zapatismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il dialogo rivoluzionario tra i molti mondi che insorgono https://www.carmillaonline.com/2021/10/01/il-dialogo-rivoluzionario-tra-i-molti-mondi-che-insorgono/ Fri, 01 Oct 2021 03:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68281 di Fabio Ciabatti

Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21

Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno  aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. [...]]]> di Fabio Ciabatti

Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21

Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno  aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. Peccato che, in quelle terre, la malapianta del fondamentalismo, ben lungi dall’essere il frutto autoctono di un preteso sottosviluppo, fu coltivata proprio dagli Stati Uniti, con l’aiuto dei loro alleati sauditi e pakistani, per infestare il cortile di casa del fu impero sovietico. La realtà dei fatti, però, deve essere rimossa dall’ideologia dominante che deve trasformare una prova contraria in una sorta di prova per assurdo per confermare l’idea di una “storia universale” destinata a viaggiare in un’unica direzione possibile, la modernità capitalistica. Come dimostra il caso afghano, infatti, l’unica alternativa possibile a questo percorso è un’assurda catastrofe.

L’idea di una storia universale, come ci spiega Massimiliano Tomba nel suo libro Insurgent universality. An alternative legacy of modernity (testo che ha avuto una nuova pubblicazione nel 2021 in formato paperback), ha una connotazione eminentemente eurocentrica dal momento che finisce per svalutare ogni possibile traiettoria storica qualitativamente differente da quella percorsa dalla modernità occidentale. Ogni forma sociale non statuale o non capitalistica diventa semplicemente pre-statuale e pre-capitalistica, destinata perciò a scomparire in quanto forma arretrata rispetto alla modernità occidentale.
Non sorprende dunque l’esigenza di Provincializzare l’Europa, come recita il titolo di un celebre libro di Dipesh Chakrabarty, per consentire ai paesi del Sud globale di sperimentare forme autonome di sviluppo. Senonché questa linea di pensiero, sostiene Tomba, ha finito per essenzializzare l’Occidente, ignorando, al pari dell’ideologia dominante, che nel suo ambito si sono espresse ripetutamente traiettorie storiche alternative per quanto fugaci e violentemente represse. Riportare al centro dell’attenzione queste possibili biforcazioni del tempo storico è il compito che si pone l’autore prendendo in considerazione quattro frangenti storici: la rivoluzione francese del 1789, la comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e l’insurrezione zapatista del 1994 in Messico.

Concentriamoci per ora sulla storia europea. I tre episodi rivoluzionari mostrano alcuni elementi comuni. In opposizione alla centralizzazione statuale del potere che caratterizza la traiettoria storica dominante, i sanculotti, i comunardi parigini e i rivoluzionari russi hanno sostenuto e praticato una concezione dell’organizzazione sociale che prevedeva una incomprimibile pluralità di poteri: club, sezioni cittadine, soviet ecc. Una simile pratica portava con sé l’impossibilità di comprimere il conflitto mantenendo sempre aperta la possibilità di imprevisti sviluppi.
L’universalità insorgente è costituita da soggettività collettive che praticano direttamente i propri diritti e le proprie libertà sperimentando nuove forme di organizzazione sociale e politica. Lo stato moderno, invece, si afferma come potere centralizzato perché prevede un’assenza di organizzazioni intermedie. Esso dunque governa su una massa di individui atomizzati, trattati sempre come potenziali vittime che, per esercitare diritti e libertà, devono essere tutelate e limitate dal potere statale.
L’universalità insorgente non circoscrive a priori il suo raggio d’azione perché ha una natura intrinsecamente espansiva: si pensi alla repubblica universale presagita durante la rivoluzione francese e ripresa dalla Comune, o alla “Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato” del 1918 che non fa appello a un’identità nazionale o etnica predeterminata, ma a un soggetto che vuole abolire ciò che definisce la sua stessa identità, il rapporto sociale di sfruttamento. Il potere moderno, invece, per definirsi deve chiamare in causa un’alterità per poi escluderla. La cittadinanza moderna lascia fuori per necessità chi non appartiene alla nazione.
Durante i tre episodi rivoluzionari vengono messi in discussione i rapporti di proprietà capitalistici anche quando, come nel caso dei due eventi francesi, non si abbraccia direttamente la pratica dell’espropriazione dei più ricchi. Nelle società moderne la proprietà privata non è soggetta, come in passato, a un insieme articolato di limiti e obblighi, ma diventa diritto assoluto ed esclusivo di disporre dei propri beni. Nel corso degli avvenimenti rivoluzionari viene invece posto il problema di quanto la proprietà privata sia compatibile con la democrazia. Ne consegue la necessità di riorganizzare la fabbrica sociale nel campo della produzione e della riproduzione attraverso la riproposizione aggiornata di concetti come quelli di dominium utile o di possesso/utilizzo come distinto dalla proprietà. Emerge, in sintesi, un concetto di socializzazione dei mezzi di produzione che è cosa diversa da quello di statalizzazione perché si incentra sulla restituzione del controllo dei mezzi di produzione, in primo luogo la terra, nelle mani delle collettività organizzate.

Un ulteriore aspetto, centrale nell’argomentazione di Tomba, è quello dei diversi strati temporali che si intrecciano nel corso degli eventi rivoluzionari. Le comunità insorgenti fanno frequentemente ricorso ad arcaismi, cioè tradizioni, memorie e istituti del passato, come guida per il presente. Per esempio l’istituzione medievale del mandato imperativo riemerge nelle esperienze dei sanculotti, dei comunardi e dei Soviet. Tomba precisa che “non si tratta di mettere in contrasto la tradizionale temporalità delle forme comunitarie con quella dello stato nazione e del modo di produzione capitalistico. Questa opposizione rimane astratta o romantica”.1 La tensione generata dall’attrito tra differenti strati temporali genera infatti nuove e inedite configurazioni di un preesistente materiale giuridico, politico ed economico. Il passato presenta se stesso come un arsenale di possibili futuri che possono riemergere perché i soggetti insorgenti rendono attuale ciò che sarebbe potuto essere, ma è stato represso.
Questa repressione può essere attuata dalle classi dominanti, come nel caso della Comune, ma anche da alcune componenti delle forze rivoluzionarie: i giacobini con il Terrore mettono la pietra tombale sull’“eccesso democratico” rappresentato dai sanculotti; i bolscevichi intraprendono una “guerra contro il tempo” per superare l’”arretratezza” russa facendosi portatori di una centralizzazione del potere nelle mani dello stato e di una taylorizzazione delle forze produttive a discapito delle forme di autogoverno contadine e della pluralità dei poteri rappresentata dai soviet.

Insurgent universality è un libro originale e ambizioso. L’affresco storico-filosofico di Massimiliano Tomba merita di essere approfondito da tutti coloro che non vogliono rassegnarsi a un presente spacciato come unico esito possibile della storia universale ma, nello stesso tempo, devono fare i conti con le macerie di quella che è stata per molto tempo la tradizione rivoluzionaria dominante, finendo per apparire come l’unica possibile. Per questo può essere utile interloquire idealmente con l’autore su alcuni punti che meriterebbero un approfondimento. Per iniziare, si può concordare sul fatto che il concetto di storia universale, così come ci viene generalmente presentato, sia il frutto di una filosofia della storia unilineare che, concretamente, si è imposta grazie a “una robusta dose di violenza economica e extraeconomica”. Una precisazione, però, può essere opportuna: la storia universale ha cominciato ad esistere realmente dal momento in cui il capitalismo ha iniziato ad espandersi su tutto il globo. E tale espansione non è stato soltanto il frutto “di una pretesa superiore efficienza della proprietà privata sulla proprietà comune”2. Il capitalismo, infatti, ha avuto l’effettiva capacità di sviluppare, in misura mai vista prima, quelle forze produttive che si sono rivelate la base materiale sia per il trionfo definitivo delle politiche di potenza degli stati moderni sia per la riproduzione, sempre più allargata, di uno sfavillante mondo delle merci dall’indubbio fascino planetario.
Ciò non si significa sostenere che il capitalismo sia stato un gradino necessario dello sviluppo storico, ma soltanto che la sua comparsa, dovuta a fattori storico-geografici contingenti, ha finito per determinare un salto storico a livello globale, ponendo condizioni nuove e ineludibili con cui si deve confrontare l’universalità insorgente. Per evitare fraintendimenti si precisa che per salto storico, come nota Tomba, non si deve intendere un’accelerazione verso un esito predeterminato, ma un cambio di traiettoria che pone la storia su un percorso imprevisto.
Si potrebbe anche ipotizzare che sia possibile parlare di universalità insorgente solo dopo questo salto storico. Forse la scelta è casuale, ma sta di fatto che la narrazione di Tomba parte dal 1789, cioè dalla prima rivoluzione che fa dell’universalismo borghese la sua bandiera proclamando tutti gli uomini liberi e uguali. In questo frangente storico, ci dice Tomba, le donne, i poveri e gli schiavi di Haiti obiettano che quel concetto di “uomo” non li rappresenta. Ma, precisa l’autore, non si è trattato di una negazione pura e semplice del valore universale dei diritti dell’uomo proclamati dalla rivoluzione. Il termine “uomo”, utilizzando un linguaggio che non appartiene all’autore, diventa un significante vuoto il cui significato è conteso dai differenti attori sociali in conflitto. In altri termini, più vicini a quelli del testo, il significato di “uomo” viene reinterpretato dalle comunità insorgenti facendolo diventare il vettore di una nuova universalità capace di presagire una forma sociale diversa da quella borghese. Insomma, l’universalità insorgente è in qualche misura debitrice dell’”universalismo emaciato” della borghesia.

A questo punto una domanda si impone. Perché qualificare le soggettività insorgenti come universalità? Opponendosi a una pretesa storia universale, non dovrebbe farsi valere la loro natura irrimediabilmente particolare come vorrebbe un approccio post-colonial o postmoderno? Il dubbio viene rafforzato quando leggiamo che l’universalità insorgente costituisce un esperimento incompleto e che proprio questa incompletezza può essere condivisa. In realtà l’autore argomenta lungo tutto il libro che questi esperimenti hanno qualcosa in comune. Essi certamente parlano lingue diverse, ma tra loro traducibili. C’è un legame significativo, sostiene Tomba, tra traducibilità e universalità anche quando ci occupiamo della reciproca comprensione tra differenti culture e pratiche sociali. Queste, ci ricorda l’autore citando Gramsci, possono comunicare tra loro perché rappresentano differenti risposte a problemi storici sostanzialmente comuni. Si può allora aggiungere che questa traducibilità è rafforzata dal fatto che i differenti soggetti insorgenti si trovano per la prima volta nella storia ad affrontare lo stesso nemico, il capitalismo che si fa storia universale.
Tutto ciò è confermato dall’esperimento Zapatista che si afferma in un contesto storico e geografico assai diverso da quello europeo. “Gli Zapatisti hanno intrapreso la strada che fu abbandonata in Russia dai Bolscevichi: la strada lungo la quale la politica rivoluzionaria si unisce con le comunità indigene”.3 Nonostante la pratica zapatista sia profondamente radicata nella cosmologia, nella epistemologia, nel rapporto con la natura dei popoli indigeni del Chiapas, è possibile ravvisare molti punti di contatto con le rivoluzioni europee: la pluralità dei poteri, la proprietà collettiva delle comunità contadine, il mandato imperativo ecc. “Il mondo che vogliamo contiene molti mondi”, ci dicono gli zapatisti. Mondi in grado di dialogare tra di loro, possiamo aggiungere.

In conclusione, si può notare che sarebbe stato interessante approfondire maggiormente l’organizzazione militare degli zapatisti e le condizioni che hanno reso possibile il suo consolidamento. Questa organizzazione, senza rinunciare alle caratteristiche proprie dell’universalità insorgente, è un tentativo contemporaneo di rispondere ad alcune esigenze pratiche che ogni rivoluzione ha dovuto affrontare per non soccombere. La centralizzazione del potere nelle mani dello stato è certamente frutto di scelte politiche figlie di una specifica visione del mondo. Tomba ci ricorda, per esempio, “L’ossessione [dei bolscevichi] di correre avanti in modo da accelerare l’esito socialista trasformò lo stato in un apparato estremamente centralizzato e modellò l’industria in un laboratorio tayloristicamente disciplinato”.4 Ma occorre aggiungere che le scelte di cui stiamo parlando sono sottoposte a una notevole forza di inerzia perché rispondono a problemi oggettivi: l’urgenza di rispondere in maniera più efficiente agli immancabili attacchi dei nemici interni ed esterni; un compito che porta con sé l’impellenza di ripristinare il funzionamento della fabbrica sociale, inevitabilmente sconvolta dagli eventi rivoluzionari anche in considerazione del fatto che gli embrioni di una nuova organizzazione necessitano di tempo per germogliare. Riuscire ad immaginare come una rivoluzione possa consolidarsi senza che le esigenze militari schiaccino le istanze di libertà e di autogoverno è un passo necessario per capire come l’universalità insorgente si possa sottrarre a quello che sembra il suo tragico destino: squarciare ripetutamente il cielo come un lampo glorioso che, ogni volta, viene rapidamente inghiottito dall’oscurità della reazione.


  1. M. Tomba, Insurgent Universality, Oxford University Press, New York, 2019, p. 9. Traduzione mia, come le seguenti. 

  2. Ivi, p. 224. 

  3. Ivi, p. 211. 

  4. Ivi, p. 123. 

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Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo https://www.carmillaonline.com/2019/07/12/por-la-vida-y-la-libertad-il-messico-di-amlo-tra-resistenze-e-capitalismo/ Thu, 11 Jul 2019 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53572 di Fabrizio Lorusso

[Pubblichiamo come segnalazione un estratto di Fabrizio Lorusso dal libro, a cura di Andrea Cegna*, Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo, Agenzia X, Milano, 2019. Il libro, illustrato, contiene un’interessante introduzione sulla storia recente del Messico di Andrea Cegna, un prologo di Pino Cacucci e interviste con Juan Villoro, Paco Ignacio Taibo II, Raúl Zibechi, Fernanda Navarro, Gilberto López y Rivas, Fabrizio Lorusso, Oswaldo Zavala, Pablo Romo, Araceli Olivos, Gustavo Esteva, Amaranta Cornejo, Federico Mastrogiovanni, Claudio Albertani, Carlos Fazio, Guillermo Briseño].

Nota di contesto. Alla guida di una coalizione di centrosinistra [...]]]> di Fabrizio Lorusso

[Pubblichiamo come segnalazione un estratto di Fabrizio Lorusso dal libro, a cura di Andrea Cegna*, Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo, Agenzia X, Milano, 2019. Il libro, illustrato, contiene un’interessante introduzione sulla storia recente del Messico di Andrea Cegna, un prologo di Pino Cacucci e interviste con Juan Villoro, Paco Ignacio Taibo II, Raúl Zibechi, Fernanda Navarro, Gilberto López y Rivas, Fabrizio Lorusso, Oswaldo Zavala, Pablo Romo, Araceli Olivos, Gustavo Esteva, Amaranta Cornejo, Federico Mastrogiovanni, Claudio Albertani, Carlos Fazio, Guillermo Briseño].

Nota di contesto. Alla guida di una coalizione di centrosinistra e supportata da alcuni movimenti sociali, Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, è il vincitore delle ultime presidenziali in Messico, un’elezione che ha suscitato molte speranze, anche se le riforme proposte non sono molto diverse da quelle di chi lo ha preceduto.
Por la vida y la libertad è una visione caleidoscopica del Messico di oggi e una tesi, ovvero che nulla come l’insurrezione zapatista e la firma del Nafta, entrambi nel 1994, hanno determinato una radicale trasformazione del paese. Due fronti opposti per un conflitto che ha molto da insegnare anche a noi. Il 2019 è un anno cruciale per capire i nuovi rapporti di forza che si stanno sviluppando tra il potere costituito e l’Ezln, tra Obrador e tutte quelle voci fuori dal coro che non hanno alcuna intenzione di illudersi. In questi anni l’autore ha collezionato numerosi viaggi nel paese centroamericano, le opinioni qui raccolte rappresentano alcuni punti di vista critici, un insieme di riflessioni da diversi profili intellettuali, artistici e militanti che garantiscono al lettore una straordinaria immersione nella contemporaneità messicana.

Intervista di Andrea Cegna con Fabrizio Lorusso

A.C.: Immaginando due linee, la prima che rappresenta il potere, le leggi, lo stato, l’economia e la repressione; la seconda le resi- stenze, le ribellioni, i movimenti Possiamo immaginarle che si muovano con direzioni differenti per lunghi tratti dello spaziotempo che va dalla fine della rivoluzione messicana al luglio 2018. In questo loro movimento indipendente, però, ci sono stati dei momenti in cui le due linee si sono incrociate. Nel 1968, nel 1988, nel 2012 e sicuramente il 1° gennaio del 1994 con l’entrata in vigore del Nafta da una parte e l’inizio dell’insurrezione zapatista dall’altra. Cosa è diventato il Messico venticinque anni dopo quel primo gennaio del 1994?

FL: L’incontro-scontro tra la linea dei movimenti e quella politica istituzionale è sicuramente una costante della storia messicana. Anche nel 1985, l’anno in cui il terremoto del 19 settembre fece circa 10.000 morti e decine di migliaia di persone si riversarono per le strade in preda al panico ma altre invece erano lì con la voglia di aiutare e organizzarsi. Così facendo, però, segnalarono l’inerzia e le menzogne del governo del presidente Miguel de la Madrid che voleva far credere alla comunità internazionale che tutto andava per il meglio, che i morti erano relativamente pochi e che lo stato aveva mantenuto il controllo e l’ordine. 

