Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 09:25:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi. Le 72 stagioni del Giappone https://www.carmillaonline.com/2025/12/13/aprire-gli-occhi-e-prestare-ascolto-alla-natura-e-ai-suoi-ritmi-le-72-stagioni-del-giappone/ Sat, 13 Dec 2025 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91319 di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e della neve, della fioritura delle piante, della maturazione dei frutti e del complesso comportamento degli animali, seguendo con precisione il ritmo regolare della natura, tra periodi di crescita, riposo e trasformazione». Nonostante il passaggio al calendario gregoriano, le tradizioni legate alle 72 stagioni – sostiene Roberta Santagostino nel volume riccamente illustrato che vi ha dedicato – restano ancora oggi radicate nella cultura nipponica.

La sensibilità giapponese nei confronti dei mutamenti della natura affonda le sue radici nella società aristocratica del VII secolo assumendo valenze estetiche ed intime, oltre che pratiche. «Nella ricerca di un equilibrio che potesse mitigare le durezze dell’inverno e i calori estremi dell’estate, si sviluppò un’immagine idealizzata della natura, riflessa in molte forme artistiche: dalla pittura alla poesia, dai giardini paesaggistici alla cerimonia del tè, fino all’arte floreale ikebana. Attraverso i brevi poemi waka e con le poetiche suggestioni haiku, la natura e il ritmo delle stagioni vennero codificate in una serie di immagini e riferimenti condivisi» divenute con il tempo «linguaggio, memoria, credenza locale».

Le 72 stagioni si aprono con i giorni di inizio febbraio in cui termina il grande freddo ed inizia il disgelo proseguendo poi con i primi cinguettii dell’anno degli usignoli che annunciano l’arrivo della primavera. Dunque, con lo scioglimento del ghiaccio, seguono i periodi in cui i pesci iniziano a nuotare più in superficie in attesa del tepore primaverile, l’ammorbidimento del terreno ad opera della pioggia, la foschia che avvolge il paesaggio, lo spuntare dell’erba, il germogliare degli alberi e, con l’avvicinarsi all’equinozio, la ripresa della vita da parte degli insetti, lo spuntare dei fiori di pesco a segnalare il diffondersi della primavera, dunque il mutare dei bruchi in farfalle, la preparazione dei nidi da parte dei passeri e il far capolino dei fiori di ciliegio sul finire di marzo. Seguono poi i giorni dei primi tuoni e con essi l’arrivo dei temporali, il ritorno delle rondini, la partenza delle oche selvatiche per il nord, i giorni degli arcobaleni, lo spuntare delle canne dalle acque, la crescita delle piantine di riso, la fioritura delle peonie, il diffondersi delle rane con i loro gracidii nelle risaie e negli stagni, il riemergere dei lombrichi dal terreno, lo spuntare dei germogli del bambù “moso”, la ricomparsa dei bachi da seta ecc. in un susseguirsi delle 72 stagioni che vanno a terminare, a fine gennaio, con il periodo più freddo dell’anno in cui il ghiaccio ricopre i fiumi mentre sotto di esso la vita continua a manifestarsi e, nei giorni a cavallo tra gennaio e febbraio, con le galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera.

Ognuna di queste microstagioni, come detto, nella cultura nipponica assumono anche valenze estetiche e intime. Il canto dell’usignolo, ad esempio, è spesso presente nella poesia giapponese per rappresentare, oltre l’arrivo della stagione primaverile, «la consapevolezza malinconica della transitorietà delle cose» mentre la carpa, per le sue qualità di forza, vitalità e perseveranza, si ritiene possa portare fortuna, ricchezza e positività. Alla carpa è legata anche l’antica leggenda della “Porta del drago” che la celebra come esempio di forza e perseveranza necessarie al conseguimento degli obiettivi della propria vita.

Nei tempi antichi la foschia primaverile che avvolge i piedi delle montagne veniva paragonata all’orlo del kimono indossato da Sao-hime, la giovane dea della primavera immaginata nella sua veste candida e soffice come la nebbia primaverile. Le suggestioni del paesaggio avvolto nella foschia primaverile, scrive Santagostino, richiamano il termine yūgen che allude al mistero e all’ambiguità delle cose rarefatte, indistinte, incerte di cui è pervasa la natura. «Yūgen è la bellezza che possiamo percepire in un oggetto, anche se non immediatamente riconoscibile e non vista direttamente. Yūgen è suggestione, memoria persistente, retrogusto o implicazione». Nella cultura zen si ricorre a tale termine per il suo «comunicare naturalezza, effimera bellezza e mutevolezza, così come il vento che si sente soffiare ma non si vede e l’acqua che scorrendo cambia continuamente stato e forma. Yūgen è bellezza latente che va scoperta con l’immaginazione». Nel mondo giapponese il concetto di yūgen ha influenzato la letteratura, la pittura, il teatro e l’architettura, finendo per divenire un termine di uso comune nella cultura nipponica.

La microstagione in cui i bruchi iniziano a trasformarsi in farfalle e la comparsa dal nulla di queste ultime è stata vista in Orente, fin dall’antichità, come simbolo di rinascita e come incarnazione dell’anima. In Giappone, ricorda Santagostino, antiche credenze popolari vogliono che gli spiriti dei defunti assumano proprio la forma di una farfalla nel loro viaggio verso l’altro mondo, oppure che gli spiriti dei morti vengano guidati dalle farfalle nel loro percorso. Nella cultura giapponese, per la sua grazia e bellezza, la farfalla è anche associata alla femminilità, e non manca di essere vista come segno di buna fortuna per incontrare l’anima gemella. Il motivo della farfalla lo si ritrova spesso nelle decorazioni per i matrimoni e sugli yukata e sui kimono delle giovani. Nel periodo Edo, il soggetto della farfalla è ricorrente nelle opere degli artisti ukiyo-e come Utagawa Hiroshige, Kubo Shunman, Yanagawa Shigenobu, Totoya Hokkei e Utagawa Toyokuni.

Se la comparsa primaverile dei fiori di ciliegio si lega all’antica tradizione hanami (visione dei fiori di ciliegio), è nel periodo Heian (794-1185) che, negli ambienti aristocratici, si iniziò a guardare ad essi come simbolo dei fiori primaverili, tanto da venire celebrati attraverso poesie waka e feste dedicate alla fioritura che avrebbero poi condotto, nel corso della società dei samurai, alla “visione dei fiori di ciliegio” che, nel periodo Edo, sarebbe poi divenuta parte della cultura popolare. «Ciò che i giapponesi ammirano dei fiori di ciliegio», sottolinea Santagostino, «non è solo la bellezza, ma anche la loro transitorietà, per questo l’hanami porta con sé un vago senso di malinconia e rimpianto per la fugacità della vita, per il passare inesorabile del tempo e per l’impermanenza di ogni cosa».

Per ognuna delle 72 stagioni, la studiosa si sofferma sulle cerimonie, le feste popolari e le rappresentazioni artistiche che le caratterizzano e per i colori che in qualche modo le caratterizzano, segnalando non solo gli aspetti simbolici, ma anche le pratiche per ottenerli in modo da poter essere utilizzati nei dipinti e nei tessuti. Con riferimento alla quarantaduesima stagione (Nogi sunawachi minoru), tra il 2 ed il 7 settembre, ad esempio, quando si giunge alla maturazione del riso e ci si avvicina al raccolto, e i campi si colorano di giallo, la studiosa si sofferma sul colore azzurro dei fiori mattutini della tsuyukusa, o “erba della rugiada” che compare a chiazze sulle rive dei torrenti e ai lati delle strade, utilizzati in passato per tingere la stoffa e per ottenere il pigmento blu che si ritrova in numerose xilografie Ukiyo-e del XVIII e XIX secolo.

A proposito della cinquantasettesima stagione (Kinsenka saku), tra il 17 ed il 21 novembre, caratterizzata dalla fioritura del narciso, il “fiore nella neve” elegante e dalla tenue fragranza, che compare all’inizio dell’inverno, apprezzato nell’arte dell’ikebana, Santagostino si sofferma sul colore delle “foglie verdi marcite” (Aokuchiba), «una sfumatura tra verde opaco e marrone giallastro, molto usata nei tessuti e nelle pitture tradizionali», spesso presente nelle vesti di corte del periodo Heian, «considerato un colore elegante e malinconico citato negli antichi elenchi cromatici per la stratificazione dei colori nei kimono di corte».

Riferendosi alla sessantaseiesima stagione (Yuki watarite mugi nobiru), 1-4 gennaio, caratterizzata dal germogliare del grano sotto a neve, l’autrice del volume si sofferma sulla prima raccolta di illustrazioni dedicata all’osservazione dei fiocchi di neve (Sekka Zusetsu) sul finire del periodo Edo, realizzata da Toshitsura Doi. «Il metodo che utilizzava per osservare la neve era sorprendentemente raffinato per l’epoca. La notte prima di una prevista nevicata, faceva raffreddare all’esterno un telo di stoffa nera. Durante la caduta della neve, i fiocchi si adagiavano delicatamente su questa superficie scura. Poi, con estrema cura, Toshitsura li prelevava con una pinzetta e li disponeva su una tavoletta nera laccata per aumentarne il contrasto. L’osservazione avveniva tramite uno strumento importato dai Paesi Bassi: il “Lan Mirror”, un microscopio occidentale che permetteva di ammirare i minimi dettagli delle strutture cristalline». La catalogazione di Toshitsura, “il Signore dei fiori di neve”, oltre che rivelarsi un’attenta opera di osservazione scientifica, mostra anche «come la bellezza della natura abbia influenzato profondamente il gusto estetico e la moda del Giappone premoderno».

Affrontando l’ultima delle 72 stagioni (Niwatori hajimete toya ni tsuku), tra il 30 gennaio ed il 3 di febbraio, caratterizzata dalle galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera, Santagostino ricorda come, prima dell’industrializzazione dell’avicoltura, in condizioni naturali le galline tendessero a rallentare, quando non a sospendere, la deposizione di uova in inverno, dunque le poche uova raccolte nei mesi più freddi fossero considerate particolarmente preziose. In particolare, le uova deposte il primo giorno del “Freddo maggiore” venivano considerate di buon auspicio. «Fin dall’antichità, le galline sono state considerate uccelli sacri perché annunciano l’alba, segnando il passaggio dalla notte, tempo degli dèi e degli spiriti, al giorno, in cui l’attività umana riprende. Proprio per questo motivo, sono simbolicamente perfette per annunciare anche la fine del lungo inverno».

Per quanto i cambiamenti climatici abbiano scombussolato i ritmi naturali su cui era stato pensato, l’antico calendario delle 72 stagioni ha ancora oggi molto da dirci e il volume di Roberta Santagostino, impreziosito da una miriade di illustrazioni, ha il merito non solo di esporre al lettore occidentale un universo culturale lontano e poco conosciuto, ma anche quello di suggerire la necessità impellente di un approccio alla natura altro rispetto a quello dello sfruttamento sconsiderato e (auto)distruttivo contemporaneo. Il calendario tradizionale scandito in attimi della tradizione nipponica suggerisce la necessità di imparare nuovamente ad aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi, oltre le distese di asfalto, di cemento armato e di schermi in cui si è finiti a vivere.

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Agonie di vivi e desolazioni di spettri (Victoriana 60) https://www.carmillaonline.com/2025/12/12/agonie-di-vivi-e-desolazioni-di-spettri-victoriana-60/ Fri, 12 Dec 2025 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91285 di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della [...]]]> di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della scrittura l’appannamento dei fantasmi. Un concerto incerto e ambiguo in cui alla visione si contrappone più frequentemente il suono, la voce, il sussurro o l’urlo.
Sostanzialmente ignota al grande pubblico italiano e del resto talora maltrattata anche da critici anglosassoni, Gertrude Atherton (1857-1948) è stata in realtà una notevolissima testimone del suo tempo – offrendo tra la valanga della sua produzione anche pregevoli prove nel genere oggi noto come weird.
Idealmente collocabile per fantasie e scrittura tra Bierce ed Henry James con un tocco di Dickens, questa signora dalla lunga vita vede cambiare il volto degli USA dov’è nata – a San Francisco, da famiglia abbiente – e il mondo dove ha modo di viaggiare, soprattutto a Londra e nello Yorkshire, in Bretagna e altri luoghi della Francia, a Monaco. Mai a proprio agio nel ruolo di madre e neppure in quello di moglie – né di amante – ha idee radicali nel condannare l’istituzione matrimoniale, nel rivendicare una propria indipendenza come scrittrice, nel supportare il suffragio femminile. Scrive forse troppo e di fretta ma con un buon successo: prevalentemente romanzi di costume – soprattutto vividi quelli di ambiente californiano –, ma anche politici e storici, con fascinazioni nietzschiane e darwinistiche magari non particolarmente originali ma che nel contesto non stupiscono. Comunque sarebbe ingiusto sottostimare una produzione di trentotto romanzi, tre raccolte di racconti, un’autobiografia e parecchie opere saggistiche, lascito di una personalità straordinaria: e lo stile è vivido, interessante. Meritevole, da parte di Hypnos, aver riscoperto l’autrice.
Atherton sopravvive a terremoto e incendio di San Francisco del 1906, e dopo un iniziale disinteresse per le cause della Grande Guerra abbraccia con forza la causa antitedesca a seguito dell’affondamento del Lusitania (1915). Aperta alle nuove arti, scrive persino una sceneggiatura per il cinema a richiesta di Samuel Goldwyn. Ultrasessantenne, sentendosi indebolita si sottopone a pionieristiche (e in seguito screditate) pratiche di ringiovanimento, con raggi X di basso livello sulle ovaie per stimolare la produzione di ormoni – e in apparenza non ne trae svantaggi. A seguito di dialoghi con l’occultista Cora Potter, giunge a ipotizzare di essere la reincarnazione di Aspasia, l’amata di Pericle, e ne trae spunto per romanzi storici di ambientazione anticogreca. A dispetto di una reciproca svalutazione come scrittrici, avvia anche un rapporto di piacevole frequentazione con Gertrude Stein. Scrive quasi fino alla fine e muore dopo la conclusione del Secondo conflitto mondiale, testimone inquieta del mutare dei mondi.
Che i suoi racconti weird rivelino dei nervi scoperti non è strano: la morte della nonna che è costretta a baciare cadavere, la morte di un figlio bambino (a seguito della quale prende a scrivere), e quella del marito su una nave verso Valparaiso (con l’impressionante conseguenza del corpo riportato a San Francisco in una botte di rum) sono solo tre degli eventi traumatici della sua vita. A seguito della lettura del macabro “Il guardiano dei morti” di Bierce (1889) gli scrive indignata per l’effetto scioccante recatole, evidentemente a traino di fatti vissuti.
Del suo canone weird, di cui Joshi valorizza nove titoli, l’edizione italiana propone sette racconti: tutti, appunto, dipanati attorno alla soglia ultima. Senso del macabro, orrore del trapasso, speculazioni sul rapporto sfuggente tra anima e corpo, miserie di età e di patologie: un orrore inscenato con spiegata eleganza. Troviamo così storie quasi bierciane di agonie, come nei racconti di orrore psicologico “La morte e la donna” (1992), che schiude a una potenziale sovrannaturalità solo in termini ambigui e ipotetici, “Una tragedia” (1893) dove a morire sono anzitutto – inaccettabilmente – le speranze di una vita, “La cosa migliore per tutti” (1900, 1905) in cui coscienza e approccio darwinistico vengono a collidere con intensità quasi intollerabile. In altri casi la morte erompe con la sua “tragica impersonalità”, come nel raggelante “Acque assassine” (1896, 1900), o ristagna nel dubbio (anche qui, nessuna certezza nel palpitare d’un fantastico alla Todorov) di possibili reincarnazioni, come nel bel “La campana nella nebbia” (1903), dove la presenza perturbante di una bimba incantevole strania un protagonista sosia di Henry James.
In questi casi il racconto mette in primo piano coppie di persone diversamente assortite, mentre un paio di testi evocano dimensioni corali: in particolare i due dove l’autrice, quasi a eco dei propri viaggi attraverso gli USA e nel Vecchio Mondo, lavora sul tema del lungo convoglio di morti o di vivi. Il topos è antico, ma la resa è molto originale. Ne “Le caverne della morte” (1886) al filtro del sogno di una notte di vigilia natalizia corrono veicoli dalla natura incerta che paiono prefigurare il bianco e nero del muto Il carretto fantasma di Victor Sjöström (1921): conducono a un Ade in cui permangono e ristagnano le follie e le vanità degli uomini – un’allegoria onirica, in tutta evidenza, che parla più del mondo dei vivi che di credenze (dubbie, nel caso di Atherton) in un aldilà. Mentre struggente è “Un cimitero inquieto” (1902) che incuriosirebbe Bernanos, morto per inciso lo stesso anno della Nostra: dove in un angolo del Finistère bretone il passaggio dei nuovi lunghi e fragorosi treni risveglia penosamente i morti, tra il dolente imbarazzo del vecchio prete e l’insoddisfazione di una giovane contessa morente (l’ennesima agonia), già “sepolta” socialmente in quella zona isolata.

