Cinema & tv – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 29 Apr 2024 20:00:25 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Quei diabolici anni Settanta https://www.carmillaonline.com/2024/04/26/quei-diabolici-anni-settanta/ Fri, 26 Apr 2024 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82249 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Le storie, i costumi e le estetiche del passato rappresentano un bacino per certi versi inesauribile per le opere di finzione, un bacino su cui posare uno sguardo che quel passato tende a ricostruirlo, selezionarlo e significarlo alla luce dell’oggi. In questo scritto si esporranno alcune considerazioni su un paio di serie televisive realizzate nel nuovo millennio che, narrando di vicende ambientate negli anni Settanta del secolo scorso, offrono di quel decennio una lettura incentrata sui suoi aspetti per così dire ‘diabolici’.

Attraverso la messa in scena del ‘male’ che si annida in alcuni individui, [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Le storie, i costumi e le estetiche del passato rappresentano un bacino per certi versi inesauribile per le opere di finzione, un bacino su cui posare uno sguardo che quel passato tende a ricostruirlo, selezionarlo e significarlo alla luce dell’oggi. In questo scritto si esporranno alcune considerazioni su un paio di serie televisive realizzate nel nuovo millennio che, narrando di vicende ambientate negli anni Settanta del secolo scorso, offrono di quel decennio una lettura incentrata sui suoi aspetti per così dire ‘diabolici’.

Attraverso la messa in scena del ‘male’ che si annida in alcuni individui, Les papillons noirs (Arte-Netflix, 2022) di Bruno Merle e Olivier Abbou e The Serpent (BBC-Netlfix, 2021) di Mammoth Screen, proiettano uno sguardo sugli anni Settanta che rivela inevitabilmente anche qualcosa dei nostri tempi.

La serie Les papillons noirs racconta dello scrittore quarantenne Adrien Winckler (Nicolas Duvauchelle) che, in crisi creativa, accetta l’offerta di trascrivere in romanzo la vita che gli viene raccontata da un individuo ormai prossimo alla morte, Albert Desiderio (Niels Arestrup), imperniata attorno alla storia d’amore avuta con Solange (Alyzée Costes) negli anni Settanta.

Adrien, che vive con Nora (Alice Belaïdi), una ricercatrice di medicina, ha un passato burrascoso fatto di incontri clandestini di boxe in Thailandia, alcol e carcere. Figlio dell’infermiera ormai in pensione Catherine (Brigitte Catillon), sul piano personale lo scrittore si trova a dover dissipare un alone di mistero che riguarda il padre Vic, medico belga morto da tempo, e il fratello di quest’ultimo.

Nella sua abitazione di campagna, Albert racconta ad Adrien della difficile infanzia passata in orfanotrofio e dell’incontro con Solange, figlia di una prostituta. Da questo incontro tra ‘esseri respinti’ scaturisce una storia d’amore in cui i due si dimostrano disposti ad ogni complicità, una storia che nell’uomo assume tratti di irrefrenabile gelosia.

Nel corso del racconto, Albert riferisce di quando, in risposta a un’aggressione sessuale subita da Solange, la coppia si ritrova complice nell’uccisione del responsabile del gesto e del fratello di questo in quanto testimone. A partire da quell’episodio prende il via, attraverso diversi flashback, il racconto di una lunga scia di sangue che, si scoprirà, intreccia le esistenze di diversi personaggi del film. Mentre il racconto di Albert progredisce svelando allo scrittore le vicende della sua vita e quest’ultimo cerca di venire a capo del proprio passato, il poliziotto Carrel (Sami Bouajila) e la sua collaboratrice Mathilde (Marie Denarnaud) indagano su una serie di omicidi irrisolti risalenti agli anni Settanta.

La serie The Serpent trae invece ispirazione dalle vicende realmente accadute riguardanti Charles Sobhraj (Tahar Rahim), autore di una lunga serie di omicidi nel corso degli anni Settanta che hanno avuto come vittime giovani occidentali in cerca di nuove esperienze di vita lungo la “rotta hippie” nell’Asia meridionale. Mercante di gemme preziose, trafficante di droga ed abile truffatore, Sobhraj ha saputo sfruttare il suo carisma per raggirare numerosi viaggiatori al fine di impossessarsi dei loro documenti, travel cheque e contanti, per poi ucciderli così da non lasciare testimoni.

Non incline a violenza pulsionale e sadismo, questo omicida, amante del lusso, ha condotto i suoi crimini muovendosi con metodo e pianificazione ricorrendo all’aiuto della compagna canadese Marie-Andrée Leclerc (Jenna Coleman) e dell’indiano Ajay Chowdhury (Amesh Edireweera) che provvedevano a somministrare droghe alle vittime, la prima, e ad aiutare Sobhraj negli omicidi, dunque nel far sparire i cadaveri, il secondo. Dopo un periodo di detenzione in India tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, Sobhraj ha sfruttato la sua fama rilasciando interviste a pagamento salvo poi recarsi in Nepal, ove era ricercato per l’omicidio di due giovani turiste statunitensi, venendo nuovamente arrestato e imprigionato all’inizio del nuovo millennio restandovi per quasi un ventennio.

Quegli anni Settanta ‘diabolici’, in Les papillons noirs e in The Serpent, sembrano appartenere ad un tempo mitico e mitizzato, allontanato in una dimensione dalle connotazioni quasi epiche. Gli stessi personaggi violenti ed assassini sembrano trasformarsi in eroi epici, mitici guerrieri di un tempo lontano. Vengono rappresentati estremamente eleganti, abbigliati all’ultima moda (dell’epoca) mentre, in ralenti, camminano o si atteggiano in espressioni ‘dure’ e sprezzanti.

Se l’uomo appare come un guerriero o un giustiziere, la donna è tratteggiata come una terribile femme fatale, una “dama senza pietà” dispensatrice di morte, specialmente in Les papillons noirs. Sono personaggi che sembrano emergere da quel passato epico ed “assoluto” di cui parla Bachtin: lontanissimo, irraggiungibile ed eterno, che appartiene esclusivamente all’universo dell’epopea1. Perché, in fin dei conti, gli anni Settanta si stanno trasformando in un tempo mitico anche nell’immaginario comune odierno: per rendersene conto basta girare un po’ sui social dove sono innumerevoli i gruppi dedicati a quel periodo, intrisi di una lancinante nostalgia.

Ma le serie televisive in questione non ci presentano l’universo ovattato e intimistico che incontriamo invece in molto cinema italiano, circondato da canzoni ‘iconiche’ del periodo e da pulitissime e perfette automobili vintage. Les papillons noirs e The Serpent non raccontano gli anni Settanta come un mondo incantato ed utopistico, come un’età dell’oro per sempre perduta. Sono lontani sì, ma non incastonati in una irraggiungibile utopia. Diventano uno sfondo caratterizzato da una inaudita violenza dove, come eroi, si muovono gli alfieri di quella stessa violenza. Quest’ultima, nei lacerti di flashback presenti in Les papillons noirs, emerge improvvisamente su uno sfondo vintage e quasi nostalgico: ben presto, i caratteri caricaturali della rappresentazione d’epoca (le auto, i vestiti, le canzoni e gli ambienti) precipitano nel baratro di una violenza cieca che sembra emergere dai più segreti interstizi di quei Settanta. I paesaggi e le ambientazioni dei luoghi di vacanza in cui si svolgono gli efferati omicidi della coppia si rivestono di connotazioni diaboliche e infernali, come se ci trovassimo all’interno del filone horror contemporaneo che si focalizza sui viaggi da incubo di turisti che si ritrovano nelle fauci di spietati serial killer.

Un luogo di vacanza, per certi aspetti, è anche lo sfondo in cui si svolge la vicenda di The Serpent, pure se allontanato negli spazi “lisci”2 lontani dall’Occidente, estreme lande orientali che sfuggono alla centralità europea o statunitense che connota le storie ambientate negli anni Settanta. Ci troviamo a Bangkok, in Thailandia, e il terribile Charles Sobhraj circuisce, rapina e uccide giovani turisti occidentali per derubarli e usare i loro documenti. Gli scenari di violenza, qui, sono la Thailandia, il Tibet, l’India: sono luoghi inediti per le ambientazioni vintage e gli stessi ambienti, il paesaggio nonché l’abbigliamento dei personaggi non sembrano eccessivi ed iperbolici come negli scenari europei. Gli unici personaggi tratteggiati con tinte un po’ caricaturali sono i giovani ‘figli dei fiori’ europei e americani che si avventurano in Oriente spinti da una nuova forma di “orientalismo” (un approccio ai territori orientali, secondo una definizione di Edward Said, filtrato da uno sguardo europeo e occidentale3 ) veicolato dalla controcultura.

Le ambientazioni appaiono meno naïf di quelle occidentali appunto perché sono allontanate in luoghi separati dai cliché europei e statunitensi, luoghi intrisi essi stessi di uno sguardo orientalista che trasforma la Bangkok del racconto in un vero e proprio baratro infernale che ingloba nelle sue spire gli ingenui occidentali. In questi luoghi infernali si muove il “serpente” Sobhraj, infido e imprendibile, braccato a sua volta dal giovane diplomatico olandese Herman Knippenberg (Billy Howle ).

Fin dai tempi di Baudelaire e di Flaubert, Oriente è sempre stato sinonimo di pericolo ambiguo e strisciante, di malattia e di corruzione: ecco allora il “serpente” Sobhraj, egli stesso di origine orientale, ambiguo e mostruoso (coadiuvato dall’altrettanto ambiguo e mostruoso, e altrettanto orientale, Ajay, di carnagione scura) che si contrappone ai perfetti occidentali rappresentati dal già ricordato diplomatico olandese, dalla sua moglie tedesca e dal belga Paul, nonché dalla coppia di francesi Nadine (Mathilde Warnier) e Remi (Grégoire Isvarine). Gli occidentali sembrano gli emblemi di una razionalità che cerca di infiltrarsi negli interstizi malati dell’Oriente: sono sempre riconoscibili, sempre ben vestiti in impeccabili abiti, come il diplomatico che veste sempre una camicia bianca con cravatta4. Sono il simbolo di una razionalità che si è lanciata verso l’ignoto, quasi come Jonathan Harker in Dracula di Bram Stoker, che si spinge verso le orrorifiche lande della Transilvania, proprio in bocca al mostruoso vampiro.

Se The serpent ci mostra i diabolici anni 70 ‘disambientati’ in territori orientali, lontani quindi nel tempo e nello spazio, Les papillons noirs ce li mostra soltanto lontani nel tempo. Ma è un tempo che equivale in tutto e per tutto ad un altro spazio, quello dell’orrore. Perché in quel tempo – sembrano voler ribadire le due serie televisive – c’è posto solo per l’orrore e la violenza, oltretutto scatenati da futili motivi. La Francia degli anni Settanta non sembra neppure la Francia: sembra un paese emerso da una fiaba crudele, un universo di cartapesta e di sangue, che si contrappone alla logicità e alla razionalità del nostro tempo. La contemporaneità appare quindi venata di una caratterizzazione ‘occidentale’ mentre gli anni Settanta – fatti di lunghe gonne colorate, di camicie sgargianti e di capelli lunghi – sono l’Oriente del nostro passato: un orrore clownesco che ci spia dalla sua notte. Non sono i cosiddetti ‘anni di piombo’ – mostrati, ad esempio, da una serie TV come Esterno notte (Rai, 2022) di Marco Bellocchio, incentrata sulla ‘vicenda Moro’, o da un film come La prima linea di Renato De Maria, liberamente ispirato al libro Miccia corta (2009) di Sergio Segio, che racconta un episodio dei primissimi anni Ottanta che assume la forma di epilogo degli anni Settanta vissuti da alcuni militanti che il mondo lo volevano cambiare, in cui la violenza emergeva da una lotta inesausta fra le classi, da logiche di protesta e di ribellione – ma sono gli anni di una futile e vacua efferatezza. Ancora più terribile se pensiamo che, in fondo, quella diabolica violenza è figlia delle nostre paure e del nostro tempo perché è proprio il nostro tempo che l’ha creata e che l’ha messa in scena. E allora, forse, quell’universo di cartapesta e di sangue, fra le guerre e le efferatezze che ci circondano, è più vicino di quanto possiamo immaginare.


  1. Cfr. M. Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it. Einaudi, Torino, 1979, p. 457. 

  2. Per il concetto di “spazio liscio” cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, p. 451 e seguenti. 

  3. Cfr. E.W. Said, Orientalismo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2013. 

  4. Cfr. ivi, pp. 55-56: «Da un lato ci sono gli occidentali, dall’altro gli arabi-orientali; i primi sono, nell’ordine che preferite, razionali, propensi alla pace, democratici, logici, realistici, fiduciosi; i secondi sono quasi esattamente l’opposto». 

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Rebuilding America: Civil War di Alex Garland https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/re-building-america-civil-war-di-alex-garland/ Thu, 25 Apr 2024 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82189 di Sandro Moiso

– Chi siete? – Siamo americani. – Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in [...]]]> di Sandro Moiso

– Chi siete?
– Siamo americani.
– Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in un panorama politico e culturale asfittico come quello italiano, diviso tra l’intimismo cinematografico troppo spesso travestito da impegno civile e lo sciapo dibattito “antifascista” sulla censura all’ancor più insipido monologo di chi vorrebbe atteggiarsi a novello Matteotti, esplode letteralmente sullo schermo e nello sguardo dello spettatore. Con una forza e una virulenza ormai lontane da qualsiasi prodotto della nostra intellighenzia vacua e perbenista.

Alexander Medawar Garland, scrittore di romanzi e già sceneggiatore di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle, non è la prima volta che porta sullo schermo le possibili conseguenze di una violenza a lungo repressa e negata che può, però, trasformarsi in autentica guerra interna alle società che si credono più evolute e liberali. Ma se nell’opera che gli ha dato la celebrità come sceneggiatore il tema era ancora collegato ad un contesto di carattere grosso modo fantascientifico e anticipatorio, Civil War ci parla, sostanzialmente, del qui e adesso.


