William Burroughs – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 20:04:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 6: Sam Spade, detective be bop, e il Dottor Sax, che sussurra nelle tenebre https://www.carmillaonline.com/2023/06/21/esperienze-estetiche-fondamentali-6-sam-spade-detective-be-bop-e-il-dottor-sax-che-sussurra-nelle-tenebre/ Wed, 21 Jun 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77516 di Diego Gabutti

On the Road, fine anni quaranta. Sal Paradise, il protagonista del romanzo, vale a dire Jack Kerouac in persona, mette per la prima volta piede a San Francisco. Dean Moriarty, al secolo Neal Cassidy, guida spericolatamente l’automobile giù dalle colline. «Wow! Ce l’abbiamo fatta!» esulta, sovreccitato. «Giusto in tempo per non restare a secco di benzina!» Quindi «imbocca l’Oakland Bay Bridge», scrive Kerouac, «ed entra strombazzando in città. I palazzi di uffici del centro scintillano di luci. Non viene da pensare a Sam Spade?»

Quando lessi per la prima volta “Sulla strada”, intorno alla metà dei sessanta, [...]]]> di Diego Gabutti

On the Road, fine anni quaranta. Sal Paradise, il protagonista del romanzo, vale a dire Jack Kerouac in persona, mette per la prima volta piede a San Francisco. Dean Moriarty, al secolo Neal Cassidy, guida spericolatamente l’automobile giù dalle colline. «Wow! Ce l’abbiamo fatta!» esulta, sovreccitato. «Giusto in tempo per non restare a secco di benzina!» Quindi «imbocca l’Oakland Bay Bridge», scrive Kerouac, «ed entra strombazzando in città. I palazzi di uffici del centro scintillano di luci. Non viene da pensare a Sam Spade?»

Quando lessi per la prima volta “Sulla strada”, intorno alla metà dei sessanta, un Baedeker per gli adolescenti che anelavano alle emozioni forti dell’autostop, non so quante volte avevo già letto “Il falcone maltese” di Dashiell Hammett. Ex mozzorecchi dell’Agenzia Pinkerton, caporione in segreto (secondo la leggenda) della cellula hollywoodiana del Partito comunista americano, sempre attaccato alla bottiglia come Nora e Nick Charles nell’”Uomo ombra”, “The Thin Man”, il suo romanzo del 1933 dal quale fu tratto un fortunato serial cinematografico, Hammett non ho più smesso mai di rileggerlo (non spesso quanto Dickens e Rex Stout, ma sempre molto spesso). “On the Road”, invece, l’ho riletto soltanto una volta o due (in compenso ho letto molte volte, di Kerouac, “Il dottor Sax”, il suo libro più bello… ci torniamo tra un momento).

Oggi ci sono almeno altre tre o quattro edizioni del Falcone, ma ai tempi c’era solo l’edizione Longanesi, del 1953, che conoscevo quasi a memoria, come le poesie del Vate («Taci. Su le soglie del bosco») o di Carducci («La nebbia agl’irti colli») imparate in prima media. Quanto all’edizione del 1936, apparsa nella collana Il romanzo per tutti, che ho ricordato in chiusura del capitolo precedente, all’epoca non ne sapevo nulla. Ne avrebbe trovata una copia, molto prima di me, Paolo Pianarosa, al quale più d’una volta la chiesi in prestito, sempre senza successo (da uomo di mondo, egli sapeva bene che «tra i modi consueti d’acquisizione di libri il più adeguato è la richiesta di prestito con successiva non restituzione», come scrisse da qualche parte Walter Benjamin). Non so, per finire, se Sal Paradise avesse letto il Falcone. Immagino di sì. Ma certamente aveva visto il film.

Tutti abbiamo visto il film.
The Maltese Falcon è patrimonio universale (come le mischie di Titti e Silvestro, come il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, come Pinocchio e Like A Rolling Stone). Quindi era al film, verosimilmente, che pensava Paradise entrando a San Francisco con Dean Moriarty.