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Emilio Quadrelli, un comunista eretico contro la guerra https://www.carmillaonline.com/2025/12/11/emilio-quadrelli-un-comunista-eretico-contro-la-guerra/ Thu, 11 Dec 2025 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91385 a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato [...]]]> a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato per radicalismo tendono ad offuscare o a rinnegare del tutto.

Un’eresia che si è manifestata in quasi tutti gli scritti del comunista genovese attraverso la riscoperta dei barbari, bianchi o di altra etnia, che insorgono contro l’esistente; dell’attenzione per quello che troppo spesso è definito, superficialmente e in maniera liquidatoria, come sottoproletariato; dei concetti di razza e genere come importanti fondamenta della rivolta contemporanea, fuori e dentro i confini di un impero occidentale in via di disgregazione; della guerra civile come parte integrante e ineludibile del percorso che guida sia gli stati in direzione di un conflitto allargato per il predominio del mercato mondiale sia la lotta dal basso indirizzata ad evitare la carneficina oppure a ribaltarla in processo rivoluzionario per molti versi inaspettato.

Ma, occorre qui aggiungere, Emilio oltre che eretico è stato indubbiamente un grande e significativo seguace del sincretismo in politica, non essendo interessato alla difesa della continuità di una particolare linea o corrente marxiana. Piuttosto, come di è già detto poc’anzi, è stato sempre interessato ad individuare nelle infinite correnti del pensiero e, soprattutto, dell’azione ispirati dall’utopia comunista, tutti gli elementi più utili per l’interpretazione e l’individuazione di quella soggettività di classe di cui è stato un costante osservatore, estimatore e promotore ovunque ciò fosse possibile. Dall’apprezzamento per «il bisogna sognare!» di Lenin al pensiero di Lukács; per certi aspetti dell’agire togliattiano e altri, teorici e ben diversi anche se mai apertamente dichiarati, di Bordiga; per l’azione militante di Lotta Continua oppure della concreta autonomia operaia di fabbrica e dei giovano barbari delle periferie torinesi e milanesi che negli anno Settanta diedero vita alle “ronde proletarie” fino a quella dei nuovi barbari delle banlieue parigine e marsigliesi o, ancora, del milieu genovese di cui fu grande conoscitore e amico rispettato.
E tutto questo soltanto per fare pochi e rapidi esempi.

Per approfondire lo studio del pensiero e la comprensione del contributo dato da Quadrelli al movimento antagonista contro la guerra e il capitale, giovedì 18 dicembre, a Bologna in via Zamboni 38, dalle 15 alle 19, si terrà un pomeriggio di studio dal titolo Emilio Quadrelli e la guerra, con il seguente programma:

ore 15

Apertura

Rosella Simone – “Emilio, il barbaro”

ore 15,30 -17

Atanasio Bugliari Goggia e Jack Orlando – “Il primeggiare del far morire dei nostri mondi all’epoca della crisi”

Marco Codebò – “Quale soggettività contro la guerra?”

Sandro Moiso – “Le eresie di Emilo Quadrelli”

Pausa caffé

ore 17,30 – 19

Dibattito

Apertura – Sandro Mezzadra

Chiusura – Bruno Turci

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Il nuovo disordine mondiale / 31 – Le guerre del Nord e il futuro degli equilibri geopolitici ed economici mondiali https://www.carmillaonline.com/2025/12/10/il-nuovo-disordine-mondiale-31-le-guerre-del-nord-e-il-futuro-degli-equilibri-geopolitici-ed-economici-mondiali/ Wed, 10 Dec 2025 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91754 di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal [...]]]> di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal mare di ghiaccio che corrisponde al nome di Artico ricorda per più di un motivo la saga della corsa all’oro del Grande Nord che l’autore americano narrò oppure utilizzò come sfondo in molti dei suoi romanzi e racconti.

Un Nord gelido, al limite della sopravvivenza umana, che nasconde grandi tesori verso cui uomini (un tempo) e governi avidi di ricchezze e risorse (in quello attuale) indirizzano i propri sforzi e la propria forza muscolare oppure militare al fine di appropriarsene. In questo facilitati e stimolati, oggi, dal generale riscaldamento climatico che ha definitivamente reso possibili tali iniziative o perlomeno i tentativi di realizzarle.

Infatti, secondo le più recenti analisi del Copernicus Climate Change Service, il 2025 è destinato a classificarsi come il secondo anno più caldo mai registrato insieme al 2023, subito dopo il 2024. Analisi che hanno evidenziato come la media triennale 2023-2025 stia per superare la soglia critica di 1,5 gradi. Un risultato che non rappresenta un semplice dato statistico, ma la conferma di un riscaldamento globale sempre più veloce. Cosa che ha contribuito a far rilevare come il mese di novembre abbia visto registrare anomalie di caldo particolarmente marcate in Canada settentrionale e lungo l’Oceano Artico, dove il ghiaccio marino artico ha mostrato una riduzione del 12% rispetto alla media di riferimento, il secondo valore più basso mai osservato per lo stesso mese1.

Così i buoni e i cattivi di oggi, nel nuovo grande romanzo della conquista del Nord polare, non sono più i desperados, i nativi americani, i violenti e i famelici, ma spesso sfortunati, cercatori d’oro che hanno animato le pagine e le vicende vissute in prima persona e poi narrate romanzescamente da London tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. No, i protagonisti di La legge del Nord sono prima di tutto gli Stati Uniti con i loro attuali interessi globali insieme a Canada, Islanda, Groenlandia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Russia e, in una più ampia e dinamica prospettiva, la Cina.

Tutti stati che si affacciano sull’Artico e la cui estensione territoriale potrebbe definire le dimensioni delle fette di torta, proporzionali alle parti di territorio di ognuno degli stessi compreso al di là del circolo polare artico, destinate a spartire le ricchezze di quel continente. E anche se la Cina non confina con l’area interessata, sicuramente è enormemente interessata alle nuove rotte marittime che il riscaldamento globale già permette e sempre più permetterà di aprire nel prossimo futuro.

Rotte che abbrevieranno di parecchie settimane il trasporto delle merci da un capo all’altro del mondo, così come già è successo con l’utilizzo delle rotte tracciate sul settentrione del pianeta per il traffico aereo destinato al trasporto di merci e passeggeri. Una autentica rivoluzione marittima che potrebbe avere gli stessi effetti sull’Europa, in particolare mediterranea, che già ebbe quasi sei secoli fa l’apertura delle rotte atlantiche per i traffici e i commerci intercontinentali.

L’autrice, Mary Thompson-Jones, è tra le massime esperte mondiali di sicurezza nazionale, con esperienza nel campo della marina militare e della geopolitica delle rotte oceaniche. Già Foreign Service Officer ha ricevuto incarichi diplomatici in Canada, Guatemala e Spagna. Professoressa in Sicurezza nazionale presso l’U.S. Naval War College, e il testo appena pubblicato dalla Luiss University Press è il suo primo libro tradotto in italiano.

Il curriculum professionale dell’autrice indica già di per sé che lo sguardo sulla questione è impostato a partire dagli interessi nazionali, economici e militari, degli USA, ma questo non inficia affatto la lettura che la relatrice dà delle forze e delle contraddizioni in atto in quell’area che, da marginale quale poteva essere considerata dalla politica internazionale, si è trasformata in uno dei possibili epicentri dei conflitti, anche militari, a venire.

Infatti, il rapido scioglimento dei ghiacci artici sta riscrivendo la geografia del potere globale. Sotto questo punto di vista il Grande Nord non è più quello remoto e impenetrabile dei romanzi d’avventura, ma la nuova frontiera della geopolitica contemporanea: una scacchiera dove si intrecciano rotte commerciali, ambizioni militari e crisi climatica. Il disgelo impone una diversa geografia del pianeta, apre passaggi tra continenti e porta alla luce giacimenti di gas e terre rare.

Non è certo un caso che il primo atto strategico del Cremlino dopo l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022 sia stato il varo della nuova «dottrina marittima» del luglio di quell’anno, il cui punto essenziale non riguardava affatto il Mar Nero, ma l’Artico. Senza quel testo, gli obiettivi che esso esplicita e i rapporti con la Cina che implica, sarebbe più difficile comprendere le insistenti pretese di Donald Trump sulla Groenlandia.

La posta in gioco commerciale è potenzialmente immensa, considerato che ancora nel 2018 si pensava che la via artica aperta dal cambio climatico potesse essere navigabile, al massimo, tre o quattro mesi all’anno, mentre l’accelerarsi del riscaldamento globale permette a Mosca, che ha la più potente flotta di rompighiaccio al mondo, di puntare a tenere quella via sempre aperta.

Per questo Pechino ora mira a consolidare nella regione la relazione con Mosca, considerato che già dal 2018 un «Libro bianco» del governo definisce la Cina «uno Stato quasi-artico» e un’«importante parte in causa» nell’area. L’obiettivo è ottenere dal Cremlino un diritto esclusivo di transito, condiviso solo con i russi e in cambio di contenute commissioni, per trasportare prodotti cinesi verso l’Europa e l’Atlantico a costi più che competitivi nei confronti di tutti gli altri concorrenti commerciali.

Secondo il linguaggio ufficiale del governo cinese si aprirebbe così una «Via della Seta polare» fondata sul rapporto privilegiato fra Xi Jinping e Vladimir Putin. Uno dei vantaggi per la grande potenza asiatica, peraltro, sarebbe in direzione opposta: avere una rotta nordica completamente navigabile significa, per la Repubblica popolare, poter portare gas liquefatto e greggio russi verso Shanghai, Shenzhen o Hong Kong senza temere l’eventuale strangolamento occidentale all’altezza dello Stretto di Malacca. Del resto, era stato proprio il blocco anglo-americano di quello snodo nell’Asia del Sud-Est a indebolire fatalmente il Giappone nella Seconda guerra mondiale2.

Il confine tra cooperazione e conflitto è più sottile del ghiaccio che si frantuma e Thompson-Jones andando oltre la cronaca, intrecciando mito e realtà in un fragile equilibrio tra sicurezza, diplomazia e giustizia climatica, fa sì che La legge del Nord dimostri come, tra i ghiacci che si ritirano, si stia decidendo il vero futuro del dominio mondiale.

Questa impostazione permette di interpretare meglio le affermazioni del «Wall Street Journal» che vede gli accordi possibili tra Trump e Putin sulla questione ucraina ruotare, oltre che sul controllo dei giacimenti minerari ucraini, anche sullo sfruttamento dei giacimenti situati in area polare3, ma anche di andare al di là delle semplicistiche letture filo-europeistiche o monotonamente antimperialiste antiamericane fatte a proposito delle “minacce” trumpiane alla Groenlandia e per il suo controllo. Mentre, allo stesso tempo, può anche aiutare a comprendere la centralità che i paesi dell’Europa del Nord hanno assunto in ambito Nato e nello svolgimento del conflitto ucraino.

In realtà però, per quanto riguarda gli spazi e le rotte marittime, si tratta di questioni che risalgono alle origini delle società imperiali, per le quali il dominio dei mari ha sempre rappresentato un enorme vantaggio, tanto da far parlare gli storici di autentiche talassocrazie a proposito di quelle come Atene, Roma, Portogallo, Spagna, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e magari domani la Cina, considerato il numero e la qualità delle portaerei già varate oppure messe in cantiere dalla marina militare della Repubblica popolare, che in epoche successive hanno fondato e sviluppato la propria espansione e la propria potenza, sia economica che militare, sul controllo e il dominio, prima, del Mediterraneo e, successivamente, degli oceani.

Una questione che fin dagli inizi del Novecento e, successivamente, per tutto il XX secolo si era spesso identificata nella divisione principale tra due grandi aree geopolitiche del continente euroasiatico: l’Heartland (letteralmente: il Cuore della Terra) e Rimland (la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia e che si divide in tre zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica).

L’ideatore del concetto di Heartland era stato un generale britannico, Sir Halford Mackinder, che lo sottopose alla Royal Geographical Society nel 1904. Il termine derivava dal fatto che tale vastissimo territorio era delimitato ad ovest dal Volga, ad est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya. Per Mackinder, che basava la sua teoria sulla contrapposizione tra mare e terra, l’Heartland costituiva il “cuore” di tutte le civiltà di terra, in quanto logisticamente inavvicinabile da qualunque talassocrazia.

A “coglierne” in pieno il significato politico fu il generale, geografo e politologo tedesco Karl Haushofer che sottolineò, a partire dagli anni ’20 nella rivista “Zeitschrift für Geopolitik”, come le potenze marittime (la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) avessero costruito una sorta di “anello” per soffocare le potenze continentali. A suo avviso le potenze marittime si ergevano come custodi dello status quo non solo attraverso il colonialismo inglese e francese, ma anche tramite l’ideologia wilsoniana che, attraverso il diritto all’autodeterminazione dei popoli, aveva contribuito allo smantellamento dell’impero austro-ungarico e del Reich guglielmino e alla creazione di una serie di stati cuscinetto destinati a contenere il risorgere della potenza tedesca e l’espansione bolscevica in Europa, compromettendo seriamente “il diritto classico dei popoli”. Entrambi i temi, quello dell’inevitabile scontro tra potenze marittime e terrestri e quello del soffocamento dello jus publicum europeo, sarebbero poi stati ripresi da Carl Schmitt, giurista e filosofo tedesco accusato di essere vicino al regime hitleriano, negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale4.

Il concetto di Rimland invece è frutto delle teorie elaborate da Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), che nel 1890, con il suo studio The Influence of Sea Power in History, definì la dottrina marittima degli Stati Uniti andando oltre la Dottrina di Monroe che, nel 1823, aveva già delineato una prima area di interesse statunitense su tutto il continente americano dal Canada alla Terra del Fuoco. Tale teoria sarebbe poi stata ripresa ed impugnata con forza da Nicholas Spykman che, pur essendo di origini olandesi, sarebbe diventato il padre della geopolitica statunitense.

Spykman negli anni trenta rivisitò la geopolitica così come era stata concepita da Mackinder. Contrariamente al geografo britannico, Spykman non credeva che il “cuore”, il perno geografica del mondo, come un focus economico e territoriale, dovesse essere situato nell’Europa Centrale o in Russia, ma sulle coste. Secondo lui, il centro del mondo era formato dalle regioni costiere, che egli definiva “terra di confine” o “terre anello”, il Rimland per l’appunto. Spykman pensava che gli USA, in un modo o nell’altro, dovessero controllare questo Rimland, al fine di imporsi come una superpotenza, e quindi dominare il mondo.