Il viaggio della veterana fotoreporter di guerra Lee, dei due giornalisti Joel e Sammy e dell’aspirante e acerba fotoreporter Jessie, non è un viaggio in un futuro distopico, ma fa precipitare lo spettatore nelle contraddizioni di una guerra civile latente già visibile oggi, per gli osservatori più attenti, nelle pieghe di una società sorta da una guerra civile mai del tutto risolta e che da anni torna a presentarsi come inevitabile necessità storica1.

Sono 758 miglia quelle che separano New York, punto di partenza dell’equipe di reporter, da Washington, punto di arrivo programmato per un’ultima e incerta intervista a un Presidente degli Stati Uniti ferocemente abbarbicato al potere, ma ormai circondato dalle truppe del Fronte Occidentale, dell’alleanza tra Texas e California (i due stati più grandi dell’Unione), che hanno mantenuto le strisce bianche e rosse della bandiera nazionale riducendo però le stelle a due, e dell’Alleanza della Florida.

New York è sconvolta dalle proteste per le miserabili condizioni di vita e dagli attentati suicidi dei più disperati delle tendopoli che si sono sviluppate nelle vie della ex-Grande Mela, sul modello di quelle attuali e reali di Los Angeles. Così il viaggio, per motivi di convenienza, punterà prima ad ovest per poi rientrare verso est all’altezza di Charlottesville in Virginia. Quella Virginia che, nel 1862, durante la guerra civile “storica” vide una importante vittoria delle armate secessioniste del Sud e che proprio da lì, sotto la guida del generale Lee, decisero di attraversare il Potomac per marciare su Washington.

E’ un paesaggio di autostrade piene di mezzi civili e militari distrutti e abbandonati, di centri commerciali diventati zona di guerra e di campi profughi organizzati negli stadi; di crudeltà di ogni genere compiute da una parte contro l’altra, anche se ben si recepisce che le parti in gioco siano ben più di due, animate spesso da motivazioni diverse eppure guidate dalla stessa ferocia. Di cadaveri abbandonati nei parcheggi dei mall oppure nelle fosse comuni e cosparsi di calce oppure di corpi seviziati, umiliati e offesi in ogni modo, appesi ai cavalcavia se non negli autolavaggi. Di uccisioni a sangue freddo dopo interrogatori sommari oppure senza neanche il bisogno di quelli: la Land of the Free viene fotografata, letteralmente, in tutta la sua possibile barbarie, mentre la musica dei Suicide, da Rocket USA a Dream Baby Dream, funge egregiamente da viatico per l’impresa2.

E’ come se la guerra e la violenza esportata per decenni dall’impero occidentale nel resto del mondo, spesso sotto le spoglie di colpi di stato e guerre civili, avesse deciso di rientrare nel grembo materno, per divorare il corpo della madre dall’interno. Eppure, anche se qui e là appaiono cecchini dalle unghie smaltate, le camicie hawaiane dei Boogaloo Boys o gli sguardi esaltati che ricordano gli assalitori di Capitol Hill, non sono le milizie locali o le armi “casalinghe” a determinare il gioco delle parti, ma forze armate ben addestrate al compito di uccidere e distruggere, dotate di un arsenale e un potenziale di fuoco che comprende armi pesanti, carri armati, elicotteri, blindati Humvee e di ogni altro genere.

L’esercito si è evidentemente disgregato come la Guardia Nazionale, ma la macchina bellica e i suoi armamenti sono rimasti ben oliati e funzionanti e così, mentre le ultime truppe lealiste difendono Washington e il presidente annuncia ripetutamente, come d’uopo anche in questi giorni a proposito di Ucraina e Medio Oriente, la prossima storica vittoria delle forze del bene, tutto viene distrutto oppure violato, insieme alle ultime difese, al Lincoln Memorial e alla stessa Casa Bianca.

La violenza dispiegata è ben più terribile di quella immaginata ai tempi dei film che prevedevano invasioni sovietiche e nord-coreane degli Stati Uniti, come Alba rossa (Red Dawn, 1984) di John Milius. Quarant’anni non sono trascorsi invano, né nella storia reale del declino dell’impero né, tanto meno, per l’immaginario cinematografico americano che spesso, anche là dove non osa parlare della possibile guerra civile che attende l’impero, non smorza certo i toni della critica al dominio imperiale sul resto del mondo, sia nelle serie televisive che, in maniera mediata dalla fantascienza epica, in produzioni come Dune I e II del canadese Denis Villeneuve.

Non ci dice il film a quale campo appartenga il presidente, se repubblicano o democratico, in fin dei conti non occorre, anche se certamente tanta critica ben pensante nostrana e tanto pubblico avrebbero preferito una situazione più definita, per poter almeno parteggiare per una delle due parti in causa. Ma ciò che realmente conta è che il dollaro americano ha perso il suo valore e che la vita può esser considerata normale soltanto una volta accettata la normalità della guerra.

La produzione anglo-americana è seria. Sa che una guerra civile di tali proporzioni non è il prodotto di una semplice e retorica battaglia tra democrazia e autoritarismo oppure riconducibile ad una “lotta di classe” ridotta a teatrino tra due facilmente riconoscibili e “pure” classi in lotta: borghesia e proletariato. Come si è già affermato in un testo di alcuni anni or sono, la categoria di guerra civile può infatti costituire:

un elemento più adeguato per l’interpretazione di un insieme di contraddizioni sociali e di lotte manifestatesi a livello internazionale con una certa frequenza e intensità nel corso degli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di scopi può difficilmente essere ancora rinchiusa soltanto all’interno della più tradizionale, e forse riduttiva, formula di lotta o guerra di classe. Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale agite da attori multipli, cui gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geopolitica, hanno dato, quasi sempre, risposte di carattere repressivo ed autoritario3.

Ma che proprio negli Stati Uniti potrebbe trovare, come ci indica il film di Garland, il suo punto finale di espressione. Anche se non è soltanto Garland a suggerirlo, ma anche svariati e attenti studi sulla realtà americana4.

Tralasciando, per ora, il contenuto più evidentemente politico e sociologico del film, oltre a sottolineare l’essenzialità della regia di un film a medio costo e la bravura delle interpreti e degli attori, da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura (Joel), Stephen McKinley Henderson (Sammy), Cailee Spaeny (Jessie) fino a Jesse Piemons (nei panni di un militare ultranazionalista), quello che occorre qui ancora sottolineare è un altro e importante aspetto delle vicende narrate.

Si tratta della differenza che intercorre tra fotografare la realtà della guerra oppure descriverla in un articolo. La differenza tra lo sguardo e la parola e il diverso collegamento tra occhio e mente rispetto a quello tra la facoltà di scrivere e la riflessione necessaria per metterla in atto. La prima azione è immediata e non può permettersi il lusso della mediazione, mentre la seconda fa della capacità di mediazione interpretativa il suo punto di forza. In altre parole: il reporter, se vuole, può re-inventarsi la guerra, rimuovendo ciò che potrebbe ferirlo di più, mentre il fotoreporter deve per forza accettarne gli aspetti più dolorosi, pena il venir meno alla sua funzione.

Questa semplice e immediata considerazione sembra riflettersi nel carattere dei personaggi, nelle loro scelte e nel loro destino. Apparentemente più cinica e distaccata appare la fotoreporter più vecchia, pienamente in grado, però, di trasmettere alla sua giovane “erede” la capacità di cogliere il momento attraverso lo scatto, costi quel che costi sia sul piano fisico che emozionale. Uno sporco mestiere in cui l’”attimo fuggente” è tutto e richiede di saper scollegare la sensibilità dalla disposizione ad agire automaticamente per mezzo della macchina fotografica, anche a costo di perdere la propria umanità, proprio per trasmettere al grande pubblico la disumanità di ogni guerra. Oppure conservarla dentro di sé, fimo ad esserne straziati, come accade a Lee, che proprio in virtù di questo è, però, ancora l’unica capace di un gesto estremo .

Mentre il giornalista può comunque prendere tempo per narrare i fatti attraverso la mediazione della scrittura. In viaggio, sul campo di battaglia oppure in uno di quegli hotel per giornalisti tipici delle zone di guerra che nel film, almeno per una volta, non sono più soltanto in Medio Oriente, Asia, Africa o sui confini orientali d’Europa, ma in una New York in cui l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 sembra costituire, più che un preavviso o un avvertimento, soltanto un pallido ricordo, mentre il cratere di Ground Zero sembra aver davvero inghiottito definitivamente tutto.


  1. Si veda in proposito quanto precedentemente affermato dall’autore di questo articolo qui, qui e qui.  

  2. A proposito del seminale gruppo musicale americano si veda qui  

  3. S. Moiso, Miseria, repressione e crollo delle verità/mondo: ovvero perché parlare ancora di guerra civile, introduzione a S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 9-10.  

  4. Si veda in proposito, solo per citare alcune riflessioni più recenti, la Parte III del numero 3/2024 di Limes, Mal d’America, con i saggi di Chris Griswold, Michael Bible, Kenneth J, Heineman, Tiziano Bonazzi, Jeremy D. Mayer, Mark J. Rozell e Jacob Ware, pp. 201-248.  

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Il reale delle/nelle immagini. La magia del cinema-menzogna https://www.carmillaonline.com/2024/04/23/il-reale-delle-nelle-immagini-la-magia-del-cinema-menzogna/ Tue, 23 Apr 2024 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80713 di Gioacchino Toni

Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.

Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale [...]]]> di Gioacchino Toni

Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.

Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale da farci provare le emozioni dei protagonisti messi in scena.

A differenza della fotografia e della pittura, il cinema «non separa un frammento (inesistente) del reale», esso consente allo spettatore di vivere «davvero come nella vita di ogni giorno» pur trattandosi di un’altra vita, per quanto pur sempre “vita”, facendo dimenticare, al tempo stesso, «che questa vita non è vita». Il cinema, insomma, esige che si guardi al frammento di vita catturata dall’inquadratura dimenticandosi della sua esibita artificiosità.

Nonostante l’artificio al cinema sia palese, pur simulando il contrario, «è proprio la vita che in esso finisce per specchiarsi» trasfigurandosi in inganno, ed è proprio quest’ultimo a rendere il cinema attraente. Al cinema, sostiene Donà, ci si reca per «un indistinto bisogno di vivere la vita, di viverla vivendola» senza giudicare e scegliere, senza tentare di distinguere la sua natura menzognera dal “vero”, sentendo di «esser altri da quel che siamo; pur essendolo (quel che siamo). Essendolo, insomma, senza esserlo».

Il cinema sembra funzionare «come una finestra che, pur aprendosi sul mondo, non si spalanca mai sull’esterno… non apre cioè a improbabili vie di fuga. Ma si spalanca piuttosto sul mondo che, sulla sua trasparenza, finisce in qualche modo per riflettersi come sulla superficie di uno specchio – in cui, a riflettersi, sarà dunque, da ultimo, nient’altro che l’interno della casa. Il quale, proprio nell’attraversare l’apertura della finestra, è destinato a manifestarsi come “altro-da-sé”, negando in primis di essere quel che, della casa (di cui quella finestra è un elemento) dice appunto il semplice “interno”».

Se c’è un film che, secondo Donà, più di altri, è in grado di palesare la paradossale natura dell’esperienza cinematografica, questi è Melò, (1986) di Alain Resnais, nel suo rivelarsi, dietro a una storia di amore e tradimento, un film sulla menzogna, «sull’epifania dell’impossibilità del “vero”», un film «in cui, a tradirci, sono invero sempre e solamente la credibilità e la veridicità di quel che accade».

Riprendendo invece Blade Runner (1982) di Ridley Scott e The Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski, Donà ragiona su come al cinema il corpo dello spettatore venga destrutturato, su come il suo personale punto di vista si eclissi negandogli l’identificazione con uno specifico personaggio della narrazione, inducendolo ad attraversarli tutti senza scegliere “con chi stare”. Al cinema il corpo dello spettatore subisce un processo di trasfigurazione nei corpi proiettati sullo schermo ed il tempo della narrazione che lungi dall’essere il suo, vine da questo vissuto da questo come dall’esterno.

Analizzando Prénom Carmen (1983) di Jean-Luc Godard, scelto come esempio dell’intera opera del regista, Donà si sofferma su quanto la storia del film “non dica”, su quanto non possa raccontare, ossia su quello che Gilles Deleuze (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), riprendendo Michel Foucault (Le jeu de Michel Foucault, 1977), definisce il “dispositivo cinema”.

Se, come afferma Deleuze, «ogni dispositivo si definisce per il suo contenuto di novità e creatività che indica contemporaneamente la sua capacità di trasformarsi o già di incrinarsi a favore di un dispositivo futuro» (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), «il cinema di Godard, proprio presentando l’irresolubilità di tale antinomia – quella tra arte e vita, per l’appunto –, ed esibendola in tutta la sua irriducibile “separatezza”, nonché tragica incomponibilità, crea un vero e proprio “dispositivo”». «Godard riesce a restituire il cinema a quel sottosuolo che ogni opera invero custodisce, e che tanto Foucault quanto Deleuze cercarono di ricondurre alla specifica nozione di “dispositivo”; che ha, come propria primaria caratteristica, quella di determinarsi nella forma di un radicale “rifiuto degli universali”».

Riprendendo le riflessioni di Deleuze sul cinema, Donà sottolinea come a condurre il filosofo alla classificazione delle immagini e dei segni cinematografici nei suoi Cinéma 1. L’Image-mouvement (1983) e Cinéma 2. L’Image-temps (1985) sia la convinzione che «l’immagine non sia un evento della mente o della coscienza, e ancor meno una sorta di più o meno attendibile riproduzione del reale, ma stia nelle cose stesse, nel mondo, incisa nel reale più di qualsiasi altra sua (sempre del reale) possibile caratterizzazione».

Il cinema, secondo Deleuze, produrrebbe una vera e propria finzione di realtà negando di essere finzione così come di essere immagine della realtà, di esserne una copia. Il cinema metterebbe in scena «quel flusso indistinto che mai potremmo “permetterci” di esperire nella nostra quotidianità. Il cinema, cioè, libera il movimento della vita; senza ricondurlo (il movimento) alla vita; alla vita di questo o di quello. Il cinema rende equivalenti i buoni e i cattivi, i gangster e i poliziotti, gli omicidi e i benefattori». È attorno a tali snodi che Donà intesse le sue riflessioni sul modi di concepire il cinema da parte del filosofo francese.

