanti opere di William Morris. E partiamo proprio dal Diario d’Islanda, il fascinosissimo travelogue tessuto dall’artista, offerto ora in elegante edizione italiana. Morris aveva iniziato a prendere lezioni di islandese nel 1868 da Eiríkur Magnússon, al tempo bibliotecario e poi docente di lingua norrena a Cambridge: e con il suo aiuto ha tradotto molte saghe della tradizione del Nord. Nell’estate 1871 decide finalmente di raggiungere i luoghi dove quelle antiche storie sono nate, ma a spingerlo non è solo la letteratura. Può entrarci l’interesse per i progressismi locali, quindi una spinta legata ai suoi ideali (anche se in realtà ben pochi sono i cenni politici in questo diario, come il fatto “che la povertà più nera è un male irrilevante se paragonata all’ineguaglianza delle classi”); ma certamente vi si abbina un elemento doloroso, per la nascita di un legame affettivo tra sua moglie e l’amico Rossetti – uno di quei triangoli da letteratura arturiana dove sentimento e nevrosi finiscono con l’attorcigliarsi. Per Morris è un fallimento e il viaggio faticoso – “come se avessi dovuto lasciare anche me stesso”, qualcosa che suona una dolente confessione – guarda alla “ricerca, anche fisica, di un riscatto, una sorta di ordalia per provare a tirarsi fuori da un periodo di crisi esistenziale”, come ben spiega Marfè nella bella introduzione.
Per capire il viaggio, occorre però anche inquadrare il ruolo e la fascinazione dell’Islanda nell’immaginario anglosassone dell’epoca. Meta di turismo scientifico per tutto l’Ottocento, tra citazioni erudite e travelogue, quell’Ultima Thule esercita in età vittoriana un fascino magnetico – basti citare i memoriali dell’esploratore Richard F. Burton (cui si deve il riferimento classicheggiante delle definizione appena citata), del romanziere Anthony Trollope e in seguito dell’artista e antiquario William Gershom Collingwood. Ma anche per esempio tante pagine di Bram Stoker, stregato dalla forza virile degli uomini del nord e dalle suggestioni di quel mondo lontano (la sciarada del Dracula islandese ne rappresenta in fondo solo un tassello minore: rinvio al volume di Marinella Lőrinczi, Dracula & Co. Il richiamo del Nord nei romanzi di Bram Stoker, CUEC, 1998).
Morris si sposta due volte verso l’Islanda, sempre in estate, nel 1871 e più brevemente nel 1873: e restando al clima vagamente arturiano del periodo, dedica con cortesia da cavaliere i propri diari a una lettrice ideale, Georgiana Burne-Jones moglie dell’amico e sodale Edward. Scandendo con passo abbastanza regolare – scrive la sera, di giorno s’immerge nella contemplazione della wilderness, della luce che investe il paesaggio e dei manufatti locali – l’ampio racconto di una quest via treno, nave (un’ex-cannoniera passata a uso commerciale) e, giunto sull’isola, cavallo e correndo anche i rischi di ammazzarsi qui e là. Con lui e i due compagni viaggiano amici e guide locali e parecchi cavalli per il trasporto dei bagagli: e il risultato antiepico – senza spiacevole bodyshaming, Morris non è proprio un cavaliere da dipinto preraffaellita, per le dimensioni, la scarsa atleticità e la voracità che lo connotano – ispira al marito della dedicataria la deliziose caricature riportate in questa edizione. Il testo, dal fluire vario, vivido e piacevole – occhi pieni di meraviglia ma nessuna concessione agli stereotipi del pittoresco, e invece un’attenzione ai piccoli dettagli imprevedibili – assume forma compiuta prima di partire per il secondo viaggio.
Il diario si articola in cinque parti: da Londra a Reykjavík; da Reykjavík a Bergþórshvoll e Hlíðarendi; da Hlíðarendi a Geysir; da Geysir a Vatnsdalur; da Vatnsdalur a Bjarg e Hrútafjörður. Ecco dunque l’avvistamento dell’Islanda, il cibo incontrato via via, gli oggetti che il Nostro perde o crede di perdere, gli strani panorami lavici e sulfurei, il macchinoso montaggio delle tende nelle notti umide, il significato pittoresco dei toponimi… e le ombre della letteratura norrena, come quella del povero Grettir della saga, tormentato dalla malasorte dopo aver abbattuto un draugur (un minaccioso vampiroide, specie nota a tutte le popolazioni scandinave e tradizionalmente insediata nei tumuli) o quella di Snorri lo Storico. Ci sono persino litigi, non strani in una situazione di stanchezza in cui il russare come un mantice può recare oggettivi problemi al compagno di tenda. Avviato in Inghilterra il 6 luglio 1871, il diario si si conclude nuovamente lì il 7 settembre, con una curiosa situazione di alienità. Morris terminerà la compilazione di questa gustosa versione, ovviamente estesa rispetto agli appunti originari, il 30 giugno 1873, intenzionato a ripartire per l’Islanda il 10 luglio. Il viaggio durerà di fatto dal 24 luglio al 19 agosto.
Divertente pensare che l’opera del socialista impegnato Morris sia stata tanto influente – anche con quest’opera, con scorci che paiono Mordor – sul fantasy novecentesco, e sullo stesso Tolkien: per il quale tale debito non costituiva affatto un problema. Ma per tanti suoi lettori postfascisti & affini (quelli del ridicolo “è roba nostra”) sicuramente sì.

[1-continua]

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La Sinistra Negata 05 https://www.carmillaonline.com/2025/11/07/la-sinistra-negata-05/ Fri, 07 Nov 2025 22:55:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91402 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. La conclusione della nostra ricostruzione delle vicende della sinistra rivoluzionaria italiana, apparsa nelle due precedenti puntate de La sinistra negata, ci ha lasciato un senso di insoddisfazione. Non tanto per le molte cose che abbiamo trascurato parlando degli anni Sessanta e Settanta, quanto per aver solo sfiorato il problema [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi.
La conclusione della nostra ricostruzione delle vicende della sinistra rivoluzionaria italiana, apparsa nelle due precedenti puntate de La sinistra negata, ci ha lasciato un senso di insoddisfazione. Non tanto per le molte cose che abbiamo trascurato parlando degli anni Sessanta e Settanta, quanto per aver solo sfiorato il problema cruciale: gli anni Ottanta.

Perché “problema cruciale”? Perché la reale forza, il grado di radicamento, la capacità di mobilitazione della sinistra di classe non sono seriamente valutabili sotto il profilo storico se non si tiene presente che quel movimento ha finito col crollare come un castello di carte, riducendosi a ben poca cosa nel giro di un paio d’anni.
Non fa piacere dirlo, specie per chi, come noi, in quel movimento, nelle sue tensioni e nei suoi valori continua ad identificarsi a fondo. Peggio sarebbe, però, far finta che nulla sia successo, e che la sinistra rivoluzionaria italiana mantenga ancor oggi intatta quella forza che fino a qualche lustro fa sembrava incontenibile. Aggirare i problemi è contrario al nostro metodo, che consiste nel guardare in faccia i nodi essenziali, per quanto sgradevoli possano essere. Cosi come contrario al nostro metodo è limitarci a gettare sguardi asettici sul passato, eludendo il fatto che quel passato sfocia nel nostro presente e ne modella i tratti, e che quindi è da quest’ultimo che occorre necessariamente prendere le mosse.
Abbiamo dunque deciso di continuare la discussione su La sinistra negata partendo dal punto in cui si concludeva, dagli anni Ottanta; prima con un articolo d’insieme, che precisi a volo d’uccello la mappa della nostra ricerca, poi con studi più dettagliati, affidati ai prossimi numeri, su singoli aspetti del problema. Ciò nel tentativo di abbozzare una risposta alla domanda di fondo: la crisi attuale della sinistra rivoluzionaria italiana è irreversibile, o rappresenta solo una sosta in un percorso che continua?

Il fatto che facciamo questa rivista di per sé dimostra che propendiamo per la seconda ipotesi; ma ciò non ci impedirà di vagliare gli elementi che giocano a favore dell’altra, per quanto essa ci appaia assolutamente repellente. In questo articolo iniziale esamineremo dapprima i fattori oggettivi di crisi, vale a dire i fattori esogeni, legati all’azione degli avversari della sinistra di classe, e poi i fattori soggettivi, endogeni, legati a ragioni di intrinseca debolezza.

 

1. I FATTORI OGGETTIVI.

La repressione.
In principio è la repressione. Non si può comprendere la crisi della sinistra rivoluzionaria italiana se non partendo da questo dato, anche se non basta a spiegarne tutti gli aspetti.
Gli anni Settanta si chiudono con migliaia di arresti, decine di migliaia di denunce, sequestri di periodici, incriminazioni di avvocati, giornalisti, docenti universitari, intellettuali. È la grande stagione della caccia al “fiancheggiatore”. In realtà, che nel mirino del potere non vi siano solo i gruppi armati e i loro simpatizzanti, ma l’intera sinistra rivoluzionaria italiana, da cancellare una volta per tutte, è dimostrato dal numero degli incriminati: oltre 40.000, un numero di gran lunga eccedente quello degli appartenenti all’area della lotta armata.
È questo della repressione uno di quei casi in cui l’aneddotica aiuta a comprendere la fase storica meglio di qualsiasi statistica o ricostruzione neutra. Viene arrestato un giovane che, in una pizzeria, ha scarabocchiato una stella a cinque punte su un tovagliolino di carta; negli scrutini elettorali si vagliano gli iscritti alle sezioni in cui le schede sono state annullate con scritte eterodosse, fino ad individuare ed arrestare i presunti colpevoli; a un docente universitario, Enzo Collotti, i carabinieri mettono a soqquadro la casa e sequestrano l’archivio di schede relative alle sue ricerche, riguardanti in prevalenza la storia del nazismo; la partecipazione ai funerali di una compagna caduta in uno scontro a fuoco, magari persa di vista da anni, diventa capo d’accusa e pretesto per alcuni fermi; una vecchietta ottantenne finisce dietro le sbarre per collusione con le BR (morirà subito dopo il rilascio); si sequestra persino il gioco di società “Corteo”, tanto pericoloso che pochi mesi dopo sarà rilevato dalla Mondadori; e così via. Si potrebbe continuare per pagine e pagine ad elencare episodi all’apparenza folli o grotteschi, ma in realtà coerentissimi con il progetto di giungere a una “soluzione finale” del problema dell’esistenza di una sinistra rivoluzionaria in Italia.

