Zapatisti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 15 Jun 2025 20:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Orologi e cacciaviti. Tempo, praxis, storia. https://www.carmillaonline.com/2020/09/08/orologi-e-cacciaviti-tempo-praxis-storia/ Tue, 08 Sep 2020 20:50:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62492 di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

[...]]]>
di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

Come nei libri precedenti di Barbara Balzerani, anche Lettera a mio padre, edito da DeriveApprodi, è una discesa e un’immersione nelle crepe della Storia, tra gli scarti della storia ufficiale senza i quali però nessuna storia può essere raccontata se non trasfigurandola, e nessuna via di fuga collettiva da un sistema sociale basato su profitto, sfruttamento e miseria, pensata. È questa la scrittura e la concezione della Storia che Barbara propone nei suoi libri, messa a punto con sempre più affinata maestria nel suo ormai ultraventennale percorso letterario.

Una prospettiva che permette di cogliere le dissonanze, i punti di frattura che smentiscono la presunta linearità del tempo e dei fatti. Un viaggio che posa lo sguardo sugli “invisibili al potere”, interni alle “dissonanze della vita collettiva”, compagni di viaggio che Barbara ha incontrato sulle strade percorse in questi anni di difficile resistenza, fuori dal terreno viscido dell’indistinto che tutto fagocita, laddove è possibile lo squarcio di luce che smaschera i meccanismi pervasivi di un sistema di sfruttamento stritolante, dove è possibile la rottura imprevista, l’incontrollabilità al potere. Ma anche lontano dai sentieri ormai infertili di quel Novecento che ha attraversato e che l’ha attraversata nelle viscere. E da questo viaggio torna restituendoci un quadro a più colori, a più voci e accenti, tessuto in trame di inconciliabilità al capitale che assumono un volto che si fa sempre più riconoscibile.

Al pari dei libri precedenti, anche Lettera a mio padre è scrittura che si fa filosofia, storia e politica, un ulteriore passo in quell’opera di ricerca e ricomposizione di un vocabolario comune, di un pensiero forte capaci di ridisegnare un orizzonte rivoluzionario contro la menzogna dell’unico mondo possibile. E che è il filo conduttore che attraversa tutta la scrittura di Barbara; un patrimonio partigiano di cui abbiamo più che mai bisogno per orientarci.

Una lettera al padre per raccontargli come corre il mondo da quando lui non c’è più, per dirgli che a differenza del suo mondo dove si lottava per l’indispensabile, ora si vive e si muore per e di consumo, nella miseria. Un operaio senza fabbrica per scelta, di quelli dell’inizio del secolo scorso, cresciuti prima dell’avvento dell’usa e getta, della serialità, che fa dell’esperienza pratica, della capacità delle mani di riparare, dell’ingegno della creatività pratica a trovare soluzioni, il suo valore, e il metro per misurare l’inutilità dei padroni.

Come è stato possibile che proprio lui cadesse nell’inganno padronale mortifero del fascismo, nella mancanza di fiducia nei propri simili, nella prospettiva fallace della salvezza individuale? Cosa l’ha trattenuto, anni più tardi, dal sostenere e condividere – insieme a quegli altri padri dell’officina – ragioni e pane con gli insorti dell’unico e ultimo tentativo rivoluzionario della nostra storia novecentesca? Riattraversamento di una frattura mai sanata sul piano personale e sul piano storico.

Come è stato possibile che cadesse negli ingranaggi delle compatibilità illudendosi di esserne sfuggito, che ripiegasse nella rassegnazione di un mondo che è raccontato come se sempre dovesse essere dominato dall’ingiustizia di chi comanda, nell’inganno di padroni abili a macinare, assorbire e trasfigurare, a disarmare le menti, confondendo nell’indistinguibilità oppressi e oppressori, con la retorica mistificatoria delle sempreverdi emergenze e degli annessi solidarismi nazionali?

Questioni che ci precipitano nelle contraddizioni irrisolte del secolo scorso, ma ancora aperte, alla radice di una sconfitta che ci ha irretiti. Eppure proprio il lascito di sapere ed esperienza di quel padre, un nostro padre, può essere ripercorso, per riattraversare la storia in un altro modo, e può esserci di soccorso per l’oggi, in un tempo che corre alla velocità irraggiungibile del 5G, che ci impedisce di capire la concretezza del reale nascosta dentro l’intelligenza artificiale. Abbiamo bisogno di un altro tempo. Nel racconto al padre, ciò che lui ha lasciato come valore continua ad essere ciò che regge il mondo, perché senza mani sapienti, senza la materialità dei corpi, l’intelligenza artificiale e l’economia immateriale che ci comandano non si sorreggono. Liberarsi dal tempo disumanizzato del capitale riappropriandosi di quel sapere pratico – del gesto e della conoscenza che assomigliano a quelli dell’artigiano, frutto di un accumulo di esperienza tramandata che ha selezionato materiali e strumenti adatti alla realizzazione non solo dell’utile e durevole ma anche del bello, diritto inalienabile degli esseri umani, in una storia lunga e irregolare, fatta di biforcazioni, di strade non praticate, sepolte e dimenticate sotto le macerie del tempo veloce del progresso – può essere oggi la via di fuga collettiva per sottrarsi al sistema di sfruttamento e devastazione cui siamo sottomessi, fino a distruggerlo, disseppellendo l’inespresso, scovando il potenzialmente realizzabile che sta nel passato.

In questo dialogo immaginato con il padre, che nell’incedere ricorda in alcuni passaggi l’epica brechtiana, Barbara riprende e approfondisce il discorso iniziato in L’ho sempre saputo, una ricerca nella storia e nel patrimonio dei vinti, delle armi della critica pratica rimaste integre nello scontro con il capitale, che hanno retto alla tempesta del progresso. E tra le macerie pratico-teoriche del Novecento rivoluzionario, ricerca quel che può essere ancora utile, fili spezzati da riannodare, ponendo però l’urgenza di staccarsi da ciò che oggi è peso morto e che è anche una delle ragioni che ha permesso al nemico di aumentare la sua ferocia, impune.

Non l’assalto al Palazzo d’Inverno – e con esso la scienza sociale che l’ha sostenuto – ma sabotaggio delle fondamenta, sottrazione alle compatibilità, porta d’ingresso negli ingranaggi del capitale. Sottrazione come via di fuga che erode quelle fondamenta e costruisce al tempo stesso altre forme di vivere collettive. “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, continua ad indicare la bussola. Dal racconto delle pratiche di lotta e di resistenza che ci giungono dal Kurdistan alla Zad, dai Gilet gialli agli zapatisti, agli operai argentini in autogestione che cancellano la divisione del lavoro, agli illegali ed irregolari, sempre più numerosi, delle periferie dell’Occidente colonialista, si ridelinea una nuova scienza sociale.

È il frutto dell’esperienza pratica di chi si organizza nel segno dell’autodeterminazione, dell’autogoverno; riattivando le relazioni sociali e la cultura del vicinato, che significa in fondo ricostruire tessuti connettivi di solidarietà senza lasciarsi neutralizzare da un potere che ha dato prova di quanto gli sia facile appropriarsene e soffocarla nei suoi tentacoli, riducendola a compassionevole spot pubblicitario a costo zero per bulimici consumatori atomizzati; trame di alleanze, di aiuto mutuo, cacciaviti per inceppare gli ingranaggi, zone da prendere e da difendere, perché vivere liberi dai padroni è possibile, ed è condizione perché si riconquisti dignità come comunità umana. “Fino a che la dignità non diventi consuetudine”, come risuona dalle piazze del Sudamerica in rivolta.

Praxis associata alla visionarietà che contraddistingue le eresie quel che scorre nelle pagine del libro, che in fondo è quello che Barbara porta con sé della sua storia politica, una pagina della storia scritta dagli oppressi che alzano la testa, non negoziabile, che sta nel sangue e nella carne, non una parentesi della vita. Che sta nella scrittura, densa, stratificata di significati, che ricerca, seleziona e cesella le parole con la cura e il sapere dell’artigiano.

Lettera a mio padre è un libro che si libera del peso di una tradizione marxista che ha mostrato le corde puntando sull’idea di sviluppo e di produttivismo. Lo sviluppo delle forze produttive – come indicano le esperienze storiche sperimentate, pur nella loro portata emancipatrice e nel loro significato storico – è stato incapace di spezzare il funzionamento del capitale. Ha usato, rovesciandoli, gli stessi meccanismi e la stessa logica del suo antagonista, ed è rimasto impigliato all’interno dell’idea occidentale di progresso propria del capitalismo. Proprio sul continuum della Storia è inciampata la concezione marxiana della Storia, non riuscendo a sottrarsene e permettendo che il capitale battesse il suo tempo.