Lo studioso si sofferma anche sulle riflessioni di Foucault sulle “eterotopie” – da questi considerate interessanti anzitutto per il loro fungere da contestazione di tutti gli altri spazi – e su come tali riflessioni si riverberino sul cinema alla luce del fatto che in esso «incontriamo un mondo altro che, nello stesso tempo, non è affatto altro da quello che continueremo a incontrare fuori dalla sala di proiezione». Il cinema «ci consente di vedere (theorein) in qualità di semplici “spettatori”; sì, di vedere lo stesso mondo che vediamo ogni santo giorno […], un mondo fatto anche di individui, certo… come quelli che incontriamo ogni giorno, ma che ogni giorno finiamo per trattare come significazioni meramente universali». Sull’onda dei ragionamenti del filoso francese, Donà si domanda se nel cinema sia possibile vedere «una forma di eterotopia ancor più ricca e completa di quella resa attraversabile ed esperibile dalla grande filosofia… se non altro, là dove quest’ultima abbia saputo farsi teoretica».

Donà riprende anche le riflessioni di Foucault riportate in apertura di Le mots et le choses (1966) in merito al dipinto Las Meninas di Velázquez in cui il filosofo francese giunge a prospettare che ad essere messa in scena dal dipinto «sia innanzitutto la questione della possibilità di rappresentare l’atto stesso della rappresentazione. O anche, di far vedere gli scarti e le pieghe da cui sarebbe intimamente costituita, in verità, ogni visione, ossia ogni rappresentazione. E per ciò stesso ogni immagine». Il celebre dipinto farebbe riferimento dunque a «qualcosa che rimane costitutivamente “invisibile”, e che rimane tale in quanto valevole come semplice “fuori” rispetto alla scena cui tutti gli occhi, nello spazio scenico della rappresentazione, si rivolgono quasi incantati».

L’analisi di un film come King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack permette a Donà di sottolineare come l’antropomorfizzazione cinematografica dell’animalità permetta la resa di un sentimento puro, non calcolato o giudicato e «la realissima illusione di un patimento finalmente libero da costrizioni o sofferenze di sorta, anche in quanto capace di percepirsi e riconoscersi come tale in virtù di una semplice e per ciò stesso immediata esperienza di libertà».

Le pellicole sul cibo e sull’atto del mangiare Babettes gæstebud (1987) di Gabriel Axel e La grande bouffe (1973) di Marco Ferreri, per quanto muovano da prospettive differenti, permettono a Donà di strutturare una riflessione su quanto come spettatori – partecipi di una collettività eppure al tempo stesso soli in sala – ci si “rifugi” al cinema in uno spazio “separato” al pari dei personaggi del film di Axel (abitanti un paesino isolato) e quello di Ferreri (rinchiusi in una villa). «Ma ci separiamo dal mondo, per fare, sempre del medesimo mondo, qualcos’altro, e per fare di noi stessi altro da quel che siamo. Per ‘divorare’ la soglia che ci separa e distingue dal mondo».

Analizzando invece Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, lo studioso argomenta come ad essere messo in scena dal regista sia in definitiva l’atto del fotografare come risposta all’insoddisfazione per quanto offre la vita. Nel ricorrere allo scatto il protagonista ignora cosa esso possa far emergere; la sua, in fin dei conti, sostiene Donà, è una fotografia che «non “rappresenta” e non “ripete” alcunché; ma “presenta”… sola mente». Il protagonista, al termine di quello che si struttura come un viaggio iniziatico, capisce che «malata non è tanto la realtà in ragione della sua insensatezza, quanto piuttosto la nostra pretesa di sostituire questa negatività (o insensatezza) con un altro positivo – che sarebbe solo da scoprire e mettere finalmente a fuoco… per liberarsi da quello che appare come un sempre meno sopportabile mal di vivere».

In conclusione, lo studioso argomenta come nella messa in scena dell’individuo di fronte alla Storia di violenza e di sopraffazione subita dai neri negli Stati Uniti, Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino in definitiva mostri come «l’assolutamente altro può anche presentarsi con un volto simile al nostro, mettendo in crisi il nostro esserci collocati da una parte ben precisa dell’opposizione assoluta; in genere quella dell’essere, ossia del bene», ed ogni volta che ci scagliamo contro un “altro”, lo scambiamo per un “altro assoluto”. «Mentre si tratta solamente di un altro “essere”». La forza icastica di questo film, sostiene Donà, è tale da farci capire che «parla di un reietto che non solo si libera dalla condizione di schiavitù e mostra a tutti noi spettatori come ci si possa liberare da una schiavitù che è sempre schiavitù anzitutto nei confronti della grande illusione, o dal grande fraintendimento che governa le nostre vite».

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Bodies: tra investigatori e macchine del tempo. https://www.carmillaonline.com/2024/03/11/bodies-tra-investigatori-e-macchine-del-tempo/ Sun, 10 Mar 2024 23:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81322 di Walter Catalano

Bodies, è una serie britannica – tratta dalla graphic novel omonima di Si Spencer edita nel 2015 da DC/Vertigo – realizzata da Netflix per la regia del tedesco Marco Kreutzpaintner nei primi quattro episodi e della cinese Haolu Wang, nei successivi quattro, e sceneggiata da Paul Tomalin, autore di vari episodi di Shameless, di Torchwood, nonché del poco riuscito The Frankenstein Chronicles.

La trama a prima vista potrebbe avere delle potenzialità: quattro epoche storiche in ognuna delle quali il protagonista è un diverso detective londinese alle prese con il caso misterioso di un cadavere – sempre [...]]]> di Walter Catalano

Bodies, è una serie britannica – tratta dalla graphic novel omonima di Si Spencer edita nel 2015 da DC/Vertigo – realizzata da Netflix per la regia del tedesco Marco Kreutzpaintner nei primi quattro episodi e della cinese Haolu Wang, nei successivi quattro, e sceneggiata da Paul Tomalin, autore di vari episodi di Shameless, di Torchwood, nonché del poco riuscito The Frankenstein Chronicles.

La trama a prima vista potrebbe avere delle potenzialità: quattro epoche storiche in ognuna delle quali il protagonista è un diverso detective londinese alle prese con il caso misterioso di un cadavere – sempre lo stesso, anche se all’inizio lo sa solo lo spettatore e non il singolo poliziotto – ritrovato nudo in un identico vicolo di Whitechapel. Nel 2023 tocca alla sergente di polizia Shahara Hasan (Amaka Okafor), mentre insegue un giovane in fuga durante una manifestazione di estrema destra, imbattersi nel cadavere di Longharvest Lane. Nel 1941, è invece il detective Whiteman (Jacob Fortune-Lloyd) che si aggira, perseguendo loschi traffici, nella Londra sotto i bombardamenti della Luftwaffe dopo una misteriosa chiamata che lo convoca in Longharvest Lane per un“prelievo”: lì troverà il solito cadavere. Nel 1890 il detective vittoriano Hillinghead (Kyle Soller) arriva a Longharvest Lane per analizzare la scena del crimine di un corpo appena rinvenuto, sempre quello – come scopriremo in seguito, appartenente allo scienziato Gabriel Defoe (Tom Mothersdale) –  stesso occhio cavato da una revolverata (ma all’interno del cranio, riveleranno le varie autopsie, nessun proiettile), stesso tatuaggio sul polso, stessa esatta posizione. Nel 2053 infine, in una Londra distopica controllata da un regime autocratico presieduto da un certo Elias Mannix (Stephen Graham), la detective Maplewood (Shira Haas) di nuovo ritrova il solito corpo di Longharvest Lane, ma questa volta la vittima è ancora viva.

Tutti i detective protagonisti hanno solo una cosa in comune: sono membri di una qualche minoranza. Hillinhead è omosessuale, ebreo Whiteman, disabile Maplewood e musulmana Hasan. Come il cadavere onnipresente poi, anche la presenza di un misterioso e capillare culto escatologico che unisce i vari indiziati e sospetti, con il suo enigmatico motto di riconoscimento – Know you are Loved , sappi che sei amato –  è una costante delle varie differenti epoche.

Piuttosto intrigante, si dirà. Solo all’apparenza in effetti. Perché la storia salta erraticamente tra il 2023, il 1890, il 1941 e il 2053 ogni pochi minuti e oltre all’intricata cronologia disorientante il tono e l’atmosfera cambiano troppo bruscamente da una scena all’altra. Come un Frankenstein televisivo, Bodies sembra un assemblaggio fatto di generi eterogenei, parti frammentate che non si vogliono saldare l’una con l’altra. Così seguiamo i nostri protagonisti in un percorso a zig-zag dove saltabecchiamo da una love story gay in costume fin de siècle; ad un noir anni ’40, tra le esplosioni dei Blitz aerei nazisti; ad un thriller contemporaneo sulla contro-terrorismo; ad un distopico sci-fi. Il tutto unito dal deus ex machina più trito: un wellsiano marchingegno che abolisce la soglia del tempo, creando paradossi in cui i personaggi vagano da un’epoca all’altra e da una situazione all’altra, andando e venendo tra la propria gioventù e vecchiaia, prima e dopo la propria morte, lasciandosi reciproci messaggi e appuntamenti attraverso una tortuosa e confusa cronologia. Manca inoltre un vero approfondimento dei personaggi che rende spesso i dialoghi un cliché. È vero che vi sono dettagli abbastanza accurati d’ambientazione nelle scenografie e nei costumi delle diverse epoche, ma il tutto sembra per la trama ingarbugliata e pretestuosa, una riscrittura della germanica Dark – che è però molto più noiosa, questo va detto – con sprazzi futuri di tipizzazione distopica che guardano, senza altrettanto mordente, alla Gilead di The Handmaid’s Tale.

Quanto allo stile e al ritmo, i salti di montaggio da un periodo all’altro – potremmo quasi dire da un film all’altro – sono introdotti nel tentativo di renderli più fluidi, dall’uso abbondante e reiterato dello split screen, un escamotage piuttosto stucchevole che rimanda ad un’interpunzione inattuale da cinema degli anni ’70, abbastanza fuorviante. Buone invece le interpretazioni di tutti gli attori fra i quali si stagliano in particolare un sempre intrigante Stephen Graham, villain problematico perfetto (l’Al Capone di Boardwalk Empire: lo si guardi, oltre che in Peaky Blinders e in This is England, anche in Boiling Point, forse la sua performance più geniale e straziante…) e Greta Scacchi – con amare considerazioni da parte di noi cinefili, sui danni del tempo: l’affascinante femme fatale degli anni ’80, qui e ora interpreta (bene come sempre) una matura casalinga sovrappeso, per niente sexy… sic transit gloria mundi.

Il vero problema di Bodies, comunque, oltre la frammentarietà e la confusione,  è la caduta banalizzante nel luogo comune, l’allinearsi a tutti gli stereotipi – tematici e visuali – sul viaggio nel tempo (con tanto di paradossi, tra raggi luminosi, esplosioni di lampadine e fumigazioni avvolgenti) e, nell’episodio futuro, sulla distopia totalitaria, diluendoli all’interno di quelli del racconto crime. Altrimenti non tutte le situazioni e i personaggi, se meglio approfonditi, sarebbero stati  così scontati: Shahara madre single musulmana, Whiteman poliziotto ebreo che sopravvive agli anni della Guerra con sotterfugi e relazioni al limite dell’illegalità, Hillinghead omosessuale represso che cerca di rinnegare la propria sessualità nella Londra bigotta di fine Ottocento, Maplewood sopravvissuta alla grande bomba del 2023 perdendo l’uso delle gambe e costretta per poter camminare ad impiantarsi nella schiena un dispositivo fornito dal governo totalitario che si assicura così la sua totale fedeltà e dipendenza, sono tutte figure problematiche, membri di minoranze in una Londra che – qualunque sia l’epoca di riferimento – si definisce progressista, ma è in realtà ancora satura di pregiudizi. Una musulmana, un ebreo, un omosessuale e una storpia saranno, loro malgrado, gli individui che risolveranno non solo un caso criminale ma riusciranno, passandosi la staffetta attraverso il tempo, a “correggere” la realtà. Sappi che sei amato, la formula, eco di codici massonici o rituali settari, in realtà specchia il comune bisogno di trovare conforto al dolore da parte del singolo individuo nel calore degli affetti, nell’appartenenza comune a qualcosa di più ampio. I quattro protagonisti della storia, chi per una ragione e chi per un’altra, sono soli al mondo, vittime degli eventi, senza controllo sul loro destino. Solo un personaggio attraversa indenne tutte le fasce temporali: Elias Mannix, l’uomo che domina il tempo e intende plasmarlo a suo vantaggio. Mannix compare in tutti e quattro gli archi temporali: nel 1890 è Sir Julian Harker, un facoltoso massone che regge le fila di una loggia molto particolare; nel 1941 è Sir Julian, ormai vecchio, sposato con Polly (Greta Scacchi) e prossimo alla morte; nel 2023 è un ragazzino di 15 anni (Gabriel Howell) impaurito e bisognoso d’affetto, nel 2053 è il Generale Mannix, il Capo dell’Inghilterra dittatoriale del futuro. Mannix è dunque il filo conduttore delle quattro linee temporali. Nell’intricato garbuglio troppe domande restano però aperte e non trovano una spiegazione esaustiva giunti alla conclusione: nulla si sa, ad esempio, del destino finale dello scienziato Defoe, il cadavere che sbalza da un’epoca all’altra ma che viene infine “fermato” prima dell’uccisione che determinerà gli altri passati/futuri; vaga resta la natura dell’organizzazione che è alle spalle di Mannix, chi ne siano i componenti, quali gli scopi reali, quale l’effettivo rapporto tra loro e Mannix o il ruolo della bomba atomica che deflagherà (o no) distruggendo Londra, nel creare il loop temporale di cui il protagonista si serve per restare in vita e abitare varie epoche. Anche il finale, la soluzione dell’enigma, l’elemento che metterà tutti in salvo cambiando per sempre il corso della storia, non è da ricercare in un unico evento risolutivo, ma nelle scelte e nella disposizione di persone capaci di cambiare, di tornare sui propri passi quando venga loro fornita una seconda possibilità. Mannix da minaccia diventa soluzione, da villain eroe, per dare senso allo slogan Sappi che sei amato, un’eterogenesi dei fini che inverte un processo e corregge un errore trasformando i propositi distruttivi nei presupposti per salvare il mondo. Possiamo evolverci, dunque, non solo involverci, imparare dagli errori del passato: bello forse, ma troppo didascalico.

