Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Dec 2025 21:04:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Quaranta segni di pioggia https://www.carmillaonline.com/2025/12/18/quaranta-segni-di-pioggia/ Thu, 18 Dec 2025 21:04:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91585  

di Franco Ricciardiello

Kim Stanley Robinson, Quaranta segni di pioggia (titolo originale Forty signs of rain, 2004), trad. Eleonora Antonini, Fanucci, pp. 304, euro 18,oo stampa

In un recente articolo sul romanzo Quello che possiamo sapere di Ian McEwan, il Corriere della Sera titola: “La fantascienza senza la scienza”, quasi che questo fosse un valora aggiunto; come dire, “cari lettori, ecco una storia visionaria ma senza l’astruso linguaggio para-scientifico della SF”. Ma davvero la componente “scientifica” è così rilevante nella SF contemporanea? Capita di leggere, in qualche gruppo social dedicato, commenti che lamentano il contenuto troppo “hard” (nel senso di scienza [...]]]>  

di Franco Ricciardiello

Kim Stanley Robinson, Quaranta segni di pioggia (titolo originale Forty signs of rain, 2004), trad. Eleonora Antonini, Fanucci, pp. 304, euro 18,oo stampa

In un recente articolo sul romanzo Quello che possiamo sapere di Ian McEwan, il Corriere della Sera titola: “La fantascienza senza la scienza”, quasi che questo fosse un valora aggiunto; come dire, “cari lettori, ecco una storia visionaria ma senza l’astruso linguaggio para-scientifico della SF”. Ma davvero la componente “scientifica” è così rilevante nella SF contemporanea?
Capita di leggere, in qualche gruppo social dedicato, commenti che lamentano il contenuto troppo “hard” (nel senso di scienza “dura”) di alcuni romanzi; c’è ancora un nutrito gruppo di lettori che considera la SF un genere esclusivamente avventuroso, un contenitore per storie che scopiazzano le atmosfere dei film d’effetti speciali. Ciò che manca veramente nelle narrazioni di SF è il funzionamento pratico della scienza. Lasciando da parte scienziati pazzi e scienziati geniali simili a supermen, concentrandosi su quelli che fanno ricerca negli istituti, che si danno da fare per trovare fondi, che analizzano masse di dati senza avere intuizioni fulminanti, che la sera tornano a casa dal marito o dalla fidanzata, dai figli, e raggiungono risultati significativi grazie a comparazioni, esperimenti, errori, e non per un’ispirazione spirituale.
Per fortuna c’è Kim Stanley Robinson. Chi ha letto la sua formidabile Trilogia marziana conosce la sua capacità di penetrare e restituire personaggi assolutamente realistici (ci sono infatti lettori che si lamentano per le “troppe descrizioni tecnologiche” del suo Marte futuro), e la competenza con cui racconta retroscena economici e tecnologici e dinamiche politiche — si veda anche il suo Il Ministero per il Futuro. Non è quindi un caso, vista la considerazione del lettore italiano medio per la SF, che questo Quaranta segni di pioggia, uscito negli USA nel 2004, sia rimasto inedito in Italia per oltre vent’anni.
L’ambientazione è un futuro così ravvicinato da confondersi con il presente. Il romanzo inaugura la trilogia Science in the Capital, che racconta i tentativi di fronteggiare la catastrofe climatica, visti dal centro del potere USA, Washington. Tre punti di vista si susseguono a capitoli alterni: Anna Quibler, giovane e motivata scienziata della National Science Foundation; il suo collega Frank Vanerwal, che dopo un distacco alla NSF è in procinto di tornare a lavorare in un istituto di ricerca privato a San Diego; il marito di Anna, Charlie, che lavora per un senatore progressista teoricamente interessato a una legislazione sul clima, ma nella pratica molto attento alle dinamiche parlamentari.

“Guardò con aria cupa passargli l’America davanti. Chi erano quelle persone che riuscivano a vivere così tranquillamente mentre il mondo sprofondava in una crisi ambientale globale senza precedenti? Esperti negazionisti. Esperti nel filtrare le loro informazioni per sentire solo ciò che li legittimava a comportarsi come si comportavano. Molti di quelli che passavano, andavano in chiesa la domenica, credevano in Dio, votavano repubblicano, passavano il loro tempo a fare shopping e a guardare la TV. Ovviamente brave persone. Il mondo era condannato.” (pag 164)

Certo, il realismo delle situazioni va a discapito del lato avventuroso, tranne che negli ultimi capitoli; ma il romanzo è pieno di dettagli straordinari: il catastrofico impatto di un uragano marino sulle scogliere presso San Diego; i monaci buddisti di Khembalung che stabiliscono un’ambasciata a Washington per perorare la causa del loro stato insulare che rischia la sommersione; l’illuminazione di Frank Vanderwal sul suo rapporto con la scienza durante una conferenza buddista.
Robinson racconta l’inefficienza e l’inerzia di un sistema parlamentare liberale, come quello statunitense, nel reagire a una crisi globale:

“[…] il riscaldamento globale non solo poteva essere reale, ma persino suscettibile di mitigazioni umane. Il che andava un po’ troppo oltre quell’amministrazione. La loro linea era che nessuno potesse affermarlo con certezza e che, anche in caso contrario, sarebbe stato troppo costoso intervenire. Sarebbe dovuto cambiare tutto: i sistemi di produzione dell’energia, le automobili, il passaggio dagli idrocarburi all’elio o qualcosa di simile, non lo sapevano; e non possedevano brevetti o infrastrutture per quel genere di novità, quindi avrebbero eluso la questione e lasciato che fosse la generazione successiva a occuparsene a tempo debito. In altre parole, al diavolo! Più facile distruggere il mondo che intaccare il capitalismo, anche solo di poco (pag. 125)”

Posso immaginare la reazione del lettore-tipo di SF italiano davanti alle pagine in cui Robinson descrive la procedura con cui Anna Quibler si tira il latte dal seno per congelarlo, così che il marito possa nutrire il figlio Joe mentre lei è al lavoro — eppure anche questa, in fondo, è tecnologia.

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La storia caotica di uno strano guerriero alla conquista di Macondo: il proletariato indiano https://www.carmillaonline.com/2025/12/17/la-storia-caotica-di-uno-strano-guerriero-alla-conquista-di-macondo-il-proletariato-indiano/ Wed, 17 Dec 2025 20:25:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91685 di Emilio Quadrelli

[ In occasione del pomeriggio di studio organizzato a Bologna sul tema «Emilio Quadrelli e la guerra» ripubblichiamo, ringraziando Sandro Mezzadra per averlo ritrovato e segnalato, un intervento su “Rock e Proletariato” redatto da Emilio, quando era detenuto politico nel carcere di Palmi, sul n° 29 di «Rockerilla» del dicembre 1982.]

L’umanità della natura c’è soltanto per l’uomo sociale giacché solo qui la natura esiste per l’uomo come legame con l’uomo, come esserci dell’uomo per l’altro e dell’altro per lui. Karl Marx – Manoscritti economico-filosofici del 1844)

L’immagine ricorrente che il proletariato moderno più volte si è [...]]]> di Emilio Quadrelli

[ In occasione del pomeriggio di studio organizzato a Bologna sul tema «Emilio Quadrelli e la guerra» ripubblichiamo, ringraziando Sandro Mezzadra per averlo ritrovato e segnalato, un intervento su “Rock e Proletariato” redatto da Emilio, quando era detenuto politico nel carcere di Palmi, sul n° 29 di «Rockerilla» del dicembre 1982.]

L’umanità della natura c’è soltanto per l’uomo sociale giacché solo qui la natura esiste per l’uomo come legame con l’uomo, come esserci dell’uomo per l’altro e dell’altro per lui. Karl Marx – Manoscritti economico-filosofici del 1844)

L’immagine ricorrente che il proletariato moderno più volte si è dato di sé, è quella di una identificazione analogica, non mitizzata con il popolo rosso, con gli indiani d’America. Questo non è casuale, così come non è casuale che questo “esercito” selvaggio che non riconosce altra legge, altra disciplina se non quella della distruzione dei rapporti sociali esistenti, mai si sia pensato, abbia avuto davanti il “déjà-vu” delle divise ordinate e pulite, dei capelli a spazzola, del “passo dell’oca” di una qualche piazza rossa che non gli appartiene, chi ha provato a limitarlo con un overdose-ideologica, alla fine si è ritrovato solo, e la siringa può usarla solo con se stesso, per trovare, costruirsi ancora una volta un paradiso artificiale, ideologico appunto, mentre iI proletariato costruisce il suo eden qua, ora; Macondo è la sua ‘utopia’. A chi ci obbietterà che questo è la fine di tutto, o in altra maniera che ‘non c’è più religione’ risponderemo che non è vero, che questa è la fine di tutte le religioni, di tutti i preti, di tutti gli inganni, che gli intellettuali organici e non li abbiamo seppelliti, che il loro mondo di morte, fatto di spaventi senza fine, non ci interessa, che noi siamo altro, Macondo appunto.

Ma torniamo agli indiani. Un proletariato che non ha passato ha trovato nel popolo rosso un’identità ideale. Come quello si sente colonizzato, come quello si sente accerchiato da una cultura che non gli appartiene, come quello trova, nella rivolta ultima e definitiva, l’unico modo per affermarsi. Ma non solo, egli riscopre dentro quella storia tutto quello che la società reificata da sempre gli nega, un rapporto uomo-natura e uomo-uomo, armonico e non antagonista, non mediato o meglio dominato dalla forma/merce.

Riscopre nel popolo rosso, il guerriero che sa parlare il linguaggio dell’amore, il cacciatore che ama e rispetta la sua selvaggina, il guerriero che sa anche piangere e commuoversi e che per poter commuoversi ancora una volta combatte fino all’ultima freccia, fino all’ultimo proiettile, fino ad attaccare i cannoni col solo coltello.
Come iI popolo rosso, il proletariato non può vivere sotto una dominazione-mediata, non c’è integrazione perché i due linguaggi non hanno segni in comune, o accetta di essere schiavo e fa ‘lo scout’ per la forma/merce tra le montagne e le praterie proletarie o abbandona la riserva, sconfina, inizia la rivolta. Come per l’uomo bianco l’unico indiano buono è quello morto, per il capitale l’unico proletario buono è il proletario zombie. Ma se la metropoli è una città di spettri, il proletariato ha già inventato la sua ‘danza degli spettri’, che lo rende invulnerabile ai proiettili ideologici.

È uno strano proletariato davvero, un proletariato che non ha seggi in parlamento, santi in paradiso, intellighenzia a cu i affidare i propri destini, un proletariato che non può essere rimodellato e manipolato, che non può essere allineato né come ‘l’esercito degli impiegati Ford’ né come l’esercito dello spettacolo socialista, è un proletariato che odia la finzione, lo spettacolo che non conosce, ma anzi abolisce ogni separatezza, arte e produzione, amore e guerra, gioco e fatica usciti dalla vita per essere ‘specializzati’ si ricompongono in lui, suonando la campana funebre per ogni specialista, come potrebbe un proletario così ‘barbaro’ accettare lo specialista per eccellenza: il politico? Infatti non lo sopporta, lo distrugge o lo ignora, lo calpesta o non risponde al richiamo sottile e mellifluo dell’ideologia.
Gli incendi di Detroit e Stettino, i saccheggi di New York e Danzica, inceneriscono e stritolano tutti gli ‘ismi’, uccidono il ‘sogno americano’ e il ‘sogno socialista’ e per il capitale rimangono solo i carri armati di colore diverso di segno identico.

È un’introduzione caotica, certamente, come è caotica la ricchezza che la ‘critica radicale’ alla società del capitale ha mostrato nel suo divenire. Possiamo provare a dare ordine, ma non troppo, a questo magma che dilaga tra le arterie inerti e pietrificate della metropoli, un ordine che è continuamente movimento e che non ama essere preso al laccio, come un branco selvaggio il proletariato ora fugge, ora travolge il mondo dell’apparente, ma non sempre gli riesce, il nemico è astuto, sa combinare forza e persuasione, intelligenza e inganno.

Chiude il proletariato in ‘riserve’ illudendolo di essere libero e quando anche questo non gli riesce lo cattura con ‘l’acqua di fuoco’ delle metropoli, l’alienazione dell’eroina. II proletariato si trova a combattere mille battaglie, perché l’agguato è dietro a ogni segno.

Possiamo grosso modo dividere in due periodi la storia di questo strano guerriero: il periodo della rivolta negativa, il periodo della guerra di liberazione.
(I can’t get no) Satisfaction era l’inno di guerra più amato e sentito del proletariato moderno degli anni ’60, non ce ne stupiamo di certo. Sono gli anni dell’ultima rottura, quella che vede sempre più il movimento operaio diventare una variabile del capitale (fino a diventarne il suo stato dentro la classe), e il formarsi dell’altro movimento, il proletario senza antenati. Sono gli anni in cui la tradizione dell’internazionale comunista è solo un appello, un ricordo della preistoria, un limite al divenire stesso della rivoluzione. È in questi anni che inizia a darsi un processo di transizione della preistoria alla storia, quella dell’uomo sociale che distrugge spettri e fantasmi. È una rottura violenta non sempre capitale, specialmente se si guarda il movimento reale con la lente dell’ideologia.

Eppure, nella sua immediatezza, la classe parlava chiaro; il nemico non era più solo quello classico, il padrone, il capo, il poliziotto, il politico borghese; lo diventava anche il sindacato, mediatore del prezzo della schiavitù; il partito operaio, teso a guidare una società a lui estranea e nemica, erano tutti quelli che non capivano o non volevano capire che il proletariato da classe per sé, inizia a diventare classe contro di sé, che il suo fine è negarsi come proletariato per affermarsi come uomo sociale, come classe universale liberata. Non solo, il nemico era diventato tutto l’esistente, perché qua dentro era impossibile “trovare soddisfazione”, ecco che come per incanto non sono il pane e lavoro a scuotere e infiammare il cuore proletario, pane e lavoro che rimandano a un mondo di tristezza senza fine, è il bisogno di prendere in mano la propria vita, il proprio quotidiano di rimodellare la società senza l’utopia di un ‘uso proletario’, della miseria capitalistica.

C’è in pratica la negazione di tutte le ipotesi ‘tempiste’ che i cattedratici non potranno mai capire, ma è ovvio il ‘profeta’ più vero e immediato della classe, non sta in qualche biblioteca ammuffita ad aspettare Lenin. È in mezzo ai parchi e alle piazze, è un tale Jim Morrison, che con la sua voce unica, urla, grida, minaccia: “Vogliamo iI mondo, lo vogliamo ora”. A Mirafiori più o meno contemporaneamente gli operai gridavano: “Cosa vogliamo: vogliamo tutto”. Ma abbiamo saltato qualche passaggio. Stiamo già arrivando alla fase della progettualità, del divenire positivo della rivolta proletaria.