Kerouac all’epoca aveva per mèntore William Burroughs, gran consumatore di romanzi polizieschi, oltre che di sostanze stupefacenti (degli uni e delle altre più ce n’era e meglio era). Nel 1945, avrebbero scritto insieme, nella lingua gelida e impassibile dei pulp, un romanzo intitolato And the Hippos Were Boiled in Their Tanks (E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, Adelphi 2014). Questo, per capirci, l’incipit: «Il sabato i bar chiudono alle tre di notte così sono arrivato a casa verso le quattro meno un quarto dopo aver fatto colazione al Riker’s all’angolo tra Christopher Street e Seventh Avenue. Ho gettato il Mirror e il News sul divano, mi sono tolto la giacca di tela crespa e l’ho gettata sui giornali. Volevo andarmene dritto a letto. In quel momento hanno suonato al citofono». Volontario omaggio ai personaggi e alle atmosfere dei pulp, The Hippos eccetera era la storia (vera) dell’omicidio, avvenuto un anno prima, nel 1944, di David Kammerer, un omosex amico di Burroughs e suo ex compagno d’università ad Harvard da parte di Lucien Carr, un giovanissimo poeta amico di Kerouac. Per giudizio unanime di tutti i futuri campioni della Beat Generation, Carr era tra loro il più dotato di talento letterario, nonché il meno indulgente con i molestatori.

Kammerer, invaghito di lui, lo tampinava da tempo. Quella notte era salito su per la scala antincendio e, mentre Carr dormiva in compagnia della sua ragazza, gli era entrato in casa dalla finestra nel tentativo di sedurlo. Esasperato, forse anche un po’ strafatto, Carr aveva afferrato un serramanico e, dopo mesi di persecuzione, gli aveva saldato il conto, quindi era corso da Kerouac, sconvolto. Che fare, adesso? Costituirsi? Fuggire? Era un bel problema, che avrebbe dato da pensare anche a un postino di James Cain, o a un cliente di Michael Shayne, il detective di Brett Halliday, per non parlare d’un assassino pallido dostoevskiano. Era l’alba. Kerouac e Carr cominciarono a vagare per New York cercando una soluzione, consultando gli amici, Burroughs, Ginsberg, pensando che Carr, ecco, avrebbe potuto filarsela in treno, via Grand Central, ma no, il treno no, lo avrebbero beccato alla prima stazione… uhm, e allora perché non procurarsi un imbarco su qualche mercantile diretto a Rio, a Manila, oppure in Alaska, e se anche questa via di fuga era impraticabile, magari poteva perdersi per un po’ tra i barboni e i «vinos» del Lower East Side. Dopo ventiquattr’ore d’incubo Carr s’arrese e bussò al più vicino distretto di polizia.

And the Hippos Were Boiled in Their Tanks raccontava questa storia ed era un pulp triste e magnifico. Sarebbe piaciuto a Cornell Woolrich, noto altrimenti come William Irish, che in quegli anni (anche lui a New York, dove viveva da eremita) scriveva storie di panico e orrore metropolitano che avrebbero ispirato grandi film a grandi registi: Hitchcock, Truffaut, Siodmak, (La finestra sul cortile, La donna fantasma, La mia droga si chiama Julie, La sposa in nero). Vittima di un’aggressione sessuale, giovane e di buona famiglia, Carr fu condannato a una pena lieve. Uscito di galera dopo qualche mese, cambiò vita: basta con la poesia, con le droghe, e niente più bohème. Come Arthur Rimbaud, che dopo la Comune s’era lasciato dietro le spalle la sua stagione all’inferno, anche Lucien Carr passò ad altro, senza rimpianti. Si parla di lui, mascherandone l’identità con uno pseudonimo, nelle classiche opere beatnik degli anni successivi: in Urlo di Ginsberg, e in tutto Kerouac. Restò in contatto con i vecchi amici, che incontrava ogni tanto per una birra e quattro chiacchiere, ma a Burroughs e Kerouac, per quanto insistessero, negò sempre il permesso di pubblicare And the Hippos eccetera. Diventato un giornalista di rango, adesso sedeva ai piani alti dell’Agenzia Reuters, aveva famiglia, e non voleva che le vecchie storie tornassero a galla. Fu suo figlio, Caleb Carr, autore di polizieschi ambientati nella New York d’inizio secolo, il più famoso L’alienista, a concedere infine il permesso di pubblicare il romanzo nel 2009, quando sia gli autori del libro sia il loro personaggio principale erano ormai tutti scomparsi da un pezzo.