Il fumetto di Spencer poi era completamente diverso da questo suo adattamento televisivo. Otto episodi per otto numeri pubblicati nel 2014-2015, affidati a quattro diversi disegnatori – Phil Winslade, Dean Ormston, Tula Lotay e Meghan Hetrick – uno per ogni epoca storica della narrazione (la frammentazione c’era già lì dunque). Nel fumetto le date sono 1890, 1940, 2014 (l’anno in cui l’albo uscì) e 2050, invece di 1890, 1941, 2023 (il “nostro” oggi) e 2053. Se nella serie televisiva il primo corpo viene trovato nel 2023, nel fumetto si parte dal 1890, ma come si scoprirà nel corso delle indagini, c’è anche un corpo molto più antico: un cadavere conservato in una torbiera per circa 3000 anni; un dipinto del XIV secolo dello stesso cadavere appeso al British Museum, con l’iscrizione “E così inizia il Lungo Raccolto”. Un percorso nel tempo molto più tortuoso dunque. Inoltre il personaggio di Whiteman nel fumetto manca totalmente della redenzione della sua controparte televisiva: sebbene condividano la stessa storia, questo Whiteman (in realtà l’ebreo Karl Weissman) è un gangster e un assassino impenitente che ha ucciso sua nipote Esther a sangue freddo (nella serie Esther non è suo nipote e lui cerca invece di salvarla). Che sia Elias Mannix o Julian Harker poi, il personaggio interpretato da Gabriel Howell e Stephen Graham che è al centro della trama dello show televisivo con il suo piano di riplasmare il mondo a sua immagine e somiglianza, è del tutto assente dal fumetto: c’è sì uno spiritista chiamato Henry Harker, ma non sono lo stesso personaggio. La Londra futura dove vive Iris Maplewood inoltre, non è stata ricostruita dopo  l’attacco nucleare del 2023 e non è governata dal Comandante Mannix: nel fumetto una misteriosa “onda d’impulso” ha reso la maggior parte della popolazione amnesica, il cielo è di una tonalità di giallo permanente e inquietante e non c’è alcuna dittatura.

Infine il dettaglio più importante. Anche se il meccanismo di funzionamento dei viaggi temporali nella serie TV è vago, sappiamo che ha a che fare con la “Particella di Deutsch”: Elias Mannix utilizza una macchina chiamata La Gola per viaggiare indietro nel tempo fino al 1889, dove ruba l’identità del defunto Julian Harker, conquista la madre di Harker facendosi credere il figlio  e inizia (in senso cronologico) il suo piano per cambiare il mondo, che alla fine si realizza quando il suo io più giovane farà esplodere una bomba atomica nel 2023. Nel fumetto invece il viaggio nel tempo in senso tradizionale non esiste affatto. L’unica persona che si muove su varie linee temporali è la misteriosa entità nota come “Frank”, il corpo che continua a comparire: non più dunque quello dello scienziato Gabriel Defoe che viaggia nel passato nel tentativo di impedire l’attacco nucleare di Mannix. Quando Maplewood (all’epoca ancora più o meno fedele al suo Comandante) gli spara in un occhio, il suo corpo viene frammentato nel tempo, mettendo in moto il mistero e la conseguente indagine. Il corpo nel Comic è invece quello di un essere soprannaturale che si fa chiamare “con molti nomi”, ma preferisce essere solo Frank. E’ lui che permette a Hillinghead di accettare la sua omosessualità, che consente a Maplewood di annullare gli effetti dell’onda d’impulso e che aiuta Hasan ad eliminare gruppi razzisti a Londra (ne resta traccia solo all’inizio della serie, la manifestazione di estremisti di destra durante la quale tutto comincia). Il cattivo Whiteman invece, al contrario del suo omologo televisivo, fa una brutta fine. Hillinghead tra l’altro, frequentando Whitechapel nel 1890, incontra ovviamente il serial killer più famigerato della Londra vittoriana alla fine del fumetto: Jack lo Squartatore è invece del tutto assente dalla serie televisiva. Peccato !

Conclusione: il fumetto Bodies è, a conti fatti, molto più strano e meno stereotipato dello show di Netflix, sarà un effetto dell’algoritmo ?

 

 

 

 

 

 

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Felicità e panico nella società distopica contemporanea https://www.carmillaonline.com/2024/03/07/felicita-e-panico-nella-societa-distopica-contemporanea/ Thu, 07 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80668 di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve [...]]]> di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve dai media gratificanti inviti al godimento insieme a scariche sensoriali che gli rendono le catastrofi familiari.

Riprendendo i concetti di postmodernità e ipermodernità, Giulio de Martino segnala come se posti in opposizione, questi tendono ad avere connotazioni rispettivamente utopistiche e antiutopistiche, mentre se collocati in sequenza indicano due epoche differenti: la postmodernità corrisponde all’espansione occidentale novecentesca mentre la ipermodernità al periodo più prossimo alla contemporaneità interpretata «come epoca di esplosione distopica delle contraddizioni e dei conflitti interni ed esterni all’Occidente» (p. 55).

A proposito della postmodernità Lyotard aveva evidenziato come comportasse la crisi dell’“universalità” conoscitiva, mentre Virilio si era preoccupato di sottolineare come con essa si entrasse nell’epoca della “condivisione dell’incertezza” e dell’empatia instabile. La postmodernità ha dunque finito per trasformarsi in una “condizione ipermoderna” eclissante l’universalismo antropologico (il cosmopolitismo) alla luce di una sorta di «coesistenza incomunicante (la globalizzazione). Una situazione in cui la pluralità definita delle persone e delle culture ha lasciato il posto al pluralismo indefinito degli “account” e dei “profili personali” sui social.

Dal punto di vista tecnologico, la Web culture è una postcultura includente e generalista, in cui si registra la presenza simultanea di tutte le culture e di tutte le lingue. Vi trovano spazio tutti i livelli di conoscenza, disposti senza gerarchia in un menù sempre attivo di generi e specializzazioni. La distinzione “verticale” fra la cultura High, Middle e Low (o “popular culture”) – come pure la distinzione “orizzontale” fra aree e gruppi locali culturalmente differenziati – ne risulta ridefinita e modificata.
Dal punto di vista cognitivo, la Web culture può provocare una scarsa interiorizzazione dei contenuti e una incerta differenziazione dovuta alla marcata astrazione digitale rispetto alla varietà degli ambienti e dei gruppi. Osservandola in atto nei numerosi dispositivi che la attivano, si può definire come una cultura “extramentale” e “transindividuale” di massa. La società cosiddetta omologata resta pluralista e discorde, ma non ha vie di uscita: consente soltanto percorsi di spostamento e di redislocazione al suo interno. La spettacolarizzazione e l’autofruizione indotte dalle tecnologie degli old e dei new media si svolgono nelle forme più estreme della semiosi e della metacomunicazione (dire qualcosa per dire altro). La trasformazione delle ideologie in mode e dei comportamenti divergenti, individuali e collettivi, in esibizioni e in messaggi prodotti all’interno dei mass media mostra come le azioni si riproducano come news. La guerra, la divergenza, la rivolta, il saccheggio, il crimine, il suicidio ecc. diventano Breaking News […]
La condizione di sradicamento dalla prossimità e di fruizione indifferente di tutto ciò che accade al mondo – ciò che Virilio chiama la “cecità” – non segnala un bivio davanti a cui l’umanità si trova, ma un evento già avvenuto. La postmodernità non pone un dilemma per l’Occidente. Piuttosto induce a livello planetario una situazione distopica che si chiama “ipermodernità” e che ha come conseguenza la crisi della certezza di vivere in un mondo di valori.
Il postmodernismo ha spinto la società occidentale ad esagerare le sue potenzialità e ad interpretare la società del “passato” e quella del “futuro” come se fossero la sua ombra e la sua anima. Il possibile e il probabile sono apparsi più reali di ciò che era avvenuto nel passato e di ciò che accadeva nel presente. Mentre nel mondo tradizionale, l’“oggi” veniva spiegato sulla base di ciò che era già avvenuto […] adesso il presente viene giudicato sulla base del futuro che ci si prospetta e la futurità si preannuncia nella forma della felicità, ma anche del panico e del terrore (pp. 58-59).

Nel volume Lo spettatore turbato, alla ricostruzione filosofica delle tappe principali che hanno condotto l’Occidente dalla postmodernità alla ipermodernità operata da De Martino, fa seguito un’appendice di Edoardo Ferrini, La sublime epidemia, incentrata sulle Esplosioni pandemiche nel cinema americano, ruotante attorno al concetto di rifugiato tecnologico derivato da Giorgio Agamben (A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet 2021).

A partire da una riflessione sul racconto La maschera della morte rossa (1842) di Edgar Allan Poe – da cui Roger Corman ha tratto l’omonimo film –, Ferrini evidenzia come in esso lo scrittore abbia messo in guardia «rispetto a due pericoli o dinamiche antropologiche concrete. In primo luogo, il Nemico virale è interno, non è racchiudibile all’esterno confinando i “sani”. […] Inoltre, il capro espiatorio da bandire – l’homo sacer di Giorgio Agamben – può tramutarsi in una forza autodistruttiva perché eccessivamente immunitaria». La peste mascherata narrata da Poe e, successivamente, da Corman,

agisce come gli odierni falsi positivi, è osmotica rispetto alla reale pandemia, anche se camuffata con le persone, che nella trovata finzionale del racconto ballano mascherate. Il falso positivo ha lo stesso linguaggio dell’uomo comune, gli effetti del virus non si vedono, sono come mascherati. Oltretutto […] mai come prima dell’insorgere del Covid-19, il linguaggio mediatico e sociale ha avuto una coincidenza così forte con i sintomi virali. La chiusura da lock-down, una delle conseguenze dei social media e della connessione “privata”, insieme alla proliferazione mediatica, globalizzata e virale delle notizie. Il tutto oggi rafforzato dalla tornata paura nucleare. In questa ricerca la distopia atomica e quella virale scorrono davvero in parallelo, a cominciare dal fatto che contengono alcune somiglianze fondamentali: l’esplosione nucleare causa malattie “virali” – la velocità di propagazione – la difficile localizzazione che crea il senso angosciante della Minaccia globalizzata. […]
La distopia non è esattamente una contro-utopia che magari esisteva prima di una reale od eventuale Nuova Atlantide, oppure che arriva Dopo in maniera del tutto antitetica rispetto all’utopia. No, a dire il vero le distopie sono utopie rovesciate, degenerate. […] L’effetto distopico è contaminato da paura-terrore, è dilagante, pandemico, ed è anche un effetto di rimpianto e di perdita, verso una protezione utopica non del tutto “ancora” realizzata. L’ordine militare, di certo una delle se non l’Utopia contemporanea, è ancora un “farmaco” protettivo, almeno dopo il crollo del muro di Berlino?
Il linguaggio mediatico a sua volta è quello che più di tutti ha affondato le radici nelle distopie. La premediazione è come una sottile interfaccia tra la realizzazione disastrosa e lo schermo protettivo. L’effetto è un duplice cortocircuito tra la minaccia imminente e il bisogno difensivo e catartico che l’esposizione mediatica dovrebbe procurare, aiutando lo spettatore turbato ad ambientarsi in un am­biente minacciato (pp. 231-232).

Dunque Ferrini prosegue il suo itinerario prendendo in esame Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick, Brazil (1985) di Terry Gilliam, la serie televisiva Better Call Saul (2015-2022) di Vince Gilligan e Peter Gould, World War Z (2013) di Marc Forster e The Batman (2022) di Matt Reeves, rapportando tali opere alla recente pandemia ed ai conflitti militari che stanno ridefinendo la vita degli individuali e delle collettività.

Se nell’opera di Kubrick l’aspetto distopico può essere identificato nella bomba, nel film di Gilliam, sottolinea Ferrini, esso è rappresentato dall’esercito che, al di là del presentarsi come garante della Sicurezza, agisce secondo finalità oscure mettendo in pericolo i cittadini che dovrebbe garantire.

Il patto hobbesiano per cui il Leviatano ha il potere assoluto, senza mai però attentare alla sicurezza degli “ominidi”, in questo caso crolla. E, seguendo Giorgio Agamben (2021), nel paradigma pandemico, il cittadino tende a tramutarsi nel rifugiato. L’esercito è ingovernabile, agito da un linguaggio assurdo che rende le operazioni militari pericolose quanto le “minacce” che dovrebbero sventare. Ecco, di nuovo l’utopia della sicurezza che cozza contro la distopia del Contagio, bellico nel film, fatto di fuoco, sparatorie, esplosioni (p. 234).

Difficilmente nei film pandemici viene messa in discussione l’esistenza del virus. Solitamente questo, al pari delle forze complottiste e negazioniste che alimenta, si presenta come una forza antisistemica fonte di divisione e disgregazione che si propaga orizzontalmente, nelle modalità proprie della biopolitica o del biopotere di cui si è occupato Michel Foucault rifiutando

la derivazione verticale dei o dai “poteri forti”. È quindi più giusto parlare di ritorno alla distopia del totalitarismo nel suo paradigma immunitario, oggi. O quantomeno esiste il pericolo. Anche se tale distopia si avverasse, sarebbe di certo diversa dal classico totalitarismo staliniano diretto dall’Alto.
E, soprattutto se tale potere dall’alto esistesse veramente, la storia mostra che non è infallibile, come testimonia esemplarmente l’esplosione del reattore di Chernobyl. Rimane la distopia della contro-informazione, del proliferare altrettanto virale delle fake news. Nei totalitarismi basati sull’apologia e l’assolutizzazione del Sistema rispetto agli Individui, non fare trapelare le responsabilità del potere è più importante di sventare la minaccia effettiva (p. 243).