La teoria di Spykman fu adottata dagli strateghi americani sia nel corso del secondo conflitto mondiale che durante la Guerra Fredda e fu alla base della politica di contenimento messa in atto nei confronti dell’Unione Sovietica e nulla impedisce di cogliere come tale teoria sia valida ancora oggi per gli Stati Uniti, dal mar della Cina e dal Pacifico orientale fino al Medio Oriente attuale. Sia in chiave anti-russa e anti-cinese che anti- europea.

Ma è chiaro che la situazione cui si accennava più sopra, venutasi a creare con lo scioglimento dei ghiacci polari artici, richieda una sorta di cambio di strategia transcontinentale e marittima da parte degli USA. Motivo per cui le apparenti “smargiassate” di Donald Trump, sul Canada come 51° stato dell’Unione o dell’occupazione della Groenlandia a discapito della Danimarca, rispondono in realtà alla necessità di una nuova strategia difensiva-offensiva.

Sicuramente uno degli elementi che spingono in tale direzione è costituito dal riscaldamento delle acque settentrionali della Russia, cosa che ha fatto sì che Putin e i suoi strateghi, nonostante le sanzioni imposte ai suoi commerci successivamente all’invasione dei territori ucraini, abbiano potuto ipotizzare e sperimentare:

una rotta che permette di navigare dall’Asia all’Europa risparmiando tempo e denaro, la rotta marina artica russa (o rotta del Nord – Northern Sea Route, Nsr). La Nsr va dallo stretto di Bering al mare di Barents, per una distanza di circa 5470 km. In condizioni ottimali, riduce distanza e durata del viaggio dal 35 al 40% rispetto alla consueta rotta attraverso il canale di Suez. Per esempio, il viaggio di una nave dalla Corea del Sud alla Germania non durerebbe più 34 giorni, ma 23.
La Nsr nonè una novità. Già negli anni Ottanta dell’Ottocento, una nave finanziata da Svezia e Russia riuscì a percorrerla. Nel 1934, i sovietici vi mandarono una nave rompighiaccio, e continuarono a navigarla soprattutto per piccoli spostamenti da un avamposto artico all’altro, finché gradualmente non venne accantonata. «Con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, l’utilizzo della rotta terminò quasi del tutto, e il tonnellaggio dei carichi calò a picco, persino tra una città russa e l’altra. Oggi, con l’aumento delle temperature, ci si aspetta che la costa nord, un tempo una frontiera ghiacciata, possa diventare un’animata rotta per la navigazione5 »6.

Osservazioni dell’autrice del libro cui, però, vanno aggiunte quelle recentissime di Mauro De Bonis, giornalista esperto di Russia e paesi ex-sovietici, sul numero 10, ottobre 2025 di «Limes»:

La via d’acqua polare lavora attualmente a basso regime. Oltre alle turbolenze geopolitiche dovute al non roseo rapporto russo-occidentale, la rotta è ancora poco navigabile e quando lo è resta soggetta a regole e vincoli che scoraggiano le compagnie straniere dall’utilizzarla. La Federazione Russa, in base all’articolo 234 della convenzione Onu sul diritto del mare, ne regolamenta la navigazione visto che il percorso si snoda all’interno delle acque comprese nella propria Zona economica esclusiva. Mosca concepisce dunque la rotta come un sistema di trasporto nazionale unificato e storicamente consolidato. E ne stabilisce le regole di utilizzo, come il dovere di preavviso per navi militari di altri paesi che intendano percorrerla e conseguente autorizzazione. Oppure un sistema di tariffe a oggi meno conveniente di quello applicato a Suez ola norma sancita da Rosatom7 che costringe i cargo di passaggio a utilizzare il supporto di navi rompighiaccio. Inutile dire che Stati Uniti e satelliti europei rifiutano la lettura russa della gestione artica, e che le compagnie di navigazione occidentali ne trascurano per il momento la convenienza.
Così, a solcare il tragitto artico, oltre alle russe, restano le navi cinesi, che nel 2024 hanno raddoppiato la presenza e rappresentato il 95% dei carichi in transito. L’anno passato ha registrtao 37,9 milioni di tonnellate di merci trasportate lungo quelle acque polari, tonnellate che dovranno diventare 109 entro il 2030 secondo quanto stabilito dal Cremlino. Obiettivo ambizioso ma raggiungibile, almeno stando ai dati snocciolati da Maksim Kulinko, della direzione rotte marittime di Rosatom, sicuro che proprio entro fine decennio il trasporto attraverso itinerari artici diventerà consuetudine, con un tempo medio di transito garantito per l’intero arco dell’anno di soli dieci giorni. A salvaguardia di questo tesoro d’acqua, della sovranità sulla Zona economica esclusiva, dei suoi interessi economici, delle ricchezze minerarie e aree contese nella regione, daMosca si procede a un rafforzamento della capacità militare presente lungo la rotta e al necessario aumento della flotta di navi rompighiaccio8.

Alla luce di quanto fin qui scritto, diventa più facile individuare alcuni dei motivi che hanno fatto sì che l’incontro ufficiale tra Trump e Putin sia avvenuto il 15 agosto 2025 nella base militare di Elmendorf-Richardson ad Anchorage, in Alaska, e questo rende anche evidente come tale incontro al suo interno abbia obbligatoriamente affrontato temi che sono andati ben al di là della questione ucraina. Considerata anche l’irrilevanza numerica della flotta di navi rompighiaccio statunitensi a fronte di quella già attuale russa, quasi interamente composta da navi a propulsione nucleare, e il problema rappresentato, già ora e non soltanto in prospettiva, dal traffico navale artico cinese.

Problemi e prospettive, sia di accordo che di conflitto, che sicuramente la potenza, pur declinante, statunitense preferisce trattare con il gigante russo accantonando i nani europei. Come Mara Morini che, sulle colonne del «Domani», ha sottolineato: «i due presidenti (Putin e Trump) sono in sintonia perfetta nell’accerchiare e isolare l’Unione europea senza alcuno scrupolo»9. Sintonia dovuta non solo a una scelta di Trump e del suo entourage, ma derivante dalla storia della strategia americana di condivisione di prospettive geopolitiche, militari ed economiche con la Russia, oggi, e l’Unione Sovietica, ieri, che risale, al di là delle leggende narrate dopo il 19455 e in età, altrettanto leggendaria, di “Guerra fredda”, almeno ai rapporti instauratisi tra Roosevelt e Stalin già durante il secondo conflitto mondiale, sia durante le conferenze di Teheran (1944)10 che di Yalta (1945).

Il testo edito dalla Luiss University Press si rileva, proprio per questi motivi e molti altri, una lettura utilissima; ricca di dati, osservazioni e commenti indispensabili per chiunque voglia avvicinarsi ai problemi di quello che abbiamo da tempo definito, proprio su queste pagine, il nuovo disordine mondiale.


  1. Clima, il 2025 potrà essere il secondo anno più caldo mai registrato, «Il Messaggero», 9 dicembre 2025.  

  2. F. Fubini, La «rotta artica» di Russia e Cina: ecco perché Trump vuole la Groenlandia (e a Xi va bene il climate change), «Corriere della sera», 10 gennaio 2025.  

  3. In proposito si veda, tra i tanti, A. Simoni, Il patto tra Usa e Mosca dettato solo dagli affari, «La Stampa», 3 dicembre 2025, oppure il più recente articolo di Alan Friedman, ancora su «La Stampa» del 7 dicembre 2025: Se Putin diventa il partner di Trump.  

  4. C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Edizioni Adelphi, Milano 2002 e C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi, Milano 1991.  

  5. K. Hille, Russia’s Arctic Obsession, “Financial Times”, 21 ottobre 201.  

  6. M. Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 245-246.  

  7. Rosatom acronimo della Corporazione statale russa per l’energia atomica  

  8. M. De Bonis, Per Mosca l’Artico è russo, in Tutti contro tutti, «Limes», numero 10, ottobre 2025 pp. 66-67.  

  9. M. Morini, La strategia di Putin e Trump. Accerchiare Kiev (e pure l’Ue), «Domani», 4 dicembre 2025.  

  10. Si veda in proposito: J. Dimbleby, 1944. Finale di partita. Come Stalin vinse la guerra, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2025, in particolare il capitolo 5 – I Due Grandi, più uno, pp. 122-138.  

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Cartoline cinesi ep. 2 – Culto e bubbletea https://www.carmillaonline.com/2025/12/10/appunti-cinesi-ep-2-culto-e-bubbletea/ Tue, 09 Dec 2025 23:14:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91743 di Jack Orlando

Gli uomini costruirono cattedrali sempre più grandi non per mostrare gratitudine a Dio, ma per svelare a sé stessi la propria grandezza. L’adagio faceva pressappoco così. Viene da chiedersi se valga la stessa cosa per i monaci che dodici secoli fa iniziarono a scavare la parete di roccia a picco sul punto di confluenza dei tre fiumi di Leshan, ricavando dalla nuda pietra un colosso di settantuno metri d’altezza. Un gigantesco Buddha seduto con lo sguardo serafico, sorvegliato ai lati da “piccole” statue di soli otto metri che decorano la roccia rossa ai suoi lati. Nello sforzo [...]]]> di Jack Orlando

Gli uomini costruirono cattedrali sempre più grandi non per mostrare gratitudine a Dio, ma per svelare a sé stessi la propria grandezza.
L’adagio faceva pressappoco così. Viene da chiedersi se valga la stessa cosa per i monaci che dodici secoli fa iniziarono a scavare la parete di roccia a picco sul punto di confluenza dei tre fiumi di Leshan, ricavando dalla nuda pietra un colosso di settantuno metri d’altezza.
Un gigantesco Buddha seduto con lo sguardo serafico, sorvegliato ai lati da “piccole” statue di soli otto metri che decorano la roccia rossa ai suoi lati. Nello sforzo titanico di lanciare quest’opera verso le ere a venire i monaci si impegnarono anche nel realizzare tutto un sistema di drenaggi e protezioni per evitare che l’erosione da acqua e vento rovinasse il gigante.

Nei nove decenni che richiese l’opera, l’accumulo dei materiali di scarto modificò la navigabilità del tratto di fiume e più d’una generazione di monaci nacque e si spense senza averne visto né l’inizio né la fine; semplicemente spendendo con devozione i propri giorni e le proprie fatiche in un lavoro imperscrutabile e sacro.

Non erano i primi né gli ultimi. Alle spalle del Buddha, tra pagode seminate nella foresta, si snoda un sistema di grotte che entra nelle profondità della montagna da un lato per uscirne dall’altro.
Già dal secondo secolo avanti Cristo le mani dure e dedite degli scavatori iniziarono ad aprire sale e corridoi di dimensioni impressionanti, intagliando pietre mastodontiche per ricavare quelle che chiamano Grotte dei diecimila Buddha; diecimila reincarnazioni riprodotte in una sequela di camere di preghiera.
Ventimila e più occhi che osservano dall’alto in basso chi passa. Che custodiscono nelle loro decine di metri d’altezza la durissima convinzione dei propri creatori, forza che muoveva tecnica nello slancio mistico.

Ora attorno alla testa del Buddha si accalcano i turisti, il petto premuto sulla ringhiera, le mani alzate a scattare foto con lo smartphone; proiettate in assurde pose, per lo più braccia tese che dalla prospettiva del fotografo sembrano toccare la testa del colosso, e dalla posizione di un qualunque altro testimone ricordano l’equivoco segnale di un’adunata neofascista.
Ai piedi del Buddha Farmacista, il primo e più solenne delle grotte, se una manciata di fedeli intona cantilene e agita ritmicamente i tre incensi rituali, l’aria mistica del luogo è irrimediabilmente frantumata dalle luci macchinetta col braccio meccanico per pescare peluche di Labubu, dai suoi jingle ossessivi.

Il turismo per i cinesi non è stato tra le priorità, né un lusso a buon mercato per tutti gli anni in cui lo sforzo collettivo era rivolto all’ammodernamento del paese.
È solo negli ultimi vent’anni che l’emersione di un’enorme classe media ne ha fatto una pratica sociale diffusa.
Quanto a monaci, templi e fedi antiche, il maoismo non si è mai dimostrato troppo tenero. La libertà di culto è garantita dalla costituzione socialista del 1949 ma lo sradicamento di ogni forma di potere relativa all’ancien regime è stato il passaggio obbligato per puntellare le istituzioni nascenti, e al clero venne strappato qualunque gancio lo legasse alla vita politica; con buona pace del Buddha e senza lacrime per le rose.

Tuttora il partito mantiene un variabile grado di controllo su tutte le fedi, sui loro professionisti più che altro, onde evitare che gli venga in mente di sviluppare centri di potere alternativi, con finanziamenti stranieri magari.
Terribile violazione dei diritti umani dirà il liberale europeo, ma che ai prelati venga tolto il privilegio del potere non sembra poi una cosa tanto drammatica.
Questo però non esclude l’uso strumentale della religione dentro processi di integrazione selettiva delle minoranze, come quella uigura nello Xinjiang, dove repressione dell’insorgenza jihadista e sinizzazione dell’islam invece impattano duramente sulle comunità.

I culti tornano in voga ora che la Cina può definirsi una società del benessere, sull’onda di una narrazione di stato che accorda i principi del Buddha e Confucio a quelli del socialismo di mercato; o viceversa.
Si riempiono i templi e i fedeli pregano e posano le loro offerte sui banchi sacri mentre i monaci in tunica rossa-arancio salmodiano chini.
Eppure non c’è silenzio nelle sale della religione, è un viavai di gente, un vociare continuo, un brusio di mascelle che masticano snack, di polmoni che aspirano sigarette e smartphone che scattano foto.
Le persone attraversano i monasteri con un’attitudine che di poco si distanzia da quella con cui andrebbero al mercato, è solo la regola imposta dai monaci nei vari monasteri a mettere un po’ d’ordine nel caos della folla.

La rinascita religiosa si sposa probabilmente anche qui all’ascesa della classe media, come elemento stabilizzante per una soggettività altamente istruita, consumatrice vorace e aspirante a nuove carriere.
L’adesione ai dogmi statali, ma ancora di più alla rigida disciplina etica delle generazioni precedenti, non è scontata per la gioventù cinese. L’aumento dei salari gli ha consegnato una condizione di benessere inimmaginabile fino a pochissimi anni prima e, contemporaneamente, l’esplosione del mercato privato dei servizi ne ha precarizzato la condizione di accesso generando una nuova figura proletaria: meno pane e fabbrica, più bubbletea e partita IVA. Che ovviamente non si chiama partita IVA ma il succo è quello.

Questi giovani non hanno conosciuto la fame e le asperità riservate ai loro connazionali del XX secolo; viceversa la loro condizione di relativo privilegio, con un generalizzato accesso a formazioni di alto profilo – pagate, va detto, con un impegno serratissimo nello studio – cozza con un mercato del lavoro che si fa via via più competitivo nella difficoltà di assorbire una sovrapproduzione di soggetti iperspecializzati, genera forme di ansia e sfruttamento incomprensibili ai più anziani.
Piccoli rivoli di pessimismo si fanno strada a margine del quadro prospero del secolo cinese.

Il culto e la riscoperta della tradizione sembrano quindi diventare in questa congiuntura l’elemento ideologico attraverso cui provare a tenere unito il corpo sociale sotto la pressione centrifuga dell’inarrestabile avanzamento tecnologico in un momento in cui la Cina si trova ad essere il più avanzato attore sullo scenario mondiale.
Il primo della fila perde il beneficio di guardare come si comportano quelli avanti a lui e l’avanzamento, più che analisi sugli stadi di sviluppo altrui, richiede ipotesi speculative.

Ora, se escludiamo i programmi scolastici o quelli di propaganda, culto e tradizione permeano nelle soggettività a questo punto tramite la pratica sociale per eccellenza: il consumo. La Nazione si cementa consumando.
Il passaggio al tempio, la montagna sacra, il mausoleo agli eroi della rivoluzione, sono accessibili nella misura in cui sono attrattivi per investire il tempo libero. Vengono attraversati nella stessa (o quantomeno simile) modalità caotica in cui si attraversano le vie commerciali.