Da questi limiti parte la riflessione di Barbara, che si inserisce e fa propria l’eterodossia benjaminiana, ripresa in tempi più recenti da Agamben. Ne riattiva l’idea di sospensione del flusso omogeneo e progressivo del tempo, sospensione in cui il kairos irrompe, l’arresto del tempo, l’attimo giusto sottratto al correre del progresso contro l’abbaglio della meta nel futuro lontano. La rivoluzione come “freno d’emergenza”, nelle parole di Benjamin, che ci ricorda come lo stato d’emergenza sia la regola. “Il tempo papà, il tempo”, scrive Barbara, perché non c’è cambiamento del mondo senza cambiamento del tempo. “Sparare agli orologi” come fecero i comunardi, ci ricorda la storia degli oppressi, e ci mostra la mano dell’operaio che inceppando la catena di montaggio fa saltare l’ordine e il tempo, perché il tempo della rottura è sempre tempo presente.

Comunismo comunitario, mutuo soccorso, economia comunitaria, autogoverno, autonomia basata sulla messa in comune, sono il patrimonio pratico-concettuale annidato nelle crepe della nostra storia – che emergono spazzolando la storia contropelo, come dice Benjamin, come ci racconta Barbara che va a recuperarle nella storia degli oppressi, dove si manifestano in pratiche contrarie alla compatibilità capitalistica, al tempo lineare in progresso – e che riecheggiano allo stesso modo nelle storie degli altri, schiacciate sotto una pretesa universalistica che è appartenuta anche alla tradizione marxista, da cui dovremmo affrancarci prendendo atto della loro irriducibilità.

Abbiamo il cacciavite per bloccare gli ingranaggi, ce lo mostrano nei quattro canti del pianeta gli “scarti”, quelli che anche noi abbiamo considerato niente più che “sopravvivenze”, come ci ha suggerito l’antropologia, scienza del colonialismo per eccellenza, nella sua pretesa di spiegare agli Altri chi essi fossero. C’è un sapere e ci sono ferramenta che hanno continuato ad essere tramandati, ai margini, quasi clandestinamente nella loro incompatibilità al capitale, come fuoco che cova sotto la cenere della centralità occidentale novecentesca. Ci indicano che si può ricreare comunità, risignificare appartenenza, compiti irrimandabili per combattere la devastazione capitalistica.

Prendere un cacciavite – riappropriazione di conoscenza e gesto – significa liberarsi dalla catena della deresponsabilizzazione che ci ha ridotti allo stato di minor età, ricacciare il principio della delega e della passività, e agire consapevolmente per costruire un tempo e un mondo autodeterminato, libero dai padroni. Risignificare, costruire un vocabolario comune che riagganci le parole all’esperienza, al terreno reale e alle relazioni interpersonali e collettive che le hanno create, grattandole dalle incrostazioni ideologiche e risignificandole della praxis che le sostanzia. Per una praxis politica che nel suo farsi possa risignificare comunismo. Il tempo è adesso.

]]>
Sull’epidemia delle emergenze/ Fase 5: i movimenti sociali al tempo della quarantena https://www.carmillaonline.com/2020/04/01/sullepidemia-delle-emergenze-fase-5-i-movimenti-sociali-al-tempo-della-quarantena/ Wed, 01 Apr 2020 21:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59070 di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

[...]]]>
di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

Abbiamo proceduto ad analizzare, allora, come questa crisi metta in discussione e demolisca molti degli assunti e delle posizioni consolidate fino a ieri; una catastrofe che non ha risparmiato alcuno spazio dell’agire umano e politico: dalle relazioni internazionali, al controllo sociale, alle relazioni, alla geopolitica, alla guerra o all’accumulazione di capitale. Tutto viene tritato a grande velocità e tutto, altrettanto velocemente, si rinnova buttando via ciò che è obsoleto.
Crediamo che i movimenti sociali non siano estranei a questo processo e che, certamente, non possano esserlo (chi ne rimane al di fuori, d’altronde, è più cera da museo che essere vivente). È all’analisi di questo altro elemento che vorremmo concentrarci adesso.

Nell’ultima settimana abbiamo assistito ad un rapidissimo espandersi del contagio a livello europeo e internazionale, con una forte accelerazione di processi geopolitici ed economici che sembravano premere ormai da un po’(qui).
Se per molti governi europei il caso italiano ha fatto in un certo senso scuola, sembra che anche i movimenti abbiano guardato all’Italia per elaborare le proprie risposte.
La reazione maggioritaria delle strutture politiche del Bel paese è stata quella di mettere in moto una grossa serie di piccole o grandi opere di solidarietà dal basso e mutuo appoggio; un’operazione importante di messa a sistema di quelle pratiche mutualistiche, che si erano da anni accumulate come patrimonio dell’autorganizzazione e dei centri sociali, dentro lo scenario di una crisi sanitaria e di un confinamento sociale inediti. A ruota sono seguite operazioni simili negli altri paesi, elemento che diventa allora di non secondaria importanza nel guardare i fenomeni in atto.

Se da un lato possiamo dire che la capacità di risposta autonoma e dal basso ai bisogni sociali sia un tassello essenziale della strategia antagonista per come la conosciamo, dall’altro non possiamo che rilevare come spesso questa risposta assorba la totalità dell’impegno non solo della prassi ma anche dell’orizzonte teorico di queste strutture.
Sembra, quindi, che l’ipotesi del conflitto venga allora definitivamente espulsa dal campo delle possibilità: nella tutela dei soggetti più fragili e nel lavoro di cura, il corpo militante si mette al servizio di una collettività da cui si era ritrovato ormai estraneo, e che attraversa ora andando a riempire i vuoti lasciati dalla macchina statale neoliberista. Ma se diamo per assodato il concetto per cui, al tempo del libero mercato, chi può essere messo a valore allora può beneficiare della macchina capitalistica mentre chi è inutile si arrangi da sé per non crepare; un lavoro di cura della fragilità finisce per essere sussidiario alle articolazioni assistenziali dello Stato e rischia, infine, di fare da agente pacificatore: gli “angeli che portano la spesa” vanno allora a spegnere o lenire quella frustrazione da cui può, in prospettiva, accendersi la miccia della rabbia sociale. Non è un caso che nell’ultimo decreto presidenziale, del 27 marzo, che è andato a rincorrere una tiepidissima ipotesi di insorgenza urbana, si sia fatto esplicitamente appello alla “catena della solidarietà”, o che diversi servizi televisivi abbiano lodato le gesta di questi giovani generosi, tacendo la loro provenienza dai famigerati centri sociali abusivi.

Non solo, nello schiacciarsi su questo volontarismo, si finisce per perdere di vista una tempesta che si avvicina a passi sempre più spediti: quando la quarantena sarà finita, quando si cercherà di tornare alla normalità dopo questa sospensione della vita, le città non saranno più le stesse. La loro fisionomia resterà invariata magari ma la loro sostanza, il tessuto vitale e le loro possibilità saranno ridotte in macerie. È un domani molto vicino quello in cui si inizierà a sanguinare per la disoccupazione, per il carovita, per la crisi degli alloggi, per i nuovi tagli fatali allo stato sociale. Ma a forza di lenire i graffi di oggi, non ci si accorge degli sventramenti che ci attendono; il rischio è quello di seguire una logica dei due tempi per cui oggi si temporeggia, domani si agisce; ma il tempo dell’azione non è rimandabile, i bastimenti vanno approntati quando la tempesta è in avvicinamento, non quando si scatena e sbalza i marinai fuori bordo, ad annegare tra le onde di una conflittualità che non si è saputo leggere.

Si differenzia in tale contesto, però, l’approccio di chi, dichiarandolo, organizza attività di sostegno alla popolazione per contrastare quell’opera della protezione civile e dei militari che portando aiuti si presentano con volto amico alla popolazione, poiché è proprio con queste strutture militari e paramilitari che si giocherà anche lo scontro per l’egemonia politica e sociale. La penetrazione del ‘repressore buono’ nelle menti oltre che nei quartieri proletari va denunciata sin da ora, non quando spareranno sui cortei, caricheranno i picchetti operai e faranno i rastrellamenti per le strade.

Parimenti, vediamo un’altra sensibilità che, anche quando non esclude l’ipotesi mutualistica, è più attenta al fronte che si sta costruendo e ai campi d’azione che già oggi emergono. Una sensibilità che però è spesso immobile ed incapace di agire. Nell’indicare la centralità del reddito per tutti, nel denunciare la colpevole inadeguatezza del sistema sanitario o la criminale carenza di misure di supporto alle fasce basse della popolazione piuttosto che l’infamia delle associazioni padronali, certamente si è colto nel segno dell’indicazione.
Ma un’indicazione senza prassi incisiva è poco più che uno di quei buoni propositi da capodanno la cui immancabile fine è il dimenticatoio di fine gennaio.
E se certo le condizioni ostiche della quarantena non aiutano lo sforzo d’immaginazione militante nel cercare altre pratiche, sempre quell’espulsione del conflitto come possibilità concreta sembra essere alla base di un raggio d’azione limitato alle campagne social, ai meme, al mailbombing, alla sensibilizzazione, o agli ambiziosi quanto velleitari annunci di scioperi degli affitti.