Episodio saliente di questa sistematica campagna di eliminazione è il caso “7 aprile”. D’un colpo solo si cerca di decapitare (riuscendovi in gran parte) la sinistra di classe italiana non sotto il profilo organizzativo, col quale gli arrestati hanno poco a che vedere, ma sotto il profilo intellettuale, criminalizzando e togliendo dalla circolazione gli studiosi che più si sono adoperati per la precisazione delle tesi dell’estrema sinistra e per conferire a quest’ultima dignità culturale: e dal momento che non si sa bene di che accusarli (i verbali d’interrogatorio dimostrano con chiarezza che magistrati e testi a carico non riescono a capire né le idee, né il linguaggio degli arrestati) si modifica più volte il capo d’imputazione cercandone uno adeguato, per poi finire col ricorrere ai “pentiti” quale unica via per uscire dal vicolo cieco. Proprio il “caso 7 aprile”, e la pletora di “casi” paralleli che gli fanno ala colpendo centinaia e centinaia di militanti, rivelano l’identità di un inedito co-regista dell’ondata repressiva: il PCI. Nell’area di quel partito si collocano i principali magistrati impegnati nella caccia alle streghe; a quel partito appartengono i testimoni a carico; attorno a quel partito gravitano molti dei docenti impegnati a denunciare i loro stessi colleghi.

La guerra contro l’estrema sinistra, una guerra di sterminio in cui ogni colpo è lecito, viene condotta dai vari Pecchioli e Cossutta (autore a suo tempo del motto «i gruppuscoli sono pidocchi nella criniera di un cavallo di razza») con una spregiudicatezza che varca i confini della denigrazione per approdare a quelli della delazione. Le sezioni del PCI si fanno carico della sorveglianza dei presunti fiancheggiatori, passano liste di nominativi alle forze dell’ordine, distribuiscono questionari formulati come vere e proprie professioni di fede, tali da rendere automaticamente sospetto chi non risponde a tono, o non risponde affatto. L’apparato inquisitorio statale ha così la copertura a sinistra che gli è indispensabile per attuare liberamente il giro di vite.

Non ci dilungheremo sugli aspetti fenomenologici della repressione, premendoci piuttosto vederne gli effetti. Per comprenderli a fondo occorre tenere presente che la sinistra di classe italiana non aveva mai avuto la struttura e la compattezza di un partito, salvo che in specifici spezzoni, ma si era sempre presentata nelle forme di un movimento, con tutti i pregi e i limiti di una tale configurazione. Ciò significa, anzitutto, che ruolo preponderante al suo interno aveva giocato, più che la compagine dei militanti “duri” e convinti, la fascia enorme dei simpatizzanti (chiamati “cani sciolti”) che si accostavano ad essa con un grado variabile di convinzione e con un’adesione che poteva rivolgersi non all’assieme delle sue tematiche, ma a questo o quell’aspetto delle stesse, o anche solo a quel clima – umano, culturale, giovanilistico, ecc. – che si respirava al suo interno o ai suoi margini.

È proprio la fascia dei “cani sciolti” ad essere la più colpita dall’ondata repressiva, che pure materialmente si abbatte in primo luogo sui “militanti”.
D’improvviso attaccare un manifesto può implicare un fermo, distribuire un volantino può significare un arresto, frequentare o aver frequentato certi ambienti può costare anni di prigione; e così collaborare a radio private, partecipare a una manifestazione, scrivere un trafiletto, esprimere un parere nel luogo sbagliato, tenere in casa un’arma giocattolo, avere certi indirizzi in agenda. Cui vanno aggiunte forme repressive apparentemente “minori” come le perquisizioni, divenute prassi costante con precipui fini di deterrenza, che specie per soggetti giovani possono comportare crisi con i familiari, discredito presso i vicini, impossibilità di tenere diari o indirizzari, stati di costante tensione (come, per inciso, avviene ancor oggi).

È logico che il timore si diffonda, che molti preferiscano rifluire nel privato in attesa che l’uragano passi, che la fascia dei “cani sciolti” si assottigli di mese in mese, esponendo chi non cede ad una repressione ancora più acuta; mentre parallelamente prende piede una cultura del sospetto e della diffidenza che è letale per le forme di socialità che il movimento era riuscito ad instaurare, e che costituivano una componente fondamentale del suo potere di attrattiva.
Comportandosi in tal maniera, lo Stato esercita semplicemente il proprio mestiere di macchina repressiva al servizio di una classe: ma molte delle “libertà democratiche” che vengono così ibernate, pur non eccedendo il perimetro di una società borghese, erano state conquistate dal proletariato italiano in decenni di lotte durissime. Accettando la loro svendita e cooperando all’azione repressiva statale, il PCI svende dunque la parte più nobile del proprio patrimonio. Credendo di uccidere la sinistra rivoluzionaria e così legittimarsi agli occhi della classe media, la sinistra istituzionale in realtà uccide anche se stessa, perché è l’idea stessa di “sinistra” ad essere colpita.

La ristrutturazione.
La ristrutturazione economica che fa da sfondo all’isteria repressiva richiederebbe una trattazione non esauribile in poche righe. La complementarietà dei due fenomeni è comunque abbastanza evidente. Anche se alla fine degli anni Settanta la composizione sociale della sinistra di classe si presenta composita, si tratta pur sempre di un movimento che ha avuto le proprie origini nelle fabbriche, e a cui le fabbriche continuano a fornire buona parte dei militanti più decisi e preparati. Ora, l’azione repressiva di tipo poliziesco, se si esercita in ogni campo, risulta più efficace nei confronti dei soggetti radicati prevalentemente nel sociale, e cioè delle componenti studentesche, giovanili e marginali estranee alla produzione, la cui fmoltiplicazione territoriale è assicurata da meccanismi che vanno oltre il rapporto produttivo diretto, investendo un ventaglio di fattori culturali, comportamentali o ambientali. È invece il rapporto produttivo immediato che deve essere incrinato, se si vuole impedire la riproduzione di quei segmenti di classe Qui operaia che assicurano al movimento antagonista, se non il suo profilo globale, la sua continuità.

Gli anni Ottanta vedono affiancarsi al decentramento produttivo interno e al lavoro nero e precario, tipici meccanismi di recupero del profitto del decennio precedente, un intensificato decentramento produttivo internazionale, accompagnato dall’introduzione massiccia di innovazioni tecnologiche tali da ridurre drasticamente non solo l’entità numerica, ma il peso della forza-lavoro. Si diffonde non tanto e non solo la disoccupazione, quanto piuttosto la minaccia della disoccupazione; nel senso che il capitale, cui è come non mai legittimo attribuire un profilo omogeneo, si dota di strumenti tali da far capire agli operai che può in qualsiasi momento prescindere dalla loro presenza attiva nel processo produttivo, sostituibile con l’apporto lavorativo a basso costo dei reparti decentrati al Terzo Mondo, sede delle tecnologie mature tuttora indispensabili, o con la pura e semplice automazione, capace di assorbire le produzioni ad alto tasso tecnologico.
Se il livello d’inflazione è talora termometro indiretto della forza operaia, come taluni non a torto sostenevano in un recente passato, il suo progressivo abbassamento nel corso degli anni Ottanta, indice di una flessione della domanda, segna la drastica emorragia contrattuale della forza-lavoro della grande industria, ricattata dallo spauracchio di un’esclusione dalla produzione e compressa dall’emergere di un esercito di quadri, di tecnici e di figure intermedie di cui una situazione di tecnologia avanzata esalta la funzione.
Tutte le conquiste operaie ottenute a partire dell’autunno caldo vengono vanificate nel giro di pochi anni: nelle fabbriche ritorna la legittimità di licenziare al minimo pretesto, viene reintrodotta la più ampia mobilità, cala una cappa di disciplina militaresca, sono sfrontatamente lesi i più elementari diritti sindacali; infine, a coronamento del quadro, viene prima ridimensionata e poi liquidata la scala mobile, ultima e quasi simbolica barriera alla recuperata onnipotenza padronale.
Ancora una volta, l’operazione di sterminio delle avanguardie può contare su un complice occulto (ma non poi tanto): il sindacato. La rivincita del capitale non avrebbe potuto aver luogo se, con l’adozione della cosiddetta “linea dell’EUR,” il sindacato non si fosse fatto carico di un contenimento della conflittualità entro limiti compatibili con un recupero di forze da parte del padronato, e ciò in cambio di un’illusoria cogestione dell’economia e di una altrettanto illusoria prospettiva di benessere generalizzato in presenza di alti livelli di profitto (la più vecchia e scontata delle bugie del liberalismo).
L’acquiescenza al licenziamento di 61 avanguardie di lotta della FIAT, in anni in cui è ancora possibile contrastare operazioni del genere, è l’inizio di una catena di cedimenti dapprima volontari, e poi sempre più spesso obbligati, via via che il padronato recupera, col consenso sindacale, quella forza che nel corso degli anni Settanta sembrava definitivamente incrinata.
Anche in questo caso la sinistra si suicida, credendo così di acquisire legittimazione e di avere accesso a una porzione di potere. Quando il sindacato si accorge (solo parzialmente) dell’errore commesso è troppo tardi: il padronato ha ripreso completamente il controllo della fabbrica, la classe operaia sta disperdendosi nel settore dei servizi dequalificati e mal retribuiti, lasciando dietro di sé nuclei indeboliti e grati del salario irrisorio che viene loro elargito, e i pensionati sono gli unici soggetti che le organizzazioni sindacali possono ormai mobilitare.
Si scorge in tutto ciò il vecchio errore di fondo della sinistra istituzionale: la convinzione che il capitale sia incapace di pianificazione, e possa superare le proprie crisi solo con l’ausilio del movimento operaio, il quale ultimo è così legittimato ad ottenere in cambio fette di potere. Illusione che l’estrema sinistra aveva sempre contestato sostenendo l’esatto opposto, e cioè che il capitale odierno è anzitutto capacità di previsione e di programmazione, e che compito primario delle forze antagoniste è bloccare questa sua funzione vitale.
Incapace di comprendere questa verità elementare e prigioniero del dogma riformista, il sindacato consegna se stesso e la classe operaia a una ristrutturazione da tempo pianificata per cancellare dalla scena italiana entrambi i soggetti. Mentre la sinistra rivoluzionaria, decimata e braccata, non ha più voce nemmeno per gridare un platonico «ve l’avevamo detto».