Negli anni ’60, benché poi certe forme continuino a rimanere, vi è un carattere prevalentemente distruttivo, puramente ‘negativo’ del movimento. Questo è capitale e anche necessario.

Come un monello il proletariato moderno cresce nella strada, non sopporta la scuola e i bambini che la popolano, non assomiglia neppure ai bambini tristi della scuola pianificata; insomma, percepisce quello che non vuole essere, più in là non riesce ancora ad andare, le volte che e prova e s’inventa un qualche ‘suo’ modello è un fallimento, tutta la storia della comunità, della società underground ne sono una conferma, perciò quello che si massifica è solo l’odio distruttivo. Odio che viene esercitato/praticato come classe, mentre quando si guarda alla propria vita, ai propri giorni, si ricade spesso e volentieri nel soggettivismo, o, per dirla tutta, nell’individualismo, nel senso che si prova a ‘inventare’ isole comuniste; dentro la società reificata si cercano le mille scappatoie per fuggire al lavoro, diventando extralegale anche per scelta oltre che per necessità, si cerca di procurarsi/comprarsi la maggior quantità di tempo liberato, non lavorato, dimenticando o volendo dimenticare che anche questo è tempo del capitale. Si cerca infine di creare rapporti qualitativamente nuovi, con altri soggetti, finendo non di rado con l’impazzirci dentro. Ma questa contraddizione ha una ricchezza infinita, ha in sé i germi per farsi progetto, per ridiventare ‘politica’ nell’ultima forma storicamente possibile.

Tra iI ’60 ed il ’70, il proletariato moderno ha costruito le sue prime forme di linguaggio, di comunicazione, la sua prima cultura trasgressiva; il capitale proverà, a volte riuscendovi, a riciclare anche questa nella sua logica, creando “l’industria della trasgressione”, ma questo è un altro discorso che ora non c’entra. Questi dieci anni sono stati attraversati dai più svariati ‘stati d’animo’. E l’instabilità che contraddistingue una rivolta puramente ‘negativa’. Dalla rabbia collettiva di Satisfaction, da questo inno di rivolta che il proletariato urla quando saccheggi le metropoli o critica a modo suo la fabbrica, si passa a Blowin’ in the wind al momento cioè in cui questo strano guerriero interroga se stesso, e non può che affidare al vento le mille risposte o più semplicemente la risposta che cerca, per arrivare a Mister Tambourine Man, l’inno privato di questo soggetto sempre più strano che quando non distrugge, può solo cercare, aspettare il venditore di ‘roba’ per regalarsi un altro sogno, un’altra notte magica, che non trova nella realtà. Dentro questa instabilità arriva a volte a farsi egemonizzare da un Let it be che sembra quasi una dichiarazione di resa, per esplodere con la triade maledetta, le tre J, che sono il momento di passaggio della rivolta negativa, al divenire della dialettica distruzione/costruzione.
Nell’anno nero del ’70 muoiono Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, la ‘poesia’, la ‘musica’, la ‘politica’ della cultura trasgressiva, una tristezza senza fine avvolgerà il mondo per un attimo.

La ‘triade maledetta’ muore, si autodistrugge, perché è arrivata a una contraddizione così lacerante che non ha soluzione se non nella fine di ogni dialettica, la morte.

Ma questi nomi che rimarranno sempre dentro di noi, dentro tutti quelli che iI comunismo lo hanno nel cuore, prima ancora che nel cervello, hanno aperto una strada che percorreremo fino in fondo. Nei loro corpi, nella loro mente, si sviluppano, si combattono fino in fondo, fino alia schizofrenia, tutte le contraddizioni di un decennio, espressioni di un linguaggio di rottura, si ritrovano essi stessi a diventare nuovi modelli normativi, espressioni di una cultura che vive nei ghetti, nelle fabbriche, nelle galere, si ritrovano completamente assorbiti dentro la faraonica industria musicale, simbolo della moderna e attuale gioventù della rivolta, si ritrovano ad essere stereotipo dell’eterna rivolta della gioventù: tutto questo dentro un corpo, dentro un cervello, reggeranno ancora un attimo, cercando con l’aiuto di intrugli esplosivi, di salvarsi come forma ‘d’arte’, provando così a stare fuori dalla mischia. Quando capiscono che ciò non è possibile, non è dato, non si vendono all’uomo bianco, preferiscono farla finita. E qua si chiude il ciclo con iI popolo rosso. Come gli indiani non potevano accettare la prigionia e, se catturati, quasi sempre evadevano o si lasciavano morire, così il proletariato moderno non conosce forme di ‘libertà coatta’, di ‘semilibertà’ o ‘libertà vigilata’. Non ha mediazioni: o negandosi diventa soggetto, recupera, inventa, crea la sua umanità o non è altro che capitale variabile.

“NON SI PUO’ FERMARE IL VENTO, NON SI PUO’ FERMARE IL TEMPO…!!!
L’autodistruzione delle tre J, la musica che accompagna il loro ultimo ‘viaggio’ è un messaggio pieno di implicazioni, di limiti, di pericoli ma soprattutto di possibilità che il proletariato moderno, ma non meno il capitale, percepiranno.

La ‘triade maledetta’ è la fine di un sogno, ma un sogno che non si spezza, è un flirt che muore perché trova il ‘grande amore’, è il monello che inizia a farsi grande, che deve porsi altri problemi, che non può non limitarsi a distruggere, calpestare tutto ciò che lo opprime, perché questo non basta perché se la distruzione, la negatività è l’inizio della liberazione, se non instaura un permanente dualismo di potere dentro la società, tutta la sua carica tende a disperdersi, non ha soluzione o peggio può essere integrata, riciclata dentro la piovra-capitale, che ha o sta imparando a stravolgere anche l’emozionalità, il desiderante dentro la forma/merce.

I suoni — che mai nessuno riuscirà più a ripetere — che escono dalla chitarra ‘impazzita’ di Hendrix, la magia che percorre le sue dita, di cui lui stesso ha una coscienza limitata, e a chi glielo domanderà non sarà in grado si svelare da dove saltano fuori certi ‘passaggi’, sono al contempo la fine di una storia, ma anche il dispiegarsi delle immense possibilità, che il proletariato moderno ha di fronte a sé, la possibilità di trasformare le rivolte spontanee, immediate, nell’ultima rivolta, quella che seppellisce la forma/merce nel museo degli orrori.

La musica di Hendrix si separa dal suo corpo, dal suo cervello, egli può solo percepirla, buttarla lì; il suo corpo è come quello di una madre che muore nel momento del parto, trasmette le caratteristiche genetiche alla vita, nel momento che muore dà impulso a ciò che sarà, lo racchiude in sé, ma saranno altri che percorreranno il sentiero della liberazione.

Noi chiamiamo guerra di liberazione proletaria la forma che la lotta di classe assume nell’epoca del dominio reale del capitale, perché in quest’epoca la condizione di vita dei proletari è quella di colonizzati prigionieri dentro la forma/merce in ogni ambito delta vita sociale. Di più: in questa fase l’intera giornata sociale diventa tempo del capitale, il proletariato, anche fuori del rapporto di produzione, non inizia mai una ‘sua’ vita, perché ogni rapporto sociale è sussunto dal capitale stesso, e l’unica vita che può vivere è quella funzionalizzata al capitale. Ciò che ne deriva, però, è che tra proletariato e borghesia esiste un rapporto di antagonismo assoluto, dentro e contro tutti gli aspetti della formazione economico sociale. Questo seppellisce, ed era ora, la “sacralità del rapporto struttura-sovrastruttura” ed ogni mediazione del politico rispetto al divenire della rivoluzione sociale. Ciò che l’ottusità terzo-internazionalista, non capiva, e non ce ne stupiamo, era proprio questo passaggio oggettivo, ciò che non capiva era che il mondo non si stava popolando di spettri piccolo-borghesi con il trip “esistenziale” ma di proletari che volevano cambiare la vita, prima che la vita cambiasse loro.

Sarebbe stato anche relativamente semplice capire che tutta questa proliferazione di ‘piccola-borghesia’ era un po’ sospetta, e comunque difficile da trovare nelle fabbriche, nei ghetti, nelle galere, o forse molto più semplicemente era la paura, iI terrore che il proletariato, elevando la ricchezza e la qualità dei suoi bisogni, si liberasse anche degli organizzatori dello spettacolo della liberazione.

Abbiamo lasciato questo strano proletariato, alle prese con se stesso, a cercare la risposta nel vento; lo ritroveremo di lì a poco con le armi in pugno prendere a calci e non solo ogni fantasma del passato. Ma ancora una volta il nemico non rimane a guardare, come il proletariato raccoglie il canto di vita che sta nella morte dei tre J, così il capitale comprende, percepisce, e neanche poco, che quell’inno di guerra può essere la sua morte, che la ‘danza degli spettri’ che si sta ballando nelle metropoli sarà la sua tomba. Piovra e camaleonte allo stesso tempo, corre ai ripari, sull’instabilità del proletariato della negazione, crea l’industria della trasgressione, per spezzare, annullare, privare quanto di nuovo, di rivoluzionario, di trasgressivo e trasgredente il linguaggio del proletariato si era dato; non solo, il progetto era ancora più ambizioso, si tratta di guidare, panificare, controllare anche la sfera dell’emotività, dell’io desiderante della classe, del suo bisogno ‘estetico’, insomma: si tratta di voler dare al proletariato, costruendogliela, una cultura trasgressiva ma già normata, dargli un’altra riserva in cui seppellirlo, dargli l’illusione di star cambiando la vita, mentre è solo la logica mortuaria della mercificazione che guida questa operazione.

E su questo terreno, diciamolo, si sono perse non poche battaglie. Nell’ultimo decennio non si è mai data una forma unificante di questo strano proletariato in termini di linguaggio, non c’è un inno che abbia raccolto i cuori, le emozioni, la rabbia di tutta una classe, un linguaggio che abbia saputo/potuto legare, comunicare immediatamente, perché ogni volta che emergeva veniva puntualmente imbastardito, manipolato dall’industria delle trasgressioni, la quale, da una parte ha cercato di dare contenuti puramente ‘artistici’ a ciò te era altro, dall’altro, ha dettato nella rete della comunicazione trasgressiva i propri mostri costruiti in laboratorio. Patti Smith, tanto per citare il caso limite.

Qua bisogna essere chiari e non farsi imbambolare dalla borghesia. La partita non si gioca solo ed unicamente sul piano ‘estetico’: questo è un limite, una restituzione, un confine della società dello spettacolo, dove la borghesia può fare il bello ed il cattivo tempo come e quando vuole. II ‘nuovo’ non è un problema tecnico, sono anni che la borghesia sperimenta nuove forme di comunicazione musicale, per ora destinate solo agli addetti ai lavori, come ad es. la musica dodecafonica, e questo da un punto di vista del ‘nuovo’ è senz’altro il ‘meglio’ che c’è, peccato però che sia un prodotto uscito dai laboratori e non dalla strada.

II nuovo che c’interessa è quello che il ‘linguaggio’ on the road si dà, che questo proletariato/indiano costruisce, inventa dentro le sue praterie: le arterie metropolitana.
II resto è ancora una volta spettacolo, trasgressione sì, ma normata e compatibile, dobbiamo ballare ancora una volta e con più rabbia la nostra ‘danza degli spettri’ perché i proiettili dell’ideologia ci stanno perforando.

II mondo della rappresentazione non è sempre facile riconoscerlo; la sua critica ancora più difficile. La comunicazione trasgressiva è altro ed è difficile riallacciarla, proprio perché il potere fa di tutto per impedirla, camuffarla, ricondurla dentro i propri ambiti. Proprio l’oggi ne è un esempio macroscopico, ma che fortunatamente offre entrambe le valenze: la trasgressione normata e quella rivoluzionaria.

II capitale ha fatto sforzi veramente immani a proposito, ha costruito l’immagine del proletariato demenziale, in decomposizione, in perfetta sintonia con ciò che è diventata la metropoli, una società di rifiuti i cui abitanti si cibano di questi. Questa è l’immagine, iI bisogno che il capitale ha di vedere, ridurre il proletariato rivoluzionario. Questa è la riserva in cui lo deve rinchiudere per non fargli più trovare l’ascia di guerra. Un proletariato demenziale, che non sconfina, prigioniero di un linguaggio che ha fatto della incomunicabilità la sua forma più elevata.

No, non è questo che ci appartiene, non sono questi suoni privi di vita, d’amore ma carichi solo di morte, di abbandono, ciò che il proletariato comunica nella sua guerra di liberazione. Brixton ne è un esempio, l’inno-manifesto della rivolta ‘la città degli spettri’ è un reggae, e qua ogni cosa torna al suo posto.

Un reggae, e non un punk rock scatenato o altro, perché? Perché il linguaggio, la comunicazione, questo strano guerriero, se la costruisce, la crea mentre produce la sua storia. Perché la trova dentro le forme che immediatamente visualizzano le emozioni, i bisogni, i progetti che un pezzo di questa guerra gli dà, non se lo va a cercare nelle ambigue riviste specializzate, è il suo punto di vista che esprime, non quello del capitale, proprio perché il suo percorso è dentro la logica distruzione/costruzione, riempie la musica di progetto, va oltre la negazione, virtualmente fa vivere un inno, la sua visione della società, e la sua visione non è certo quella della decomposizione, non è certo quella di un linguaggio neutro, robotizzato, al contrario è linguaggio sociale che nel presente trasmette il futuro, è il ‘nuovo’ perché è il nuovo livello raggiunto dalla guerra di liberazione proletaria, non perché la ricerca estetica è andata un po’ avanti, non c’è continuità tra l’alienazione capitalista e la felicità (intesa come insieme dei sentimenti, delle emozioni umane e quindi anche come tristezza e, perché no, dolore) comunista. C’è rottura; al contrario della borghesia, il proletariato comunica la fine delle separatezze, non la sua estrema dilatazione, così come iI guerrigliero metropolitano non è la forma perfezionata delle ‘teste di cuoio’, così il linguaggio trasgressivo, non è l’estensione sociale delle ricerche di laboratorio.

Proprio per questa guerra continua tra trasgressione e sua norma, diventa praticamente impossibile ripetere il lavoro sullo schema della prima parte; possiamo solo trovare dei filoni, degli spezzoni qua e là, a volte con carattere solamente locale (certe espressioni contemporanee del la ‘musica napoletana’ tanto per dirne una) di questo linguaggio che è altro; della musicabilità della guerra proletaria. Da qui la quotidianità della lotta contro l’industria della trasgressione, la sua articolazione immediata nella metropoli: i modelli normati della trasgressione.