Altre esperienze, possono essere quelle attuate, ad esempio, a Milano, Varese, Genova, Trento e in Valle di Susa che hanno ripreso l’antica pratica dei tazebao e degli striscioni, con parole chiare su chi siano i responsabili di questa strage in corso, con testi semplici, comprensibili, richiedendo diminuzione dei prezzi dei generi alimentari, denunciando la militarizzazione del territorio, lo smantellamento della sanità, evidenziando in modo esplicito la farsa di un governo che punisce le passeggiate e tiene aperte le fabbriche, che dona elemosine illuso di prevenire possibili sommosse, saccheggi e rivolte.
Semplici tazebao che invitano chi li condivide a riprodurli, diffondendoli così sulle mura dei quartieri e nei piccoli paesi di montagna … un modo per rendere tutti protagonisti, senza chiedere adesioni a forze politiche, un modo per prepararsi, per metter fieno in cascina .

Come ancora diversa può essere considerata l’iniziativa nazionale del 1° Aprile: con striscioni e battiture dai balconi e con fuochi nelle valli alpine per sostenere le detenute e i detenuti e chiedere amnistia e indulto per tutte-i. Diverse dal mutualismo caritatevole e importanti perché indicano forme, tutte da inventare nel periodo della quarantena, e che possono coinvolgere tutte/tutti: battiture, tatzebao, canzoni di lotta cantate dai balconi invece degli inni nazional-popolari, parlare con i vicini per costruire rapporti di complicità necessari oggi, fondamentali per il domani. Come avviene a Torino in alcuni quartieri operai.
Queste esperienze, seppur non estese come sarebbe necessario, indicano un modo per lottare anche dentro l’isolamento sociale prodotto dalla quarantena e per non agire solo sul piano virtuale.

Nulla è da escludere in una fase di sconvolgimento come questa, tutto è da rilanciare e nulla da lasciare al caso, ma ancor più centrale è la necessità di guardare all’esperienze in corso, alle tensioni, spesso sotterranee che si muovono sotto il cielo, comprendere come per la guerra che verrà ogni elemento utile vada incastonato nel mosaico di una strategia rivoluzionaria ancora tutta in divenire.

Un dato interessante che ci sembra di cogliere, per quel che riguarda le reti di solidarietà , più all’estero che dalle nostre parti a dire il vero, è come esse siano sorte del tutto o quasi al di fuori degli ambiti di movimento1 e come esse inizino a masticare temi prima appannaggio dell’habitat militante che ora diventano urgenza collettiva, come il reddito o l’affitto, ma restino sostanzialmente impermeabili al linguaggio politichese che tuttora le porta avanti. E se il rent strike2 passa sotto traccia, nondimeno ci si organizza autonomamente per autoriduzioni collettive o, più placidamente, si smette di pagare l’affitto al padrone di casa.
Una serie di smottamenti che interessano soprattutto quelle aree metropolitane, patrie dell’atomizzazione capitalistica, in cui le fragilità si ammassano più numerose e lo Stato lascia scoperti e abbandonati migliaia di individui per limitarsi a gestirne le escandescenze e proseguire il solito scorrimento delle merci. Le metropoli, o meglio i loro margini, iniziano a brontolare e rivendicare sommessamente il proprio spazio sulla scena. Un sussurro, per ora, ma che minaccia di essere presto un grido.

Un’altra indicazione feconda ci viene invece da quei territori, come l’Euskal Erria, dove le organizzazioni antagoniste e una certa cultura politica hanno storia e radici forti, dove quindi la prassi militante sembra riuscire ad intercettare l’autorganizzazione spontanea e diffusa e agire in sintonia con essa. Lì, dove le reti di mutualismo spontanee sono nate in ogni quartiere o cittadina senza reciproco coordinamento, incontrando spesso la capacità tecnica dei gruppi militanti, è emersa un’ipotesi di avanzamento del discorso politico relativo al contropotere territoriale fondata sul concetto di autodifesa e sostanziata tramite un doppio fronte, di lotta e di cura3.

Vi sono, poi, luoghi dove il conflitto è da anni già luogo di ‘conflitto in armi’ , di spazi dove le esperienze rivoluzionarie hanno il controllo di parti del territorio e di fronte a questa epidemia, prodotta dal tessuto sociale, economico e produttivo del capitalismo, hanno dovuto porsi la questione di garantire la difesa delle proprie zone e delle proprie comunità, sapendo assumersi tutte le responsabilità del caso nei confronti della catastrofe generata dal modo di produzione avverso.
.
Nel Chiapas, di fronte alla pandemia Covid-19, con le parole del subcomandante insurgente Moisés, l’EZLN ha dato disposizioni perché tutti i municipi autonomi e le organizzazioni amministrative aderenti alla lotta zapatista dichiarino l’allerta rossa, impediscano l’ingresso nei loro territori agli estranei e adottino misure igieniche straordinarie.
Come spiegano gli zapatisti, questa scelta non è dovuta solo alla pericolosità del virus bensì anche all’irresponsabilità dei vari governi del pianeta, tutti intenti a fornire dati e informazioni molto discutibili (se non addirittura falsi) finalizzati al controllo sociale e non alla reale difesa della salute pubblica.
Questa scelta che all’apparenza potrebbe sembrare una sospensione della battaglia in corso deve proseguire anche in questa situazione, trovando i modi necessari pur nelle condizioni attuali che impongono provvedimenti sanitari (qui).

Nella Siria del Nord, invece, mentre la Turchia approfitta del virus per colpire l’Amministrazione autonoma del Rojava continuando gli attacchi militari e togliendo l’acqua ai profughi e ai residenti, il Consiglio Esecutivo del Rojava ha posto in atto (a partire dal 21 marzo) misure di divieto di spostamento senza autorizzazione, la chiusura dei confini, la chiusura di negozi e scuole, il distanziamento e l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, e esonera dal lavoro il 40% dei lavoratori dei panifici (attività essenziale in quelle zone per poter sfamare la popolazione) e di altre attività, arrivando anche a dover chiudere le ‘tende del commiato’. Misure drastiche, ma che rappresentano l’interesse collettivo.

Il Rojava ha anche adottato misure di distanziamento, in una situazione di vita comunitaria e quindi molto dificili da realizzare, non imponendolo in modo militarista come nel nostro paese, bensì tramite l’appello dei vari feriti di Kobane e delle grandi battaglie di questi anni e appellandosi all’autodisciplina rivoluzionaria, un tema che andrebbe ripreso con chi in Italia grida allo scandalo di dover stare in casa non per porlo come contraddizione con le fabbriche aperte, non per denunciare le angherie di militari e polizia contro una solitaria corsa o passeggiata, ma finendo, anche non consapevolmente, col contrapporre la libertà individuale all’interesse di classe e collettivo. Così, se nei paesi capitalisti, nel ventre della bestia, bisogna denunciare l’utilizzo del distanziamento a fini repressivi e nella logica dell’emergenza, va al tempo stesso ripreso il concetto di disciplina rivoluzionaria, di rinuncia individuale per gli interessi collettivi della vita e della comunità, utile già oggi ma fondamentale per il domani.

Ma proprio perché si tratta di un’esperienza rivoluzionaria, quella del Rojava, si trova con poche strutture, attrezzature e strumenti sanitari a causa di un duro embargo e del non riconoscimento da parte dell’ONU e, di conseguenza, non riceve aiuti alcuni per la popolazione (come i kit per rilevare il virus, le mascherine e i respiratori), il che dimostra, una volta di più, come solo la solidarietà rivoluzionaria può sostenere queste esperienze.
Altro che versare i fondi per la protezione civile, le ASL, la Caritas ecc.… Oggi è necessario praticare l’internazionalismo e quindi di sostenere con casse di resistenza le varie esperienze rivoluzionarie e di mutuo soccorso, soprattutto da costruire nelle fabbriche e sui territori, poiché in questo modo si costruiscono rapporti concreti per un’alleanza comune contro il capitalismo.
In questo senso l’esperienza in Francia della ZAD dI Notre-Dame-des-Landes che ha portato le proprie autoproduzioni alimentari alle varie lotte presenti in Francia, vale di più di mille dichiarazioni di principio sui sacri testi.

In altri termini, dove la gestione autoritaria ed emergenziale dello Stato semina dispositivi di contenimento che facilmente saranno convertiti in strumenti repressivi all’occorrenza, molto raramente corrisponde un contrappeso che va incontro ai bisogni generati dall’epidemia. È lì che si generano le fratture ed è lì che si inserisce il militante per convertire una ferita in una carica sovversiva.
D’altronde la natura di classe di questo sistema viene a galla in ogni piega di questa emergenza e disvela tutto l’orrore e l’insostenibilità a cui il quotidiano ci aveva abituati. Il sostegno alle grandi aziende e le briciole alle famiglie, la cassa integrazione pagata dallo Stato e le ferie forzate dei lavoratori, le fabbriche che restano aperte e gli operai costretti ad ammalarsi dentro i reparti, i medici che crepano di malattia e superlavoro negli ospedali pubblici mentre le cliniche private intascano soldi. Nessuna di queste cose passa inosservata agli occhi di chi vive dal basso questa società e per i più ottusi, che ancora nutrono buonafede verso questo sistema, ci pensano i portavoce del governo a togliere ogni dubbio, con la loro retorica di guerra che sempre più prende i contorni di minacce velate a chi avesse in mente di alzare la voce e pestare i piedi, o con il loro darwinismo sociale che innerva tanto i discorsi quanto le misure. Non sono vite quelle che si vogliono tutelare ma forza lavoro, carne da cui estrarre valore. L’alternativa resta sempre una: la nostra vita o il loro profitto.