Il piccolo tempio sulla cima del Fangjing Shan è visitabile dopo ore di attesa e solo inserendosi in una processione turistica permanente; ai piedi del suo picco il tempio maggiore sembra qualcosa a metà tra un bivacco e una sagra di paese, un rumore assordante demolisce l’aura sacrale del luogo.
Il parco di Zhangjiajie impone ore di coda all’ingresso prima di godere dei suoi pilastri di roccia, e l’incessante brusio degli smartphone che scattano foto nel mentre.

Ma è negli infiniti labirinti dei mall che si può avere l’idea di cos’è davvero una esperienza di massa. Quel particolare tipo di esperienza che sfuma i contorni individuali fondendo i corpi di ciascuno dentro un’indistinta moltitudine attratta dai medesimi stimoli.
La Huang Xing pedestrian road di Changsha è un teatro perfetto. Uno dei tanti.
Spezza a metà i resti dei quartieri della città vecchia con i loro delicati vicoli tortuosi dividendoli come un fiume e imponendo la geometria spietata del commercio.

Il vialone dritto, incassato tra due ali di palazzi senza finestre si apre ogni tanto in una larga ellisse di piazza, ovunque si giri lo sguardo c’è un negozio, una bottega, un venditore di cibo. L’orizzonte è censurato dalla fitta costellazione di insegne luminose.
Durante la giornata è un luogo mediamente attraversato e l’orografia urbana cinese camuffa certi luoghi nel viavai continuo dentro e fuori dai grattacieli.
Vi si può camminare con due certezze: la prima è che qui si può comprare praticamente qualsiasi cosa, la seconda è che se non si conoscono i meandri del luogo e si cerca qualcosa in particolare non la si troverà mai.
Poi alle certezze si aggiunge il dubbio che in realtà nessuno conosca davvero questo luogo, che non esista la possibilità di entrarci con uno scopo preciso, ma sia pensato per perdercisi dentro.

È alle ore serali che diventa davvero quello che: il Tempio del consumo; e i fedeli accorrono in massa alla funzione. Quando inizia a calare la luce naturale non si accendono le insegne dei negozi, ma mura intere.
I led riversano l’intero caleidoscopio cromatico sul marciapiede e fuori dai negozi appaiono giovani commessi che agitano cartelli, porgono assaggini, gonfiano palloncini, urlano nei microfoni.
Iniziano le prime file agli ingressi, la gente si accalca per prendere enormi pacchi di tofu, anatre sottovuoto; magazzini di ciarpame sono presi d’assalto da teenager che arraffano bigiotteria.

La strada si riempie, attorno alle 18:30 è ora di cena – come è spesso nel mondo fuori dalle coste mediterranee – e le persone affollano i ristoranti, le panchine, i baracchini d’asporto. La strada enorme si fa stretta, i corpi pigiano e scivolano, il passo è bloccato da tredicenni impegnati in un balletto davanti al treppiede con il telefono che le manda in live su tiktok.
La musica dei negozi è altissima, i commessi urlano, le persone urlano, gli onnipresenti megafoni gracchianti urlano. Non è solo la strada a farsi stretta, è un intero cosmo che si va piegando dentro le corsie commerciali. Non è un posto per chi soffre d’ansia.
Si entra in un negozio dal marciapiede e si esce in un corridoio dall’altro lato e sono ancora corpi, ancora merce, si salgono scale e invece di uscire si è un piano rialzato del mall, uno dei tanti piani del mall. E sono ancora corpi, negozi, botteghe, tavole calde; tutto fitto, tutto strabordante, caotico, labirintico. Si imbocca un’uscita laterale per ritrovarsi ancora sulla via principale da cui si è entrati, se non in un altro mall.
I concetti di spazio e di tempo si distorcono in uno stato di coscienza alterato, che sfocia in una specie di trance euforica o in un attacco di panico. Quasi involontariamente ci si trova le tasche piene di ciarpame.

Riemergendo sulle scale del mall si ha una visuale più ampia del viale e la folla è ovunque, sciama dalle laterali, attraversa la pedestrian da un locale all’altro e si muove in una vertigine illeggibile, i volti illuminati da schermi e insegne, le mani serrate sui manici delle buste.
C’è all’angolo esterno una finta pagoda, enorme, interamente dorata dai led; è circondata dal fracasso dei megafoni. All’ingresso i commessi agitano cartelli e incitano il fiume umano che entra ad acquistare; subito sopra di loro un balcone, c’è una ballerina di danza classica che volteggia sullo sfondo di tende rosse; al balcone superiore una donna elegante suona un violino ed è incomprensibile come si faccia a sentire il suo suono giù, tra gli spettatori estasiati che applaudono e riprendono in video.
Letteralmente lo Spettacolo della merce.

C’è da dire che non è tutto consumo, anzi, lo spazio pubblico è per i cinesi la base comune più utilizzata per la vita sociale.
Molto più che nei bar o nei mall, è tra i parchi, le strade, i crocicchi e le piazze che si svolge lo spettacolo dell’interazione umana.
L’investimento nei “parchi del popolo” ha dato vita a grandi aree verdi nel tessuto urbano dove si riversano persone di ogni età per giocare a scacchi, suonare, fare ginnastica.
L’attività travalica questi spazi e grupponi di signore pensionate occupano i marciapiedi per allenarsi sulla base di musica discutibile sparata a tutto volume.
In sostanza lo spazio pubblico non è luogo di attraversamento della metropoli ma un vero e proprio generatore d’aggregazione. È probabilmente l’epifenomeno di una cultura che prima dell’imprinting socialista, poggia le basi su una società di inurbamento recente che mantiene quasi intatte certe forme di socialità comunitaria delle campagne che, unendosi alla dimensione generalmente modesta delle abitazioni, si riversa nelle strade per darsi in tutta la sua vitalità.
È singolare che l’espressione che utilizzano i cinesi per vedersi, stare insieme e passare il tempo, venga tradotta come il nostro “giocare”. Termine che abbiamo relegato all’infanzia e alla ludopatia.
“Vieni a giocare”. Suona strano se lo dice un cinquantenne.
Strano e rivelatore di un approccio altro al mondo assai lontano dagli stereotipi di disciplina produttivista che scioccamente gli abbiamo cucito addosso.

Con tutta probabilità la Cina collettivista che sognava Mao era tutt’altro che questo, eppure non si può negare che la lotta alla povertà abbia raccolto i suoi frutti.
Piuttosto sembra averci visto lungo il presidente Deng Xiaoping, nel mezzo di una polemica tra una destra estera che denunciava la poca attenzione ai diritti civili e una sinistra interna che recriminava le aperture al libero mercato, con una frase, difficile da verificare come la maggioranza delle citazioni, per cui “la libertà, è un paio di scarpe nuove”.
Il metodo è la contraddizione.

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Pillola Matteotti per tutte le età. Tanta salute e via i bacilli neri https://www.carmillaonline.com/2025/12/09/pillola-matteotti-per-tutte-le-eta-tanta-salute-e-via-i-bacilli-neri/ Mon, 08 Dec 2025 23:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91774 di Luca Baiada

Valerio Renzi, illustrazioni di Toni Bruno, Essere Tempesta. Vita e morte di Giacomo Matteotti, Momo edizioni, Roma 2024, pp. 112, euro 15.

Viene voglia di leggerlo sotto le lenzuola, alla luce di una pila elettrica. E così, guardare le illustrazioni di Toni Bruno, cominciando dalla copertina che sa di battesimo celeste: la scintilla di un martire. Ma qui retorica non ce n’è. Tutti i dati sono frutto di approfondimento e dietro il linguaggio asciutto c’è lo studio. Poi si affacciano tante cose: canzoni, scritte sui muri, volantini. Anche santini, di quelli che sotto il fascismo potevano costare bastonature [...]]]> di Luca Baiada

Valerio Renzi, illustrazioni di Toni Bruno, Essere Tempesta. Vita e morte di Giacomo Matteotti, Momo edizioni, Roma 2024, pp. 112, euro 15.

Viene voglia di leggerlo sotto le lenzuola, alla luce di una pila elettrica. E così, guardare le illustrazioni di Toni Bruno, cominciando dalla copertina che sa di battesimo celeste: la scintilla di un martire. Ma qui retorica non ce n’è. Tutti i dati sono frutto di approfondimento e dietro il linguaggio asciutto c’è lo studio. Poi si affacciano tante cose: canzoni, scritte sui muri, volantini. Anche santini, di quelli che sotto il fascismo potevano costare bastonature o galera (viene in mente il cartoncino, vero, in Porte aperte di Leonardo Sciascia).

Una bella carrellata su vita, formazione e percorso del grande socialista. Matteotti «usa la legge e la capacità di argomentare, che ha imparato studiando giurisprudenza, per difendere i contadini, i braccianti, gli ultimi, contro i privilegi e le angherie». Niente paura, ci sono risparmiate le diatribe teoriche se fosse rivoluzionario o riformista. Lui è un fuoriclasse:

Non è molto d’accordo con quello che i leader del socialismo riformista sostengono e non ne fa certo un mistero! Anzi scrive articoli su diversi giornali e riviste, polemizza, sostiene le sue posizioni anche contro l’opinione dei grandi leader nazionali, interviene nei comizi. È uno che pensa con la propria testa, Matteotti.

Teste pensanti, cosa rara. A riprova, un’interpretazione eccezionalmente lucida su di lui risale a Piero Gobetti, cioè al 1924:

Era rigidissimo, sobrio, rettilineo, senza vizi – come dicono – : e così si rispettava la sua severità verso gli altri, il suo fanatismo protestante contro chiunque avesse avuto una debolezza colpevole. Questa sicurezza non era sostenuta da una credenza religiosa, ma solo da una fede di stampo austero e pessimistico[1].

Essere tempesta impara il succo della lezione e sintetizza nel formato migliore:

Si dice spesso che la sinistra litiga e si divide su tutto. E forse questo è uno di quei famosi luoghi comuni che possiedono un fondo di verità. Ma Matteotti, anche in questo, appare diverso tanto dai suoi compagni riformisti quanto dai massimalisti: ogni volta che può, infatti, lavora (e spesso con successo) all’unità del proprio partito. […] Soprattutto bada al sodo, questo Matteotti[2].

Così tutti i lettori sono messi di fronte al Tempesta, come lo chiamavano i compagni: un intellettuale applicato che non è in vendita, un socialista energico che fa, senza innalzare castelli dottrinari. Un uomo che salda già nelle sue radici Risorgimento e lotta di classe. Il Polesine è terra di Carboneria, con la Congiura della Fratta, e a fine Ottocento di moti contadini, quelli di «la boje, la boje e de voto la va de fora»[3]. Terra di fame e pellagra, ma poi di conquiste sociali: riduzione dell’orario di lavoro, imponibile di mano d’opera, camere di consumo.

La Grande guerra è lo spartiacque tra cose serie e contraffazioni. Da un lato i fatti, dall’altro le vuote retoriche di Mussolini e di tutti gli agitatori e declamatori che poi tradiscono il popolo. Matteotti vede lontano:

Accusa gli uomini come Mussolini di essere «capaci di porre come dogma assoluto per ogni luogo e tempo quello che dieci minuti dopo rinnegheranno». Non si stupisce che «il predicatore delle maggiori intransigenze» voglia ora collaborare con gli industriali e il governo per portare l’Italia in guerra, perché questo socialista di provincia, abituato a lavorare sodo senza urlare troppo, non crede a chi la rivoluzione la vuole fare solo a parole[4].

Ottimo, che i giovanissimi leggano: sanno distinguere i bulli al volo. Ogni vittima di bullismo è un antifascista in erba che può diventare quercia.

Ma ad ogni età, in Essere Tempesta si incontra la storia di un libro formidabile: Un anno di dominazione fascista. Matteotti lo scrisse poco prima di morire; volle metterci all’inizio la denuncia dell’amministrazione fraudolenta e dopo, a seguire, l’elenco delle violenze fasciste. Valerio Renzi ne dà conto rispettando l’ordine originale, benone. Così è chiaro che i fascisti sono sciatti ladri con le mani insanguinate, non severi costruttori di nazioni a prezzo di crudeltà. Matteotti se ne rende conto subito, mette a nudo la situazione e smonta ginnastiche parolaie e falsificazioni contabili:

I fatti, alla fine, hanno la testa dura. Me lo immagino, Matteotti, convinto di questo mentre è preso nella stesura febbrile dell’opera, fatta mettendo insieme migliaia di documenti. Sappiamo dai suoi familiari e collaboratori che ci teneva tantissimo, tanto da portarlo a termine di notte, togliendo tempo al sonno.

Onirica, qui, l’illustrazione di Bruno, col socialista che corre sui tasti della macchina da scrivere. Ebbe davvero questo incubo? Chissà.

È valorizzata la seduta celebre: 30 maggio 1924, alla Camera; a giugno morirà di pugnale. In quel discorso di Matteotti verità e vita rifluiscono l’una nell’altra, segnando il destino che un uomo scrive con le scelte. Chi legge è accompagnato nel contesto per una scossa salutare:

Immaginate di essere in quell’aula, dove ormai la maggioranza dei deputati è fascista o è stata eletta grazie al fascismo […], e di dover prendere la parola non solo per denunciare le violenze ma per chiedere che le elezioni vengano annullate formalmente. Immaginate di parlare e di dire tutto questo in faccia ai capi di quelle squadracce che vi hanno fatto sequestrare e picchiare, che vi hanno messo al bando dalle vostre terre, che vi minacciano quotidianamente.

In quella seduta il fascismo è denunciato come regime, ma nell’insieme, non solo per i singoli episodi violenti: «C’è il riconoscimento della fine della legalità democratica: le elezioni vanno invalidate perché chi detiene il potere non avrebbe comunque accettato di perderle». Sullo sfondo della situazione di allora c’è qualcosa – con altre misure e altri mezzi, certo – da accostare alla fanfara suonata oggi in Italia dalla destra, e dieci anni fa dal governo Renzi. Le sue note irritanti sono fatte di investitura popolare autodichiarata, dagli accenti mistici e olimpici, oppure di toni perentori, di proclami a effetto, di vanterie su successi epocali; tutto questo mentre si proteggono gli interessi di pochi ambiziosi e dei loro referenti di classe.

Lasciamo a chi legge la ricostruzione incalzante del delitto, del clima febbrile delle ricerche della salma, del funerale; insomma di quei mesi sconvolgenti del 1924 quando il fascismo vacillò e poi si riprese. Vediamo solo come è presentata la Ceka del Viminale, una banda di sicari:

A Mussolini serviva uno strumento con cui essere sicuro di colpire i nemici. Un’organizzazione segreta ai suoi ordini diretti, composta da uomini con una certa esperienza e senza scrupoli, e che agisse in modo diverso dallo «spontaneismo» dello squadrismo.

Un buon modo, che parte da lontano, per ragionare anche sulle cellule fasciste che dagli anni Sessanta in poi, con ramificazioni e implicazioni sino ai «mondi di mezzo» della malavita, sono servite per compiere delitti atroci. Il sacrificio di un eroe fa chiare le cose. E a certi eroi, come al vino buono, il tempo dà più sapore.

Sul movente dell’assassinio si dà conto con cautela della pista del petrolio (l’affare Sinclair), una vicenda intricata da non sopravvalutare. Quella pista è un elemento collaterale; Stefano Caretti la esclude decisamente[5], Valdo Spini la considera un movente «per far buon peso» insieme a motivi ben più profondi per uccidere il socialista[6]. Ecco una considerazione interessante:

Matteotti l’aveva subito intuito e già l’aveva messo nero su bianco in Un anno di dominazione fascista: fin dalla sua nascita il fascismo, mentre annuncia di tagliare le spese inutili e gli sprechi e di lottare contro la corruzione, si caratterizza come una cleptocrazia, in cui a ogni livello gli uomini del fascismo utilizzano la loro posizione per riempirsi le tasche, e per favorire gli imprenditori privati o gli elementi più disposti a versare mazzette e a elargire favori[7].