Era l’epoca del vecchio Pri, il partito egemonico e quasi unico della “dittatura perfetta” del Novecento e della transizione al neoliberalismo. Oggi le famiglie dei desaparecidos hanno creato un imponente movimento di “cercatori di tesori”, di resti dei loro familiari scomparsi, e hanno trovato migliaia di ossa nelle fosse clandestine. Oggi, come nel 1985, la società è sottoposta a vessazioni e repressioni che evidenziano l’incapacità, la mala fede e la collusione narco-politica delle autorità. Per mesi e mesi anche Enrique Peña Nieto, presidente del Messico rappresentante del cosiddetto nuovo Pri neoliberista dal 2012 al 2018, il quale dopo la sparizione forzata dei quarantatré studenti e l’uccisione di tre di loro e di altre tre persone a Iguala, il 26 e 27 settembre 2014, ha provato in tutti i modi, senza riuscirci peraltro, a ricostruire un’immagine del Messico da cartolina a uso e consumo della platea internazionale dei turisti e degli investitori stranieri. Ha cercato anche di nascondere le responsabilità statali, federali e governative specialmente dei depistaggi nelle indagini condotte dalla procura, anche mediante l’uso di tortura e manipolazione delle prove.

Il 1985 credo sia stato un punto di svolta importante in cui la società civile è potuta riemergere come un attore decisivo, almeno nella capitale, e ha portato alla vittoria delle sinistre guidate da Cuauhtémoc Cárdenas alle elezioni del 1988. Sappiamo però che la storia andò diversamente. Durante i giganteschi brogli del sistema, Salinas de Gortari, del Pri, si insediò alla presidenza e spinse il Messico sempre più nella direzione della globalizzazione neoliberale. Il suo modo di condurre il paese fu sregolato, selvaggio, incomparabile rispetto alle realtà europee. Il mercato e la concorrenza cominciarono ad applicarsi sfrenatamente in ogni campo, erodendo il tessuto sociale e la solidarietà in ampi settori della popolazione, distruggendo le comunità indigene e rurali perché, secondo il dogma, sarebbero stati “ostacoli per la modernizzazione del paese”. Nel 1994 le promesse di Salinas relative all’ingresso del Messico nel “primo mondo” si infransero contro il muro della degna rabbia dell’insurrezione zapatista, di certo uno dei momenti più importanti nella storia dei movimenti sociali a livello globale contro il capitalismo, specialmente nella sua versione neoliberale e la globalizzazione, non quella delle culture, dei popoli e dei saperi ma quella della finanza, del gran capitale e dell’accumulazione per spoliazione. Forse a Seattle nel 1999, a Porto Alegre nel gennaio 2001 e a Genova nel luglio dello stesso anno si vissero momenti più alti e intensi, ma anche i più duri dei movimenti globali che lottavano per un altro mondo possibile e contro la globalizzazione neoliberale, del quale gli zapatisti del Chiapas erano un riferimento importantissimo.

Il Nafta non nasce il 1° gennaio del 1994, quella è la data simbolica che norma una legge che permette a Peña Nieto, durante il suo mandato, di applicare le cosiddette cinque riforme strutturali che erano già state progettate da Salinas de Gortari negli anni Come e perché il Nafta è stato deflagrante per il Messico e come si inserisce dentro le logiche del potere messicano?

Quando il Messico entra nel Gatt, nel 1986, inizia ad applicare le politiche di aggiustamento strutturale dell’economia secondo le ricette standardizzate dell’Fmi. Salinas promulga la legge mineraria e apre la possibilità di vendere le terre comuni delle campagne messicane. Intanto si privatizza e liberalizza l’economia a marce forzate. Questi provvedimenti, potenziati e ampliati dai governi successivi, aprono la strada al land grabbing, cioè all’espropriazione di terre e all’incremento drammatico delle concessioni per lo sfruttamento del sottosuolo e delle risorse naturali. Il Nafta diventa quindi il suggello di una strategia più ampia e articolata ed è questa la condizione che influenzerà gli eventi futuri, tanto dal lato dell’espansione capitalista accelerata, quanto da quello delle resistenze, delle assimilazioni, delle pratiche e delle socialità che emergono come conseguenza. Dal 2000 in poi le imprese minerarie, in gran parte statunitensi e canadesi in associazione con poche poderose famiglie appartenenti al Consiglio messicano degli affari (Cmn, Consejo mexicano de negocios), vedranno moltiplicarsi le concessioni e saranno al centro di conflitti sociali a causa degli avvelenamenti e della distruzione del territorio. Soprattutto con il fracking e le mine a cielo aperto, ma anche perché non pagano praticamente le tasse e operano in combutta con il crimine organizzato e le autorità pubbliche per reprimere la dissidenza sociale, far sparire o ammazzare persone, oppure corrompere le autorità locali e statali. Solo una misera parte dei loro guadagni finisce alle comunità, che vedranno compromessi per sempre il tessuto sociale e la loro salute, vedendo invece una quantità di soldi considerevole confluire nelle casse di politici locali, in quelle delle forze armate nazionali e in quelle di gruppi criminali difficili da descrivere come narcotrafficanti che assomigliano sempre più ai paramilitari colombiani.

Nel 1994 Salinas lascia il governo a Ernesto Zedillo e il sogno “da primo mondo” si trasforma in un incubo quando all’inizio del 1995 esplode una delle più gravi crisi finanziarie e del debito nota come El efecto tequila: svalutazione e nuove misure draconiane fanno sprofondare il paese nella morsa delle istituzioni creditizie internazionali e delle agenzie di rating. La povertà torna ad aumentare, arriva a oltre il 60% e, come negli anni ottanta, si parla di un altro decennio perduto. Gli economisti dicono che la medicina neoliberale va rinforzata e che la crisi è dovuta alla poca risolutezza nell’applicazione della formuletta magica.

Il Nafta era entrato in vigore nel gennaio del 1994, e proprio il primo giorno di quel mese l’Ezln ricordava al mondo e al governo messicano che esisteva un “Messico altro” che era stato abbandonato e che ora esplodeva, rivendicando autonomia e riconoscimento. Curiosamente, anzi in modo calcolato, il trattato di libero commercio che avrebbe dovuto sancire il take off del Messico, entrava in vigore mutilato: piena libertà commerciale in Nord America, anche se gli Usa si riservavano la protezione a oltranza del settore agricolo e della proprietà intellettuale, con libera circolazione dei capitali, ma nessuna libera circolazione delle persone. Anzi, Clinton si dedica alla costruzione del muro alla frontiera e la militarizza pesantemente, una politica seguita praticamente da tutti i suoi successori. Trump non ha inventato nulla, solo qualche tweet in più e una retorica razzista palese, ma di fatto la frontiera è stata blindata giusto quando entrava in vigore il trattato per evitare i flussi di persone. La frontiera è diventata dunque una risorsa strategica per la creazione di valore e di consensi politici. La migrazione si è trasformata in una questione di sicurezza. Questo ha provocato il Nafta. I principi classici del libero commercio in economia sono stati violentati perché, direbbe Smith, senza la libera circolazione di tutti i fattori produttivi non c’è libero commercio ed equilibrio. Ma va meglio così, anzi il modello è pensato apposta per lo sfruttamento della frontiera e per i territori che si estendono a sud di essa.

Dunque il Messico di oggi è la conseguenza di decisioni politiche che invece vengono spesso presentate come scelte tecniche, economiche e neutrali, come se l’economia non fosse parte delle scienze sociali e della politica. Però il Messico che lotta e resiste è senza dubbio debitore dell’insurrezione zapatista e di tutta la storia dei ribelli chiapanecos. La costruzione dell’autonomia nei caracoles e di altre comunità messicane come Cherán o Ostula serve da esempio per le nuove e le vecchie generazioni, anche se l’élite preferisce cancellarla o occultarla dietro al miraggio del consumismo e al mito della meritocrazia e le pari opportunità. Una linea contestataria dal basso ha continuato a creare immaginari e rinnovare repertori a favore della trasformazione con i movimenti dei genitori dei quarantatré studenti di Ayotzinapa, con il femminismo, il movimento per la pace Giustizia e dignità, il #YoSoy132 e le proteste dei docenti democratici della Cnte (Coordinadora nacional trabajadores de la educación) contro la riforma educativa, che in realtà punta solo a precarizzare il lavoro. Ricordo che la Cnte rappresenta l’ala dissidente dei docenti, nata negli anni settanta e molto forte a Oaxaca, Guerrero, Michoacán, Chiapas e Città del Messico, un’organizzazione che lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori, non per la loro cooptazione governativa, e per la democratizzazione del sindacato più grande dell’America Latina, il Snte (Sindicato nacional trabajadores de la educación) che per anni è stato legato a livello corporativo ai governi del Pri e del Pan. Dall’altra parte il neoliberalismo, nonostante il suo discredito dopo la crisi del 2007 e 2009, è incarnato nella politica dei tecnici che con Peña Nieto hanno approvato le riforme strutturali, tra cui spicca quella energetica, e resta un sistema di pensiero egemonico che deve essere sconfitto attraverso un lavoro fino di accompagnamento delle grandi lotte nazionali o regionali a livello locale.

Il Nafta entra nella logica del potere messicano da due punti di vista: esterno e interno. Da una parte è un trattato geopolitico con il Messico che si separa idealmente dal resto dell’America Latina e dalla solidarietà subcontinentale per abbracciare Washington. In Sud America il caso più simile è forse quello della Colombia. La politica statunitense passa da questi fedeli alleati che, guarda caso, sono anche quelli più coinvolti e penalizzati, in termini di vittime e di economia, dalla cosiddetta guerra alle droghe: sangue e armi a sud, droghe e denari a nord. Ma c’è dell’altro. Questo posizionamento, forse più stringente nel caso messicano per motivi geografici e storici, implica una sovranità limitata e il pagamento di un costo umano enorme: oltre 250.000 morti in Messico e 36.000 desaparecidos dal 2007 a oggi per una guerra al narcotraffico che, in realtà, si traduce in una politica di sicurezza interna militarizzata. E qui arrivo agli affari interni. La guerra alle droghe giustificata e rilanciata dagli Usa, dopo che si è spenta la guerra al “pericolo comunista” con la caduta dell’Urss, è la versione latinoamericana della guerra al terrore o al terrorismo post attentato alle Torri gemelle del 2001 e in qualche modo la completa, la rinforza.

Andiamo al 2006, alla guerra alla droga di Calderón. Possiamo responsabilizzare il Nafta o i taciti accordi congiunturali se il Messico è diventato un paese di transito di droghe e migranti?

Internamente Messico e Colombia usano questa guerra e i finanziamenti generosi del governo americano per fini di controllo sociale della popolazione, non delle droghe. I due paesi vivono in uno stato di eccezione permanente, come descritto da Walter Benjamin, che è diventato la regola: i militari s’incaricano della sicurezza pubblica, che sarebbe appannaggio delle polizie, con la scusa che un presunto nemico dello stato (i narcos) sta prendendo il sopravvento, lo stato in parte è colluso e corrotto, ma apparentemente sta combattendo dal lato dei buoni contro i cattivi trafficanti. Con questa retorica ufficiale il governo può militarizzare intere regioni e violare costantemente i diritti umani (sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziarie, spostamenti di popolazione, tortura), la lotte ai narcos, che vengono mitizzati ed esaltati oltremodo mediante narrazioni propagate dalle autorità e dai mass media, è solo una scusa mentre il vero obiettivo è l’espropriazione dei territori e l’implementazione di politiche neoliberiste che favoriscono una minoranza rapace di investitori stranieri e nazionali.

Queste politiche distruttive del tessuto sociale hanno suscitato nel 2017 circa 1200 conflitti sociali legati all’attività delle compagnie minerarie. La repressione, specialmente per quanto riguarda quella armata interna, viene delegata alle forze armate con uno stato d’eccezione, sostenuto da training e finanziamenti degli Usa. Certamente esistono gruppi criminali più o meno potenti e più o meno organizzati, ma ormai la maggior parte lucrano tanto con il traffico di droga quanto con quello di persone e armi, con l’estorsione e la tratta, con il furto di combustibile e il riciclaggio. I business criminali si sono moltiplicati, ma va detto che quelli che sono stati ampliati o legalizzati con le riforme strutturali degli ultimi sei anni, per esempio quelli relazionati alle concessioni minerarie, alla privatizzazione dell’acqua, allo sfruttamento dei boschi e all’estrazione di idrocarburi, sono diventati preda dei poteri de facto sul territorio, cioè delle compagnie straniere o nazionali, comunque private, e dei gruppi armati organizzati che lavorano per queste e cogestiscono l’estrazione di risorse, oltre che delle autorità stesse. L’esercito in molte zone si dedica a controllare gli affari leciti e illeciti e a partecipare come azionista nella ripartizione delle prebende del narcotraffico, utilizzando come braccio armato le polizie locali colluse con gli stessi gruppi criminali. Si può parlare tranquillamente di paramilitarismo in ampie zone del paese. Lo stato e la politica, nell’ambito del modello socioeconomico adottato, sono da intendersi come precondizioni per lo sviluppo dei business illeciti: paramilitarizzazione, vendita di protezione e traffico di armi e persone, droghe, espropriazioni, land grabbing, furto e contrabbando di combustibili, compravendita di permessi, appalti e concessioni, estorsioni ecc. E si occupano anche di creare mercati attraverso la regolazione selettiva dell’economia per favorire i settori più potenti delle élite. Il potere dei gruppi armati e dei narcotrafficanti, a volte notevole, è spesso sovrastimato dall’opinione pubblica e dalla mitologia del narco come se si trattasse di entità onnipotenti. Questo deriva da una serie di affari legali, nel limbo della legislazione oppure totalmente illegali, i quali non sarebbero possibili senza la partecipazione di alcuni apparati statali, funzionari pubblici e imprese regolarmente operanti nel mercato. La situazione è dunque molto più articolata e complessa, frammentata e diversa a seconda delle regioni e delle autorità coinvolte, rispetto a quella dipinta dai media in questi anni.

Anche l’insurrezione zapatista non nasce il 1° gennaio del 1994. Si forma in almeno dieci anni di preparazione clandestina e ha le sue radici a Monterrey con le Fln. In che maniera lo zapatismo ha influenzato i movimenti messicani e in generale tutta la società?

I movimenti messicani, almeno dal 1968 in poi e di nuovo dal 1994, hanno vissuto fasi alterne, ondulatorie con esplosioni entusiasmanti e riflussi, senza riuscire del tutto a vincolarsi a livello nazionale, internazionale o nelle singole lotte. Spesso quando nasce un movimento, i resti dei suoi predecessori tendono a unirvisi e a sommare le domande sociali, con il rischio però di diluire l’essenza del nuovo movimento e creare contraddizioni. Si percepisce quindi una certa discontinuità, determinata anche dalla vigorosa repressione e dagli strumenti di cooptazione che lo stato messicano ha dispiegato dall’epoca del partito egemonico (Pri al governo dal 1929 al 2000) fino a quella attuale in cui la violenza di stato viene giustificata e legittimata dalla permanente “narcoguerra” militarizzata. Il Chiapas e il Guerrero, da sempre in povertà estrema, sfruttati e militarizzati per le loro immense ricchezze naturali, esprimono alti potenziali di ribellione dovuti alle disuguaglianze e grazie alla tradizione storica di lotta indigena e dissidenza sociale. Queste regioni sono state dagli anni sessanta dei laboratori della repressione e delle sue legittimazioni ideologiche in voga attualmente. Ciudad Juárez e la frontiera settentrionale lo sono stati dalla metà degli anni novanta con l’entrata in vigore del Nafta, il boom delle maquiladoras e il fenomeno criminale dei femminicidi. Juárez inquadrata mediaticamente dal governo come “il centro del male”, è stata un laboratorio dove sperimentare la militarizzazione in modo diverso perché si trattava di una metropoli di frontiera, non di una regione montagnosa o tropicale come il Guerrero e il Chiapas. In realtà però i centri del dolore e della violenza sono stati e sono molti di più, al di là delle costruzioni mediatiche e politiche di alcuni luoghi ben delimitati ed emblematici. È provato inoltre che, come è successo a Juárez, la strategia d’invasione militare del governo ha portato a maggiori indici d’omicidio, femminicidio e violenza in generale, mostrando apertamente come l’obiettivo non era risolvere un problema (il narcotraffico, i business illeciti, le pandillas, l’insicurezza ecc.) ma mantenerlo e magari riportarlo sotto il controllo delle forze federali e della sovranità centrale. A ogni modo le diverse grida di ribellione e ondate dei movimenti messicani degli ultimi anni, almeno dal 1994 zapatista in avanti, hanno sempre lasciato boccioli d’insurrezione, repertori, esperienze condivise, narrazioni e immaginari che sono passati e si sono riprodotti nel tempo grazie al lavoro incessante di mantenimento e rielaborazione della memoria, individuale e collettiva, di militanti e attivisti, dei loro movimenti, delle loro azioni, delle loro vittorie e dei loro errori.