È solo a partire da questo assunto, ormai visibile a chiunque, che è possibile cogliere il senso pieno della sfida attuale, su cui possiamo seminare il germe di una incompatibilità sistemica in grado di seminare gli scontri di classe che verranno.
È su questo assunto che l’indicazione dei padroni e degli imprenditori come vampiri e assassini è diventata chiara e assumibile da chiunque, creando una linea di spartizione tra chi ci è amico e chi no nell’ora del bisogno, intrecciandosi alla voce di quegli operai che spontaneamente hanno incrociato le braccia per dire che non erano disposti a morire per un salario di merda.

Ed è sempre qui che la problematica del reddito, che coglie l’antica quanto principale contraddizione del capitalismo, non è più soltanto una velleità, ma l’esigenza di milioni di persone cui il blocco dell’economia pone il serio problema di cosa mettere in tavola la sera. Un problema che non può più essere una richiesta velleitaria o riformista. Ma deve diventare uno dei cardini di un agire antagonista: se lo Stato non è in grado di provvedere ai nostri bisogni e questo mercato ci esclude da un reddito allora ci si deve organizzare da soli per ottenerlo. Dalle assemblee sui luoghi di lavoro, già fin da ora e dopo la riapertura delle aziende, al picchetto e il blocco della fabbrica che non è stata chiusa da un’ordinanza; dalle assemblee e i convegni territoriali da convocare subito, a partire dalle aree più colpite, dopo il parziale ritorno alla normalità all’autoriduzione dell’affitto e delle bollette nella loro insostenibilità, la richiesta oppure l’imposizione autonoma di un calmiere dei prezzi contro il carovita e lo sciacallaggio in atto fin dall’inizio della pandemia.

Ognuno di questi atti, organizzati o meno, politicizzati o meno, andrà nella direzione di riprendersi pezzi di reddito e di vivibilità in seno a questa catastrofe; il compito del rivoluzionario non è fare una campagna su una o l’altra di queste cose, ma fondere spontaneità e organizzazione, pratica e discorso. È la nostra stessa possibilità di vita che difendiamo e nulla ci legittima più di questo nel forare ogni dispositivo. La questione del mutualismo e della presa in cura della comunità, d’altronde, non può essere slegata da un discorso simile e non può che essere strumento di radicamento e costruzione di contropotere autonomo nei quartieri e sui territori, realizzando articolazioni sociali di un discorso politico più complessivo e di rottura.

Quella della cura collettiva è una pratica che non può essere mossa dalla generica solidarietà (cosa buona e giusta, la solidarietà, ma non è mai stata motore di processi rivoluzionari), ma dall’obbiettivo di costruire un rinnovato rapporto di forza, in vista degli sconvolgimenti che verranno, all’interno di un territorio. Quest’ultimo, nella sospensione della normalità, assume un rinnovato valore strategico ed è all’interno di questa situazione imprevista che, specialmente nell’atomizzato ambito metropolitano, possiamo legare i fili delle nostre possibilità. Chi oggi distribuisce la spesa alimentare dovrebbe porsi in prospettiva il problema di bloccare il flusso delle merci, di redistribuire il reddito indiretto, di scioperare, di indicare il nemico e di legarsi all’amico prima estraneo, tutto nel tentativo di costruzione di una forza in grado di smantellare ogni pezzo dell’attuale sistema di dominio.

Nulla oggi può essere lasciato intentato, nulla deve essere abbandonato al caso. Si buttino a mare gli ideologismi inutili e le formule stantie, è di prassi forte e teoria laica che abbiamo bisogno. Dobbiamo necessariamente cogliere, per dirla con Fanon, l’importante nel contingente.
Si prepara oggi uno scenario che forse mai più ci sarà dato di rivivere: in queste intemperie si colga l’occasione di liberare la prassi politica e la società dalle ragnatele del passato o ci si lasci morire.


  1. Un esempio è il caso della società inglese che, da iperatomizzata, scopre la comunità come ambito di forza http://commonware.org/index.php/neetwork/929-pinte-e-pandemia 

  2. https://www.thestranger.com/slog/2020/03/27/43264462/so-you-want-a-rent-strike  

  3. https://eh.lahaine.org/auzo-elkartasun-sareak-larrialdi-egoeraren  

]]>
La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica https://www.carmillaonline.com/2014/10/10/la-strage-degli-studenti-in-messico-narco-stato-e-narco-politica/ Thu, 09 Oct 2014 22:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18018 di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi interrati di decine di studenti della scuola normale di Ayotzinapa, comune che si trova a circa 120 km da Iguala. Infatti, dal fine settimana precedente, 43 normalisti risultano ufficialmente desaparecidos. “Desaparecido” non significa semplicemente scomparso o irreperibile, significa che c’è di mezzo lo stato.

Vuol dire che l’autorità, connivente con bande criminali o gruppi paramilitari, per omissione o per partecipazione attiva, è coinvolta nel sequestro di persone e nella loro eliminazione. Niente più tracce, i desaparecidos non possono essere dichiarati ufficialmente morti, ma, di fatto, non esistono più. I familiari li cercano, chiedono giustizia alle stesse autorità che li hanno fatti sparire. Oppure si rivolgono ai mass media e a istituzioni che in Messico sono sempre più spesso una farsa, una facciata che nasconde altri interessi e altre logiche, occulte e delinquenziali. E nelle conferenze stampa, senza paura, dicono: “Non è stata la criminalità organizzata, ma lo stato messicano”.

La strage di #Iguala #Ayotzinapa

Marcha Ayotzinapa 8 oct 149 (Small)La sera di venerdì 26 settembre un gruppo di giovani alunni della scuola normale di Ayotzinapa si dirige a Iguala per botear, cioè racimolare soldi. Hanno tutti tra i 17 e i 20 anni. Vogliono raccogliere fondi per partecipare al tradizionale corteo del 2 ottobre a Città del Messico in ricordo della strage  di stato del 1968, quando l’esercito uccise oltre 300 studenti e manifestanti in Plaza Tlatelolco. I normalisti decidono di occupare tre autobus. I conducenti li lasciano fare, ci sono abituati. Sono le sette e mezza, fa buio. Fuori dall’autostazione, però, ad attenderli c’è un commando armato di poliziotti. Fanno fuoco senza preavviso. Sparano per uccidere, non solo per intimidire. Hanno l’uniforme della polizia del comune di Iguala e sono gli uomini del sindaco José Luis Abarca Velázquez e del direttore della polizia locale Felipe Flores, entrambi latitanti da più di una settimana. Ma i pistoleri poliziotti non restano soli a lungo, presto sono raggiunti da un manipolo di altri energumeni in tenuta antisommossa. Il fuoco delle armi cessa per un po’, ma l’attacco è stato brutale, indignante e irrazionale.

La persecuzione continua. Partono altri spari. Muoiono tre studenti, altri 25 restano feriti, uno in stato di morte cerebrale. Per salvarsi bisogna nascondersi, buttarsi sotto gli autobus. Non muoverti, se no gli sbirri ti seccano. Alcuni cercano di scappare, scendono dai bus, il formicaio esplode nell’oscurità. Gli uomini in divisa caricano decine di studenti sulle loro camionette e li portano via. Pare che l’esercito, la polizia federale e quella statale abbiano scelto di non intervenire. Lasciar stare.

Intanto sopraggiungono altri soggetti con armi di alto calibro, narcotrafficanti del cartello dei Guerreros Unidos, una delle tante sigle che descrivono il terrore della narcoguerra e la decomposizione del corpo sociale in molte regioni del paese. Non contenti, i poliziotti, in combutta con i narcos, si spostano fuori città, pattugliano la strada statale che collega Ayotzinapa a Iguala e fermano un pullman di una squadra di calcio locale, los avispones. Assaltano anche quello, pensando che sia il mezzo su cui gli studenti stanno facendo ritorno a casa. Bisogna sparare, bersagliare senza tregua. E ora sono in tanti, narcos e narco-poliziotti, insieme, probabilmente per ordine de “El Chucky”, un boss locale, e del sindaco Abarca.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 234 (Small)Ammazzano un calciatore degli avispones, un ragazzo di quattordici anni che si chiamava David Josué García Evangelista. I proiettili volano ovunque, sono schegge di follia e forano la carrozzeria di un taxi che, sventurato, stava passando di lì. Perdono la vita sia il conducente dell’auto sia una passeggera, la signora Blanca Montiel. Il caso, la mala suerte si fa muerte. Poche ore dopo in città compare il cadavere dello studente Julio Cesar Mondragón, martoriato. Gli hanno scorticato completamente la faccia e gli hanno tolto gli occhi, secondo l’usanza dei narcos. La macabra immagine, anche se repulsiva, diventa virale nelle reti sociali. E si diffondono globalmente anche le testimonianze dirette dell’orrore che stanno rendendo i sopravvissuti.