David Kammerer era andato incontro al grande sonno (per citare Raymond Chandler) il 13 agosto del 1944. The Maltese Falcon era un film di tre anni prima. Kammerer morì nell’ultimo anno di guerra; il film fu girato poco prima di Pearl Harbor, quando lo Zio Sam s’apprestava a prendere le armi. Non c’era che violenza nel mondo.
Di questo erano e sono metafora i pulp.
Bogart, in ogni modo. E poi John Huston, Mary Astor, Peter Lorre, Sidney Greenstreet, Ward Bond. Kerouac, come tutti, fu incantato dal film. E da Sam Spade, il poliziotto di Frisco.

Protagonista, nel 1941, del Mistero del falco di John Huston, che esordiva alla regia, Humphrey Bogart è stato il più iconico, ma non il primo, degli attori che in quegli anni interpretarono la parte di Spade in un adattamento cinematografico del Falcone. Nel 1931 un falso messicano (Ricardo Cortez, al secolo Jacob Krantz, viennese doc) era stato Spade in The Maltese Falcon, un film di Roy Del Ruth, oggi reperibile (in buone condizioni) sul web. C’era stato un altro Spade nel 1936: Warren William, che in un film del 1940 avrebbe braccato Lon Chaney jr nella parte di Larry Talbot, l’uomo-lupo, diede la caccia anche al falcone d’oro massiccio dei Cavalieri di Rodi in Satan Met a Lady di William Dieterle (dove, wonderly, la Dark lady è nientemeno che Bette Davis). Trovate anche questo su Internet. Ma Bogart era di un’altra classe.

Oscurò in via definitiva ogni Sam Spade passato e futuro quando stirò le labbra nel suo leggendario sorriso da caimano; quando disarmò Peter Lorre e lo stese con un pugno; e quando infine consegnò agli sbirri Mary Astor, la più perfetta delle femmes fatales, spaurita e spietata insieme, dicendole «forse io ti amo, forse tu mi ami», però ti mando lo stesso in galera perché è il mio mestiere… e perché hai ucciso il mio socio, che non mi piaceva, ma un uomo non può permettere che l’assassino del proprio socio la faccia franca; e se t’impiccheranno, okay, vuol dire che ti ricorderò per sempre, amore mio.
Fu a Bogey, al suo Borsalino calato sulla fronte, alla sua giacca doppio petto e ai suoi calzoni troppo larghi e svolazzanti sulle caviglie; fu a lui e agli occhi da cerbiatta ferita di Mary Astor; fu agli sguardi sfuggenti di Peter Lorre mentre tutti puntano contro tutti la pistola (e forse anche al Dottor Sax) che Kerouac pensò quando vide le «luci scintillanti» di Frisco oltre «l’Oakland Bay Bridge».

Alle origini del moderno poliziesco d’azione, c’è una rivista leggendaria, Black Mask, nata nel 1920 da un’idea del giornalista e critico di fede repubblicana Henry Louis Mencken, che ne fu il primo direttore. Come tutte le idee rivoluzionarie, era un’idea semplice: smetterla con i poliziotti solutori di rebus, con l’arsenico nel tè, con Miss Marple e Baker Street, per raccontare storie finalmente realistiche di veri poliziotti, d’autentici criminali e di veri, orribili delitti. Su Black Mask si fecero le ossa autori hard-boiled, duri e smagati come Raymond Chandler, George Harmon Coxe, Erle Stanley Gardner, Lester Dent, John D. MacDonald e naturalmente Dashiell Hammett, il più bravo di tutti.