Chi ha la vita davanti deve capirlo presto: la democrazia ha bisogno di critiche. Quelle sguaiate, però, non vogliono spazzare via la corruzione e lo spreco burocratico, ma la mediazione politica e i contrappesi fra poteri, compresa la garanzia costituita dall’indipendenza del potere giudiziario. Il bullo vuole creare disordine per comandare. Qui, per Bruno, l’ombra del fascio è il tentacolo di una piovra.

Ancora sulla pista del petrolio. Serve a depoliticizzare il delitto Matteotti facendolo slittare nella cronaca e nella criminalità comune. Oggi accade qualcosa di simile sui delitti Falcone e Borsellino: la destra vuole scartare la pista di alto livello, che coinvolge la politica e le convergenze della criminalità organizzata con apparati dello Stato, e invece privilegiare la pista «mafia-appalti». Se la memoria funzionasse, tenendo presente il caso Matteotti sarebbe più facile respingere le ricostruzioni strumentali di ciò che è accaduto nel 1992.

Al tempo del processo sul delitto Matteotti, quello pilotato e messo in scena lontano, a Chieti («la farsa di Chieti», dissero gli antifascisti), Mussolini manda un messaggio a Roberto Farinacci, segretario del Partito fascista e difensore dei sicari. Avete letto bene: un processo in cui il segretario del partito al governo – un partito con una milizia sua, legalizzata a spese dello Stato – difende i suoi camerati, imputati dell’assassinio del più temuto politico dell’opposizione. E poi dicono che la giustizia è sbilanciata adesso, perché giudici e pubblici ministeri sono colleghi. Là, alla farsa di Chieti, ci voleva la «separazione delle carriere», e più precisamente di quelle nell’apparato fascista da quelle nei diversi ruoli del processo penale.

A proposito. Al referendum costituzionale, la prossima primavera, ricordiamoci della farsa di Chieti, impariamo a distinguere i processi di regime, alla Farinacci, da quelli che non prendono ordini dal governo. Votare NO salva la Costituzione da una pugnalata: lo smembramento del Consiglio superiore della magistratura, i sorteggi al posto delle elezioni, la bulimia del governo, il pubblico ministero che diventa «avvocato della polizia». La strada verso i «pieni poteri». Votare NO è un ottimo regalo alla memoria di Matteotti e di tutti i martiri antifascisti.

Torniamo al messaggio durante il processo farsesco. Mussolini dice a Farinacci che l’Italia non deve «matteottizzarsi», ma cosa intende? Essere Tempesta risponde:

Leggendo questo biglietto di Mussolini mi sono convinto che, in particolare, fosse un certo modo di essere tenace, forse pedante (e quasi pignolo), tipico di Matteotti, che mandasse su tutte le furie il capo del governo. L’implacabilità con cui Matteotti diceva le cose come stavano: date, numeri, cifre, nomi, utilizzando ogni palcoscenico che avesse a disposizione, senza mai perdere un’occasione. L’Italia non deve «matteottizzarsi»: nessuno deve più interrogarsi sulla verità e nessuno deve più dire le cose come stanno[8].

Nessuno deve ragionare e dire come stanno le cose. Altrimenti?

Altrimenti, a seconda dei casi, c’è un trattamento Pier Paolo Pasolini, Peppino Impastato o Mauro Rostagno; se va meglio c’è violenza sulle cose per minacciare le persone, cioè un trattamento Sigfrido Ranucci. Oppure ci sono schedature, ricatti sul lavoro, querele bavaglio.

Ma attenzione. Matteotti ha una sua specificità. Il lottatore aveva qualcosa di davvero temibile: era un giurista, ferrato nell’amministrazione pubblica, esperto di contabilità, organizzatore tenace, oratore instancabile, prosatore tagliente, poliglotta, stimato anche all’estero, attento alle nuove tendenze nel diritto e nell’economia. Ci teneva a controllare anche i compagni di partito: la corruzione apre al giustizialismo becero e agli sbandamenti a destra.

Tutto da ricordare, da apprezzare. Magari godendosi un libro alla luce di una piccola lampadina. Essere Tempesta è chiaro: Mussolini voleva cancellarne la memoria, ma Matteotti non se n’è mai andato. E Bruno riassume col seme della lotta, messo in terra per dare frutti.

 

 

[1] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924, p. 25.

[2] Valerio Renzi, illustrazioni di Toni Bruno, Essere Tempesta. Vita e morte di Giacomo Matteotti, Momo edizioni, Roma 2024, p. 15.

[3] Diego Crivellari, Francesco Jori, Giacomo Matteotti, figlio del Polesine. Un grande italiano del Novecento, prefazione di Francesco Verducci, postfazione di Marco Almagisti, Apogeo Editore, Adria 2023, p. 15. Recensito qui: Carmilla on line | La pentola bolle, poi Amazon, prima i carbonari e in mezzo Matteotti.

[4] Renzi, Essere Tempesta, cit., p. 19.

[5] Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino, Milano 2024, pp. 31-32 e pp. 199-207. Recensito qui: Carmilla on line | Barricate Matteotti: sono di mattoni e resistono al petrolio.

[6] Convegno Giacomo Matteotti, martire e maestro, Cerreto Guidi, 14 settembre 2024, e Monsummano Terme, 22 ottobre 2024.

[7] Renzi, Essere Tempesta, cit., p. 95.

[8] Ivi, p. 105.

 

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La Sinistra Negata 07 https://www.carmillaonline.com/2025/12/07/la-sinistra-negata-07/ Sun, 07 Dec 2025 22:55:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91810 La Sinistra Negata e gli Anni ’90 A cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina. (Questa prima parte del redazionale dedicata agli Anni ‘90 è divisa in due puntate)

Parte prima: quale sinistra rivoluzionaria?

1. UN’ESPRESSIONE SCOMODA. È difficile negare che l’uso dell’espressione “sinistra rivoluzionaria” susciti oggi un certo imbarazzo. Di solito, chi oggettivamente si colloca nella “sinistra rivoluzionaria” preferisce usare termini come “movimento”, “movimento antagonista”, “movimento comunista”, e cosi via. Noi stessi lo preferiamo. Questa rivista [...]]]> La Sinistra Negata e gli Anni ’90
A cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.
(Questa prima parte del redazionale dedicata agli Anni ‘90 è divisa in due puntate)

Parte prima: quale sinistra rivoluzionaria?

1. UN’ESPRESSIONE SCOMODA.
È difficile negare che l’uso dell’espressione “sinistra rivoluzionaria” susciti oggi un certo imbarazzo. Di solito, chi oggettivamente si colloca nella “sinistra rivoluzionaria” preferisce usare termini come “movimento”, “movimento antagonista”, “movimento comunista”, e cosi via.
Noi stessi lo preferiamo. Questa rivista si è però proposta, fin dal primo numero, di scrollarsi di dosso tabù e reticenze, verificando nell’intreccio fra passato e presente (che è il nostro modo di intendere la “storia”) la validità di concetti cui non intendiamo rinunciare solo perché il potere lo vorrebbe.
Uno di questi concetti è appunto quello di “sinistra rivoluzionaria”. Tentiamo, allora, di esaminarlo con franchezza, evitando soprattutto di rapportarlo a un grumo ideologico o a una sequela di dogmi.

Nei punti precedenti de La sinistra negata abbiamo già precisato, in riferimento al passato, quale sia l’unica “sinistra rivoluzionaria” che riteniamo abbia saputo autenticamente radicarsi nella società italiana, incidendo profondamente nel suo tessuto e conferendo al marxismo un volto inedito e “moderno”: quella che nasce dalla nuova composizione di classe degli anni Sessanta, trova un’espressione teorica d’alto livello nei Quaderni Rossi, cresce nelle lotte operaie e studentesche del 1968-71, si consolida nei gruppi extraparlamentari della prima metà degli anni ’70, intuisce e precorre l’emergenza di un nuovo proletariato precario, e giunge al proprio momento massimo di scontro e di rottura col movimento del ’77.
Altre “sinistre rivoluzionarie” sono esistite intorno a questo filone, oscillando però tra il grottesco (con la pletora dei vari partitini “marxisti-leninisti”, uno più caricaturale dell’altro), la tragedia (con l’epopea dapprima truce, poi solo vergognosa delle BR) e la più totale confusione (con la “lunga marcia dentro le istituzioni” di DP, finita in un punto più arretrato di quello da cui aveva preso le mosse).

No. Solo la “sinistra rivoluzionaria” cui alludiamo seppe mobilitare centinaia di migliaia di giovani, creare fratture tra società e potere, attaccare le istituzioni totali (esercito, carcere, scuola, manicomio), indurre generali modifiche dei rapporti di forza a favore del proletariato, conquistare legittimità culturale e legittimità sociale.
Sopprimerla divenne, per il potere e per la sinistra istituzionale, un dovere quasi rabbioso, da attuare nelle forme spietate da noi descritte nella parte della Sinistra Negata Ancora sugli anni Ottanta. Che cosa si intende dunque per “sinistra rivoluzionaria”?

 

2. L’IPOTESI “CILENA”
Il significato corrente dell’espressione “sinistra rivoluzionaria” è quello letterale. Una sinistra, di ispirazione maoista, che aspira a rovesciare il capitalismo e ad instaurare una società comunista attraverso una rivoluzione sociale. Detto questo, non si è però ancora detto nulla. Quale “rivoluzione”? Quale “comunismo”? Una volta di più, è nella storia dell’ultimo ventennio che dobbiamo cercare una soluzione.
Alla prima delle due domande, la sinistra rivoluzionaria italiana diede, nel periodo della sua massima espansione, almeno tre diverse risposte. Le potremmo sintetizzare in tre definizioni chiaramente inadeguate, ma utili:

1) l’ipotesi “cilena”; 2) l’ipotesi del “Palazzo d’Inverno”: 3) l’ipotesi delle “aree liberate”. Vediamole una ad una.

L’ipotesi che abbiamo definito “cilena” caratterizzò anzitutto il più consistente gruppo della sinistra rivoluzionaria, Lotta Continua, dopo il 1973 (in precedenza, LC faceva propria l’ipotesi del “Palazzo d’Inverno”) e venne di fatto abbandonata solo un paio d’anni dopo, quando il gruppo, ormai prossimo allo scioglimento, iniziò a delirare su possibili colpi di Stato militari “di sinistra” ricalcati sul modello portoghese – sintomo sicuro di un’agonia in fase avanzata.

Perché “cilena”? Perché traeva ispirazione dall’esperienza del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) cileno durante il governo de Unidad Popular. Quando, nel 1970, la coalizione di sinistra guidata da Salvador Allende salì al governo vincendo le elezioni, il MIR, gruppo clandestino a larga composizione studentesca, assunse una posizione dialettica. Pur desistendo provvisoriamente dalla lotta armata, non volle integrarsi nella coalizione di Unidad Popular, ma preferì sollecitarla dall’esterno a radicalizzare il proprio programma e ad adottare una linea di scontro con la borghesia. Così, ad esempio, mentre il governo Allende tentennava nel varare una riforma agraria di vasta portata, il Movimiento Campesino Revolucionario, espressione del MIR nelle campagne, guidava i braccianti ad occupare i latifondi; mentre il governo tentava di ingraziarsi l’esercito, il MIR premeva per la costituzione di milizie popolari e così via.

La prima considerazione che viene spontanea, riflettendo su questo schema, concerne la sua stessa genesi. Traendo ispirazione dal Cile, LC si ispirava in realtà ad un modello che era fallito, e fallito tragicamente. Il MIR – rimasto, si badi, gruppo minoritario anche negli anni di massimo fulgore – era stato travolto dagli eventi tanto quanto quella sinistra istituzionale che aveva troppo esitato a spezzare gli artigli della borghesia.
Ma una seconda considerazione sottrae credibilità al progetto di LC, che pure, sulla carta, a suo tempo poteva sembrare discretamente razionale. L’esperienza italiana (e non solo italiana: vedi Francia, Spagna, ecc.) ha ampiamente dimostrato che, nella propria marcia di avvicinamento per via elettorale alle leve del potere, la sinistra istituzionale non rimane uguale a se stessa, ma tende ad “istituzionalizzarsi” ulteriormente. Tende cioè ad assumere forme sempre più compatibili col sistema, rinunciando ai propri fini originari, rivolgendosi ad un soggetto sociale indifferenziato, smussando la portata delle proprie proposte.

Ciò, appunto, per il fatto che la via elettorale implica la conquista di maggioranze superficialmente politicizzate e poco inclini al cambiamento radicale, nel quadro di meccanismi che divaricano sempre più politica e società.
L’esito del processo è una sinistra istituzionale che, lungi dall’aprire spazi alle ali estreme, assume, dalle sue nuove posizioni di potere, un ruolo attivamente repressivo nei confronti del rivoluzionari. Lo si è visto, con tutta evidenza, nell’azione del PCI durante la rivolta di Bologna del marzo ’77 e negli anni della cosiddetta “emergenza”.
L’ipotesi “cilena”, insomma non regge, poggiata com’è su forze che possono giungere al governo di una società borghese solo modificando se stesse in quello stesso senso.

 

3. IL PALAZZO D’INVERNO.
L’ipotesi che chiameremo “del Palazzo d’Inverno” è quella più tradizionale, e più direttamente legata alla storia del movimento operaio. Prevede che, raggiunto un certo livello di tensioni sociali, il malcontento precipiti in un’aperta insurrezione popolare, che l’organizzazione rivoluzionaria di classe può ispirare, organizzare, guidare e condurre, a determinati fini.
L’ipotesi, che così formulata in termini generali è stata comune a buona parte della sinistra rivoluzionaria dalla fine degli anni Sessanta fino a tutti gli anni Settanta, conta numerose varianti. Si va dall’insurrezionalismo” vero e proprio, in cui largo peso hanno la spontaneità delle masse e il suo rapporto dialettico con l’organizzazione, alla “lotta di lunga durata, che prevede un graduale alzo di tiro e un passaggio da forme di lotta legali o modestamente illegali alla conflittualità armata, per arrivare alla “guerriglia partigiana”, in cui avanguardie sorrette da un consenso generalizzato danno vita ad embrioni di esercito, destinati, in un futuro più o meno prossimo, a trasformarsi in un’armata rossa e a scendere in guerra contro i poteri dello Stato.

Nel passato decennio circolarono manualetti che illustravano le modalità pratiche per attuare l’una o l’altra delle soluzioni. L’editore Savelli pubblicò ad esempio due volumi della Ligue Communiste Révolutionnaire francese – La rivoluzione in Francia e Maggio 68: una prova generale – in cui l’ipotesi “insurrezionalista” era illustrata nei minimi dettagli: dal canto loro le Brigate Rosse, più di altri gruppi armati, non furono avare di parole (né di fatti) per chiarire l’ipotesi di “guerriglia partigiana” da loro sostenuta, teorizzata anche nel volumetto di George Jackson Col sangue agli occhi.
Più spesso, tuttavia, la soluzione del “Palazzo d’Inverno” era fatta propria dai militanti della sinistra rivoluzionaria, estranei alle forme clandestine, solo tacitamente, né si avvertiva la necessità di menzionarla se non in termini estremamente vaghi, quale compito futuro più o meno inevitabile su cui era superfluo interrogarsi prematuramente. Non così i gruppi armati, convinti che la rivoluzione fosse già avviata e si concretizzasse nelle loro azioni – senza soffermarsi troppo sulla distanza che separa una serie di uccisioni individuali (più o meno “illustri”) dall’abbattimento di uno Stato e dalla presa del potere da parte delle classi subalterne.