Non credo che il Nafta sia il solo responsabile del fatto che il Messico sia diventato lo snodo di flussi migratori ed economici, tra cui anche il trasporto di droga. Tuttavia il Nafta e la globalizzazione, non controllabile del tutto, hanno anticipato e accelerato processi e problematiche in atto, anche perché il contesto era quello di un paese in forte crisi, con un sistema politico in disfacimento alla fine del periodo egemonico del Pri e con una democrazia in transizione, una struttura sociale ed economica sempre più esposta e lasciata alle forze del mercato e anche al capitalismo de compadres. C’è anche da tenere da conto la democratizzazione lenta e deludente dei paesi del Centroamerica dopo la fine delle guerre civili negli anni ottanta e novanta. In realtà la regione non ha recuperato la pace e i problemi che segnalavano los de abajo si sono esacerbate con il neoliberalismo. La migrazione è di certo un fatto prevedibile e strutturale in una situazione del genere. Inoltre il Messico è diventato un paese di transito di droghe e, in parte, di consumo, soprattutto dagli anni 2000. È tra i primi al mondo in quanto a produzione di oppiacei e marijuana. La coca colombiana e peruviana, così come i precursori chimici per produrre metanfentamine, hanno nel Messico un grande hub, uno snodo di elaborazione e redistribuzione, per cui le organizzazioni criminali messicane hanno guadagnato importanza da una parte, ma dall’altra la loro supremazia e le loro attività dipendono dalla presenza e dalla partecipazione degli apparati di stato agli affari criminali. Storicamente buona parte del business del narcotraffico è stato gestito dal potere politico. Quando l’alternanza al potere in vari stati e a livello federale si è rotta, il sistema si è spezzettato in tanti centri di potere, legittimati dalla legge e non, ma comunque in rapporto dialettico tra loro. La guerra al narcotraffico può anche essere intesa come una forma di riconquista di equilibri di sovranità in parte perduti dalle autorità federali rispetto a quelle locali e ai gruppi armati, siano essi criminali o legali, come alcune polizie comunitarie e autodefensas. Ma non penso si possa prescindere dal fatto che il narcotraffico è stato nella storia un affare di stato, cogestito da bande paramilitari di poliziotti e militari di vari livelli gerarchici che, in momenti diversi della loro “carriera”, si unirono alle file della delinquenza organizzata o furono da questa stipendiati e fondarono nuovi gruppi armati per proteggere interessi del capitale privato.

Nel nord del Messico la storia racconta che sono stati proprio i governatori, per esempio nel Sinaloa, a cominciare i traffici di morfina e marijuana nella prima metà del XX secolo. Gli Stati Uniti in questa partita sembrano uscirne vincitori, i soldi che si muovono beneficiano il sistema finanziario, sempre meno regolamentato e controllato. Per anni le droghe sono state usate negli Usa anche come strumento di controllo sociale. Si pensi al crack, sottoprodotto dannosissimo della coca, spacciato o spinto dalla Cia nei ghetti neri di Los Angeles, in accordo con i narcotrafficanti messicani che cogestivano il business con la Dfs (Direzione federale di sicurezza, la Fbi messicana negli anni ottanta). I guadagni venivano reinvestiti dalla stessa Cia, illegalmente e a insaputa del Congresso, per armare i paramilitari-contras che facevano la guerra sporca al regime rivoluzionario sandinista in Nicaragua. Infine gli americani muovono anche la loro industria bellica con la scusa della guerra alle droghe attraverso la Iniziativa Mérida (Messico) e il Piano Colombia, oltre a mantenere il controllo più o meno diretto delle risorse naturali in territori strategici. Dire che il Messico è governato dai narcos o altri gruppi criminali fa parte di una narrativa che giustifica la lotta a quel poco che resta di buono dello stato contro le sue parti viziate e i delinquenti trafficanti. In realtà mi pare che ci sia maggiore complessità e anche zone oscure che ancora non riusciamo a decifrare. Non è che non esista la violenza tra bande o cartelli, nel senso di criminalità organizzata, ma il ruolo principale della violenza che vive il Messico, ai massimi storici nel 2017 e nel primo semestre 2018, con oltre centotrenta candidati e politici ammazzati nei nove mesi di campagna elettorale del 2018, deve essere spostato dalle organizzazioni criminali alle forze di sicurezza, specialmente i militari e i federali. Prima della “guerra” lanciata nel 2006-2007 da Calderón, il Messico viveva gli anni più pacifici della sua storia, ma da allora la militarizzazione dei territori e il tentativo di stabilire uno stato di eccezione ha reso le masse, i militanti, gli indigeni, i cittadini comuni, i giornalisti e più o meno tutto il popolo, il bersaglio casuale di una violenza senza controllo in una situazione che alcuni esperti, come Andreas Schedler, definiscono come una guerra civile non ideologica o politica, ma economica.

Seguendo la pista indicata qualche anno fa dalla giornalista Dawn Marie Paley con il suo libro Capitalismo antidroga. Una guerra contro il popolo (disponibile on line gratis in spagnolo), non possiamo eliminare la dimensione politico-ideologica del conflitto messicano ma dovremmo invece considerarlo come una guerra di tipo antinsurrezionale per l’imposizione del neoliberalismo mediante il saccheggio e la combinazione di interessi, poteri e violenze di tipo simbolico, territoriale, economico-strutturale, sociale e politico, tanto legali (statali o sanciti dalla legge) quanto illegali, tanto nazionali quanto transnazionali.

Siamo come l’homo sacer di Agamben, umani sacrificabili, immersi nella precarietà della vita stabilita dal controllo biopolitico che si manifesta con le sparizioni forzate, con l’amministrazione del dolore, con gli omicidi, con le incarcerazioni ingiuste e le esecuzioni extragiudiziarie. In media, nel 2018, sono state assassinate ottantanove persone al giorno. Ci vuole un cambio di vedute e di rotta, a partire dalla revisione profonda del modello economico e dalla gestione della sicurezza.

In Messico la violenza di genere e le disparità uomo/ donna, oltre che quelle legate a differenti scelte e orientamenti sessuali, è un un grosso Le donne zapatiste già nel 1994 hanno mostrato una via diversa. Si può pensare che il femminismo in Messico sia una chiave di volta per trasformare il paese andando oltre al paradigma capitalista, machista che si replica da anni. In questo che ruolo ha avuto e ha lo zapatismo?

Non sono un esperto del movimento femminista in Messico anche se ho vissuto qui molte manifestazioni di piazza e dibattiti. Mi pare sia un movimento vitale e attivo, anche se forse più frammentato e magari meno visibile rispetto all’Argentina o alla Spagna o il resto d’Europa, più concentrato in alcune città del paese, in primis la capitale. Il tema del femminicidio è un problema strutturale, si contano almeno sette donne uccise al giorno nel paese, la violenza di genere è molto presente, ma c’è da dire che Città del Messico e Guadalajara sono avanti una generazione rispetto alle altre città. Di fatto la capitale è un’isola rispetto al resto del Messico perché è riconosciuto il diritto ad abortire e al matrimonio egualitario. Vivo a León, nel Guanajuato, da un paio di anni. È lo stato più cattolico e conservatore del Messico, un feudo del destrorso Partido acción nacional e delle manifestazioni per la famiglia, antiabortisti detti pro-vida e contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso. La ferocia del conservatorismo qui è proverbiale e terrificante, i cortei per la Madonna di Guadalupe sono i più folti e partecipati del paese e le donne che interrompono la gravidanza sono incarcerate. Il Messico è molto eterogeneo e la lotta per l’uguaglianza (di opportunità e nei risultati) è condotta in un contesto di repressione e violenza estrema. Lo zapatismo in questo senso ha vissuto i suoi processi evolutivi, infatti inizialmente lo si tacciava di essere un movimento patriarcale dominato da figure maschili. In effetti il mondo rurale messicano e in parte le comunità indigene mantengono molti tratti di questo tipo. Con il tempo però le donne zapatiste, anche se non propriamente come parte di un movimento femminista di tipo occidentale, hanno saputo collocare il tema dell’uguaglianza e dei diritti nelle comunità proponendo cambiamenti nelle relazioni di genere. Nel marzo 2018 c’è stato un importante incontro in Chiapas in cui la Comandancia Generale dell’Ezln ha convocato 8000 femministe del mondo per il primo incontro internazionale, politico, artistico, sportivo e culturale delle donne che lottano. Un’iniziativa inedita per un internazionalismo femminista in cui le zapatiste hanno dato un messaggio di speranza e resistenza: “Non ti arrendere, non ti vendere, non rinunciare” per continuare “in vita e nella lotta”. Da quando è nato il movimento, le indigene zapatiste hanno lottato dentro e fuori le comunità per conquistare diritti negati mediante un femminismo sui generis, determinato soprattutto dalle differenze del patriarcato nei contesti urbani e rurali, per via dell’ambiente in cui si sviluppa e della situazione di subalternità dei popoli di cui fanno parte, come afferma per esempio l’antropologa femminista messicana Sylvia Marcos. Nel senso che si muovono su più fronti e in modo più collettivo in quanto comunità originarie che agiscono idealmente come uno stormo per tutti e tutte nel quadro di limiti strutturali e locali, specialmente evidenti nel mondo rurale. Il processo di autonomia e empoderamiento politico dello zapatismo sicuramente può favorire nello specifico l’organizzazione delle donne.

Il Messico è un paese di rivoluzioni e rivolte in cui l’assenza di strutture nazionali conflittuali è sempre stato un elemento asimmetrico rispetto al potere dello stato, soprattutto del partito-stato L’Ezln dalla sua nascita ha provato a colmare questo buco. Ti chiedo una valutazione sui risultati ottenuti dalle zapatiste e dagli zapatisti anche in relazione al tentativo di raccogliere le firme per candidare Marichuy alle elezioni presidenziali del 2018.

La candidatura di Marichuy è stata una sfida enorme, come direbbe Boaventura, “anticoloniale, antipatriarcale e anticapitalista”, dunque diversa dalle altre e di rottura. È stata osteggiata dal sistema elettorale, pensato per le classi medie e le città. L’app che si usava per raccogliere le firme dei candidati indipendenti era disfunzionale, inaccessibile ai più, soprattutto dove il Congresso nazionale indigeno ha le sue basi. I due candidati che sono riusciti a raccogliere le oltre 860.000 firme necessarie, Margarita Zavala (moglie ed erede politica dell’ex presidente guerrafondaio Calderón) e Jaime Rodríguez “El Bronco” Calderón (governatore del Nuevo León legato al Pri), l’hanno fatto in modo evidentemente fraudolento, sostenuti dal tribunale elettorale in modo irregolare. Marichuy ha raccolto decine di migliaia di firme vere e soprattutto ha portato le tematiche care a poveri, indigeni, comunità rurali in resistenza in giro per il paese, collocandole nell’agenda nazionale e suscitando non pochi consensi ed entusiasmi. In questo senso la campagna dal basso che ha condotto con scarse risorse è stata coraggiosa ed efficace, visti anche i vari incidenti e attentati che ha subito, un vero esempio di candidatura indipendente. Quest’iniziativa non cercava il potere, ma ha comunque riportato l’Ezln e il Consiglio nazionale indigeno al centro della scena e nella tessitura di nuove reti fuori dal Chiapas. Dopo le escuelitas e l’ideale passaggio generazionale, annunciato da Marcos dopo l’assassinio paramilitare del maestro Galeano e la marcia dei quarantamila, gli incontri di questi ultimi anni nei caracoles e San Cristóbal, anche con scienziati e femministe per un altro mondo possibile, e la campagna di Marichuy hanno rappresentato un nuovo impulso costruttivo e dialogante, al di là dell’arena politica tradizionale dei partiti e oltre i confini del Chiapas e del Messico.

Cosa pensi succederà con la nuova amministrazione di Amlo?

Con la vittoria schiacciante di Andrés Manuel López Obrador, candidato di parte delle sinistre messicane alle presidenziali del 1° luglio 2018, ci saranno sicuramente dei cambiamenti anche se la profondità della tanto sbandierata “IV trasformazione del Messico” sarà tutta da vedere. Obrador e il suo partito, Morena (Movimiento de regeneración nacional), non rappresentano forze anticapitaliste, ma promettono una certa discontinuità per lo meno con il neoliberalismo. Le maggioranze nel parlamento e le correnti non sono sempre stabili e Morena si è alleato con un partitino della destra evangelica e conservatrice (Partido encuentro social) che potrebbe influire sugli alleati e bloccare alcune riforme specialmente nell’ambito sociale. Sul fronte dei diritti c’è poco da sperare nei primi anni, anche se si potrebbero indire dei referendum. Non è la via migliore, certo, però anche in molti altri paesi aborto e matrimonio tra persone dello stesso sesso, o la legalizzazione delle droghe, sono passati grazie al voto diretto popolare.

Almeno nel campo economico, nella lotta alle disuguaglianze e nei modi per affrontare la guerra e la crisi umanitaria e dei diritti umani, ci sono speranze e aspettative. Già dai primi giorni dopo il voto tante forze sociali e popolari si sono unite al dibattito sui grandi problemi nazionali, una situazione inedita dopo le elezioni in Messico dato che normalmente si viveva un periodo refrattario e quasi di addormentamento. Invece si è vissuto un momento di fervore, lettere pubbliche, proposte e dibattiti. Il programma del nuovo governo contiene proposte per contrastare vari aspetti del neoliberalismo, non il capitalismo tout court. E per farlo si propongono ricette economiche in gran parte keynesiane e, diremmo in Europa, socialdemocratiche che, sebbene abbiano molti limiti, rappresentano comunque un orizzonte migliore per un paese come il Messico che ha vissuto un neoliberalismo selvaggio e prolungato, disuguaglianze estreme e processi brutali di accumulazione per espropriazione. Sarà da vedere se il modello estrattivista, come successe nel Brasile di Lula, seguirà il suo corso senza limiti come succede oggi o se verrà profondamente ripensato, visto che causa centinaia di conflitti sociali, repressioni, paramilitarizzazione e violenze. La speranza è che si favoriscano nuovi canali di dialogo per l’emersione e la risoluzione concertata dei conflitti, tenendo da conto la diagnosi generale critica e riformista del sistema attuale. Il problema è che le politiche redistributive che sono state promesse, seppur senza incrementi delle tasse, prima o poi potrebbero generare una rivolta o un boicottaggio dell’élite, specialmente dei gruppi imprenditoriali e quelli corporativi legati ai partiti Pan e Pri, e la caduta prematura del presidente che, già lo ha annunciato, cercherà di introdurre l’istituto della revoca del mandato a metà sessennio. Un’operazione delicata in un Messico in cui i poteri forti si sono consolidati per oltre trent’anni e in soli tre o sei anni potranno essere scalfiti, non cancellati. Insomma, un governo solido, con una maggioranza parlamentare storica come quella ottenuta il 1° luglio da Amlo, non significa “potere” o “cambio strutturale”. Comunque percepisco un ottimismo inedito e la sensazione che si tratti di una fase storica. Non ho visto in campagna da parte delle sinistre grossa attenzione per lo zapatismo o per la questione indigena, anche se esistono voci sicuramente sensibili all’interno del partito Morena. Sarebbe già un passo avanti se un nuovo governo antineoliberale e progressista riuscisse a rimandare l’esercito nelle caserme, specialmente in Chiapas, nel Oaxaca e Guerrero, stati colpiti duramente dalla repressione sin dagli anni settanta. Andrebbe anche sospesa immediatamente la Iniziativa Mérida, il Piano Colombia alla messicana che ha significato l’aumento dell’ingerenza americana e della militarizzazione con il fine reale di implementare politiche a favore degli investimenti stranieri. Il 1° gennaio 1994 resta un emblema del passato e del presente allo stesso tempo, ma è anche un’utopia, una guida che ha saputo costruire immaginari e autonomie che vanno oltre i caracoles, i territori del Chiapas e le sue comunità autonome, per spingersi globalmente a creare immaginari e rinnovare repertori di lotta.

 

*Andrea Cegna agitatore sociale, giornalista e organizzatore di concerti, è redattore di Radio Onda d’Urto, collaboratore di Radio Popolare e “il manifesto”. Ha pubblicato 20zln. Vent’anni di zapatismo e liberazione ,  Strade strappate. Storia rappata dell’hip hop italianoElogio alle tag. Arte, writing, decoro e spazio pubblico e Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo.

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Z come Zapatismo. Il colore della terra https://www.carmillaonline.com/2017/09/20/z-zapatismo-colore-della-terra/ Tue, 19 Sep 2017 22:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40638 di Fabrizio Lorusso

[Racconto estratto da Nuova Rivista Letteraria (Semestrale di Letteratura Sociale fondato da Stefano Tassinari) n. 15 (n. 5 Nuova Serie) del maggio 2017. Il numero della rivista ha 21 testi letterari, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ai vari tentativi rivoluzionari e di trasformazione sociale della storia]

Sono il primo di tanti passi degli zapatisti a Città del Messico

e in tutti i luoghi del Messico. Speriamo che tutti voi camminiate insieme a noi.

Comandanta Ramona (1959-2006), EZLN, 1996

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di Fabrizio Lorusso

[Racconto estratto da Nuova Rivista Letteraria (Semestrale di Letteratura Sociale fondato da Stefano Tassinari) n. 15 (n. 5 Nuova Serie) del maggio 2017. Il numero della rivista ha 21 testi letterari, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ai vari tentativi rivoluzionari e di trasformazione sociale della storia]

Sono il primo di tanti passi degli zapatisti a Città del Messico

e in tutti i luoghi del Messico. Speriamo che tutti voi camminiate insieme a noi.

Comandanta Ramona (1959-2006), EZLN, 1996

Città del Messico, 30 giugno 2018

A ventiquattr’ore dal voto di domenica primo luglio nel quartier generale del candidato AMLO, acronimo che distilla il suo lungo nome completo, Andrés Manuel López Obrador, si respira già aria di vittoria. Sarebbe la prima volta nella storia per un partito di sinistra a livello nazionale. Le bandiere del Movimento di Rigenerazione Nazionale o MoReNa, il partito creatura del leader, sventolano un po’ ovunque nella capitale messicana che, da sempre, è la roccaforte delle varie anime del centrosinistra.