Passare dalla rivolta negativa, alla guerra di liberazione, vuol dire anche porsi il problema di costruire modelli ‘alternativi’ a quelli dati; questo è ancora più vero se si pensa che il quotidiano e la famiglia sono stati e sono dei pilastri della critica radicale. Ma questo terreno è estremamente complesso, e continuamente in movimento, la capacita di recupero del capitale enorme, è una continua corsa che ha i ritmi dello sprinter, dobbiamo partire da una angolatura precisa, se non vogliamo perderci in un labirinto dalle mille insidie.

I modelli della trasgressione si danno sempre come relativi e in mutazione permanente, volerli fissare significa già farli morire, relegarli al capitale, pietrificarli, rendere inerte ciò che è vita e quindi in continuo movimento. In altre parole si possono scrivere solo se intrecciati alla transizione, solo se visti dentro questo percorso.

L’intreccio dei rapporti fra i soggetti che trasgrediscono è la continua sperimentazione che fa vivere la sfera dell’emotività, della sessualità, dell’ “arte” che ridiventa vita, dentro forme che non siano lo stereotipo della spettacolarità e quindi finzione, dell’esistente capitalista; e I’ “utopia” situazionista di raggiungere un linguaggio privo di parola, perché ogni detto diventa freno di un dirsi liberato. Non possiamo sottoscrivere appieno questa tesi: ciò che però ci interessa è la ricerca di un comunicare che non è dialogo, scambio già dato, già scontato, un comunicare che non sia la somma delle varie ‘banalitá di base’, ma il reciproco trasmettersi/conoscersi dell’uomo poliritmico che ritrova identità nella diversità. Ciò che ci interessa di questa ‘utopia’, è il volersi costruire come soggetti collettivi, non mutilati, che sanno comunicare/comunicarsi percorrendo tutti i sentieri, ricoprendoli, reinventandoli, della comunicazione non normata.

Come leggere, se non dentro questa logica, la teoria del linguaggio dei corpi, come leggere la ‘riscoperta del corpo’ se non come bisogno/necessità di rompere anche le separatezze, le schizofrenie che il dominio capitalista impone agli stessi corpi? Si potrà obbiettare che su questi, come su mille cose del resto, i vari “ismi”, i vari specialisti di turno vi hanno impiantato su chili, se non quintali di merda ideologica, snaturandone i contenuti, salvandone la forma; questo è un gioco non solo vecchio, ma è la sola forma che la borghesia ha per mantenersi come classe dominante, fare propri i modelli rivoluzionari, snaturandoli e mercificandoli, per trovargli un mercato e venderli; il risultato sarà quello di una conchiglia uccisa e svuotata, senza non ha più vita, nonostante il suo fascino rimanga inalterato.

Questo non è poi diverso da operazioni a cui da tempo siamo abituati, contrapporre ciò che ormai si è assimilato che si conosce, che e controllabile, al nuovo che spaventa, contrapporre i ragazzi del ’68 (buoni e impegnati) a quelli del ’77 (cattivi e dissacratori) tanto per fare un esempio chiaro a tutti; è il gioco di voler pietrificare uno stadio della lotta di classe ormai assorbito e riciclato, per utilizzarlo contro ciò che ora invece è vita.

È una lotta tutta in difesa quella che la borghesia deve giocare, perché la creatività dell’uomo nuovo, multidimensionale e poliritmico non si fa chiudere in forme pietrificate, sconfina continuamente dalle riserve, combatte dentro e contro tutti i rapporti sociali, è un esercito che combatte, ama, canta, balla, rinnova continuamente ‘divise’, linguaggio, che quando credi di averlo preso e catturato è già evaso, si è già trasformato. Questa l’immensa ricchezza, questa capacità/potenzialità può avere un solo ostacolo, un solo confine: la capacità o meno di saper osare, di voler osare di chi questo processo lo deve storicamente rendere cosciente. II vero pericolo è di voler confinare questa ricchezza, senza parametri storici, ricchezza che ha distrutto ogni certezza, dentro dei limiti che, se offrono delle garanzie, sono solo la garanzia della noia organizzata.

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Occhio attonito e gambe di donna https://www.carmillaonline.com/2025/12/16/occhio-attonito-e-gambe-di-donna/ Tue, 16 Dec 2025 21:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91713 di Franco Pezzini

David Pinner, Ritual, ed. orig. 1967, pp. 286, € 17, trad. di Stefania Renzetti, Agenzia Alcatraz, Milano 2025.

Testimonia l’amico Fabrizio Foni, che insegna all’Università di Malta e ha avuto l’onore di aver lì ospite l’anziano regista Robin Hardy (1929-2016) poco prima che mancasse, la straordinaria disponibilità e cortesia del vecchio gentiluomo nel rapportarsi non solo ai docenti e al personale di segreteria, ma agli studenti. In un mondo dove il sussiego e la boria dilagano sui social, l’umanità elegante del regista di The Wicker Man, 1973 – forse il più bel film horror britannico e uno [...]]]> di Franco Pezzini

David Pinner, Ritual, ed. orig. 1967, pp. 286, € 17, trad. di Stefania Renzetti, Agenzia Alcatraz, Milano 2025.

Testimonia l’amico Fabrizio Foni, che insegna all’Università di Malta e ha avuto l’onore di aver lì ospite l’anziano regista Robin Hardy (1929-2016) poco prima che mancasse, la straordinaria disponibilità e cortesia del vecchio gentiluomo nel rapportarsi non solo ai docenti e al personale di segreteria, ma agli studenti. In un mondo dove il sussiego e la boria dilagano sui social, l’umanità elegante del regista di The Wicker Man, 1973 – forse il più bel film horror britannico e uno dei più belli di tutti i tempi, certamente il più amato dal mattatore Christopher Lee e oggetto di un vero e proprio mito filmico – colpisce e affascina.
Restaurato, il film è stato proposto nell’aprile 2024 dal TOHorror Film Festival al cinema Massimo di Torino permettendo di godere su grande schermo – occasione rara, in Italia – questo capolavoro assoluto: un film dove è splendido tutto, dall’intelligente e crudele sceneggiatura di Anthony Shaffer, alla favolosa fotografia di Harry Waxman, all’incredibile colonna sonora di Paul Giovanni e Gary Carpenter. E le interpretazioni, poi: Lee rende il villain con scatenata gigioneria (canta, balla…) e vorrebbe l’amico Peter Cushing nella parte del religiosissimo poliziotto protagonista – che finisce sacrificato in un rituale pagano tra le maglie dell’uomo di vimini. Cushing è però occupato su altro, perdendo in tal modo un ruolo in cui sarebbe risultato grandioso: gli subentra – peraltro con grande professionalità – un intenso Edward Woodward. In ogni caso, l’atmosfera del film è indimenticabile, e rappresenta un vero e proprio marcatore d’epoca – a richiamarne le inquietudini, i desideri inconfessabili, le fascinazioni culturali (anche peculiarmente britanniche). D’altronde The Wicker Man è un film che fa paura ai censori, e nell’Italietta d’epoca non arriva in sala.
Sarebbe ingiusto ridurre Hardy – come a volte accade con autori di capolavori – a regista essenzialmente unius operae, anche se è vero che il resto rimane minore. Persino la coppia di film proposti a formare con l’apripista del 1973 una trilogia sul revival pagano (uno realizzato, The Wicker Tree, 2011, di nuovo con Lee in un cameo – dal romanzo Cowboys for Christ dello stesso regista, 2006 – e un altro in progettazione al tempo della sua morte, The Wrath of the Gods) non presentano la forza fulminante del primo, pur svelando le qualità visionarie del timoniere. Non sono comunque sequel, mentre quello totalmente folle ipotizzato in uno script dello sceneggiatore Shaffer – e che lasciava Hardy piuttosto tiepido –, The Loathsome Lambton Worm, forse fortunatamente non è stato realizzato. Dimenticabile è invece il remake americano Il prescelto (The Wicker Man) di Neil LaBute, 2006, con Nicolas Cage.
Ma sia il film di Hardy che il pallido remake di LaBute menzionano come testo ispiratore il romanzo Ritual dell’attore, drammaturgo e romanziere inglese David Pinner (classe 1940), apparso nel 1967 con una strana, disturbante copertina: un pezzo di legno sagomato spalanca al centro un occhio attonito, mentre la parte superiore sembrare mostrare capovolte delle gambe di donna con tanto di pube. Un seguito tardivo, The Wicca Woman, comparirà nel 2014.
Ora Ritual appare finalmente in Italia (senza la descritta copertina), proposto meritoriamente da Agenzia Alcatraz, e leggendolo capiamo il livello di libertà giocate da Hardy e Shaffer, a fronte di quella che è nei fatti un’altra storia, pur con alcuni punti forti comuni. A partire da un’atmosfera generale di sopravvivenza pagana, che permette di riconoscere a Ritual un ruolo pionieristico nello sviluppo del Folk Horror e lo colloca (con altre testimonianze d’epoca o precedenti, basti pensare a certe opere di Dennis Wheatley o al film del 1957 Curse of the DemonLa notte del demonio – di Jacques Tourneur ispirato a M. R. James) tra i prodromi di quel revival magico e pagano anglosassone consacrato pochi anni dopo dall’uscita della monumentale, epocale enciclopedia Man, Myth & Magic, 1970. Va detto che un certo sottomondo tradizionale inglese lì semplicemente erompe alla pubblica attenzione, come in generale nel più ampio panorama di quel revival che Margaret Murray (1863-1963) non arriva a vedere:

La quercia era molto antica. Uno dei suoi rami più bassi era stato spezzato di recente e, circa un metro e mezzo più giù, una testa di scimmia e tre fiori d’aglio erano stati fissati al tronco con uno spillone da cappello. Eppure la bambina, addormentata alla sua ombra, sembrava ignara dell’albero e delle sue strane decorazioni. Non si accorse nemmeno del corvo che stava volando verso di lei. Non si accorse di nulla, mentre il sangue le sussurrava tra i denti e le scivolava lungo la gola. Presto le rigò i capelli color grano, ma lei continuò a non accorgersi di niente. Non stava dormendo. Dian Spark aveva otto anni ed era decisamente morta.

Leggendo il macabro avvio di Ritual, con oggetti rituali affissi a una quercia, è in effetti inevitabile pensare a certi servizi della BBC di poco precedenti, come 1964: A Curious Case of Black Magic in Norfolk, che potrebbero aver contribuito all’ispirazione dell’autore e lasciano ampie tracce (bamboline rituali, materiali vari) nel meraviglioso Museum of Witchcraft and Magic di Boscastle, nella stessa Cornovaglia del romanzo.
Un contesto insomma di assoluto fascino che rappresenta un motivo in più per avvicinare questo Ritual, scoprendovi tasselli poi ripresi liberamente nel film: un poliziotto puritano che indaga sulla scomparsa – qui morte – di una bambina in un villaggio isolato – non nelle Ebridi ma in Cornovaglia – ritrovandosi alle prese con pagani usi a riti sessuali; un pittoresco negozio che vende anche dolciumi; una ragazza disinibita che dalla propria stanza suscita in lui turbamenti notturni; costumi rituali con teste di animali… Ma ci sono anche punti di distanza: qui non troviamo il carismatico Lord Summerisle di Lee ma uno Squire ridotto in miseria, in tandem con un losco attore in pensione; non c’è una comunità compatta ma un groviglio di figure in tensione, unite dall’omertà; e il finale è piuttosto diverso. Il protagonista David Hanlin, del resto, non è il nervoso, onesto sergente Neil Howie del film di Hardy, ma un nevrotico assai più frantumato interiormente: il progetto iniziale concepito come trattamento cinematografico nel 1966 in piena Swinging London – e in cui Pinner aveva voluto mixare una storia dell’occulto con un poliziesco – era stato considerato con favore dal regista Michael Winner, e l’interprete poteva essere John Hurt. Ma poi Winner s’era ritratto considerando il trattamento “troppo ricco di immagini” (in realtà un pregio che da lettori apprezziamo moltissimo), e, su consiglio del suo agente Jonathan Clowes, Pinner ne aveva tratto un romanzo. Dedicandolo proprio a Clowes, come vediamo qui in capo al testo.
Mentre poi in The Wicker Man brillano fotografia e musica, in questo caso a colpire è una scrittura sopra le righe come il poliziotto di cui segue le derive, ispida e visionaria, psichedelica, davvero molto interessante: trovate espressive folgoranti, un vago feroce sarcasmo, un passo che svela la lunga frequentazione professionale con il teatro. La lettura è una festa – pagana, ovviamente.

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Voci dal fronte degli invisibili. https://www.carmillaonline.com/2025/12/16/voci-dal-fronte-degli-invisibili/ Mon, 15 Dec 2025 23:23:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91927 Di Jack Orlando

Sara Reginella; Il Fronte degli invisibili; Exorma Edizioni; Roma 2025; 260 pp. 16,90€

Dal 2022, con lo scoppio della guerra, il Donbass è diventato una terra proibita per i testimoni occidentali. Non che prima fosse sulle prime pagine ma la caccia ai filoputiniani e la conseguente russofobia hanno avvelenato il discorso pubblico.

Tra i pochi testimoni che hanno raccontato dal campo le vicende della popolazione delle due repubbliche separate di Donetsk e Lugansk c’è Sara Reginella, reduce ormai di diversi viaggi. L’ultimo dei quali è raccolto ne “Il fronte degli invisibili”, un volume a metà tra [...]]]> Di Jack Orlando

Sara Reginella; Il Fronte degli invisibili; Exorma Edizioni; Roma 2025; 260 pp. 16,90€

Dal 2022, con lo scoppio della guerra, il Donbass è diventato una terra proibita per i testimoni occidentali. Non che prima fosse sulle prime pagine ma la caccia ai filoputiniani e la conseguente russofobia hanno avvelenato il discorso pubblico.

Tra i pochi testimoni che hanno raccontato dal campo le vicende della popolazione delle due repubbliche separate di Donetsk e Lugansk c’è Sara Reginella, reduce ormai di diversi viaggi. L’ultimo dei quali è raccolto ne “Il fronte degli invisibili”, un volume a metà tra il reportage e il diario di viaggio sentimentale.

Non cerca l’imparzialità; anzi, è chiara la sua affezione al mondo russo. Un’affezione però che non è da propagandista, ma da chi trova casa in una cultura e un luogo lontani da quello natio. Non a caso, infatti, il volume è un continuo gioco di rimandi tra le scene raccontate in presa diretta – tra le persone che vivono vicino alla linea del fronte, a ridosso delle trincee e sotto i bombardamenti – e i propri ricordi d’infanzia, ponti che si creano nella sua vicenda personale tra le geografie dell’Anconetano e quelle di Donetsk.

Ciò che rende interessante il volume è uno sguardo rivolto non tanto alla ricostruzione storica o geopolitica, né agli sviluppi della guerra sul fronte. Sono poche le testimonianze dei generali; piuttosto, quello che emerge è il ritratto delle famiglie, delle persone comuni, storie di lutti personali e aspirazioni frustrate, voci di chi lavora, vive e muore sul fronte senza indossare la divisa. Di quelle persone sulle cui teste si decidono i rapporti di forza delle grandi potenze.