Tanta approssimazione è comprensibile se si riflette sulle condizioni che l’ipotesi del “Palazzo d’Inverno” necessariamente richiede, così sintetizzabili:

1) Fratture insanabili, sia oggettive che soggettive, all’interno della società, dovute ad una situazione fattasi assolutamente intollerabile per ampi strati sociali. Non è un caso se la maggior parte delle rivoluzioni remote o recenti si colloca in concomitanza di una guerra o di altre situazioni di crisi gravissima; oppure se è rivolta contro una dittatura inaccettabile ai più. La semplice ideologia ha prodotto nella storia molte sommosse anche estese, ma nessuna rivoluzione autentica.

2) Un ampio consenso attorno alle avanguardie rivoluzionarie o ai gruppi di insorti. Non occorre, naturalmente, che si tratti di un consenso maggioritario, quasi “elettorale”; occorre però che sia diffuso nel settori chiave della società, là dove ogni scossa ha sul resto del corpo sociale gli effetti di un sommovimento tellurico. E non deve trattarsi di un semplice consenso passivo: è necessario che buona parte degli strati coinvolti sia disposta a scendere in campo a fianco delle avanguardie.

3) Una sostanziale neutralità dei ceti medi, venata da simpatie (con episodi di partecipazione attiva) nei confronti dei rivoluzionari. Mai, in nessuna parte del mondo, il proletariato ha attuato una rivoluzione e conquistato il potere da solo. Non è un caso che quasi tutti i movimenti di liberazione assumano la denominazione di “Fronte”.

4) Un esercito debole, una parte del quale sia contagiato da simpatie per i rivoluzionari. Si tratta di un punto che non necessita spiegazioni.

5) La vigenza di un sistema di alleanze che non consenta, o procrastini nel tempo, un intervento di eserciti alleati al governo in carica. A questo fine, occorre anche che l’atto insurrezionale sia sufficientemente rapido da anticipare l’intervento esterno e, più ancora, che gli eserciti potenzialmente in grado di intervenire siano impegnati in altri quadranti.

Altre condizioni sono elencabili – tra cui la presenza di avanguardie determinate e unite negli obiettivi di fondo – ma quelle enunciate sono quelle essenziali. Tanto essenziali che è sufficiente che una sola di esse non venga soddisfatta perché la pretesa insurrezionale si traduca in pura velleità,
Ora, è abbastanza evidente che nel corso degli anni Settanta, inclusi i momenti più “caldi” e le situazioni più avanzate, la maggior parte delle condizioni del nostro elenco non si poneva.
Con l’inizio degli anni Ottanta, anche quelle che in certa misura sussistevano sono venute meno. L’ipotesi del “Palazzo d’Inverno” non regge perché, salvo eventualità davvero imprevedibili, non ha alcuna possibilità d’attuazione. Inutile coltivare illusioni in questo senso. Il tempo dei sogni è tramontato.

 

4. LE “ZONE LIBERATE”.
L’ipotesi che chiamiamo “delle zone liberate” andrebbe meglio definita “del contropotere”. Le assegnamo quel nome, circolante attorno al ’77, solo ad indicare una fase in cui il contropotere si sia abbastanza generalizzato da produrre situazioni di dualismo e da dar luogo a momenti di scontro preinsurrezionale.
Si tratta, in sostanza, dell’ipotesi che già illustrammo nella seconda parte de La sinistra negata, in riferimento alle tesi sostenute dall’area dell’autonomia”. Giunta a determinati livelli di forza, la classe operaia innesca la transizione all’interno stesso della società capitalistica, esercitando capillarmente il proprio potere nel sociale e rendendo la sovrastruttura politica sempre più simile ad un vuoto involucro.

La rottura rivoluzionaria si colloca nella fase più matura di questo processo, ed è un atto praticamente solo formale, dal momento che le classi subalterne hanno già sovrapposto alla società del capitale la propria controsocietà, perfettamente funzionante.
L’espressione “aree liberate” (diffusa nel Movimento, ma non specifica dell’area dell’autonomia) stava appunto ad indicare quel settori del sociale in cui il contropotere – esercitato attraverso la rete dei comitati giovanili, di fabbrica, di quartiere, ecc. – era più diffuso, tanto da aver preso quasi completamente il luogo del potere statale. Sembrava possibile, allora, a chi viveva in simili situazioni di punta, dare una spallata definitiva relativamente indolore, vista l’apparente latitanza del sistema.

Foto di Enrico Scuro

Lo schema era in fondo simile a quello adottato da diversi movimenti di liberazione (Irlanda, Corsica, Salvador, ecc.) impegnati a costituire nuove forme di società nelle aree sottoposte al loro controllo. L’accento era però posto non tanto sullo scontro armato risolutivo, quanto su forme articolate e diffuse di conflitto, violento e non, indirizzate appunto ad estendere e consolidare il contropotere.
Abbiamo già scritto che, a paragone di altre ipotesi, quest’ultima appariva più realistica, anche perché corrispondente ad una serie di situazioni di fatto. Ciò non toglie che, con l’inizio degli anni Ottanta e con l’opera di repressione-restaurazione ampiamente illustrata dalle puntate precedenti della Sinistra Negata, siano venuti interamente meno tutti i momenti di contropotere precedentemente instaurati dal Movimento, e carceri, scuole, caserme, ospedali, istituzioni psichiatriche siano tornati nelle mani dei padroni di sempre.

Ci si può chiedere se ciò sia dipeso da debolezze intrinseche al progetto, che ha sostanzialmente lasciato immutato il fulcro dei rapporti di forza nella società; di fatto possiamo affermare che l’operazione di riconquista delle posizioni perdute è indubitabilmente fallita a causa di un contesto di motivazioni, non ultima la profonda modificazione del contesto sociale del paese. Anche l’ipotesi delle “aree liberate” ha espresso per tutto il decennio passato tutti i suoi limiti.
Ciò significa forse dover rinunciare al concetto stesso di “sinistra rivoluzionaria”, e aderire alle regole del gioco imposte dal sistema? Oppure dedicarsi alla sola tematica ecologica, vista come condensato di tutte le contraddizioni? Crediamo di no. E cercheremo di spiegare perché.

 

5. MEZZI E FINI.
Cominciamo sgomberando il campo da un equivoco, cui noi stessi ci siamo assoggettati nelle righe precedenti. La nozione di “sinistra rivoluzionaria”, o il semplice aggettivo “rivoluzionario”, sono collegati ai fini oltre che ai mezzi. Ciò deve essere molto chiaro, trattandosi di un nodo teorico fondamentale. Grosso modo, chiameremo quindi “sinistra rivoluzionaria” un movimento che punta alla soppressione completa del capitalismo, inteso sia come sistema economico che come sistema di dominio politico-sociale, all’introduzione di forme sempre più estese di democrazia diretta e, tendenzialmente, all’abolizione delle classi e all’instaurazione di una società comunista. E che non è disposto a transigere su questi obiettivi di fondo, pur potendo di volta in volta adottare metodologie diverse per la sua attuazione.

Stabilita questa definizione, tutto diviene più chiaro: dal fatto che l’interesse esclusivo o quasi per tematiche parziali colloca oggettivamente chi lo coltiva al di fuori del campo della sinistra rivoluzionaria, fino al fatto decisivo ai fini del nostro discorso che all’interno della SR le soluzioni tattiche hanno un peso assolutamente secondario rispetto agli scopi strategici, dipendendo dalla configurazione del sociale e potendo mutare con essa.
In passato, su questo tema si è ingenerata notevole confusione. Si è, ad esempio, ritenuto più “a sinistra” chi adottava metodi più “violenti”, tanto che molti hanno rinunciato ad autodefinirsi come appartenenti alla sinistra rivoluzionaria quando le circostanze hanno imposto un parziale cambiamento dei mezzi da impiegare nella nuova fase. Ancor oggi, qualche idiota ritiene che distruggere una macchina qualsiasi durante un corteo elevi la qualità politica di quest’ultimo. Un’impostazione del genere deriva da un pregiudizio assurdo, in virtù del quale per fare un esempio paradossale – i social- rivoluzionari russi sarebbero stati più “a sinistra” dei bolscevichi, visto che i primi praticavano il terrorismo individuale ed i secondi no, o non sempre.

Foto di Enrico Scuro

È tempo di sbarazzarsi di queste sciocchezze. Ciò che ha sempre connotato i rivoluzionari di ogni paese, Italia compresa, è stata un’assoluta duttilità nell’adozione dei mezzi, ferma restando l’intransigenza sugli obiettivi di fondo e sulla necessità di raggiungerli ad ogni costo. Storicamente, invece, l’idolatria dei mezzi ha caratterizzato a sinistra (una sinistra intesa in senso lato) due sole forze: i socialdemocratici, da Bernstein in poi («il movimento è tutto, il fine è niente»), e gli anarchici individualisti. Superfluo esprimere un qualsiasi giudizio su costoro.
“Sinistra rivoluzionaria” è dunque quella sinistra che non adotta sistematicamente né la violenza né la non-violenza per il conseguimento dei propri fini, ma è pronta ad impiegare i mezzi che la realtà le detta. “Sinistra rivoluzionaria” è quella sinistra che non rifiuta per principio le riforme, ma che non le chiede, e se eccezionalmente le chiede, lo fa in vista di scopi che trascendono il sistema vigente. “Sinistra rivoluzionaria” è soprattutto quella sinistra che intende farla finita col capitalismo, e che in vista di questo obiettivo agisce in forma di movimento nel sociale, evitando le gabbie istituzionali. “Sinistra rivoluzionaria” è, insomma, quella sinistra che ritiene che il movimento sia tutto, e il fine sia tutto.

Tutto ciò può sembrare ambiguo, ideologico o astratto. In realtà, la definizione trova preciso riscontro nella storia del movimento antagonista italiano degli ultimi decenni. Si è visto il contropotere articolarsi in momenti di urto frontale, come gli scontri di piazza, le “ronde” contro l’eroina o il lavo- ro nero, le occupazioni, gli espropri, ma anche in momenti di significato simbolico (come i vecchi “mercatini rossi” di Lotta Continua), di valore politico culturale (come le feste del pro- letariato giovanile, il cinema militante, ecc.) o di proposta alternativa (come le colazioni per i bambini proletari, gli ambulatori autogestiti, i centri sociali, ecc.). L’immagine dell'”autonomo” con la spranga (o la pistola) sempre in pugno e con benzina al posto del cervello appartiene tutta al nemico, non alla memoria del movimento antagonista (e tantomeno al suo presente).
Insomma, quanto più ci soffermiamo sul passato, tanto più scorgiamo un movimento duttile nelle sue forme d’azione, la cui natura rivoluzionaria era affidata alla determinazione con cui affrontava il sistema strappandogli il sociale con tutti i mezzi a propria disposizione, pacifici o violenti che fossero. Poi vennero i gruppi clandestini, che spostarono tutto sul terreno politico-militare, ma questo è un discorso che abbiamo già affrontato.
Sta di fatto che è in quella nozione, mobile eppure coerente, di sinistra rivoluzionaria (questa volta senza virgolette) che si risolve il problema di identità per chi oggi, in condizioni tanto più difficili, intende continuare quel cammino.

(Ne La Sinistra Negata 08 seguirà la seconda puntata della Prima parte: quale sinistra rivoluzionaria?)

Le puntate precedenti le trovate: 01 qui, 02 qui, 03 qui, 04 qui, 05  qui e 06 qui

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Distopie in corpo I e II https://www.carmillaonline.com/2025/12/06/distopie-in-corpo-i-e-ii/ Sat, 06 Dec 2025 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91718 di Franco Pezzini

Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025. Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, [...]]]> di Franco Pezzini


Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025.
Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, senza troppo spoilerare, siamo in un pianeta non-terrestre di un lontanissimo futuro, nel secondo l’Oltremondo si incista in un’Italia futurologicamente prossima e autoritaria dove ai ribelli è possibile intervenire tra le pieghe del tempo. Ma entrambi gli affreschi, di notevole ampiezza e originalità rispetto ai pur individuabili modelli dickiani e ballardiani, cifrano tensioni e provocazioni di un presente inquietantemente vicino.
In entrambi i casi – in modo diverso – la distopia investe in prima battuta lo sguardo, il linguaggio, la voce: come in fondo inevitabile (anche se magari non chiaro a chi di distopie si sia occupato in modo meno profondo), perché sono proprio il modo di vedere e di narrare a costituire il marcatore primo di un mondo collassante. In entrambi i casi l’Homo narrans – protagonista narrante più o meno inaffidabile – si confronta con la ridefinizione di categorie dell’esistenza, di miti, di urgenze personali e collettive: ed entrambi sembrano rispondere in chiave provocatoria al crollo delle istanze del Novecento. Entrambi del resto fanno riferimento a una categoria che sguardo e voce possono scomporre ai minimi termini, ma che resta un’ancora fondamentale al nostro essere Homo, cioè il corpo. Un corpo ibridato nel primo, dove uomo e serpente si mixano, e i regni animale e minerale perdono il rispettivo limes – e non solo nella sfera dell’umano, ma nei serpenti-cavi elettrici, nelle macchine senzienti, nel mistero stesso di una Forza Sovrastante non necessariamente metafisica. Un corpo trattato nel secondo con farmaci e droghe come l’oblivion, e che si sbriciola in un tempo storico magmatico e mai fissato definitivamente, in uno stato perenne di stupefazione. Fino a costringere a domandarci se il protagonista ce la conti giusta, se e quanto sia capace di lucidità. Un corpo in entrambi che alla fine si fa linguaggio, voce – ma non è questa, in fondo, la natura prima di qualunque personaggio letterario? –, traducendosi in comunicazione frantumata e reiterata di stringhe alfanumeriche ne La città dei Serpenti, e in L’Oltremondo in conati espressivi, giochi di parole irriflessi, compulsioni verbali di una mente crackata.
In entrambi i casi, poi, alla storia soggiace una rivelazione radicale, che cioè sia l’essere umano in quanto tale l’elemento distruttivo della realtà: non solo imbullonando orride tecnocrazie autoritarie dove il tradimento e la violenza poliziesca, l’illusione e la menzogna paiono ingredienti fondamentali, ma stabilendo rapporti malsani con meccanismi di servizio e strutture sociali, fino a piagare relazioni personali. In modo diverso e autonomo i due romanzi esplorano l’ambiguità radicale con cui è possibile comprendere il reale: nel primo caso per la scarsa comprensibilità effettiva – a dispetto delle pretese degli “interpreti” – dell’Intelligenza Serpente e le faziosità delle lobby in scena, nel secondo per l’equivoco peso decisionale di intelligenze artificiali brandite da un potere sovranista, per cui a decidere norme e letture ufficiali non sono più camere di confronto umano, ma algoritmi da tecnocrati. Come spiega il protagonista de L’Oltremondo,

succede questo: tutti vorremmo sapere, ma nessuno oggi è più in grado di sapere nulla. È la macchina che sa e che proietta e impone il suo sa­pere intorno all’uomo, creandogli una realtà che lo abbraccia, lo culla, lo ghermisce. Realizzandolo. Rea­lizzando l’uomo.

