Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 06 Nov 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ibridazioni. Viaggio nell’immaginario tecnologico di David Cronenberg https://www.carmillaonline.com/2025/11/06/ibridazioni-viaggio-nellimmaginario-tecnologico-di-david-cronenberg/ Thu, 06 Nov 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91049 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del libro di Paolo Lago e Gioacchino Toni, Ibridazioni. Viaggio nell’immaginario tecnologico di David Cronenberg, prefazione di Pietro Ammaturo (Rogas 2025), si riporta di seguito un breve stralcio ringraziando l’editore per la gentile concessione. p.l.gh.t.]

Passati […] in rassegna alcuni, tra i tanti, aspetti dell’immaginario tecnologico che ha attraversato la storia della fiction proiettata verso un futuro in larga parte dai tratti distopici, [nel volume] sarà affrontata la produzione cinematografica cronenberghiana, in cui, spesso, i processi di ibridazione che ne caratterizzano la poetica prendono il via da qualche esperimento scientifico che, [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del libro di Paolo Lago e Gioacchino Toni, Ibridazioni. Viaggio nell’immaginario tecnologico di David Cronenberg, prefazione di Pietro Ammaturo (Rogas 2025), si riporta di seguito un breve stralcio ringraziando l’editore per la gentile concessione. p.l.gh.t.]

Passati […] in rassegna alcuni, tra i tanti, aspetti dell’immaginario tecnologico che ha attraversato la storia della fiction proiettata verso un futuro in larga parte dai tratti distopici, [nel volume] sarà affrontata la produzione cinematografica cronenberghiana, in cui, spesso, i processi di ibridazione che ne caratterizzano la poetica prendono il via da qualche esperimento scientifico che, sfuggito di mano, determina negli esseri umani trasformazioni incontrollabili, toccando tematiche che hanno a che fare con le facoltà percettive della mente, l’identità, la sessualità, il rapporto dell’essere umano con i media e, più in generale, con le tecnologie. È insomma all’immaginario tecnologico di cui sono permeati i film di David Cronenberg che intende guardare questo lavoro. […]

Il regista canadese ha spesso messo in scena la crisi identitaria degli esseri umani e lo ha fatto estremizzandola, a partire dalle mostruosità derivanti da processi di ibridazione che, schematicamente, possono essere ricondotti a tipologie biologiche, artificiali e mediatiche a cui gli individui si sottopongono più o meno volontariamente. Per quanto tendano spesso a sovrapporsi, è utile analizzare specificatamente ognuna di queste tipologie a partire dalle opere del canadese che le indagano più direttamente.

L’ibridazione di tipo biologico è presente soprattutto in film come Shivers, Rabid e La mosca, opere in cui, a partire da qualche maldestro esperimento scientifico, i corpi e le identità dei personaggi vengono contaminati da elementi di carattere biologico ad essi estranei. Può trattarsi di un parassita consapevolmente innestato per riattivare la libido in un’umanità alienata dall’eccessivo ricorso al pensiero razionale tecnico-scientifico, come in Shivers, di un trapianto di pelle che, anziché restituire l’identità fisica perduta alla vittima di un incidente, scatena incontrollate e contagiose pulsioni aggressive, quasi a sancire l’impossibilità della scienza di rimediare alla frantumazione identitaria, come in Rabid, oppure, ancora, della fusione accidentale fra un essere umano e un insetto che compromette l’identità fisica e mentale del protagonista, come ne La mosca.

Ed è proprio nella parte finale di questo ultimo film che compare quell’ibridazione artificiale che, se qua si manifesta in maniera repulsiva, sarà poi ripresa in una non meno inquietante variante attrattiva da Crash e, per certi versi, dallo stesso Crimes of the Future del nuovo millennio. In tali casi l’ibridazione ha a che fare con l’innesto di componenti artificiali nel corpo dei protagonisti, con la dipendenza tecnologica e con un più generale processo di artificializzazione dell’essere umano contemporaneo che ne riscrive identità, immaginari e desideri.

Una terza tipologia di ibridazione, che può dirsi mediatica, pur essendo massimamente esplicitata in Videodrome ed eXistenZ, opere che riflettono rispettivamente sull’incidenza sull’essere umano del mezzo televisivo e dei sistemi di interattività digitale, può dirsi anticipata da alcuni film incentrati sull’universo telepatico. L’occhio con cui il regista guarda a tutte queste forme di comunicazione – telepatica, televisiva, digitale-interattiva – è al contempo attratto e spaventato, in quanto vi coglie sia inedite possibilità di ampliamento della limitata e limitante realtà vissuta dall’essere umano contemporaneo, sia potenzialità manipolatrici capaci di riscrivere l’individuo nella mente e nel corpo distruggendone l’identità.

L’ibridazione mediatica nella produzione cronenberghiana segue […] un percorso che prende il via con opere incentrate sulle potenzialità della comunicazione telepatica (Stereo, Brood, Scanners, La zona morta), per poi passare a mostrare come l’incidenza del medium televisivo sull’essere umano (Videodrome) conduca alla nascita di un’inquietante ed inedita tipologia di ibridazione che verrà ulteriormente rafforzata dalle nuove tecnologie digitali interattive (eXistenZ) che spalancano le porte all’onlife, ossia all’indiscernibilità tra online ed offline, al corpo disseminato nelle rete e alla tematica dell’inconscio artificiale, ponendo con forza la questione che, probabilmente, è a monte di tutto il cinema cronenberghiano: l’identità umana, fisica e mentale, in un mondo sempre più tecnologizzato, sempre più artificiale.

A delineare in estrema sintesi la posizione di Cronenberg nei confronti della scienza e della tecnologia provvede lo stesso regista nel corso di un’intervista rilasciata a ridosso dell’uscita di eXistenZ. Il canadese in tale occasione afferma di voler mantenere uno sguardo il più possibile neutrale nei confronti della tecnologia e pur intercettando probabilmente le paure del pubblico nei confronti di questa, tenta di evitare tanto atteggiamenti apocalittici quanto apologetici. […]

[Nel volume sono esaminati] i tre principali processi di ibridazione indagati dal regista – biologico, artificiale e mediatico –, pur nella consapevolezza di un loro, non infrequente, intrecciarsi. Per analizzare tali processi di ibridazione [viene fatto riferimento] al concetto di “phylum macchinico”, coniato da Deleuze e Guattari per indicare la connessione fra «singolarità» prolungabili mediante determinate operazioni. Possiamo estendere il termine “phylum”, cioè connessione, non solo alla macchina ma anche alla sfera del corpo e della comunicazione mentale/mediatica introducendo così il “phylum biologico” ed il “phylum mediatico”. […]

 

 

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al-Hind: storie di una globalizzazione dimenticata https://www.carmillaonline.com/2025/11/05/al-hind/ Wed, 05 Nov 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91189 di Sandro Moiso

William Dalrymple, La Via dell’Oro. Come l’India antica ha trasformato il mondo, traduzione di Svevo D’Onofrio, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp.555, euro 35,00

Con il termina al-Hind i primi scrittori arabi indicarono tutto ciò che si trovava a est del fiume Indo e compresero chiaramente l’unità di una vasta superficie terracquea, estesa dall’Hindu Kush al Pacifico, riconoscendo in essa una regione dalle caratteristiche omogenee. Quella che oggi dovremmo riconoscere, anche qui in Occidente come indosfera, ma che ancora tarda ad essere riconosciuta come tale.

In un momento di declino della centralità economica, politica e culturale dei paesi [...]]]> di Sandro Moiso

William Dalrymple, La Via dell’Oro. Come l’India antica ha trasformato il mondo, traduzione di Svevo D’Onofrio, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp.555, euro 35,00

Con il termina al-Hind i primi scrittori arabi indicarono tutto ciò che si trovava a est del fiume Indo e compresero chiaramente l’unità di una vasta superficie terracquea, estesa dall’Hindu Kush al Pacifico, riconoscendo in essa una regione dalle caratteristiche omogenee. Quella che oggi dovremmo riconoscere, anche qui in Occidente come indosfera, ma che ancora tarda ad essere riconosciuta come tale.

In un momento di declino della centralità economica, politica e culturale dei paesi europei e degli Stati Uniti stessi, spesso si immagina un nuovo ordine multipolare in cui, troppo spesso, sembrano ergersi soltanto, o quasi, altre due aree di significativa influenza, Cina e, per quanto bistrattata, Russia. Tralasciando, e sarebbe qui inutile spiegare ancora una volta le radici coloniali e “razziali” di tale dimenticanza, di comprendere tra queste almeno anche l’India.

Quel sub-continente che ancora oggi, pur comprendendo una porzione significativa della popolazione mondiale e delle attività collegate agli aspetti più avanzati della modernità digitale, spesso è visto soltanto come una vasta area di arretratezza sociale ed economica su cui lo sguardo mediatico e dell’immaginario collettivo sembra posarsi ancora come ai tempi dell’impero coloniale britannico e dei suoi cantori alla Rudyard Kipling oppure, per rimanere più vicini a noi, con gli occhi del Capitano Salgari. Eppure, eppure…

Almeno la letteratura ha iniziato a cogliere gli elementi di novità, spesso di carattere tecnologico, presenti alle spalle degli aspetti più retrogradi del nazionalismo hindu, rappresentato dall’attuale capo del governo, Narendra Damodardas Modi, dalla ancora diffusa violenza sulle donne o del cinema di Bollywood. E lo ha fatto, guarda caso, ancora una volta con generi d’evasione come ai tempi di Salgari, in particolare nell’ambito della fantascienza e della fantapolitica.

Per questo motivo, e per non rubare troppo spazio al proseguimento della recensione del testo di Darlymple, vale la pena di ricordare qui soltanto alcuni testi, più o meno recenti. Il primo è I giorni di Cyberabad di Ian McDonald1, in cui lo scrittore scoto-irlandese immagina e descrive l’India del 2047. Una nuova superpotenza abitata da un miliardo e mezzo di persone nell’era dell’IA, fratturata in una dozzina di stati in cui, accanto allo sviluppo delle attività legate alla programmazione e alla economia della comunicazione digitale, nascono dee-bambine e si celebrano matrimoni tra uomini e IA.

Uno un po’ meno recente è La vacca sacra (Sacred Cow, 1993), un racconto breve contenuto in un’antologia dell’autore cyberpunk americano Bruce Sterling2, in cui lo scrittore immagina, con ironia e senso dell’anticipazione, una compagnia cinematografica indiana intenta a realizzare un film nella ex—potenza coloniale inglese, dove i costi di lavorazione, a causa della decadenza economica e della crisi sociale e politica, sono molto inferiori a quelli dell’India ormai sviluppata e più ricca.

Ma è certamente 2034 di Elliot Ackerman e James Stavridis3 a costituire il motivo di maggiore interesse, anche alla luce dei conflitti che si delineano, con sempre minore possibilità di essere arrestati diplomaticamente, all’orizzonte e sul breve periodo. Stavridis è un ammiraglio con una prestigiosa carriera militare, politica e giornalistica, mentre Ackermann, prima di sfornare best seller, ha prestato servizio nei Marines e nelle Forze Speciali. Insieme immaginano, nell’anno che da il titolo al romanzo, una devastante guerra nucleare tra Stati Uniti e Cina in cui, però, a svolgere un decisivo ruolo dirimente sarà proprio l’India che, anzi, sarà l’unica nazione a uscire rafforzata e vincente dal conflitto tra le altre due superpotenze. Ruolo svolto sia attraverso il soft power che per l’arsenale nucleare rimasto intatto e minaccioso, fatti entrambi valere sulle rovine economiche e politiche di ciò che resta, dopo pochi giorni di guerra, dei due “imperi” nemici.

Visioni, tutte, di un futuro in cui l’India sembrerebbe o potrebbe riprendere un ruolo politico, economico e culturale già avuto per almeno un millennio nella storia del globo o anche soltanto di quella parte che si è qui precedentemente definita come “indosfera”, le cui radici vengono ampiamente analizzate e descritte nel magnifico testo di William Darlymple edito da Adelphi.

Durante gran parte del Basso Medioevo e dell’Età moderna, l’India fu profondamente influenzata da elementi culturali provenienti dall’esterno dei suoi confini. In seguito all’istituzione di una serie di sultanati islamici tra il XII e il XIII secolo, il persiano divenne la lingua ufficiale del governo
in gran parte del Subcontinente e i modelli culturali persiani – nell’arte, nell’abbigliamento, nel galateo – si affermarono persino nelle corti indù dell’India meridionale. Successivamente, nel XIX secolo, con l’ascesa della Compagnia delle Indie Orientali e dell’Impero britannico, l’inglese sostituì progressivamente il persiano e l’India entrò a far parte dell’anglosfera. Per progredire socialmente divenne indispensabile padroneggiare l’inglese e gli indiani che aspiravano a farsi strada dovettero rinunciare, o relegare in secondo piano, aspetti rilevanti della propria cultura, trasformandosi in « Sahib bruni » anglofoni […] Eppure, nel millennio e mezzo precedente, dal 250 a.C. al 1200 d.C. circa, l’India era stata una fiera esportatrice della propria variegata civiltà, fino a creare intorno a sé un impero delle idee – una vera e propria «indosfera» – dove la sua influenza culturale risultava predominante. Durante questo periodo, il resto dell’Asia fu il destinatario consenziente e persino entusiasta di un colossale trasferimento di soft power indiano, in ambiti come la religione, l’arte, la musica, la danza, la tessitura, la tecnologia, l’astronomia, la matematica, la medicina, la mitologia, la lingua e la letteratura.
[…] Dall’India non giungevano soltanto figure pionieristiche di mercanti, astronomi e astrologi, scienziati e matematici, medici e scultori, ma anche santi, monaci e missionari appartenenti a diversi filoni di pensiero religioso: l’induismo (o sanatana dharma, come alcuni preferiscono chiamarlo), nelle sue declinazioni vedica, shivaita e vishnuita, e il buddhismo delle tradizioni theravada, mahayana e tantrica. […] Al giorno d’oggi, più di metà della popolazione mondiale vive in aree in cui le idee religiose e culturali indiane sono, o sono state, preponderanti, e dove un tempo le divinità indiane dominavano l’immaginazione e le aspirazioni di uomini e donne. Al tempo stesso, l’influenza intellettuale dell’India si è estesa verso occidente, consegnandoci non solo nozioni matematiche cruciali, come lo zero, ma anche la forma stessa dei numeri che tuttora utilizziamo – probabilmente la cosa più simile a una lingua universale che l’umanità abbia mai posseduto. Le conoscenze, i saperi e le intuizioni religiose dell’India antica sono una parte fondante del nostro mondo. […] In ambito scientifico, astronomico e matematico, l’India è stata maestra del mondo arabo e, per suo tramite, dell’Europa mediterranea4.

William Benedict Hamilton-Dalrymple (classe 1965) è uno storico, giornalista, scrittore di viaggi, autore scozzese che vive tra Londra e Delhi ormai da molti anni. Per i suoi saggi sull’India e l’Oriente è stato insignito di numerosi premi letterari ed è membro della Royal Society of Literature e della Royal Asiatic Society. Tra le sue principali opere, pubblicate in Italia da Adelphi, vanno annoverate: Il ritorno di un re. La prima, catastrofica intromissione dell’Occidente in Afghanistan (2015); Nove vite (2020); Anarchia (2022) e, con Anita Anand, Koh-i-Nur. Sulle tracce della pietra ‘maledetta’: il Koh-i-Nur, «La montagna di luce» ( 2020). Mentre per Rizzoli editore ha in precedenza pubblicato: Dalla montagna sacra (1998), Il Milione (1999), In India (2000), Delhi (2001), Nella terra dei Moghul bianchi (2002) e L’assedio di Delhi. 1857 Lo scontro finale fra l’ultima dinastia Moghul e l’impero britannico (2007).