Nei sorrisi compiaciuti dei militanti s’incarna l’allegria, la catarsi dopo quasi vent’anni di sconfitte elettorali e frustrazioni. Nelle pupille brillanti di alcuni stretti collaboratori del probabile futuro presidente, dato in testa da tutti i sondaggi e sostenuto dalle grosse catene televisive nazionali e persino da un discreto numero di magnati, progressisti dell’ultimo minuto, s’intravvedono, tra lacrime di gioia e di tensione, le prefigurazioni archetipiche di poltrone ministeriali e seggi parlamentari. C’è voglia di cambiamento.

Finalmente, come più volte ha ripetuto AMLO nei comizi della campagna elettorale, “la terza è quella buona”, per cui dopo essere stato sconfitto prima nel 2006 dal catto-conservatore Felipe Calderón e dai brogli elettorali del suo partito, Acción Nazional (PAN), e poi nel 2012 dal tele-candidato idiotizzato Enrique Peña Nieto, è arrivato il momento del riscatto.

Rifondare il Paese, sconfiggere la corruzione e invertire la rotta intrapresa nel 1982 con l’inizio delle selvagge riforme neoliberiste e lo smantellamento dello Stato: questo, in un tweet, il riassunto del programma, o meglio degli slogan, della sinistra che fa riferimento a MoReNa.

L’altra sinistra parlamentare, cioè una ex sinistra che secondo alcuni sondaggi diventerà anche ex parlamentare, visto che rischia di sparire dalla mappa elettorale, è quella del PRD, il Partido de la Revolución Democrática. Nel 1997 riuscì nell’impresa di espugnare Città del Messico, bastione del PRI (Partido Revolucionario Institucional), egemonico in tutto il Messico e nella capitale per 70 anni nel secolo XX, e da allora l’amministra. Andrés Manuel è stato sindaco della megalopoli dal 2000 al 2005 e poi è stato il candidato del PRD alle presidenziali per due botte consecutive, entrambe perse. Questa volta, però, le cose vanno diversamente, il leader fa da sé ed è certo di vincere.

 

 

Siamo riflessione e grida

Subcomandante Marcos, Città del Messico, 11 marzo 2001

Marzo 2001, Colore della Terra e Autonomia

“Comincia questa marcia oggi, che la luna è nuova, affinché la terra dia infine i frutti della giustizia per coloro che sono il colore della terra. Comincia la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra”. Il comunicato, inviato dalle montagne del Sudest messicano il 24 febbraio, è firmato dal Comando Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e annuncia una marcia in partenza dal meridionale stato del Chiapas. “Che il mondo sia finalmente il luogo di tutti e non la proprietà privata di chi possiede del denaro il colore e l’immondizia. Un mondo con il colore dell’umanità”, prosegue.

(foto: La Jornada-Heriberto Rodríguez)

L’EZLN arriva dal Sud per parlare alla gente nelle piazze e ai parlamentari che stanno discutendo la Ley Cocopa, inviata dal presidente alle Camere. La norma dovrebbe recepire in Costituzione gli Accordi di San Andrés del 1996, che danno personalità giuridica ai popoli indigeni, e aprire uno spiraglio per la risoluzione del conflitto cominciato nel 1994, quando gli zapatisti in armi occuparono cinque città, facendo risuonare globalmente il loro grido di degna rabbia e ribellione: “¡Ya Basta!”, adesso basta.

La povertà in terra azteca esplode ciclicamente e persiste. E anche le disuguaglianze aumentano, il Messico negli anni ’90 s’era “globalizzato” ma era stato assimilato al cinquantunesimo stato dell’Unione Americana. Il presidente neoliberista Carlos Salinas parlava invece di una Paese che stava entrando al “primo mondo”. “Vale la pena, compatrioti, per il bene della nostra grande nazione; è per il Messico”, aveva detto celebrando l’entrata in vigore, il 1 gennaio 1994, del NAFTA, trattato di libero commercio dell’America del Nord. Ma non tutti e tutte la pensavano come lui.

Nonostante la militarizzazione, le aggressioni paramilitari e la guerra di bassa intensità del governo, sette anni dopo l’insurrezione, gli zapatisti continuano a lottare. L’11 marzo 2001 la più grande piazza e cuore politico del Paese, lo zocalo, li riceve, stipata di gente come mai prima per accompagnare da vicino le loro richieste di riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni al governo Fox.

“Fratello, sorella indigena. Fratello, sorella non indigena. Qui siamo per dire che qui siamo. E quando diciamo ‘qui siamo’, anche il diverso nominiamo. Fratello, sorella che sei messicano e che non lo sei. Con te diciamo ‘siamo qui’ e con te siamo. Fratello, sorella indigena e non indigena. Uno specchio siamo”, le parole di Marcos hanno rotto il silenzio e il sole inclemente preannuncia l’eterna primavera dell’altopiano. “Non siamo quelli che, ingenui, aspettano che dall’alto arrivi la giustizia che cresce solo dal basso, la libertà che si conquista solo con tutti, la democrazia che viene combattuta sempre e a tutti i livelli. Non lo saremo”. Una folla attenta e silenziosa ascolta le parole dei ribelli.

Avenida Universidad, la grande arteria viale che collega il centro della capitale alla città universitaria, sede dell’ateneo più grande d’America, è trafficata e in ebollizione. Gli zapatisti pernottano nelle islas, cioè le isole di prati e piazzali dell’Università Nazionale Autonoma che sono chiuse esternamente dagli edifici delle facoltà, dal palazzo del rettorato e dalla biblioteca centrale, imponente coi suoi dodici piani d’altezza e la facciata esterna decorata da un mosaico del muralista O’Gorman. Anche qui, un giorno dopo la manifestazione del zocalo, gli zapatisti raccolgono intorno a sé migliaia di sostenitori.

Uno studente francese, in Messico per uno scambio e per provare a fare una tesi, legge il comunicato della marcia su un volantino distribuito dai compagni dell’università. Ne copia alcuni estratti e li trasferisce a caratteri cubitali su un foglio di cartone. Lo fissa a un tavolo piazzato nel mezzo del cortile condominiale e comincia a distribuirne delle copie ai passanti. Appiccica anche un invito scritto su un rettangolo di stoffa ricavato da un lenzuolo: “Raccolta viveri in solidarietà con gli zapatisti: vestiti, riso e fagioli sono benvenuti”.

Gli indigeni in lotta hanno percorso il Paese, facendo più di seimila chilometri, e sono giunti a Città del Messico dopo tre settimane di viaggio. Hanno bisogno di cibo e indumenti.

Un’anziana signora s’avvicina al giovane studente, lo squadra e lo increpa: “Ci mancava solo gente da fuori che viene qui a immischiarsi nelle questioni politiche del Paese, ricorda che possiamo chiedere l’espulsione per quelli come voi, lo dice la Costituzione!”.

“Perché non si toglie il chip xenofobo dalla testa?”, risponde il giovane che, alterato ma non spaventato, non viene nemmeno capito e riceve in cambio una smorfia. Fino a pochi minuti prima era in compagnia di due compas messicani che, in qualche modo, coprivano la sua presenza, ma poi era rimasto solo in balia degli sguardi scocciati di alcuni condomini destrorsi e degli anatemi di una vecchia antizapatista.

Intanto gli zapatisti, mentre il parlamento litigava sul da farsi, erano tornati in Chiapas. Il 28 marzo una delegazione di ventitré comandanti torna nella capitale. Una donna prende la parola di fronte all’intero Paese, nel palazzo del potere legislativo: “Soffriamo tre volte perché siamo donne, siamo indigene e siamo povere”, incalza. “Veniamo qui per essere ascoltati e ad ascoltare e dialogare”, ribadisce. E’ la comandanta Esther. Marcos non entra, parlano gli altri. La sua assenza è strategica, intelligente. Lo spazio della poesia e dei comunicati viene occupato dalle ragioni della lotta e della marcia e il Sub solo spiega che “oggi la guerra è un po’ più lontana e la pace con giustizia e dignità un po’ più vicina”.

Un mese dopo i partiti che hanno la maggioranza dei due terzi in parlamento, con la quale è possibile modificare la Costituzione, sono il dinosauro PRI e il PAN, arrivato a vincere la presidenza con Vicente Fox l’anno prima, e votano una controriforma che tradisce la lettera e le intenzioni degli accordi. Un PRD diviso e schizofrenico vota contro alla Camera e a favore al Senato, ma la riforma passa comunque. Allora gli zapatisti chiudono con la politica dei palazzi, le loro Basi di Appoggio si stringono intorno alla Comandancia per concretizzare nei fatti, non più nelle leggi, l’autonomia e fondare le comunità dei caracoles.

Passano gli anni, nel 2006 il presidente Calderón lancia una suicida strategia di “guerra al narcotraffico” che lascia sul campo, in un decennio, 200mila morti e 31mila desaparecidos. Ma in Chiapas una nuova generazione zapatista è pronta. Il subcomandante Marcos decide di uscire di scena, dichiara la sua morte e si trasforma in Galeano nel maggio 2014, pochi giorni dopo il brutale assassinio, perpetrato da paramilitari, del maestro e compagno José Solís López, noto appunto come Galeano. “Pensiamo che sia necessario che uno dei nostri muoia affinché Galeano viva”, è la spiegazione che dà Marcos. Il subcomandante Moisés diventa il nuovo portavoce. Marcos annuncia la sua “destituzione” e, parlando delle origini della sua figura pubblica, scrive: “Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione. Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”. Adesso non c’è più, largo alle nuove generazioni.

 

 

Facciamo un appello a tutti e tutte a non sognare, ma a fare qualcosa di più semplice e definitivo: vi chiediamo di risvegliarvi.

Subcomandante Marcos, gennaio 1999

San Cristóbal de las Casas, Universidad de la Tierra, 14 ottobre 2016

“Che tremi nei suoi centri la Terra”, il comunicato viaggia intergalatticamente dalla selva lacandona del Chiapas allo spazio. “Ci dichiariamo in assemblea permanente e consulteremo in ognuna delle nostre geografie, territori e direzioni l’accordo di questo Quinto CNI, per nominare un consiglio indigeno di governo la cui parola sia incarnata da una donna indigena”. Il Congresso Nazionale Indigeno (CNI), spazio d’incontro e di organizzazione del movimento indigeno a livello nazionale fondato nel 1996 e alleato dell’EZLN, spiazza tutti con la proposta di una candidata donna e indigena per la presidenza. “Ratifichiamo che la nostra lotta non è per il potere, non lo cerchiamo, bensì che chiameremo i popoli originari e la società civile a organizzarsi per bloccare questa distruzione, rafforzarci nelle nostre resistenze e ribellioni, ovvero nella difesa della vita di ogni persona, ogni famiglia, collettivo, comunità o quartiere. Costruire la pace e la giustizia rifinendoci dal basso, da dove siamo ciò che siamo”.

“Ciao, ma hai sentito? Hai letto? Il CNI ci prova per combattere la spoliazione dei territori e delle comunità, la ‘questione indigena’ torna al centro”, il tono della voce è concitato. Lo studente, che intanto ha finito la tesi di laurea e frequenta un dottorato, ascolta e chiude gli occhi per concentrarsi. Fa appena in tempo a capire chi è l’amico dall’altra parte dell’apparecchio che viene subito incalzato: “Adesso c’è un’alternativa al sistema politico dominante!”. Dopo la rottura degli zapatisti col sistema politico e le istituzioni il francese, che è rimasto in Messico a vivere, non sa bene cosa pensare ed il suo pessimismo è quasi cosmico: “Sì, ok, ma a te come va? Ho visto un po’ le notizie, infatti, per la prima volta nella storia qua possono presentarsi candidati indipendenti fuori dei partiti, ma devono tirar su 800mila firme, ma poi con chi governano senza gente in parlamento?”. “Va beh, ma è comunque una cosa storica, mai vista, dai”, insiste l’amico al telefono. “Lo so, stiamo a vedere, c’è già chi pensa che vogliano fare un governo ombra o simili, non ho capito”, vagheggia lo studente. “Ne parliamo bene dopo, facciamo un’assemblea, qualcosa…”, conclude il chiamante. “Claro, claro, un abrazo a presto!”, si svincola lo studente. Stenta a credere alla notizia, è sorpreso, pure felice, ma confuso. La politica messicana fa perdere facilmente la bussola anche a chi la mastica da tanto.

Da subito sono feroci le reazioni dell’intellighenzia progressista e di partiti come il PRD e MoReNa che hanno paura di perdere voti a sinistra e già incitano “il popolo” al “voto utile” per bloccare le destre. D’altra parte c’è invece chi rivendica il diritto di chiunque a candidarsi, specialmente se si tratta di organizzazioni storicamente escluse. Il loro obiettivo è comandare obbedendo tramite un consiglio indigeno di governo e una presidente-portavoce scelta dalle basi. I giornali di regime accusano gli zapatisti e il CNI di essere dei provocatori e di non avere speranze. Il dibattito s’accende, ed è un primo importante risultato per i popoli originari organizzati.

Io lotto per ideali e cerco la trasformazione del Messico per via pacifica

Il voto è l’unica arma che ha il popolo per far sì che le cose cambino

Andrés Manuel López Obrador

Città del Messico, 2 luglio 2018

E’ notte, quasi la mezza. Piove a volontà. Il leader è solo. Rivede le schermate coi risultati. Ride, ha gli occhi lucidi e pensa al da farsi. Gli hanno detto di stare tranquillo, dopo l’infarto di cinque anni fa il suo cuore ha bisogno di meditazione. Sedici ore di lavoro, tre comizi al giorno, emozioni a raffica e una campagna elettorale permanente che dura da più di dieci anni stenderebbero chiunque. AMLO ha fatto quattro volte il tour completo di tutti i comuni del Messico, la sua esperienza sul territorio è preziosa e il suo team ha molti talenti, soprattutto nel campo della cultura e delle politiche sociali.

Il leader ha chiesto a tutti d’uscire dalla stanza. Ancora non ci crede. Convoca i suoi collaboratori a una reunión urgente per gestire al meglio le prime dichiarazioni alla stampa. Su 89 milioni di aventi diritto, ieri hanno votato i due terzi, è stata l’elezione più partecipata della storia. Ma Andrés Manuel non ha vinto. Nessun partito ha vinto.

L’istituto elettorale ha comunicato i dati del conteggio preliminare: AMLO ha preso il 25%, Margarita Zavala, moglie del guerrafondaio Calderón, il 17%, Osorio Chong, del PRI, il 13%, gli indipendenti l’1% e Mancera, del PRD, il 9%. La candidata dell’EZLN e del CNI ha sconfitto i contendenti e blinda la presidenza col 35% dei voti. Il consiglio di governo indigeno l’accompagna, s’insedierà il primo dicembre. Nessun pronostico, nessun indovino, l’aveva financo immaginato. In parlamento, solo MoReNa ha raggiunto una maggioranza che, sebbene risicata, può decidere se sostenere la presidenta o affogare il Paese nel caos.

La stampa viene fatta entrare. AMLO è stanco ma tranquillo. “Che intende fare?”, un reporter de La Jornada lo interroga. Il politico aveva promesso che si sarebbe ritirato a vita privata in caso di sconfitta. “Abbiamo vinto – spiega – ma abbiamo soprattutto perso, perché ero solo io il centro, il partito, ma adesso per MoReNa è giunta l’ora di comandare obbedendo e sostenere il cambiamento”.

Nel frattempo una folla spontanea, immensa e festante inonda Insurgentes e Reforma, le maestose avenidas che tagliano a croce la capitale messicana da nord a sud e da est a ovest. Il rituale è impressionante. Un eterno studente passeggia per il centro, non sembra nemmeno più uno straniero dopo tanti anni, con la sua barba incolta e la pelle bronzea nella perenne primavera messicana. Ha visto tanti colori della terra in questi anni, ha visto la polvere del Messico tingersi di sangue e la speranza ingrigirsi di pallottole e macabri conteggi di vittime. Ma oggi, come nel novantaquattro, sono colorate e ribelli le grida che s’inzuppano di pioggia nel giubilo. Vede aprirsi le nubi, si siede, scorge l’ombelico della luna e sa di non essere più solo mentre aspetta l’alba della verità e della giustizia.

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Zapatisti, Elezioni e CoScienze per l’Umanità https://www.carmillaonline.com/2017/01/05/zapatisti-elezioni-e-coscienze-per-lumanita/ Wed, 04 Jan 2017 23:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35832 di Perez Gallo

[Una necessaria alunni-telescopiocorrispondenza dal Chiapas, le foto sono di Gianpa L.]

Mentre da Ankara ad Aleppo, da Berlino ad Istambul, il 2016 si è chiuso con il sangue degli attentati e con i preludi di un possibile nuovo scontro planetario, nelle montagne del Sudest messicano le e gli zapatisti, che di quarta guerra mondiale parlano da almeno vent’anni, hanno puntato forte sull’organizzazione, affinché di fronte alla “tormenta” in arrivo quelle e quelli in basso e a sinistra possano non essere solo vittime di una carneficina, ma [...]]]> di Perez Gallo

[Una necessaria alunni-telescopiocorrispondenza dal Chiapas, le foto sono di Gianpa L.]