Le culture sociali.
Se eliminare fisicamente un protagonista sociale è relativamente facile, meno facile è cancellare persino il ricordo delle sue idee, in modo che non abbiano più a riproporsi. Se il potere ha successo in questa sua operazione, tanto da creare quel salto di generazioni oggi cosi palpabile e quel vuoto di memoria e di cultura che rappresenta la principale caratteristica degli anni Ottanta, lo si deve sia agli effetti collaterali della ristrutturazione avviata in campo economico-sociale, sia ad un progetto preciso e sapiente di riconquista del terreno culturale, sotteso da un voluto e irreversibile travaso dell’ambito sovrastrutturale in quello strutturale.
Gli “effetti collaterali” di una ristrutturazione industriale tesa al risparmio di forza-lavoro sono facilmente intuibili. L’allargamento mostruoso dell’area della disoccupazione e di quella del lavoro mal retribuito, specie nel settore del servizi minori, ha un effetto deterrente che eccede il perimetro della fabbrica per estendersi all’intera società. Se la classe operaia, svenduta dalle sue organizzazioni, è sulla difensiva e si scinde in una miriade di singoli individui disposti ad accettare qualsiasi condizione salariale e normativa pur di preservare un’occupazione decorosa, per segmenti giovanili presto destinati a divenire maggioritari l’obiettivo di un posto ben retribuito, o comunque di un posto, è tale da trasformare l’iter scolastico o l’apprendistato lavorativo in una corsa individuale, le cui regole sono l’adesione acritica ai valori dominanti e la conflittualità esasperata tra i concorrenti. Si incrinano così, fino a crollare, le culture basate sulla solidarietà, sulla cooperazione, sull’idea elementare che ciò che non è alla portata di un singolo può ben essere alla portata di un gruppo; mentre si diffondono a macchia d’olio sottoculture aventi al centro l’idea di supremazia individuale ed il disprezzo anche morale per il perdente, un tempo tipiche del solo mondo anglosassone.

Non è un caso se durante gli anni ’80 il “rambismo” in tutte le sue varianti, emblema di conflittualità interindividuale condotta allo spasimo, assume un posto preminente nell’immaginario collettivo, mentre la croce celtica si afferma come espressione prevalente nella simbologia giovanile, e ciò non tanto per le sue derivazioni ideologiche (l’estrema destra subisce la crisi delle ideologie al pari della sinistra), quanto piuttosto come indice di pura e semplice volontà di sopraffazione e di arrogante qualunquismo.
Va notato, a beneficio di chi persevera nell’illusione di un capitale acefalo, che gli “effetti collaterali” descritti erano stati a suo tempo previsti e teorizzati a grandi linee. Prima gli economisti monetaristi, poi i loro rozzi epigoni fautori della “economia dal lato dell’offerta” (supply siders economists), avevano descritto gli effetti di “stimolo” che una momentanea carenza di possibilità occupazionali avrebbe avuto sulla classe operaia, spezzandone la forza organizzata ed abbassando i costi della forza-lavoro, con effetti di fluidificazione del mercato. Se la ricetta da loro proposta consistente in una drastica riduzione dell’intervento statale e nell’abbandono delle aziende “decotte” – oltre ad azioni restrittive della massa monetaria – trova applicazione integrale solo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, buona parte dell’Occidente ne adotta brandelli o singoli aspetti, riducendo taluni benefici sociali della spesa pubblica e privatizzando quanto è possibile privatizzare.
Un’ideologia reazionaria e restauratrice induce quindi a scompaginare, con una gamma di strumenti che vanno dall’automazione alla privatizzazione selvaggia, le file della classe operaia, e l’erosione di quest’ultima conduce alla diffusione di un’ideologia restauratrice e reazionaria nell’intero corpo sociale, con effetti di progressivo imbarbarimento civile.
Da ciò emerge che buona parte dei tristi connotati degli anni Ottanta in Italia non sono riconducibili alle sole peculiarità nazionali, ma si ricollegano agli inizi e agli sviluppi della cosiddetta “era Reagan”, che segna l’apertura di una fase storica contrassegnata dalla generalizzazione delle culture asociali, utilitaristiche e competitive, sintomo, causa ed effetto dello smembramento delle forze antagoniste.

L’industria culturale.
L’offensiva culturale scatenata dal potere non è però limitata agli esiti indiretti delle scelte di ristrutturazione, e nemmeno affidata al solo propagarsi del reaganismo. Accanto a queste direttrici maggiori, che conferiscono agli anni Ottanta le loro caratteristiche salienti, si hanno forme di intervento diretto nel terreno culturale indirizzate ad una normalizzazione del tutto complementare alla repressione in atto. Che tutto ciò risponda ad un preciso progetto non è considerazione suggerita da elucubrazioni dietrologiche alla Pendolo di Foucault (titolo che citiamo non a caso, ma quale estremo prodotto degli anni del riflusso), bensì constatazione che scaturisce dalla semplice analisi dei fatti.
Sostanzialmente, l’opera di restaurazione culturale agisce secondo sette linee prevalenti, così riassumibili: a) demonizzazione delle culture antagoniste: b) imposizione di un punto di vista ideologico presentato quale anti-ideologia; c) educazione all’accettazione acritica dell’innovazione tecnologica; d) selezione del ceto intellettuale; e) corruzione del ceto intellettuale preesistente; f) demolizione e successiva sussunzione in forme alterate di aspetti della cultura di sinistra: g) censura diretta. Tutte le linee di tendenza citate operano simultaneamente. E’ solo per comodità, e per ragioni di chiarezza, che le esamineremo brevemente una ad una.

a) La prima operazione ad essere attuata dal potere – prima non in ordine cronologico, ma in ordine di priorità – è la demonizzazione delle culture ad esso avverse. Il pretesto è il terrorismo, particolarmente comodo perché permette in qualsiasi momento uno scivolamento dal terreno della discussione alla sfera giudiziaria.
Elevata la lotta al terrorismo a massima emergenza nazionale, si cerca di criminalizzare, agli occhi dell’opinione pubblica, non solo le tesi cui i fautori della lotta armata si ispirano, ma tutti i filoni teorici che, prevedendo un’acuta contrapposizione tra le classi, con quelle tesi presentano una seppur minima attinenza. Prima ad essere colpita, in questo caso senza discussione alcuna, è come si è già visto l’area intellettuale vicina all’autonomia operaia, di cui si ottiene il silenzio arrestandone o costringendone all’esilio i più noti esponenti.
Ma non è che l’inizio. Dopo l’autonomia e i suoi “cattivi maestri”, l’atto di accusa del sistema e dei suoi strumenti di comunicazione si estende a tutte le forme di cultura antagonista degli anni Settanta, presentate come matrici di violenza e di indiscriminati spargimenti di sangue. Sul banco degli imputati, in questo caso metaforico, finiscono non solo gli scontri di piazza del passato decennio, ma persino le battaglie sindacali di quel periodo (definite “estremistiche”) o la politica allora condotta dai partiti di sinistra.