Pur non essendo certo ispirata dai post colonial studies, all’interno della sua opera, oltre a ricostruire anche da storico dell’arte quale è lo splendore della civiltà indiana passata, non manca mai l’occasione di sottolineare le violenta trasformazione e lo sfruttamento imposto dall’impero britannico e dalla Compagnia delle Indie sulla società, la cultura, l’economia e le tradizioni politiche e religiose del sub-continente indiano. Un’attenzione che, un po’ come quella di Rudyard Kipling, decisamente più ispirata però da una percezione di stampo ancora coloniale, deriva dal suo incontro con l’India a partire dalla gioventù.

Il mio primo contatto con Delhi avvenne quando avevo diciotto anni: vi giunsi nella nebbiosa notte invernale del 26 gennaio 1984. […] Non sapevo assolutamente nulla dell’India.
Avevo trascorso l’infanzia nella Scozia rurale, sulle sponde del Firth of Forth, e tra i miei compagni di scuola ero probabilmente quello che aveva viaggiato di meno. I miei genitori erano convinti di vivere nel luogo più bello che si potesse immaginare, e di rado ci portavano in vacanza, a parte un’annuale gita primaverile in un angolo delle Highlands scozzesi, anche più fredde e umide di casa nostra. Forse per questa ragione Delhi ebbe su di me un effetto maggiore e più sconvolgente di quanto avrebbe avuto su adolescenti più cosmopoliti.
[…] Ormai da oltre vent’anni divido il mio tempo fra Londra e Delhi, e la capitale indiana resta la mia città preferita. E’ soprattutto il rapporto della città con il suo passato che continua ad affascinarmi: tra le più grandi città del mondo, solo Roma, Istanbul e Il Cairo possono pretendere di rivaleggiare con Delhi per l’ampiezza e il numero dei resti storici5.

Un interesse che è tutt’altro che organizzato intorno all’esotismo o alla nostalgia di un passato che non c’è più, ma tutto rivolto a collegare la storia di un paese immenso, che già attrasse l’attenzione e le velleità espansionistiche di Alessandro Magno, con le sue proiezioni sul presente, soprattutto sulla cultura occidentale e asiatica. Senza, naturalmente, passare attraverso le curiosità di stampo new age o hippy che troppo spesso hanno suscitato la vacua attenzione del pubblico occidentale.

Così come l’autore fa nell’ultimo testo pubblicato da Adelphi, ma uscito in lingua originale nel 2024, in cui le dieci storie che compongono gli altrettanti capitoli seguono le rotte marittime che per secolo permisero la diffusione della cultura e della scienza indiana, insieme alle ricchezze del sub-continente, di diffondersi nel resto del mondo attraverso la Via dell’Oro che dà il titolo all’opera.

Grazie ai venti del monsone asiatico, l’India si trova al centro di una vasta rete di rotte marittime e commerciali navigabili. Ogni estate, il riscaldamento dell’altopiano tibetano genera un’area di bassa pressione che attira i venti freschi e umidi dal Golfo del Bengala. Ogni inverno, al contrario, venti freddi e secchi spirano dalle nevi dell’Himalaya verso i caldi mari circostanti. La penisola indiana è situata nel mezzo di questo vortice di venti che soffiano in una direzione per sei mesi all’anno e si invertono nei sei mesi successivi. La regolarità e la prevedibilità di questo fenomeno naturale danno origine ai monsoni, che per millenni hanno permesso ai marinai indiani di spiegare le vele e lanciarsi negli oceani circostanti, per poi rientrare in sicurezza quando i venti si invertivano.
Gli antichi mercanti indiani sfruttavano le vie marittime dell’Asia monsonica per viaggiare in due direzioni. Molti si dirigevano a ovest, approfittando dei venti invernali, fino alle coste orientali dell’Africa e ai prosperi regni dell’Etiopia. Qui si trovavano dinanzi a una scelta: seguire il ramo settentrionale, che attraverso il Golfo Persico conduceva in Iran e in Mesopotamia, oppure il ramo meridionale, che attraverso il Golfo di Aden li portava nel Mar Rosso e in Egitto. I mercanti diretti a ovest arrivavano con gli alisei all’inizio dell’estate e tornavano in India con il monsone estivo in agosto. Con i venti a favore, la navigazione dalla bocca del Mar Rosso al Gujarat richiedeva appena quaranta giorni. Tuttavia, perdere i venti poteva prolungare il viaggio di andata e ritorno fino a un anno, costringendo i mercanti a una lunga vacanza forzata in riva al Nilo. Il percorso terrestre equivalente, attraverso l’Afghanistan con carovane di cammelli, richiedeva almeno il triplo del tempo.
Per circa tre secoli, a partire dalla battaglia di Azio del 31 a.C. e dalla successiva integrazione dell’Egitto nel sistema imperiale romano, le principali arterie commerciali tra Oriente e Occidente non furono le rotte terrestri, spesso sbarrate dal conflitto tra Roma e i Parti, bensì la Via dell’Oro dei mari aperti, che solcava le turbolente acque del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano (W. Dalrymple, op. cit., pp. 17-18. )).

Una storia, quella ricostruita da Dalrymple che, per motivi diversi e con modalità narrative differenti, si affianca a quella della Via della Seta, tra Cina e Occidente, che è stata ricostruita da Peter Frankopan, docente di Storia bizantina all’Università di Oxford, senior research fellow al Worcester College e direttore dell’Oxford Centre for Byzantine Research, in tempi quasi altrettanto recenti (2015)6. Due ricostruzioni utilissime per comprendere come la pretesa centralità politica ed economica, oltre che culturale, dell’Occidente non rappresenti altro che una momentanea illusione di stampo coloniale una volta messa a confronto con i tempi lunghi e lunghissimi della storia planetaria.

Motivo per cui, avvicinandosi il momento della necessaria chiusura di questa recensione, vale almeno la pena di ricordare la storia narrata, a partire dallo sperduto sito archeologico di Mes Aynak, tra le cui grotte si era nascosto in tempi più recenti Osama Bin Laden, nel terzo capitolo di La Via dell’Oro, intitolato Il grande re, re dei re, figlio di dio, di un antico impero formatosi tra le montagne dell’attuale Afghanistan, ad opera di un popolo nomade di pastori, quello dei Kushana, che costituì una fondamentale occasione per la diffusione del buddhismo dall’India verso la Cina e uno snodo importante per i rapporti dell’Asia centrale con l’impero romano.

I Kushana in origine erano un popolo di pastori nomadi indoeuropei che si spostavano tra le oasi desertiche dell’Asia centro-orientale. Gli antichi imperi cinesi li conoscevano inizialmente come Yuezhi. I loro autoritratti su monete e sculture li raffigurano come uomini di corporatura robusta, all’apparenza di ceppo iranico. […] Intorno al 160 a.C. gli Yuezhi/Kushana migrarono verso sud, forse a causa dell’espansione dell’Impero cinese Han, e si stabilirono nell’odierno Afghanistan. Qui finirono col sopraffare gli ultimi greci di Battriana, i discendenti dei macedoni che erano rimasti bloccati nella regione dopo la prematura morte di Alessandro Magno e la disgregazione del suo impero.
[…] Col passare del tempo, i Kushana si lasciarono definitivamente alle spalle le loro radici tribali scitiche e nomadiche e adottarono diversi aspetti dell’ellenismo stanziale dei loro predecessori greci di Battriana, le cui monete iniziarono presto a imitare. Al tempo stesso, i Kushana si ispirarono anche alle tradizioni dei Parti, che allora dominavano le pianure della Persia orientale. In tal modo, finirono con l’abbracciare un pantheon insolitamente ampio, come testimoniano le loro monete che raffigurano più di trenta divinità provenienti dalle diverse tradizioni religiose presenti nei loro domini. E a misura che i Kushana si espandevano verso sud, il loro culto pubblico si orientava sempre più verso le divinità, le religioni e le filosofie dell’India.
Paradossalmente, l’ascesa del buddhismo indiano in Asia Centrale sembra essere iniziata proprio nel momento in cui gli eserciti kushana marciavano verso sud in direzione dell’India. Le conquiste dei Kushana, infatti, anziché isolare il Subcontinente, aprirono i passi un tempo invalicabili dell’Hindu Kush, permettendo ai monaci buddhisti di attraversarli nella direzione opposta e, col tempo, di costruire cappelle, stupa e monasteri, convertendo gradualmente le popolazioni locali alla propria fede. Alla fine, sarà proprio il patrocinio kushana del buddhismo a consentirgli di diffondersi in tutta l’Asia Centrale e fino in Cina.
[…] Fu solo con la conquista dei passi dell’Hindu Kush da parte dei Kushana tra il I e il II secolo d.C. e la conseguente intensificazione degli scambi commerciali attraverso le montagne, tra il Tagikistan e il porto fluviale di Barbarikon, presso l’odierna Karachi, che i mercanti buddhisti indiani iniziarono a stabilirsi nella regione in numero significativo7.

Proprio il prospero porto di Barbarikon, situato alla foce dell’Indo, avrebbe poi costituito un momento centrale degli scambi tra l’Asia Centrale e l’impero di Roma, bypassando il regno dei Parti che costituì sempre un severo ostacolo militare sia per l’espansione romana che dei regni e imperi dell’Asia centrale. Così, dopo l’incontro tra ambasciatori “indiani” e l’imperatore Traiano, ancora ricordato sulla Colonna Traiana dove gli emissari asiatici sono rappresentati mentre indossano turbanti e pantaloni, e dopo la promessa dei Romani di pagare i prodotti dei Kushana in oro, gli scambi tra l’Egitto romano e il regno afghano si svilupparono in maniera decisamente significativa.

Dai porti kushana come Barbarikon cominciò a transitare una gran quantità di beni di lusso occidentali, tra cui oro e vino romani, provenienti da Alessandria e dai porti del Mar Rosso; da lì risalivano l’Indo e raggiungevano le capitali settentrionali dei Kushana, come Taxila, Pushkalavati presso Peshawar, e Bagram, nelle pianure a nord di Kabul. A Pushkalavati è stata rinvenuta un’intera cantina vinicola colma di anfore romane, curiosamente situata accanto a un santuario buddhista8.

Dando via ad una sorta di globalizzazione dei commerci e delle conoscenze ben più antica di quella promossa con tanta enfasi negli ultimi decenni a partire dall’Occidente. Con buona pace dei suoi estimatori e dei suoi mentori politici e mediatici che ne sottolineano da sempre la “novità”.


  1. Ed. originale: I. McDonald, Cyberabad Days (2009) ora tradotto in italiano nella collana «Urania Jumbo» n° 28, Mondadori Libri S.p.a., Milano febbraio 2022.  

  2. B. Sterling, Un futuro all’antica, collana «Solaria» n° 9, Fanucci Editore, Roma, settembre 2000 (titolo originale: A Good Old-fashioned Future, 1999).  

  3. Edito in Italia nel 2021 da SEM Editore.  

  4. W. Dalrymple, L’indosfera, in La Via dell’Oro. Come l’India antica ha trasformato il mondo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 14-17.  

  5. W, Dalrymple, Introduzione a Delhi 1857. Lo scontro finale fra l’ultima dinastia Moghul e l’impero britannico, RCS Libri S.p.a., Milano 2007, pp. 16-18.  

  6. Peter Frankopan, Le vie della seta. Una nuova storia del mondo, Mondadori, Milano 2017.  

  7. W. Dalrymple, op. cit., pp. 102-106.  

  8. Ibidem, p. 109.  

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La storia fino al sei ottobre https://www.carmillaonline.com/2025/11/04/la-storia-fino-al-sei-ottobre/ Tue, 04 Nov 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91206 di Giovanni Iozzoli

Ralph Schoenman, La storia nascosta del sionismo, Associazione Rjazanov, 2024, pp. 230, € 12,00

Pubblicato per la prima volta in Italia, il volume di Ralph Shoenman  può  essere considerato uno strumento importante di inquadramento storico-politico della questione palestinese e segnatamente della storia del movimento sionista. Lettura quanto mai utile a chi ancora coltiva l’illusione di poter discernere un sionismo “romantico”, ancestrale, puro, addirittura socialisteggiante, da un sionismo “reale” degenerato. Il sionismo, per quanto ami ammantarsi di arcaismi, è una espressione della modernità e di contraddizioni materiali maturate nel vecchio continente.  Come dice Ian Pappè: il sionismo è stata la risposta europea ad [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Ralph Schoenman, La storia nascosta del sionismo, Associazione Rjazanov, 2024, pp. 230, € 12,00

Pubblicato per la prima volta in Italia, il volume di Ralph Shoenman  può  essere considerato uno strumento importante di inquadramento storico-politico della questione palestinese e segnatamente della storia del movimento sionista. Lettura quanto mai utile a chi ancora coltiva l’illusione di poter discernere un sionismo “romantico”, ancestrale, puro, addirittura socialisteggiante, da un sionismo “reale” degenerato. Il sionismo, per quanto ami ammantarsi di arcaismi, è una espressione della modernità e di contraddizioni materiali maturate nel vecchio continente.  Come dice Ian Pappè: il sionismo è stata la risposta europea ad un problema europeo – la piaga dell’antisemitismo – che nel dopoguerra è stato rovesciato brutalmente sull’area mediorientale, segnandone per quasi un secolo il destino.

Le radici ideologiche di questo processo, più che nell’Antico Testamento, vanno cercate nell’ethos coloniale del diciannovesimo e ventesimo secolo, che ha fornito adeguati strumenti retorici e ideologici al sionismo.   L’idea che la Palestina fosse una terra vergine, abitata da etnie primitive da sgomberare, sottomettere o emancipare – opzioni riflettenti le diverse articolazioni del sionismo -, è tutt’ora alla base dello Stato d’Israele e della pedagogia di massa con cui vengono indottrinate le nuove generazioni israeliane. Shoenman mette a nudo le contraddizioni di questa ideologia malata – gli europei ashkenaziti che opprimono i semiti palestinesi in nome della lotta all’antisemitismo! – e soprattutto presenta al lettore un conto inappellabile: quello della storia, dei fatti, degli eventi che nella loro crudezza, almeno a partire dalla Nakba, non possono trovare smentite.

Ralph Shoenman morto un mese prima della tragica deflagrazione del 7 ottobre, è stato Direttore Esecutivo della Fondazione Bertrand Russell, oltre ad aver ricoperto altri ruoli di prestigio a livello internazionale.  Compose questo libro all’epoca della prima Intifada e l’inizio del suo testo è una sorta di racconto in presa diretta di quella grande rivolta popolare. Rileggere i frammenti di quelle cronache fa impressione per la radicalità, la massificazione popolare della rivolta e la ferocia brutale della repressione. Isaak Rabin, allora ministro della Difesa – poi beatificato dall’Occidente in seguito al suo assassinio ad opera di fanatici oggi al governo in Israele – impiegò tutto il peso dell’IDF sui Territori rivelandone pienamente il carattere coloniale e di forza d’occupazione. Già nel 1987 il pugno della repressione – spari sulla folla, rastrellamenti, demolizioni e detenzione di massa – fu spietato, anche a fronte di un sollevamento prevalentemente civile e non armato.