Tanto più che strumento di distruzione è addirittura quello che offre le due storia come le leggiamo, il linguaggio: ne La città dei Serpenti troviamo esplicitato che

Il vettore della vostra infezione è la tecnologia che voi usate per definire la vostra infezione ▻▻▻ Linguaggio ▻▻▻ il Linguaggio umano usato ora progressivamente adeguato in apprendimento Macchina da noi per comunicare qui ora con la vostra inferiorità ▻ il vostro linguaggio è infetto di infezione ▻ il vostro linguaggio inutile contro la Macchina ▻ la vostra ▻ Parola infetta somministrata emanata in riproduzione tecnologica espansa non necessaria alla Macchina ▻

Cioè comunicazioni ossessive da amministrazione delirante, slogan ripetuti, elenchi di comandi, formule scandite: interessante e dialettico è il rapporto tra la professione di fedeltà degli Agenti della città (“Noi siamo gli Agenti, fedeli ai Serpenti”, una sorta di credo militante alla tutela dell’Equilibrio claustrofobico della città) e la Fede proclamata una volta uscitine. Mentre L’Oltremondo vede contribuire alla grande cospirazione i messaggi di un’influencer ragazzina (username b4by_flu666) e la diffusione del contenuto del Teorema di Lauda, nuovamente a considerare come infezione uomini e linguaggio:

Il professor Lauda, […] osteggiato da tutti gli atenei del mondo e morto in umiliazione e povertà, sostiene che l’uomo sia un virus, al pari del linguaggio ma più letale di esso, come virus. Il lin­guaggio uccide alcune categorie e sottocategorie del pensiero attraverso la selezione di parole e costrutti, dice Lauda, […] mentre l’uomo è con­centrato solo sulla riproduzione della specie, la quale specie si percepisce sempre sul baratro della scom­parsa. Ma la percezione del baratro della scomparsa è dovuta alla modificazione delle leggi naturali che lo sviluppo tecnologico dell’uomo, messo in atto per alimentare la sopravvivenza della propria specie, im­pone al pianeta e all’ambiente da cui l’uomo viene ospitato e di cui l’uomo si fa parassita, dice Lauda, quindi l’uomo fugge la distruzione della specie e lotta contro la sua propria scomparsa che però egli stesso sta architettando in nome di quella stessa sopravvi­venza della specie guidata e garantita dello sviluppo tecnologico che distrugge l’ambiente ospite del virus-uomo […].

In un caso e nell’altro il punto di riferimento con cui fare i conti sono le macchine: a contrastarle, una società ibrida di uomini & serpenti o invece una rete clandestina che tra varie strategie di lotta usa l’oblivion per aprire fenditure nel tempo e versioni modificate della Storia: i serpenti che prendono – tra lo sconcerto generale – a divorare se stessi come urobori evocano in fondo la possibilità che la Storia come la conosciamo sia finita, si riduca al loop di un ciclo e si possa solo stagnarci dentro.
In un caso e nell’altro un potente linguaggio mitico sottostà all’invenzione narrativa. La paranoica città dei serpenti del primo titolo è simbolizzata in un cranio, come il Golgota del cranio di Adamo, e l’ambiguità del serpente dell’Eden è il suo statuto costituzionale: in luogo dello sguardo terapeutico al Nehustan, il serpente di Mosè, sono previste immersioni “terapeutiche” degli Agenti in vasche di serpenti, che insieme possono però far pensare (in chiave di morte rituale, iniziatica) a quella in cui muore l’eroe vichingo Ragnarr catturato da Ælla di Northumbria. Alle vasche di serpenti del primo romanzo corrispondono idealmente i trattamenti farmacologici del secondo – entrambi imposti perché funzionali a equilibri d’un potere. Ma ne L’Oltremondo, persino più provocatoriamente politico e apertamente critico, si recuperano, in un presente racchiuso come nel cerchio uroborico o in un tempo mitico del Sogno, figure storiche (come Osip Ivanovich Komisarov, coperto di imbarazzanti onori per aver salvato la vita dello zar Alessandro II durante un tentativo di assassinio, Gavrilo Princip, lo studente serbo che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie, o magari Alberto Magno e la sua testa meccanica) o scorci del passato (Paesi Bassi 1469, Canada 1940, riprese dal set di The Circus del 1928), a iniettare nel presente sovranista elementi di discredito, frattura e fragilità. “Tu sai che il tempo è un sogno, […] e la vita è tempo”.
Certo i due romanzi conducono in direzioni diverse: il fanatico e vigoroso protagonista del primo, l’Agente 1 Kajus, riesce a uscire dalla Città-Teschio dei suprematismi Bianchi e Neri e la storia può continuare altrove, mentre nel secondo più amara è la parabola del povero Don, docente (di storia, non a caso) espulso dall’università, sedato coattivamente in un paese dove la svolta finale autoritaria è imposta – guarda caso – da una riforma della giustizia e il dissenso è liquidato in patologia. Ma in entrambi i romanzi crepitano lingue furiose a concedere al lettore non pigro e non timido davvero molto, in termini di forza espressiva e macchine per pensare.

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Il lungo sogno di Liliana Cavani https://www.carmillaonline.com/2025/12/05/il-lungo-sogno-di-liliana-cavani/ Fri, 05 Dec 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91085 di Neil Novello

Liliana Cavani, Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura, a cura di Fabio Francione, Mimesis, Milano-Udine 2025, 14,00 euro.

All’origine dell’impegno cinematografico di Liliana Cavani sulla biografia di Simone Weil gravano un mistero e una lettura sconvolgente, cioè un ricordo imprecisabile e un’esperienza decisiva. Nella Conversazione con Liliana Cavani, curata da Fabio Francione e Roberto Revello, istruttivo documento di soglia a Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura (Mimesis, 2025, già Einaudi, 1974), la regista di Milarepa confessa genericamente di «aver letto qualcosa su Simone Weil» sul «finire degli anni Sessanta». In seguito, menzionando un’imprecisata «testimonianza» di carattere [...]]]> di Neil Novello

Liliana Cavani, Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura, a cura di Fabio Francione, Mimesis, Milano-Udine 2025, 14,00 euro.

All’origine dell’impegno cinematografico di Liliana Cavani sulla biografia di Simone Weil gravano un mistero e una lettura sconvolgente, cioè un ricordo imprecisabile e un’esperienza decisiva. Nella Conversazione con Liliana Cavani, curata da Fabio Francione e Roberto Revello, istruttivo documento di soglia a Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura (Mimesis, 2025, già Einaudi, 1974), la regista di Milarepa confessa genericamente di «aver letto qualcosa su Simone Weil» sul «finire degli anni Sessanta». In seguito, menzionando un’imprecisata «testimonianza» di carattere autobiografico riferita alla pensatrice francese e relativa alla sua esperienza in fabbrica, implicitamente cita il celebre Diario di fabbrica, dolorosamente vissuto e scritto da Simone Weil alla metà degli anni Trenta del Novecento. Così l’autoritratto di Simone Weil operaia in fabbrica, in Liliana Cavani agisce come una struttura di risveglio, qualcosa che ricorda addirittura «Francesco», il santo di Assisi cui la regista di Carpi dedica il film televisivo del 1966 e il lungometraggio del 1989.

Come Francesco, così la pensa Liliana Cavani, Simone Weil «partecipa con tutta sé stessa» alle cose del mondo, rapita nel suo più spontaneo, reale atteggiamento di donna in medias res, di creatura calata «dentro la vita sociale», nella realtà. E ciò tocca un vertice nel momento in cui le due linee biografiche, quello della mistica e quella del poverello, si ‘incontrano’ proprio ad Assisi, il luogo in cui Simone Weil finalmente si reca a «trovare un fratello naturale». Di Simone Weil, di una tale «persona eccezionale» e della sua inclinazione umana, la sceneggiatura che Cavani scrive con Italo Moscati racconta la storia. È la vicenda esistenziale di una donna di passioni totali, una donna «che vuole vedere e capire», che «vuole partecipare» alla vita dell’inerme, del sofferente, del debole, dell’«indifeso», e che desidera, in realtà, conoscere il «vissuto» umano dall’interno, incardinata, ripiegata essa stessa proprio in quel concetto di interno equivalente a un’esperienza dal vero: il lavoro in fabbrica, e dunque il lavoro in campagna. E c’è anche altro. Per utilizzare due categorie care a Richard Sennet nell’Uomo artigiano, per Simone Weil si tratta di attraversare la linea di senso che corre da un modo all’altro di abitare il mondo del lavoro, il modo dell’homo faber e quello dell’animal laborans.

Così la sceneggiatura per un film mai realizzato su Simone Weil appare la descrizione di un «vissuto» totale, la ricerca di tracce in una travagliata, splendida biografia i cui salienti rimandano l’immagine di una figura grandiosa, di una pensatrice ritratta, tra le varie, radicali esperienze esistenziali, in un unico possibile luogo, inalterabile, sempre uguale a se stesso, nel cuore profondo dell’umano.

Così nelle aule del Liceo di Puy come per le strade della cittadina francese, tra la lezione scolastica e il lavoro di attacchinaggio notturno, la prima immagine di Simone Weil risponde a quella di una creatura alacremente all’opera. Ma tale opera non è solo impegno, è anche analisi, interpretazione, scrittura, pedagogia, cioè la disponibilità intelligente per l’altro, per la sua coscienza culturale, politica. La pensatrice si fa così testimone, o meglio «messaggera del vangelo marxista», secondo la definizione datane da un poliziotto, in sceneggiatura fissata nel suo colloquio con un commissario. È, questa, una prova evidente dell’engagement in Simone Weil. Esso emerge, già nella parte iniziale della sceneggiatura, nel corso di una «riunione dei professori» del Liceo Puy. Qui troviamo una prova relativa al suo metodo di pensiero, alla visione diretta e non tradita dei «reali problemi», insomma al mestiere di intellettuale impegnato e disorganico, cioè qualcosa che restituisce, forse più trivialmente, l’epiteto pronunciato dal bidello del Puy per indicare Simone Weil come una «Sporca marxista!».

La sceneggiatura di Cavani, la cui cifra strutturale e formale è fondata sull’interpellazione dello spettatore, dunque sull’intervista a più testimoni, dal compagno operaio all’infermiera del sanatorio britannico, in Simone Weil ritrae una voce aperta, a sua volta interpellante, un’intervistatrice inattuale, una voce che indaga, domanda, denuncia e al potere chiede risposte, come accade nella visita alle Fonderie Bernard. Qui la professoressa, per la prima volta intuisce la necessità di un’esperienza operaia personale, poiché avverte la parzialità di ogni giudizio sul lavoro se il lavoro non è svolto, vissuto sul campo. Il tracciato biografico di Cavani, infatti, espone la vita di fabbrica di Simone Weil alle Officine Lecourbe, nell’inferno del «lavoro alla pressa», aggiogata all’oggetto di una tortura interminabile, il «pezzo», e nell’affannoso tormento di una mostruosa «cadenza»: realizzare ottocento pezzi l’ora.

A tale riguardo, agli amici sindacalisti Claudius Vidal e Paul Simone Weil confessa di voler «conoscere sulla pelle» l’esperienza di operaia alla catena, e in segreto scrive il diario, tra inclinazione scientifica e indagine antropologica, di un martirio. È quindi rappresentata la condizione inumana di chi, tra la pressa e, in seguito, l’altoforno, sa che dovrà «smettere di pensare» per diventare essa stessa la macchina davanti a sé, mutando così la propria identità intellettuale in quella di una anonima «schiava». A Claudius Vidal, che idealmente l’ascolta in una sua meditazione solitaria, Simone Weil confessa che «davanti alla macchina si deve uccidere la propria anima per nove ore al giorno». L’esito più catastrofico del lavoro in fabbrica, cui la sceneggiatura di Cavani dedica il corpo centrale, è la perdita della «spensieratezza», lo stato di un’anima che finalmente si ritiene perduta al «termine» di una logorante esperienza.

Dopo aver richiesto e ottenuto un congedo bimestrale dal Liceo di Bourget, dove insegna dopo l’estenuante parentesi di operaia in fabbrica, Simone Weil è in viaggio. La memoria culturale, umana, del periodo di lavoro, in sé informa anche l’altra grande decisione della sua vita: «combattere» in Spagna contro i «falangisti». Ma la guerra di Simone Weil, nella sceneggiatura di Cavani non è una guerra, anzi è la sintesi di un’esperienza ridotta a un aneddoto, la ferita provocata dalla caduta di olio bollente sul «piede destro», e l’inaccettabile consapevolezza di «non essere un buon soldato». Al pari del significato ‘eterodosso’ del lavoro in fabbrica, l’altro grande capitolo, sia per le implicazioni umane sia per quella più propriamente spirituale, riguarda il menzionato lavoro in campagna. È un periodo di vendemmia, che Simone Weil trascorre presso il filosofo-contadino Gustave Thibon, nella sceneggiatura Marcel Thibon. «La sua idea era di mettersi a lavorare qui, in campagna, nella mia campagna. Aveva fatto l’operaia, ora voleva fare la contadina» dichiara Thibon. La «contadina», infatti, pensa proprio come l’«operaia», e ciò perché possiede una «vocazione speciale» per le «condizioni che la gente definisce “basse”».

Al momento dell’occupazione tedesca di Parigi, Lettere dall’interno fornisce un saggio letterario, quasi alla maniera ariostesca, di montaggio incrociato tra le sequenze sulla capitale occupata dai tedeschi e le sessioni di lavoro, da parte di Simone Weil, nella terra di Thibon. In altre parole, l’avvento dell’occupante pone il problema tra l’ebraismo di Simone Weil e il nazismo. Ciò determina la fuga della pensatrice, una fuga strumentale dapprima a New York, in seguito, e solo per ricongiungersi con la «Resistenza francese», a Londra, presso il Commissariato d’azione per la Francia. L’ultima tappa del «cervellone», che non esclude di ritornare in Francia per compiere più decisive azioni di «sabotaggio» o «spionaggio», è appunto cadenzata tra il Commissariato e la casa a pigione di Mrs Francis. Qui Simone Weil scrive a lungo sul tema dello «sradicamento», e più in generale lavora a La prima radice, vi lavora prima di essere ricoverata, dopo un inatteso sbocco di sangue, presso di Grosvenor Sanatorium ad Ashford, il luogo della sua morte.

Il momento più descrittivo della sceneggiatura ripercorre circa l’ultimo decennio della vita di Simone Weil. Tuttavia, essa racconta una vicenda umana esemplare, unica. Nell’apparente variazione del tracciato esistenziale (liceo, fabbrica, Spagna, campagna, religiosità, resistenza, Londra), in Simone Weil persiste e dura un’idea di vita come esclusiva esperienza reale, qualcosa che misura il nome stesso dell’esistenza in ciò che è radicalmente umano, in una sorta di permanente, ostinata discesa verso quel ‘basso’, quel limite inferiore in cui chi pensa, chi è chiamato a pensare, da Diogene di Sinope a Simone Weil, pensa al solo scopo di cercare l’uomo.

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Fotografia e psichiatria https://www.carmillaonline.com/2025/12/04/fotografia-e-psichiatria/ Thu, 04 Dec 2025 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91365 di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice [...]]]> di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice che gravava sul Paese sorprendentemente disponible a sperimentare cambiamenti radicali.

Si tratta del volume curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Einaudi, 1969) e del libro di Luciano D’Alessandro, Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale (Il Diaframma, 1969). Individuando in queste due pubblicazioni le fondamenta di una nuova iconografia della malattia mentale Francesca Orsi indaga il rapporto tra fotografia e psichiatria che si è sviluppato tra la fine degli anni Sessanta e oggi.

In linea con l’idea benjaminiana che individua nel frammento, nel suo interrompe la narrazione lineare della storia, un potenziale critico utile a svelare le contraddizioni della modernità aprendola a nuove e inedite prospettive, con La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria Orsi ha inteso modellare «un nuovo atlante visivo della “follia” per accostamenti di tasselli che messi insieme creano significati inediti, tesi a definire un percorso alternativo verso un’iconografia destigmatizzante della malattia mentale e, contemporaneamente, a creare un senso collettivo di giustizia, di espressività artistica, di storia e di pensiero critico» (p. 228).

L’autrice sottolinea come le fotografie di Morire di classe abbiano avuto un ruolo importate non soltanto nel far conoscere le condizioni dei pazienti rinchiusi nei manicomi, ma anche nel rompere il sodalizio di estrazione positivista tra fotografia e psichiatria. Gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno istituito «un nuovo alfabeto visivo della salute mentale, che affonda le sue radici nelle finalità politiche di Morire di classe, nella sua intrinseca urgenza civile e sociale» (p. 15), un alfabeto che si è evoluto nel corso del tempo rapportandosi con i cambiamenti occorsi non solo in ambito psichiatrico, sociale e politico, ma anche a livello di comunicazione visiva. Nel ricostruire quelle nuove visioni su malattia mentale, devianza e alterità, Orsi si è avvalsa delle testimonianze dirette di chi le ha prodotte. Nel volume si trovano interviste raccolte tra il 2008 e i giorni nostri a: Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli.