Nei racconti di questi soggetti emerge la concretezza di ciò che significa vivere in guerra.
Viene restituita la realtà dei pensieri e delle ambizioni di una fetta di popolazione che i nostri media hanno rapidamente etichettato come filorussi senza tenere in considerazione, minimamente, le storie di quei territori, le differenti memorie ed eredità che vivono nelle menti di quei cittadini. Nati e cresciuti nello spazio post-sovietico, l’identità di ciascuno è segnata dalla storia del crollo dell’Unione Sovietica e da una vertiginosa quanto drammatica fine di un mondo che ancora non è riuscito a rimettere in equilibrio i propri pezzi.

Attraverso il racconto di Reginella e le altre testimonianze della vita sui due lati del fronte – dal punto di vista delle persone comuni e dei soldati di fanteria – ci si può affacciare oltre le retoriche belliche e dare corpo a questioni geopolitiche che altrimenti restano astratte e imperscrutabili in tutta la loro sterile crudeltà.
La realtà non fa male quando è ridotta a numeri e formule, il sangue lo restituiscono solo le storie.

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La rivoluzione come una bella avventura / 8 – Os Cangaceiros: storia di vite in fuga, sabotaggi, carte false e rock’n’roll https://www.carmillaonline.com/2025/12/14/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-8-os-cangaceiros-storia-di-vite-in-fuga-sabotaggi-carte-false-e-rocknroll/ Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91792 di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente [...]]]> di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente rubato ad una scritta comparsa su un muro di Marsiglia agli inizi degli anni ’80, per comprendere appieno il significato di un testo straordinario, provocatorio, irridente e unico come l’esperienza di cui traccia il percorso e la storia, sia collettiva che individuale. Un’autentica, e spesso esilarante, storia di vite fuggiasche per scelta e di rivolte sociali spontanee e imprevedibili.

Storie in cui la tradizione millenarista si sposa con uno sguardo disincantato, maturo e attualissimo sulle contraddizioni del capitalismo degli ultimi decenni del XX secolo e del contemporaneo disfacimento della classe operaia europea, delle sue ultime lotte e delle sue sconfitte. Lotte e sconfitte, come nel caso di quelle dei minatori inglesi in epoca tatcheriana, che mescolavano tra loro forti tradizioni identitarie frammiste ad una fiducia nel ruolo dei sindacati che avrebbe contribuito a bruciarle. Sia sul fronte del lavoro che su quello politico.

Una storia, quella del collettivo francese Os Cangaceiros, di cui l’autore è stato a lungo uno degli esponenti, in cui la scelta della fuga è dettata, ancor prima che dalle finali indagini poliziesche, da una voglia di vivere tesa a superare tutti gli ostacoli che gli attuali rapporti di produzione sociali ed economici frappongono alla realizzazione di un’esistenza libera, totale e felice.

In questa scelta si è manifestata apertamente una passione politica non dettata dall’ideologia e dai racket politici e sindacali che se ne sono fatti portavoce, ma da una necessità autenticamente biologica e collettiva che il termine fin troppo abusato di biopolitica non è sufficiente per riassumerne tutte le sue implicazioni sociali, culturali, economiche e, soprattutto, di vita, lotta e rivolta.

Una necessità di allontanamento dalle leggi del Capitale e dei suoi servi, anche quando apparentemente schierati su “posizioni di classe”, che si manifesta non in comportamenti codificati una volta per tutte, come le regole dell’”impegno politico” vorrebbero imporre attraverso il “racket partito” o le sue emanazioni aspiranti marxiste, ma in esplosioni improvvise, individuali e collettive, con un’energia che per decenni ha trovato la sua pubblica e più facilmente identificabile manifestazione nel rock’n’roll e nella musica che affonda le sue radici nel delta del Mississippi: il blues.

«Abbiamo sempre vissuto più o meno in fuga», afferma Alessi mentre racconta le disavventure e le indagini poliziesche che sul finire degli anni Ottanta pesarono sui membri attivi del gruppo. Ma rifiutando le logiche utilitaristiche, spesso messe in atto dai latitanti delle organizzazioni armate, che finivano, pur «mantenendo tutte le dovute proporzioni, nella logica puramente militare di una truppa che vive a spese del paese e dei suoi abitanti», Os Cangaceiros scelsero una particolare forma di fuga che:

invece, deve essere pensata in una prospettiva rivoluzionaria, non in una prospettiva utilitarista che rischia di farci diventare sordi nei confronti del mondo. Il che presuppone anche che la fuga non sia vissuta come un dato contingente (una volta nel mirino degli sbirri, bisogna scappare in fretta e furia e trovare un rifugio costi quel che costi), ma come l’elemento stesso in cui ci si muove, come un rapporto al mondo che si costruisce con pazienza e ostinazione. Allora la fuga non viene vissuta come una conseguenza fastidiosa, ma come l’essenza stessa del proprio agire. Hegel ha detto che essere liberi significa muoversi nel proprio elemento. La fuga era il nostro elemento1.

Una fuga che, anche se rivisitata nelle pagine finali del testo di Dell’Umbria, non faceva altro che sottolineare come per il capitale e i suoi servi, di ogni colore politico, sia proprio la libertà collettiva di coloro che dovrebbero invece solo e sempre adeguarsi alle loro leggi a costituire il crimine fondamentale, cosa che fa sì che siano la repressione e la carcerazione gli unici strumenti con cui lo Stato risponde a tale innata necessità della specie2. Strumenti che Os Cangaceiros, nel periodo intercorso tra la formazione del gruppo nel 1984 e la scelta di sciogliersi nei primi anni Novanta, sempre denunciarono e contribuirono a sabotare con mezzi alla portata di tutti.

Una scelta che, nonostante il tentativo dello Stato francese e dei suoi governi di accomunarli alle formazioni armate, fece in modo che i suoi appartenenti, spesso nomadi per scelta o per necessità, rifiutassero sempre non tanto la logica delle armi quanto piuttosto le logiche politiche imposte dall’uso delle armi alle formazioni clandestine militarizzate.

Puntare un’arma può effettivamente semplificare una situazione, ma al prezzo di altre complicazioni molto spesso più pesanti da assumere… In ogni caso, negli anni Settanta abbiamo visto troppe sbandate finite nel sangue per non sapere che dal momento in cui si prendono le armi, l’improvvisazione e il dilettantismo si pagano sempre cari. I combattenti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che uscivano allo scoperto all’inizio del 1994, si erano invece preparati metodicamente per anni prima di fare irruzione armati nelle città del Chiapas. Ma di queste armi, hanno sempre cercato di farne un uso strategico, ovvero meditato.
Non avevamo una posizione di principio riguardo il ricorso alle armi. Ciò che rifiutavamo in modo assoluto, era l’avanguardismo militante delle organizzazioni impegnate nella lotta armata. Se gente così diversa, – come per esempio Jacques Mesrine, i tre di Nantes, e più tardi l’EZLN, – ha fatto ricorso alle armi, tutti agivano a proprio nome e non a nome degli altri. Visto che alcune azioni contro la costruzione dei 13.000 avrebbero potuto richiedere l’uso delle armi, a causa soprattutto della presenza di vigilanti, avevamo affrontato la questione in occasione di una riunione nel 1989. Ma è bastata una mezz’ora di discussione affinché prevalesse l’unanimità: una decisione favorevole ci avrebbe trascinati rapidamente in una spirale impossibile da controllare, soprattutto in un contesto in cui gli sbirri non aspettavano altro. Nella nostra posizione, avevamo altre possibilità per agire. Appropriarsi di competenze e abilità in diversi campi ci sembrava molto più cruciale. Perché le questioni cosiddette “tecniche” ponevano anche questioni sociali e politiche3.

Il riferimento all’Esercito Zapatista di Liberazione non è affatto casuale, poiché proprio quell’esperienza agli occhi dei Cangaceiros francesi mostrava come l’azione politica, e militare, non fosse possibile lontana dalle radici su cui si appoggiava e, allo stesso tempo, dimostrava come le rivolte un tempo ritenute millenaristiche, arretrate e comunitarie, alle quali alcuni membri del gruppo avevano già dedicato nel 1987 una vastissima ricerca4, siano sempre state sottovalutate e sottostimate nella loro reale portata dagli “oggettivisti” della tradizione marxista e leninista.

Era il controfuoco che avevamo voluto accendere prima della celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese. Così, risalendo il tempo delle rivolte e delle insurrezioni schiacciate, ma non squalificate, andavamo controcorrente rispetto all’evoluzionismo storico. Alcuni di noi avevano letto anche il libro di Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania. Il problema era che quella stessa visione progressiva della storia che aveva impedito a Engels e a Marx di cogliere il cuore razionale della rivolta luddista, aveva impedito loro di cogliere anche quello del millenarismo, che restava ai loro occhi una forma di rivolta arcaica. Era d’altronde la vulgata che riprendeva Eric Hobsbawm ne I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. In pratica, tutte queste rivolte che nel sud della Spagna, così come in Italia, assumevano carattere di imminenza radicale, venivano considerate come delle forme immature, fatalmente condannate dall’evoluzione generale della società verso la modernità. Tale visione, che si ritrova anche nel suo libro I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, aveva la capacità di farci innervosire ancora di più visto che millenarismo e messianismo vi si ritrovavano oltraggiati in nome del partito staliniano, che agli occhi di Hobsbawm era la realizzazione della Ragione e dei Lumi. Solo il libro di Ernst Bloch, Thomas Münzer, teologo della rivoluzione, scoperto mentre redigevamo L’incendio millenarista, metteva in primo piano lo spirito rivoluzionario millenarista della guerra dei contadini in Germania.
Si trattava, in fondo, di rendere giustizia a tutta una serie di movimenti e di sedizioni che avevano attraversato l’Europa per un periodo di cinque secoli… Attraverso il gesto di tornare a prima della Rivoluzione francese, intendevamo proiettarci oltre quest’ultima, oltre quell’orizzonte insuperabile di cui gli stalinisti così rispettosi delle istituzioni repubblicane e i socialdemocratici convertiti al liberalismo si apprestavano a cantare le lodi. Ma le rivolte millenariste esprimevano esigenze anti-borghesi totali, immediate e senza compromessi, laddove invece la Rivoluzione francese consacrava il regno della borghesia5.

Non solo, poiché di quelle rivolte spesso la ricerca storica, anche di parte, ha sottolineato solo le contraddizioni e le aspirazioni apparentemente utopiche e/o religiose, senza peraltro considerare che proprio la soltanto apparente utopia della libertà e dell’autogestione comunitaria delle terra, del lavoro e dei suoi frutti costituiva la più radicale e intransigente rivendicazione materiale del bisogno di comunismo.
Non nella teoria di qualche gruppo o racket politico che si pretende in grado di dirigere le “masse”, ma nell’azione diretta e collettiva delle comunità in rivolta che finivano con l’andare ben oltre i temi sventolati inizialmente dai loro capi e promotori. Così come afferma Marco Natalizi in un suo studio sulla rivolta di Pugačëv nella Russia governata dall’imperatrice Caterina II nel XVIII secolo:

Di per sé, rilevare che le decisioni prese dalle guide di un movimento sono spesso foriere di conseguenze inattese non è certo una scoperta; ma il punto da evidenziare qui è che i ribelli incaricati di redigere i primi proclami […] non erano affatto consapevoli di introdurre novità sostanziali sul piano “politico” e che furono piuttosto l’impossibilità di gestire la rivolta come una scorreria e la necessità dell’assedio e della guerra di posizione a far sì che la loro azione si trasformasse in un esperimento di ingegneria sociale in cui le diverse istanze politiche e culturali confluirono, in un dialogo tra culture, sino a dar vita alla “visione” dei ribelli. E ciò per dire di una “folla” di uomini – costretta a fermarsi, a darsi un’organizzazione, a motivare i nuovi venuti – le cui credenze, sotto la spinta delle circostanze, vennero a poco a poco trasformandosi, nei diversi proclami e manifesti, in un’autonoma e peculiare concezione – secondo il punto di vista popolare – esercizio del potere: la storia di uomini che per sopravvivere e combattere dovettero pensare un’organizzazione […] e nel farlo, ripensarsi6.

Ma ancora non basta, poiché per Os Cangaceiros riscoprire il millenarismo oppure la novità costituita dalle rivolte e rivoluzioni indigene, come quella delle popolazioni del Chiapas, significava anche ricollegare il presente e l’attualità ad una storia spesso rimossa che diventava anche rimozione del tempo con cui occorreva ricollegarsi proprio per vivere pienamente e non essere poi costretti a scrivere come Roman Jakobson nel 1930:

Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente [motivo per cui] secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, l’altra gamba corre ancora nella via accanto7.

Questa visione è quella che ha fatto sempre in modo che i Cangaceiros, ribaldi ancor prima che rebeldes, di cui ci parla Alessi Dell’Umbria in questo testo a metà strada tra saggio e autobiografia collettiva, prendessero parte a molte delle rivolte e delle manifestazioni, spesso violente, che agitarono le due sponde della Manica negli anni Ottanta, senza però mai aver la pretesa di dare loro ulteriori contenuti o di spingerle oltre i limiti che gli stessi partecipanti si davano di volta in volta. E senza mai dimenticare che la vita deve essere vissuta in ogni suo momento, molto al di là o al di qua delle parole d’ordine politiche.

Non volevano esse avanguardie i compagni e le compagne dell’autore, ma nel vivere una vita libera dalla schiavitù salariale ebbero modo di riflettere sui danni che quelle stesse rischiavano di mettere in moto ogni qualvolta cercavano di mettersi alla testa delle proteste oppure sull’opera di imbonimento che i vari partiti e sindacati di Sinistra svolsero nei confronti delle richieste e delle intenzioni reali che stavano alla base di quei movimenti, spesso inizialmente spontanei.

Tutte azioni e scelte, quelle dei racket estremisti, sindacali o socialdemocratici, che non potevano far altro che portare a cocenti sconfitte e delusioni che, insieme al lento e inesorabile trionfo dello spettacolo della merce e delle illusioni proprietarie, avrebbero finito col far transitare il soggetto un tempo proletario, operaio e ribelle europeo nelle file della destra razzista e nazionalista.

Creando così, allo stesso tempo, un immaginario scontro istituzionalizzato tra Destra e Sinistra con cui lo sviluppo di movimenti come Podemos oppure France Insoumise non hanno fatto altro che sottolineare la debolezza e la mancanza, oggi, di un reale e condiviso movimento antagonista radicale oppure la sostanziale sottomissione alle esigenze della Nazione e della sua Economia dei gruppi che vorrebbero esserne i rappresentanti formali.