Con l’intensificarsi della rivolta, il gabinetto israeliano e il ministro della Difesa Yitzhak Rabin implementarono le punizioni collettive, una tattica caratteristica dell’occupazione nazista di Francia, Danimarca e Jugoslavia. Si impediva che cibo, acqua e medicine raggiungessero i campi profughi palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Il personale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa) riferiva di spari e percosse con bastoni ai bambini che cercavano latte in polvere nei depositi dell’Onu (p. 3)

Siamo quindi nel 1987, la strategia non è ancora quella del genocidio dispiegato, ma dentro le pratiche della repressione israeliana che racconta Shoenman, c’è già in embrione tutto il campionario di crimini contro l’umanità che saranno squadernati sotto gli occhi del mondo dopo il 7 ottobre.  Il racconto di quella rivolta conduce il lettore alla radice della questione: il sionismo reca in sé un seme di violenza e oppressione che dopo il 48 si dispiegherà senza soluzione di continuità. Ma è quella l’origine, la soglia il cui oltrepassamento, renderà la Nakba una trama permanente della vita e dell’identità palestinese.

Le ambizioni territoriali del sionismo sono state espresse chiaramente da David Ben-Gurion in un discorso ad un’assemblea sionista il 13 ottobre 1936: “noi non suggeriamo di annunciare ora il nostro obiettivo che è di vasta portata, anche più di quello dei revisionisti che si oppongono alla spartizione. Non sono disposto ad abbandonare la grande visione, la visione finale che è una componente organica, spirituale e ideologica delle mie aspirazioni sioniste “.  Nello stesso anno Ben-Gurion scrisse in una lettera a suo figlio: “uno Stato ebraico parziale non è la fine, ma solo l’inizio. Sono certo che non ci potranno impedire di insediarci in altre parti del paese e della regione”.  Nel 1937 dichiarò: “i confini delle aspirazioni sioniste sono la preoccupazione del popolo ebraico e nessun fattore esterno sarà in grado di limitarli”.  Nel 1938 fu più esplicito: “i confini delle aspirazioni sioniste “, disse al Congresso del Consiglio mondiale di Poale Zion a Tel Aviv – “includono il LIbano meridionale, la Siria meridionale, l’attuale Giordania, tutta la Cisgiordania e il Sinai. (p. 52)

Le testimonianze di come questo programma venne applicato inflessibilmente nel corso degli anni e dei decenni, sono riportate in gran numero e spiegano perfettamente perché gli arabi di tutto il Medioriente definirono “catastrofe” la proclamazione dello Stato di Israele. Quasi 40 anni fa Shoenman scriveva:

la vendicatività e la calunnia sono così universalmente rivolte agli antisionisti perché la disparità tra la finzione ufficiale riguardo al sionismo e lo Stato di Israele, da una parte, e le pratiche barbare di questa ideologia coloniale e del suo apparato coercitivo, dall’altra, è molto ampia. Le persone rimangono scioccate quando hanno l’opportunità di sentire o di leggere le centinaia di persecuzioni sofferte dai palestinesi e, inoltre, gli apologeti del sionismo sono implacabili nel cercare di impedire un esame coerente e imparziale del passato virulento e sciovinista del movimento sionista e dello Stato che ne incarna i valori. (p. 22)

Parole quanto mai attuali – scritte molte tempo prima del genocidio in corso – per un libro da leggere e da usare nel dibattito contemporaneo.

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Alcune note circa gli effetti dell’entrata in vigore del cosiddetto “Decreto sicurezza” https://www.carmillaonline.com/2025/11/03/alcune-note-circa-gli-effetti-dellentrata-in-vigore-del-cosiddetto-decreto-sicurezza/ Mon, 03 Nov 2025 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90979 di Pietro Garbarino

Al di là delle appropriate e puntuali osservazioni svolte dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione circa la nuova normativa sulla sicurezza approvata dal Parlamento alcuni mesi fa, pur con il “sotterfugio” della procedura di conversione di decreto legge, va rilevato che l’entrata in vigore di tale normativa ha completamente modificato non solo una rilevante serie di norme di legge sostanziali e del codice di procedura penale, ma ha altresì inciso sulla stessa struttura del reato penale così come configurata, e consolidata nel tempo, dalla dottrina penalistica a partire dal testo dell’Antolisei.

Tale consolidato e imponente orientamento [...]]]> di Pietro Garbarino

Al di là delle appropriate e puntuali osservazioni svolte dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione circa la nuova normativa sulla sicurezza approvata dal Parlamento alcuni mesi fa, pur con il “sotterfugio” della procedura di conversione di decreto legge, va rilevato che l’entrata in vigore di tale normativa ha completamente modificato non solo una rilevante serie di norme di legge sostanziali e del codice di procedura penale, ma ha altresì inciso sulla stessa struttura del reato penale così come configurata, e consolidata nel tempo, dalla dottrina penalistica a partire dal testo dell’Antolisei.

Tale consolidato e imponente orientamento dottrinale analizzava il reato penale e ne individuava gli elementi fondamentali nel modo seguente:
• Antigiuridicità del fatto obbiettivo; cioè il fatto commesso deve essere contrario a norme giuridiche che tutelano beni e situazioni ritenute a loro volta degne di tutela da parte dell’ordinamento giuridico come, ad esempio, l’integrità della persona o la tutela dei beni pubblici o privati,
• L’elemento soggettivo in capo a colui che commette il reato, sia nel senso della volontarietà (dolo) che nel senso della imprudenza, negligenza, imperizia (colpa) di chi agisce.
• Le circostanze in cui avviene il fatto, e cioè il concorso di situazioni specifiche che possano riguardare luoghi, contesti familiari e/o sociali, particolari situazioni di natura istituzionale e che concorrono a qualificare il fatto in modo più o meno grave o addirittura a modificarne la natura giuridica.

Sulla base di tale analitica struttura del reato la unanime dottrina ha ritenuto che se avviene un fatto che viola le norme della umana convivenza, e tale fatto è commesso volontariamente o con colpa, stante l’eventuale concorso di particolari circostanze, si può pervenire alla individuazione della eventuale responsabilità di chi tale fatto ha commesso.
Invece con la nuova normativa introdotta dalla legge 9.6.2025 n. 80 (per l’appunto il cosiddetto “Decreto Sicurezza”) tale impostazione giuridica sembra essere stata profondamente modificata.

Una prima profonda modifica la possiamo ravvisare nel nuovo art. 270 quinquies 3 c.p. (detenzione di materiale con finalità di terrorismo).
L’intento di tale norma è quello di prevenire chi si procura istruzioni sulla preparazione di congegni bellici (esplosivi, armi da fuoco o altre armi, sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose e altre tecniche e metodi) per il sabotaggio di servizi pubblici essenziali.

Prescindendo dal fatto che la condotta di chi preparava azioni di sabotaggio, attacchi e attentati ai servizi pubblici essenziali era già punita in precedenza da altra disposizione facente parte del medesimo contesto normativo, la modificazione sostanziale della struttura del reato introdotta con la nuova norma sta proprio nella punizione penale del fatto, in sé e per sé, di apprendere istruzioni sull’uso di tali congegni, armi e sostanze a prescindere da eventuali azioni successive che portino ad atti di attentato o di sabotaggio.

In altri termini è la sola circostanza di prendere visione ed eventualmente approfondire istruzioni tecniche su potenziali strumenti che possano essere finalizzati ad attività di terrorismo a qualificare la condotta illecita e perciò sanzionabile. Ciò sta a significare che è la mera circostanza quella che integra il reato prescindendo sia dal fatto antigiuridico che dall’elemento soggettivo dell’agente.

Come si può chiaramente rilevare in questo caso viene completamente stravolta e abbandonata l’impostazione dottrinaria che individua gli elementi del reato, nel senso che l’elemento eventualmente meno rilevante della fattispecie penale, e cioè la circostanza, integra il reato stesso indipendentemente dalla sussistenza degli altri elementi che la unanime dottrina ritiene indispensabili perché si possa parlare di condotta penalmente illecita.

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Una conferma di tale considerazione è costituita dalla introduzione del nuovo comma 11 decies all’art. 61 c.p. e cioè la norma che prevede le aggravanti per i vari tipi di reati.
Si tratta della circostanza di luogo per cui un reato contro le persone commesso in una stazione ferroviaria o metropolitana può comportare un aumento della pena irrogata fino a due terzi (ad esempio le lesioni personali punite con il massimo della pena di 3 anni, possono comportare, in quella circostanza, un aumento di pena fino a 5 anni) modificando sostanzialmente l’entità della pena e precludendo l’accesso a eventuali pene alternative o altri possibili benefici irrogabili per le pene brevi.

Stessa considerazione può farsi per i reati in danno di pubblici ufficiali (oltraggio, violenza, resistenza) là dove la qualità della vittima dell’azione illecita comporta un aumento di pena fino alla metà.
Si noti che per l’oltraggio a P.U. (il corrispondente reato di ingiuria tra privati è stato perfino depenalizzato) si può pervenire ad una pena di 4 anni e mezzo.

Ma, come se ciò non bastasse, è stata introdotta anche un’altra circostanza aggravante, cumulabile con la precedente, per cui la pena è ulteriormente aumentata se la violenza o minaccia a P.U. sia commessa al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture di interesse pubblico.
In sostanza si tratta delle contestazioni alle grandi opere, che spesso vengono contestate da comitati locali di cittadini e associazioni ambientaliste; l’antigiuridicità consiste dunque nel dissenso.

Ebbene, il fatto saliente del reato, e cioè avere offeso, minacciato o anche solo resistito con violenza al P.U., già punito con la reclusione sino a 7 anni, viene sanzionato ulteriormente per la circostanza che ciò avvenga nelle vicinanze (neppure dentro) una stazione ferroviaria o della metropolitana e per il fatto che si protesti contro un’opera pubblica.
Cioè, circostanze che possono essere anche occasionali e, comunque, attinenti al diritto costituzionale di dissentire da scelte politiche e amministrative possono comportare pene anche superiori ai 10 anni di reclusione.

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Ma una drammatica conferma di tale considerazione è data dall’introduzione nel codice penale di un secondo comma all’art. 415 c.p. (Istigazione a disobbedire alle leggi all’interno di istituto penitenziario).
Viene infatti aumentata la pena se un qualche invito a non rispettare leggi dello stato sull’ordine pubblico (evidentemente come tali vengono ritenute anche le norme sull’istituzione carceraria) avviene all’interno di un istituto di detenzione.

Il cittadino, ancorché detenuto, anche se viene interdetto dall’esercizio di alcuni diritti politici (come il voto), ha pur sempre diritto alla propria libertà di pensiero pur dovendo comunque sottostare ad eventuali norme che la limitano.
Ma nel caso di specie, è la condizione di detenzione che determina il reato, che in questo specifico caso non lascia neppure spazio a comportamenti di difesa passiva, comunque sanzionati.

Tale situazione di eguaglianza tra cittadini sancita dalla Costituzione, risulta dunque annullata e stravolta proprio dal fatto che la circostanza della detenzione incide sull’entità della pena, aggravandola per il detenuto che manifesti, anche pacificamente e legittimamente, le proprie opinioni e avanzi le proprie rivendicazioni.

Ulteriori casi di allargamento di ipotesi di reato su situazioni già sanzionate, e ciò per effetto delle circostanze prescindendo da fatto obiettivo ed elemento soggettivo del reato, la si può ravvisare sia nella modifica dell’art. 693 c.p. (Danneggiamenti in occasioni pubbliche manifestazioni) allorché il fatto contestato, in occasione di pubbliche manifestazioni, costituisce motivo di specifica aggravante, nonostante che il reato di danneggiamento, articolato per numerose ipotesi, già sia previsto. E la pena pecuniaria irrogabile, in tale eventualità, è assai pesante.

Ma se poi su detti beni, vengono compiuti atti di deturpamento, come ad esempio baffi alle immagini o copricapi ridicoli, o di imbrattamento come scritte con bombolette spray, entrerebbe in vigore la nuova formulazione dell’art. 639 c.p. che trasferisce il fatto da contravvenzione (reato minore e non gravemente punito) a delitto, e cioè a reato di superiore gravità; il tutto con pene pecuniarie molto pesanti.
Anche in questo caso è la circostanza, elemento eventuale del reato, a fare la differenza in quanto la situazione di protesta durante la quale possono accadere tali fatti, prevale sul fatto stesso e sulle intenzioni dell’agente.

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La protesta in quanto tale, pur nella sua legittimità costituzionale (art. 17-21-40), viene colpita direttamente dalla nuova penalizzazione del “blocco stradale e ferroviario”.

Portare sulla strada pubblica la protesta per informare, manifestare il proprio pensiero e protestare è un fatto storicamente connaturato alle vertenze sindacali o studentesche, in particolare quando situazioni di disagio vengono ignorate dalle naturali controparti.

Tale forma di lotta, vuole attirare l’attenzione pubblica sulla controversia in atto.
Ma è proprio la circostanza della controversia in atto quella che costituisce l’elemento essenziale del nuovo reato ipotizzato, che prescinde sia dalle sue motivazioni, sia dalla stessa applicazione di diritti costituzionali riconosciuti.
In altri termini, in tutti i casi che abbiamo testé descritto, il bene giuridico che appare violato, secondo la normativa in esame, appare essere più la pace sociale, mentre l’antigiuridicità sta nella protesta e nel dissenso, che sono invece ammessi e tutelati dalla Costituzione.

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Infine, per quanto riguarda il nuovo articolo 634 bis c.p. (occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui) anche qui sembra che il bene giuridico tutelato sia la proprietà in assoluto, oltre la valutazione di ogni sua funzione, ivi compresa quella sociale auspicata dall’art. 42 della Costituzione.

In altri termini un qualsiasi immobile, anche abbandonato o sfitto da tempo, ma ipoteticamente destinabile o destinato a domicilio altrui, costituisce un bene da proteggere in modo totale, mentre antigiuridico è il fabbisogno di casa di tante persone, in difficoltà per gli affetti alti o per la disoccupazione o la insufficienza di salari e pensioni.
Ovviamente l’occupazione-reato può riguardare anche pertinenze del detto immobile, protetto dalla sacralità delle proprietà.
Ma ciò che rileva ancor più è che dell’occupazione come fatto materiale sono ritenuti responsabili anche colui, o coloro, che hanno in qualche modo collaborato alla riuscita dell’occupazione. Anzi, qualora l’occupate accettasse di ritirarsi subito, ne diverrebbero gli unici responsabili.

Anche in questo caso la circostanza del bisogno di casa diviene il parametro unico per valutare la responsabilità dell’occupante, mentre qualsiasi altra valutazione oggettiva e soggettiva passa in secondo piano, in conformità del distorto principio giuridico che informa quel provvedimento normativo nel suo insieme.

In sostanza, quel distorto principio giuridico denunziato in precedenza, per cui sono pressoché esclusivamente le circostanze a integrare il reato, e secondo cui la norma penale ha funzione sanzionatoria “preventiva”, sembra dilagare, sommergendo la tradizionale e consolidata impostazione dottrinaria della struttura del reato.

Per di più, data la ormai prevalente rilevanza delle circostanze rispetto all’obbiettività del fatto reato, si va deteriorando una generale inversione dell’onere della prova, che è invece un principio giuridico fondamentale degli ordinamenti democratici dalla fine del 1700 sino ad oggi.

Cioè il cosiddetto principio dell’ “habeas corpus”, che dovrebbe stare alla base del potere dello stato di punire chi infrange la legge penale e che invece conferisce al medesimo poteri eccessivi.