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Contro la smart city https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/contro-la-smart-city/ Tue, 06 Feb 2024 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81052 di Paolo Lago

Perfect days (2023) di Wim Wenders mostra una vera e propria ‘mappatura’ dello spazio urbano ad opera del protagonista, Hirayama, che esegue le pulizie delle toilette dei parchi pubblici del quartiere Shibuya di Tokyo. Il personaggio vive in un modesto appartamento vicino a una strada alberata e al mattino si alza per andare al lavoro. Il film ci mostra praticamente in tempo reale le azioni quotidiane svolte da Hirayama: lavarsi, vestirsi, curare le piante, uscire di casa, prendere una lattina di caffè da un distributore automatico e salire sulla sua auto nella quale custodisce tutto il necessario per [...]]]> di Paolo Lago

Perfect days (2023) di Wim Wenders mostra una vera e propria ‘mappatura’ dello spazio urbano ad opera del protagonista, Hirayama, che esegue le pulizie delle toilette dei parchi pubblici del quartiere Shibuya di Tokyo. Il personaggio vive in un modesto appartamento vicino a una strada alberata e al mattino si alza per andare al lavoro. Il film ci mostra praticamente in tempo reale le azioni quotidiane svolte da Hirayama: lavarsi, vestirsi, curare le piante, uscire di casa, prendere una lattina di caffè da un distributore automatico e salire sulla sua auto nella quale custodisce tutto il necessario per il lavoro. Sembra quasi che la ‘mappatura’ della città attuata da Hirayama cerchi di plasmare, lentamente, un nuovo spazio urbano sottratto alle sempre più pervasive “smartificazione” e digitalizzazione. Spostandosi in auto, non mette in funzione apparecchi digitali o connessi ma ascolta esclusivamente canzoni rock americane degli anni Settanta riprodotte da musicassette. Il personaggio guarda quindi lo spazio urbano attraverso il filtro della musica ‘sporca’ proveniente da un apparecchio analogico: il suono, cadenzato dal fruscio del nastro, è infatti lontanissimo dalle algide riproduzioni digitali. Osservando le strade, i palazzi e gli scorci urbani tramite il filtro di una musica proveniente da un ‘altrove’ lontano nel tempo (sia quello a cui appartengono i cantanti e i gruppi rock che quello a cui appartengono le musicassette come oggetti) Hirayama compie una vera e propria decostruzione della Tokyo smart city contemporanea. Il protagonista di questo nuovo film del regista tedesco rimanda inoltre a molti altri personaggi del cinema di Wenders che ‘filtrano’ lo spazio urbano attraverso la musica che ascoltano nella loro auto: basti ricordare il Philip Winter di Alice nelle città (Alice in den Städten, 1974), il quale ‘rilegge’ le città attraversate anche per mezzo di uno sguardo musicale.

La lentezza e la metodicità che il personaggio dedica al proprio lavoro – considerato da chiunque come sordido o dequalificante – introduce la solennità del rito. La lentezza intende caricare di senso il tempo e lo spazio della contemporaneità, perduto nella macina di una comunicazione iperveloce. Come scrive Byung-Chul Han, “l’iper-comunicazione anestetica riduce la complessità, per raggiungere una maggiore velocità. Essa è sostanzialmente più veloce della comunicazione sensata. Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accelerati dell’informazione e della comunicazione”1. La pulizia dei bagni pubblici rientra nella ritualità che investe la vita quotidiana di Hirayama: i suoi gesti, anche nel momento del lavoro, appaiono quasi venati di una sacralità perduta che si pone in netta contrapposizione con la velocità e l’inconsistenza che dominano l’esistenza degli individui contemporanei. Il protagonista di Perfect days è il costruttore di uno spazio alternativo a quello digitale e iperveloce contemporaneo. Anche nel momento della pausa pranzo dal lavoro, cerca di costruire una nuova spazialità urbana, cerca di sottrarre luoghi e spazi al magma fagocitante della contemporaneità. Si siede infatti sempre sulla stessa panchina, nello stesso parco pubblico, e scatta delle foto agli alberi con un apparecchio analogico, senza porre l’occhio dietro l’apparecchio rifiutando in tal modo di influenzare con il suo sguardo lo scorrere sempre uguale dei ritmi naturali e del movimento del vento tra le foglie degli alberi. La stessa ripetitività con la quale avvengono le azioni del personaggio lungo i giorni della settimana servono per instaurare una nuova temporalità, basata sul rito e su una concezione ‘sacrale’ dell’esistenza, che si oppone alla temporalità compressa e sempre preda di nuovi stimoli sensoriali degli spazi contemporanei. Gli spettatori che non hanno compreso o, peggio, si sono dimostrati infastiditi e annoiati da questa ripetitività di azioni, probabilmente appartengono in tutto e per tutto alla dimensione digitale e iperveloce contemporanea, e non si meritano di meglio. Wenders, con il suo film, ci mostra degli esempi di “immagini-tempo”, per utilizzare un’espressione di Gilles Deleuze: alla temporalità frantumata e veloce delle “immagini-movimento” si sostituisce quella lenta e ‘cristallizzata’ del rito2.

La ripetizione dei gesti e delle azioni domina anche i momenti in cui Hirayama, finito il lavoro, percorre in bicicletta gli spazi cittadini. Egli si muove quasi come un antico eroe epico che, spostandosi, attua una nuova lettura dello spazio3: sovverte, disarticola, smembra e ricostruisce in una dimensione sociale e culturale che si pone contro la concezione ipercontemporanea di smart city. Il personaggio si reca ai bagni pubblici per lavarsi, mettendo in atto un’altra azione rituale e conclude la sua giornata cenando in una tavola calda in una stazione, in mezzo a un frenetico passaggio di persone. Ecco che egli rilegge in modo diverso anche un luogo inserito nella velocità, nella spersonalizzazione e nella massificazione contemporanea. Dentro l’“inferno dell’Uguale”4, Hirayama si ritaglia un piccolo spazio in cui possono ancora valere gesti semplici e antichi, come bere e mangiare dopo aver scambiato sguardi e parole d’intesa con il padrone del piccolo locale. Anche il luogo dove si reca a mangiare nei giorni liberi dal lavoro si presenta come uno spazio dominato dai rapporti umani autentici, una piccola isola nel cuore spersonalizzato della metropoli: una padrona che sembra provenire dal Giappone più arcaico, degli avventori che condividono gioie e dolori e che concludono la serata cantando e suonando la chitarra. Nell’Uguale, egli cerca il Diverso sottraendosi agli obblighi sociali che rendono tutti gli individui uguali fra di loro: la ricerca del divertimento sfrenato, l’utilizzo di apparecchi ultramoderni e iperconnessi, la frequentazione di un certo tipo di ambienti, l’attenzione per le immagini digitalizzate e perfette. Il personaggio parla la propria città in modo diverso rispetto alla massificazione che la società tecnocapitalistica vorrebbe imporre. Come scrive Roland Barthes, infatti, “la città è un discorso, e questo discorso è un vero e proprio linguaggio; la città parla ai suoi abitanti e noi parliamo la nostra città, la città in cui ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola”5.

La città che Hirayama plasma col suo movimento si contrappone nettamente, ad esempio, agli spazi in cui si muovono i personaggi di Parasite (2019) di Bong-Joon-Ho. Non solo gli ambienti ipertecnologici ma anche quelli più poveri, nel film del regista sudcoreano, sono caratterizzati dalla presenza degli smartphone, utilizzati indifferentemente da tutti. Gli sfondi e gli ambienti di Perfect days, nei quali vive e si muove il protagonista, sono caratterizzati dalla materialità di oggetti profondamente reali: le musicassette, i vecchi libri, acquistati in una rivendita di libri usati fuori dai normali circuiti investiti dalla velocità del consumo, la stanza nella quale Hirayama attua il rituale della lenta lettura prima di addormentarsi, le scatole nelle quali vengono riposte le fotografie in bianco e nero scattate agli alberi, le piante e i bonsai di cui si prende quotidianamente cura. La Tokyo ‘costruita’ dal personaggio del film di Wenders assume un carattere profondamente umano: la decostruzione in senso anti-digitale non è rivestita di connotazioni distopiche come, ad esempio, nella serie tv Alice in Borderland, in cui la metropoli giapponese appare devastata e imbarbarita.

La lentezza e la ripetizione su cui insistono le immagini del film intendono quindi costruire una dimensione più umana, ‘detecnicizzata’ e ‘desmartificata’, in cui anche il tempo assume un carattere più lento e legato ad un’esistenza da riempire di significato minuto per minuto. Alla giovane nipote Niko, che si reca a fargli visita, Hirayama dirà infatti che “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta”, a ribadire la necessità di trasformare ogni attimo in un irripetibile frammento di esistenza. Il personaggio si muove nello spazio urbano per creare – sembra – una dimensione di vita più autentica per sé stesso e per chi gli sta intorno, ricercando un contatto più autentico anche con la vegetazione che ancora riesce a sopravvivere nel magma di cemento della metropoli, non decostruita in inconsistenti immagini digitali, ma consegnata alla memoria in un tenue e cartaceo bianco e nero. Il movimento del personaggio appare perciò – ma questa proposta è solo una delle possibili chiavi di lettura del film – come una strenua lotta di sopravvivenza contro la smart city contemporanea.


  1. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2014, p. 28. 

  2. Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989 e Id., L’immagine-movimento, trad. it. Ubulibri, Milano, 1984. 

  3. Cfr. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando Editore, Roma, 2009, p. 114. 

  4. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, cit., p. 10. 

  5. R. Barthes, Semiologia e urbanistica, in L’avventura semiologica, a cura di C. M. Cederna, trad. it. Einaudi, Torino, 1991, p. 265. 

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Il reale della/nella voce https://www.carmillaonline.com/2024/01/22/il-reale-della-nella-voce-nel-cinema-documentario/ Mon, 22 Jan 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80597 di Gioacchino Toni

Storicamente gli studi sull’universo audiovisivo si sono concentrati soprattutto sull’ambito visivo trascurando il sonoro e, in particolare, la voce. Due recenti volumi, di altrettante studiose, hanno affrontato meticolosamente, da diverse angolature e focalizzazioni, la questione della voce: Alma Mileto, La voce del reale. Il rapporto voce-immagine nel cinema documentario (Meltemi, 2023) e Annalisa Pellino, La voce in transizione. Cinema, arte contemporanea e cultura fonovisuale (Mimesis 2023).

La complessità del rapporto tra voce e immagine nella storia del cinema documentario viene indagata in profondità dal corposo volume La voce del reale di Alma Mileto. Ad essere passate in rassegna [...]]]> di Gioacchino Toni

Storicamente gli studi sull’universo audiovisivo si sono concentrati soprattutto sull’ambito visivo trascurando il sonoro e, in particolare, la voce. Due recenti volumi, di altrettante studiose, hanno affrontato meticolosamente, da diverse angolature e focalizzazioni, la questione della voce: Alma Mileto, La voce del reale. Il rapporto voce-immagine nel cinema documentario (Meltemi, 2023) e Annalisa Pellino, La voce in transizione. Cinema, arte contemporanea e cultura fonovisuale (Mimesis 2023).

La complessità del rapporto tra voce e immagine nella storia del cinema documentario viene indagata in profondità dal corposo volume La voce del reale di Alma Mileto. Ad essere passate in rassegna dalla studiosa sono le modalità con cui è stata utilizzata la voce nelle opere a carattere documentario a partire dall’avvento del parlato fino ai giorni nostri; dall’uso della voce fuoricampo nelle modalità didascaliche dei reportage e delle opere naturalistiche, alle retoriche dei cinegiornali di regime, fino alle sperimentazioni più liriche o dialogiche.

Mileto opera una decostruzione dell’idea tradizionale di voce documentaria convinta che l’elemento vocale applicato al cosiddetto “cinema del reale” «costituisca uno dei terreni di maggior sperimentazione del complesso rapporto tra piano dell’immagine e piano del linguaggio», come hanno dimostrato, tra gli altri, Jean-Luc Godard, Chris Marker, Alain Resnais, Jean Rouch, Agnès Varda, Aleksandr Nikolaevič Sokurov, Werner Herzog, Pier Paolo Pasolini, Cecilia Mangini e Vittorio De Seta.

Focalizzandosi soprattutto sul documentario italiano, il volume di Mileto, prima di affrontare le produzioni del nuovo millennio di autori come Pietro Marcello, Alina Marazzi, Michelangelo Frammartino, Alessandro Comodin, Agostino Ferrente e Stefano Savona, ricostruisce le tappe principali della produzione documentaristica nazionale a partire dall’immediato secondo dopoguerra, quando a incentivare la produzione documentaria concorse la cosiddetta “Formula 10” che destinava una percentuale degli incassi ai filmati di dieci minuti, quanti consentiti da una singola bobina di pellicola, proiettati prima del film in sala. Una produzione che formalmente non riuscì a distinguersi granché dai cinegiornali di regime del periodo precedente: la voice over manteneva infatti l’aura di potere propria dei filmati di propaganda soffermandosi sugli aspetti più superficiali delle rappresentazioni.

A cavallo tra la fine degli anni Trenta e l’inizio del decennio successivo sarebbero arrivate le prime sperimentazioni di un uso della voce più emotivo, funzionante come “sovrastruttura fittizia” rispetto al materiale originario, grazie soprattutto ai celebri documentari d’arte di Luciano Emmer.

Poi fu la volta del suono in presa diretta sperimentato sul finire degli anni Quaranta da Michelangelo Antonioni, successivamente sviluppato nella seconda metà del decennio successivo da Vittorio De Seta nel suo intento di togliere significato semantico alle voci e ai suoni d’ambiente registrati autonomamente rispetto alle immagini.