Hammett, oltre a Sam Spade, aveva messo al mondo anche i coniugi Charles, già citati, e un altro detective privato: il Continental Op. Dieci chili di troppo, di mezza età, l’Op era un professionista, un cacciatore d’uomini di provata esperienza, e non era facile, per loffi e mafiosi, scrollarselo di dosso. Protagonista di Red Harvest (da noi Piombo e sangue) e di molti racconti, non aveva nome. Era noto soltanto come l’Operator della Continental Detective Agency’s, travestimento pulp dell’Agenzia Pinkerton, la polizia che aveva dato lavoro a Hammett prima che la tubercolosi e l’alcolismo lo togliessero dalle strade. All’epoca, quando l’FBI di Edgar J. Hoover non aveva ancora spiccato il volo, la Pinkerton (un’agenzia privata) era la sola polizia federale presente sul territorio degli Stati Uniti. Erano stati i «Pinkertons» a braccare il Mucchio Selvaggio di Butch Cassidy, a stanare Jesse e Frank James, a combattere i «rossi» e gli anarchici, a liquidare i «Molly Maguire», una banda armata clandestina di minatori irlandesi in guerra con i proprietari delle miniere della Pennsylvania. Quando Hammett raccontava storie di criminali e poliziotti, sapeva di chi e di cosa stava parlando: i suoi killer, le sue prostitute e pupe dei gangster, i suoi rapinatori e bidonisti, i suoi «mammasanta» e i suoi «soffia» erano autentici, ruspanti. Parlavano la lingua dei teppisti, niente smoking da teppista fotogenico, scrupoli zero, l’occhio sempre sul dollaro o sullo sgarbo da ripagare con gl’interessi, nelle tasche rasoi e pistole. È questo realismo da classi pericolose, lo slang incredibilmente sobrio ed efficace della voce narrante, a spiegare il successo delle storie di Hammett e l’eccezionale freschezza che ancora conservano, quasi un secolo dopo essere state scritte.

Protagonista della Trilogia Nova di Bill Burroughs è l’Ispettore J. Lee della Polizia Nova, che nei tre romanzi del serial – Il pasto nudo, La morbida macchina, Nova Express – è sulle tracce della Banda Nova, composta da criminali che hanno nomi da fumetto: Willy il Disco, Izzy la Spinta, Hamburger Mary, Johnny Yen, Tony il Busone, Mister Bradley/Mister Martin, il Dr Benway. Adesso confrontate questa lista con quella dei ricercati della Continental Detective Agency in un racconto del Continental Op: «C’erano il Gambetta, evaso da Leavenworth appena due mesi prima; Holmes il Sarto; Snohomish Whitey, ritenuto morto da eroe in Francia nel 1919; L.A. Slim, di Denver, senza calze e mutande, come al solito, con un biglietto da mille dollari cucito in ognuna delle due imbottiture delle spalle della giacca; Girrucci il Ragno, con un corsetto d’acciaio sotto la camicia e una cicatrice giù per tutta la guancia, ricordo d’anni prima del fratello; Pete in-Gamba, un tempo membro del congresso; Vojan il Nero, che una volta a Chicago aveva vinto ai dadi 175.000 dollari: portava tatuata in tre punti la parola Abracadabra; McCoy Pocheparole; Tom Brooks, cognato di Pocheparole, che inventò l’imbroglio alla Richmond e si comprò tre alberghi con i guadagni della truffa; Cudahy il Rosso, che rapinò il treno della Union Pacific nel 1924; Paddy il Messicano; Toro Mc Gonickle, ancora pallido per i quindici anni a Joliet; Denny Burke; Toby La Spugna, compagno di fuga del Toro, che si vantava di aver borseggiato il presidente Wilson in un vaudeville a Washington». Hammett e Burroughs: lo stesso cast. Nelle pagine di Hammett, poi nelle riscritture cut-up di Burroughs della tradizione dei pulp, il moderno poliziesco d’azione smette d’essere un genere letterario e cinematografico e diventa condizione antropologica.