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Super Mario Bros. come macchina ideologica della contemporaneità https://www.carmillaonline.com/2025/11/02/super-mario-bros-come-macchina-ideologica-della-contemporaneita/ Sun, 02 Nov 2025 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91021 di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, La filosofia di Super Mario Bros., Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 278, € 18,00

Nascosto dietro l’incubo del 1984 orwelliano è arrivato, senza che fosse percepito, quell’addomesticamento seducente huxleyano che, un poco alla volta, abbiamo imparato a conoscere. Volendo indicare un anno simbolo in cui “la fregatura” ha iniziato a insinuarsi tra noi, si può guardare al 1985. «Un salto. Un suono metallico. La prima moneta raccolta. Così comincia Super Mario Bros.: con un gesto elementare che diventa cultura. Non è solo un videogioco. È un congegno simbolico che nel 1985 prende possesso del televisore, come in Poltergeist. [...]]]> di Gioacchino Toni

Matteo Bittanti, La filosofia di Super Mario Bros., Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 278, € 18,00

Nascosto dietro l’incubo del 1984 orwelliano è arrivato, senza che fosse percepito, quell’addomesticamento seducente huxleyano che, un poco alla volta, abbiamo imparato a conoscere. Volendo indicare un anno simbolo in cui “la fregatura” ha iniziato a insinuarsi tra noi, si può guardare al 1985. «Un salto. Un suono metallico. La prima moneta raccolta. Così comincia Super Mario Bros.: con un gesto elementare che diventa cultura. Non è solo un videogioco. È un congegno simbolico che nel 1985 prende possesso del televisore, come in Poltergeist. Da quel momento la cultura scorre in orizzontale, come lo schermo: avanti, sempre avanti. Si cade, si ricomincia. Mario insegna una logica dell’azione che cambia riflessi, aspettative, desideri. Altro che passatempo: è un manuale operativo mascherato da intrattenimento» (p. 7). Così si apre il volume con cui Matteo Bittanti guarda al videogame della Nintendo ripercorrendo quattro decenni di mutazioni politiche, tecnologiche, estetiche e sociali.

Bittanti guarda a Super Mario Bros. indagandone le meccaniche (le regole e i comandi prestabiliti), le dinamiche (le strategie, le appropriazioni e gli usi collettivi) e le estetiche (gli aspetti emotivi, gli immaginari e le istituzionalizzazioni che ne derivano). «La meccanica del salto anticipa l’ideologia della performance. La dinamica della ripetizione racconta la precarietà del presente. L’estetica della nostalgia digitale ci mostra come guardiamo al passato per decifrare l’hic et nunc. Mario è un pretesto per comprendere il mondo che abitiamo: un linguaggio che trapassa media, contesti, istituzioni (p. 8).

L’autore evidenzia quanto della nostra contemporaneità è stato programmato (anche) da Super Mario Bros. a partire dalla sua uscita a metà degli anni Ottanta. «Super Mario Bros. non è semplicemente un videogioco. È un ordigno culturale, esploso in un anno cruciale – il 1985 – che segna una mutazione radicale nella forma della cultura, nella struttura dello sguardo, nella grammatica dell’azione» (p. 9). Dopo aver dimorato, alla sua nascita, negli spazi pubblici delle sale giochi, Mario si è trasferito nello spazio domestico dei gamer e da lì è iniziata la sua – e in qualche modo la nostra – nuova vita.

La filosofia Nintendo passa dalla disciplina punitiva della sala giochi a una pedagogia della scoperta, alternando difficoltà e ricompense, calibrando la frustrazione come leva per la meraviglia. […] Super Mario Bros. inocula una nuova logica dell’esperienza: non più rappresentare un mondo, ma programmarne la percorribilità. […] È l’avvento di un design che educa al vettore unico – produci, supera, procedi – e marginalizza i gesti di ritorno, manutenzione, ripensamento (pp. 9-10).

Bittanti guarda a Super Mario Bros. come a una macchina ideologica che introduce un modo di pensare basato sulla ripetizione rituale dell’ostacolo, sull’illusione della scelta, sulla performatività del fallimento. Lo studioso mette in relazione le meccaniche del gioco con gli eventi storici, culturali o mediali di metà anni Ottanta, quando si passa dalla rappresentazione spettacolare alla simulazione integrale, evidenziandone le risonanze strutturali. Nel suo presentarsi come sistema chiuso, sorvegliato e ottimizzato, in cui la fantasia è ridotta a puro codice, il videogame può essere visto come paradigma formale della contemporaneità.

Lo studioso mette in relazione il videogame della Nintendo con la percezione dell’invasione tecnologica giapponese vissuta dagli statunitensi a cui Hollywood darà immagine con Trappola di cristallo (Die Hard, 1988). È in tale contesto che, mentre gli adulti guardano con timore alla tecno-invasione giapponese, i più giovani si lasciano sedurre dal buffo e simpatico idraulico baffuto, dal nome italiano e dalla veste di lavoro blu e rossa progettato in Giappone e destinato a conquistare il mercato videoludico occidentale.

Il personaggio Mario è anonimo, privo di identità: un mero corpo operativo, uno strumento di movimento duttile che si limita ad agire: «è l’emblema del lavoratore postindustriale: sempre pronto, sorridente, flessibile, fungibile, fungino » (p. 20). Un proletario che salta e corre in silenzio: «ogni gesto è funzionale e automatico, privo di significato sociale o politico. Mario incarna così un’immagine della nuova working class, isolata e atomizzata, impegnata in un movimento continuo e ripetitivo, senza prospettiva di emancipazione collettiva o trasformazione sociale» (p. 86).

I videogiochi portatili che si diffondono negli anni Ottanta riscrivono l’esperienza videoludica trasformandola in una sequenza di gesti cronometrati. «Il videogioco entra così nella sfera dell’addestramento motorio, della ripetizione ritmica, del compito eseguibile» (p. 24) e funge da addestramento al pigiare convulso, ossessivo e ansiogeno degli smartphone. Dopo l’era della passività dello spettatore televisivo, l’universo dei videogame Nintendo proietta e attiva l’utente nel cyberspace.

Quando, a metà degli anni Ottanta, Super Mario Bros. viene messo sul mercato, il dibattito culturale è attraversato dalla figura del cyborg, di cui Mario rappresenta una versione depotenziata, disinnescata, tranquillizzante, compatibile e commerciabile. Lo stesso gamer, sostiene Bittanti, nonostante il suo entrare in simbiosi con il dispositivo tecnologico, resta un’ibridazione addomesticata all’interno di un sistema di regole rigidamente chiuso. Super Mario Bros. è permeato della medesima retorica procedurale dell’efficienza che si ritrova nel protagonista di Wall Street (1987) di Oliver Stone e che caratterizza il neoliberismo perseguito da Reagan giunto a inaugurare il suo secondo mandato in concomitanza con l’uscita del videogame della Nintendo.

Mario non protesta, non si organizza, non si sottrae. Corre, salta, raccoglie, ripete. È la personificazione ludica del soggetto neoliberista: sempre in movimento, disponibile 24/7, instancabile per necessità non per scelta. Il piacere dell’autosorveglianza, la gratificazione della prestazione, la trasparenza assoluta delle metriche. […] In Super Mario Bros. il tempo non accompagna l’azione: la incalza. Non è uno sfondo, ma un meccanismo di costrizione. Il timer in alto a destra non misura il gioco: lo governa. Ogni livello inizia con un conto alla rovescia che procede inesorabile. Non si guadagna tempo: lo si consuma. […] Si apprende per fallimento iterativo, ma senza catastrofe. La punizione non è l’espulsione dal gioco, ma il ritorno all’inizio. (pp. 39-40).

Super Mario Bros. riflette dunque la logica della prestazione neoliberista in cui l’errore viene percepito come carenza di ottimizzazione e codifica in forma ludica la logica Just-In-Time divenuta un dogma proprio negli anni Ottanta. «Il tempo, da risorsa, diventa pressione. […] Il tempo non è denaro: è debito da estinguere a ogni ciclo. La linea deve scorrere senza attrito. […] A differenza della fabbrica, però, qui la macchina sei tu: manodopera e algoritmo, in sincrono con un flusso progettato altrove. […] Non ci sono tempi morti. La morte è reset, non pausa. Il futuro non esiste: solo il frame successivo. Tempi postmoderni» (pp. 43-44).

Nel corso degli anni Ottanta Nintendo partecipa pienamente a quella corsa verso l’immateriale a cui si indirizza il capitalismo caratterizzata dalla prevalenza del marchio sulla produzione materiale e delle proprietà intellettuali sulla manodopera umana, insomma, come sintetizza efficacemente Bittanti, l’impresa si trasforma in piattaforma. «Super Mario Bros. è il sottoprodotto di un capitalismo che ha espulso la “zavorra” della forza lavoro. L’opera non coincide tanto con il gioco, quanto con la sua persistenza algoritmica: ogni livello è un asset pronto a essere ricombinato. Giocare significa accumulare capitale ludico. L’interazione è estrazione» (p. 45).

L’anno in cui nasce Super Mario Bros. è il medesimo in cui Microsoft introduce il sistema Windows provocando un vero e proprio cambio di paradigma: l’utente «non accede più a un mondo rappresentato, ma si muove in un contesto codificato, sezionato, operabile» (p. 47) in cui è tenuto a operare senza necessità di capire. Allo stesso modo Super Mario Bros. non presenta al gamer alternative ma protocolli: all’utente non è concesso di esplorare ma è tenuto ad attraversare, anziché creare deve limitarsi a eseguire, non deve imparare a programmare ma a obbedire operativamente. Insomma, si tratta di un apparato pedagogico che, scrive Bittanti, «forma soggettività compatibili con il sistema – docili, performanti, prevedibili» (p. 48) mantenendole nell’illusione di avere accesso a ogni cosa con immediatezza e semplicità.

Con gli anni Ottanta compare anche il mito della flessibilità a cui è tenuto l’essere umano a partire dall’ambito lavorativo e Super Mario Bros. contribuisce, a suo modo, ad addestrare il gamer alla prestazione intermittente, alla temporalità, alla vulnerabilità e all’instabilità. Mario assume a tutti gli effetti il ruolo di freelance hero della gig economy ludica che anziché ricevere un salario viene ricompensato per le sue prestazioni in moneta contante da raccogliere lungo il percorso in situazioni pericolose.

In questa struttura, il denaro non è mai accumulabile a lungo termine: esaurita la partita, l’intero capitale scompare. La moneta perde la funzione di riserva di valore, riducendosi a carburante per il prolungamento temporaneo della prestazione. Il ciclo è autopoietico e coercitivo: per continuare a esistere, Mario deve continuare a lavorare; per lavorare, deve rischiare la vita; per rischiare la vita, deve mantenere un ritmo produttivo crescente. Ne risulta un modello di alienazione totale, in cui il soggetto è interamente subordinato alla logica del sistema, e in cui la “ricompensa” coincide con la mera possibilità di reiterare la fatica (p. 55).

Il videogame «ha anticipato e reso familiari le logiche della prestazione modulare, dell’incentivo puntiforme e del controllo metrico, logiche poi estese alla vita economica tramite app, gamification e lavoro gratuito/connesso» (p. 57). Il capitalismo delle piattaforme ha ludicizzato il lavoro in chiave estrattiva e disumanizzante attraverso punteggi e inviti a partecipare a mission sempre più complesse del tutto prive di orari e tutele. Lo stesso sound design del videogame è pianificato per orientare il comportamento del gamer ad agire in funzione delle ricompense. «L’ambiente acustico si configura così come un dispositivo biopolitico: una macchina di addestramento che allinea il comportamento dell’utente a schemi di efficienza e accumulazione, manipolando il principio di piacere per massimizzare la produttività in gioco» (p. 70).

Super Mario Bros. è contraddistinto dallo scorrimento laterale continuo ma solo verso destra dello schermo, uno scorrimento orizzontale irreversibile che non ammette di tornare indietro e induce il gamer a percepire tanto la presenza di un fuoricampo da scoprire avanti a sé, quanto il consumo definitivo di ciò che già ha attraversato, dunque lo abitua a una visione lineare orientata: «l’avanzamento irreversibile educa a vedere il mondo come un percorso obbligato – procedere, superare, produrre – dove non c’è spazio per fermarsi, ripensare o sistemare ciò che si è lasciato» (p. 60). Il gamer è tenuto ad agire secondo una logica prettamente colonialista: penetrare in un territorio straniero, annientare gli indigeni ed estrarre ricchezze a proprio beneficio.

Se Jean Baudrillard ha descritto la contemporaneità come un regime di segni in cui la rappresentazione non copia il reale ma lo produce, Super Mario Bros. ha presentato un ambiente interattivo ove il reale è sostituito dalla perfetta esecuzione di un modello che non chiede al gamer di scoprire un mondo, ma di conformarsi a un codice già completo e dato.

Nei viaggi coloniali come nei mondi digitali, il controllo dello spazio passa attraverso il controllo del sapere cartografico, che legittima l’appropriazione e la conquista. Così il videogioco, travestito da intrattenimento, riproduce una grammatica del dominio: la progressione non si misura nella profondità dei personaggi o della trama, ma nella capacità di attraversare, mappare e possedere nuovi territori. In questo senso, Nintendo offre ai giocatori un’esperienza che riecheggia i miti fondativi della modernità coloniale, trasformando lo spazio virtuale in un campo di esplorazione e di potere simbolico. […] Super Mario Bros. diventa un punto di contatto tra la superiorità tecnologica giapponese e le fantasie coloniali euroamericane, producendo un ibrido culturale che legittima sia il determinismo tecnologico sia l’espansione imperiale (p. 65).

L’ideologia veicolata da Super Mario Bros., sostiene Bittanti, deve essere ricercata nell’assegnazione di un ruolo attivo al gamer-colonizzatore. Questo videogame riproduce in formato digitale e ludico «una genealogia di pratiche e immaginari imperiali: l’esplorazione è inseparabile dalla conquista, il paesaggio è ridotto a risorsa estetica e funzionale, la frontiera si espande costantemente» (p. 66). La logica colonialista con cui la discussa mostra “Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern (MOMA, 1985) confrontava opere d’avanguardia occidentali con manufatti di lontane civiltà del tutto decontestualizzati, è rintracciabile anche in Super Mario Bros. visto il suo ridurre l’Altro a mero ostacolo deprivato di soggettività il cui valore risiede meramente nel piacere ludico del superamento con annessi punteggi guadagnati.

Bittanti mette in relazione la sintassi modulare e temporanea, la ripetitività e l’assenza di profondità narrativa di Super Mario Bros. con la grammatica visiva e della logica valoriale di MTV diffusasi negli anni Ottanta. Tanto i gamer compulsivi che i teledipendenti di MTV del decennio anziché leggere il mondo lo attraversano in sequenza, adottando un modello cognitivo destinato a diffondersi e potenziarsi nei primi decenni del nuovo millennio.

Al pari della tv interattiva, il game della Nintendo coinvolge il pubblico senza cedere controllo: quella concessa all’utente è una partecipazione ridotta a finzione in cui i dispositivi agiscono da sistemi di addestramento all’obbedienza a schemi rigidamente predefiniti. Ciò che offre Nintendo, a partire dalla metà degli anni Ottanta, è insomma un vero e proprio ecosistema tecnologico votato alla fidelizzazione: la corporation nipponica non vende un game ma una piattaforma dotata di tecnologie, regole e contenuti in esclusiva, quello che esercita non è tanto un controllo tecnico, ma culturale. Se si pensa che i blocchi che Mario manda in frantumi sono esseri pietrificati, allora si coglie come il gioco proponga una retorica della violenza utilitaristica che prevede la cancellazione di tutto ciò che intralcia il procedere. «La violenza diventa produttiva, l’annientamento si converte in guadagno. […] Super Mario Bros. innesta una gamification del massacro» (p. 99).