Sulle orme degli studi di Ernesto De Martino si è poi sviluppato un filone di documentari etnografici che annovera tra le sue opere più significative Stendalì (1960) di Cecilia Mangini e Lino Del Fra, in cui i due esplorano «la forma musicale del canto funebre nei paesi salentini di lingua grica» affidando a Pier Paolo Pasolini la stesura di un testo di commento in forma di poema dal tono epico-mitologico declamato fuori campo dall’attrice Lilla Brignone. Si tratta di una modalità ripresa da Gianfranco Mingozzi in La taranta (1962), con commento di Salvatore Quasimodo e, ancora, nel successivo Li mali mestieri (1963), ricorrendo al poeta Ignazio Buttitta.

Circa l’uso della voce nell’universo audiovisivo un ruolo di primo piano spetta a Pier Paolo Pasolini tanto a livello teorico che di sperimentazione pratica.

Se l’esperienza poetica con il dialetto friulano aveva significato per il Pasolini-scrittore un regresso alla condizione materica della parola, la stessa nostalgia di una maggiore carnalità del linguaggio (più vicino alla sua manifestazione empirica che alla sua dimensione semantica) è alla base di quello che il regista definisce un “cinema di poesia”. Il cinema, fatto con i pezzi del mondo reale e fondato sulla pura mimesis praxeos (imitazione dell’azione) aristotelica, rappresenterebbe cioè la fase massima di “regresso lungo i gradi dell’essere” capace di affondare nella dimensione prelogica (usando un termine vygotskijano) o sensuosa (usando un termine ejzenštejniano) del pensiero. Se il cinema riproduce la realtà e quest’ultima è ciò che viene prima del linguaggio, la lingua del cinema rappresenta il primo momento scritto della realtà.

Come il discorso orale si muove su un terreno meno strutturato di quello della lingua scritta, altrettanto la realtà «deve condizionare la forma cinematografica a muoversi in una direzione più vicina all’oralità che alla scrittura, capace di “verbalizzare” il “non verbale” del mondo rievocandolo nella sua fisicità».

È dunque nella poesia che Pasolini individua la forma verbale che si colloca tra la forma orale e quella scritta del linguaggio. La forma poetica, pur nel suo distacco da una realtà che si limita ad evocare, «produce, nel suo “ineliminabile contrasto tra senso e suono”, valore fonico e valore semantico della parola, una totale liberazione dalla convenzione linguistica e dunque, paradossalmente, una rinnovata forma di azione – a sé stante, costruita su canoni strutturali evidenti, eppure in grado di riattivare una dinamica dei sentimenti che riesce a corrispondere a quella della vita reale che racconta».

Alla luce presenza fisica della voce, legata al suo statuto anche pre-verbale, Mileto elabora il concetto di oromedialità, a partire dal quale indaga «le due opposte tendenze che attraversano la “voce del reale” nel nostro presente: da una parte, essa appare compromessa con il ricco impasto mediale delle narrazioni in cui è coinvolta; dall’altra, sembra sempre più recuperare un carattere di “carnalità” nella sua esposizione orale, svelando l’instabilità emotiva e/o materiale della sua performance».

A partire da quel territorio di confine incerto tra cinema e arte contemporanea, si muove invece Annalisa Pellino con il suo La voce in transizione che si propone come studio sul cinema in quanto medium fonovisuale e sulla voce come strumento carnale, pensando «l’evento filmico e il cinema come una mise-en-scène di corpi, concentrandosi sulla voce come estensione del corpo e corpo che risuona, non mero medium invisibile della parola». La voce viene dunque considerata «nella sua materialità, come coscienza incarnata o pensiero incorporato» al fine di «proporre una ricomposizione, un riequilibrio tra l’ambito del semantico e quello del vocalico, restituendo alla parola la sua musicalità e riconoscendo alla voce il suo valore euristico».

La voce viene indagata come oggetto tecno-culturale e istanza performativa, gesto estetico e politico al centro dei processi di soggettivazione e di (dis)identificazione che hanno luogo sullo schermo o a partire da esso. Dopo essersi soffermata sull’intrinseca materialità della voce al cinema, materialità che riguarda tanto il corpo quanto le sue protesi, i dispositivi e gli ambienti mediali, la studiosa individua spazi e momenti in cui con maggiore evidenza si manifestano gli spostamenti della phoné dentro e fuori dal testo e dal dispositivo filmico, esplorando poi gli usi estetici e politici della voce nelle pratiche artistiche basate sull’immagine in movimento.

Ampliando il discorso dalla voce al sonoro, restando agli studi recenti, in alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017) [su Carmilla], pensando alla percezione come ad un’esperienza sinestetica, propone una riflessione sul cinema come esperienza audiotattile indagando la reciproca relazione tra sonoro e visivo nell’esperienza cinematografica.

 

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In attesa di un altro mondo: tre film sulla fine del sogno americano https://www.carmillaonline.com/2024/01/17/in-attesa-di-un-altro-mondo-tre-film-sulla-fine-del-sogno-americano/ Wed, 17 Jan 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80746 di Sandro Moiso

Ha avuto inizio a Venezia, il 9 gennaio di quest’anno, una rassegna cinematografica “itinerante” di tre film e documentari di tre registi italiani under 40 che hanno vissuto parte della propria vita negli Stati Uniti e che hanno deciso di raccontarne aspetti sociali, ambientali e politici molto al di fuori dell’immagine che troppo spesso viene proiettata dai media di ciò che un tempo era definito come American Way of Life.

La rassegna, che proseguirà in altre città italiane (Bassano del Grappa, Brescia, Roma e Genova) fino al 15 marzo 2024, comprende: Stonebreakers (Italia 2022, 70 minuti) di [...]]]> di Sandro Moiso

Ha avuto inizio a Venezia, il 9 gennaio di quest’anno, una rassegna cinematografica “itinerante” di tre film e documentari di tre registi italiani under 40 che hanno vissuto parte della propria vita negli Stati Uniti e che hanno deciso di raccontarne aspetti sociali, ambientali e politici molto al di fuori dell’immagine che troppo spesso viene proiettata dai media di ciò che un tempo era definito come American Way of Life.

La rassegna, che proseguirà in altre città italiane (Bassano del Grappa, Brescia, Roma e Genova) fino al 15 marzo 2024, comprende: Stonebreakers (Italia 2022, 70 minuti) di Valerio Ciriaci, West of Babylonia (Italia – USA 2020, 82 minuti) di Emanuele Mengotti e Last Stop Before Chocolate Mountain ( Italia 2022, 90 minuti) di Susanna Della Sala.

Il titolo della medesima rassegna è già per sé indicativo del contenuto dei tre pregevoli film presentati: Rovine d’America. E, in effetti, anche se si occupano di soggetti, località, problematiche e, dunque, storie spesso molto diverse tra di loro ciò che li accomuna è proprio il discorso su una civiltà giunta al suo tramonto. Una società che è stata modello e guida per il mondo occidentale almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale e che oggi vede i suoi miti, i suoi presupposti politico-economici e l’immaginario che ne è derivato volgere rapidamente al tramonto.

Una sorta di Sunset Boulevard su cui si muovono emarginati, ribelli, sognatori, outsiders, attivisti, hippie, fuorilegge, irregolari, persone senza fissa dimora che, per mille ragioni diverse, rappresentano allo stesso tempo il futuro e il passato della decadenza di un mondo che un tempo si poneva al centro dell’economia, della politica, dell’immaginario e della cultura mondiale e che oggi cerca ancora di rinnovare i suoi fasti in un proseguio di guerre senza fine e senza speranza di uscita o di vittoria.

I tre film non parlano di guerra o guerre, ma almeno nel caso dei film di Emanuele Mengotti e Susanna Della Sala lo scenario bellico fa da contorno ai luoghi e alle vicende narrate, visto che in prossimità sia di Slab City che di Bombay Beach esistono ancora poligoni di tiro e di addestramento per l’esercito e l’aviazione degli Stati Uniti, mentre in quello di Valerio Ciriaci si fanno più che evidenti le linee di faglia di una guerra civile americana che, più che una proiezione dell’immaginario “politico” di Donald Trump e dei suoi sostenitori come vorrebbe la narrazione liberal europea, si profila come una concreta realtà possibile proprio a causa delle divisioni sempre più profonde e radicalizzate che attraversano la società di quella che un tempo, e soltanto in funzione mitopoietica, poteva essere rappresentata come Land of the Free.

Le tre opere cinematografiche, estremamente lucide e personali, mostrano un’America spezzata, alle prese con la crisi di un mito che ha affascinato milioni di persone in tutto il mondo, mentre contemporaneamente è in atto un conflitto culturale che coinvolge i suoi abitanti ed è oggetto di dibattito anche fuori dai suoi confini. La rassegna è nata dunque dall’esigenza di creare «un momento di discussione a proposito di una terra in trasformazione, dove dalle rovine di un passato spesso idealizzato sentiamo oggi levarsi un potente grido di liberazione, che ci dice che quel modello non è più tale. Fare i conti con il passato non significa congelarlo, ma affrontarlo e riaprire la discussione, per attualizzarlo», come affermano i tre registi, che in momenti diversi saranno presenti alle proiezioni proprio per confrontarsi con il pubblico, nei mesi in cui il dibattito intorno alle prossime elezioni presidenziali americane inizierà a farsi più intenso e acceso.

West of Babylonia (qui il trailer) è il primo film di una trilogia dedicata all’Ovest degli Stati Uniti. Un caleidoscopio di personaggi e storie che vivono ed abitano a Slab City, in California, dove si vive senza acqua corrente e senza elettricità. Le strade sono sterrate e la popolazione (gli “Slabber”) oscilla tra le 400 persone d’estate e le 4000 d’inverno. Gli Slabber sono giovani e anziani, hippy e neonazisti, fuorilegge, artisti. Tutti accomunati dalla voglia di essere liberi e di non dover rispondere alle regole della società americana. Tutto ciò che sta al di fuori di Slab City per loro è “Babylonia”.

Slab City nasce sul terreno di una base militare attiva durante la Seconda Guerra Mondiale. Nei primi anni cinquanta le persone iniziarono a dimorarvi, mentre negli anni ottanta si ebbe un vero e proprio boom di residenti, in un paesaggio che ricorda le ambientazioni dei film western e, allo stesso tempo, un mondo apocalittico simile a quello prospettato da Mad Max. Il deserto di Sonora, uno dei più aspri e inospitali del pianeta1, circonda con la sua stupefacente bellezza, la vita di coloro che rifuggendo il mondo hanno creato per sé un altro modo di esistere. Prossimo, però, più a quello che potremmo immaginare descritto nelle cronache di un dopo-bomba più che all’evoluzione in direzione di una società più giusta o utopica.
Il film, perfetto nelle immagini ma con qualche difetto per quanto riguarda i sottotitoli italiani2, è stato presentato in concorso ufficiale al Biografilm di Bologna nel 2020 e ha fatto parte della media library di Vision du Réel.

Last Stop Before Chocolate Mountain (qui il trailer) è nato da un’esperienza di vita personale e il suo percorso creativo è stato un lungo processo durato quattro anni. Come afferma la regista: « rappresenta per me un luogo universale e metaforico in cui ci mettiamo a confronto con noi stessi, risvegliando il nostro impulso creativo, nel miraggio di una liberazione individuale. Il film racchiude l’anelito collettivo, disperato e gioioso al tempo stesso, verso l’accettazione e il senso di appartenenza.»

Bombay Beach è un luogo a sud della California, 350 chilometri a sud-est di Los Angeles, conosciuto per il suo lago tossico, il Salton Sea. Meta turistica tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta di artisti quali Frank Sinatra e i Beach Boys, adesso città in gran parte abbandonata del declino ambientale ed economico.

Il lago Salton Sea è poco profondo, senza sbocco sul mare e altamente salino, situato all’estremità meridionale della California. Nel corso di milioni di anni, il fiume Colorado aveva creato in quel territorio un deposito alluvionato, creando fertili terreni agricoli e spostando costantemente il suo corso principale e il suo delta. Il fiume scorreva alternativamente nella valle o deviava intorno ad essa, creando rispettivamente un lago salato o un bacino desertico asciutto. Il livello del lago è dipeso quindi per secoli dai flussi del fiume e dall’equilibrio tra afflusso e perdita per evaporazione.

L’attuale lago si è formato da un afflusso di acqua dal fiume Colorado nel 1905. A partire dal 1900, infatti, un canale di irrigazione è stato scavato dal fiume Colorado al vecchio canale del fiume Alamo per fornire acqua alla Imperial Valley per l’agricoltura. Le paratoie e i canali hanno subito un accumulo di limo, motivo per cui furono effettuati una serie di tagli sulla riva del fiume Colorado per aumentare ulteriormente il flusso d’acqua. Però, l’acqua delle inondazioni primaverili ha superato gli argini del canale, deviando una parte del flusso del fiume nel bacino di Salton per due anni prima che le riparazioni fossero completate. L’acqua nel letto del lago precedentemente asciutto ha creato il lago moderno, che è di circa 24 per 56 km nel suo punto più largo e più lungo.

All’inizio del XX secolo il lago si sarebbe prosciugato, se non fosse stato che gli agricoltori usavano grandi quantità di acqua del fiume Colorado per l’irrigazione e lasciavano che l’eccesso fluisse nel lago. Negli anni ’50 e ’60, l’area divenne così una meta turistica, in cui crebbero hotel e case vacanza, di cui alcuni motivi di attrazione erano costituiti dal birdwatching e dalla pesca.

Negli anni ’70, a causa del cambiamento dei sistemi di irrigazione, gli scienziati lanciarono un allarme perché il lago avrebbe continuato a ridursi e diventare più inospitale per la fauna selvatica. Mentre, negli anni ’80, la contaminazione da deflusso agricolo ha favorito l’inquinamento e la diffusione di epidemie perniciose tra la fauna selvatica. Si sono così verificate massicce morie di uccelli, soprattutto dopo la scomparsa di diverse specie di pesci, da cui dipendevano, dovute all’enorme aumento della salinità dell’acqua. Cosa che spesso ha contribuito a rovinare il litorale del lago a causa dell’accumulo delle loro carcasse e a rovinare, riducendolo sempre di più, il turismo.

Susanna Della Sala documenta ed esplora le cause che hanno portato al tracollo di questa città fantasma, attraverso le voci di alcuni outsider del posto. Un’anziana e coraggiosa donna, Sonia, che manda avanti una delle poche attività di ristoro rimaste aperte; uno dei suoi figli, Adam, un rapinatore di banche in pensione, un artista in fuga da Los Angeles e il figlio squattrinato di un principe italiano.