Le reazioni alla mattanza

Dopo il week end del massacro a Iguala i compagni della normale di Ayotzinapa e i familiari delle vittime e dei desaparecidos si organizzano, reclamano, tornano sul luogo della strage e indicono una manifestazione nazionale per l’8 ottobre a Città del Messico per chiedere le dimissioni del governatore statale, Ángel Aguirre, la “restituzione con vita” dei desaparecidos e giustizia per le vittime della mattanza.

Cresce la pressione mediatica e popolare per ottenere giustizia. Arrivano i primi arresti. 22 poliziotti al soldo delle mafie locali e 8 narcotrafficanti sono imprigionati e la Procura Generale della Repubblica comincia a occuparsi del caso. Alcuni degli arrestati confessano i crimini commessi e parlano di almeno 17 studenti rapiti e giustiziati. Indicano la posizione esatta di tre fosse clandestine in cui sarebbero stati interrati. L’esercito e la gendarmeria commissariano l’intera regione e blindano le fosse comuni che non sono tre, sono sei. La morte si moltiplica. I corpi recuperati sono 28, non 17. I desaparecidos, però, sono 43.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 020 (Small)I numeri non tornano. I familiari non si fidano, chiedono l’invio di medici forensi argentini, specialisti imparziali e qualificati. Ci vorrà tempo per avere certezze, se mai ce ne saranno. I risultati dell’esame del DNA tarderanno ad arrivare almeno due settimane. Nel frattempo, il 7 ottobre, seicento agenti delle polizie comunitarie della regione della Costa Chica, appartenenti alla UPOEG (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero), hanno fatto il loro ingresso a Iguala per cercare “vivi o morti” e “casa per casa” i 43 studenti scomparsi. Altri gruppi della polizia comunitaria di Tixla, autonoma rispetto alle autorità statali, hanno scritto su twitter: “Con la nostra attività di sicurezza stiamo proteggendo la Normale di #Ayotzinapa“.

Dov’è finito il sindaco del PRD (Partido de la Revolución Democrática, di centro-sinistra) José Luis Abarca? E sua moglie, anche lei irreperibile? E cosa fa il governatore dello stato, il “progressista”, anche lui del PRD, Ángel Aguirre? Pare che lui conoscesse molto bene la situazione già da tempo. Il loro partito ha scelto di espellere il sindaco e sostenere il governatore per non perdere quote di potere in quella regione. Abarca ha chiesto 30 giorni di permesso e poi è sparito. Ora è ricercato dalla giustizia e vituperato dall’opinione pubblica nazionale. Aguirre, che non ha potuto impedire la strage né ha bloccato la concessione permesso richiesto dal sindaco prima di scappare, cerca di difendere l’indifendibile e, per ora, non presenta le sue dimissioni. Anzi, scambia abbracci e si fa la foto con Carlos Navarrete, nuovo segretario generale del PRD eletto domenica 5 ottobre.

Narco-Politica

La gravità della situazione è palese, anche perché è nota da anni e non s’è fatto nulla per denunciarla ed evitare la sua degenerazione violenta. José Luis Abarca, sindaco di Iguala al soldo dei narco-cartelli, ha un passato inquietante alle spalle, ma è riuscito comunque a diventare primo cittadino e a piazzare sua moglie, María Pineda, come capo delle politiche sociali municipali, cioè dell’ufficio del DIF (Desarrollo Integral de la Familia), e prossima candidata sindaco. Il giorno della strage la signora Pineda doveva presentare la relazione dei lavori svolti come funzionaria pubblica e, temendo un’eventuale incursione dei normalisti nell’evento, avrebbe richiesto al marito di “mettere in sicurezza” la zona.

Abarca avrebbe quindi lanciato l’operazione contro gli studenti con la collaborazione piena del capo della polizia municipale, suo cugino Felipe Flores. Costui era già noto per aver “clonato” pattuglie della polizia col fine di realizzare “lavoretti speciali” e per i suoi abusi d’autorità. La moglie del sindaco è sorella di Jorge Alberto e Mario Pineda Villa, noti anche come “El borrado” e “El MP”, due operatori del cartello dei Beltrán Leyva morti assassinati. Salomón Pineda, un altro fratello, sta con i Guerreros Unidos dal giugno 2013. In uno degli stati più poveri del Messico, Abarca e consorte prendono, tra stipendi e compensazioni, 20mila euro al mese che pesano direttamente sulle casse comunali.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 175 (Small)“Mi concederò il piacere di ammazzarti”, avrebbe detto nel 2013 il sindaco Abarca ad Arturo Hernández Cardona, della Unidad Popular di Guerrero, prima di ucciderlo, secondo quanto racconta un testimone di questo delitto per cui Abarca non è stato condannato, ma che è depositato in un fascicolo giudiziale.

Il 30 maggio 2013 otto persone scomparvero a Iguala. Erano attivisti, membri della Unidad Popular, un gruppo politico vicino al PRD. Tre di loro sono stati ritrovati, morti, in fosse comuni. La camionetta su cui viaggiavano venne rinvenuta nel deposito comunale degli autoveicoli di Iguala. Human Rights Watch, Amnesty Internacional e l’Ufficio a Washington per gli Affari Latinoamericani chiesero invano alle autorità federali di chiarire il caso, essendoci il fondato sospetto di un’implicazione delle autorità locali. Cinque attivisti sono tuttora desaparecidos.

I sicari con l’uniforme della polizia e quelli in borghese lavorano per lo stesso cartello, quello dei Guerreros Unidos che è in lotta con Los Rojos per il controllo degli accessi alla tierra caliente, la zona calda tra lo costa e la sierra in cui prosperano le coltivazioni di marijuana e fioriscono i papaveri da oppio, che qui si chiamano amapola o adormidera. Le bande rivali sono nate dalla scissione dell’organizzazione dei fratelli Beltrán Leyva, ormai agonizzante. Il 2 ottobre, mentre 50mila persone sfilavano per le strade della capitale per non far sbiadire la memoria di una strage, a Queretaro veniva arrestato l’ultimo dei fratelli latitanti, Hector Beltrán Leyva, alias “El H”, un altro figlio delle montagne dello stato del Sinaloa. “El H” era diventato un imprenditore rispettato. Originario della Corleone messicana, la famigerata Badiraguato, e antico alleato dell’ex jefe de jefes, Joaquín “El Chapo” Guzmán, che sta in prigione dal febbraio scorso, s’era costruito una reputazione rispettabile, onorata. Ma già da tempo il gruppo dei Beltrán s’era diviso in cellule cancerogene e impazzite secondo il cosiddetto effetto cucaracha: scarafaggi in fuga, un esodo di massa per non essere calpestati.

Ed eccoli qui che giustiziano studenti insieme ai poliziotti che, a loro volta, aspirano a posizioni migliori all’interno dell’organizzazione criminale, sempre più confusa con quella statale, e s’occupano della compravendita di protezione e di droga. L’eroina tira di più in questo periodo e Iguala è una porta d’accesso importante, una plaza di snodo. L’eroina bianca del Guerrero è un prodotto che non ha niente da invidiare, per qualità e purezza, a quella proveniente dall’Afghanistan. Anche per questo la regione è la più violenta del Messico da un anno e mezzo a questa parte e ha spodestato in testa alla classifica della morte altri stati in disfacimento come il Michoacan, il Tamaulipas, Sonora, il Sinaloa, Chihuahua, l’Estado de México e Veracruz.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 292 (Small)I responsabili del massacro di Iguala

I poliziotti detenuti accusano Francisco Salgado, uno dei loro capi, finito anche lui in manette, di avere ordinato loro di intercettare gli studenti fuori dalla stazione degli autobus. Invece l’ordine di sequestrarli e assassinarli sarebbe arrivato dal boss mafioso El Chucky. Chucky, come il personaggio del film horror “La bambola assassina” di Tom Holland. Il procuratore di Guerrero, Iñaki Blanco, ritiene che il principale responsabile della mattanza e della desaparición dei 43 normalisti sia il sindaco Abarca che “è venuto meno al suo dovere, oltre ad aver commesso vari illeciti”. Il procuratore parla solo di “omissioni”, promuoverà accuse per “violazioni alle garanzie della popolazione” e la revocazione della sua immunità, ma dal suo discorso non si capisce chi sarebbero tutti i responsabili né come saranno identificati e processati.