Dopo aver mostrato come le meccaniche organizzano l’azione, Bittanti guarda alle modalità di fruizione, alle dinamiche prodotte dall’universo ludico a livello sociale, culturale e tecnologico. L’introduzione sul mercato della console Nintendo ha contribuito a trasformare l’apparato televisivo da medium lineare con la sua logica di flusso a finestra interattiva su mondi virtuali con annessa logica del feedback. Nello stesso periodo si diffonde il videoregistratore, altra tecnologia domestica che permette di rompere con il flusso dettato dal sistema televisivo. A partire dagli anni Ottanta l’ambiente domestico assume un’inedita centralità ludico-creativa e, mentre il cinema si dimostra incapace di appropriarsi della logica performativa dei videogame, l’universo ludico inizia a mostrarsi utile nel training per l’intelligenza artificiale. Il passaggio dei videogame dalle sale giochi collettive agli spazi domestici privati in compagnia della tv, ormai inevitabilmente collegata al videoregistratore, riflette un’epocale trasformazione sociale che comporta anche la ridefinizione delle pratiche dell’intrattenimento.

Anziché guardare alle meccaniche o alle trame e ai personaggi, Bittanti concentra la sua attenzione sulla dimensione tecnica e materiale delle piattaforme, vero e proprio generatore di forma e senso degli artefatti culturali. Il Nintendo Entertainment System (NES), come tutte le piattaforme, non è un semplice dispositivo elettronico neutro, ma piuttosto «un artefatto tecno-culturale che traduce in silicio valori come affidabilità, accesso, proprietà» (p. 118). Se in Giappone compare proponendosi come dispositivo a metà via tra il giocattolo e il computer, una volta giunto negli Stati Uniti il NES tende ad affrancarsi dal registro del giocattolo infantile per collocarsi nell’orizzonte della cultura di massa adulta. «In questo senso, l’intrattenimento è una legittimazione ideologica: permette a Nintendo di occupare il cuore dell’economia culturale statunitense, dove entertainment significa Hollywood, MTV, la televisione via cavo» (pp. 118-119). Un intrattenimento (domestico) che, sottolinea lo studioso, sottrae tempo ad altre forme di socialità (pubblica). «È la comunità ridotta a circuito elettronico, il legame sociale trasformato in competizione ludica. […] A partire dagli anni Ottanta la linea di confine tra gioco e lavoro si assottiglia: il controller diventa insieme strumento di svago e dispositivo di addestramento alla produttività cognitiva» (p. 119).

Se gli anni Sessanta sono stati attraversati dall’idea di sabotare il sistema-macchina per il suo produrre alienazione, gli Ottanta sono stati percorsi dal desiderio di abitarlo. Alla società dello spettacolo si sostituisce la società ludo-disciplinare e se la tv catturava lo sguardo, il NES cattura il gesto. «Politicamente, significa spostare il controllo dal flusso dei contenuti (palinsesto televisivo) alla gestione di un ambiente chiuso (ecosistema Nintendo). Culturalmente, è un passaggio decisivo: non si acquista un videogioco, ma si aderisce a una forma di cittadinanza ludica sotto l’egida di una multinazionale» (p. 121).

Se il Family Computer nipponico si presenta come progetto politico-tecnico mirante a rendere domestico il computer, il NES statunitense guarda invece all’intrattenimento come a una pratica disciplinante al pari della pressoché coeva diffusione dell’aerobica sugli schermi televisivi: in entrambi i casi si tratta di dispositivi fondati su protocolli di ripetizione, frazionamento e misurazione del tempo.

L’universo dei videogame, sottolinea Bittanti, non può essere analizzato attraverso gli approcci e le categorie con sui si guarda a media tradizionali. «La televisione è flusso. Il cinema è sequenza. Super Mario Bros. rompe entrambi: è loop e controllo». Dalla televisione questo videogame «eredita la bidimensionalità, la frontalità, la grana luminosa dello schermo CRT. Ma ne sovverte il principio fondamentale: la passività. […] Il tempo non è scandito da una sceneggiatura, ma dal gesto». Rispetto al cinema, invece, il videogame rinuncia alla trama, alla psicologia e ai dialoghi producendo una nuova forma di agency. «La narrazione non si sviluppa nel tempo, ma nello spazio. Non ci sono scene, ma livelli. Ogni passaggio non racconta, sfida. Ogni mondo non dice, struttura. È la conversione del racconto in architettura interattiva» (p. 143).

Per quanto il ricorso ai videogame come palestra per le macchine abbia radici lontane, l’utilizzo di videogame come Super Mario Bros. per allenare gli algoritmi, con la sua pianificazione sequenziale, cambia le carte in tavola. Ricorrendo a una retorica procedurale, i videogame argomentano attraverso regole: a confrontarsi con esse è direttamente una macchina, non un essere umano. «Così, Mario non smette di produrre effetti disciplinanti: allena non più le dita dei bambini ma le reti neurali delle macchine. Quella che era una promessa ludica diventa un addestramento invisibile per sistemi che guideranno auto, esploreranno pianeti, gestiranno elezioni, lanceranno missili nucleari sulle nostre città» (p. 154).

Nell’ultima parte del volume, Bittanti passa dettagliatamente in rassegna interventi artistici volti a trasformare il congegno ludico in materiale simbolico. Nel ricostruire le motivazioni che hanno a lungo escluso i videogame dai circuiti deputati a conferire uno statuto artistico, lo studioso ricorda come questi siano stati distribuiti, fruiti e valutati in un contesto prettamente commerciale. Quand’anche un videogame ha conquistato la presenza in un contesto espositivo, ad ottenere legittimazione non è il gioco in sé ma, piuttosto, la manipolazione, l’uso, che ne fa un intervento artistico postumo. Soltanto quando il videogame cessa di adempiere allo scopo per cui è stato pensato e realizzato sembra potersi aprire all’artisticità. Con riferimento a Super Mario Bros., Bittanti individua quattro modalità principali di disattivazione che possono comunque intersecarsi: la sottrazione funzionale (cancellazione delle regole e degli obiettivi del gioco) a cui ricorrono, ad esempio, lo statunitense Cory Arcangel e la canadese Myfanwy Ashmore; la riduzione iconica (riduzione del gioco a immagine astratta, anti-narrativa) a cui si rifanno, tra gli altri, lo statunitense Ben Fry e il greco Miltos Manetas; il deragliamento procedurale (esplicitazione dei limiti del codice in modo da rivelare la natura di macchina e sistema, apparato e dispositivo del gioco) utilizzato, ad esempio, dallo statunitense Alexander Galloway e dal cubano Rewell Altunaga; la ricontestualizzazione curatoriale e infrastrutturale (ricontestualizzazione del gioco così da ridefinirne statuto e funzionamento) a cui ricorrono lo statunitense Patrick LeMieux e artisti già citati come Arcangel e la Ashmore. Tutti questi interventi artistici compiuti su Super Mario Bros., nota lo studioso, aggirano le logiche predefinite dei videogame adottando strategie di appropriazione, sabotaggio e riscrittura: il dispositivo ludico viene trasformato in oggetto concettuale, in immagine critica, in gesto espositivo. È interessante notare come diversi interventi artistici contrastino l’insistenza sul fallimento individuale centrale in molti videogame.

La realtà che si vive oggi, conclude Bittanti, non è stata prevista dall’universo videoludico, ma è stata (anche) da questo programmata. Super Mario Bros. ha «insegnato a considerare l’errore una routine, la ripetizione un destino, la vittoria un checkpoint provvisorio. È così che Mario si è insinuato nella cultura: trasformando il gesto in pensiero, la pratica in metafora, la frustrazione in pedagogia» (p. 243).

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Frane e luci https://www.carmillaonline.com/2025/11/01/frane-e-luci/ Sat, 01 Nov 2025 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91100 di Franco Pezzini

Germano Antonucci, La ragazza di luce, pp. 200, € 16, Terrarossa, Alberobello (Bari) 2025.

L’Italia, dalle Alpi al Meridione, è fitta di storie di frane. Un fenomeno geologico che presenta impressionanti contraccolpi simbolici: ora sulla storia comunitaria – pensiamo per esempio ai casi in cui gli archivi locali siano stati spazzati via da valanghe di terra e pietre, a ingoiare i documenti di generazioni – ora su quella individuale: travolgendo una comunità si spezzano vite e storie personali, fino a rendere l’evento una vera e propria linea di demarcazione memoriale. E proprio una frana è l’evento mitologico – [...]]]> di Franco Pezzini

Germano Antonucci, La ragazza di luce, pp. 200, € 16, Terrarossa, Alberobello (Bari) 2025.

L’Italia, dalle Alpi al Meridione, è fitta di storie di frane. Un fenomeno geologico che presenta impressionanti contraccolpi simbolici: ora sulla storia comunitaria – pensiamo per esempio ai casi in cui gli archivi locali siano stati spazzati via da valanghe di terra e pietre, a ingoiare i documenti di generazioni – ora su quella individuale: travolgendo una comunità si spezzano vite e storie personali, fino a rendere l’evento una vera e propria linea di demarcazione memoriale. E proprio una frana è l’evento mitologico – evocato di continuo, interiorizzato dai personaggi, richiamato indirettamente persino sulla suggestiva copertina – alle spalle degli eventi di La ragazza di luce.
Si può discutere sull’uso del termine fantastico, per questa storia per molti versi amaramente realista: ma certo una visionarietà a base d’impliciti, di convinzioni, di affabulazioni la percorre tutta, fin dal titolo. Scritto con grande eleganza, finezza e trasparenza stilistica, il romanzo conduce del resto attraverso un set che ha visto la normalità sovvertita nella sua forma più materiale e terrigna, appunto un’apocalittica frana abbattutasi sull’abitato di Lume (e qui attenzione, la copertura del lume con tonnellate di materiali pare suggerire valenze simboliche) recando al contempo frane diverse e interiori. In particolare nella vita dei ragazzini protagonisti, Nina e Ruben, che hanno perso reciprocamente la madre e il padre nel cono d’ombra attorno alla catastrofe, ma in fondo di tutta la comunità, che cerca di riscriversi identitariamente in chiave mitico-magica.
Che succede dunque se presso la croce in capo al promontorio si manifesta una presenza luminosa, appunto la figura eponima, e qualcuno prende a gridare al miracolo? Che succede se una ragazzina di grande fantasia e intraprendenza, che il magico l’ha assorbito fin da piccola nei discorsi in casa, si vota alla quest d’una madre ingombrante e amatissima, misteriosamente perduta – nell’inaccettabilità d’una categoria-morte cui non riesce a dare un senso? E se un ragazzino vissuto nell’ammirazione del padre deve incassare con l’enigmatica fine di lui una nuova definizione affettiva della vita di sua madre? E se una bimba malata diventa motore di ambigui movimenti economici coinvolgenti tutta la comunità? Germano Antonucci, un autore giovane e brillante già emerso tra i finalisti del call Calvino qualche anno fa offre in questa bella storia di formazione – ma anche di solidarietà, di amicizia, senz’altro d’amore – con venature noir una prova di alto livello, densa e profonda.
Fuori dal mito di paese, Nina stessa diventa in qualche modo la ragazza di luce illuminando con la sua azione ribelle le ombre della comunità. Beninteso, non attraverso la stregoneria fai-da-te di sassi bianchi e neri smossi come in una frana simbolica (“Il male arriva e passa, / il male ti punisce, / se metti il nero al centro / il male ti obbedisce”) per colpire chi la ferisca: ma piuttosto nel far uscire allo scoperto i villain e nell’imparare a metabolizzare quell’amore-“cosa rotta” per una madre squilibrata e aggressiva, a tratti alla deriva delle proprie frane patologiche, fino a trovarle un posto più stabile nel proprio sistema affettivo e in un equilibrio emotivo. Nel proprio e, si può dire, nel nostro: abbiamo bisogno che la narrativa – tanto più quella letteraria, come nella scrittura alta di Antonucci – ci aiuti a dire il rapporto con la malattia mentale, suscitatrice di una straziante altalena di emozioni (conflitto, rifiuto, ostilità, pietà, dolore, amore) in chi è legato da rapporti affettivi e poi, a cerchio d’onda, negli altri attorno. Tanto più nell’empatia con persone che non possono vantare la statura pubblica di un’Alda Merini, ma restano isolate e stigmatizzate in giudizi frettolosi dietro i paraventi comunitari. Le ferite interiori della combattiva Nina richiederanno una vita per essere ricucite, ma una nuova luce di comprensione apre a un futuro e a una realistica felicità.
E anche Ruben, in parallelo, dovrà sistemare la “cosa rotta” accettando nuovi equilibri affettivi. Che i genitori siano oggetto di mito (il padre, per Ruben) o invece di conflitto (la madre), è difficile trovare una lingua giusta per parlarne, soprattutto in presenza di vicende drammatiche ma in fondo sempre, per ciascuno di noi. L’adolescenza è sempre terra di frane, grandi e piccole: e questo trovare parole è anche la voce di una crescita, di un salvarsi dalla catastrofe.

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Trasumanando e organizzando Pasolini https://www.carmillaonline.com/2025/11/01/trasumanando-e-organizzando-pasolini/ Fri, 31 Oct 2025 23:01:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91142 di Luca Baiada

Giovanni Giovannetti, Pasolini giornalista. Vita e morte di un cottimista della pagina, Effigie, Milano 2025, pp. 336, euro 29.

Parlare di Pasolini, a mezzo secolo dall’assassinio, senza preconcetti? Magari partendo dai suoi scritti su giornali e riviste? Funziona, se si prende il tema per traverso. Lo dimostra l’incontro di ottobre, in Toscana. Una cosa insolita: mentre si parla di un libro, con interventi e dibattito, opere d’arte si mostrano e si formano davanti al pubblico, che vede – dal vivo e in grande formato su schermo – mentre forme e colori prendono corpo.

Le parole sono quelle di [...]]]> di Luca Baiada

Giovanni Giovannetti, Pasolini giornalista. Vita e morte di un cottimista della pagina, Effigie, Milano 2025, pp. 336, euro 29.

Parlare di Pasolini, a mezzo secolo dall’assassinio, senza preconcetti? Magari partendo dai suoi scritti su giornali e riviste? Funziona, se si prende il tema per traverso. Lo dimostra l’incontro di ottobre, in Toscana. Una cosa insolita: mentre si parla di un libro, con interventi e dibattito, opere d’arte si mostrano e si formano davanti al pubblico, che vede – dal vivo e in grande formato su schermo – mentre forme e colori prendono corpo.

Le parole sono quelle di Giovanni Giovannetti, in un volume uscito quest’anno. Le mani ce le mette l’artista operaio Alessio Vignozzi – «Vigno», già notato nella mostra alla GKN del 2021 – , che realizza un’opera in forma di pala d’altare ed espone ceramiche. Compaiono Pier Paolo, il fratello Guido, Enrico Mattei.