In tal modo la regista scopre un universo dove tutto ciò che è “non allineato” diventa una forma di espressione di sé stessi, un mezzo per poter vivere insieme in un territorio privo di leggi. Così chi ha deciso di restare dando vita ad una piccola comunità dove l’arte, non solo guarisce gli animi, ma rende Bombay Beach un luogo magico, finisce con l’indicare una via per una rinascita. Individuale e collettiva.

La creazione, da parte di questa eccentrica comunità, di un festival artistico annuale, la Biennale di Bombay Beach, ha in tal modo iniziato ad attirare nuovamente dei visitatori, artisti, intellettuali, organizzatori di eventi e appassionati che vengono attirati dalla vitalità del posto.

Last Stop Before Chocolate Montain, un film dalla fotografia, sceneggiatura e colonna sonora praticamente perfette, vincitore di tre premi all’ultimo Festival dei Popoli di Firenze, non vuole essere una risposta alla crisi generale attuale, ma una dimostrazione che anche dalle rovine di ciò che si è stati si può ripartire.

Stonebreakers (qui il trailer) racconta, invece, cosa è accaduto negli Stati Uniti nel 2020, durante la rivolta Black Lives Matter a seguito dell’omicidio di George Floyd e le elezioni presidenziali, quando ha avuto inizio una vera e propria battaglia attorno ai monumenti storici. Un conflitto culturale e politico che ha iniziato a mettere in discussione il racconto della Storia d’America, insieme alla sua celebrazione attraverso le statue di Cristoforo Colombo, dei confederati e dei padri fondatori.

Il film ha partecipato a festival internazionali e nel 2022 ha ottenuto diversi premi: il Premio per la distribuzione Imperdibili, la menzione della Giuria e il Premio del pubblico Mymovies al Festival dei Popoli, il Premio per il Miglior montaggio e per la Migliore produzione di film documentario all’History Film Fest, infine il Premio Suono e Territori al Festival Mente Locale – Visioni sul Territorio.

Tra i tre è forse quello che maggiormente indica una strada collettiva per il superamento di una condizione sociale che non è soltanto quella degli afro-americani, dei nativi e dei latinos privati di risorse e diritti, ma anche di coloro che, pur sentendosi convintamente e intimamente “americani”, come ad esempio gli italo-americani così legati all’immagine di Cristoforo Colombo, dimenticano l’espropriazione della memoria operato a danno della loro comunità e di tutti coloro che in passato hanno contribuito allo sviluppo della nazione e dell’economia americane, senza però poterne cogliere i frutti più ricchi e importanti, sempre riservati alla classe dominante e agli imprenditori, banchieri e finanzieri, ieri come oggi autentici robber barons del capitalismo americano.

Mentre nei primi due film si assiste, lo si voglia o meno, al declino di una classe media bianca impoverita e marginalizzata, sostanzialmente con poche speranze di superare l’impasse in cui si è venuta a trovare, tra delusioni, sconfitte e crisi degli ultimi decenni, in quest’ultimo si assiste, attraverso le lotte diffusesi su tutto il territorio degli Stati Uniti, da Richmond a Minneapolis, dall’Arizona al South Dakota, passando per la Virginia, Washington, New York, Philadelphia, il Massachusetts e tanti altri luoghi ancora, ad una sorta di rinascita collettiva orbitante intorno a due fuochi precisi: quello delle lotte dei popoli espropriati di terre, diritti e identità reale, in nome di un melting pot mai realmente paritario, e quello per il superamento di una concezione degli Stati Uniti, del loro ruolo e del loro divenire, che deve fare i conti con una Storia che, sia da parte repubblicana che democratica, non ha mai smesso di presentare evidenti ingiustizie travestite da libertà e uguaglianza e una narrazione quasi del tutto “sbiancata” della formazione dello Stato e del potere.

Una storia in cui il militarismo svolge, come nelle parate del Giorno del ringraziamento, una funzione centrale, ma ormai indifendibile. Esattamente come la mostruosa presenza dei volti dei presidenti americani scolpiti principalmente, tra il 1927 e il 1941 durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, il presidente celebre per la collaborazione interclassista iniziatasi con il New Deal, sulla cima del Monte Rushmore, posto al centro delle Black Hills e dei territori sacri per le tribù native dell’Ovest.

Alte 18 metri ciascuna, quelle sculture rappresentano i presidenti George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826) Theodore Roosevelt (1858-1919) e Abraham Lincoln (1809-1865), scelti in quest’ordine perché rappresenterebbero rispettivamente la nascita, la crescita, lo sviluppo e la stabilità della nazione, espropriando completamente la memoria di coloro che erano un tempo i custodi di quel territorio, i Lakota Sioux, per i quali quel gruppo montuoso portava il nome di Tȟuŋkášila Šákpe ovvero Six Grandfathers (Sei Nonni).

Un ultimo appunto prima di finire: l’attualità dell’ultimo film è data anche dai drammatici eventi che si stanno svolgendo in Medio Oriente e, in particolare, a Gaza e nei territori palestinesi. E’ infatti impossibile, sentendo le storie di espropriazione territoriale, culturale e sociale narrate nel film di Valerio Ciriaci, non riandare immediatamente con il pensiero alla situazione palestinese, anch’essa non unica ma comunque estremamente paradigmatica di tutto ciò che si intende per imperialismo, colonialismo e genocidio.

Tre film, tre crisi convergenti (socio-economica, ambientale e politica), un unico grande quadro di disfatta del mito americano e dell’Occidente, così come si è voluto narrare fino ad ora.
Tutti e tre disponibili anche in streaming su Zalab View, la piattaforma on line creata da ZaLab, una delle più importanti realtà produttive e distributive nell’ambito del cinema del reale. Mentre per chi volesse organizzare altre proiezioni pubbliche è necessario scrivere un’email all’indirizzo: rovinedamerica@gmail.com


  1. Si veda W. Atkins, Tre grandi fuochi. Il deserto di Sonora, USA, in W. Atkins, Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 261- 302.  

  2. Perché, ad esempio, doggy è stato tradotto con doge, là dove invece significa, senza ombra di dubbio, cagnolino o cucciolo?  

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Cine-capitale e rifiuto del lavoro delle immagini https://www.carmillaonline.com/2024/01/16/cine-capitale-e-rifiuto-del-lavoro-delle-immagini/ Tue, 16 Jan 2024 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80569 di Gioacchino Toni

Jun Fujita Hirose, Il cine-capitale. Il Cinema di Gilles Deleuze e il divenire rivoluzionario delle immagini, Prefazione di Ubaldo Fadini, Ombre corte, Verona 2020, pp. 129, € 13,00

Il denaro è il rovescio di tutte le immagini che il cinema mostra e monta al dritto, cosicché i film sul denaro sono già, benché implicitamente, dei film nel film o sul film. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo.

Il volume di Jun Fujita Hirose ruota attorno alla possibilità delle immagini di sottrarsi alla catena di montaggio a cui sono destinate dall’industria cinematografica sin dai suoi albori.

Riprendendo il convincimento di Gilles Deleuze [...]]]> di Gioacchino Toni

Jun Fujita Hirose, Il cine-capitale. Il Cinema di Gilles Deleuze e il divenire rivoluzionario delle immagini, Prefazione di Ubaldo Fadini, Ombre corte, Verona 2020, pp. 129, € 13,00

Il denaro è il rovescio di tutte le immagini che il cinema mostra e monta al dritto, cosicché i film sul denaro sono già, benché implicitamente, dei film nel film o sul film. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo.

Il volume di Jun Fujita Hirose ruota attorno alla possibilità delle immagini di sottrarsi alla catena di montaggio a cui sono destinate dall’industria cinematografica sin dai suoi albori.

Riprendendo il convincimento di Gilles Deleuze (L’immagine-tempo) che vede nel cinema una macchina capace di produrre lo straordinario a partire dall’ordinario, Hirose indica in questo straordinario il plusvalore ottenuto mettendo al lavoro le immagini ordinarie. È nell’estrazione di plusvalore dal lavoro collettivo delle immagini ordinarie che, secondo lo studioso giapponese, si palesa il legame più stretto tra cinema e capitalismo (cine-capitale)

Il pluslavoro cinematografico si determina nello iato, non più tra il lavoro necessario e il lavoro giornaliero, ma tra “l’attuale” e “il virtuale”, vale a dire tra l’atto di lavoro effettivamente svolto e la forza lavoro impiegata come pura potenzialità – “l’insieme delle facoltà fisiche e intellettuali che esistono nel corpo di un uomo nella sua personalità vivente”, secondo Marx – di ogni immagine-lavoratore. Quando il cinema compera le immagini, paga solo per il loro aspetto attuale, mentre sussume in aggiunta il loro aspetto virtuale al processo di produzione.

Hirose prende in apertura di libro come caso esemplificativo il film Gli uccelli (The Bird, 1963) di Alfred Hitchcock in cui il regista anziché ricorrere a rapaci decide di utilizzare gabbiani, passeri e corvi che si producono in una “mobilitazione collettiva” priva di guida. Allo stesso modo, suggerisce lo studioso giappopnese, il cinema impone alle immagini di perdere le proprie specificità per farsi massa impiegata nella “produzione collettiva”.

In Gli uccelli, i gabbiani o i passeri vengono pagati solo per fare il gabbiano o fare il passero durante le riprese. Non sono pagati un solo centesimo per la loro capacità virtuale di diventare “uccelli hitchcockiani” nel loro lavoro collettivo. Gli uccelli sono pagati solo per le loro azioni ordinarie, sebbene il cinema sovraconsumi la straordinaria potenzialità che giace sotto le loro “piume”, rendendoli “hitchcockiani” a loro insaputa. In questo divario aperto tra atto e potenziale, il cinema fa pluslavorare e sfrutta le immagini ordinarie.

Pur ricevendo il suo salario solo come “individuo”, l’immagine cinematografica si mette al lavoro come “più che individuo”. «È precisamente questo “più”, la differenza non retribuita tra “individuo” e “soggetto”, che costituisce la fonte o il caput della produzione cine-capitalista del plusvalore straordinario» (p. 12). Nelle immagini è dunque possibile cogliere la rappresentazione del lavoro vivo e del soggetto moderno nella sua individualità e nella sua socialità.

Evidentemente il cinema non può essere pensato come una semplice combinazione di immagini; a queste ultime viene richiesta una prestazione cooperante. La catena di montaggio cinematografica stabilisce una relazione transindividuale tra le immagini-lavoratori per far entrare in reciproca risonanza il loro “plus” pre-individuale. Spetta al montaggio, mezzo cinematografico di produzione per eccellenza, «mette in rapporto differenziale le immagini ordinarie come “soggetti” per far loro produrre il surplus straordinario».

Hollywood riesce ad essere una potente “fabbrica dei sogni” soltanto celando allo schermo il vero dietro le quinte, cioè lo scambio tra denaro e immagine. Quando ciò accade, il cinema svela «la propria natura capitalista, che consiste nel fare pluslavorare le immagini per estrarre plusvalore dai sogni o dagli incubi. Ecco perché i film sul denaro sono necessariamente film nel film o sul film» (p. 18), come aveva argomentato Deleuze.

I film sul denaro fanno la loro comparsa nella storia del cinema quando la fabbrica dei sogni si trova dover far fronte a delle difficoltà economiche, dovute principalmente a una “crisi” della produzione cine-capitalista. Una automazione sempre più sofisticata e standardizzata dei mezzi di produzione cinematografici (catene di montaggio) si traduce in una sovraproduzione di merci filmiche (troppi sogni, troppe storie), che porta il cine-capitale al limite della propria autovalorizzazione, vale a dire, al punto estremo della “tendenziale diminuzione del saggio di profitto”. Prodotti in eccesso, i sogni e le storie diventano ormai poco eccezionali, poco singolari, poco straordinari. Non sono più sogni ma cliché.

In un’epoca in cui si è ormai giocata persino la carta della valorizzazione dei cliché, Hirose tenta di individuare vie di fuga per le immagini che permettano loro di liberarsi dallo sfruttamento a cui sono state sottoposte dalla macchina cine-capitalista. Proporsi come un’immagine puramente ottica o sonora – cioè «un’immagine ordinaria in disoccupazione professionale, che si rifiuta di lavorare e che si mette a vivere in modo autonomo» – potrebbe rappresentare un’importante modalità di emancipazione dell’immagine. Non resta che compiere una scelta di campo, sostiene Hirose: o ci si schiera con il cine-capitale o con le immagini che insorgono contro di esso. O si è agenti del primo o si è complici delle immagini che si rifiutano di lavorare per esso.

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La doppia anima del cinema di Soderbergh https://www.carmillaonline.com/2024/01/09/la-doppia-anima-del-cinema-di-soderbergh/ Tue, 09 Jan 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80496 di Gioacchino Toni

Gabriele Fadini, Mosaico Soderbergh. Per un cinema del passaggio, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 128. € 12,00

Il dovere di un cineasta rivoluzionario è fare la rivoluzione nel cinema. La realtà del cinema non è solo quella che esso riflette. La realtà fondamentale del cinema è il cinema stesso ma, mentre la realtà riflessa è evidente, il cinema come realtà risulta quasi sempre assente. Garcìa Solanas, La doppia morale del cinema.

Le opere di Steven Soderbergh si rivelano capaci di rivolgersi a una platea molto ampia, grazie all’intrattenimento di qualità offerto dai suoi film, e al contempo di solleticare [...]]]> di Gioacchino Toni

Gabriele Fadini, Mosaico Soderbergh. Per un cinema del passaggio, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 128. € 12,00

Il dovere di un cineasta rivoluzionario è fare la rivoluzione nel cinema. La realtà del cinema non è solo quella che esso riflette. La realtà fondamentale del cinema è il cinema stesso ma, mentre la realtà riflessa è evidente, il cinema come realtà risulta quasi sempre assente. Garcìa Solanas, La doppia morale del cinema.