Chi ha ordinato ai (narco)poliziotti di fermare i normalisti e di sparare? Com’è possibile che il sindaco e il capo della polizia e delle forze di sicurezza locali, Felipe Flores, siano riusciti a fuggire? Perché i due, ma anche l’esercito e le forze federali, hanno lasciato gli studenti alla mercé della violenza? Perché la polizia prende ordini dai narcos e, anzi, fa parte del cartello dei Guerreros Unidos? Com’è possibile che tutto questo sia tragicamente così normale in Messico? Come mai nessuno l’ha impedito, se già da anni si era a conoscenza della situazione?

Infatti, ci sono prove del fatto che, almeno dal 2013, il governo federale e il PRD hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte all’evidenza: José Luis Abarca e sua moglie María Pineda avevano chiari vincoli col narcotraffico e con la morte di un militante come Arturo Hernández Cardona. Ma già dal 2009, quando il presidente era Felipe Calderón, del conservatore Partido Acción Nacional (PAN), la Procura Generale della Repubblica aveva reso pubbliche la relazioni della signora Pineda e dei suoi fratelli con il cartello dei Beltrán Leyva. La polizia di Iguala era in mano ai narcos e sono tantissime le realtà locali in Messico ove predomina questa situazione.

L’esperto internazionale di sicurezza e narcotraffico, il prof. Edgardo Buscaglia, ha parlato di Peña Nieto e di Calderón come figure simili tra loro, come coordinatori del patto d’impunità e della perdita di controllo politico nazionale: “Sono cambiate le facce, ma hanno lo stesso ruolo”.  Perciò, ha segnalato l’accademico, bisogna cominciare dal presidente per trovare i responsabili. Mentre la comunità internazionale “fa come se non stesse accadendo nulla”, nel paese “il denaro zittisce le coscienze collettive” e, secondo Buscaglia, “il sistema giungerà a una crisi e ci sarà una sollevazione sociale in cui si fermerà il paese e soprattutto il sistema economico”.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 129 (Small)Le scuole normali messicane

Resta il fato che sparuti gruppi di studenti, seppur combattivi, di un’istituzione rurale non sono pericolosi trafficanti né rappresentano minacce sistemiche. Perché annichilarli? Forse la storia ci aiuta a ipotizzare delle risposte. Le scuole normali messicane, nate negli anni ’20 e impulsate dal presidente Lázaro Cárdenas negli anni ’30 come baluardi del progetto di educación socialista per il popolo e le zone rurali del paese, sono considerate oggi dalla classe politica tecnocratica come un pericoloso e anacronistico retaggio del passato. Un’appendice inutile da estirpare per entrare appieno nella globalizzazione.

Di fatto i governi neoliberali, dai presidenti Miguel de la Madrid (1982-1988) e Carlos Salinas (1988-1994) in poi, hanno costantemente attaccato e minacciato la sopravvivenza del sistema scolastico delle normali che, ciononostante, ha saputo resistere. La funzione sociale di questi centri educativi è sempre stata fondamentale perché è consistita nell’istruire le classi sociali più deboli e sfruttate, specialmente i contadini e gli abitanti delle campagne, affinché potessero difendersi dai soprusi dei latifondisti e dei politici locali, secondo un chiaro progetto politico-educativo di emancipazione e ribellione allo status quo. L’alfabetizzazione della popolazione rurale e la formazione di maestri coscienti socialmente sembra essersi trasformata in un’anomalia per tanti settori benpensanti, politici e metropolitani.

Anche per questo gli studenti delle normali, in quanto portatori di modelli di lotta e di formazione antitetici rispetto a quelli delle élite locali e nazionali e dei cacicchi della narco-agricoltura e della narco-politica, sono già stati vittime in passato della barbarie e della repressione. Nel dicembre 2011 la polizia ne uccise due proprio di Ayotzinapa durante lo sgombero di un blocco stradale e di una manifestazione. Una violenza smisurata venne impiegata dalla Polizia Federale nel 2007 per reprimere gli alunni di quella stessa cittadina che avevano bloccato il passaggio in un casello della turistica Autostrada del Sole tra Acapulco e Città del Messico. Nel 2008 i loro compagni della normale di Tiripetío, nel Michoacán, furono trattati come membri di pericolose gang e, in seguito a una giornata di proteste e scontri con la polizia, 133 di loro finirono in manette.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 008 (Small)Tradizione stragista

La criminalizzazione dei normalisti va inquadrata anche nel più esteso processo di criminalizzazione della protesta sociale che incalza con l’approvazione di misure repressive, come la “Ley Bala”, che prevede l’uso delle armi in alcuni casi nei cortei da parte della polizia, con l’inasprimento delle pene per delitti contro la proprietà privata e l’ampliamento surreale delle fattispecie legate ai reati di terrorismo e di attacco alla pace pubblica. Tutti contenitori pronti per fabbricare colpevoli e delitti fast track. Il caso di Mario González, studente attivista arrestato ingiustamente il 2 ottobre 2013 e condannato, senza prove e con un processo ridicolo, a 5 anni e 9 mesi di reclusione, sta lì a ricordarcelo.

Ma la “tradizione stragista” e di omissioni dello stato messicano è purtroppo molto più lunga e persistente. Basti ricordare alcuni nomi e alcune date, solo pochi esempi tra centinaia che si potrebbero menzionare: 2 ottobre 1968, Tlatelolco; 11 giugno 1971, “Los halcones”; anni ’70 e ‘80, guerra sucia; 1995, Aguas Blancas, Guerrero; 1997, Acteal, Chiapas; 2006, Atenco y Oaxaca; 2008 y 2014, Tlatlaya; 2010 e 2011, i due massacri di migranti a San Fernando, Tamaulipas; 2014, caracol zapatista de La Realidad, Chiapas; 2014, Iguala; 2006-2014, NarcoGuerra, 100mila morti, 27mila desaparecidos…

La OAS (Organization of American States), Human Rights Watch, la ONU, la CIDH (Corte Interamericana dei Diritti Umani) si sono unite al coro internazionale di voci critiche contro il governo messicano. La notizia delle fosse comuni e della mattanza di Iguala sta cominciando a circolare nei media di tutto il mondo e si erge a simbolo dell’inettitudine, dell’impunità e della corruzione. In pochi giorni è crollata la propaganda ufficiale che presentava un paese pacificato e sulla via dello sviluppo indefinito.

“Estamos moviendo a México”

Marcha Ayotzinapa 8 oct 225 (Small)Gli spot governativi presentano un Messico che si muove, che sta sconfiggendo i narcos e che, grazie alla panacea delle “riforme strutturali”, in primis quella energetica, ma anche quelle della scuola, del lavoro, della giustizia e delle telecomunicazioni, si starebbe avviando a entrare nel club delle nazioni che contano: una retorica, quella delle riforme necessarie e provvidenziali, che suona molto familiare anche in Europa e in Italia e che, in terra azteca, copia pedantemente quella dei presidenti degli anni ottanta e novanta, in particolare di Carlos Salinas de Gortari. Dopo la firma del NAFTA (Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord) con USA e Canada, Salinas preconizzava l’ingresso del Messico nel cosiddetto primo mondo. Invece alla fine del suo mandato nel 1994 l’insurrezione dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) in Chiapas, l’effetto Tequila, la svalutazione, indici di povertà insultanti e la fine dell’egemonia politica del PRI (Partido Revolucionario Institucional, al potere durante 71 anni nel Novecento) attendevano al bivio il nuovo presidente, Ernesto Zedillo (1994-2000).

Oggi Peña Nieto, anche lui del PRI, dopo aver approvato le riforme costituzionali e della legislazione secondaria in fretta e furia, cerca di vendere il paese agli investitori stranieri, mostrando al mondo come pregi gli aspetti più laceranti del sottosviluppo: precarietà e flessibilità del lavoro; salari da fame per una manodopera mediamente qualificata, non sindacalizzata e ricattabile; movimenti sociali anestetizzati; un welfare non universale, discriminante e carente; riforme educative dequalificanti per professori e alunni ma “efficientiste”; stato di diritto “flessibile”, cioè accondiscendente con i forti e spietato coi deboli.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 276 (Small)Il presidente annuncia lo sforzo del Messico per consolidare l’Alleanza del Pacifico, un’area commerciale sul modello del NAFTA per i paesi americani affacciati sull’Oceano Pacifico, e la prossima partecipazione di personale militare e civile alle “missioni di pace dell’ONU” come quella ad Haiti, la missione dei caschi blu chiamata MINUSTAH, che pochi onori e tante grane ha portato al paese caraibico e agli eserciti latinoamericani, per esempio il brasiliano, l’uruguaiano e il venezuelano, che vi partecipano attivamente.

Questa politica da “potenza regionale”, però, deve fare i conti con la cruda realtà. L’inserto Semanal del quotidiano La Jornada del 5 ottobre ha pubblicato un box con un piccolo promemoria: dal dicembre 2012 al gennaio 2014 ci sono stati 23.640 morti legati al narco-conflitto interno, 1700 esecuzioni al mese, con Guerrero che registra, da solo, un saldo di 2.457 assassinii, secondo quanto  riferisce la rivista Zeta in base all’analisi dei dati ufficiali. Nel 2011 Fidel López García, consulente dell’ONU intervistato dalla rivista Proceso (28/XI/2011), aveva parlato di un milione e seicentomila persone obbligate a lasciare la loro regione d’origine per via della guerra. Anche per questo il Messico rischia di trasformarsi in un’immensa fossa comune (e impune).