Quanto al libro, l’elenco completo degli scritti pubblicati su giornali e periodici è curato da Giovannetti insieme a Luisa Voltan. L’autore – una vita da fotografo – ha arricchito il volume con più di 150 immagini, compresi ritratti di Pasolini scattati da lui nel 1975, poche settimane prima del delitto di Ostia. Lo stile di Vigno, invece, è ancorato alla tradizione, soprattutto toscana, eppure è affacciato su una modernità realistica.

«Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini, sulle Prealpi dove sono vissuti i fratelli…». Versi che Pasolini mise in La ricotta, il cortometraggio inserito in Ro.Go.Pa.G., sulla bocca di un regista (attore Orson Welles), con una chiosa lancinante sulla società italiana: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa»; in sottofondo il poeta volle musica leggera, con la troupe che balla.

Vigno coglie al volo. Porta una pala d’altare abbozzata e la completa sotto gli occhi del pubblico: c’è Pasolini in braccio alla madre, c’è Guido come un san Sebastiano, c’è il padre militare, in divisa. Una pala, come in chiesa. Max Ernst dipinse Maria che sculaccia Gesù, coi poeti Eluard e Breton in contemplazione. Eclettismo, eresia? Negli anni Trenta Ernst era tra i pittori compresi nella mostra nazista sull’arte degenerata, Entartete Kunst. Ma Vigno, un artista che ha letteralmente le mani in pasta, fa anche le ceramiche, col ramino e le sfumature che sembrano venute da tempi remoti. Le guardi, ti aspetti i santi, quelli assorti nelle edicole campestri di Toscana, e invece riconosci ancora Pasolini, la madre e le trivelle petrolifere incombenti, come in una scena spaventosa nel film La macchinazione di David Grieco: la scena del pestaggio mortale.

Curiosa unione: un libro con una copertina horror, dal sapore acrilico, e opere d’arte fedeli a una tradizione secolare si sposano bene, complici un’antica villa medicea, quella di Cerreto Guidi, che viene valorizzata con intelligenza dagli amministratori e dalla comunità locale, e un pubblico stregato dalla novità. Non resta che tener conto di alcune cose.

Il libro di Giovannetti offre dati in molte direzioni, perché l’autore ha già studiato Pasolini a fondo[1]. Lo scrittore e poeta ne esce finalmente ridimensionato, più vero e contraddittorio, fuori dagli schemi contrapposti che ne vorrebbero fare un pervertito facoltoso – vengono in mente nomi di furbetti arzilli e straricchi, volti modaioli con la vecchiaia comoda – oppure un santo fuori discussione.

Pasolini può scendere dalla pala d’altare. Primo, perché qualcuno ha ricomposto il mosaico delle sue pubblicazioni, e ci voleva. Secondo, perché un artista l’ha messo davvero su una pala d’altare, ma così com’era, senza pettinarlo, senza una profumata perbenista. E l’ha fatto con implicazioni storiche e politiche: il padre militare e fascista, il fratello nella Resistenza, morto per mano partigiana comunista, e il resto: perché quando c’è Pasolini, o ci sono contraddizioni o Pasolini non c’è.

Il romanzo Petrolio ha fatto fatica a prendere il suo posto nella letteratura italiana: pubblicato postumo in varie edizioni, è apparso in una versione quasi del tutto fedele, incredibilmente, solo tre anni fa. Quanta strada, per far conoscere un’opera imbarazzante, intrisa di realtà e provocazione! Dentro c’è la storia criminosa e criminogena dell’Italia del Novecento, con le sue ramificazioni affaristiche. Ed estrattiviste: il petrolio, proprio lui, linfa ambita dell’industria e dell’economia, sangue incendiario per il quale si corrompe, si scala il potere, si uccide.

Anche qui, Vigno capisce l’antifona e realizza: lo fa con colori che vanno da un tradizionale azzurro sereno, quello della devozione popolare e del manto della Madonna, a un verde denso, materico. Quasi un verde petrolio. Nelle sue opere si indovina anche l’eco di un blu Pontormo; è quello lisergico e modernissimo del Trasporto di Cristo, un’opera che ricompare, sempre in La ricotta, sotto forma di quadro vivente. Il blu, in Vigno, aderisce al senso profondo dell’accostamento fra l’iconografia cristiana e il poeta delle Ceneri di Gramsci.

Alla morte di Pasolini, ancora adesso controversa, il libro di Giovannetti dedica il capitolo Lampi su P.[2]. Intrecci di nessi, di collegamenti fra ambiguità e doppiogiochismi che rimandano d’istinto all’Italia occupata dal 1943 al 1945, cioè inevitabilmente a Salò, un punto di riferimento che è insieme film e cifra simbolica della storia italiana, anche oltre le intenzioni del regista. Ma chi o cosa è P., in quel titolo? Pier Paolo Pasolini, o Petrolio? oppure il minorenne Pino Pelosi, l’unico condannato per il delitto? o la P2, loggia fascista e stragista? o semplicemente il Potere, con la maiuscola, come lo scriveva il poeta? Qui, nella pala di Vigno va guardata la madre, col figlio in grembo come – altra P., ostinazione delle coincidenze – una Pietà.

«Pasolini era ormai la scheggia impazzita e pronta all’azione di un sistema che del principio di verità si era fatto ipocritamente vanto ben sapendo di non poterselo permettere»[3]. Buona ragione, allora, per provare a capire meglio, a mezzo secolo da quella morte tremenda. Quel crimine è un congegno eliminazionista e insieme una mummia minacciosa, un revenant mai placato, un dito macabro puntato contro il lavoro intellettuale in Italia.

A proposito di verità. In Pasolini giornalista si legge che a uccidere, a Ostia, non fu Pino Pelosi, o non da solo: al delitto partecipò qualcuno con un peso ben più importante del suo. Un’opinione diffusa, anzi un fatto praticamente certo. Il libro contiene anche qualcosa in più:

Sappiamo che almeno uno degli assassini (un ex picchiatore di Avanguardia nazionale) è tuttora in vita; il suo nome lo conosciamo, e lo sanno anche in procura [a Roma], perché è stato fatto da Pelosi a diverse persone, in forma riservata. Lo ha detto anche a un notissimo politico romano da cui forse si aspettava protezione[4].

Sin qui, Pasolini giornalista. Nell’incontro in Toscana, Giovannetti ha aggiunto due cose: nel volume il nome di quell’assassino non è riportato come partecipante al delitto, ma compare in altre pagine; il politico che ha saputo il nome da Pelosi è Walter Veltroni.

Questa è la recensione di un libro e di un fatto d’arte. Però. Veltroni ha parlato in più occasioni dell’incontro con Pelosi. Per esempio, nel 2023 ha spiegato di averlo incontrato nel 2011, e che allora Pelosi gli descrisse la fine di Pasolini come un’aggressione mortale fatta da altri, con ruolo primario di un uomo grosso con la barba; «A me Pelosi ha detto “io non posso dire chi è stato, perché sono ancora vivi”»[5]. Quel non poter dire va inteso nel senso di non poter dire a nessuno, o di poter dire solo a qualcuno? Pensiamoci. Ogni informazione trasmessa a qualcuno direttamente da Pelosi è più importante, anche se da verificare, perché viene da chi era presente e, almeno in parte, coinvolto. Insomma: quel nome?

Viene in mente il pasoliniano «Io so. Io so i nomi…»[6]. Di certo, a mezzo secolo da quel novembre 1975, l’ex sindaco di Roma sente la gravità di un delitto accaduto quando lui era un giovane militante del Pci, il partito in cui Pasolini si riconosceva. Una famosa fotografia li ritrae vicini, Veltroni e il poeta, in piazza per una iniziativa politica; il futuro di Pasolini sarebbe stato breve; quello del giovane, invece, lungo e brillante. Secondo una certa interpretazione, in Petrolio lo sdoppiamento narrativo rappresenta proprio il Pci, un partito straziato fra bene e male, fra coerenza e compromesso. E nell’articolo dell’io so si legge: «Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia».

Trasumanare e organizzare, allora? È possibile, attraverso ibridazione di stili, avanguardia che non rinuncia al passato, parole e cose che attraversano linguaggi diversi. Però, un momento: il linguaggio più efficace è sempre quello dei fatti.

 

 

[1] Carla Benedetti, Giovanni Giovannetti, Frocio e basta. Pasolini, Cefis, Petrolio, Effigie, Milano 2016; Giovanni Giovannetti, Malastoria. L’Italia ai tempi di Cefis e Pasolini, Effigie, Pavia, 2020.

[2] Giovanni Giovannetti, Pasolini giornalista. Vita e morte di un cottimista della pagina, Effigie, Milano 2025, pp. 237-286.

[3] Ivi, p. XV.

[4] Ivi, p. 271.

[5] Omicidio Pasolini, Andrea Purgatori intervista Walter Veltroni, «la7», 13 aprile 2023.

[6] Pier Paolo Pasolini, Cos’è questo golpe? Io so, «Corriere della sera», 14 novembre 1974.

 

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42 giorni nell’oscurità (2022) sotto i riflettori mediatici https://www.carmillaonline.com/2025/10/30/42-giorni-nelloscurita-2022-sotto-i-riflettori-mediatici/ Thu, 30 Oct 2025 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91118 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva cilena 42 giorni nell’oscurità (42 días en la oscuridad, 2022 – Netflix), diretta da Claudia Huaiquimilla e Gaspar Antillo, è stata ideata dal giornalista Rodrigo Fluxá derivandola dal suo libro Usted sabe quién: Notas sobre el homicidio de Viviana Haeger del 2019 incentrato sulla vicenda realmente accaduta di Viviana Haeger Massé, una donna scomparsa nel 2010 a Puerto Varas, nel Cile del sud, rinvenuta cadavere 42 giorni dopo. Derubricato per diversi anni come suicidio, il caso è stato più volte riaperto alla ricerca di un colpevole della morte della donna.

Disponendo di tutti [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva cilena 42 giorni nell’oscurità (42 días en la oscuridad, 2022 – Netflix), diretta da Claudia Huaiquimilla e Gaspar Antillo, è stata ideata dal giornalista Rodrigo Fluxá derivandola dal suo libro Usted sabe quién: Notas sobre el homicidio de Viviana Haeger del 2019 incentrato sulla vicenda realmente accaduta di Viviana Haeger Massé, una donna scomparsa nel 2010 a Puerto Varas, nel Cile del sud, rinvenuta cadavere 42 giorni dopo. Derubricato per diversi anni come suicidio, il caso è stato più volte riaperto alla ricerca di un colpevole della morte della donna.

Disponendo di tutti gli elementi utili a suscitare l’interesse dei media e della società cilena, la vicenda è stata trasposta in serie televisiva nonostante la contrarietà delle figlie della vittima stanche di vedere la tragedia famigliare sotto i riflettori cosa che, paradossalmente, non manca di denunciare la stessa fiction palesandolo esplicitamente in una sequenza dell’ultima puntata in cui i personaggi delle due sorelle, rivolti ai giornalisti che stazionano sotto casa, scostano la tenda con cui tentano di mantenere un minimo di privacy, espongono dalla finestra un cartello recante la sintetica ma efficace scritta “+ noticias – morbo”, prontamente ripreso dagli obiettivi dei cronisti.

Come in altri casi di crimini che impattano sull’opinione pubblica e che finiscono al centro dell’interesse mediatico, in un meccanismo di reciproco rafforzamento, la stessa fiction che ne deriva mostra tutte le sue contraddizioni nel proporsi da un lato di dar voce a legittimi desideri di verità e giustizia, denunciando le miopie investigative e quanto, al di là del caso specifico, siano diffusi certi tipi di reato e le mentalità da cui derivano, non mancando di condannare la morbosità con cui la gente e i media guarda a questi casi, mentre dall’altro la stessa fiction non è esente dalla morbosità voyeuristica che denuncia.

Risulta davvero un cortocircuito potente quello che deriva dalla sequenza citata di una fiction realizzata a dispetto della contrarietà dalle figlie della vittima, in cui i personaggi che le impersonano espongono un cartello che invita i media a preoccuparsi di fare informazione anziché foraggiare morbosità all’indirizzo dell’obbiettivo dei cronisti e dello spettacolo mediatico. Un cortocircuito di contraddizioni che coinvolge gli stessi spettatori che tentano di controbilanciare la dose di morboso voyeurismo che sentono di avere e di cui, forse, provano qualche imbarazzo, con la necessità di ovviare all’oscurità che rischia di calare su certi crimini accendendo su di essi i riflettori dello spettacolo.

Ambientata nell’esclusivo quartiere residenziale immerso nella natura di Altos del Lago, a Puerto Varas in Cile, la vicenda narrata dalla serie televisiva racconta del ritrovamento, a 42 giorni di distanza dalla scomparsa denunciata alla polizia, del cadavere di Veronica Montes (Aline Kuppenheim), moglie dell’ingegnere Mario Medina (Daniel Alcaino) con cui ha due figlie: la quattordicenne Karen (Julia Lubbert) e la piccola Emilia (Monserrat Lirat) di otto anni.

Una volta che il marito ha denunciato la scomparsa di Veronica, alle indagini della polizia condotte in maniera approssimativa da agenti del tutto impreparati ad affrontare un caso di tal genere, finiscono per affiancarsi – per conto della sorella della donna scomparsa, Cecilia (Claudia Di Girolamo), e del marito di quest’ultima, Arturo (Daniel Munoz) –, le indagini condotte dallo squattrinato e dimesso avvocato Victor Pizarro (Pablo Macaya) coadiuvato dai suoi collaboratori Nora Figueroa (Amparo Noguera) e Braulio Sanchez (Nestor Cantillana).

Il personaggio dell’avvocato Victor rappresenta una variante particolare della figura dell’indagatore ombroso e solitario (lo vediamo spesso con la sigaretta in bocca in atteggiamenti alla Humphrey Bogart) che si ritrova in tanta fiction intento a combattere caparbiamente la sua battaglia per risolvere i casi confrontandosi con la miopia e il disinteresse delle autorità. Padre separato dell’adolescente Joaquin (Ivan Caceres), con cui fatica a mantenere gli impegni, al pari di tanti suoi omologhi che si incontrano nelle narrazioni crime, Victor paga con la compromissione dei legami famigliari il suo farsi assorbire dai casi di cui si occupa.

In questa serie viene messo in rilievo come il protagonista, prima ancora che da ragioni etiche o di prestigio professionale, sia mosso dalla necessità economica di accaparrarsi clienti, anche a costo di promettere loro ciò che potrebbe non essere in grado di mantenere. È un’urgenza di ordine economico quella che conduce Victor a proporsi alla sorella della donna scomparsa per indagare sull’accaduto. A riprova delle difficoltà economiche in cui versa, non disponendo di uno studio personale, l’avvocato è costretto a riunirsi con Nora e Braulio, suoi amici e collaboratori di vecchia data che lo aiutano nelle indagini, al tavolino di una locanda popolare.

La differenza di status sociale tra l’universo in cui vivono la loro quotidianità Victor e i suoi collaboratori e quello della famiglia da cui è scomparsa la donna è evidenziata anche dalle differenti ambientazioni: l’affollato quartiere urbano, con i suoi modesti appartamenti, le sue caotiche stradine disseminate di bancarelle e taverne popolari, da una parte e, dall’altra, l’esclusivo e tranquillo quartiere di Altos del Lago, immerso nel verde, contraddistinto da abitazioni spaziose e ben distinte le une dalle altre.

In 42 giorni nell’oscurità, la natura viene mostrata non solo per l’aspetto paradisiaco che accoglie i facoltosi abitanti di Altos del Lago come in una cartolina, ma anche per il suo lato selvaggio, fatto di freddo e umidità, di piogge incessanti, di monti scoscesi all’orizzonte tra cui svetta il profilo di un poderoso quanto minaccioso vulcano, di oscure ed infinite foreste tagliate da interminabili strade ondulate.