Parallelamente, le esperienze dei paesi a “socialismo reale” (con cui la sinistra rivoluzionaria italiana ha poco a che vedere, essendo sempre stata duramente critica nei loro riguardi), vengono deformate fino a metterne in rilievo i soli aspetti negativi, indicati quale necessario portato di ogni concezione egualitaria. L’operazione viene poi dilatata fino ad includere il concetto stesso di rivoluzione, presentato quale aberrazione storica che, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi latitudine, produce solo oceani di sangue.
Infine è la nozione di “ideologia” (usata contro il marxismo, che pure rifiuta simile definizione) a cadere nelle grinfie degli inquisitori. Chiunque indaghi sotto la superficie delle cose, o cerchi razionalità che non coincidono con l’apparente, viene collocato di peso nel campo di coloro che propugnano il terrorismo, la divisione in classi e il “socialismo reale”, e dunque nel girone degli omicidi potenziali. Non è un caso che alla fine degli anni ’80 il rettore dell’Università di Bologna Fabio Roversi Monaco, sia ricorso a reiterati inviti alla questura affinché indagasse su «eventuali basisti delle Brigate Rosse all’interno dei collettivi universitari»; ciò nel tentativo di liberarsi di un movimento studentesco che, attraverso programmi di didattica alternativa e iniziative pubbliche di attacco al progetto di autonomia universitaria, aveva creato in quel periodo una partecipazione studentesca così vasta ed intensa da preoccupare le gerarchie accademiche impegnate nei fasti celebrativi del IX° centenario dell’ateneo.
Una generazione viene così ossessivamente addestrata ad associare sangue e cambiamento, sangue e riflessione, sangue e capacità d’indagine, sangue e ribellione.

b) Si è già detto che la repressione culturale sfocia nella messa sotto accusa del concetto stesso di “ideologia”, intendendo ambiguamente con l’espressione qualsiasi corpo dottrinario o sistema interpretativo non teso a legittimare l’esistente. In cambio viene proposta una presunta anti-ideologia, in realtà più ideologica che mai, che esclude ogni suggestione utopica riconoscendo solo la dimensione del quotidiano, ed identifica il progresso con la soluzione del problemi spiccioli che non escono dal quadro socio-istituzionale dato.
È una sorta di no future padronale, in cui la morale oscilla tra il cinismo e l’innocua carità di matrice cristiana, la politica tra il disimpegno, il partitismo più bieco e l’impegno su temi parziali e circoscritti, la cultura tra la pura evasione e l’attenzione a una forma che non racchiude alcuna sostanza. Il vero intellettuale, il “buon maestro”, in simile contesto, diviene il giornalista più o meno sponsorizzato, detentore della sola chiave interpretativa della realtà ritenuta valida: il “buon senso” dei tempi andati, riproposto quale massima espressione di modernità. Descrivere e non interpretare è la direttiva primaria imposta a chi deve orientare una società chiamata ad accettare e non discutere.

c) Proprio la funzione del giornalista gioca un ruolo cruciale nell’introdurre in maniera indolore innovazioni tecnologiche capaci di produrre contraccolpi sociali dal costo umano altissimo. In nessun paese come in Italia le tecnologie fondate sull’automazione e l’informatizzazione vengono accolte da un tale coro di osanna da far pensare all’avvento di un nuovo Rinascimento. Giornalisti come Giorgio Bocca alternano invettive contro le situazioni di lavoro in cui la classe operaia cerca di difendere conquiste quasi secolari (vedi il porto di Genova) ad entusiastici reportages su fabbriche azionate da un solo operaio, su computers in grado di sostituire interi uffici, su minuscole officine capaci di produrre quasi quanto la FIAT.
È un delirio di felicità, un’infatuazione collettiva, un’esplosione di giubilo che travolge l’obsoleta preoccupazione di chi si chiede che fine possa fare la manodopera sostituita, e come mai un progresso tecnologico che potrebbe operare a beneficio dell’intera collettività incrementi invece i profitti di alcuni e la povertà di molti.

Domande inattuali, banali, vecchiette, in un quadro che vede la cosiddetta “imprenditorialità” assurgere al rango di valore, e il linguaggio Basic, con la logica binaria che lo sottende, a massima espressione di intelligenza, da insegnare anche ai neonati. Nessuno rileva che l’informatica sostituisce solo le operazioni più ripetitive, e che il suo invadere il tempo libero giovanile rappresenta una scuola di stupidità collettiva. Poco importa: per la pseudo-intellettualità italiana il computer è l’uomo dell’anno” (non l’hanno detto anche gli americani?), prototipo meccanico dell’umanità che il capitale predilige.

d) Per modificare la mentalità collettiva non basta però operare a basso livello: occorre selezionare un corpo intellettuale che legittimi ai livelli più alti l’operazione, sostenendola col peso del proprio prestigio ed indicando i futuri campi cui può essere estesa. Tralasciando il già citato settore giornalistico, terreno privilegiato su cui incidere è l’università, sia perché in Italia sembra non darsi cultura fuori dell’università, sia perché proprio in essa, nel corso degli anni Settanta, si erano manifestati alcuni dei fermenti che nel decennio successivo si intende spegnere ad ogni costo.
Trascorsa la fase della repressione brutale e diretta, i cui risultati sono solo parziali, il potere sceglie la via della sottigliezza. Intanto, come ha acutamente rilevato Sergio Bologna, copre di denaro il corpo docente facendone un nucleo di vestali cariche di privilegi cui si accede attraverso concorsi apertamente truccati (e dunque per cooptazione, in modo che l’élite riproduca eternamente se stessa). Inoltre, seguendo un progetto che viene via via precisandosi, si punta a privilegiare una concezione utilitaristica del sapere, ponendo al centro della funzione universitaria le facoltà nelle quali più facile è l’aggancio con l’industria privata (umanistiche o scientifiche che siano) e che dunque possano divenire culla di quella “cultura d’impresa” di cui tutti parlano senza saperne precisare i tratti.
Il progetto, che ha il suo coronamento chiassoso e volgare nella concessione di lauree ad honorem ad industriali e finanzieri colti quanto delle zucche, è analogo a quello che in Francia e altrove ha abbassato il livello degli studi universitari al disastroso standard statunitense; ma mentre in quei paesi non mancano autorevoli voci di protesta, il ben ammaestrato corpo accademico italiano fa a gara per inchinarsi allo strozzino di turno coronato d’alloro, chiamandolo a tenere conferenze e cicli di lezioni e ascoltando devotamente nelle aule magne la parola e le reprimende della Confindustria.
Tutto ciò non è privo di riflessi sul piano strettamente scientifico. Nelle facoltà di Economia e Commercio persino Keynes viene espulso a calci, mentre due terzi delle lezioni riguardano il tran tran quotidiano dell’azienda di papà, altrimenti detto marginalismo; le filosofie della “crisi della ragione” e poi del “pensiero debole” si impongono anche ai non specialisti come il tema del momento; la microstoria e la reazionaria nouvelle histoire muovono dalle cattedre per conquistare anche le pubblicazioni divulgative vendute in edicola (Storia e dossier, Prometeo, Storia Illustrata); e così via. Non c’è praticamente campo del sapere che non venga inquinato dalla furia restauratrice spacciata per anti-ideologia; e il corpo docente viene premiato non solo con le ricompense materiali cui si accennava, ma anche con un accesso ai mezzi di divulgazione un tempo riservato a pochissimi eletti.

e) Oltre a selezionare un corpo intellettuale funzionale alla restaurazione, il potere fa largo uso dell’arma del “pentitismo”, e cioè di una forma di corruzione mascherata. Le pagine dei giornali, gli schermi televisivi, le vetrine delle librerie si affollano di reduci del ’68 e degli anni successivi che si affannano a spiegare quanto ha sbagliato la sinistra, estrema e non, e quanto invece è bello l’attuale stato di cose, che solo un pazzo potrebbe pensare di modificare al di fuori dei limiti consentiti dal sistema stesso. Il tutto spacciato come esempio di grande libertà intellettuale, allorché costituisce solo un adeguamento alla moda e a quanto il padrone richiede.

È una parata indecorosa di squilibrati (come tale Mughini Giampiero, già direttore di un’oscura Giovane Critica e poi di vari partitini m-l, promosso ipso facto presentatore televisivo), di opportunisti, di professionisti dell’abiura, di logorroici, assoldati per essere esposti in vetrina a condannare le generazioni passate e ad ammonire quelle future, cantando le virtù del profitto e condannando tutte le rivoluzioni, da quella francese in poi. In cambio viene concesso loro di uscire dal silenzio (la cosa che più temono) e di diventare titolari di rubriche, editorialisti, docenti, saggisti acclamati, consiglieri politici.
Chi gestisce l’operazione è in primo luogo il PSI, che arruola in massa simili personaggi e finanzia il passaggio da Lotta Continua (quotidiano) a LC, poi divenuto “Reporter”, vero e proprio portavoce ufficiale del riflusso; ma anche radicali e verdi fanno la loro parte.
Caratteristica di questi soggetti è accusare i propri ex compagni, che di sicuro hanno meno responsabilità di loro, infierendo contro di essi proprio nel momento in cui non c’è organo dello Stato che non infierisca a sua volta. Salvo talora, come nel “caso Sofri”, divenire vittime inattuali di settori particolarmente reazionari della magistratura, e allora guardare il padrone con gli occhi del cane che non capisce perché lo si prenda a calci, lui che è tanto buono e ubbidiente.