Mentre da Ankara ad Aleppo, da Berlino ad Istambul, il 2016 si è chiuso con il sangue degli attentati e con i preludi di un possibile nuovo scontro planetario, nelle montagne del Sudest messicano le e gli zapatisti, che di quarta guerra mondiale parlano da almeno vent’anni, hanno puntato forte sull’organizzazione, affinché di fronte alla “tormenta” in arrivo quelle e quelli in basso e a sinistra possano non essere solo vittime di una carneficina, ma artefici e protagonisti di un cambiamento possibile. Lo hanno fatto a modo loro: spiazzando. È così che nel giro di dieci giorni, dal 26 di dicembre del 2016 al 4 di gennaio del 2017, hanno messo in piedi, loro indigeni spesso associati in modo stereotipato ai saperi ancestrali, alle antiche credenze religiose e a civiltà ormai defunte, un incontro internazionale sulle scienze dure: fisica, astronomia, medicina, agro-ecologia, cibernetica, ingegneria energetica. Ospiti ben 82 scienziati provenienti dal Messico e altri 10 paesi.

L’evento ha avuto come titolo “L@s Zapatististas y las ConCiencias por la Humanidad”, che gioca sul binomio scienze-coscienze per mettere le scienze al servizio di un altro progetto di mondo, tanto distante dal capitalismo quanto vicino a quella che del capitalismo è la vittima maggiore: l’umanità. E ha avuto un’interruzione tra il 31 di dicembre e il 1 gennaio, giorni in cui ha avuto luogo l’incontro del Congreso Nacional Indigena, organizzazione che include comunità afferenti tutte le 62 nazioni indigene riconosciute in Messico. In discussione la ratifica della proposta fatta sempre in Chiapas lo scorso ottobre di una candidatura indipendente alla presidenza della repubblica per le elezioni del 2018.

Entrambi questi incontri, ConCiencias e congresso del CNI, hanno dato la misura di un momento di grande vivacità e cambiamento nel movimento zapatista, che da qualche anno, dopo un periodo di rafforzamento dell’autogoverno nelle comunità, nei municipi e nelle Giunte del Buon Governo, ha portato avanti alcune iniziative pubbliche eclatanti.

esercitazione-zapatistiQuesta fase è iniziata il 21 dicembre 2012, giorno della fine del mondo secondo il calendario maya, quando 40000 maya incappucciati hanno marciato silenziosamente in alcune città del Chiapas annunciando: “E’ il suono del vostro mondo che crolla, è quello del nostro che risorge”.

Successivamente, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, tre sessioni dell’Escuelita zapatista hanno aperto le porte delle comunità a 6000 alunne e alunni provenienti da tutto il mondo.

A maggio del 2014, dopo il vile assassinio del maestro zapatista Galeano nel caracol de La Realidad per mano di un gruppo di paramilitari, il subcomandante insurgente Marcos ha cessato di esistere, annunciando di non essere mai stato altro che un ologramma, una figura buona per i media occidentali che di fronte a una sollevazione indigena erano solo capaci di vedere la faccia di un bianco, e ha preso così il nome di subcomandante insurgente Galeano, lasciando la guida dell’EZLN nelle mani dell’altro subcomandante, Moises.

Alla fine dello stesso anno, dopo i tragici fatti di Iguala, gli zapatisti hanno invitato come ospiti d’onore al loro Festival de las Resistencias y Rebeldías contra el Capitalismo le madri e i padri dei 46 giovani “assenti” (3 uccisi e 43 desaparecidos) di Ayotzinapa.

In seguito, prima sono stati chiamati a raccolta gli intellettuali vicini allo zapatismo per la presentazione dei volumi de “Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista”, poi, nell’agosto scorso, è stato organizzato il festival delle arti CompArte, e ora, infine, sono state invitate le scienze e gli scienziati.

galeanoMa a cosa è dovuto questo relativamente nuovo interesse degli zapatisti per le scienze dure? Il SupGaleano lo racconta così: “Alle comunità zapatiste arriva gente di tutti i tipi. La maggioranza viene a dirci quello che dobbiamo fare o no. Arriva gente, per esempio, che ci dice che è bello vivere in case con pavimento di terra e pareti di legno e fango; che è bello camminare scalzi; che tutto questo ci fa bene perché ci mette in contatto con la madre natura e riceviamo così, direttamente, gli effluvi benefici dell’armonia universale… La modernità è cattiva, dicono, e includono in essa le scarpe, il pavimento, le pareti e il tetto moderni e la scienza.”

La proposta portata avanti dagli zapatisti, dunque, è l’idea che la scienza sia solo un altro campo di lotta, un terreno su cui le e gli indigeni ribelli, senza dover abbandonare le pratiche tradizionali, la medicina naturale e gli usi e costumi, hanno diritto di costruire il proprio futuro. E che la scienza sia utile al loro cammino di autonomia. Perché la scienza – sono convinti – può venir incontro alle loro domande della vita quotidiana. Domande come: qual è la spiegazione scientifica, se le medicine chimiche curano una malattia, ma danneggiano altre parti dell’organismo? Secondo quale spiegazione scientifica animali come il gallo cantano o annunciano fenomeni o cambiamenti nella madre natura? Scientificamente gli OGM danneggiano la madre natura e gli esseri umani? E scientificamente la terra ha anticorpi come gli esseri umani? Può avere anticorpi contro il capitalismo?

zapatismo-tecnologiaIn questo originale festival delle scienze, dunque, le lezioni si sono susseguite tutti i giorni, dalle dieci del mattino alle otto di sera, di fronte a cento alunne e cento alunni zapatisti, oltre a svariate centinaia di ospiti messicani e stranieri solidali e aderenti alla Sexta Declaración de la Selva Lacandona. Mentre questi ultimi erano presenti solo in qualità di “ascoltatori”, e non erano quindi autorizzati a fare domande, le e gli alunni zapatisti sono stati i veri destinatari delle lezioni, e hanno ora il difficile compito di socializzare i saperi acquisiti, in primo luogo tra loro e poi, soprattutto, di ritorno alle loro comunità, con le decine di migliaia di uomini, donne, bambini e anziani zapatisti.

Alcune di queste lezioni sono state plenarie, altre più ristrette, alcune molto specifiche e tecniche mentre altre hanno cercato di affrontare le tematiche scientifiche dal punto di vista delle loro premesse o ricadute sociali. E così molti studiosi e professori, anche di università molto celebri messicane e straniere, si sono focalizzati sui dispositivi scientifici nella meritocrazia e nella valutazione accademica, altri hanno ripreso le teorie di Thomas Khun sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche, altri ancora hanno provato a tematizzare la presunta neutralità della scienza rispetto ai dispositivi di controllo o di assoggettamento politico.

alunni-concienciasTra i due cicli del ConCiencias, la seconda parte del quinto congresso del CNI ha portato alla ribalta l’agenda politica nazionale dell’EZLN. Nella precedente sessione congressuale di ottobre, infatti, su proposta proprio dell’EZ, il CNI aveva fatto sua l’idea di candidare per le prossime elezioni presidenziali della primavera del 2018 una donna di lingua e sangue indigeni in qualità di portavoce di un Consiglio Indigeno di Governo, i cui membri sarebbero stati scelti tra tutte le nazioni indigene appartenenti al CNI e, secondo le loro consuetudini, sarebbero stati revocabili e sostituibili nel caso non rispettassero il mandato loro assegnato dalle comunità di riferimento. La proposta, che si avvarrebbe della possibilità, aperta per la prima volta proprio da queste elezioni, che alle presidenziali possa presentarsi un candidato indipendente, ossia svincolato da qualsiasi partito politico registrato, era stata approvata dai delegati presenti ad ottobre, ma per essere ratificata doveva passare il vaglio di tutte le comunità afferenti al CNI, in accordo con il principio del “comandare ubbidendo”.esercitazione-zapatisti-2 E così, nel caracol di Oventik, nel primo pomeriggio del primo gennaio 2017 è stato pubblicamente dichiarato da una delegata che tale decisione era stata definitivamente approvata da 43 nazioni del CNI, mentre le restanti 19 non hanno ancora avuto il tempo di discuterla. Già negli ultimi mesi vari comunicati usciti a firma di Moises e Galeano avevano spiegato i motivi della proposta: in tutto il paese i processi di spossessamento delle terre indigene, dell’acqua, delle foreste, il saccheggio delle loro risorse e la violenza dello Stato, dei cartelli della droga e del paramilitarismo hanno spinto molte comunità a una situazione di collasso e a un vero e proprio rischio per la loro sopravvivenza. Allo stesso tempo, la crisi, la militarizzazione del Paese, la proliferazione del nacotraffico e le riforme neoliberali hanno portato la gran maggioranza della società messicana, anche quella meticcia, a un’insicurezza cronica e a un impoverimento generalizzato. Di fronte a tutto questo, era diventato necessario contrattaccare, come lo era stato per gli zapatisti il prendere le armi l’1 gennaio 1994.

cni-2Così lo ha spiegato Moises nella seduta plenaria a Oventik, facendo proprio un parallelismo con quella giornata: “Ora le condizioni del popolo messicano nelle campagne e nelle città sono peggiori di 23 anni fa. La povertà, l’esasperazione, la morte, la distruzione, non sono solo per chi ha abitato originariamente queste terre. Ora la disgrazia raggiunge tutte e tutti. La crisi colpisce anche chi si credeva in salvo e pensava che l’incubo era solo per chi vive e muore in basso. I governi vanno e vengono, di diversi colori e bandiere, e l’unica cosa che fanno è peggiorare le cose. Con le loro politiche, l’unica cosa che fanno è che la miseria, la distruzione e la morte arrivino a più persone. Ora le nostre sorelle e fratelli delle organizzazioni, quartieri, nazioni, tribù e popoli originari, organizzati nel Congreso Nacional Indígena, hanno deciso di gridare il loro ya basta.”

Una mossa disperata, dunque, e che ammette esplicitamente di non farsi illusioni sulle possibilità di vittoria in un sistema antidemocratico come quello messicano, ma che avrà senz’altro il beneficio dell’effetto sorpresa, e che proverà a coinvolgere i diversi settori in lotta nella società messicana e a fare tesoro delle ondate di mobilitazione che si sono susseguite durante gli ultimi anni: dal movimento per la pace con giustizia e dignità contro la narcoguerra di Calderón al movimento #YoSoy132 contro il monopolio televisivo e le elezioni defraudate, dalla gigantesca indignazione scaturita dal massacro dei giovani di Ayotzinapa (rappresentanti dei padres di Ayotzinapa erano presenti anche questa volta come ospiti d’onore nel caracol di Oventik) agli scioperi e blocchi stradali messi in atto da molte comunità di Chiapas e Oaxaca l’estate scorsa contro la riforma educativa promossa da Peña Nieto e repressi col sangue dal governo.

cniUna mossa disperata, come disperata era stata l’insurrezione del 1994, avvenuta in un periodo storico che non poteva essere più sfavorevole, con il crollo dei socialismi reali e l’imposizione del pensiero unico neo-liberista. E forse per dimostrare come per gli zapatisti non c’è un unico modo di lottare e di difendersi, e che il cambio di strategia non è un cambio di natura del loro progetto politico, la giornata del primo di gennaio si è conclusa con un’esercitazione militare, che centinaia di insurgentas e insurgentes hanno svolto sotto gli occhi incuriositi dei migliaia di presenti.

Intanto, il progetto di distruzione portato avanti dallo stato messicano continua: mentre la riforma educativa è stata temporaneamente rimandata proprio grazie alla determinazioni dei maestri riuniti nella CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores Educación), proprio all’inizio dell’anno è entrata definitivamente in vigore la privatizzazione del sistema energetico, portando a un immediato aumento del 20 per cento del prezzo della benzina. E così in questi giorni si sono diffusi in tutto il paese blocchi stradali, occupazioni delle stazioni di servizio con esproprio di benzina data in regalo ai veicoli, e distruzione dei caselli autostradali. A dieci giorni dall’investitura di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la società messicana inizia questo 2017 in maniera combattiva. Mentre EZLN e CNI lanciano per fine maggio, in luogo ancora da stabilirsi, un’assemblea costituente, con il compito di formare il consiglio indigeno destinato al governo del Paese.

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Intervista a Emory Douglas: arte, Black Panthers e zapatismo https://www.carmillaonline.com/2016/10/15/intervista-emory-douglas-arte-black-panthers-zapatismo/ Fri, 14 Oct 2016 22:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34008 di Martino Sacchi e Alessandro Peregalli

zapantera-neraOggi, 15 ottobre 2016, ricorrono i 50 anni dalla nascita, a Oakland, California, del Partito delle Pantere Nere.

Nel Dicembre 2013 abbiamo incontrato a San Cristobal de las Casas, Chiapas, Emory Douglas, Ministro della Cultura del Black Panther Party fino allo scioglimento del movimento. Come noi, Douglas era uno dei cinquemila studenti che avrebbero frequentato l’escuelita zapatista: momento in cui le comunità zapatiste del sud est messicano hanno aperto le loro case per ospitare attivisti e attiviste di tutto il mondo e mostrare i percorsi di autonomia [...]]]> di Martino Sacchi e Alessandro Peregalli

zapantera-neraOggi, 15 ottobre 2016, ricorrono i 50 anni dalla nascita, a Oakland, California, del Partito delle Pantere Nere.

Nel Dicembre 2013 abbiamo incontrato a San Cristobal de las Casas, Chiapas, Emory Douglas, Ministro della Cultura del Black Panther Party fino allo scioglimento del movimento. Come noi, Douglas era uno dei cinquemila studenti che avrebbero frequentato l’escuelita zapatista: momento in cui le comunità zapatiste del sud est messicano hanno aperto le loro case per ospitare attivisti e attiviste di tutto il mondo e mostrare i percorsi di autonomia portati avanti in oltre vent’anni di lotta. Alcuni mesi in seguito abbiamo avuto la possibilità di incontrarlo di nuovo nella sua casa nella periferia di San Francisco, e gli abbiamo fatto quest’intervista, che più che altro é stata una chiacchierata sulla sua biografia di militante, di artista, di internazionalista. Da buon compagno, afroamericano, erede di una tradizione di lotta che più che mai si è sviluppata attraverso linee di fuga, spostamenti, deportazioni ed esodi (dal middle passage atlantico alle esperienze antischiaviste del marronaggio), non ci ha stupito la sua naturale capacità di mettere in relazione resistenze e lotte in  contesti diversi come qulla di una periferia come Oakland negli anni ’60 e ’70 e la montagna e la selva indigene del sudest messicano oggi. Dalle descrizioni dirette di un artista di strada come Emory Douglas, è possibile rintracciare quei circuiti politici rivoluzionari che hanno collegato le Pantere Nere alla Cina di Mao, alle pagine di Fanon e ai movimenti di liberazione in Angola. Nell’arte di Douglas si intersecano queste traiettorie transnazionali, dall’arte della Rivoluzione Culturale, ai manifesti per la Conferenza Tricontinentale di Cuba nel 1966, fino al progetto “Zapantera Negra” avviato nel 2012 a sostegno delle lotte in Chiapas.

Maggio 2014, San Francisco: Sei innanzitutto sia un artista sia un attivista politico. Nessuna di queste due componenti può essere considerata come separata. A partire dalla tua traiettoria personale attraverso i movimenti sociali degli anni 60 e 70, in che modo questi due aspetti dell’arte e dell’attivismo politico si sono intersecati?

Queste due componenti si incontrarono nella mia partecipazione al Black Arts Movement, prima delle Pantere Nere. Fu un movimento molto vasto nella West Coast, nella East Coast e un po’ nel Sud, dove incontrai Amiri Baraka (LeRoi Jones) e cominciai a fare il suggeritore per le sue opere teatrali mentre frequentavo il San Francisco Community College. Nello stesso periodo – era il gennaio del 1967 – alcuni giovani attivisti stavano organizzando un incontro in occasione dell’arrivo di Malcom X nella Bay Area: loro sapevano che ero parte del Black Arts Movement e mi chiesero di fare la grafica per l’iniziativa. Quando poi fui all’incontro mi dissero che alcuni fratelli stavano arrivando per organizzare un’assemblea sull’autodifesa e la sicurezza. Ci andai e lì incontrai per la prima volta Bobby Seale; questo avvenne dunque molto prima che lui mi chiedesse di unirmi al Black Panther Party. Mi mise in mano un biglietto dell’autobus – io non avevo una macchina – e mi invitò a casa sua dove molta gente viveva in comunità. Insomma il lavoro grafico su Malcom X fu la mia prima partecipazione politica come artista. Nel Maggio sempre del ’67 feci la prima copertina di un tabloid, lavorando molto sulla grafica per le riviste. Era un periodo in cui l’arte cominciava ad essere percepita come un riflesso della politica, ma era ancora qualcosa di separato dal Black Panther Party. In quel lavoro misi in pratica una serie di tecniche acquisite quando stavo al City College basate sullo stile commerciale che si usa di solito per i portfolio, quelli che fai per cercare lavoro. Quando poi entrai nelle Pantere Nere sviluppai uno stile più libero, ispirato ai Dieci Punti del programma e alla nostra linea, e Bobby Seale e Huey Newton mi lasciarono completa autonomia. Fu lí che l’arte divenne per me un riflesso di ciò che succedeva nel mondo su un piano locale, nazionale e internazionale.

Quali esperienze artistiche e politiche hanno contribuito all’elaborazione di questo stile nuovo di cui parli?

Buona parte delle influenze politiche venivano da Cuba. Le OSPAAAL [Organization of Solidarity for People of Asia, Africa and Latin America], produssero moltissimi poster in solidarietà con le lotta globali. Li potete trovare online oggi, sono migliaia di poster, e furono alla radice di parte del lavoro artistico che ho fatto. Fui poi molto influenzato dall’arte che veniva dal Vietnam, quella cinese e ogni tanto russa, così come dai lavori che vennero fuori dal movimento contro la guerra in Vietnam qui, negli Stati Uniti.