Se tanto gli scatti di D’Alessandro, realizzati presso l’ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore, ove operava il dottor Sergio Piro, pubblicati nel volume Gli esclusi, quanto quelli di Cerati e Berengo, effettuati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze, diffusi da Morire di classe, hanno messo la società italiana di fronte a una realtà sino ad allora sconosciuta attraverso la crudezza delle immagini, sono state soprattutto le fotografie di questi ultimi a sconvolgere l’opinione pubblica e ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che queste hanno saputo trasmettere l’urgenza da cui erano mossi i fotografi di mostrare, denunciare e rivelare la violenza dell’istituzione psichiatrica in linea con la battaglia basagliana. È probabilmente la mancanza di questo senso di urgenza ad aver reso all’epoca meno dirompenti gli scatti di D’Alessandro, mossi invece da premesse di ordine estetico-autoriale e intenzionati a riflettere la solitudine dell’essere umano. Mentre le fotografie di Cerati e Berengo agiscono da «urlo», quelle di D’Alessandro, mosse più da uno sguardo autoriale che non reportagistico, sono riconducibili «al silenzio esistenziale», al «mondo interiore». Gli esclusi, afferma lo stesso D’Alessandro, ha preso il via come una riflessione sull’esistenza umana, da cui, soltanto dopo, è derivata la denuncia sociale.

Mentre Morire di classe fu voluto da Franco Basaglia e Franca Ongaro come un atto d’accusa all’istituzione psichiatrica, usando il libro come ponte verso l’esterno, verso la società, verso la politica e verso l’opinione pubblica, Gli esclusi fu voluto da Sergio Piro partendo dalla stessa tensione nei confronti della psichiatria, ma procedendo a una sua “demolizione” dall’interno, usando la propria esperienza e la propria visione come primo tassello da abbattere (p. 31).

Se Gli esclusi si è presentato come un libro fotografico elegante, Morire di classe, ricorda Berengo, si è proposto esplicitamente come «un manifesto politico di protesta, fatto con urgenza e con delle modalità che permettessero un costo molto basso, per arrivare a un pubblico più ampio» (p. 57). L’incidenza esercitata sulla società italiana dalle fotografie di Morire di classe non può che essere messa in relazione con l’importanza che, come ricorda la stessa Cerati, aveva la fotografia negli anni Sessanta nell’ambito della denuncia sociale, della divulgazione e della comunicazione. Due libri mossi da progettualità differenti ma altrettanto importanti nel rinnovamento della fotografia psichiatrica: Morire di classe per l’adozione di una strategia comunicativa efficace nel fare irrompere nella società italiana il tema della malattia mentale, Gli esclusi per la sua capacità di aprire una riflessione sull’istituzionalizzazione psichiatrica, sul ruolo del fotografo e sulla natura dell’immagine che intende raccontarla.

Se gli scatti di Morire di classe e de Gli esclusi hanno inteso denunciare l’istituzione psichiatrica, più che raccontare il cambiamento al suo interno, le fotografie realizzate negli anni Settanta presso l’ospedale psichiatrico triestino allora diretto da Basaglia di autori come Claudio Ernè, Paola Mattioli, Gian Butturini, Emilio Tremolada, Neva Gasparo e Mark Smith rappresentano un nuovo modo di guardare ai pazienti, ora considerati indissociabili dalla loro storia e dalla loro identità, in linea con il passaggio nella psichiatria basagliana dall’utopia goriziana degli anni Sessanta alle pratiche sperimentate nel decennio successivo.

Se in precedenza, dalla fine dell’Ottocento, la fotografia aveva assunto, rispetto all’istituzione psichiatrica, un ruolo di “strumento scientifico” per definire la malattia mentale e alla fine degli anni Sessanta era stata l’arma di denuncia della condizione manicomiale, negli anni Settanta i fotografi arrivati, per motivi diversi, a Trieste si resero parte loro stessi dell’ingranaggio del cambiamento in atto e testimoniandolo lo vivevano in prima persona (p. 71).

Le fotografie degli anni Settanta, insomma, tendevano a restituire ciò che gli stessi fotografi stavano vivendo nel loro rapportarsi con chi era affetto da malattia mentale.

Per i fotografi giunti nella città friulana, la realtà manicomiale, oltre a essere diventata una storia personale, data la prossimità fisica e umana, era anche una questione politica, un battersi per degli ideali in cui si credeva, un momento condiviso di forte critica al sistema. Il fotografo, nel suo essere coinvolto, perdeva la sua tecnicità e si mescolava agli altri volti e alle altre miriadi di storie che punteggiavano il parco del San Giovanni (p. 73).

Ernè ricorda come per i fotografi che, come lui, si confrontarono con la struttura triestina negli anni Settanta, lo scopo non fosse quello di denunciare, bensì quello di «fotografare una rinascita» di cui si sentivano parte. La stessa Mattioli conferma il clima di partecipazione e condivisione umana in cui si trovano immersi quanti e quante si erano presentati con la macchina fotografica nella struttura triestina.

Orsi si concentra poi su tre fotografi – Emilio Tremolada, Uliano Lucas e Dario Coletti – che «hanno espresso un ruolo di raccordo storico ma anche narrativo e meta fotografico. Il loro lavoro ha avuto il merito di documentare l’evoluzione di un movimento nel suo fluire temporale, ma anche di mostrare come tale evoluzione politica e ideologica fosse accompagnata da quella del linguaggio fotografico e del loro personale sentire estetico e compositivo» (p. 103). Tre autori che, per quanto differenti per stile e concezione della fotografia, sono riusciti «a raccontare tre momenti in cui la fotografia, procedendo nel suo percorso storico e formale, si è messa in dialogo con il suo passato per mostrare un concetto di cambiamento che riguardava la sua natura, il panorama psichiatrico e la società stessa» (p. 104).

Tremolada ribalta l’intento classificatorio e regolatore della fotografia positivista sui corpi dei pazienti proponendosi di guardare alla «personalizzazione degli oggetti che tornano ad assumere la loro funzione identitaria, che tornano a raccontare la specificità delle storie di vita, simboli di un cambiamento che ha fatto sì che il corpo del paziente non fosse più un “suppellettile assimilabile agli arredi del manicomio”» (p. 108). Oltre al soggetto delle immagini, il fotografo cambia la tecnica narrativa basandola su «inquadrature che stringevano, isolavano, facevano diventare gli oggetti dei concetti, delle astrazioni, degli spazi di riflessione» (p. 111).

Lucas affronta, invece, la malattia mentale allontanandosi dalla sua abituale narrazione reportagistica militante, proponendosi una una nuova iconografia attenta a non stigmatizzante la malattia mentale. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, egli si è focalizzato sull’essere umano, sulla sua riconquistata fisicità, sulle sue piccole storie vissute al di fuori delle mura delle strutture psichiatriche, sulle esperienze di integrazione sociale sperimentate dai nuovi indirizzi psichiatrici. «Se la fotografia psichiatrica di fine XIX secolo era servita a classificare la malattia mentale e a renderla visibile, quello che produsse Uliano Lucas fu un atlante di immagini teso a raccontare le sfaccettature dell’umano, senza che la fotografia fosse usata al servizio, ma a favore di qualcosa, di un pensiero che non stigmatizzasse più i “volti della follia”» (p. 114).

Mentre la fotografia di Cerati, Berengo e D’Alessandro raccontava la reclusione e la disperazione dell’essere umano, gli scatti di Lucas, per sua stessa ammissione, «rappresentano l’inizio della lotta, seguono l’impegno civile nel suo evolversi, rispecchiano la trasformazione del panorama psichiatrico dopo la riforma» (p. 137). Se con la fotografia, fino agli anni Settanta, ci si proponeva di suscitare un sentimento di pietà, successivamente, sostiene Lucas, si è voluto raccontare la riconquista della libertà dei soggetti, la loro vita, i loro affetti e la loro consapevolezza. «Le fotografie in ambito psichiatrico, con il tempo, hanno iniziato a raccontare il fluire di quella che una volta veniva definita “follia” nella normalità, la complessità della condizione umana» (p. 137). A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, sostiene Lucas, la fotografia rivolta ai malati di mente ha smesso di documentare preferendo comunicare; se prima «il focus era il malato e la sua condizione, dopo, è diventato il suo confondersi nella società, di cui diventò parte» (p. 137).

Dalla sua esperienza partecipativa all’interno di una struttura mentale romana, Coletti ha voluto estrarre un racconto delle nuove forme di assistenza psichiatrica territoriale guardando ai volti e ai corpi degli assistiti in maniera autoriale, riprendendo, per certi versi, l’immaginario artistico adottato da D’Alessandro negli anni Sessanta.

Se D’Alessandro aveva intessuto il suo lavoro della semanticità del corpo, delle mani soprattutto, e i fotografi degli anni Settanta avevano raccontato, invece, la sua dinamicità figurativa, Coletti, con il suo lavoro, si pone, precisamente, al centro; raccordo tra iconografie passate ed espressione, però, di qualcosa che prima non era mai stato visto insieme e per questo nuovo (p. 117).

L’ultima parte del volume si concentra su alcuni casi recenti in cui l’arte e la fotografia si occupano di disagio mentale guardando in particolare a Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli, in un contesto mutato, contraddistinto da una sovrastimolazione visiva che ha profondamene modificato l’immaginario visivo e le modalità di comunicazione.

La pratica artistica di Turba, che Orsi annovera tra gli artisti contemporanei che stanno dando vita a un nuovo alfabeto visivo della malattia mentale, si manifesta spesso come un processo collettivo di cui la fotografia offre testimonianza. «In un certo modo, le sue immagini sono documento di un qualcosa che si plasma per creare una connessione identitaria» (p. 166). Si tratta di un metodo generativo incentrato sulla condivisione; come per altri fotografi, anche per Turba il tempo trascorso nella comunità o con l’individuo di cui intende raccontare rappresenta un elemento imprescindibile nella produzioni di immagini.

A partire dalla sua riflessione sullo stato della fotografia contemporanea, nel rapportarsi all’iconografia della malattia mentale, Fontcuberta giunge a elaborare un metodo di “creazione visiva” in cui vecchie e nuove fotografie vengono elaborate digitalmente, ricorrendo anche all’intelligenza artificiale, dando luogo a particolari contaminazioni postfotografiche. Risulta interessante, scrive Orsi, notare come l’artista catalano, «attento più al processo rispetto al risultato e alla specificità del tema, riesca a sollevare in maniera critica il concetto di “anormalità”, applicato sia alle nuove espressività contemporanee sia, parallelamente, ai vecchi dogmi psichiatrici, creando una continuità tra la dimensione artificiale e quella umana» (p. 175).

Nell’affrontare la malattia mentale, Viver lavora spesso sul patrimonio visivo ottocentesco rimodellandone esclusivamente la narrazione, la sequenza, l’interazione tra le immagini dando luogo a una struttura aperta in cui le fotografie cessano di presentarsi come semplice simulacro dell’istituzione psichiatrica prestandosi a un’indagine attenta della condizione umana.

Infine, Fogarolli, «per riflettere sull’immaginario non solo della malattia mentale, ma, più diffusamente, della devianza e dell’alterità, utilizza l’arte nella sua accezione più vasta, non riconducendola esclusivamente alla natura dell’immagine, ma estendendola alle sue materializzazioni installative, scultoree e performative» (p. 180).

Orsi domanda ai fotografi interpellati come pensano sia cambiato nel corso del tempo il rapporto tra fotografia e disagio mentale. Rispetto alla fotografia degli anni Sessanta, da cui tutto è partito, quella attuale, sostiene Berengo, mostra maggiore aggressività, «una tendenza a drammatizzare, a confezionare un’immagine da “pugno nello stomaco”» (p. 60), sia nel momento dello scatto che in quello della stampa, le immagini sembrano volere a tutti i costi generare angoscia. D’Alessandro sottolinea come mentre la sua generazione era stata espressione di un’identità collettiva desiderosa di partecipare alla ricostruzione fisica, sociale e culturale del Paese uscito da poco dalla guerra, la generazione attuale di fotografi sembra mancare di un’identità collettiva, di un orizzonte comune. «Il mio, quello di Berengo e Cerati, era un progetto d’intervento, un contributo alla consapevolezza sociale e civile. Con i fotografi che raccontarono quello che successe dopo è come se avessimo fatto un unico lavoro a più mani, ognuno ha fatto un pezzo» (p. 40).

Come D’Alessandro, anche Lucas, pur facendo riferimento nel suo caso alla generazione di fotografi che si è occupata dei malati di mente negli anni Settanta, mette in luce l’aspetto collettivo e partecipativo che animava la loro pratica. «Molti artisti ai giorni nostri trattano il tema della salute mentale, da un punto di vista scientifico, storico, anche concettuale, ma il loro sguardo è uno sguardo spesso intellettualistico, che non rispecchia un sentire politico e sociale comune, come invece successe per la nostra generazione» (p. 141). Dalla metà degli anni Settanta, secondo Coletti, nel rapportarsi con la malattia mentale, la fotografia ha spostato il suo focus «verso una resa dinamica della realtà, che andava a simboleggiare il processo di riacquisizione identitaria dei pazienti. I loro corpi non erano più colti nella loro immobilità, suscitando un sentimento di pietà nello sguardo di chi vedeva le immagini» (p. 153). Difficile dire, sostiene il fotografo, «se questo cambio di registro dipenda dall’evoluzione del linguaggio in sé o dal percorso intrapreso dalla “nuova psichiatria”» (p. 153). Venendo poi alla stretta attualità, a parere di Coletti, la fotografia sembra avere ormai perso il suo valore di denuncia e dovendo immaginare un lavoro fotografico su tali tematiche sarebbe meglio concentrarsi sulle storie intime dei pazienti seguendo da vicino il loro percorso quotidiano.

Terminata l’epopea in cui si pensava e si agiva credendo nella possibilità di grandi e radicali trasformazioni, gli artisti e i fotografi contemporanei, sostiene Turba, si trovano a pensare e agire in “scala ridotta” rispetto alla prospettiva basagliana, concentrandosi su comunità e contesti specifici. Circa gli indirizzi assunti negli ultimi tempi dall’iconografia mentale nelle arti visuali e nella fotografia, che ha condotto diversi autori a lavorare sugli archivi fotografici, Viver ritiene che, in generale, questi sembrano caratterizzati da una propensione a sperimentare liberamente percorsi di ricerca della realtà più profonda in reazione ad un periodo eccessivamente caratterizzato da un approccio razionalista, empirico e materialista.

Una volta abbandonato il manicomio concentrazionario, la psichiatria istituzionale ha introdotto nuovi metodi di gestione dei devianti basati sulle etichette diagnostiche e sulla prescrizione di psicofarmaci, trasferendo così il manicomio dalle mura direttamente alla testa degli individui. Viene così introdotto un nuovo tipo di manicomio basato sulla diagnostica, sulla catalogazione e sull’etichettatura identitaria applicata ad ampio raggio a chiunque risulti affetto da un disturbo o da una malattia mentale. A partire dalla ricostruzione dell’iconografia della malattia mentale proposta da Francesca Orsi, vale ora la pena di domandarsi quali strade prenderà in futuro il rapporto tra fotografia e psichiatria alla luce delle profonde trasformazioni che hanno toccato entrambe.


Sul rapporto fotografia/psichiatria:

Senza distogliere lo sguardo: Carla Cerati, La classe è morta. Storia di un’evidenza negata, Prefazione di John Foot. A cura di Pietro Barbetta. Postfazione di Silvia Mazzucchelli (Mimesis 2023).

Manicomi. Immagini di violenza istituzionalizzata: Gianni Berengo Gardin, Manicomi. Psichiatria e antipsichiatria nelle immagini degli anni settanta (Contrasto 2015)

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