f) Tipico di un sistema repressivo “intelligente”, e cioè non guidato dalla sola istintualità, è assorbire deformandoli aspetti della cultura che sta distruggendo. Già nel corso degli anni Settanta era avvenuto qualcosa del genere, ad esempio con la distorsione della libertà sessuale rivendicata nel ’68 in pornografia, e cioè in un’antitesi dotata delle forme apparenti dello sviluppo logico. Lo stesso avviene negli anni Ottanta, non tanto e non solo ad opera dello Stato, quanto piuttosto per iniziativa del capitale privato.
Rimandando ad uno dei successivi articoli una disamina più approfondita del tema, ci limitiamo a ricordare come le radio libere (allora così chiamate con cognizione di causa) e gli stessi videotapes iniziassero ad essere diffusi in Italia per iniziativa della sinistra di classe, quali esempi di comunicazione antagonista, precorsi e divulgati da teorici dell’uso alternativo dei media come Roberto Faenza e Pio Baldelli (quest’ultimo poi catalogabile tra i soggetti di cui alla lettera e).
Con gli anni Ottanta non solo Berlusconi e soci si appropriano di quegli strumenti, ma assumono personaggi particolarmente creativi nel decennio precedente, inserendoli nelle proprie reti di comunicazione. L’ironia, l’amore per il paradosso, il peculiare umorismo proprio del movimento nel suo lato “esistenziale”, vengono così travasati in trasmissioni e spettacoli all’insegna del qualunquismo e del disimpegno e trasformati, da veicolo di critica, in strumenti di pura evasione del tutto organici alle forme in cui si stanno rimodellando la società e la mentalità collettiva.

g) Da ultimo (ma non in senso cronologico) si integrano i metodi più complessi di riconquista dello spazio della cultura e della comunicazione con la censura diretta. Mentre tutti i maggiori organi di stampa, con l’avvio degli anni Ottanta, tacciono sistematicamente sulle lotte e le manifestazioni che hanno a protagonista la sinistra rivoluzionaria (salvo che in caso di scontri), vengono boicottati ed emarginati libri e pubblicazioni che ad essa fanno riferimento. È il caso, per fare un esempio, dei romanzi di Nanni Balestrini, che per quante copie vendano non ottengono alcuna recensione. Ma se Balestrini riesce bene o male a farsi pubblicare, altri autori urtano contro il muro di case editrici convertitesi ad una produzione innocua prima ancora che il mercato lo imponesse (Feltrinelli, Mazzotta, ecc.).
L’esempio più clamoroso riguarda però il cinema. Film che disturbano per il loro contenuto antiamericano (come Urla di guerra dal Nicaragua e Walker) vengono acquistati, tradotti e mai distribuiti; il film Stammheim (a dire il vero bruttissimo) viene sì distribuito, ma sottoposto a un assurdo divieto ai minori di 18 anni che oggi si riserva solo alla peggiore pornografia. Di recente, Gli invisibili di Pasquale Squitieri, unica pellicola che tratti onestamente del ’77 e degli anni della repressione, è divenuto a sua volta invisibile, dopo una permanenza in prima visione tanto breve da non consentire alcuna valutazione delle sue possibilità commerciali.
Come si dovrebbe aver compreso, ben pochi dei punti da noi elencati possono essere attribuiti al caso o all’iniziativa di singoli. Si tratta invece di misure adottate in forma coordinata e simultanea in tutti i settori della cultura, di cui per la prima volta il capitale coglie a fondo l’importanza strutturale ai fini della difesa del sistema, e dunque dell’estrazione del profitto.
L’industria culturale si sviluppa enormemente, assorbendo una massa abnorme di operatori e divenendo uno degli assi strategici dell’intero decennio. Il tempo libero accresciuto dall’automazione non ha quindi modo di favorire atteggiamenti “sovversivi” (minaccia per il capitale già adombrata da Marx nei Grundrisse), dal momento che viene completamente invaso dagli strumenti di condizionamento allestiti dal potere.

(Segue nella prossima puntata la Terza Parte, I FATTORI SOGGETTIVI)

Le puntate precedenti le trovate: 01 qui, 02 qui, 03 qui e 04 qui

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Ibridazioni. Viaggio nell’immaginario tecnologico di David Cronenberg https://www.carmillaonline.com/2025/11/06/ibridazioni-viaggio-nellimmaginario-tecnologico-di-david-cronenberg/ Thu, 06 Nov 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91049 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del libro di Paolo Lago e Gioacchino Toni, Ibridazioni. Viaggio nell’immaginario tecnologico di David Cronenberg, prefazione di Pietro Ammaturo (Rogas 2025), si riporta di seguito un breve stralcio ringraziando l’editore per la gentile concessione. p.l.gh.t.]

Passati […] in rassegna alcuni, tra i tanti, aspetti dell’immaginario tecnologico che ha attraversato la storia della fiction proiettata verso un futuro in larga parte dai tratti distopici, [nel volume] sarà affrontata la produzione cinematografica cronenberghiana, in cui, spesso, i processi di ibridazione che ne caratterizzano la poetica prendono il via da qualche esperimento scientifico che, [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del libro di Paolo Lago e Gioacchino Toni, Ibridazioni. Viaggio nell’immaginario tecnologico di David Cronenberg, prefazione di Pietro Ammaturo (Rogas 2025), si riporta di seguito un breve stralcio ringraziando l’editore per la gentile concessione. p.l.gh.t.]

Passati […] in rassegna alcuni, tra i tanti, aspetti dell’immaginario tecnologico che ha attraversato la storia della fiction proiettata verso un futuro in larga parte dai tratti distopici, [nel volume] sarà affrontata la produzione cinematografica cronenberghiana, in cui, spesso, i processi di ibridazione che ne caratterizzano la poetica prendono il via da qualche esperimento scientifico che, sfuggito di mano, determina negli esseri umani trasformazioni incontrollabili, toccando tematiche che hanno a che fare con le facoltà percettive della mente, l’identità, la sessualità, il rapporto dell’essere umano con i media e, più in generale, con le tecnologie. È insomma all’immaginario tecnologico di cui sono permeati i film di David Cronenberg che intende guardare questo lavoro. […]

Il regista canadese ha spesso messo in scena la crisi identitaria degli esseri umani e lo ha fatto estremizzandola, a partire dalle mostruosità derivanti da processi di ibridazione che, schematicamente, possono essere ricondotti a tipologie biologiche, artificiali e mediatiche a cui gli individui si sottopongono più o meno volontariamente. Per quanto tendano spesso a sovrapporsi, è utile analizzare specificatamente ognuna di queste tipologie a partire dalle opere del canadese che le indagano più direttamente.

L’ibridazione di tipo biologico è presente soprattutto in film come Shivers, Rabid e La mosca, opere in cui, a partire da qualche maldestro esperimento scientifico, i corpi e le identità dei personaggi vengono contaminati da elementi di carattere biologico ad essi estranei. Può trattarsi di un parassita consapevolmente innestato per riattivare la libido in un’umanità alienata dall’eccessivo ricorso al pensiero razionale tecnico-scientifico, come in Shivers, di un trapianto di pelle che, anziché restituire l’identità fisica perduta alla vittima di un incidente, scatena incontrollate e contagiose pulsioni aggressive, quasi a sancire l’impossibilità della scienza di rimediare alla frantumazione identitaria, come in Rabid, oppure, ancora, della fusione accidentale fra un essere umano e un insetto che compromette l’identità fisica e mentale del protagonista, come ne La mosca.

Ed è proprio nella parte finale di questo ultimo film che compare quell’ibridazione artificiale che, se qua si manifesta in maniera repulsiva, sarà poi ripresa in una non meno inquietante variante attrattiva da Crash e, per certi versi, dallo stesso Crimes of the Future del nuovo millennio. In tali casi l’ibridazione ha a che fare con l’innesto di componenti artificiali nel corpo dei protagonisti, con la dipendenza tecnologica e con un più generale processo di artificializzazione dell’essere umano contemporaneo che ne riscrive identità, immaginari e desideri.

Una terza tipologia di ibridazione, che può dirsi mediatica, pur essendo massimamente esplicitata in Videodrome ed eXistenZ, opere che riflettono rispettivamente sull’incidenza sull’essere umano del mezzo televisivo e dei sistemi di interattività digitale, può dirsi anticipata da alcuni film incentrati sull’universo telepatico. L’occhio con cui il regista guarda a tutte queste forme di comunicazione – telepatica, televisiva, digitale-interattiva – è al contempo attratto e spaventato, in quanto vi coglie sia inedite possibilità di ampliamento della limitata e limitante realtà vissuta dall’essere umano contemporaneo, sia potenzialità manipolatrici capaci di riscrivere l’individuo nella mente e nel corpo distruggendone l’identità.

L’ibridazione mediatica nella produzione cronenberghiana segue […] un percorso che prende il via con opere incentrate sulle potenzialità della comunicazione telepatica (Stereo, Brood, Scanners, La zona morta), per poi passare a mostrare come l’incidenza del medium televisivo sull’essere umano (Videodrome) conduca alla nascita di un’inquietante ed inedita tipologia di ibridazione che verrà ulteriormente rafforzata dalle nuove tecnologie digitali interattive (eXistenZ) che spalancano le porte all’onlife, ossia all’indiscernibilità tra online ed offline, al corpo disseminato nelle rete e alla tematica dell’inconscio artificiale, ponendo con forza la questione che, probabilmente, è a monte di tutto il cinema cronenberghiano: l’identità umana, fisica e mentale, in un mondo sempre più tecnologizzato, sempre più artificiale.