Sono 183 le pagine che compongono questo agile e denso manuale di sovversione e liberazione della vita sociale. Pagine in cui i suggerimenti sul come truffare, un tempo, le banche per vivere senza bisogno di lavorare in maniera coatta si mescolano a quelle per i sabotaggi a ferrovie e cantieri per aiutare i reclusi in lotta oppure a riflessioni fulminanti e importanti sulla composizione di classe, le culture di strada e sul rifiuto delle cariche istituzionali e universitarie così come di un’istruzione classista e di quasi tutta la ricerca prodotta nelle sedi del potere ad essa riconducibili.

Così le impressioni successive agli scontri dei minatori inglesi sotto la Tatcher si mescolano a quelle relative alle rivolte dei giovani immigrati e punk di Brixton, oppure agli scontri degli hooligans con la polizia in ogni angolo d’Europa o dei giovani che si oppongono alla chiusura oraria di un pub o all’apertura di un nuovo e devastante cantiere per una grande e velenosa opera desinata a distruggere vita umana e ambiente. Magari scientificamente motivata dal “progresso”.

Ma ci sono molte altre considerazioni che qui non possono essere tutte affrontate insieme, mentre il Jim Morrison di «We wanti the world and we want it now!» rimane lì come un faro ad illuminare la via tra gioie, sconfitte, amarezza e speranza che nessun progetto carcerario o politico istituzionale potrà mai contribuire a cancellare del tutto perché, come si afferma ancora nel testo, la memoria, per esser davvero tale, è sempre rivolta al futuro.

Note a margine
Per approfondire i temi affrontati in questo libro, si consiglia la visione della video-intervista ad Alèssi Dell’Umbria, realizzata nel marzo 2025 al bar de la Plaine a Marsiglia, dal titolo: L’histoire d’Os Cangaceiros. Banditisme, sabotages et théorie révolutionnaire, disponibile online sul sito lundi.am.

Dello stesso autore oltre al già citato Incendio Millenarista è stato pubblicato in Italia anche Il rogo della vanità, autoproduzioni fenix, Marsiglia Torino Parigi, primavera 2009 (Edizione originale francese: C’est de la racaille? Eh bien j‘en suis!, edizioni L’echappée, Marsiglia, maggio 2006).


  1. A. Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 120-121.  

  2. Si veda in proposito l’opuscolo: Un crimine chiamato libertà, edito in Italia nel 2003 dalle edizioni l’arrembaggio e NN, in cui sono raccolti alcuni testi pubblicati sul secondo numero della rivista «Os Cangaceiros» nel novembre 1985, dedicato alle rivolte dei detenuti francesi del maggio 1985, insieme ad altri sempre prodotti dall’omonimo collettivo francese  

  3. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 169-170.  

  4. Yves Delhoysie – George Lapierre, L’incendio millenarista. Tra apocalisse e rivoluzione, Malamente – Tabor, Urbino – Valsusa, 2024.  

  5. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 97–98. 

  6. M. Natalizi, La rivolta degli orfani. La vicenda del ribelle Pugačëv, Donzelli Editore, Roma 2011, p. 97.  

  7. R. Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 42.  

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Aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi. Le 72 stagioni del Giappone https://www.carmillaonline.com/2025/12/13/aprire-gli-occhi-e-prestare-ascolto-alla-natura-e-ai-suoi-ritmi-le-72-stagioni-del-giappone/ Sat, 13 Dec 2025 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91319 di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e della neve, della fioritura delle piante, della maturazione dei frutti e del complesso comportamento degli animali, seguendo con precisione il ritmo regolare della natura, tra periodi di crescita, riposo e trasformazione». Nonostante il passaggio al calendario gregoriano, le tradizioni legate alle 72 stagioni – sostiene Roberta Santagostino nel volume riccamente illustrato che vi ha dedicato – restano ancora oggi radicate nella cultura nipponica.

La sensibilità giapponese nei confronti dei mutamenti della natura affonda le sue radici nella società aristocratica del VII secolo assumendo valenze estetiche ed intime, oltre che pratiche. «Nella ricerca di un equilibrio che potesse mitigare le durezze dell’inverno e i calori estremi dell’estate, si sviluppò un’immagine idealizzata della natura, riflessa in molte forme artistiche: dalla pittura alla poesia, dai giardini paesaggistici alla cerimonia del tè, fino all’arte floreale ikebana. Attraverso i brevi poemi waka e con le poetiche suggestioni haiku, la natura e il ritmo delle stagioni vennero codificate in una serie di immagini e riferimenti condivisi» divenute con il tempo «linguaggio, memoria, credenza locale».

Le 72 stagioni si aprono con i giorni di inizio febbraio in cui termina il grande freddo ed inizia il disgelo proseguendo poi con i primi cinguettii dell’anno degli usignoli che annunciano l’arrivo della primavera. Dunque, con lo scioglimento del ghiaccio, seguono i periodi in cui i pesci iniziano a nuotare più in superficie in attesa del tepore primaverile, l’ammorbidimento del terreno ad opera della pioggia, la foschia che avvolge il paesaggio, lo spuntare dell’erba, il germogliare degli alberi e, con l’avvicinarsi all’equinozio, la ripresa della vita da parte degli insetti, lo spuntare dei fiori di pesco a segnalare il diffondersi della primavera, dunque il mutare dei bruchi in farfalle, la preparazione dei nidi da parte dei passeri e il far capolino dei fiori di ciliegio sul finire di marzo. Seguono poi i giorni dei primi tuoni e con essi l’arrivo dei temporali, il ritorno delle rondini, la partenza delle oche selvatiche per il nord, i giorni degli arcobaleni, lo spuntare delle canne dalle acque, la crescita delle piantine di riso, la fioritura delle peonie, il diffondersi delle rane con i loro gracidii nelle risaie e negli stagni, il riemergere dei lombrichi dal terreno, lo spuntare dei germogli del bambù “moso”, la ricomparsa dei bachi da seta ecc. in un susseguirsi delle 72 stagioni che vanno a terminare, a fine gennaio, con il periodo più freddo dell’anno in cui il ghiaccio ricopre i fiumi mentre sotto di esso la vita continua a manifestarsi e, nei giorni a cavallo tra gennaio e febbraio, con le galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera.

Ognuna di queste microstagioni, come detto, nella cultura nipponica assumono anche valenze estetiche e intime. Il canto dell’usignolo, ad esempio, è spesso presente nella poesia giapponese per rappresentare, oltre l’arrivo della stagione primaverile, «la consapevolezza malinconica della transitorietà delle cose» mentre la carpa, per le sue qualità di forza, vitalità e perseveranza, si ritiene possa portare fortuna, ricchezza e positività. Alla carpa è legata anche l’antica leggenda della “Porta del drago” che la celebra come esempio di forza e perseveranza necessarie al conseguimento degli obiettivi della propria vita.

Nei tempi antichi la foschia primaverile che avvolge i piedi delle montagne veniva paragonata all’orlo del kimono indossato da Sao-hime, la giovane dea della primavera immaginata nella sua veste candida e soffice come la nebbia primaverile. Le suggestioni del paesaggio avvolto nella foschia primaverile, scrive Santagostino, richiamano il termine yūgen che allude al mistero e all’ambiguità delle cose rarefatte, indistinte, incerte di cui è pervasa la natura. «Yūgen è la bellezza che possiamo percepire in un oggetto, anche se non immediatamente riconoscibile e non vista direttamente. Yūgen è suggestione, memoria persistente, retrogusto o implicazione». Nella cultura zen si ricorre a tale termine per il suo «comunicare naturalezza, effimera bellezza e mutevolezza, così come il vento che si sente soffiare ma non si vede e l’acqua che scorrendo cambia continuamente stato e forma. Yūgen è bellezza latente che va scoperta con l’immaginazione». Nel mondo giapponese il concetto di yūgen ha influenzato la letteratura, la pittura, il teatro e l’architettura, finendo per divenire un termine di uso comune nella cultura nipponica.

La microstagione in cui i bruchi iniziano a trasformarsi in farfalle e la comparsa dal nulla di queste ultime è stata vista in Orente, fin dall’antichità, come simbolo di rinascita e come incarnazione dell’anima. In Giappone, ricorda Santagostino, antiche credenze popolari vogliono che gli spiriti dei defunti assumano proprio la forma di una farfalla nel loro viaggio verso l’altro mondo, oppure che gli spiriti dei morti vengano guidati dalle farfalle nel loro percorso. Nella cultura giapponese, per la sua grazia e bellezza, la farfalla è anche associata alla femminilità, e non manca di essere vista come segno di buna fortuna per incontrare l’anima gemella. Il motivo della farfalla lo si ritrova spesso nelle decorazioni per i matrimoni e sugli yukata e sui kimono delle giovani. Nel periodo Edo, il soggetto della farfalla è ricorrente nelle opere degli artisti ukiyo-e come Utagawa Hiroshige, Kubo Shunman, Yanagawa Shigenobu, Totoya Hokkei e Utagawa Toyokuni.

Se la comparsa primaverile dei fiori di ciliegio si lega all’antica tradizione hanami (visione dei fiori di ciliegio), è nel periodo Heian (794-1185) che, negli ambienti aristocratici, si iniziò a guardare ad essi come simbolo dei fiori primaverili, tanto da venire celebrati attraverso poesie waka e feste dedicate alla fioritura che avrebbero poi condotto, nel corso della società dei samurai, alla “visione dei fiori di ciliegio” che, nel periodo Edo, sarebbe poi divenuta parte della cultura popolare. «Ciò che i giapponesi ammirano dei fiori di ciliegio», sottolinea Santagostino, «non è solo la bellezza, ma anche la loro transitorietà, per questo l’hanami porta con sé un vago senso di malinconia e rimpianto per la fugacità della vita, per il passare inesorabile del tempo e per l’impermanenza di ogni cosa».

Per ognuna delle 72 stagioni, la studiosa si sofferma sulle cerimonie, le feste popolari e le rappresentazioni artistiche che le caratterizzano e per i colori che in qualche modo le caratterizzano, segnalando non solo gli aspetti simbolici, ma anche le pratiche per ottenerli in modo da poter essere utilizzati nei dipinti e nei tessuti. Con riferimento alla quarantaduesima stagione (Nogi sunawachi minoru), tra il 2 ed il 7 settembre, ad esempio, quando si giunge alla maturazione del riso e ci si avvicina al raccolto, e i campi si colorano di giallo, la studiosa si sofferma sul colore azzurro dei fiori mattutini della tsuyukusa, o “erba della rugiada” che compare a chiazze sulle rive dei torrenti e ai lati delle strade, utilizzati in passato per tingere la stoffa e per ottenere il pigmento blu che si ritrova in numerose xilografie Ukiyo-e del XVIII e XIX secolo.

A proposito della cinquantasettesima stagione (Kinsenka saku), tra il 17 ed il 21 novembre, caratterizzata dalla fioritura del narciso, il “fiore nella neve” elegante e dalla tenue fragranza, che compare all’inizio dell’inverno, apprezzato nell’arte dell’ikebana, Santagostino si sofferma sul colore delle “foglie verdi marcite” (Aokuchiba), «una sfumatura tra verde opaco e marrone giallastro, molto usata nei tessuti e nelle pitture tradizionali», spesso presente nelle vesti di corte del periodo Heian, «considerato un colore elegante e malinconico citato negli antichi elenchi cromatici per la stratificazione dei colori nei kimono di corte».

Riferendosi alla sessantaseiesima stagione (Yuki watarite mugi nobiru), 1-4 gennaio, caratterizzata dal germogliare del grano sotto a neve, l’autrice del volume si sofferma sulla prima raccolta di illustrazioni dedicata all’osservazione dei fiocchi di neve (Sekka Zusetsu) sul finire del periodo Edo, realizzata da Toshitsura Doi. «Il metodo che utilizzava per osservare la neve era sorprendentemente raffinato per l’epoca. La notte prima di una prevista nevicata, faceva raffreddare all’esterno un telo di stoffa nera. Durante la caduta della neve, i fiocchi si adagiavano delicatamente su questa superficie scura. Poi, con estrema cura, Toshitsura li prelevava con una pinzetta e li disponeva su una tavoletta nera laccata per aumentarne il contrasto. L’osservazione avveniva tramite uno strumento importato dai Paesi Bassi: il “Lan Mirror”, un microscopio occidentale che permetteva di ammirare i minimi dettagli delle strutture cristalline». La catalogazione di Toshitsura, “il Signore dei fiori di neve”, oltre che rivelarsi un’attenta opera di osservazione scientifica, mostra anche «come la bellezza della natura abbia influenzato profondamente il gusto estetico e la moda del Giappone premoderno».

Affrontando l’ultima delle 72 stagioni (Niwatori hajimete toya ni tsuku), tra il 30 gennaio ed il 3 di febbraio, caratterizzata dalle galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera, Santagostino ricorda come, prima dell’industrializzazione dell’avicoltura, in condizioni naturali le galline tendessero a rallentare, quando non a sospendere, la deposizione di uova in inverno, dunque le poche uova raccolte nei mesi più freddi fossero considerate particolarmente preziose. In particolare, le uova deposte il primo giorno del “Freddo maggiore” venivano considerate di buon auspicio. «Fin dall’antichità, le galline sono state considerate uccelli sacri perché annunciano l’alba, segnando il passaggio dalla notte, tempo degli dèi e degli spiriti, al giorno, in cui l’attività umana riprende. Proprio per questo motivo, sono simbolicamente perfette per annunciare anche la fine del lungo inverno».

Per quanto i cambiamenti climatici abbiano scombussolato i ritmi naturali su cui era stato pensato, l’antico calendario delle 72 stagioni ha ancora oggi molto da dirci e il volume di Roberta Santagostino, impreziosito da una miriade di illustrazioni, ha il merito non solo di esporre al lettore occidentale un universo culturale lontano e poco conosciuto, ma anche quello di suggerire la necessità impellente di un approccio alla natura altro rispetto a quello dello sfruttamento sconsiderato e (auto)distruttivo contemporaneo. Il calendario tradizionale scandito in attimi della tradizione nipponica suggerisce la necessità di imparare nuovamente ad aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi, oltre le distese di asfalto, di cemento armato e di schermi in cui si è finiti a vivere.

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Agonie di vivi e desolazioni di spettri (Victoriana 60) https://www.carmillaonline.com/2025/12/12/agonie-di-vivi-e-desolazioni-di-spettri-victoriana-60/ Fri, 12 Dec 2025 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91285 di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della [...]]]> di Franco Pezzini

Gertrude Atherton, Le caverne della morte, introd. e postfaz. di S. T. Joshi, a cura di Paolo Giovannetti, pp. 150, € 15,90, Hypnos, Milano 2025.