L’ambiente che circonda la vicenda appare rivestito di connotazioni inquietanti e quasi spettrali: quella natura fredda e umida, quei boschi e quelle foreste appaiono quasi come degli enormi fantasmi che potrebbero aver essi stessi celato il “desaparecido” corpo di Veronica. Il bosco e le foreste sono tetri spazi nei quali ci si può irrimediabilmente perdere – simili, in questo, a quelli che vediamo nella serie danese L’uomo delle castagne (Kastanjemanden, 2021 – Netflix) diretta da Kasper Barfoed e Mikkel Serup e nella serie polacca Pantano (Rojst, dal 2018 – Netflix) diretta da Jan Holoubek – che possono essi stessi risucchiare le persone nelle loro terribili viscere. Sono luoghi semisconosciuti nei quali, forse, soltanto un cane addestrato (come vediamo nella serie) potrebbe riuscire a fiutare la pista giusta.

Avvolgente e inquietante appare anche la distesa lacustre ma essa assume delle connotazioni dal carattere regressivo e ‘amniotico’: come un oscuro liquido prenatale, il lago sembra richiamare a sé Cecilia e Karen nel momento in cui le vediamo entrare e successivamente camminare nell’acqua. La distesa d’acqua si associa anche al ricordo di Veronica: nelle sequenze della memoria, Veronica si trova spesso a passeggiare insieme alle figlie e al marito sulla riva. In questi momenti sembra che ci sia un baratro quasi insormontabile fra lei e il marito: infatti, se la vediamo sempre insieme alle due bambine, il marito compare perennemente distaccato da loro, lontano o sullo sfondo e sembra muoversi come un essere meccanico, come un lugubre pupazzo non dotato di volontà propria.

Il ritmo lento e dolente con cui procede la narrazione è accompagnato dalle sonorità e dalle parole di Que entre el frío (2017) di Niña Tormenta – Me quiero congelar / Dejar de sentir / Si no puedo sentir todo / Y que entre el frío / Por la ventana / Me quiero congelar / Y no sentir nada – che contribuiscono a rafforzare la sensazione di dimessa e rassegnata sospensione che contraddistingue una vicenda che sembra destinata a non trovare soluzione definitiva, dunque a prolungare nei famigliari un dolore impossibile da metabolizzare.

La figura e il corpo di Veronica, per tutta la durata della vicenda, sono relegati nell’oscurità; la giovane donna appare sempre fuori scena, dichiarata “desaparecida”, scomparsa, termine che in Cile, come in altri paesi dell’America latina, richiama alla memoria la tragedia dei desaparecidos, quei dissidenti fatti letteralmente ‘sparire’ dopo essere stati torturati e uccisi sotto l’egida di un terribile potere dittatoriale. Per certi versi è come se quel potere dittatoriale non fosse mai morto, continuando a sopravvivere nell’indifferenza, nel maschilismo imperante, nel patriarcato e nell’alone di subalternità a cui, nonostante tutto, appare ancora legata la figura della donna nell’epoca di internet (la vicenda inizia nel 2010 e si trascina lungo tutto il decennio).

Come detto, il cadavere viene trovato in casa. Nei 42 giorni di sparizione la donna non ha mai abbandonato la propria dimora; è come se ne fosse stata inghiottita, vittima di un orrore domestico che non manca di rinviare alla subalternità impostale dalla cultura patriarcale del marito, una cultura che gli concede ogni diritto sulla donna, persino quello di nasconderla al mondo e di darle la morte. Come nella realtà quotidiana, in molte opere di crime fiction la mostruosità si annida tra le mura di casa; il calore promesso dalla dimora famigliare in contrapposizione al freddo mondo esterno non si rivela tale, anziché un rifugio in cui sottrarsi dalle brutture del mondo esterno, quello domestico può rivelarsi uno spazio di prigionia, fin anche di morte e sepoltura.

Siamo in un paese dell’America latina in cui, come del resto anche in Italia, il potere patriarcale risulta ancora molto influente; non sapremo mai con certezza se il colpevole dell’omicidio di Veronica è il marito ma, fra le righe, la serie televisiva suggerisce come le donne siano vittime di un greve ed oscuro potere diffuso che le relega in secondo piano, che letteralmente le nasconde, le fa ‘sparire’, Veronica è “desaparecida” ma risulta viva e attiva nella memoria e nel ricordo. È soprattutto un’altra giovane donna, la figlia Karen a ricordarla: i momenti passati insieme sono ancora vividi nel ricordo e spesso le sequenze in cui vediamo Veronica vivere e parlare si intervallano alla vicenda principale in cui è ormai assente.

La donna è una vittima destinata a sparire, ad essere fagocitata nell’indifferenza: non esposta in una teca di vetro come nella serie svedese Glaskupan (2025) diretta da Lisa Farzaneh ed Henrik Björn o appesa morta e mutilata in boschi e parchi autunnali come nella serie danese citata L’uomo delle castagne, ma sepolta nell’oscurità e occultata, letteralmente “desaparecida” all’intero della dimora in cui viveva. Ci può venire in mente il personaggio femminile rapito e rinchiuso nella camera iperbarica protagonista di un vecchio caso irrisolto nella serie britannica Dept. Q – Sezione casi irrisolti (Dept. Q, 2025 – Netflix) diretta da Scott Frank e Elisa Amoruso. Dopotutto anche l’avvocato Victor Pizzarro si occupa di “casi irrisolti”: intende infatti continuare ostinatamente le indagini archiviate dalla polizia come un suicidio di cui nessuno è responsabile. Il termine “suicidio” suona indubbiamente più tranquillizzante rispetto a “femminicidio”, un delitto che, come ricorda una didascalia alla fine della serie, continua ad essere molto ‘praticato’ in Cile, come, del resto, in Italia.

42 giorni nell’oscurità si conclude in modo affascinante su una situazione sospesa, su una frase non detta, su una sparizione della verità, molto più realistica di altri più ‘risolutivi’ finali più o meno ‘felici’. La verità rimane essa stessa rinchiusa nell’oscurità, come il povero corpo di Veronica: e su questa oscurità la vicenda si chiude, con un greve dolore forse anche catartico. La stessa verità è un fantasma, pesante e umido come la natura, silenzioso come i boschi, il lago, come il poderoso vulcano innevato che, meditabondo gigante, ha osservato in silenzio l’intera vicenda. Qualsiasi situazione risolutiva è “desaparecida”, nell’oscura e invisibile dittatura che ancora governa in modo implacabile le coscienze e la luce dei riflettori dei media non può che restare restare sospesa tra denuncia e spettacolarizzazione.

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Mala tempora currunt https://www.carmillaonline.com/2025/10/29/mala-tempora-currunt/ Wed, 29 Oct 2025 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90945 di Sandro Moiso

Don’t let this shakes go on, It’s time we have a break from it It’s time we had some leave We’ve been livin’ in the flames, We’ve been eatin’ out our brains Oh, please, don’t let these shakes go on (Veteran of the Psychic Wars, 1981 – Testo: Michael Moorcock. Musica: Blue Oyster Cult)

Che per l’Occidente e gli Stati Uniti, in particolare, siano tempi grevi lo dimostrano non soltanto i fallimentari piani di pace di Trump e le sue sbiadite minacce oppure la passività dei governi europei nei confronti dello stesso o, ancora, i paranoici [...]]]> di Sandro Moiso

Don’t let this shakes go on,
It’s time we have a break from it
It’s time we had some leave
We’ve been livin’ in the flames,
We’ve been eatin’ out our brains
Oh, please, don’t let these shakes go on

(Veteran of the Psychic Wars, 1981 –
Testo: Michael Moorcock. Musica: Blue Oyster Cult)

Che per l’Occidente e gli Stati Uniti, in particolare, siano tempi grevi lo dimostrano non soltanto i fallimentari piani di pace di Trump e le sue sbiadite minacce oppure la passività dei governi europei nei confronti dello stesso o, ancora, i paranoici timori per una possibile aggressione russa ai paesi della Nato e per le interminabile a trionfalistiche parate militari cinesi.

No, il male oscuro che lo agita è ancora più profondo e non è riassumibile assegnando colpe a governi di destra, centro o sinistra, populisti o meno, come a molti giornalisti e osservatori superficiali piace fare, illudendosi così di avere ancora a disposizione spiegazioni e risposte che, in realtà, non hanno e che non possono più avere. E anche se la crisi di accumulazione del capitale, già più vicina a spiegare l’attuale tendenza alla guerra e al suicidio politico collettivo della land of freedom occidentale e liberale, permette di fare qualche passo verso una più concreta analisi del problema, anch’essa non è sufficiente a risolvere l’enigma di un Occidente lanciato, come un treno senza conduttori e frenatori, verso la catastrofe.

Ma se è vero, come afferma Chuck Palahniuk, nel suo romanzo Soffocare, che «l’irreale è più potente del reale, perché la realtà non arriva mai al grado di perfezione cui può spingersi l’immaginazione», allora il più recente lavoro cinematografico di Paul Thomas Anderson (classe 1970), Una battaglia dopo l’altra (One Battle After Another) uscito il 25 settembre nelle sale, può costituire un eccellente punto di partenza per iniziare ad affrontare il problema.

Un punto di vista grottesco, cinico, spietato ed esilarante allo stesso tempo, che non fa sconti a nessuno: né ai suprematisti bianchi e ai loro rappresentanti politici istituzionali, né ai governi ombra che sembrano muoversi alle spalle di una già di per sé intricatissima realtà, ma nemmeno alle pretese rivoluzionarie di chi della lotta armata contro il “sistema” ha fatto strame, letteralmente, attraverso tradimenti e complicazioni burocratiche dettate dalla stessa clandestinità e da parole d’ordine che servono soltanto a rendere drammaticamente ridicola e inutilmente complessa l’azione che si vorrebbe portare a termine, così come la causa “rivoluzionaria” che dovrebbe giustificarla con le sue, spesso, altrettanto ridicole proposizioni teoriche.

Non a caso, la trama del film si basa su una sceneggiatura che rielabora, aggiornandole, le vicende contenute nel quarto romanzo, Vineland (1990), dello scrittore americano Thomas Pynchon1, sicuramente uno dei maestri e più illustri esponenti della letteratura statunitense degli ultimi decenni. Lo stesso scrittore di cui, già in passato, Anderson aveva utilizzato un romanzo, cronologicamente più recente rispetto a Vineland, per una sua opera cinematografica del 2014: Vizio di forma2.

Anche per quello il substrato era rappresentato dalla California degli anni Settanta, con affiliati alla Fatellanza ariana, militanti delle Pantere nere, Richard Nixon e Charles Manson, insieme ad una banda di hippie e surfisti dediti all’uso di svariate droghe, psichedeliche e non. Due Americhe, quella di allora e quella di un presente straordinariamente ambivalente dal punto di vista temporale, che, nella cinematografia di Anderson e nell’opera di Thomas Pynchon continuano e riflettersi una nell’altra, attraverso un gioco di specchi deformanti, come in una casa dei fantasmi di un allucinato luna park.

Pur non essendo possibile approfondire maggiormente il discorso sull’opera di Pynchon (classe 1937), per ragioni spazio, occorre però almeno ricordare che, pur essendo considerato uno dei maggiori scrittori americani viventi, Pynchon è rimasto sempre volontariamente lontano da qualsiasi forma di mondanità e celebrità mediatica, celando ostinatamente il proprio volto alla fame di immagini che la società dello spettacolo impone. Tanto da far sì che, nel suo classico stile pop e irridente del business mediatico, il grande pubblico potesse ascoltare la sua vera voce soltanto in un episodio della serie animata I Simpson, mentre veniva raffigurato con nome e cognome, ma con il volto coperto da un sacchetto di carta.

Lo scrittore, in comune con Anderson, esibisce certamente un non dissimulato fastidio per la rappresentazione realistica della società e della storia americana recente. Opponendo alle verità “certificate” dall’ideologia, dalla “storia” o dalla propaganda, mediatica e politica, uno sguardo disincantato, la cui lucidità trova lo spazio più adatto per manifestarsi nel paradosso e nella fantasia scatenata piuttosto che nell’analisi di stampo sociologico.

Nel caso del film Il petroliere, con cui nel 2007 aveva vinto l’Orso d’argento al festival di Berlino come miglior regista, però, Anderson aveva preso spunto da un romanzo di Upton Sinclair, Oil! (Petrolio!), pubblicato negli Stati Uniti nel 1927 e mai tradotto in Italia, che si ispirava alla vita e alle imprese dei baroni del petrolio Edward Doheny e Harry Sinclair, ma soltanto per modificarlo radicalmente per una buona parte delle vicende narrate. Lavoro cinematografico per il quale aveva proposto e ottenuto come titolo: There will be blood, poiché sentiva che non c’era abbastanza del libro per trattarlo come se fosse un adattamento adeguato del romanzo.

Prima di scegliere quel titolo e quella trama, ampiamente modificata nel corso della realizzazione del film, Anderson aveva letto tutte, o quasi, le opere di Sinclair Lewis, la più famosa delle quali rimane La giungla (The Jungle, 1906), tradotta e pubblicata in Italia da Mondadori. Tutte opere in cui sia le vicende che la loro ambientazione erano funzionali alla denuncia delle malefatte sociali, politiche ed economiche del capitalismo americano.

Motivo per cui l’opera di Sinclair, insieme a quella di Frank Norris, è stata sempre associata alle migliori espressioni della letteratura, della saggistica e delle inchieste giornalistiche dei cosiddetti muckrakers, giornalisti, scrittori e fotografi riformisti degli Stati Uniti che, tra il 1890 e il 1920, denunciavano con veemenza la corruzione e le malefatte nelle istituzioni economiche e politiche, spesso per mezzo di pubblicazioni di carattere sensazionalistico.

Le riviste di muckraking si scontrarono così con i monopoli aziendali e i loro rappresentanti politici, mentre cercavano di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della povertà urbana, delle condizioni di lavoro insicure, della prostituzione e del lavoro minorile Cosicché, ancora oggi, nel linguaggio comune, il termine può riferirsi a giornalisti che “scavano in profondità nei fatti” o, se usato in senso peggiorativo, a coloro che cercano di causare scandalo e che, come un personaggio del classico Pilgrim’s Progress di John Bunyan, di fatto “rastrellano il letame”3.

Ma il “muckracking” che sembra indirizzare l’opera di Anderson, e anche di Pynchon, è più di carattere psichico che non economico e sociale o, almeno, se lo è dal punto di vista sociale lo è comunque dal punto di vista della psiche, non di un individuo ma collettiva. Un affare che, a ben pensarci, sembra pervadere la letteratura americana almeno fin dai tempi di Herman Melville, Edgar Allan Poe e Ambrose Bierce che, da punti di vista diversi e con differenti modalità stilistiche, esaminarono tutti il rapporto di una società, quella del Nuovo Mondo, con la morte, le sue paure, i suoi incubi, le sue mancate promesse e le sue fallimentari illusioni.

Un’attenzione ai più remoti meandri della mente collettiva di una intera nazione che difficilmente è altrettanto diffusa nelle altre espressioni della letteratura occidentale moderna, ma che caratterizza anche l’opera di tanti altri autori come Philip K. Dick e Mark Twain, fino a Bret Easton Ellis. Tutti al lavoro, insieme a numerosi altri autori, sulle infinite e possibili varianti di una psiche estremamente divisa e contraddittoria, sostanzialmente affetta da schizofrenia.