A delineare in estrema sintesi la posizione di Cronenberg nei confronti della scienza e della tecnologia provvede lo stesso regista nel corso di un’intervista rilasciata a ridosso dell’uscita di eXistenZ. Il canadese in tale occasione afferma di voler mantenere uno sguardo il più possibile neutrale nei confronti della tecnologia e pur intercettando probabilmente le paure del pubblico nei confronti di questa, tenta di evitare tanto atteggiamenti apocalittici quanto apologetici. […]

[Nel volume sono esaminati] i tre principali processi di ibridazione indagati dal regista – biologico, artificiale e mediatico –, pur nella consapevolezza di un loro, non infrequente, intrecciarsi. Per analizzare tali processi di ibridazione [viene fatto riferimento] al concetto di “phylum macchinico”, coniato da Deleuze e Guattari per indicare la connessione fra «singolarità» prolungabili mediante determinate operazioni. Possiamo estendere il termine “phylum”, cioè connessione, non solo alla macchina ma anche alla sfera del corpo e della comunicazione mentale/mediatica introducendo così il “phylum biologico” ed il “phylum mediatico”. […]

 

 

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al-Hind: storie di una globalizzazione dimenticata https://www.carmillaonline.com/2025/11/05/al-hind/ Wed, 05 Nov 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91189 di Sandro Moiso

William Dalrymple, La Via dell’Oro. Come l’India antica ha trasformato il mondo, traduzione di Svevo D’Onofrio, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp.555, euro 35,00

Con il termina al-Hind i primi scrittori arabi indicarono tutto ciò che si trovava a est del fiume Indo e compresero chiaramente l’unità di una vasta superficie terracquea, estesa dall’Hindu Kush al Pacifico, riconoscendo in essa una regione dalle caratteristiche omogenee. Quella che oggi dovremmo riconoscere, anche qui in Occidente come indosfera, ma che ancora tarda ad essere riconosciuta come tale.

In un momento di declino della centralità economica, politica e culturale dei paesi [...]]]> di Sandro Moiso

William Dalrymple, La Via dell’Oro. Come l’India antica ha trasformato il mondo, traduzione di Svevo D’Onofrio, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp.555, euro 35,00

Con il termina al-Hind i primi scrittori arabi indicarono tutto ciò che si trovava a est del fiume Indo e compresero chiaramente l’unità di una vasta superficie terracquea, estesa dall’Hindu Kush al Pacifico, riconoscendo in essa una regione dalle caratteristiche omogenee. Quella che oggi dovremmo riconoscere, anche qui in Occidente come indosfera, ma che ancora tarda ad essere riconosciuta come tale.

In un momento di declino della centralità economica, politica e culturale dei paesi europei e degli Stati Uniti stessi, spesso si immagina un nuovo ordine multipolare in cui, troppo spesso, sembrano ergersi soltanto, o quasi, altre due aree di significativa influenza, Cina e, per quanto bistrattata, Russia. Tralasciando, e sarebbe qui inutile spiegare ancora una volta le radici coloniali e “razziali” di tale dimenticanza, di comprendere tra queste almeno anche l’India.

Quel sub-continente che ancora oggi, pur comprendendo una porzione significativa della popolazione mondiale e delle attività collegate agli aspetti più avanzati della modernità digitale, spesso è visto soltanto come una vasta area di arretratezza sociale ed economica su cui lo sguardo mediatico e dell’immaginario collettivo sembra posarsi ancora come ai tempi dell’impero coloniale britannico e dei suoi cantori alla Rudyard Kipling oppure, per rimanere più vicini a noi, con gli occhi del Capitano Salgari. Eppure, eppure…

Almeno la letteratura ha iniziato a cogliere gli elementi di novità, spesso di carattere tecnologico, presenti alle spalle degli aspetti più retrogradi del nazionalismo hindu, rappresentato dall’attuale capo del governo, Narendra Damodardas Modi, dalla ancora diffusa violenza sulle donne o del cinema di Bollywood. E lo ha fatto, guarda caso, ancora una volta con generi d’evasione come ai tempi di Salgari, in particolare nell’ambito della fantascienza e della fantapolitica.

Per questo motivo, e per non rubare troppo spazio al proseguimento della recensione del testo di Darlymple, vale la pena di ricordare qui soltanto alcuni testi, più o meno recenti. Il primo è I giorni di Cyberabad di Ian McDonald1, in cui lo scrittore scoto-irlandese immagina e descrive l’India del 2047. Una nuova superpotenza abitata da un miliardo e mezzo di persone nell’era dell’IA, fratturata in una dozzina di stati in cui, accanto allo sviluppo delle attività legate alla programmazione e alla economia della comunicazione digitale, nascono dee-bambine e si celebrano matrimoni tra uomini e IA.

Uno un po’ meno recente è La vacca sacra (Sacred Cow, 1993), un racconto breve contenuto in un’antologia dell’autore cyberpunk americano Bruce Sterling2, in cui lo scrittore immagina, con ironia e senso dell’anticipazione, una compagnia cinematografica indiana intenta a realizzare un film nella ex—potenza coloniale inglese, dove i costi di lavorazione, a causa della decadenza economica e della crisi sociale e politica, sono molto inferiori a quelli dell’India ormai sviluppata e più ricca.

Ma è certamente 2034 di Elliot Ackerman e James Stavridis3 a costituire il motivo di maggiore interesse, anche alla luce dei conflitti che si delineano, con sempre minore possibilità di essere arrestati diplomaticamente, all’orizzonte e sul breve periodo. Stavridis è un ammiraglio con una prestigiosa carriera militare, politica e giornalistica, mentre Ackermann, prima di sfornare best seller, ha prestato servizio nei Marines e nelle Forze Speciali. Insieme immaginano, nell’anno che da il titolo al romanzo, una devastante guerra nucleare tra Stati Uniti e Cina in cui, però, a svolgere un decisivo ruolo dirimente sarà proprio l’India che, anzi, sarà l’unica nazione a uscire rafforzata e vincente dal conflitto tra le altre due superpotenze. Ruolo svolto sia attraverso il soft power che per l’arsenale nucleare rimasto intatto e minaccioso, fatti entrambi valere sulle rovine economiche e politiche di ciò che resta, dopo pochi giorni di guerra, dei due “imperi” nemici.

Visioni, tutte, di un futuro in cui l’India sembrerebbe o potrebbe riprendere un ruolo politico, economico e culturale già avuto per almeno un millennio nella storia del globo o anche soltanto di quella parte che si è qui precedentemente definita come “indosfera”, le cui radici vengono ampiamente analizzate e descritte nel magnifico testo di William Darlymple edito da Adelphi.

Durante gran parte del Basso Medioevo e dell’Età moderna, l’India fu profondamente influenzata da elementi culturali provenienti dall’esterno dei suoi confini. In seguito all’istituzione di una serie di sultanati islamici tra il XII e il XIII secolo, il persiano divenne la lingua ufficiale del governo
in gran parte del Subcontinente e i modelli culturali persiani – nell’arte, nell’abbigliamento, nel galateo – si affermarono persino nelle corti indù dell’India meridionale. Successivamente, nel XIX secolo, con l’ascesa della Compagnia delle Indie Orientali e dell’Impero britannico, l’inglese sostituì progressivamente il persiano e l’India entrò a far parte dell’anglosfera. Per progredire socialmente divenne indispensabile padroneggiare l’inglese e gli indiani che aspiravano a farsi strada dovettero rinunciare, o relegare in secondo piano, aspetti rilevanti della propria cultura, trasformandosi in « Sahib bruni » anglofoni […] Eppure, nel millennio e mezzo precedente, dal 250 a.C. al 1200 d.C. circa, l’India era stata una fiera esportatrice della propria variegata civiltà, fino a creare intorno a sé un impero delle idee – una vera e propria «indosfera» – dove la sua influenza culturale risultava predominante. Durante questo periodo, il resto dell’Asia fu il destinatario consenziente e persino entusiasta di un colossale trasferimento di soft power indiano, in ambiti come la religione, l’arte, la musica, la danza, la tessitura, la tecnologia, l’astronomia, la matematica, la medicina, la mitologia, la lingua e la letteratura.
[…] Dall’India non giungevano soltanto figure pionieristiche di mercanti, astronomi e astrologi, scienziati e matematici, medici e scultori, ma anche santi, monaci e missionari appartenenti a diversi filoni di pensiero religioso: l’induismo (o sanatana dharma, come alcuni preferiscono chiamarlo), nelle sue declinazioni vedica, shivaita e vishnuita, e il buddhismo delle tradizioni theravada, mahayana e tantrica. […] Al giorno d’oggi, più di metà della popolazione mondiale vive in aree in cui le idee religiose e culturali indiane sono, o sono state, preponderanti, e dove un tempo le divinità indiane dominavano l’immaginazione e le aspirazioni di uomini e donne. Al tempo stesso, l’influenza intellettuale dell’India si è estesa verso occidente, consegnandoci non solo nozioni matematiche cruciali, come lo zero, ma anche la forma stessa dei numeri che tuttora utilizziamo – probabilmente la cosa più simile a una lingua universale che l’umanità abbia mai posseduto. Le conoscenze, i saperi e le intuizioni religiose dell’India antica sono una parte fondante del nostro mondo. […] In ambito scientifico, astronomico e matematico, l’India è stata maestra del mondo arabo e, per suo tramite, dell’Europa mediterranea4.

William Benedict Hamilton-Dalrymple (classe 1965) è uno storico, giornalista, scrittore di viaggi, autore scozzese che vive tra Londra e Delhi ormai da molti anni. Per i suoi saggi sull’India e l’Oriente è stato insignito di numerosi premi letterari ed è membro della Royal Society of Literature e della Royal Asiatic Society. Tra le sue principali opere, pubblicate in Italia da Adelphi, vanno annoverate: Il ritorno di un re. La prima, catastrofica intromissione dell’Occidente in Afghanistan (2015); Nove vite (2020); Anarchia (2022) e, con Anita Anand, Koh-i-Nur. Sulle tracce della pietra ‘maledetta’: il Koh-i-Nur, «La montagna di luce» ( 2020). Mentre per Rizzoli editore ha in precedenza pubblicato: Dalla montagna sacra (1998), Il Milione (1999), In India (2000), Delhi (2001), Nella terra dei Moghul bianchi (2002) e L’assedio di Delhi. 1857 Lo scontro finale fra l’ultima dinastia Moghul e l’impero britannico (2007).