“Probabilmente ci sono pochi scrittori creativi che non hanno una propensione, segreta o dichiarata, per l’occulto”: un’affermazione di Atherton di sicuro sottoscrivibile, anche se sul concetto di occulto nei suoi racconti si tratta di intendersi. Nelle sue pagine gli straniamenti sono spesso relativi a due momenti, prima e dopo la morte, come a evidenziarne la soglia: i racconti non sono tutti sovrannaturalistici, e anzi è il fiato psicologico a offrire alle finestre della scrittura l’appannamento dei fantasmi. Un concerto incerto e ambiguo in cui alla visione si contrappone più frequentemente il suono, la voce, il sussurro o l’urlo.
Sostanzialmente ignota al grande pubblico italiano e del resto talora maltrattata anche da critici anglosassoni, Gertrude Atherton (1857-1948) è stata in realtà una notevolissima testimone del suo tempo – offrendo tra la valanga della sua produzione anche pregevoli prove nel genere oggi noto come weird.
Idealmente collocabile per fantasie e scrittura tra Bierce ed Henry James con un tocco di Dickens, questa signora dalla lunga vita vede cambiare il volto degli USA dov’è nata – a San Francisco, da famiglia abbiente – e il mondo dove ha modo di viaggiare, soprattutto a Londra e nello Yorkshire, in Bretagna e altri luoghi della Francia, a Monaco. Mai a proprio agio nel ruolo di madre e neppure in quello di moglie – né di amante – ha idee radicali nel condannare l’istituzione matrimoniale, nel rivendicare una propria indipendenza come scrittrice, nel supportare il suffragio femminile. Scrive forse troppo e di fretta ma con un buon successo: prevalentemente romanzi di costume – soprattutto vividi quelli di ambiente californiano –, ma anche politici e storici, con fascinazioni nietzschiane e darwinistiche magari non particolarmente originali ma che nel contesto non stupiscono. Comunque sarebbe ingiusto sottostimare una produzione di trentotto romanzi, tre raccolte di racconti, un’autobiografia e parecchie opere saggistiche, lascito di una personalità straordinaria: e lo stile è vivido, interessante. Meritevole, da parte di Hypnos, aver riscoperto l’autrice.
Atherton sopravvive a terremoto e incendio di San Francisco del 1906, e dopo un iniziale disinteresse per le cause della Grande Guerra abbraccia con forza la causa antitedesca a seguito dell’affondamento del Lusitania (1915). Aperta alle nuove arti, scrive persino una sceneggiatura per il cinema a richiesta di Samuel Goldwyn. Ultrasessantenne, sentendosi indebolita si sottopone a pionieristiche (e in seguito screditate) pratiche di ringiovanimento, con raggi X di basso livello sulle ovaie per stimolare la produzione di ormoni – e in apparenza non ne trae svantaggi. A seguito di dialoghi con l’occultista Cora Potter, giunge a ipotizzare di essere la reincarnazione di Aspasia, l’amata di Pericle, e ne trae spunto per romanzi storici di ambientazione anticogreca. A dispetto di una reciproca svalutazione come scrittrici, avvia anche un rapporto di piacevole frequentazione con Gertrude Stein. Scrive quasi fino alla fine e muore dopo la conclusione del Secondo conflitto mondiale, testimone inquieta del mutare dei mondi.
Che i suoi racconti weird rivelino dei nervi scoperti non è strano: la morte della nonna che è costretta a baciare cadavere, la morte di un figlio bambino (a seguito della quale prende a scrivere), e quella del marito su una nave verso Valparaiso (con l’impressionante conseguenza del corpo riportato a San Francisco in una botte di rum) sono solo tre degli eventi traumatici della sua vita. A seguito della lettura del macabro “Il guardiano dei morti” di Bierce (1889) gli scrive indignata per l’effetto scioccante recatole, evidentemente a traino di fatti vissuti.
Del suo canone weird, di cui Joshi valorizza nove titoli, l’edizione italiana propone sette racconti: tutti, appunto, dipanati attorno alla soglia ultima. Senso del macabro, orrore del trapasso, speculazioni sul rapporto sfuggente tra anima e corpo, miserie di età e di patologie: un orrore inscenato con spiegata eleganza. Troviamo così storie quasi bierciane di agonie, come nei racconti di orrore psicologico “La morte e la donna” (1992), che schiude a una potenziale sovrannaturalità solo in termini ambigui e ipotetici, “Una tragedia” (1893) dove a morire sono anzitutto – inaccettabilmente – le speranze di una vita, “La cosa migliore per tutti” (1900, 1905) in cui coscienza e approccio darwinistico vengono a collidere con intensità quasi intollerabile. In altri casi la morte erompe con la sua “tragica impersonalità”, come nel raggelante “Acque assassine” (1896, 1900), o ristagna nel dubbio (anche qui, nessuna certezza nel palpitare d’un fantastico alla Todorov) di possibili reincarnazioni, come nel bel “La campana nella nebbia” (1903), dove la presenza perturbante di una bimba incantevole strania un protagonista sosia di Henry James.
In questi casi il racconto mette in primo piano coppie di persone diversamente assortite, mentre un paio di testi evocano dimensioni corali: in particolare i due dove l’autrice, quasi a eco dei propri viaggi attraverso gli USA e nel Vecchio Mondo, lavora sul tema del lungo convoglio di morti o di vivi. Il topos è antico, ma la resa è molto originale. Ne “Le caverne della morte” (1886) al filtro del sogno di una notte di vigilia natalizia corrono veicoli dalla natura incerta che paiono prefigurare il bianco e nero del muto Il carretto fantasma di Victor Sjöström (1921): conducono a un Ade in cui permangono e ristagnano le follie e le vanità degli uomini – un’allegoria onirica, in tutta evidenza, che parla più del mondo dei vivi che di credenze (dubbie, nel caso di Atherton) in un aldilà. Mentre struggente è “Un cimitero inquieto” (1902) che incuriosirebbe Bernanos, morto per inciso lo stesso anno della Nostra: dove in un angolo del Finistère bretone il passaggio dei nuovi lunghi e fragorosi treni risveglia penosamente i morti, tra il dolente imbarazzo del vecchio prete e l’insoddisfazione di una giovane contessa morente (l’ennesima agonia), già “sepolta” socialmente in quella zona isolata.

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Emilio Quadrelli, un comunista eretico contro la guerra https://www.carmillaonline.com/2025/12/11/emilio-quadrelli-un-comunista-eretico-contro-la-guerra/ Thu, 11 Dec 2025 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91385 a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato [...]]]> a cura di S.M.

Non vi può essere alcun dubbio che tutto il percorso intellettuale e politico di Emilio Quadrelli, scomparso nel 2024, si situi interamente nella scia dell’eresia. Un eresia non ricercata per necessità di colpire i lettori oppure, ancor peggio e come spesso capita, con l’intento di épater le bourgeois, sbalordire il borghese che si nasconde in fondo all’animo di tanti presunti compagni.

No, l’eresia di Emilio si è manifestata nella sua ricerca, costantemente rivolta ad individuare tutte le manifestazioni, talvolta contraddittorie e talaltra confuse, della soggettività di classe che, troppo spesso, l’ortodossia comunista e un determinismo spacciato per radicalismo tendono ad offuscare o a rinnegare del tutto.

Un’eresia che si è manifestata in quasi tutti gli scritti del comunista genovese attraverso la riscoperta dei barbari, bianchi o di altra etnia, che insorgono contro l’esistente; dell’attenzione per quello che troppo spesso è definito, superficialmente e in maniera liquidatoria, come sottoproletariato; dei concetti di razza e genere come importanti fondamenta della rivolta contemporanea, fuori e dentro i confini di un impero occidentale in via di disgregazione; della guerra civile come parte integrante e ineludibile del percorso che guida sia gli stati in direzione di un conflitto allargato per il predominio del mercato mondiale sia la lotta dal basso indirizzata ad evitare la carneficina oppure a ribaltarla in processo rivoluzionario per molti versi inaspettato.

Ma, occorre qui aggiungere, Emilio oltre che eretico è stato indubbiamente un grande e significativo seguace del sincretismo in politica, non essendo interessato alla difesa della continuità di una particolare linea o corrente marxiana. Piuttosto, come di è già detto poc’anzi, è stato sempre interessato ad individuare nelle infinite correnti del pensiero e, soprattutto, dell’azione ispirati dall’utopia comunista, tutti gli elementi più utili per l’interpretazione e l’individuazione di quella soggettività di classe di cui è stato un costante osservatore, estimatore e promotore ovunque ciò fosse possibile. Dall’apprezzamento per «il bisogna sognare!» di Lenin al pensiero di Lukács; per certi aspetti dell’agire togliattiano e altri, teorici e ben diversi anche se mai apertamente dichiarati, di Bordiga; per l’azione militante di Lotta Continua oppure della concreta autonomia operaia di fabbrica e dei giovano barbari delle periferie torinesi e milanesi che negli anno Settanta diedero vita alle “ronde proletarie” fino a quella dei nuovi barbari delle banlieue parigine e marsigliesi o, ancora, del milieu genovese di cui fu grande conoscitore e amico rispettato.
E tutto questo soltanto per fare pochi e rapidi esempi.

Per approfondire lo studio del pensiero e la comprensione del contributo dato da Quadrelli al movimento antagonista contro la guerra e il capitale, giovedì 18 dicembre, a Bologna in via Zamboni 38, dalle 15 alle 19, si terrà un pomeriggio di studio dal titolo Emilio Quadrelli e la guerra, con il seguente programma:

ore 15

Apertura

Rosella Simone – “Emilio, il barbaro”

ore 15,30 -17

Atanasio Bugliari Goggia e Jack Orlando – “Il primeggiare del far morire dei nostri mondi all’epoca della crisi”

Marco Codebò – “Quale soggettività contro la guerra?”

Sandro Moiso – “Le eresie di Emilo Quadrelli”

Pausa caffé

ore 17,30 – 19

Dibattito

Apertura – Sandro Mezzadra

Chiusura – Bruno Turci

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Il nuovo disordine mondiale / 31 – Le guerre del Nord e il futuro degli equilibri geopolitici ed economici mondiali https://www.carmillaonline.com/2025/12/10/il-nuovo-disordine-mondiale-31-le-guerre-del-nord-e-il-futuro-degli-equilibri-geopolitici-ed-economici-mondiali/ Wed, 10 Dec 2025 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91754 di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal [...]]]> di Sandro Moiso

Mary Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 340, 22 euro

Il titolo scelto dalla Luiss University Press per la traduzione italiana della ricerca di Mary Thompson-Jones, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo America in the Arctic: Foreign Policy and Competition in the Melting North, evoca più un romanzo di Jack London che non un saggio di geopolitica quale in effetti è. A ben guardare, però, lo scontro apertosi ormai da anni, per il controllo delle rotte artiche e delle materie prime custodite dal mare di ghiaccio che corrisponde al nome di Artico ricorda per più di un motivo la saga della corsa all’oro del Grande Nord che l’autore americano narrò oppure utilizzò come sfondo in molti dei suoi romanzi e racconti.

Un Nord gelido, al limite della sopravvivenza umana, che nasconde grandi tesori verso cui uomini (un tempo) e governi avidi di ricchezze e risorse (in quello attuale) indirizzano i propri sforzi e la propria forza muscolare oppure militare al fine di appropriarsene. In questo facilitati e stimolati, oggi, dal generale riscaldamento climatico che ha definitivamente reso possibili tali iniziative o perlomeno i tentativi di realizzarle.

Infatti, secondo le più recenti analisi del Copernicus Climate Change Service, il 2025 è destinato a classificarsi come il secondo anno più caldo mai registrato insieme al 2023, subito dopo il 2024. Analisi che hanno evidenziato come la media triennale 2023-2025 stia per superare la soglia critica di 1,5 gradi. Un risultato che non rappresenta un semplice dato statistico, ma la conferma di un riscaldamento globale sempre più veloce. Cosa che ha contribuito a far rilevare come il mese di novembre abbia visto registrare anomalie di caldo particolarmente marcate in Canada settentrionale e lungo l’Oceano Artico, dove il ghiaccio marino artico ha mostrato una riduzione del 12% rispetto alla media di riferimento, il secondo valore più basso mai osservato per lo stesso mese1.

Così i buoni e i cattivi di oggi, nel nuovo grande romanzo della conquista del Nord polare, non sono più i desperados, i nativi americani, i violenti e i famelici, ma spesso sfortunati, cercatori d’oro che hanno animato le pagine e le vicende vissute in prima persona e poi narrate romanzescamente da London tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. No, i protagonisti di La legge del Nord sono prima di tutto gli Stati Uniti con i loro attuali interessi globali insieme a Canada, Islanda, Groenlandia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Russia e, in una più ampia e dinamica prospettiva, la Cina.

Tutti stati che si affacciano sull’Artico e la cui estensione territoriale potrebbe definire le dimensioni delle fette di torta, proporzionali alle parti di territorio di ognuno degli stessi compreso al di là del circolo polare artico, destinate a spartire le ricchezze di quel continente. E anche se la Cina non confina con l’area interessata, sicuramente è enormemente interessata alle nuove rotte marittime che il riscaldamento globale già permette e sempre più permetterà di aprire nel prossimo futuro.

Rotte che abbrevieranno di parecchie settimane il trasporto delle merci da un capo all’altro del mondo, così come già è successo con l’utilizzo delle rotte tracciate sul settentrione del pianeta per il traffico aereo destinato al trasporto di merci e passeggeri. Una autentica rivoluzione marittima che potrebbe avere gli stessi effetti sull’Europa, in particolare mediterranea, che già ebbe quasi sei secoli fa l’apertura delle rotte atlantiche per i traffici e i commerci intercontinentali.

L’autrice, Mary Thompson-Jones, è tra le massime esperte mondiali di sicurezza nazionale, con esperienza nel campo della marina militare e della geopolitica delle rotte oceaniche. Già Foreign Service Officer ha ricevuto incarichi diplomatici in Canada, Guatemala e Spagna. Professoressa in Sicurezza nazionale presso l’U.S. Naval War College, e il testo appena pubblicato dalla Luiss University Press è il suo primo libro tradotto in italiano.

Il curriculum professionale dell’autrice indica già di per sé che lo sguardo sulla questione è impostato a partire dagli interessi nazionali, economici e militari, degli USA, ma questo non inficia affatto la lettura che la relatrice dà delle forze e delle contraddizioni in atto in quell’area che, da marginale quale poteva essere considerata dalla politica internazionale, si è trasformata in uno dei possibili epicentri dei conflitti, anche militari, a venire.

Infatti, il rapido scioglimento dei ghiacci artici sta riscrivendo la geografia del potere globale. Sotto questo punto di vista il Grande Nord non è più quello remoto e impenetrabile dei romanzi d’avventura, ma la nuova frontiera della geopolitica contemporanea: una scacchiera dove si intrecciano rotte commerciali, ambizioni militari e crisi climatica. Il disgelo impone una diversa geografia del pianeta, apre passaggi tra continenti e porta alla luce giacimenti di gas e terre rare.