Qual era il tuo ruolo all’interno del Black Panther Party? Come si collegavano le strategie artistiche con l’impegno militante nel partito?

Inizialmente mi era stato dato il titolo di “revolutionary artist” e lavoravo principalmente al giornale. Man mano che il partito cominciò a crescere si dotò di una struttura per accogliere le persone che si univano e volevano contribuire. Così si formarono i ministeri e io diventai Ministro della cultura, con il compito di coordinare tutte le iniziative che gravitavano intorno a quell’ambito, da striscioni e locandine, ai contatti per le raccolte fondi. Santana ad esempio fu il primo a partecipare, ben prima che diventasse famoso, poi Jerry Garcia, The Greatful Dead, John Lee Hooker, gente di tutti i tipi nel corso degli anni. Ecco, quello era parte delle nostre responsabilità. Si trattava essenzialmente di insegnarsi le cose a vicenda, condividere capacità, accogliere nuovi membri. In questo contesto c’erano anche corsi di studio politico man mano che ci evolvevamo in diversi collettivi.

Oltre a questo c’era il lavoro politico quotidiano: vendere giornali, partecipare alla sorveglianza della polizia (copwatching) con i gruppi di autodifesa nei quartieri, e così via.

Alla luce di un’esperienza come quella dell’autonomia Zapatista, a cui ti sei avvicinato di recente, puoi descriverci i tratti principali della pratica politica del Black Panther Party?

Ci sono ovviamente differenze forti a livello di contesto. Oakland è una città nella quale cercavamo di difenderci e di portare avanti una lotta di autodeterminazione. Nella selva è tutta un’altra cosa, è un terreno diverso.

A livello ideologio il Black Panther Party si ispirava al marxismo e al leninismo, anche se elaborammo una nostra ideologia, cercando modi originali di connetterci con le lotte globali. Certo leggevamo di tutto, ci era richiesto, e alcuni nel partito erano marxisti, ma altri, come me per esempio, non avevano assolutamente idea di nulla quando entrarono. Quindi non era tanto necessario affrontare temi intellettuali quanto scomporli in un linguaggio comune. Questo è stato il genio delle Pantere Nere, in particolare di Bobby Seale che era il più intellettuale, un grande comunicatore, mentre Eldridge Cleaver era più concentrato sulla militanza quotidiana, anche se entrambi erano molto rispettati, erano capaci di comunicare anche all’interno del partito stesso. Molte Pantere erano giovanissime, io sono entrato a 21 anni ma il primo quadro era tra i 16 e i 19. Bobby Seale aveva 30 anni ed era considerato un vecchio. Fred Hampton aveva 21 anni, ma era già stato attivo negli youngster prima di entrare nelle Pantere Nere. Fu ucciso nel 1969 quando la repressione si fece più pesante e quando altre due pantere, Bunchy Carter e John Huggins, furono assassinate nel campus dell’università di Los Angeles. Poco dopo l’assassinio di Fred Hampton ci fu una sparatoria di diverse ore tra la polizia e la sezione di Los Angeles del Black Panther Party. Iniziarono a infiltrare agenti provocatori nelle Pantere Nere, veri e propri attacchi paramilitari, un po’ come fanno con gli zapatisti adesso. Il COINTELPRO [programma di controspionaggio dell’FBI] faceva circolare dichiarazioni false per metterci gli uni contro gli altri.

Quanto alla pratica politica, promuovevamo l’autorganizzazione a partire dai bisogni primari, come l’assistenza medica o il breakfast program: mostravamo le contraddizioni rispetto a ciò che il governo non faceva. Il primo breakfast program fu alla chiesa di West Oakland e presto il progetto si diffuse in molte città degli Stati Uniti: Pantere che si alzavano alle 4 del mattino per preparare la colazione ai ragazzini dei quartieri prima di andare a scuola. Intorno a noi c’era solidarietà, ad esempio da parte di molti negozianti, ma anche molta intimidazione e diverse facilitazioni promesse a chi non collaborasse con noi. Una volta, ad esempio, la polizia inviò una falsa lettera minatoria, apparentemente firmata da Huey Newton, a un imprenditore che finanziava il progetto.

Sei tra i protagonisti di questo lungo percorso politico afroamericano e più recentemente hai partecipato alle reti di solidarietà con il movimento zapatista messicano. Che connessione politica e biografica c’è tra queste due esperienze?

Noi siamo sempre stati internazionalisti. Avevamo compagni nel Vietnam del nord. Avevamo compagni in Nord Corea, compagni esiliati in Algeria nel 1969. Eravamo invitati a parlare in tutto il mondo in appoggio ai movimenti di solidarietà e resistenza contro le guerre. Bobby Seale e le altre Pantere viaggiavano parecchio. Anche qui negli USA eravamo in contatto con diverse lotte sulla razza: c’erano gli Young Lords portoricani, le Red Guards asiatiche, i movimenti chicani. Eravamo in contatto con le continue lotte in America Latina, ricordatevi le Olimpiadi di Città del Messico del 1968 quando ci fu il massacro degli studenti al Tlatelolco. Perciò quando Caleb Duarte, un giovane artista che avevo incontrato cinque o sei anni fa e che aveva aperto un centro artistico a San Cristobal, in Chiapas, mi chiese di andare nel sud del Messico come artist in residency, l’idea era di mostrare come le strategie estetiche avessero ispirato i percorsi di autodeterminazione di entrambi i movimenti, zapatista e afroamericano. Così nacque il progetto Zapantera Negra, attivo ancora oggi. Caleb conosceva diversi zapatisti e aveva contatti nei Caracoles e riuscì a organizzare il nostro contributo alle comunità sotto forma di murales e dipinti. Fu bellissimo, molti giovani del posto parteciparono attivamente, io purtroppo non parlo spagnolo ma potevo sentire le vibrazioni e l’entusiasmo. All’inizio si trattava di andare laggiù a incontrare persone, e in un certo senso era fare qualcosa di cui avevo sempre fatto parte, cioè portare solidarietà. Nel 2012 mi chiesero di fare una presentazione del mio volume con le Pantere Nere, ed erano presenti gruppi solidali da tutto il mondo. Rimasi un mese, fu un onore poter andare lì e conoscere quella realtà con i miei occhi. Dalla Bay Area molta gente era scesa in Chiapas nel corso degli anni, ma in quel periodo al di fuori di alcuni comitati di solidarietà poche persone seguivano ciò che succedeva in Messico. E infine sono tornato quest’anno [Dicembre 2013] per l’Escuelita zapatista, quando ci siamo incontrati.

Raccontaci della tua esperienza all’escuelita…

Io ero al Caracol di Morelia. Il mio votàn [guardiano, guida personale di ogni alunno e alunna dell’escuelita durante la permaneza nelle comunità] era un giovane zapatista di tredici anni. Io non parlavo spagnolo e lui non parlava inglese, ma ci dissero che ce la saremmo cavata. Siamo arrivati al Caracol dopo 7 ore di pullman e tutti gli zapatisti erano lì ad accoglierci. La collettività dove stavamo noi era a mezz’ora di distanza dal Caracol ed era mista, alcuni erano zapatisti e altri non lo erano. Noi lavoravamo ogni giorno nei terreni comuni. Era una casa semplice, con il pavimento di terra e la doccia fuori, sul lato della montagna vicino a dove cresceva parte del grano. La doccia era formata da un tubo che pompava acqua e ti lavavi nel fango, fuori [ride], con un telo di plastica teso tra alberi. E quando dovevi andare in bagno dovevi aggirare la collina e stare attento a non scivolare sul fango. Mangiavamo più che altro fagioli e riso e quella bevanda di mais scaldato [quello che in Messico chiamano pozole]. Pioggia di notte e sole di giorno, loro camminavano tranquillamente, io sarò caduto sei volte [ride] oppure per saltare un fiumiciattolo dovevo concentrarmi moltissimo [ride]. Oh… è un mondo diverso, amico.

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Eduardo Galeano non è morto – Memoria del Fuoco https://www.carmillaonline.com/2016/04/13/segnali-fumo-memoria-del-fuoco-eduardo-galeano/ Tue, 12 Apr 2016 22:01:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29707 Ritaglio Galeanodi Nicola Gobbi e Simone Scaffidi

SEGNALI DI FUMO. Un anno esatto fa, uno dei più grandi scrittori latinoamericani contemporanei, l’uruguayano Eduardo Galeano, consegnava la sua penna a La Flaca in un letto d’ospedale di Montevideo. Aveva 74 anni, un cancro ai polmoni e un’incredibile capacità di raccontare storie. Nelle sue opere erano presenti quelle particelle preziose che nel 1984, un altro nativo latinoamericano, Italo Calvino, aveva proposto per la letteratura del millennio che sarebbe venuto: la «leggerezza», la «rapidità», l’«esattezza», la «visibilità», la «molteplicità» e la «coerenza».

Ritaglio Galeanodi Nicola Gobbi e Simone Scaffidi

SEGNALI DI FUMO. Un anno esatto fa, uno dei più grandi scrittori latinoamericani contemporanei, l’uruguayano Eduardo Galeano, consegnava la sua penna a La Flaca in un letto d’ospedale di Montevideo. Aveva 74 anni, un cancro ai polmoni e un’incredibile capacità di raccontare storie. Nelle sue opere erano presenti quelle particelle preziose che nel 1984, un altro nativo latinoamericano, Italo Calvino, aveva proposto per la letteratura del millennio che sarebbe venuto: la «leggerezza», la «rapidità», l’«esattezza», la «visibilità», la «molteplicità» e la «coerenza».

Quando Calvino scriveva le sue «lezioni americane», Galeano stava ultimando la sua trilogia titolata Memoria del Fuoco, un’opera che s’inserisce senza esitazioni nell’idea di letteratura che aveva maturato Calvino e che – in maniera più trasversale del celebre Le vene aperte dell’America Latina – dà corpo alla complessità dell’universo americano e restituisce con pagine meticce e ribelli lo zeitgeist di un intero continente.

Galeano denudava i potenti Galeano con l’«esattezza» e la «coerenza» che rifugge il dogma; infilzava gli indifferenti con la «leggerezza» e la «rapidità» dei suoi frammenti; e restituiva dignità a coloro ai quali il potere strappava la voce, con la «visibilità» e la «molteplicità» degli sguardi. Oggi le parole di Galeano continuano a nutrirsi di quelle voci e vivono fuori dalla carta con la stessa intensità di quando furono scritte.

Procuratevi Memoria del fuoco, un racconto nei secoli – dalla Conquista al Novecento – che fugge il genere, come dichiara l’autore nell’incipit al terzo volume. Non romanzo, non poesia, non saggio, non cronaca giornalistica. Ma tutte queste cose e nessuna insieme. Proprio come Galeano: non  storico, non romanziere, non poeta, non giornalista, ma grande contastorie.

Ogni Galeano che va, lascia una moltitudine di storie e di vita che riempie e sottrae, ma non svuota. Non ci resta che godere dei frutti di questa moltitudine inquieta e ribelle, e – sull’esempio dei Galeano – moltipicare i sentieri di una resistenza culturale che sia azione quotidiana.

1. Omaggio a Galeano 2 - ITA2


 

2. Omaggio a Galeano 2 - ESP


 

3. Omaggio a Galeano 2 - ING2


 

4. Omaggio a Galeano 2 - FRA2

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Lo zapatismo a fumetti – Come il colore della terra https://www.carmillaonline.com/2015/05/12/lo-zapatismo-a-fumetti-come-il-colore-della-terra/ Mon, 11 May 2015 22:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22452 Colterra0di Simone Scaffidi L.

Marco Gastoni, Nicola Gobbi, Come il colore della terra, Eris Edizioni, Torino, 2015, prefazione di Pino Cacucci, pp. 128, € 16.00

Un’altra bella uscita per la combattente casa editrice Eris che si affida al talento di due giovani autori dalle spalle larghe per ribadire il valore e l’originalità della propria proposta culturale. Come il colore della terra è il risultato delle fatiche dello sceneggiatore Marco Gastoni e del disegnatore Nicola Gobbi, già autore insieme a Jacopo Frey di un interessante lavoro su Alexander Langer. Un [...]]]> Colterra0di Simone Scaffidi L.

Marco Gastoni, Nicola Gobbi, Come il colore della terra, Eris Edizioni, Torino, 2015, prefazione di Pino Cacucci, pp. 128, € 16.00

Un’altra bella uscita per la combattente casa editrice Eris che si affida al talento di due giovani autori dalle spalle larghe per ribadire il valore e l’originalità della propria proposta culturale. Come il colore della terra è il risultato delle fatiche dello sceneggiatore Marco Gastoni e del disegnatore Nicola Gobbi, già autore insieme a Jacopo Frey di un interessante lavoro su Alexander Langer. Un omaggio al movimento zapatista, all’ostinazione del suo percorso politico e alla moltitudine di storie che – grazie alle capacità comunicative degli zapatisti e all’attenzione internazionale nei confronti di un esperimento socio-politico senza precedenti – sono riemerse dall’oblio a cui era stata relegata la memoria dei popoli maya. Grazie agli zapatisti e alle zapatiste «il mondo ha scoperto che i maya esistono ancora, e pretendono di continuare a esistere» scrive Pino Cacucci nella prefazione al libro.

Colterra13bisSegue una storia per bambini ed adulti che ripercorre alcune tappe fondamentali del movimento zapatista senza costringere la narrazione alla cronaca, ma intrecciando con abilità narrativa l’invenzione letteraria e la fattualità storica. Juana e José sono due bambini, abitanti di un piccolo villaggio del sud-est messicano, nella regione del Chiapas. Portano al collo il fazzoletto rosso e lanciano ghiande contro i militari messicani, gli stessi che incendiano il loro villaggio e permettono al fuoco di propagarsi nella selva. Nel frattempo nel palazzo del presidente messicano, uomini in giacca e cravatta discutono su come estirpare la piaga zapatista, l’intervento militare non è bastato a far chinare la testa agli indigeni e la soluzione che si prospetta – e che si protrae fino ai giorni nostri – è una guerra a bassa intensità che nelle intenzioni del governo affievolirà la resistenza fino a farla scomparire.

Inoltrandosi nella selva, altri personaggi fanno il loro ingresso nella fiaba. Il fagiano ha tra il becco uno scarabeo nero quando interdetto si vede attaccato dalla volpe. Il fuoco sopraggiunge e costringe gli animali alla fuga, i corvi alla vista del fumo si dirigono sul luogo del misfatto per comprendere meglio cosa stia accadendo. Del fagiano e lo scarabeo non ne sentiremo più parlare mentre storie di volpi e corvi condiranno i sogni e le nottate insonni di Juana e José. Tuttavia, per chi ama le fiabe zapatiste, l’apparizione di uno scarabeo nero – che si è davvero perso di vista? – ha il sapore del tributo al leggendario Don Durito de la Selva Lacandona, colui che nominò suo fido scudiero e mozzo il Subcomandante Marcos, che si unì all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale come consigliere politico e che venne definito da Octavio Paz «un’invenzione letteraria memorabile».

Come-il-colore-della-terra-7bisLo scarabeo non ha però la pipa tra i denti, che ritroviamo invece nel becco del vecchio corvo Joj, memoria storica della selva, a cui Juana chiederà consiglio per risolvere i problemi che lei, José e la loro comunità hanno con la volpe. Le storie degli umani s’intersecano così con quelle degli animali e della terra che dà loro la vita relazionandosi in maniera orizzontale e inserendosi a pieno titolo nelle convinzioni cosmologiche dei maya, che vedevano l’uomo e la donna come frutti della terra, mescolanza di mais e acqua. La voce fuori campo che accompagna la narrazione è in realtà un volto immerso nella milpa, un passamontagna che nasce dal mais e racconta una storia di resistenza e solidarietà che dura da più di vent’anni. Il tempo scorre ma gli zapatisti e le zapatiste sono ancora lì a resistere e a reinventarsi. Juana e José, ormai adulti, continuano la loro lotta contro le ingiustizie e la distruzione della loro principale fonte e compagna di vita: la natura.

Come il colore della terra caffè malatestaA dare il senso di questa continuità, oltre alla struttura del racconto e all’evidenza dei fatti, sono due tavole/omaggio che seguono la storia di Gobbi e Gastoni. La prima è un riconoscimento da parte del disegnatore Paolo Cossi al lavoro dei due autori; la seconda, dello stesso Gobbi, è la conferma del mutuo sostegno tra gli autori e la Torrefazione Artigianale Autogestista Caffè Malatesta, che dal 2011 si occupa della torrefazione e confezionamento del Caffè Durito (eccolo che ritorna!) prodotto dalla Cooperativa zapatista Yachil Xojobal Chulchan, in Chiapas.

Come il colore della terra è fiaba e Storia al tempo stesso, ed è un’esplosione di colore che fa brillare i neri passamontagna degli zapatisti e dà ragione alla scommessa di Gobbi, amante dei bianchi e neri marcati, di mettersi in gioco e servirsi di ogni strumento a sua disposizione per incendiare coi colori i significati del racconto a fumetti. La matita è un machete che affonda nella milpa senza strattoni ma con l’intensità e il ritmo giusto, un’arma di resistenza e solidarietà che sconfina tra il reale e il fantastico e che rivendica il diritto all’autodeterminazione dei propri sogni.