Pur non essendo certo ispirata dai post colonial studies, all’interno della sua opera, oltre a ricostruire anche da storico dell’arte quale è lo splendore della civiltà indiana passata, non manca mai l’occasione di sottolineare le violenta trasformazione e lo sfruttamento imposto dall’impero britannico e dalla Compagnia delle Indie sulla società, la cultura, l’economia e le tradizioni politiche e religiose del sub-continente indiano. Un’attenzione che, un po’ come quella di Rudyard Kipling, decisamente più ispirata però da una percezione di stampo ancora coloniale, deriva dal suo incontro con l’India a partire dalla gioventù.

Il mio primo contatto con Delhi avvenne quando avevo diciotto anni: vi giunsi nella nebbiosa notte invernale del 26 gennaio 1984. […] Non sapevo assolutamente nulla dell’India.
Avevo trascorso l’infanzia nella Scozia rurale, sulle sponde del Firth of Forth, e tra i miei compagni di scuola ero probabilmente quello che aveva viaggiato di meno. I miei genitori erano convinti di vivere nel luogo più bello che si potesse immaginare, e di rado ci portavano in vacanza, a parte un’annuale gita primaverile in un angolo delle Highlands scozzesi, anche più fredde e umide di casa nostra. Forse per questa ragione Delhi ebbe su di me un effetto maggiore e più sconvolgente di quanto avrebbe avuto su adolescenti più cosmopoliti.
[…] Ormai da oltre vent’anni divido il mio tempo fra Londra e Delhi, e la capitale indiana resta la mia città preferita. E’ soprattutto il rapporto della città con il suo passato che continua ad affascinarmi: tra le più grandi città del mondo, solo Roma, Istanbul e Il Cairo possono pretendere di rivaleggiare con Delhi per l’ampiezza e il numero dei resti storici5.

Un interesse che è tutt’altro che organizzato intorno all’esotismo o alla nostalgia di un passato che non c’è più, ma tutto rivolto a collegare la storia di un paese immenso, che già attrasse l’attenzione e le velleità espansionistiche di Alessandro Magno, con le sue proiezioni sul presente, soprattutto sulla cultura occidentale e asiatica. Senza, naturalmente, passare attraverso le curiosità di stampo new age o hippy che troppo spesso hanno suscitato la vacua attenzione del pubblico occidentale.

Così come l’autore fa nell’ultimo testo pubblicato da Adelphi, ma uscito in lingua originale nel 2024, in cui le dieci storie che compongono gli altrettanti capitoli seguono le rotte marittime che per secolo permisero la diffusione della cultura e della scienza indiana, insieme alle ricchezze del sub-continente, di diffondersi nel resto del mondo attraverso la Via dell’Oro che dà il titolo all’opera.

Grazie ai venti del monsone asiatico, l’India si trova al centro di una vasta rete di rotte marittime e commerciali navigabili. Ogni estate, il riscaldamento dell’altopiano tibetano genera un’area di bassa pressione che attira i venti freschi e umidi dal Golfo del Bengala. Ogni inverno, al contrario, venti freddi e secchi spirano dalle nevi dell’Himalaya verso i caldi mari circostanti. La penisola indiana è situata nel mezzo di questo vortice di venti che soffiano in una direzione per sei mesi all’anno e si invertono nei sei mesi successivi. La regolarità e la prevedibilità di questo fenomeno naturale danno origine ai monsoni, che per millenni hanno permesso ai marinai indiani di spiegare le vele e lanciarsi negli oceani circostanti, per poi rientrare in sicurezza quando i venti si invertivano.
Gli antichi mercanti indiani sfruttavano le vie marittime dell’Asia monsonica per viaggiare in due direzioni. Molti si dirigevano a ovest, approfittando dei venti invernali, fino alle coste orientali dell’Africa e ai prosperi regni dell’Etiopia. Qui si trovavano dinanzi a una scelta: seguire il ramo settentrionale, che attraverso il Golfo Persico conduceva in Iran e in Mesopotamia, oppure il ramo meridionale, che attraverso il Golfo di Aden li portava nel Mar Rosso e in Egitto. I mercanti diretti a ovest arrivavano con gli alisei all’inizio dell’estate e tornavano in India con il monsone estivo in agosto. Con i venti a favore, la navigazione dalla bocca del Mar Rosso al Gujarat richiedeva appena quaranta giorni. Tuttavia, perdere i venti poteva prolungare il viaggio di andata e ritorno fino a un anno, costringendo i mercanti a una lunga vacanza forzata in riva al Nilo. Il percorso terrestre equivalente, attraverso l’Afghanistan con carovane di cammelli, richiedeva almeno il triplo del tempo.
Per circa tre secoli, a partire dalla battaglia di Azio del 31 a.C. e dalla successiva integrazione dell’Egitto nel sistema imperiale romano, le principali arterie commerciali tra Oriente e Occidente non furono le rotte terrestri, spesso sbarrate dal conflitto tra Roma e i Parti, bensì la Via dell’Oro dei mari aperti, che solcava le turbolente acque del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano (W. Dalrymple, op. cit., pp. 17-18. )).

Una storia, quella ricostruita da Dalrymple che, per motivi diversi e con modalità narrative differenti, si affianca a quella della Via della Seta, tra Cina e Occidente, che è stata ricostruita da Peter Frankopan, docente di Storia bizantina all’Università di Oxford, senior research fellow al Worcester College e direttore dell’Oxford Centre for Byzantine Research, in tempi quasi altrettanto recenti (2015)6. Due ricostruzioni utilissime per comprendere come la pretesa centralità politica ed economica, oltre che culturale, dell’Occidente non rappresenti altro che una momentanea illusione di stampo coloniale una volta messa a confronto con i tempi lunghi e lunghissimi della storia planetaria.

Motivo per cui, avvicinandosi il momento della necessaria chiusura di questa recensione, vale almeno la pena di ricordare la storia narrata, a partire dallo sperduto sito archeologico di Mes Aynak, tra le cui grotte si era nascosto in tempi più recenti Osama Bin Laden, nel terzo capitolo di La Via dell’Oro, intitolato Il grande re, re dei re, figlio di dio, di un antico impero formatosi tra le montagne dell’attuale Afghanistan, ad opera di un popolo nomade di pastori, quello dei Kushana, che costituì una fondamentale occasione per la diffusione del buddhismo dall’India verso la Cina e uno snodo importante per i rapporti dell’Asia centrale con l’impero romano.

I Kushana in origine erano un popolo di pastori nomadi indoeuropei che si spostavano tra le oasi desertiche dell’Asia centro-orientale. Gli antichi imperi cinesi li conoscevano inizialmente come Yuezhi. I loro autoritratti su monete e sculture li raffigurano come uomini di corporatura robusta, all’apparenza di ceppo iranico. […] Intorno al 160 a.C. gli Yuezhi/Kushana migrarono verso sud, forse a causa dell’espansione dell’Impero cinese Han, e si stabilirono nell’odierno Afghanistan. Qui finirono col sopraffare gli ultimi greci di Battriana, i discendenti dei macedoni che erano rimasti bloccati nella regione dopo la prematura morte di Alessandro Magno e la disgregazione del suo impero.
[…] Col passare del tempo, i Kushana si lasciarono definitivamente alle spalle le loro radici tribali scitiche e nomadiche e adottarono diversi aspetti dell’ellenismo stanziale dei loro predecessori greci di Battriana, le cui monete iniziarono presto a imitare. Al tempo stesso, i Kushana si ispirarono anche alle tradizioni dei Parti, che allora dominavano le pianure della Persia orientale. In tal modo, finirono con l’abbracciare un pantheon insolitamente ampio, come testimoniano le loro monete che raffigurano più di trenta divinità provenienti dalle diverse tradizioni religiose presenti nei loro domini. E a misura che i Kushana si espandevano verso sud, il loro culto pubblico si orientava sempre più verso le divinità, le religioni e le filosofie dell’India.
Paradossalmente, l’ascesa del buddhismo indiano in Asia Centrale sembra essere iniziata proprio nel momento in cui gli eserciti kushana marciavano verso sud in direzione dell’India. Le conquiste dei Kushana, infatti, anziché isolare il Subcontinente, aprirono i passi un tempo invalicabili dell’Hindu Kush, permettendo ai monaci buddhisti di attraversarli nella direzione opposta e, col tempo, di costruire cappelle, stupa e monasteri, convertendo gradualmente le popolazioni locali alla propria fede. Alla fine, sarà proprio il patrocinio kushana del buddhismo a consentirgli di diffondersi in tutta l’Asia Centrale e fino in Cina.
[…] Fu solo con la conquista dei passi dell’Hindu Kush da parte dei Kushana tra il I e il II secolo d.C. e la conseguente intensificazione degli scambi commerciali attraverso le montagne, tra il Tagikistan e il porto fluviale di Barbarikon, presso l’odierna Karachi, che i mercanti buddhisti indiani iniziarono a stabilirsi nella regione in numero significativo7.