Le opere di Steven Soderbergh si rivelano capaci di rivolgersi a una platea molto ampia, grazie all’intrattenimento di qualità offerto dai suoi film, e al contempo di solleticare gli sguardi critici più analitici. Regista, produttore, direttore della fotografia, montatore e sceneggiatore, lo statunitense muove i primi passi nel cinema indipendente per poi sbarcare ad Hollywood manifestando quella che Fadini definisce efficacemente la sua “natura ibrida” che si palesa nella sua propensione a “indipentizzare” Hollywood e, allo stesso tempo, “hollywoodizzare” il cinema indipendente.

Dunque, un cinema dalla doppia anima capace di rivolgersi tanto a chi si lascia più facilmente attrarre dai meccanismi hollywoodiani quanto a chi, invece, va alla ricerca di una «messa in discussione degli aspetti economici, politici, industriali di potere di cui anche proprio quegli apparati hollywoodiani possono trovarsi a fare parte» (p. 10). Pur ricorrendo a budget elevatissimi, a star di primo piano e non mancando di cooperare con le grandi piattaforme dello streaming, Soderbergh non rinuncia a portare avanti la sua originale critica al capitalismo, anzi, si può dire che la muove ricorrendo proprio a quanto intende prendere di mira.

Riprendendo gli studi sull’“immagine-personaggio” di Geoff King (New Hollywood Cinema, 2002), estesi a livello del corpo in Soderbergh da parte di Andrew de Waard e R. Colin Tait (The Cinema of Steven Soderbergh, 2013), Fadini si sofferma su come il regista statunitense ami che nei suoi film le star a cui ricorre mettano in discussione il loro status attoriale, come avviene con George Clooney, soprattutto in film come Solaris (2002) – remake dell’omonima opera di Andrej Tarkovskij – e Intrigo a Berlino (The Good German, 2006), e con Meryl Streep in Panama Papers (The Laundromat, 2019), ove secondo lo studioso è possibile «riscontrare l’elemento che è tipico della critica al capitalismo del cinema soderberghiano, ovvero il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti, quando a parlare direttamente in macchina denunciando il sistema non è più il personaggio, sia esso Helena, Ellen o John Doe, ma la stessa Meryl Streep che non rappresenta più nessuno tranne che sé stessa» (p. 27).

Rifacendosi alle riflessioni di Gilles Deleuze (Cinéma 2. L’Image-temps, 1985), Fadini si sofferma sulla saga degli Ocean’s (dal 2001) ove l’“immagine-finzione” palesa all’interno della produzione dello statunitense la sua concretizzazione maggiore nel giocare costantemente tra il vero ed il falso.

In tali film, ove ladri e derubati manifestano un rapporto costitutivo con la visione, è proprio l’“effetto finzione” che permette ai primi di eludere i sistemi di sicurezza posti a protezione di ciò che intendono rubare. Guardando all’opera di Soderbergh ricercandone elementi di critica al capitalismo Fadini si domanda se nel trittico Ocean’s le tecniche sofisticate con cui operano i truffatori riescano davvero a praticare una critica radicale a quel capitalismo di cui è simbolo la città di Las Vegas o se tali gesta non siano altro che «l’ennesima ristrutturazione e riaffermazione del capitalismo stesso» (p. 41). Quanto insomma, per dirla con i «Quaderni rossi», le lotte condotte contro il capitale comportino lo sviluppo di questo ultimo.

Analizzando Schizopolis (1996) è possibile cogliere l’elaborazione da parte di Soderbergh di quella che può essere definita “schizo-immagine”.

Lungo tutto il film, infatti, troviamo costanti inversioni di causa ed effetto nella narrazione dovute al fatto che Soderbergh stesso interpreta non solo due personaggi che sono l’uno il sosia dell’altro ma addirittura alla fine del film un terzo personaggio che parla una lingua differente dai due precedenti. Gli stessi linguaggi parlati si articolano o in un contenuto irrelato rispetto alla forma, o in una forma che non rimanda a nessun contenuto immediatamente riconoscibile per lo spettatore. In Schizopolis Soderbergh elabora temi e tecniche che saranno presenti in tutta la sua successiva filmografia. Ci riferiamo all’alternanza di analessi e prolessi che si caratterizza per il mostrare successioni di eventi da più punti di vista; alla presenza di pastiche tecnici come alternanza di riprese con la camera fissa e la camera a mano e alla presenza di un film che si avvolge attorno alle riprese dello stesso farsi di questo medesimo film (p. 44).

La critica al capitalismo portata avanti dal cinema di Soderbergh viene indagata da Fadini seguendo tre direttrici principali: il rapporto tra corpo e capitale, il capitalismo finanziario e il capitalismo come forma di potere.

Circa il primo aspetto, a essere analizzato dallo studioso è in particolare High Flying Bird (2019), film sul mondo del basket statunitense – nei suoi livelli politico, economico e razziale – incentrato sul blocco dell’avvio della stagione agonistica derivato dal contenzioso tra proprietari delle squadre, networks televisivi e giocatori.  «Si tratta di un dramma sportivo di classe sulla relazione tra il gioco e l’economia, ma in termini potremmo dire marxiani se non proprio marxisti. Il lockout è, infatti, visto dalla parte delle matricole e dalla parte di quei giocatori che non arrivano alla fine del mese di contro alle grandi star del gioco o di chi si approfitta dei più deboli» (p. 58).

La denuncia nei confronti dello “sfruttamento” dei corpi, privati di autonomia e assoggettati alla logica dello spettacolo, è rintracciabile anche nella saga Magic Mike (dal 2012 al 2023).

È certamente corretto affermare, come fatto da alcuni, che Magic Mike sia un film sul plusvalore estratto dai corpi al lavoro, tuttavia dobbiamo ricordare che è l’immaginario il luogo in cui questo plusvalore viene estratto poiché il film è una critica proprio a questo autodeterminarsi dell’immaginario separato dall’incontro con il reale del corpo dell’Altr*. Da questo punto di vista, in tutta la saga Magic Mike i corpi “lavorano” completamente all’interno di un orizzonte immaginativo femminile per chi assiste allo show del gruppo ed il contatto con il reale per loro è dato dal denaro che le spettatrici lanciano sul palco durante i numeri dello spettacolo (p. 64).

La critica al capitalismo condotta da Soderbergh sul versante finanziario si manifesta attorno alla figura del “flusso” declinata in diversi modi. Panama Papers, ad esempio, ruota attorno ai flussi finanziari mostrando come alla smaterializzazione del denaro si affianchi una smaterializzazione dello scontro di classe, tanto che si può parlare di un film sulla “fantasmaticità” dell’intero sistema.

Paradossalmente la critica proposta dal regista è mossa attraverso un film prodotto e diffuso da Netflix, piattaforma simbolo dell’attuale capitalismo globale. La messa in discussione dello status quo viene portata avanti da Soderbergh, più che attraverso un montaggio destrutturante, con «il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti» (p. 71). Difficile dire quanto tale deragliamento permetta davvero alla critica di sottrarsi dall’abilità del sistema spettacolare di riassorbire gli attacchi formali rivolti contro di esso.

Pur declinati in altro modo, i flussi del capitale fanno la loro comparsa anche in Traffic (2000); in questo caso sotto forma di flussi di droga e denaro. “Traffico”, dunque, come flusso,

come qualcosa che non è mai da un punto delimitato ad un altro punto delimitato, ma che si muove nel “tra” più che “dal… al”. Da questo punto di vista, uno dei temi principali del film è il confine come luogo appunto del “tra”. È sul confine che si combatte la guerra per bloccare il traffico di droga. È il confine il luogo degli incroci ove una delle tesi del film è che il Nafta, ovvero l’accordo di libero scambio tra USA e Mexico, sbriciola la già porosa frontiera tra gli stessi USA e Mexico, in modo tale che i corrieri della droga possano fare su e giù tra i due paesi come i semplici corrieri FDX, DHL, UPS etc. Il “traffico” è una fitta rete di relazioni in cui nessuno è pulito (p. 71).

Anche Contagion (2011) è un film sui flussi, in tale caso incentrato sulla relazione tra virus e capitalismo, sull’industria farmaceutica e sul mercato azionario, oltre che sull’accesso classista al vaccino.

Per quanto riguarda la critica al capitalismo come “forma di potere”, sebbene trasversale all’intera opera soderberghiana, questa è secondo Fadini particolarmente evidente nei film Intrigo a Berlino e No Sudden Move (2021), oltre che nelle serie televisive K-Street (2003) e The Knick (2014-2015).

Intrigo a Berlino porta a compimento quanto già si era visto in Delitti e segreti ove Soderbergh era riuscito nell’intento di dipingere una realtà distopica perfettamente ordinata in cui il caos era del tutto represso in una serie di pratiche inutili ed autoreferenziali, in cui la stessa possibilità di ribellarsi veniva negata perché a mancare era quel qualcuno che dirigesse e regnasse sulla distopia (pp. 76-77).

Se Delitti e segreti palesa la rassegnazione dell’individuo al suo ruolo di ingranaggio che concorre a perpetuare il sistema, Intrigo a Berlino manifesta l’impossibilità di redenzione dal proprio passato. Ad essere dichiaratamente un film sul “potere” nelle sue diverse articolazioni è No Sudden Move.

Anche in questo caso, i singoli sono schiacciati all’interno di rapporti di forza che non riescono a soverchiare. La differenza è che, in questo caso, Soderbergh prende di mira la strutturazione del capitale secondo nodi di potere che rimandano a rapporti di oppressione più diretti rispetto al capitalismo attuale o meglio, in cui il capitalismo non è ancora smaterializzato ma è riferibile a persone fisiche che ne detengono il potere (p. 78).

Venendo alle due serie televisive, se K-Street, in un mescolarsi di fiction e personaggi reali, mette in scena il mondo delle lobby, l’incidenza dei gruppi di potere sulla politica statunitense, The Knick, ambientata a inizio Novecento presso l’ospedale newyorkese Knickerbocker – in un intrecciarsi di medicina, psichiatria, psicoanalisi, eugenetica, dipendenze e questioni razziali – presenta un

microcosmo umano di una formidabile epoca di transizione all’interno della quale si muovono personaggi spinti, ognuno a suo modo, da personali ambizioni o demoni interiori, interessi o riscatti. […] L’ambizione e la corruzione, l’audacia e la violenza, la meschinità e l’impudenza sottendono alla narrazione complessa di questo universo concentrato nel Knickerbocker che, andando ben oltre l’epoca in cui è ambientato, universalizza il meccanismo del potere come automatismo atemporale e, tragicamente, umano (p. 80).

Il secondo dei film soderberghiani dedicati a Che Guevara – Che. L’argentino (The Argentine, 2008) e Che. Guerriglia (Guerrilla, 2008) – permette a Fadini di soffermarsi su quella “immagine-rivoluzionaria” che, secondo Jun Fujita Hirose (Il cine-capitale, 2020) per essere tale deve passare attraverso un processo di “divenire-rivoluzionario” delle immagini.

In Che guerriglia, infatti, le immagini iniziano a valere per se stesse e non sono più messe al lavoro della valorizzazione del cine-capitale, proprio nel massimo momento della lotta contro il nemico. Se cioè per Hirose le immagini sono prese in divenire rivoluzionari quando diventano immagini-tempo dirette e in cui ad emergere è una virtualità che si affranca da qualsivoglia forma di rappresentazione per affermarsi come forme ottiche e sonore pure che non rappresentano più niente che non siano se stesse e quindi in definitiva rompono con l’idea stessa di essere delle ripresentazione, per Soderbergh questa virtualità è il farsi sempre più lontano di Ernesto Guevara da se stesso per trasformarsi nel rivoluzionario puro che non attualizza la propria virtualità in un’unica rivoluzione ma che si ri-mette sempre in gioco in infinite rivoluzioni (p. 82).

Hirose ritiene che «l’espropriazione dei mezzi di produzione dei cine-capitalisti e l’inversione dei suoi rapporti di forza» si dia attraverso un montaggio di concatenamenti immaginali alternativi «in cui il tempo prevale sul movimento nel senso della riappropriazione del tempo proprio di ogni forma di rifiuto del lavoro». Se l’immagine-tempo deve potersi affermare come tale, è il nomadismo rapsodico del Che nella selva boliviana a permettere l’affermazione della sua lotta «come un evento, ovvero come qualcosa che non esaurendosi mai nell’attualità resta come una riserva che resiste alle ristrutturazioni capitalistiche» (p. 83).

Un capitolo di Mosaico Soderbergh è dedicato allo sperimentalismo che caratterizza la produzione dello statunitense, uno sperimentalismo «che può essere opera solo del cineasta poiché, essendo il cinema un tipo di arte votata al business, il compito del cineasta è solo quello di prendere su di sé per propria iniziativa quei pericoli che nessuno gli concederebbe tanto facilmente o anche più semplicemente lo incoraggerebbe a prendere» (p. 92). Uno sperimentalismo, dunque, non fine a sé stesso ma dal significato prettamente politico.

Il ricorso al digitale, nota Fadini, non fa che accentuare la dimensione “schizofrenica” del cinema di Soderbergh che finisce con l’intrecciarsi al tema del simulacro «se la realtà è solo copia di una copia, l’espressione di una molteplicità di flussi, l’atto creativo che pertiene all’uso del digitale non solo permette di accedere a questa realtà ma, per altro verso, concorre a determinarla a tal punto che persino lo spettatore può essere coinvolto nella ricerca di un senso da dare a questa linea schizofrenica» (p. 112).

Il volume di Fadini mostra insomma come l’opera di Soderbergh, nel suo proporsi all’insegna dell’ibridazione – tra «verità e finzione, autorialità e appartenenza allo star system, velocità e accuratezza nelle riprese e nel montaggio, critica al capitalismo ed appartenenza alle sue strutture realizzative, fiction e realismo, originalità e remake» (p. 114), e tanto altro ancora – possa essere efficacemente paragonata a un grande mosaico composto da tessere distinte e al tempo stesso collaboranti nel definire un’immagine unitaria dotata di coerenza, una coerenza costruita sulle tante contraddizioni che, d’altra parte, caratterizzano la sfuggente complessa realtà contemporanea.

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