Non è certo un caso che il primo atto strategico del Cremlino dopo l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022 sia stato il varo della nuova «dottrina marittima» del luglio di quell’anno, il cui punto essenziale non riguardava affatto il Mar Nero, ma l’Artico. Senza quel testo, gli obiettivi che esso esplicita e i rapporti con la Cina che implica, sarebbe più difficile comprendere le insistenti pretese di Donald Trump sulla Groenlandia.

La posta in gioco commerciale è potenzialmente immensa, considerato che ancora nel 2018 si pensava che la via artica aperta dal cambio climatico potesse essere navigabile, al massimo, tre o quattro mesi all’anno, mentre l’accelerarsi del riscaldamento globale permette a Mosca, che ha la più potente flotta di rompighiaccio al mondo, di puntare a tenere quella via sempre aperta.

Per questo Pechino ora mira a consolidare nella regione la relazione con Mosca, considerato che già dal 2018 un «Libro bianco» del governo definisce la Cina «uno Stato quasi-artico» e un’«importante parte in causa» nell’area. L’obiettivo è ottenere dal Cremlino un diritto esclusivo di transito, condiviso solo con i russi e in cambio di contenute commissioni, per trasportare prodotti cinesi verso l’Europa e l’Atlantico a costi più che competitivi nei confronti di tutti gli altri concorrenti commerciali.

Secondo il linguaggio ufficiale del governo cinese si aprirebbe così una «Via della Seta polare» fondata sul rapporto privilegiato fra Xi Jinping e Vladimir Putin. Uno dei vantaggi per la grande potenza asiatica, peraltro, sarebbe in direzione opposta: avere una rotta nordica completamente navigabile significa, per la Repubblica popolare, poter portare gas liquefatto e greggio russi verso Shanghai, Shenzhen o Hong Kong senza temere l’eventuale strangolamento occidentale all’altezza dello Stretto di Malacca. Del resto, era stato proprio il blocco anglo-americano di quello snodo nell’Asia del Sud-Est a indebolire fatalmente il Giappone nella Seconda guerra mondiale2.

Il confine tra cooperazione e conflitto è più sottile del ghiaccio che si frantuma e Thompson-Jones andando oltre la cronaca, intrecciando mito e realtà in un fragile equilibrio tra sicurezza, diplomazia e giustizia climatica, fa sì che La legge del Nord dimostri come, tra i ghiacci che si ritirano, si stia decidendo il vero futuro del dominio mondiale.

Questa impostazione permette di interpretare meglio le affermazioni del «Wall Street Journal» che vede gli accordi possibili tra Trump e Putin sulla questione ucraina ruotare, oltre che sul controllo dei giacimenti minerari ucraini, anche sullo sfruttamento dei giacimenti situati in area polare3, ma anche di andare al di là delle semplicistiche letture filo-europeistiche o monotonamente antimperialiste antiamericane fatte a proposito delle “minacce” trumpiane alla Groenlandia e per il suo controllo. Mentre, allo stesso tempo, può anche aiutare a comprendere la centralità che i paesi dell’Europa del Nord hanno assunto in ambito Nato e nello svolgimento del conflitto ucraino.

In realtà però, per quanto riguarda gli spazi e le rotte marittime, si tratta di questioni che risalgono alle origini delle società imperiali, per le quali il dominio dei mari ha sempre rappresentato un enorme vantaggio, tanto da far parlare gli storici di autentiche talassocrazie a proposito di quelle come Atene, Roma, Portogallo, Spagna, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e magari domani la Cina, considerato il numero e la qualità delle portaerei già varate oppure messe in cantiere dalla marina militare della Repubblica popolare, che in epoche successive hanno fondato e sviluppato la propria espansione e la propria potenza, sia economica che militare, sul controllo e il dominio, prima, del Mediterraneo e, successivamente, degli oceani.

Una questione che fin dagli inizi del Novecento e, successivamente, per tutto il XX secolo si era spesso identificata nella divisione principale tra due grandi aree geopolitiche del continente euroasiatico: l’Heartland (letteralmente: il Cuore della Terra) e Rimland (la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia e che si divide in tre zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica).

L’ideatore del concetto di Heartland era stato un generale britannico, Sir Halford Mackinder, che lo sottopose alla Royal Geographical Society nel 1904. Il termine derivava dal fatto che tale vastissimo territorio era delimitato ad ovest dal Volga, ad est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya. Per Mackinder, che basava la sua teoria sulla contrapposizione tra mare e terra, l’Heartland costituiva il “cuore” di tutte le civiltà di terra, in quanto logisticamente inavvicinabile da qualunque talassocrazia.

A “coglierne” in pieno il significato politico fu il generale, geografo e politologo tedesco Karl Haushofer che sottolineò, a partire dagli anni ’20 nella rivista “Zeitschrift für Geopolitik”, come le potenze marittime (la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) avessero costruito una sorta di “anello” per soffocare le potenze continentali. A suo avviso le potenze marittime si ergevano come custodi dello status quo non solo attraverso il colonialismo inglese e francese, ma anche tramite l’ideologia wilsoniana che, attraverso il diritto all’autodeterminazione dei popoli, aveva contribuito allo smantellamento dell’impero austro-ungarico e del Reich guglielmino e alla creazione di una serie di stati cuscinetto destinati a contenere il risorgere della potenza tedesca e l’espansione bolscevica in Europa, compromettendo seriamente “il diritto classico dei popoli”. Entrambi i temi, quello dell’inevitabile scontro tra potenze marittime e terrestri e quello del soffocamento dello jus publicum europeo, sarebbero poi stati ripresi da Carl Schmitt, giurista e filosofo tedesco accusato di essere vicino al regime hitleriano, negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale4.

Il concetto di Rimland invece è frutto delle teorie elaborate da Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), che nel 1890, con il suo studio The Influence of Sea Power in History, definì la dottrina marittima degli Stati Uniti andando oltre la Dottrina di Monroe che, nel 1823, aveva già delineato una prima area di interesse statunitense su tutto il continente americano dal Canada alla Terra del Fuoco. Tale teoria sarebbe poi stata ripresa ed impugnata con forza da Nicholas Spykman che, pur essendo di origini olandesi, sarebbe diventato il padre della geopolitica statunitense.

Spykman negli anni trenta rivisitò la geopolitica così come era stata concepita da Mackinder. Contrariamente al geografo britannico, Spykman non credeva che il “cuore”, il perno geografica del mondo, come un focus economico e territoriale, dovesse essere situato nell’Europa Centrale o in Russia, ma sulle coste. Secondo lui, il centro del mondo era formato dalle regioni costiere, che egli definiva “terra di confine” o “terre anello”, il Rimland per l’appunto. Spykman pensava che gli USA, in un modo o nell’altro, dovessero controllare questo Rimland, al fine di imporsi come una superpotenza, e quindi dominare il mondo.

La teoria di Spykman fu adottata dagli strateghi americani sia nel corso del secondo conflitto mondiale che durante la Guerra Fredda e fu alla base della politica di contenimento messa in atto nei confronti dell’Unione Sovietica e nulla impedisce di cogliere come tale teoria sia valida ancora oggi per gli Stati Uniti, dal mar della Cina e dal Pacifico orientale fino al Medio Oriente attuale. Sia in chiave anti-russa e anti-cinese che anti- europea.

Ma è chiaro che la situazione cui si accennava più sopra, venutasi a creare con lo scioglimento dei ghiacci polari artici, richieda una sorta di cambio di strategia transcontinentale e marittima da parte degli USA. Motivo per cui le apparenti “smargiassate” di Donald Trump, sul Canada come 51° stato dell’Unione o dell’occupazione della Groenlandia a discapito della Danimarca, rispondono in realtà alla necessità di una nuova strategia difensiva-offensiva.

Sicuramente uno degli elementi che spingono in tale direzione è costituito dal riscaldamento delle acque settentrionali della Russia, cosa che ha fatto sì che Putin e i suoi strateghi, nonostante le sanzioni imposte ai suoi commerci successivamente all’invasione dei territori ucraini, abbiano potuto ipotizzare e sperimentare:

una rotta che permette di navigare dall’Asia all’Europa risparmiando tempo e denaro, la rotta marina artica russa (o rotta del Nord – Northern Sea Route, Nsr). La Nsr va dallo stretto di Bering al mare di Barents, per una distanza di circa 5470 km. In condizioni ottimali, riduce distanza e durata del viaggio dal 35 al 40% rispetto alla consueta rotta attraverso il canale di Suez. Per esempio, il viaggio di una nave dalla Corea del Sud alla Germania non durerebbe più 34 giorni, ma 23.
La Nsr nonè una novità. Già negli anni Ottanta dell’Ottocento, una nave finanziata da Svezia e Russia riuscì a percorrerla. Nel 1934, i sovietici vi mandarono una nave rompighiaccio, e continuarono a navigarla soprattutto per piccoli spostamenti da un avamposto artico all’altro, finché gradualmente non venne accantonata. «Con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, l’utilizzo della rotta terminò quasi del tutto, e il tonnellaggio dei carichi calò a picco, persino tra una città russa e l’altra. Oggi, con l’aumento delle temperature, ci si aspetta che la costa nord, un tempo una frontiera ghiacciata, possa diventare un’animata rotta per la navigazione5 »6.

Osservazioni dell’autrice del libro cui, però, vanno aggiunte quelle recentissime di Mauro De Bonis, giornalista esperto di Russia e paesi ex-sovietici, sul numero 10, ottobre 2025 di «Limes»:

La via d’acqua polare lavora attualmente a basso regime. Oltre alle turbolenze geopolitiche dovute al non roseo rapporto russo-occidentale, la rotta è ancora poco navigabile e quando lo è resta soggetta a regole e vincoli che scoraggiano le compagnie straniere dall’utilizzarla. La Federazione Russa, in base all’articolo 234 della convenzione Onu sul diritto del mare, ne regolamenta la navigazione visto che il percorso si snoda all’interno delle acque comprese nella propria Zona economica esclusiva. Mosca concepisce dunque la rotta come un sistema di trasporto nazionale unificato e storicamente consolidato. E ne stabilisce le regole di utilizzo, come il dovere di preavviso per navi militari di altri paesi che intendano percorrerla e conseguente autorizzazione. Oppure un sistema di tariffe a oggi meno conveniente di quello applicato a Suez ola norma sancita da Rosatom7 che costringe i cargo di passaggio a utilizzare il supporto di navi rompighiaccio. Inutile dire che Stati Uniti e satelliti europei rifiutano la lettura russa della gestione artica, e che le compagnie di navigazione occidentali ne trascurano per il momento la convenienza.
Così, a solcare il tragitto artico, oltre alle russe, restano le navi cinesi, che nel 2024 hanno raddoppiato la presenza e rappresentato il 95% dei carichi in transito. L’anno passato ha registrtao 37,9 milioni di tonnellate di merci trasportate lungo quelle acque polari, tonnellate che dovranno diventare 109 entro il 2030 secondo quanto stabilito dal Cremlino. Obiettivo ambizioso ma raggiungibile, almeno stando ai dati snocciolati da Maksim Kulinko, della direzione rotte marittime di Rosatom, sicuro che proprio entro fine decennio il trasporto attraverso itinerari artici diventerà consuetudine, con un tempo medio di transito garantito per l’intero arco dell’anno di soli dieci giorni. A salvaguardia di questo tesoro d’acqua, della sovranità sulla Zona economica esclusiva, dei suoi interessi economici, delle ricchezze minerarie e aree contese nella regione, daMosca si procede a un rafforzamento della capacità militare presente lungo la rotta e al necessario aumento della flotta di navi rompighiaccio8.

Alla luce di quanto fin qui scritto, diventa più facile individuare alcuni dei motivi che hanno fatto sì che l’incontro ufficiale tra Trump e Putin sia avvenuto il 15 agosto 2025 nella base militare di Elmendorf-Richardson ad Anchorage, in Alaska, e questo rende anche evidente come tale incontro al suo interno abbia obbligatoriamente affrontato temi che sono andati ben al di là della questione ucraina. Considerata anche l’irrilevanza numerica della flotta di navi rompighiaccio statunitensi a fronte di quella già attuale russa, quasi interamente composta da navi a propulsione nucleare, e il problema rappresentato, già ora e non soltanto in prospettiva, dal traffico navale artico cinese.

Problemi e prospettive, sia di accordo che di conflitto, che sicuramente la potenza, pur declinante, statunitense preferisce trattare con il gigante russo accantonando i nani europei. Come Mara Morini che, sulle colonne del «Domani», ha sottolineato: «i due presidenti (Putin e Trump) sono in sintonia perfetta nell’accerchiare e isolare l’Unione europea senza alcuno scrupolo»9. Sintonia dovuta non solo a una scelta di Trump e del suo entourage, ma derivante dalla storia della strategia americana di condivisione di prospettive geopolitiche, militari ed economiche con la Russia, oggi, e l’Unione Sovietica, ieri, che risale, al di là delle leggende narrate dopo il 19455 e in età, altrettanto leggendaria, di “Guerra fredda”, almeno ai rapporti instauratisi tra Roosevelt e Stalin già durante il secondo conflitto mondiale, sia durante le conferenze di Teheran (1944)10 che di Yalta (1945).

Il testo edito dalla Luiss University Press si rileva, proprio per questi motivi e molti altri, una lettura utilissima; ricca di dati, osservazioni e commenti indispensabili per chiunque voglia avvicinarsi ai problemi di quello che abbiamo da tempo definito, proprio su queste pagine, il nuovo disordine mondiale.


  1. Clima, il 2025 potrà essere il secondo anno più caldo mai registrato, «Il Messaggero», 9 dicembre 2025.  

  2. F. Fubini, La «rotta artica» di Russia e Cina: ecco perché Trump vuole la Groenlandia (e a Xi va bene il climate change), «Corriere della sera», 10 gennaio 2025.  

  3. In proposito si veda, tra i tanti, A. Simoni, Il patto tra Usa e Mosca dettato solo dagli affari, «La Stampa», 3 dicembre 2025, oppure il più recente articolo di Alan Friedman, ancora su «La Stampa» del 7 dicembre 2025: Se Putin diventa il partner di Trump.  

  4. C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Edizioni Adelphi, Milano 2002 e C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi, Milano 1991.  

  5. K. Hille, Russia’s Arctic Obsession, “Financial Times”, 21 ottobre 201.  

  6. M. Thompson-Jones, La legge del Nord. La conquista dell’artico e il nuovo dominio mondiale, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 245-246.  

  7. Rosatom acronimo della Corporazione statale russa per l’energia atomica  

  8. M. De Bonis, Per Mosca l’Artico è russo, in Tutti contro tutti, «Limes», numero 10, ottobre 2025 pp. 66-67.  

  9. M. Morini, La strategia di Putin e Trump. Accerchiare Kiev (e pure l’Ue), «Domani», 4 dicembre 2025.  

  10. Si veda in proposito: J. Dimbleby, 1944. Finale di partita. Come Stalin vinse la guerra, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2025, in particolare il capitolo 5 – I Due Grandi, più uno, pp. 122-138.  