Ayo foto corteo lungoPost Scriptum. Il corteo.

“¿Por qué, por qué, por qué nos asesinan? ¡26 de septiembre, no se olvida!” (“Perché, perché, perché ci assassinano? Il 26 settembre non si dimentica”).  E’ stato il grido di oltre 60 piazze del Messico e decine in tutto il mondo nel pomeriggio dell’8 ottobre 2014.

“Gli studenti sono vittime di omicidi extragiudiziari, si sequestrano e si fanno sparire non solo studenti ma anche attivisti sociali e quelli che vanno contro il governo […] è una presa in giro verso il nostro dolore, non sappiamo perché fanno questo teatrino politico”. Così ha espresso la sua rabbia Omar García, compagno degli studenti uccisi, in conferenza stampa. L’esercito, che nei tartassanti spot governativi viene ritratto come un’istituzione integra, fatta di salvatori della patria e protettori dei più deboli, ha vessato gli studenti di Ayotzinapa che portavano con loro un compagno ferito:

“Ci hanno accusato di essere entrati in case private, gli abbiamo chiesto di aiutare uno dei nostri compagni e i militari han detto che ce l’eravamo cercata. Lo abbiamo portato noi all’ospedale generale ed è stato lì a dissanguarsi per due ore. L’esercito stava a guardare e non ci hanno aiutato”, continua Omar. “Il governo statale sapeva quello che stavamo facendo, non eravamo in attività di protesta ma accademiche ed è dagli anni ’50 che occupiamo gli autobus e la polizia se li viene riprendere, ma non deve aggredirci a mitragliate”.

Il normalista ha infine parlato del governatore Aguirre: “Il nostro governatore ha ammazzato 13 dirigenti di Guerrero e due compagni nostri nel 2011 e per nostra disgrazia questi sono rimasti nell’oblio. La Commissione Nazionale dei Diritti Umani, cha aveva emesso un monito, non ha più seguito la cosa e il caso è rimasto impune, chi ha ucciso è rimasto libero”.

Perseo Quiroz, direttore di Amnisty in Messico, ha spiegato che non serve a nulla che il presidente Peña si rammarichi pubblicamente dei fatti di Iguala perché “questi incubavano tutte le condizioni perché succedessero, non sono fatti isolati […] lo stato messicano colloca la tematica dei diritti umani in terza o quarta posizione e per questa mancanza di azioni accadono come a Iguala”.

Ayo Polizia comunitaria a AyotzinapaAnche il Dottor Mireles, leader del movimento degli autodefensas del Michoacán e incarcerato dal luglio 2014, ha mandato un messaggio dal carcere solidarizzando con i normalisti di Iguala. Il suo comunicato è importante perché sottolinea il doppio discorso e le ambiguità del governo: da una parte la connivenza narcos-autorità-polizia è la chiave di un massacro di studenti nel Guerrero, per cui i vari livelli del governo sono immischiati e responsabili; dall’altra si mostra una falsa disponibilità al dialogo con gli studenti del politecnico (Istituto Politecnico Nazionale, IPN) che hanno occupato l’università due settimane fa per chiedere la deroga del regolamento, da poco approvato alla chetichella dalle autorità dell’ateneo, che attenta contro i principi dell’educazione pubblica e dell’università. Nonostante le dimissioni della rettrice dell’IPN e l’intimidazione derivata dal caso Ayotzinapa, la protesta studentesca continua, chiede la concessione dell’autonomia all’ateneo (cosa già acquisita da tantissime università del paese) e mette in evidenza la scarsa volontà di dialogo dell’esecutivo.

A San Cristobal de las Casas, nel Chiapas, gli zapatisti hanno proclamato la loro adesione alle iniziative di protesta di questa giornata e in migliaia hanno realizzato con una marcia silenziosa alle cinque del pomeriggio.

L’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario) ha emesso un comunicato in cui ha definito il massacro come un “atto di repressione e di politica criminale di uno stato militare di polizia”.

Il sindacato dissidente degli insegnanti, la CNTE (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación), era presente alle manifestazioni che sono state convocate in decine di città messicane e presso i consolati messicani in oltre dieci paesi d’Europa e delle Americhe. La Coordinadora ha anche dichiarato lo sciopero indefinito nello stato del Guerrero. Nella capitale dello stato, Chilpancingo, hanno marciato oltre 10mila dimostranti.

A Città del Messico abbiamo assistito a una manifestazione imponente, non solo per il numero dei manifestanti, comunque alto per un giorno lavorativo e stimato tra le 70mila e le 100mila persone, quanto soprattutto per la diversità e il forte coinvolgimento delle persone nel corteo. Hanno risposto alla convocazione dei familiari delle vittime e degli studenti scomparsi centinaia di organizzazioni della società civile, tra cui il Movimento per la Pace e l’FPDT (Frente de los Pueblos en Defensa de la Tierra di Atenco), che sono scese in piazza con lo slogan “Ayotzinapa, Tod@s a las calles” mentre su Twitter e Facebook gli hashtag di riferimento erano  #AyotzinapaSomosTodos e #CompartimosElDolor, condividiamo il dolore.

Ayotzinapa resiste cartelloNel Messico della narcoguerra le mattanze si ripetono ogni settimana, da anni, e così pure si riproducono le dinamiche criminali che distruggono il tessuto sociale e la convivenza civile. Solo che ultimamente non se ne parla quasi più. I mass media internazionali e buona parte di quelli messicani hanno semplicemente smesso d’interessarsi della questione, seguendo le indicazioni dell’Esecutivo.

La strage di Iguala e il caso Ayotzinapa stanno facendo breccia nella cortina di fumo e silenzio alzata dal nuovo governo e dai mezzi di comunicazione perché mostrano in modo contundente, crudele e diretto la collusione della polizia, dei militari e delle autorità politiche a tutti i livelli con la delinquenza organizzata. Sono i sintomi della graduale metamorfosi dello stato in “stato fallito” e “narco-stato”. Disseppelliscono il marciume nascosto nella terra, nelle sue fosse e nelle coscienze, nei palazzi e nelle procure. Smascherano la violenza istituzionale contro il dissenso politico e sociale, aprono le vene della narco-politica ed evidenziano omertà e complicità del potere locale, regionale e nazionale. Per questo Iguala e le sue vittime fanno ancora più male.

[Questo testo fa parte del progetto NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga]

P.S. Mentre stavo per pubblicare quest’articolo, il governo messicano, attaccato da tutti fronti per la strage di Iguala e i desaparecidos di Ayotzinapa, ha annunciato la cattura di Vicente Carrillo, capo del cartello di Juárez. Un altro colpo a effetto al momento giusto per distrarre l’opinione pubblica, ricevere i complimenti della DEA (Drug Enforcement Administration) e provare a smorzare gli effetti dell’indignazione mondiale. A che serve catturare un boss importante se continuano comunque le mattanze come a Iguala e tutto resta come prima?

Galleria fotografica della manifestazione a Città del Messico: LINK

Video Cori e Sequenze del Corteo: LINK

Riassunto Fatti di Iguala – Andrea Spotti/Radio Onda D’urto: LINK

]]>
Messico e ingiustizie: resta in prigione il Prof. Alberto Patishtán https://www.carmillaonline.com/2013/09/13/messico-e-ingiustizie-resta-in-prigione-il-prof-alberto-patishtan/ Thu, 12 Sep 2013 23:44:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9331 di Fabrizio Lorusso

patish 3La fabbrica dei colpevoli messicana non si ferma mai e il professore Alberto Patishtán ne è vittima da 13 anni, accusato e sentenziato ingiustamente per omicidio. Il primo tribunale collegiale del ventesimo circuito del Chiapas ha dichiarato infondate le prove con cui gli avvocati di Alberto Patishtán, professore messicano d’etnia tzotzil detenuto ingiustamente da 13 anni e condannato a 60 anni di reclusione per omicidio, volevano ottenere il riconoscimento della sua innocenza (link notizia Desinformémonos). La “fabbrica” è una scure inarrestabile, la giustizia dei più forti contro i più deboli, l’ingiustizia perpetrata col sostegno [...]]]> di Fabrizio Lorusso

patish 3La fabbrica dei colpevoli messicana non si ferma mai e il professore Alberto Patishtán ne è vittima da 13 anni, accusato e sentenziato ingiustamente per omicidio. Il primo tribunale collegiale del ventesimo circuito del Chiapas ha dichiarato infondate le prove con cui gli avvocati di Alberto Patishtán, professore messicano d’etnia tzotzil detenuto ingiustamente da 13 anni e condannato a 60 anni di reclusione per omicidio, volevano ottenere il riconoscimento della sua innocenza (link notizia Desinformémonos). La “fabbrica” è una scure inarrestabile, la giustizia dei più forti contro i più deboli, l’ingiustizia perpetrata col sostegno della legge, anzi, ormai senza nemmeno quello. Anche quando sbaglia, anche quando è palese, anche quando un paese si mobilita contro i suoi meccanismi perversi e ne dimostra le nefandezze, fuori da ogni ideologia, la fabbrica dei colpevoli non torna indietro perché sarebbe un ammissione di colpa, un’azione culturalmente inaccettabile.