[Per godere al meglio delle tavole, fai click sulle immagini per ingrandirle]

Come-il-colore-della-terra-5bis

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Diario dalla comunità di San Marcos Avilés, Chiapas https://www.carmillaonline.com/2014/06/27/diario-dalla-comunita-di-san-marcos-aviles-chiapas/ Thu, 26 Jun 2014 23:04:43 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15717 di Marco Cavinato

San Marcos Avilés Chiapas 1Sono arrivato alla comunità di San Marcos Avilés, situata in cima a un altopiano nel cuore della Selva Lacandona, grazie a un progetto del Fray Bartolomé de Las Casas, il centro per la difesa dei diritti umani che da 25 anni dalla città di San Cristobal de Las Casas sostiene in diversi modi le vittime della violenza e della repressione nello stato messicano del Chiapas, e quindi principalmente gli indios. Da qualche anno è operativo il progetto ‘‘Bricos”, che consiste nel documentare lo [...]]]> di Marco Cavinato

San Marcos Avilés Chiapas 1Sono arrivato alla comunità di San Marcos Avilés, situata in cima a un altopiano nel cuore della Selva Lacandona, grazie a un progetto del Fray Bartolomé de Las Casas, il centro per la difesa dei diritti umani che da 25 anni dalla città di San Cristobal de Las Casas sostiene in diversi modi le vittime della violenza e della repressione nello stato messicano del Chiapas, e quindi principalmente gli indios. Da qualche anno è operativo il progetto ‘‘Bricos”, che consiste nel documentare lo stato di alcune situazioni di conflitto attraverso l’invio di ‘‘brigate civili di osservazione’’. Le brigate sono destinate alle zone nelle quali il conflitto è vivo oppure dove è latente ma la tensione è comunque alta, quindi soprattutto in quelle comunità dove vive chi ha scelto la strada dell’autonomia e della resistenza. Nelle comunità autonome, zapatiste ma non solo, il conflitto è normalmente causato da militari o paramilitari che agiscono nella zona, ma in alcune realtà, come quella di San Marcos Avilés, le ragioni sono da ricercare all’interno della comunità stessa.

Nel 1994, anno dell’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, l’uomo che possedeva tutte le terre della comunità di San Marcos è stato cacciato da quegli indios che aveva sfruttato fino al giorno prima. Il possidente, poi, ha preteso una liquidazione per lasciare quei terreni ai contadini ribelli. “Abbiamo già pagato con il sangue dei nostri compagni”, è stata la risposta che ha ottenuto da loro. Da quel giorno le terre sono state dichiarate di proprietà dell’EZLN, per essere lavorate dalla gente di San Marcos che, dopo decenni di sfruttamenti e angherie, ha cominciato ad avere la possibilità di scegliere le condizioni del proprio lavoro e di beneficiare per intero dei suoi frutti. Così per un paio d’anni la comunità resta compatta e diventa una delle tante basi d’appoggio zapatiste, note anche con l’acronimo BAZ, ma nel 1996 arrivano i programmi d’appoggio del governo federale e dello stato del Chiapas, che rappresenteranno la prima causa di divisione nelle comunità autonome.

Gli indigeni che indossano il passamontagna per conquistare ‘‘terra e libertà’’, infatti, hanno conquistato un alto livello d’attenzione mediatica internazionale, troppo alto per essere repressi nel sangue secondo i “metodi” tradizionali dei governi messicani. Così, sia a livello statale che federale, il governo intraprende in Chiapas quella che viene definita ‘‘guerra sporca’’ o di bassa intensità: da una parte, paramilitari prezzolati che aggrediscono comunità e fanno sparire persone manovrati e finanziati dai partiti in un contesto di progressiva militarizzazione della regione. Dall’altra, appunto, i programmi di appoggio che prevedono aiuti economici per madri capofamiglia, per le famiglie con bambini e anziani a carico, oppure crediti e versamenti per ristrutturare casa. Insomma il governo messicano si ricorda improvvisamente dell’esistenza degli indios, in una regione che a livello nazionale ha la più alta percentuale di popolazione indigena, da sempre dimenticata, sfruttata ed emarginata, e che è anche quella meno alfabetizzata e con il più alto tasso di mortalità infantile. È quindi a colpi di puro assistenzialismo che i governi da allora cercano di fermare il dilagare degli zapatisti nelle comunità, senza presentare un solo progetto serio di sviluppo per queste.

Anche a San Marcos Avilés i programmi d’appoggio governativi hanno creato una netta divisione: dal 1996 molte persone hanno iniziato a togliersi il passamontagna e a uscire dall’organizzazione zapatista, della quale oggi fanno parte 34 famiglie: circa 140 sono invece le famiglie che si sono iscritte ai partiti politici nazionali per ricevere i loro soldi, i soldi degli stessi partiti che anche qui hanno sempre supportato i padroni delle terre e le multinazionali ai danni dei popoli che da sempre abitano queste zone. Tutto questo non rappresentava un problema di per sé per i compas (che è come i compagni zapatisti si chiamano tra loro), ma è chiaro che chi già si è venduto voglia sempre di più: quando nel 2010 hanno dichiarato che avrebbero costruito una scuola autonoma per i propri figli, come disposto dalla comandancia dell’EZLN, gli uomini passati dalla parte dei partiti (ricevere i programmi d’appoggio significa la sottoscrizione ufficiale al partito) definiti ‘‘partidistas’’ hanno utilizzato questo pretesto per presentarsi armati nelle case delle famiglie zapatiste e cacciarle nella notte.

San Marcos Avilés ChiapasSecondo quanto affermano i compas le intenzioni dei loro vicini partidistas sono chiare da anni: in nome della loro legittimità di fronte al “manipolo di testardi” che continua a far parte di un movimento clandestino di insorti, avrebbero come unico obbiettivo quello di appropriarsi di tutti i terreni appartenenti alle famiglie zapatiste. Per fare in modo che i propri figli potessero frequentare una scuola differente da quelle del “mal gobierno”, che impongono la storia coloniale e che tendono a negare le tradizioni e la cultura indigena, le 34 famiglie sfollate si sono trovate a soffrire la fame e il freddo nella notte della montagnane alcune donne hanno dovuto partorire in condizioni difficilmente immaginabili. Con il supporto delle comunità zapatiste vicine e di varie associazioni civili i compas sono potuti tornare dopo 33 giorni, trovando le loro case saccheggiate,  alcune piantagioni distrutte e il raccolto del caffè completamente sparito.

Da allora la situazione continua a essere tesa, e attualmente la principale questione (o pretesto per alimentare il conflitto) è quella legata all’elettricità che i compas non pagano al mal gobierno. Questa disobbedienza non sembra piacere ai partidistas che in varie occasioni hanno minacciato di cacciare nuvamente le 34 famiglie delle BAZ e di tagliare i cavi della luce che utilizzano. La nostra brigata di osservatori del progetto Bricos si ritrova all’alba a San Cristobal per salire su un furgoncino, pronto a lasciare la città per inoltrarsi nella selva, ed è composta da me, un tedesco, una spagnola e una venezuelana. Ci vogliono sei ore per arrivare alla comunità di San Marcos. Un compa di cui conosciamo solo il nome ci attende al municipio di Chillòn per poi salire assieme a noi sull’ultimo mezzo che si arrampica per la montagna fino ad arrivare alla cima dell’altopiano. Lì ci troviamo davanti alla escuelita autonoma, centro delle discordie del 2010, con i suoi murales in cui spicca l’immancabile faccione di Zapata. Ci siamo.

L’accoglienza è calorosa e i primi giorni scorrono pacificamente. Addirittura, durante la festa di un santo per la quale gli zapatisti hanno invitato una banda a suonare, lo spazio dedicato alle danze viene circondato da giovani appartenenti alle famiglie di partidistas che un compa, preso il microfono, invita a unirsi a loro. Per qualche ora ballano tutti insieme. Nonostante l’apparente tranquillità iniziale sono tanti i piccoli segnali che ci fanno percepire il costante stato d’allerta: ogni volta che ci muoviamo veniamo scortati da un compa e ci viene raccomandato di non lasciare la zona dell’accampamento dopo le 8 di sera.

All’inizio della seconda settimana l’uomo che assieme alla sua famiglia condivide la casa con noi ‘‘osservatori’’ ci mette al corrente di alcune voci secondo cui i partidistas avrebbero l’intenzione di tagliare alcuni cavi che portano la luce alle case delle famiglie zapatiste. La sera stessa i compas si riuniscono nella zona del nostro accampamento e improvvisamente cominciano a dileguarsi. Qualcuno ci dice frettolosamente che, in effetti, sono sorti problemi legati ai cavi della corrente, mentre un uomo esce imbracciando un fucile. Per ore non sappiamo niente di ciò che sta succedendo, e l’unico zapatista che dopo qualche ora ci raggiunge non parla una parola di spagnolo, essendo la lingua locale il maya ‘‘tzeltal’’. La ragazza spagnola giura di aver sentito degli spari. Per tutta la sera donne agitate passano con i figli per la zona dell’accampamento. Con le orecchie sempre tese ci addormentiamo a fatica senza sapere niente.

San marcos aviles 2La mattina successiva un compa ci sveglia alle 7 chiedendo a me e al tedesco di seguirlo, mentre le due ragazze restano nell’accampamento. Scattiamo su, ci infiliamo gli scarponi ai piedi, le macchine fotografiche in tasca e ci avviamo dietro di lui. Strada facendo ci spiega che, com’era stato previsto, i partidistas hanno tagliato alcuni cavi che portano luce ed energia a una decina di case di famiglie zapatiste. I compas arrivati sul posto sono stati ricevuti con un lancio di pietre, accompagnate da minacce: quando i partidistas si sono avvicinati a un secondo pilone per tagliare anche quei cavi, un gruppo di donne zapatiste li ha accerchiati per proteggerlo. Anche loro sono diventate il bersaglio di un fitto lancio di pietre e due di esse hanno riportato ferite alla testa e al corpo.

I partidistas hanno sparato alcuni colpi in aria e, nonostante la scelta degli zapatisti di non reagire alle provocazioni, per tutta la notte la tensione è rimasta alta. Ci riferiscono anche che quella stessa mattina c’è stato un altro tentativo di tagliare i cavi, non appena i compas si sono allontanati un attimo, alla fine della nottata di veglia. infine un nuovo lancio di pietre ha ferito due zapatisti. Arrivati sul posto, Luis, l’uomo che ci fa strada, ci mostra alcune pietre che sono state lanciate. C’è un tetto di lamiera sfondato da altri pietroni. Dopo aver scattato alcune foto, saliamo fino ai piloni. I cavi sono stati tagliati. Fotografiamo, documentiamo, guardiamo in alto.

Dal nulla compaiono, scendono dalla montagna una trentina di uomini, puntano decisi verso di noi, hanno in mano pietre, bastoni, fionde e qualche machete. Il compa Luis non indietreggia di un passo, e noi di certo non lo lasciamo solo. Le grida e le minacce sono soprattutto contro di me e il tedesco: ‘‘Non vogliamo gringos, tornatevene a casa vostra”. Sono istanti lunghi, densi, quelli in cui ci fronteggiano a pochi metri di distanza, puntandoci contro le fionde. A un tratto sentiamo delle grida dal basso: un gruppo compatto di compas, saranno una ventina, sta salendo verso di noi. Ci affiancano. Le due fazioni iniziano a discutere più che animatamente, e le uniche parole che possiamo cogliere in mezzo a tante frasi incomprensibili, gridate nella loro lingua, sono gli insulti. Dopo circa cinque minuti di tensione tra i partidistas compare qualcuno con una scala e un gruppo di loro si avvia verso un altro pilone. I compas ancora una volta decidono di non raccogliere la provocazione. Tra l’altro il goffo tentativo, “scala in mano”, stavolta non riesce perché l’attrezzo non è abbastanza alto. Lentamente il gruppo di partidistas si disperde e da questo momento la situazione pare sotto controllo, le cose si “normalizzano” per il resto della giornata e nei giorni successivi. Certo, continuano le minacce e le voci circa un possibile nuovo attacco ai danni dei compas, ma da queste parti ci sono abituati, sono problematiche “ordinarie”.

L’esperienza di poter condividere due settimane con queste famiglie della basi di appoggio zapatiste è stata incredibile. E incredibili sono anche la determinazione e la dignità di questi uomini e queste donne. La partenza da San Marcos è stata come un abbandono amaro, un adiós a tutte le famiglie con cui abbiamo condiviso luoghi, resistenze, speranze ma anche incertezze e inquietudini. Soprattutto per chi nel 2010 ha vissuto l’esperienza del desplazamiento, cioè la cacciata dalle proprie terre, e per i bambini ancora di più, le minacce si trasformano in paura, ma,  ascoltando le loro parole,  sembra che tutti, anche i più piccoli, abbiano compreso la portata della loro sfida. L’esperienza zapatista di costruzione dell’autonomia è qualcosa di straordinario anche per il livello di coscienza che questa gente ha acquisito. Nel mezzo della selva, in comunità tanto piccole quanto isolate e divise internamente come quella di San Marcos, si possono trovare esempi di resistenza quotidiana praticata con la massima naturalezza e consapevolezza.

I compas di San Marcos mi hanno impressionato per la lucidità con cui affrontano le situazioni di tensione e conflitto, e non si puà che ammirare la loro forza nel seguire ostinatamente il percorso dell’autodeterminazione, che per loro non è più un sogno. A chi è consapevole di questo non importa quale sia il prezzo. Tutto questo separa in modo netto i compas dai loro vicini che si sono venduti agli stessi partiti che hanno sempre favorito lo sfruttamento, l’emarginazione e l’eliminazione degli uomini e delle donne che abitano la selva. A San Marcos Aviles 34 famiglie, come migliaia di altre nel Sudest messicano, stanno combattendo quella che gli stessi zapatisti hanno definito “guerra contra el olvido” (“guerra contro l’oblio”). Non vogliono più essere dimenticati, messi da parte, in balia del proprio destino. “Mai più un Messico senza di noi” recitava uno striscione della carovana zapatista che nel 2006 percorse tutto il paese e realizzò la Otra Campaña. Chi, come i compas di San Marcos, non ha dimenticatole proprie origini, non abbassa la testa, non si lascia comprare e non si stanca di resistere, sta vincendo ogni giorno che passa. E allora ¡que siga la lucha!

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I sentieri dell’autonomia e la Comune di Oaxaca https://www.carmillaonline.com/2014/05/06/i-sentieri-dellautonomia-e-la-comune-di-oaxaca/ Mon, 05 May 2014 22:00:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14508 di Alessandro Peregalli e Martino Sacchi

Appo megamarcha[Partendo dall’esperienza della Escuelita Zapatista, un momento di apprendimento e scambio che ha riattivato la costruzione delle reti internazionali dell’EZLN a 10 anni dai caracoles e a 20 anni dall’insurrezione in Chiapas, l’articolo ripercorre la storia della “Comune di Oaxaca” e della APPO del 2006. Nella ricostruzione i due autori sono accompagnati dall’attivista messicano, fondatore della Universidad de la Tierra, Gustavo Esteva. I sentieri dell’autonomia, tra Oaxaca, Chiapas e Italia, ci portano al prossimo incontro internazionale convocato dagli zapatisti dal 31 maggio all’8 giugno, F. L.]

Nel dicembre del 2013 [...]]]> di Alessandro Peregalli e Martino Sacchi

Appo megamarcha[Partendo dall’esperienza della Escuelita Zapatista, un momento di apprendimento e scambio che ha riattivato la costruzione delle reti internazionali dell’EZLN a 10 anni dai caracoles e a 20 anni dall’insurrezione in Chiapas, l’articolo ripercorre la storia della “Comune di Oaxaca” e della APPO del 2006. Nella ricostruzione i due autori sono accompagnati dall’attivista messicano, fondatore della Universidad de la Tierra, Gustavo Esteva. I sentieri dell’autonomia, tra Oaxaca, Chiapas e Italia, ci portano al prossimo incontro internazionale convocato dagli zapatisti dal 31 maggio all’8 giugno, F. L.]

Nel dicembre del 2013 abbiamo partecipato alla seconda edizione della Escuelita Zapatista. A vent’anni dal levantamiento del 1 gennaio 1994, giorno in cui veniva ratificato il Trattato di Libero Commercio tra Messico e Stati Uniti (NAFTA), il movimento zapatista ha convocato un secondo momento di incontro umano e politico, dopo quello dello scorso agosto, con attivisti di ogni età e provenienza. Insieme ad altri 2200 compagne e compagni siamo stati ospitati per una settimana dalle famiglie e dalle comunità in resistenza della Selva Lacandona e della zona de los Altos de Chiapas, cercando di cogliere il senso profondo della loro esperienza di autonomia attraverso la condivisione materiale e il lavoro quotidiano.

appo paris comuneLa nostra Escuelita, tuttavia, è iniziata ben prima dell’arrivo in Chiapas. Dalla rete dei medios libres al collettivo La Guillotina a Città del Messico fino alla casa editrice indipendente del Rebozo, abbiamo tentato di documentare la realtà del Messico contemporaneo, dei suoi movimenti e delle sue lotte recenti. Tra questi, un incontro molto significativo è stato quello con Gustavo Esteva, intellettuale e attivista, allievo del teorico della descolarizzazione Ivan Illich. Ci siamo visti a Oaxaca, nella sede della Universidad de la Tierra, il centro di ricerca autonomo da lui fondato. Se il Messico è sempre stato uno straordinario laboratorio politico, Oaxaca ha avuto una particolare importanza all’interno di tale laboratorio per la sua forte tradizione di lotte per l’autogoverno.