Di cui la diffusione dei serial killer e delle loro gesta efferate e sanguinarie non è che una delle possibili manifestazioni epifenomeniche. Insieme alle sparatorie nelle campagne, nelle chiese, nelle scuole, nei night, nei supermercati, negli stadi, nelle caserme o, più semplicemente, nelle strade delle città americane. Tutti comportamenti riconducibili a una nazione nata “schizofrenica”.

Partorita dalla prima rivoluzione coloniale contro gli imperi europei e trasformatasi via via nella maggior potenza imperiale. Basata su principi democratici che hanno informato le successive rivoluzioni europee ed extra europee di cui, però, è stata spesso la prima affossatrice. Ancorata a severi principi di eguaglianza giuridica, ma affetta dal razzismo più bieco. Abitata da immigrati di ogni parte del mondo e di diversa fede religiosa o politica fin dalla sua fondazione ma, oggi, avversa a qualsiasi forma di migrazione verso i suoi confini.

Divisa in una miriade di nazionalità che si è sforzata inutilmente di mescolare in un’unica Nazione. Una nazione in cui la libertà religiosa e di parola dovrebbe essere garantita dalla costituzione e dai suoi successivi emendamenti, ma che ancora oggi, e sempre di più, vede le chiese battiste e metodiste opporsi con virulenza a qualsiasi libertà di discorso che sia altro da quello bianco e cristiano. Una nazione che della wilderness e dei suoi magnifici panorami ha fatto una sorta di religione naturale, ma in cui i popoli aborigeni sono stati massacrati e imprigionati in nome del progresso. In nome del quale ultimo, e delle attività estrattive, la stessa Natura è stata devastata, violentata, ridotta a “parchi” in cui immaginare e rivivere un tempo che non esiste più.

Un paese dove le libertà individuali sono portare costantemente in palmo di mano, salvo poi proibire e vietare qualsiasi libertà di scelta delle donne e di genere più in generale. In cui esiste una classe operaia con una delle storie più battagliere dell’età contemporanea, ma che allo stesso tempo difende valori legati sostanzialmente al lavoro e alla valorizzazione del capitale.

Un groviglio di contraddizioni il cui sbocco sempre più probabile sembra essere quello di una guerra civile, causata più dalla follia collettiva che dalle contraddizioni di classe che, in fin dei conti, non sono altro che la manifestazione più evidente della schizofrenia della società che ancora si fonda sulle leggi del capitale. Un groviglio che permette così, ad autori come Anderson e Pynchon, di rilevare come non sia necessario «delineare appieno il colpevole o i colpevoli perché, in fondo, lo sono tutti. Per avere operato, per aver tentato o per aver anche solo semplicemente creduto» (qui). Motivo per cui anche il soprannome, Perfidia, scelto per la leader del gruppo French 75 che opera clandestinamente all’inizio del film, appare decisamente adatto.

Una nazione, ma forse un intero mondo, in cui tutti vivono illusoriamente un sogno di libertà che ognuno interpreta a modo suo. Come presunto rivoluzionario oppure appartenente alla Fratellanza ariana; come membro di una comunità di Santi purificati discesa direttamente dall’immaginario razzista e religioso dei Padri Pellegrini o della umma dei Black Muslims; come parte di una comunità sempre e comunque offesa perché vede lesi diritti che, in realtà, sono solo e sempre stati promessi sulla carta, dalla celluloide delle pellicole hollywoodiane oppure nei dischi microsolco, fino a ieri, o in rete, oggi.

Tutte schegge di un sogno infranto di libertà, uguaglianza, felicità e unicità, che non si ricompongono se non nell’immagine impazzita di un caleidoscopio pronto ad offrirne altre e di nuove ad ogni nuovo giro delle lenti contenute nello strumento, in cui le figure geometriche simmetriche colorate, generatesi dall’unione dell’immagine diretta dei frammenti e di quelle create dal loro riflesso negli specchi, mutano e cambiano colore e forma, senza mai ripetersi.

Ecco, il film, comunque bello e dagli interpreti spesso bravissimi (Sean Penn, Leonardo DiCaprio, Benicio del Toro e Chase Payne “Infiniti” soprattutto), caratterizzato da un anti-eroe sempre in vestaglia da camera, ritagliato sulla figura del Grande Lebowski dei fratelli Cohen, e da scelte narrative e stilistiche innovative4, di Anderson può essere riassunto così. Come l’immagine prodotta in un caleidoscopio dai frammenti di una società caduta, sia in alto che in basso, negli stessi tranelli che pensava di poter maneggiare con disinvolta destrezza.

E in cui a potersi salvare sembrano esser soltanto gli ultimi, i marginali: gli immigrati e i migranti obbligati ad organizzarsi per sopravvivere, anche per mezzo di una “ferrovia sotterranea” che ricorda quella dei tempi di una schiavitù mai davvero finita, e le giovani generazioni, obbligate a sperare e a lottare collettivamente, almeno per sopravvivere a ciò che un vecchio e bastardissimo sogno infranto ha lasciato loro in eredità. Come le recenti e meravigliose piazze Pro-Pal, ma non solo, sembrano confermare.


  1. T. Pynchon, Vineland, traduzione di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, Milano, 1991 (prima edizione italiana) e con la medesima traduzione, ma aggiornata da Andrea Mattacheo, per la seconda edizione, uscita nella Collana ET Scrittori, Einaudi, Torino, 2021.  

  2. Inherent Vice (2009), uscito in Italia nel 2011 per Giulio Einaudi editore, Torino.  

  3. Per maggiori delucidazioni sull’argomento si veda M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024  

  4. Si pensi soltanto all’autentica reinvenzione della più abusata trovata della cinematografia americana degli ultimi cinquant’anni, da Bullit in poi: l’inseguimento in auto lungo strade urbane oppure sprofondate in anonimi e vastissimi deserti.  

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La natura cronofaga della medialità contemporanea https://www.carmillaonline.com/2025/10/28/la-natura-cronofaga-della-medialita-contemporanea/ Tue, 28 Oct 2025 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90420 di Gioacchino Toni

Vincenzo Estremo, Federico Giordano, Maria Teresa Soldani, a cura di, Cronofagia e media. La gestione e il consumo del tempo fra cinema, arti visive, TV e web, Meltemi, Milano, 2024, pp. 240, € 20,00

All’inizio del Novecento, se Henri Bergson guarda al tempo come a una massa fluida, non collocabile né materializzabile, in cui esistono soltanto azioni, Frederick Taylor si propone invece di rinchiudere queste azioni nel tempo rigido della divisione del lavoro. Due direttrici destinare, un secolo dopo, a convergere nei media a causa dell’ingerenza delle macchine mediali, macchine capaci di ridefinire non solo le rappresentazioni, ma anche [...]]]> di Gioacchino Toni

Vincenzo Estremo, Federico Giordano, Maria Teresa Soldani, a cura di, Cronofagia e media. La gestione e il consumo del tempo fra cinema, arti visive, TV e web, Meltemi, Milano, 2024, pp. 240, € 20,00

All’inizio del Novecento, se Henri Bergson guarda al tempo come a una massa fluida, non collocabile né materializzabile, in cui esistono soltanto azioni, Frederick Taylor si propone invece di rinchiudere queste azioni nel tempo rigido della divisione del lavoro. Due direttrici destinare, un secolo dopo, a convergere nei media a causa dell’ingerenza delle macchine mediali, macchine capaci di ridefinire non solo le rappresentazioni, ma anche le produzioni della società contemporanea. È a tale convergenza che guardano i saggi che compongono Cronofagia e media (Meltemi 2024), volume curato da Vincenzo Estremo, Federico Giordano e Maria Teresa Soldani che si propone come riflessione cross-disciplinare su una convergenza in cui «a essere abbattuta non è più la distinzione tra tempo ciclico della natura e tempo determinato, ma tra tempo libero e tempo del lavoro. Una confusione che oscura l’esperienza socialmente differenziata del tempo vissuto e legittima la fissazione culturale sul controllo del tempo» (p. 8). Lo sviluppo delle tecnologie mediali ha progressivamente modificato la percezione umana del tempo in direzione di una temporalità contraddistinta da accelerazione, immediatezza e istantaneità.

Risulta del tutto evidente il ruolo assunto dalla macchina, a discapito della natura, nell’organizzazione della produzione e della riproduzione. Se nel contesto industriale della seconda metà secolo scorso, il celebre Frammento sulle macchine di Marx è stato interpretato sia in maniera tecnofobica, sia tecno-risolutiva, nel nuovo millennio la sua rilettura si è trovata a fare i conti con un contesto decisamente cambiato, a partire dalla direzione che ha preso lo sviluppo delle macchine e il conseguente livello di astrazione.

In una contemporaneità digitale, in cui tempo di vita e tempo di lavoro tendono a sovrapporsi, «l’automazione si ripropone come un’ottimizzazione tale del tempo della vita, che corrisponde a una sua ingestione» (p. 10). La rivoluzione nel tempo e negli spazi imposta dalla medializzazione, propria di un capitalismo sempre più pervasivo e mimetico, comporta forme inedite di competitività e sfruttamento del tempo incuranti dei limiti biofisici degli esseri umani.

La dislocazione e l’iper-presenza dei media contribuisce a creare degli spazi in cui strumenti allo stesso tempo pervasivi e invisibili, predano il tempo e l’attenzione dell’utente. Spazi che a differenza di quelli in cui avevano luogo le esperienze precedenti, non trasmettono e basta, ma sono predisposti per ricevere e catturare informazioni. In questa modalità si rovescia il rapporto spettatoriale con i corpi non più diretti verso la trasmissione, ma con la trasmissione che raggiunge i corpi ovunque essi siano. Un rapporto che si cementifica grazie alla presunta libertà o scelta di chi vive l’esperienza mediale attraverso feedback continui e ridondanti rispetto all’evento stesso. La medialità contemporanea infatti, attingendo alla sua tradizione di industria dell’intrattenimento, ha ripulito gli aspetti disciplinari dei sistemi industriali, trasformandoli in fenomeni relazionali orizzontali e apparentemente paritari. Ogni esperienza mediale nasconde i propri scopi estrattivi attraverso fenomeni complessi e molteplici che avvengono contemporaneamente. Eventi dinamici che forgiano un tempo segmentato e ridotto – facile da assimilare – ma in continuo fluire (p. 13).

La società contemporanea mira all’alienazione totale del lavoro facendolo percepire come divertimento attraverso l’ambito mediale, un ambito che tende a fagocitare porzioni sempre maggiori di tempo sottraendole ad altre occupazioni. I contributi che compongono il volume indagano dunque la natura cronofaga della medialità contemporanea, mettendone in luce gli aspetti più evidenti, dai processi di automatizzazione del lavoro alle pratiche di vetrinizzazione della vita online, sino alle abbuffate seriali compulsive e alla conseguente condizione di governamentalità algoritmica.

L’obbiettivo è rendere il tempo libero omologo al tempo occupato. Un tempo per essere pienamente libero, ossia svincolato da opzioni che lo eterodirigano e a nostra totale disposizione, deve essere condotto nomadicamente, senza previsioni possibili, nel senso scelto. L’ambizione dell’ipercapitalismo è operare questa precognizione delle scelte dei cittadini-fruitori, e indirizzare le scelte del loisir verso l’ambito mediale, dando la sensazione che queste scelte siano operate liberamente da chi le sta operando (p. 14).

Nel volume non si guarda in maniera apocalittica alla tendenziale sovrapposizione dell’ecosistema mediale con l’intero apparato sociale e agli aspetti cronofagico e biofagico del digitale; ci si muove piuttosto nella convinzione che la consapevolezza del meccanismo cronofagico sia di per sé il presupposto per non assoggettarsi alle logiche della tecno-capitalismo digitale. Insomma, essere consapevoli della cronofagia mediale significa già contrastarla.

In un incrocio fra individuale e collettivo possiamo indirizzare la tecnica nel mettersi al servizio di un lavoro più umano, di un tempo libero davvero liberato, di una equilibrata libertà individuale, di un uso non compulsivo dei media. La neutralità disumana del modello ipercapitalistico che funziona attraverso il macchinico, e usa gli esseri umani come mere risorse economiche, può essere contrastata dallo squarciamento del velo e dall’hackeraggio della tecnica attraverso un movimento intersoggettivo, che si può fare collettivo. Usare meglio la tecnica e il suo portato mediale non è usare meno, ma usare con cura e per la cura degli altri, trasformando Chronos in Kairóstempo debito –, ossia trasformando il tempo come misura organizzata e mossa da una esterna istanza astratta in autonomia del tempo debito (p. 24).

Il volume Cronofagia e media è composto da due parti. La prima si sofferma sul concetto di cronofagia, sulle concezioni di temporalità e durata, sulle caratteristiche dei dispositivi tecnologici, sugli ambienti mediali e sugli ambiti lavorativi, culturali e artistici: Jean-Paul Galibert riflette sulla colonizzazione dell’immaginario e sullo sfruttamento dei desideri degli utenti da parte delle piattaforme digitali; Jonathan Crary incentra il suo contributo sulle ricadute sugli esseri umani e sul pianeta dello sfruttamento economico attuato attraverso pratiche di produzione, consumo, estrazione, trasporto e circolazione sempre più ciniche e pervasive; Alessandro Simoncini, riprendendo l’idea foucaultiana di biopotere, mette in relazione la gestione del tempo e lo sfruttamento dei dati nelle piattaforme social; Lorenzo Denicolai guarda al rapporto tra gli utenti, le tecnologie digitali e le produzioni culturali nell’odierno orizzonte postmediale soffermandosi sui dispositivi regolanti il tecno-tempo e guardando in particolare alla serie Westworld – Dove tutto è concesso (HBO, 2016-2022) ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy; Vincenzo Estremo guarda ad alcune opere multimediali focalizzandosi sull’immaginario che accomuna il tempo di lavoro, anche artistico, e il tempo libero.

La seconda parte del volume si occupa, invece, delle strategie della cronofagia proponendo una serie di case studies inerenti la produzione, il consumo e la distribuzione di film, serie e videogiochi: guardando al di là delle produzioni hollywoodiane tendenti all’assoggettamento del tempo e delle coscienze degli utenti/consumatori, Maria Teresa Soldani si concentra sulla funzione liberatoria di opere audiovisive non-convenzionali capaci di sottrarsi alla cronofagia nei consumi culturali; Giacomo Nencioni indaga la rappresentazione dei luoghi di lavoro e delle relazioni tra tempo del lavoro e tempo dello svago, tra tempo dei lavoratori e tempo dei proprietari, nelle estremizzazioni proposte da film e produzioni seriali che ricorrono a registri distopici, apocalittici o anche farseschi; Tiziano Bonini si occupa di come l’attenzione sia divenuta a tutti gli effetti una merce di valore nel mercato capitalistico, una merce quantificabile e rivendibile attraverso la datificazione dalle piattaforme digitali; guardando all’universo videoludico, Federico Giordano analizza i meccanismi di promozione, controllo e valutazione delle performance che espongono i gamer a un iperlavoro non retribuito particolarmente profittevole per le aziende; Simone Santilli esplicita come la modalità fotografica introdotta in buona parte dei videogame contemporanei sia uno strumento di gamification utile ad aumentare la longevità del prodotto e a pubblicizzarlo gratuitamente attraverso la condivisione delle fotografie in-game sui social da parte dei gamer.

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