Dunque è meglio affondare la lama e scavare, punire chi alza la voce, beffarsi degli scioperi della fame e del mondo che ti osserva, incredulo. Patishtán è un detenuto politico, discriminato per la sua appartenenza a un gruppo etnico indigeno e per la sua militanza politica nella comunità de El Bosque, Chiapas, di cui è originario.

E proprio in questo territorio del Messico profondo e (para)militarizzato, comincia l’odissea dell’attivista che è stato accusato dell’omicidio di sette poliziotti federali, avvenuto il 12 giugno del 2000, nella cosiddetta “strage di Simojovel” (a questo link un racconto dettagliato in italiano). Il 19 giugno il Profe viene praticamente sequestrato mentre va al lavoro da quattro poliziotti in borghese sprovvisti del mandato di arresto. Il giorno dopo viene preso anche due militanti legati all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, i fratelli Manuel e Salvador López González, anche loro accusato di aver preso parte all’imboscata-strage.

Patishtán è stato malmenato, umiliato, torturato e poi messo agli arresti domiciliari per 30 giorni mentre si “raccoglievano” le prove contro di lui. La presenza degli interpreti delle lingue indigene messicane è quasi un’utopia e “el Profe” non fa eccezione, quindi niente traduzione. Come spesso accade in questi casi, in pratica le condanne dell’attivista si basano sul racconto contraddittorio, nel senso che è stato cambiato in diverse occasioni, di un testimone che prima dice di “non aver riconosciuto nessun partecipante dell’imboscata” e poi sostiene di “aver visto il professore poco prima di perdere i sensi”.

Le prove presentate da Patishtán, che lo avrebbero scagionato dimostrando la sua NON partecipazione all’imboscata e il suo alibi, cioè la sua presenza a una riunione in un altra città chiamata Huitiupan, sono state rigettate. Alla fine non sono state “reperite” le prove contro i due attivisti zapatisti. Invece il Profe è rimasto in galera, ha affrontato processi viziati da numerose irregolaritò e da 13 anni la sua lotta contro l’ingiustizia e gli abusi è diventata un caso internazionale, una battaglia epica e disperata contro la fabbrica dei colpevoli e la burocrazia

Quindi il caso è chiuso in Messico e i motivi veri sono chiari, hanno poco a che vedere con il famigerato rispetto dello stato di diritto. Resta solo la possibilità di un ennesimo ricorso, presso la Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), che potrebbe esprimersi a favore de “el Profe”, come viene soprannominato l’attivista Patishtán, ed “obbligare” lo stato messicano a metterlo in libertà, sempre che le istituzioni decidano di ascoltare e applicare le risoluzioni della CIDH che spesso passano inosservate. patish libero

I tre magistrati del tribunale chiapaneco con sede a Tuxtla Gutiérrez, la capitale di questo martoriato stato meridionale del Messico, si sono espressi all’unanimità. Niente dubbi, niente perplessità. Fuori dal tribunale, già da vari giorni, c’era un picchetto di sostenitori e difensori della libertà di Patishtán che non si muoveranno da lì finché un funzionario non si sarà presentato per realizzare una chiara e dettagliata esposizione delle motivazioni della sentenza.

“Né Alberto Patishtán né noi come avvocati chiederemo un indulto all’esecutivo”, ha spiegato Lionel Rivero, avvocato difensore del Profe.  “La decisione è una porcheria per tutti i messicani e non ci arrenderemo” sostiene senza mezzi termini Trinidad Ramírez, del Fronte dei Popoli in Difesa della Terra, che si trovava nell’accampamento di protesta allestito a Città del Messico l’11 settembre scorso. Il Comitato per la Libertà di Patishtán continuerà a lottare per la sua liberazione, rispettando la volontà del professore. Andrea Spotti, in un articolo su Globalist dell’aprile scorso ha ben descritto il contesto della regione in cui si svilupparono e si sviluppano queste vicende:

“Siamo nel Chiapas degli anni successivi all’insurrezione zapatista e la tensione politica e (para)militare nella regione, dove i conflitti locali si moltiplicano, é assai alta. Ad El Bosque, un imponente movimento chiede la destituzione del sindaco Manuel Gómez, priista (membro del PRI, Partido Revolucionario Institucional, al governo attualmente in Messico) accusato di corruzione, nepotismo e abuso di potere; e Patishtán, come spesso accade ai maestri rurali – in molti casi veri e propri intellettuali organici delle loro comunità -, é il portavoce della protesta. Il governo, timoroso che la situazione possa degenerare dando vita a nuove sollevazioni, manda sul posto rinforzi della polizia federale. Durante uno dei pattugliamenti delle forze poliziesche, nei pressi del villaggio di Las Limas, avviene l’imboscata, effettuata da una decina di uomini a volto coperto armati di R-15 e di AK-47. 

Inizialmente, governo statale e federale puntano il dito contro le guerriglie dell’Ezln e dell’Epr (Esercito Popolare Rivoluzionario). Gli zapatisti, attraverso le parole del Subcomandante Marcos, rispondono invece indicando nei gruppi paramilitari legati al Pri  i probabili autori della strage, la quale sarà utilizzata come pretesto per intensificare ulteriormente la militarizzazione della regione. Dopo l’arresto di Patishtán, che scatena immediatamente vivaci proteste nella sua comunità (si arriverà fino ad occupare il palazzo municipale), vengono coinvolti nelle indagini anche due basi d’appoggio dell’Ezln, uno dei quali, Salvador López, sarà arrestato”.

patishtan-12Nel marzo scorso anche la Suprema Corte messicana, che in altri casi s’era dimostrata sensibile a ingiustizie macroscopiche e disposta ad annullare sentenze in base a eventuali vizi di forma dei processi, ha voltato le spalle al Profe ha rigettato il ricorso dei suoi avvocati contro le decisioni dei tribunali del Chiapas. Una recente decisione della Corte Suprema di Giustizia messicana, la quale ha stabilito un orientamento giurisprudenziale in materia di diritti umani, ha aperto la strada all’applicazione interna, a livello costituzionale, dei trattati internazionali che siano considerati migliorativi per quanto riguarda la protezione dei diritti dell’uomo rispetto alle norme vigenti in Messico. Ciononostante l’applicazione di tale orientamento, che potrebbe forse servire a Patishtán una volta ottenuta, eventualmente, una sentenza favorevole della CIDH, è stato depotenziato dalla stessa Corte Suprema con la previsione di eccezioni, casistiche e limiti che hanno fatto parlare addirittura di un retrocesso sul fronte dei diritti. 

In carcere l’attivista ha sempre cercato di rendersi utile, inegnando a leggere a a scrivere ai detenuti analfabeti o fungendo da interprete-traduttore per i compagni di cella che non parlano lo spagnolo. Progressivamente si avvicina agli zapatisti, partecipa alle mobilitazione per il miglioramento delle condizioni di vita in prigione, si fa portavoce degli altri detenuti e nel 2006 entra a far parte della Otra Campaña, l’offensiva politica dell’EZLN, basata sulla VI Dichiarazione della Selva Lacandona, che irrompe nella campagna elettorale e denuncia la corruzione del sistema politico e di tutti partiti che lottano per il potere politico e il controllo dello stato. Sempre in quell’anno fonda

Nel 2006 entra a far parte de La Otra Campaña e fonda, insieme agli altri reclusi aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, il collettivo La Voz del Amate che, collegando tra loro le iniziative di resistenza delle carceri del Chiapas con movimenti sociali esterni, negli anni ha fatto ottenere il rilascio di 137 prigionieri. Nell’ottobre 2012 ha subito un intervento chirurgico per l’asportazione di un umore benigno al cervello e ha vinto la battaglia contro il cancro. In questa breve video-intervista del luglio scorso El Profe parla di un’altra dura battaglia, delle sue sofferenze e dell’allontanamento dalla sua famiglia, ma soprattutto ricorda con dignità al Messico e al mondo che “a volte uno deve passare da queste situazioni affinché altra gente si accorga di quello che viviamo” e che il suo caso è solo “uno dei tanti tra quelli di persone che sono detenute ingiustamente in qualunque prigione, molte volte per non saper parlare spagnolo, per non avere soldi o per non saper leggere e scrivere”.

Segnalo due raccolte di firme per la libertà di Patishtán: 1) qui LINK e 2) Appello e firme di Amnesty International “Nessun giorno in più senza giustizia”: LINK

Documentario sul caso di Alberto Patishtán: LINK

Hashtag Twitter: #LibertadPatishtan

Comitato Città del Messico Twitter @TodosxPatishtan

 

 

]]>