Proprio il prospero porto di Barbarikon, situato alla foce dell’Indo, avrebbe poi costituito un momento centrale degli scambi tra l’Asia Centrale e l’impero di Roma, bypassando il regno dei Parti che costituì sempre un severo ostacolo militare sia per l’espansione romana che dei regni e imperi dell’Asia centrale. Così, dopo l’incontro tra ambasciatori “indiani” e l’imperatore Traiano, ancora ricordato sulla Colonna Traiana dove gli emissari asiatici sono rappresentati mentre indossano turbanti e pantaloni, e dopo la promessa dei Romani di pagare i prodotti dei Kushana in oro, gli scambi tra l’Egitto romano e il regno afghano si svilupparono in maniera decisamente significativa.

Dai porti kushana come Barbarikon cominciò a transitare una gran quantità di beni di lusso occidentali, tra cui oro e vino romani, provenienti da Alessandria e dai porti del Mar Rosso; da lì risalivano l’Indo e raggiungevano le capitali settentrionali dei Kushana, come Taxila, Pushkalavati presso Peshawar, e Bagram, nelle pianure a nord di Kabul. A Pushkalavati è stata rinvenuta un’intera cantina vinicola colma di anfore romane, curiosamente situata accanto a un santuario buddhista8.

Dando via ad una sorta di globalizzazione dei commerci e delle conoscenze ben più antica di quella promossa con tanta enfasi negli ultimi decenni a partire dall’Occidente. Con buona pace dei suoi estimatori e dei suoi mentori politici e mediatici che ne sottolineano da sempre la “novità”.


  1. Ed. originale: I. McDonald, Cyberabad Days (2009) ora tradotto in italiano nella collana «Urania Jumbo» n° 28, Mondadori Libri S.p.a., Milano febbraio 2022.  

  2. B. Sterling, Un futuro all’antica, collana «Solaria» n° 9, Fanucci Editore, Roma, settembre 2000 (titolo originale: A Good Old-fashioned Future, 1999).  

  3. Edito in Italia nel 2021 da SEM Editore.  

  4. W. Dalrymple, L’indosfera, in La Via dell’Oro. Come l’India antica ha trasformato il mondo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 14-17.  

  5. W, Dalrymple, Introduzione a Delhi 1857. Lo scontro finale fra l’ultima dinastia Moghul e l’impero britannico, RCS Libri S.p.a., Milano 2007, pp. 16-18.  

  6. Peter Frankopan, Le vie della seta. Una nuova storia del mondo, Mondadori, Milano 2017.  

  7. W. Dalrymple, op. cit., pp. 102-106.  

  8. Ibidem, p. 109.  

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La storia fino al sei ottobre https://www.carmillaonline.com/2025/11/04/la-storia-fino-al-sei-ottobre/ Tue, 04 Nov 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91206 di Giovanni Iozzoli

Ralph Schoenman, La storia nascosta del sionismo, Associazione Rjazanov, 2024, pp. 230, € 12,00

Pubblicato per la prima volta in Italia, il volume di Ralph Shoenman  può  essere considerato uno strumento importante di inquadramento storico-politico della questione palestinese e segnatamente della storia del movimento sionista. Lettura quanto mai utile a chi ancora coltiva l’illusione di poter discernere un sionismo “romantico”, ancestrale, puro, addirittura socialisteggiante, da un sionismo “reale” degenerato. Il sionismo, per quanto ami ammantarsi di arcaismi, è una espressione della modernità e di contraddizioni materiali maturate nel vecchio continente.  Come dice Ian Pappè: il sionismo è stata la risposta europea ad [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Ralph Schoenman, La storia nascosta del sionismo, Associazione Rjazanov, 2024, pp. 230, € 12,00

Pubblicato per la prima volta in Italia, il volume di Ralph Shoenman  può  essere considerato uno strumento importante di inquadramento storico-politico della questione palestinese e segnatamente della storia del movimento sionista. Lettura quanto mai utile a chi ancora coltiva l’illusione di poter discernere un sionismo “romantico”, ancestrale, puro, addirittura socialisteggiante, da un sionismo “reale” degenerato. Il sionismo, per quanto ami ammantarsi di arcaismi, è una espressione della modernità e di contraddizioni materiali maturate nel vecchio continente.  Come dice Ian Pappè: il sionismo è stata la risposta europea ad un problema europeo – la piaga dell’antisemitismo – che nel dopoguerra è stato rovesciato brutalmente sull’area mediorientale, segnandone per quasi un secolo il destino.

Le radici ideologiche di questo processo, più che nell’Antico Testamento, vanno cercate nell’ethos coloniale del diciannovesimo e ventesimo secolo, che ha fornito adeguati strumenti retorici e ideologici al sionismo.   L’idea che la Palestina fosse una terra vergine, abitata da etnie primitive da sgomberare, sottomettere o emancipare – opzioni riflettenti le diverse articolazioni del sionismo -, è tutt’ora alla base dello Stato d’Israele e della pedagogia di massa con cui vengono indottrinate le nuove generazioni israeliane. Shoenman mette a nudo le contraddizioni di questa ideologia malata – gli europei ashkenaziti che opprimono i semiti palestinesi in nome della lotta all’antisemitismo! – e soprattutto presenta al lettore un conto inappellabile: quello della storia, dei fatti, degli eventi che nella loro crudezza, almeno a partire dalla Nakba, non possono trovare smentite.

Ralph Shoenman morto un mese prima della tragica deflagrazione del 7 ottobre, è stato Direttore Esecutivo della Fondazione Bertrand Russell, oltre ad aver ricoperto altri ruoli di prestigio a livello internazionale.  Compose questo libro all’epoca della prima Intifada e l’inizio del suo testo è una sorta di racconto in presa diretta di quella grande rivolta popolare. Rileggere i frammenti di quelle cronache fa impressione per la radicalità, la massificazione popolare della rivolta e la ferocia brutale della repressione. Isaak Rabin, allora ministro della Difesa – poi beatificato dall’Occidente in seguito al suo assassinio ad opera di fanatici oggi al governo in Israele – impiegò tutto il peso dell’IDF sui Territori rivelandone pienamente il carattere coloniale e di forza d’occupazione. Già nel 1987 il pugno della repressione – spari sulla folla, rastrellamenti, demolizioni e detenzione di massa – fu spietato, anche a fronte di un sollevamento prevalentemente civile e non armato.

Con l’intensificarsi della rivolta, il gabinetto israeliano e il ministro della Difesa Yitzhak Rabin implementarono le punizioni collettive, una tattica caratteristica dell’occupazione nazista di Francia, Danimarca e Jugoslavia. Si impediva che cibo, acqua e medicine raggiungessero i campi profughi palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Il personale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa) riferiva di spari e percosse con bastoni ai bambini che cercavano latte in polvere nei depositi dell’Onu (p. 3)

Siamo quindi nel 1987, la strategia non è ancora quella del genocidio dispiegato, ma dentro le pratiche della repressione israeliana che racconta Shoenman, c’è già in embrione tutto il campionario di crimini contro l’umanità che saranno squadernati sotto gli occhi del mondo dopo il 7 ottobre.  Il racconto di quella rivolta conduce il lettore alla radice della questione: il sionismo reca in sé un seme di violenza e oppressione che dopo il 48 si dispiegherà senza soluzione di continuità. Ma è quella l’origine, la soglia il cui oltrepassamento, renderà la Nakba una trama permanente della vita e dell’identità palestinese.

Le ambizioni territoriali del sionismo sono state espresse chiaramente da David Ben-Gurion in un discorso ad un’assemblea sionista il 13 ottobre 1936: “noi non suggeriamo di annunciare ora il nostro obiettivo che è di vasta portata, anche più di quello dei revisionisti che si oppongono alla spartizione. Non sono disposto ad abbandonare la grande visione, la visione finale che è una componente organica, spirituale e ideologica delle mie aspirazioni sioniste “.  Nello stesso anno Ben-Gurion scrisse in una lettera a suo figlio: “uno Stato ebraico parziale non è la fine, ma solo l’inizio. Sono certo che non ci potranno impedire di insediarci in altre parti del paese e della regione”.  Nel 1937 dichiarò: “i confini delle aspirazioni sioniste sono la preoccupazione del popolo ebraico e nessun fattore esterno sarà in grado di limitarli”.  Nel 1938 fu più esplicito: “i confini delle aspirazioni sioniste “, disse al Congresso del Consiglio mondiale di Poale Zion a Tel Aviv – “includono il LIbano meridionale, la Siria meridionale, l’attuale Giordania, tutta la Cisgiordania e il Sinai. (p. 52)

Le testimonianze di come questo programma venne applicato inflessibilmente nel corso degli anni e dei decenni, sono riportate in gran numero e spiegano perfettamente perché gli arabi di tutto il Medioriente definirono “catastrofe” la proclamazione dello Stato di Israele. Quasi 40 anni fa Shoenman scriveva:

la vendicatività e la calunnia sono così universalmente rivolte agli antisionisti perché la disparità tra la finzione ufficiale riguardo al sionismo e lo Stato di Israele, da una parte, e le pratiche barbare di questa ideologia coloniale e del suo apparato coercitivo, dall’altra, è molto ampia. Le persone rimangono scioccate quando hanno l’opportunità di sentire o di leggere le centinaia di persecuzioni sofferte dai palestinesi e, inoltre, gli apologeti del sionismo sono implacabili nel cercare di impedire un esame coerente e imparziale del passato virulento e sciovinista del movimento sionista e dello Stato che ne incarna i valori. (p. 22)

Parole quanto mai attuali – scritte molte tempo prima del genocidio in corso – per un libro da leggere e da usare nel dibattito contemporaneo.

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