Insieme a Gustavo abbiamo deciso di ripercorrere una di queste in particolare: l’insurrezione che nel giugno 2006 occupò la città, dando vita alla Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca (APPO), e ne trasformò in maniera irreversibile il volto e la storia. Ci sembra che alcuni elementi di questa esperienza radicale possano fornire una chiave d’analisi utile a comprendere ciò che nel sud del Messico si sta muovendo ora, dall’escuelita zapatista all’imminente data del 31 maggio che vedrà intellettuali di rilevanza mondiale, tra cui per esempio Immanuel Wallerstein, Raul Zibechi, John Holloway, partecipare a un incontro internazionale in territorio zapatista. All’interno di questo quadro, crediamo che la storia della APPO sia utile per sbarazzarci del romanticismo che ha spesso avvolto lo sguardo occidentale, senza tuttavia perdere l’estrema ricchezza di questi movimenti. Come ci disse un piccolo artigiano incontrato vicino alla Iglesia de Santo Domingo, “a Oaxaca c’è un prima e un dopo la APPO”.

Il racconto di un’insurrezione

appo carro armato pemexLa “Comune di Oaxaca” sembrerebbe avere come riferimento più immediato l’insurrezione di Parigi del 1871. Questo riferimento, sollevato nel pieno degli eventi nell’autunno del 2006, fu però immediatamente rigettato dagli stessi comuneros che, racconta Esteva, commentarono con orgoglio: “la Comune di Parigi durò solo 50 giorni, la nostra sta durando più di cento”. Questo aneddoto dice forse più cose di quante ne direbbe una semplice battuta: ci dice infatti come l’esperienza insurrezionale che si consumò quell’anno a Oaxaca deve essere vista in primo luogo nella sua particolarità, senza doverla forzatamente collocare all’interno di un quadro, e di un copione, già scritto. L’elemento più interessante della Comune è forse la distanza tra i motivi della mobilitazione, specifici e circostanziati, e l’eccedenza politica sprigionata. Soggettività politiche nuove emersero attraverso pratiche spinte ben oltre ogni copione, mettendo in discussione lo Stato e il principio stesso della rappresentanza. Ripercorrere brevemente i motivi della mobilitazione e le sue eccedenze può fornire spunti di elaborazione politica decisamente interessanti, senza mai dimenticare che la APPO è stato un momento insurrezionale che ha le sue specificità storiche, che si intreccia con il Messico, le sue geografie e storie politiche.

Lo sciopero degli insegnanti della Sección 22 di Oaxaca e il malcontento generale verso il governatore della città, Ulises Ruiz, sono all’origine delle mobilitazioni che portarono il popolo oaxaqueño a combattere barricata per barricata la polizia federale. Cosi Esteva ci ha raccontato la dinamica che accese l’insurrezione: “Il 1 maggio 2006, come ogni anno in quella data, i maestri della Sección 22 si accamparono nello zocalo [piazza centrale] per portare avanti le loro rivendicazioni sindacali. Quella volta, tuttavia, l’accampata assunse un carattere permanente”.

La lotta dei maestri, per le specificità della storia del Messico, non è riconducibile a un conflitto corporativista, legato unicamente a questioni salariali, ma si è da sempre intrecciata con relazioni sociali più ampie. Ci spiega Esteva che la figura del maestro è sempre stata vista, in Messico, nei termini di “lottatore sociale”. Un primo momento costitutivo della centralità sociale del maestro va sicuramente rintracciato nel progetto cardenista, presto abortito, di socialismo messicano negli anni ’30. Durante il mandato del presidente Lázaro Cárdenas (1934-1940), i maestri parteciparono attivamente al processo di ripartizione delle terre, furono attivisti nelle comunità indigene e in un’epoca successiva emersero come forte componente sociale di opposizione in occasione del grande sciopero sindacale nazionale del 1958. A partire da questa importanza storica cerchiamo quindi di comprendere la solidarietà che gli insegnanti ricevettero quando, dopo un mese di aggressiva campagna del governatore contro lo sciopero, il 14 giugno 2006 questi decise di reprimere e sgomberare il presidio usando la forza e mandando la polizia. Il giorno seguente una grande manifestazione di piazza contro il governatore portò alla radicalizzazione del conflitto. Quando lo sciopero della Secciòn 22 fu represso, dunque, la gente scese in strada non solo per solidarizzare con gli insegnanti, ma soprattutto per manifestare un dissenso politico più ampio contro il governatore Ruiz, diventato il bersaglio principale della protesta.

Vista la grande partecipazione, i maestri e il sindacato convocarono una grande assemblea per reagire alla repressione nello zocalo ed allargare la protesta. “Il 20 giugno si fecero due cose: si propose un’assemblea popolare del popolo di Oaxaca, che corrispondeva più o meno all’idea tradizionale per questo tipo di mobilitazioni; poi, quando la sezione 22 dichiarò conclusa l’assemblea, la gente si rifiutò di tornare a casa. Così l’assemblea si converti in un meccanismo permanente.” Lo scarto che produsse la costituzione della APPO sta proprio nella coesistenza, durante tutto il periodo della mobilitazione, di due correnti: da un lato quella verticistica, seppur variegata al suo interno, del sindacato, che aveva “una tradizione di disciplina e organizzazione strutturata in funzione di autorità interne”, dall’altro un movimento molto ampio e antico che proveniva dalle comunità, indigene e rurali, dello stato di Oaxaca.

appo_shieldwall-1125Oaxaca è “forse il luogo nel Messico e nel mondo intero dove la tradizione di autogoverno è più forte. Tale autogoverno si basava sulle comunità e da lì tentò di proiettarsi su un piano ulteriore, per la prima volta si cercò di spostare queste pratiche a livello statale e questo non era mai avvenuto prima. La componente indigena portò le sue forme assembleari all’interno della APPO.” La storia della Comune di Oaxaca è dunque una storia di un’eccedenza non solo dalla semplice denuncia di una corruzione e di “malgoverno”, ma anche dalle forme stesse di direzione leninista sostenute dalle correnti del sindacato fortemente legate alla tradizione foquista e guevarista. Dall’ingovernabilità interna dei comuneros emerse un piano politico nuovo che ridefinì violentemente sia quello rappresentato dallo Stato e dalla politica rappresentativa, sia quello verticista che si proponeva di dirigere il movimento a partire dallo sciopero dei maestri. La posta in gioco era alta. Ridisegnare la città e la vita quotidiana durante la Comune di Oaxaca imponeva il prendere atto di una composizione del popolo oaxaqueño estremamente variegata, non riducibile ad una soggettività omogenea. La ricchezza di questa presa d’atto stava insomma nell’emergere congiunto di soggettività politiche la cui lunga storia era fino ad allora in un certo senso “sotterranea”: tra essi, in particolare, gli indigeni, da sempre esclusi dalle strutture del governo statale e portatori di pratiche difficilmente compatibili con questa; i lavoratori informali, che nelle piaghe del neo-liberismo e nella crisi delle vecchie tradizioni di lotta hanno via via trovato una loro centralità come oggetti dello sfruttamento capitalistico contemporaneo, ma anche come agenti sociali e politici autonomi; e le donne, e più che altro tutte le vittime dell’oppressione di genere, che per secoli hanno dovuto fare i conti con un patriarcato entrato in profondità nelle viscere della società messicana coloniale e post-coloniale.

Gli indigeni

appoLa Comune di Oaxaca nacque in un certo senso da un incontro tra un centro (l’economia informale, non salariata, urbana) e una periferia (le pratiche tradizionali indigene della campagna e le loro stesse economie). Ciò che ci sembra interessante è come queste soggettività, insieme al ruolo centrale delle donne nella Comune, abbiano ridefinito il lessico politico tradizionale. La componente indigena ebbe un ruolo decisivo nella APPO, in virtu’ delle forme di autogoverno che sedimentavano da secoli nelle loro comunità. Tuttavia, come Esteva ci dice, “la reazione dei popoli indigeni non fu immediata. Seguirono con interesse ciò che stava succedendo dopo il 20 giugno in città ma non si sentirono partecipi. Solo in un secondo momento iniziarono a coinvolgersi nella Appo”. La partecipazione indigena alla Comune di Oaxaca, e il modo in cui quest’ultima venne nutrita dalle secolari tradizioni di autonomia delle comunità indigene, non si può tuttavia capire se non facendo attenzione alle circostanze storiche di tale esperienza.

Esteva ci fornisce qui un quadro efficace: “Oaxaca, avendo meno del 5% della popolazione messicana, ha però un quinto dei municipi del paese. Questo avvenne per due ragioni: in primo luogo perché, a causa della resistenza indigena, lo stato dovette dividere i municipi per meglio controllare la popolazione; in seguito queste stesse popolazioni cominciarono a dividere tali municipi in modo che fossero coerenti per loro. Il municipio, dunque, nato come meccanismo di controllo dell’epoca coloniale e poi dello stato messicano, divenne uno strumento di autonomia dei villaggi, che lo riformularono come modo di esistenza e di governo, e come modo di relazionarsi con lo stato messicano. Mai però erano riusciti, nonostante molti tentativi, ad arrivare a un livello successivo, a organizzare cioè un gruppo di municipi in un’istanza superiore, in qualche modo equivalente alle giunte del buon governo zapatiste, dove si ha comunità, poi municipi autonomi e poi, appunto, le giunte”.

appo Oaxaca-rebellionQualcosa iniziò a cambiare nel 1992 quando la commemorazione dei 500 anni dall’invasione europea produsse, a Oaxaca come altrove in America latina, una situazione di grande tensione. Poco dopo, il 1 gennaio 1994, gli zapatisti si sollevavano in armi. L’allora governatore Diodoro Altamirano cercò di disinnescare un possibile allargamento della rivolta a Oaxaca provvedendo alla stipula di un “Nuovo Accordo” con le popolazioni indigene: l’esito fu una riforma elettorale che diede la possibilità ai villaggi di scegliere se organizzarsi politicamente in un sistema di partiti o secondo i cosiddetti “usos e costumbres”, antiche modalità assembleari di governo locale. Ad oggi, ci rivela Esteva, 412 municipi su 570 sono governati alla maniera indigena. Con la APPO, però si affermò per la prima volta, prepotentemente, il passaggio dal piano municipale a quello più ampio. Ciò non si verificò da un giorno all’altro, ma in un lungo processo che trovò compimento quando diverse APPO furono create nello stato di Oaxaca, dalla costa, all’istmo, alla sierra mixteca, organizzando per la prima volta in 500 anni assemblee a livello regionale in cui le comunità potessero darsi un autogoverno.

I tradifas

Se la “periferia” della Appo emerse con il fondamentale apporto dei popoli indigeni delle campagne, il “centro” urbano della capitale, quello delle barricate e delle occupazioni massive dei centri di potere politico, mediatico e culturale ebbe come componente fondamentale la grande e complessa categoria del lavoro informale. Per capire il ruolo che questa ha avuto nel corso dell’insurrezione dobbiamo considerare la nozione, ideata dallo stesso Esteva, di tradifas, ossia “trabajadores directos de la fabrica social”. La centralità dei tradifas è strettamente legata alla ristrutturazione neoliberale degli anni ottanta, quando buona parte dei lavoratori salariati e dei contadini confluì nel settore informale urbano: venditori ambulanti, piccoli commercianti e artigiani di strada, venditori di “comida de calle”… L’obiettivo che si dà Esteva è ridare un carattere di classe a questa categoria che è stata a lungo considerata un’appendice precapitalista o subordinata al proletariato. Ci racconta infatti che nel 2006 la vita quotidiana della Comune di Oaxaca, dalle assemblee di barrio [quartiere] alle barricate, dalla raccolta rifiuti all’assistenza sanitaria, era mandata avanti in buona parte proprio dai tradifas. Tuttavia, fino a quando il presidio dello zocalo venne gestito dalla Secciòn 22, “non sempre riuscivano a proiettare la loro prospettiva nei momenti decisionali”. La loro partecipazione si impose quando il sindacato ordinò di smontare le barricate all’arrivo della polizia, e i quartieri si rifiutarono di obbedire. “Reti di mutualismo quotidiano che già esistevano in città, che avevano la loro base sociale nei tradifas, furono riattivate in un contesto  diverso dalla APPO”.

Le donne

appo 3 cocheSe dunque, secondo Esteva, la APPO, o meglio, le APPO non furono un semplice rifugiarsi nelle pratiche tradizionali degli “usos e costumbres”, bensì un passo ulteriore, ciò fu dovuto all’emergere di nuove soggettività che espressero un necessario superamento della difesa di autonomie tradizionali e che marcarono un nuovo livello nel modo di pensare e praticare l’autogoverno. I tradifas, figli diretti della ristrutturazione neo-liberale, ne sono un esempio. Un altro, importante esempio, è quello delle donne. Sulla traccia di questa conversazione con Esteva, e sull’attenzione che lui stesso ha avuto sul ruolo delle donne nella APPO, pensiamo si apra uno spazio teorico estremamente interessante.

Ci teniamo a precisare prima di tutto che nell’utilizzare categorie come quelle di indigeni, tradifas, donne, non intendiamo in alcun modo reificarle, considerarle come naturalmente date. Siamo consapevoli che esse da sole non riassumono assolutamente l’estrema complessità del multiforme sfruttamento capitalista contemporaneo. Il fatto che noi le chiamiamo in causa proprio col proposito di distaccarci da ogni idea di avanguardia, come quella che vedeva nei maestri una centralità politica già data, non deve farci cadere nell’errore di sostituire tali categorie sociali alla figura del “luchador social”. Cerchiamo quindi, nel considerarle nel loro apporto fondamentale a un’esperienza come la APPO, di vederle più nella loro funzione disarticolante di certe rigidità ideologiche che in una qualche nuova assolutizzazione transtorica. Teniamo inoltre a precisare che, sul piano concreto, tali categorie non sono mai totali e date una volta per tutte, ma che presentano invece interessantissime intersezioni, per cui non è raro che un soggetto possa ritrovarsi sfruttato, in un luogo come Oaxaca, allo stesso tempo in quanto donna, in quanto indigena e in quanto tradifas.

appo-oaxaca 2Ciò detto, la partecipazione attiva delle donne durante la Comune fu un fatto fondamentale. Dotandosi di mezzi specifici, come Radio Cacerola e la Coordinadora de las Organizaciones de las Mujeres, e portando al centro dell’agenda politica le questioni di genere, le donne di Oaxaca emersero come una soggettività nuova per rompere la marginalità cui erano relegate non solo dall’ideologia patriarcale del Messico post-coloniale, ma anche nelle stesse comunità tradizionali. Parlare di autonomia nella Comune di Oaxaca non significa dunque rivendicare una qualche purezza o “semplicità” di costumi che esisteva nelle comunità e che fu poi spazzata via dalla modernità capitalista. Sicuramente l’eredità coloniale pesa su quella che il Subcomandante Marcos ha chiamato “la lunga notte dei 500 anni”: lo sfruttamento e lo sterminio continuano a braccare ogni tentativo di autodeterminazione dei popoli in Messico. Ma non c’è alcun ritorno al “passato perduto”, quanto piuttosto una rottura irreversibile. Le forme di autogoverno delle tradizioni comunitarie sono state centrali durante l’autogestione della città di Oaxaca nel 2006, ma sono state completamente ridefinite dalla partecipazione delle donne che ha imposto il tema del genere come elemento centrale, e non semplicemente accessorio, della rivolta politica.

Cosa ci può dire, oggi, la APPO?

La APPO è stato un momento insurrezionale che va letto attraverso il prisma delle sue eccedenze, del suo sedimento. Le soggettività politiche, i corpi che hanno combattuto in ogni strada sono legati a una lunga storia messicana e, al tempo stesso, non sono contenibili nella tradizione politica che ha animato le lotte in Messico. Di fronte alla figura omogenea del “lavoratore salariato”, Oaxaca ha sancito l’irriducibilità del proletariato alla “classe operaia”. Indigeni, donne e tradifas sono soggetti politici che non possono essere ridotti né al “soggetto rivoluzionario” della tradizione marxista-leninista, né all’indigeno che ritorna alle sue origini perdute. E’ solo sbarazzandoci di questo eurocentrismo che riusciremo a cogliere la natura nuova e intrinsecamente conflittuale di tali soggettività, nate da uno scontro che ha radici storiche millenarie e che tuttavia sempre si ripropone in termini nuovi.

Appo 3 ulises ruizE non è un caso che la stessa Escuelita zapatista abbia dato una particolare attenzione proprio al ruolo delle donne e alla difficoltà del percorso verso la loro autodeterminazione dentro il movimento. Nella variegata geografia della modernità messicana, in cui la sudditanza al capitale finanziario e nuove violentissime forme di espropriazione dei terreni coesistono in un medesimo meccanismo, ogni tentativo di omogeneità è totalitario. E’ forse l’articolare in maniera non gerarchica le forme di lotta senza volerle riassumere in alcuna avanguardia o soggettività il senso profondo dell’utopia zapatista di “un mondo in cui coesistono tanti mondi”.

E, lo ripetiamo, in questo processo di articolazione non c’è nessuna “purezza” da difendere, nessuna “semplicità del vivere a contatto con la terra” da rivendicare: c’è piuttosto un intersecarsi di tensioni che attraversa soggettività che continuamente si reinventano all’interno di un conflitto che dura da secoli. Ci chiederemo dunque: che cosa significa la difesa della terra in termini di resistenza al capitalismo? Com’è cambiato questo rapporto con la ristrutturazione neoliberale degli anni ottanta? Ha davvero senso pensare all’autonomia come modello rigido esportabile ovunque? Crediamo sia questa la prospettiva, scevra da ogni pauperismo romantico, attraverso cui guardare con interesse e speranza ciò che si muove ora in territorio zapatista, in particolare all’incontro del 31 Maggio. E per volere ancora, ad ogni latitudine, “para todos la luz, para todos todo”.

Link: Riassunto/Cronologia APPO-Oaxaca 2006: Parte  I  –  II  –  III

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