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Cartoline cinesi ep. 2 – Culto e bubbletea https://www.carmillaonline.com/2025/12/10/appunti-cinesi-ep-2-culto-e-bubbletea/ Tue, 09 Dec 2025 23:14:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91743 di Jack Orlando

Gli uomini costruirono cattedrali sempre più grandi non per mostrare gratitudine a Dio, ma per svelare a sé stessi la propria grandezza. L’adagio faceva pressappoco così. Viene da chiedersi se valga la stessa cosa per i monaci che dodici secoli fa iniziarono a scavare la parete di roccia a picco sul punto di confluenza dei tre fiumi di Leshan, ricavando dalla nuda pietra un colosso di settantuno metri d’altezza. Un gigantesco Buddha seduto con lo sguardo serafico, sorvegliato ai lati da “piccole” statue di soli otto metri che decorano la roccia rossa ai suoi lati. Nello sforzo [...]]]> di Jack Orlando

Gli uomini costruirono cattedrali sempre più grandi non per mostrare gratitudine a Dio, ma per svelare a sé stessi la propria grandezza.
L’adagio faceva pressappoco così. Viene da chiedersi se valga la stessa cosa per i monaci che dodici secoli fa iniziarono a scavare la parete di roccia a picco sul punto di confluenza dei tre fiumi di Leshan, ricavando dalla nuda pietra un colosso di settantuno metri d’altezza.
Un gigantesco Buddha seduto con lo sguardo serafico, sorvegliato ai lati da “piccole” statue di soli otto metri che decorano la roccia rossa ai suoi lati. Nello sforzo titanico di lanciare quest’opera verso le ere a venire i monaci si impegnarono anche nel realizzare tutto un sistema di drenaggi e protezioni per evitare che l’erosione da acqua e vento rovinasse il gigante.

Nei nove decenni che richiese l’opera, l’accumulo dei materiali di scarto modificò la navigabilità del tratto di fiume e più d’una generazione di monaci nacque e si spense senza averne visto né l’inizio né la fine; semplicemente spendendo con devozione i propri giorni e le proprie fatiche in un lavoro imperscrutabile e sacro.

Non erano i primi né gli ultimi. Alle spalle del Buddha, tra pagode seminate nella foresta, si snoda un sistema di grotte che entra nelle profondità della montagna da un lato per uscirne dall’altro.
Già dal secondo secolo avanti Cristo le mani dure e dedite degli scavatori iniziarono ad aprire sale e corridoi di dimensioni impressionanti, intagliando pietre mastodontiche per ricavare quelle che chiamano Grotte dei diecimila Buddha; diecimila reincarnazioni riprodotte in una sequela di camere di preghiera.
Ventimila e più occhi che osservano dall’alto in basso chi passa. Che custodiscono nelle loro decine di metri d’altezza la durissima convinzione dei propri creatori, forza che muoveva tecnica nello slancio mistico.

Ora attorno alla testa del Buddha si accalcano i turisti, il petto premuto sulla ringhiera, le mani alzate a scattare foto con lo smartphone; proiettate in assurde pose, per lo più braccia tese che dalla prospettiva del fotografo sembrano toccare la testa del colosso, e dalla posizione di un qualunque altro testimone ricordano l’equivoco segnale di un’adunata neofascista.
Ai piedi del Buddha Farmacista, il primo e più solenne delle grotte, se una manciata di fedeli intona cantilene e agita ritmicamente i tre incensi rituali, l’aria mistica del luogo è irrimediabilmente frantumata dalle luci macchinetta col braccio meccanico per pescare peluche di Labubu, dai suoi jingle ossessivi.

Il turismo per i cinesi non è stato tra le priorità, né un lusso a buon mercato per tutti gli anni in cui lo sforzo collettivo era rivolto all’ammodernamento del paese.
È solo negli ultimi vent’anni che l’emersione di un’enorme classe media ne ha fatto una pratica sociale diffusa.
Quanto a monaci, templi e fedi antiche, il maoismo non si è mai dimostrato troppo tenero. La libertà di culto è garantita dalla costituzione socialista del 1949 ma lo sradicamento di ogni forma di potere relativa all’ancien regime è stato il passaggio obbligato per puntellare le istituzioni nascenti, e al clero venne strappato qualunque gancio lo legasse alla vita politica; con buona pace del Buddha e senza lacrime per le rose.

Tuttora il partito mantiene un variabile grado di controllo su tutte le fedi, sui loro professionisti più che altro, onde evitare che gli venga in mente di sviluppare centri di potere alternativi, con finanziamenti stranieri magari.
Terribile violazione dei diritti umani dirà il liberale europeo, ma che ai prelati venga tolto il privilegio del potere non sembra poi una cosa tanto drammatica.
Questo però non esclude l’uso strumentale della religione dentro processi di integrazione selettiva delle minoranze, come quella uigura nello Xinjiang, dove repressione dell’insorgenza jihadista e sinizzazione dell’islam invece impattano duramente sulle comunità.

I culti tornano in voga ora che la Cina può definirsi una società del benessere, sull’onda di una narrazione di stato che accorda i principi del Buddha e Confucio a quelli del socialismo di mercato; o viceversa.
Si riempiono i templi e i fedeli pregano e posano le loro offerte sui banchi sacri mentre i monaci in tunica rossa-arancio salmodiano chini.
Eppure non c’è silenzio nelle sale della religione, è un viavai di gente, un vociare continuo, un brusio di mascelle che masticano snack, di polmoni che aspirano sigarette e smartphone che scattano foto.
Le persone attraversano i monasteri con un’attitudine che di poco si distanzia da quella con cui andrebbero al mercato, è solo la regola imposta dai monaci nei vari monasteri a mettere un po’ d’ordine nel caos della folla.

La rinascita religiosa si sposa probabilmente anche qui all’ascesa della classe media, come elemento stabilizzante per una soggettività altamente istruita, consumatrice vorace e aspirante a nuove carriere.
L’adesione ai dogmi statali, ma ancora di più alla rigida disciplina etica delle generazioni precedenti, non è scontata per la gioventù cinese. L’aumento dei salari gli ha consegnato una condizione di benessere inimmaginabile fino a pochissimi anni prima e, contemporaneamente, l’esplosione del mercato privato dei servizi ne ha precarizzato la condizione di accesso generando una nuova figura proletaria: meno pane e fabbrica, più bubbletea e partita IVA. Che ovviamente non si chiama partita IVA ma il succo è quello.

Questi giovani non hanno conosciuto la fame e le asperità riservate ai loro connazionali del XX secolo; viceversa la loro condizione di relativo privilegio, con un generalizzato accesso a formazioni di alto profilo – pagate, va detto, con un impegno serratissimo nello studio – cozza con un mercato del lavoro che si fa via via più competitivo nella difficoltà di assorbire una sovrapproduzione di soggetti iperspecializzati, genera forme di ansia e sfruttamento incomprensibili ai più anziani.
Piccoli rivoli di pessimismo si fanno strada a margine del quadro prospero del secolo cinese.

Il culto e la riscoperta della tradizione sembrano quindi diventare in questa congiuntura l’elemento ideologico attraverso cui provare a tenere unito il corpo sociale sotto la pressione centrifuga dell’inarrestabile avanzamento tecnologico in un momento in cui la Cina si trova ad essere il più avanzato attore sullo scenario mondiale.
Il primo della fila perde il beneficio di guardare come si comportano quelli avanti a lui e l’avanzamento, più che analisi sugli stadi di sviluppo altrui, richiede ipotesi speculative.

Ora, se escludiamo i programmi scolastici o quelli di propaganda, culto e tradizione permeano nelle soggettività a questo punto tramite la pratica sociale per eccellenza: il consumo. La Nazione si cementa consumando.
Il passaggio al tempio, la montagna sacra, il mausoleo agli eroi della rivoluzione, sono accessibili nella misura in cui sono attrattivi per investire il tempo libero. Vengono attraversati nella stessa (o quantomeno simile) modalità caotica in cui si attraversano le vie commerciali.

Il piccolo tempio sulla cima del Fangjing Shan è visitabile dopo ore di attesa e solo inserendosi in una processione turistica permanente; ai piedi del suo picco il tempio maggiore sembra qualcosa a metà tra un bivacco e una sagra di paese, un rumore assordante demolisce l’aura sacrale del luogo.
Il parco di Zhangjiajie impone ore di coda all’ingresso prima di godere dei suoi pilastri di roccia, e l’incessante brusio degli smartphone che scattano foto nel mentre.

Ma è negli infiniti labirinti dei mall che si può avere l’idea di cos’è davvero una esperienza di massa. Quel particolare tipo di esperienza che sfuma i contorni individuali fondendo i corpi di ciascuno dentro un’indistinta moltitudine attratta dai medesimi stimoli.
La Huang Xing pedestrian road di Changsha è un teatro perfetto. Uno dei tanti.
Spezza a metà i resti dei quartieri della città vecchia con i loro delicati vicoli tortuosi dividendoli come un fiume e imponendo la geometria spietata del commercio.

Il vialone dritto, incassato tra due ali di palazzi senza finestre si apre ogni tanto in una larga ellisse di piazza, ovunque si giri lo sguardo c’è un negozio, una bottega, un venditore di cibo. L’orizzonte è censurato dalla fitta costellazione di insegne luminose.
Durante la giornata è un luogo mediamente attraversato e l’orografia urbana cinese camuffa certi luoghi nel viavai continuo dentro e fuori dai grattacieli.
Vi si può camminare con due certezze: la prima è che qui si può comprare praticamente qualsiasi cosa, la seconda è che se non si conoscono i meandri del luogo e si cerca qualcosa in particolare non la si troverà mai.
Poi alle certezze si aggiunge il dubbio che in realtà nessuno conosca davvero questo luogo, che non esista la possibilità di entrarci con uno scopo preciso, ma sia pensato per perdercisi dentro.

È alle ore serali che diventa davvero quello che: il Tempio del consumo; e i fedeli accorrono in massa alla funzione. Quando inizia a calare la luce naturale non si accendono le insegne dei negozi, ma mura intere.
I led riversano l’intero caleidoscopio cromatico sul marciapiede e fuori dai negozi appaiono giovani commessi che agitano cartelli, porgono assaggini, gonfiano palloncini, urlano nei microfoni.
Iniziano le prime file agli ingressi, la gente si accalca per prendere enormi pacchi di tofu, anatre sottovuoto; magazzini di ciarpame sono presi d’assalto da teenager che arraffano bigiotteria.

La strada si riempie, attorno alle 18:30 è ora di cena – come è spesso nel mondo fuori dalle coste mediterranee – e le persone affollano i ristoranti, le panchine, i baracchini d’asporto. La strada enorme si fa stretta, i corpi pigiano e scivolano, il passo è bloccato da tredicenni impegnati in un balletto davanti al treppiede con il telefono che le manda in live su tiktok.
La musica dei negozi è altissima, i commessi urlano, le persone urlano, gli onnipresenti megafoni gracchianti urlano. Non è solo la strada a farsi stretta, è un intero cosmo che si va piegando dentro le corsie commerciali. Non è un posto per chi soffre d’ansia.
Si entra in un negozio dal marciapiede e si esce in un corridoio dall’altro lato e sono ancora corpi, ancora merce, si salgono scale e invece di uscire si è un piano rialzato del mall, uno dei tanti piani del mall. E sono ancora corpi, negozi, botteghe, tavole calde; tutto fitto, tutto strabordante, caotico, labirintico. Si imbocca un’uscita laterale per ritrovarsi ancora sulla via principale da cui si è entrati, se non in un altro mall.
I concetti di spazio e di tempo si distorcono in uno stato di coscienza alterato, che sfocia in una specie di trance euforica o in un attacco di panico. Quasi involontariamente ci si trova le tasche piene di ciarpame.

Riemergendo sulle scale del mall si ha una visuale più ampia del viale e la folla è ovunque, sciama dalle laterali, attraversa la pedestrian da un locale all’altro e si muove in una vertigine illeggibile, i volti illuminati da schermi e insegne, le mani serrate sui manici delle buste.
C’è all’angolo esterno una finta pagoda, enorme, interamente dorata dai led; è circondata dal fracasso dei megafoni. All’ingresso i commessi agitano cartelli e incitano il fiume umano che entra ad acquistare; subito sopra di loro un balcone, c’è una ballerina di danza classica che volteggia sullo sfondo di tende rosse; al balcone superiore una donna elegante suona un violino ed è incomprensibile come si faccia a sentire il suo suono giù, tra gli spettatori estasiati che applaudono e riprendono in video.
Letteralmente lo Spettacolo della merce.

C’è da dire che non è tutto consumo, anzi, lo spazio pubblico è per i cinesi la base comune più utilizzata per la vita sociale.
Molto più che nei bar o nei mall, è tra i parchi, le strade, i crocicchi e le piazze che si svolge lo spettacolo dell’interazione umana.
L’investimento nei “parchi del popolo” ha dato vita a grandi aree verdi nel tessuto urbano dove si riversano persone di ogni età per giocare a scacchi, suonare, fare ginnastica.
L’attività travalica questi spazi e grupponi di signore pensionate occupano i marciapiedi per allenarsi sulla base di musica discutibile sparata a tutto volume.
In sostanza lo spazio pubblico non è luogo di attraversamento della metropoli ma un vero e proprio generatore d’aggregazione. È probabilmente l’epifenomeno di una cultura che prima dell’imprinting socialista, poggia le basi su una società di inurbamento recente che mantiene quasi intatte certe forme di socialità comunitaria delle campagne che, unendosi alla dimensione generalmente modesta delle abitazioni, si riversa nelle strade per darsi in tutta la sua vitalità.
È singolare che l’espressione che utilizzano i cinesi per vedersi, stare insieme e passare il tempo, venga tradotta come il nostro “giocare”. Termine che abbiamo relegato all’infanzia e alla ludopatia.
“Vieni a giocare”. Suona strano se lo dice un cinquantenne.
Strano e rivelatore di un approccio altro al mondo assai lontano dagli stereotipi di disciplina produttivista che scioccamente gli abbiamo cucito addosso.

Con tutta probabilità la Cina collettivista che sognava Mao era tutt’altro che questo, eppure non si può negare che la lotta alla povertà abbia raccolto i suoi frutti.
Piuttosto sembra averci visto lungo il presidente Deng Xiaoping, nel mezzo di una polemica tra una destra estera che denunciava la poca attenzione ai diritti civili e una sinistra interna che recriminava le aperture al libero mercato, con una frase, difficile da verificare come la maggioranza delle citazioni, per cui “la libertà, è un paio di scarpe nuove”.
Il metodo è la contraddizione.

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