Non soltanto io, che lo lessi nel 1968, appena tradotto da Magda de Cristofaro per Mondadori, 525º volume della collana «Medusa», ma anche lui, Kerouac, pensava che Il Dottor Sax fosse il suo romanzo migliore.
Non c’erano dentro soltanto gli amici di penna, di nuovo Ginsberg e Gregory Corso, ancora Lucien Carr, come in tutti gli altri suoi libri, oggi molto invecchiati e, francamente, leggibili solo a fatica. Non c’era dentro soltanto Burroughs, qui nella parte del «vecchio Bull Balloon», campione di poker e di biliardo, «Ridolini Bull Ballon», che ricorda il comico W.C. Fields e sputa sentenze taglienti come lamette da barba. Nel Doctor Sax c’era dentro Jack Kerouac bambino, cattolico, la sua origine franco-canadese. C’era dentro Lowell, Massachusetts, dove nel 1922 l’autore del Dottor Sax era stato battezzato e registrato all’anagrafe come «Jean-Louis Lebris de Kérouac», nome romanzesco, da moschettiere del re. C’erano dentro i fumetti che aveva letto da bambino, Mandrake, Flash Gordon, Arcibaldo e Petronilla, The Phantom, e i serial radiofonici che aveva ascoltato. Quelli di Doc Savage, scienziato senza pari e mister muscolo, la risposta metropolitana a Tarzan delle Scimmie, e quelli di The Shadow, l’Ombra, uno spietato vigilante al quale prestava voce e «risata cavernosa» (ma più precisamente terribilista) Orson Welles. «Sbalordiva», scrive Lebri de Kérouac, «che l’Ombra viaggiasse tanto, aveva una vita così facile facendo fuori gangsters sulla banchina del quartiere cinese di New York con la sua azzurra 45 (luccichio) — (forme abbattute di gangsters cinesi dalle giacchette attillate) (scroscianti guerre Tong del Gong) (l’Ombra scompare nella casa di Fu Manchú e esce sul retro di quella di Boston Blackie, colpendo con la sua 45 i curiosi sul molo, falciandoli, mentre arriva Braccio-di-ferro in una lancia a motore per portarli da Humphrey Bogart) uauh!» Ci sono anche, inventariati tra le letture predilette del sabato sera, «i giornali illustrati», vulgo pulp, «del Detective fantasma, col suo travestimento nella notte piovosa». All’Ombra, a Doc Savage e al Detective Fantasma, che imperversavano nelle serate radiofoniche, si aggiungevano i personaggi noti soltanto a Lowell, e a Lowell conosciuti soltanto da lui, Kerouac: il Serpente del Male o Gran Serpente del Mondo «la cui dimora sta nella giungla dell’Amazzonia e negli abissi dell’Ecuador» (o forse a Butte, nel Montana) e il Conte Condu, «alto, magro, col naso aquilino, ammantato, guanti bianchi, occhi biechi, sarcastico», giunto a Lowell da Bucarest, «un conte vampiro in mantello da sera». Su tutti spicca naturalmente il Dottor Sax, che Kerouac vede «la prima volta» nella sua «prima infanzia cattolica di Centralville: morti, funerali, la macabra atmosfera, la tenebrosa figura nell’angolo quando guardi la bara del morto nel doloroso salotto della casa aperta con un’orribile ghirlanda purpurea sulla porta».

Doctor Sax era una storia (per chiamarla così, una storia come tutte le storie di Kerouac, impossibili da afferrare per il capo o per la coda) con dialoghi, tuffi al cuore, descrizioni febbrili. Protagonisti del libro i bambini, come nei classici di Mark Twain, Tom Sawyer, Becky Thatcher, Huck Finn, ma più esattamente come in quelli di Stephen King, il massimo specialista dell’horror con protagonisti bambini, salvo che all’epoca di Doctor Sax Stephen King aveva appena imparato a scrivere. C’era anche un po’ del Buio oltre la siepe, il solo (ma grande) romanzo di Harper Lee, sempre che sia stato scritto proprio da lei e non dai suoi editor, uno dei quali era Truman Capote, che figura nel libro (e nel film) come il bambino strano. Ma anche qui: Il buio oltre la siepe (in originale To Kill a Mockingbird, dove con «mockingbird» s’intende il tordo beffeggiatore) esce nel 1960, un anno dopo Sax. Tirandola un po’ ma non troppo per i capelli, dirò qui che Kerouac, nella sconfinatezza delle sue pagine, repertorio generale della letteratura americana alta e pop, tutto anticipa e tutto ricapitola. Un giorno, dimenticato On the Road insieme alle sciocchezze zen, quando finalmente «Dio dirà: sono vissuto», forse capiremo di che rarissima specie fosse la sua grandezza.

Ma non si resta bambini per sempre. Viene il giorno in cui la magia svanisce e la paura non è più spassosa, come all’inizio, quando si leggevano in beata innocenza i pulp o si ascoltavano i radiodrammi dell’Ombra, e allora «ecco sorgere la testa grande come una montagna del serpente che filtrava lenta dalla terra come un verme gigantesco che esce da una mela, ma con una verde gran lingua saettante che sputa fiamme grandi come le fiamme delle raffinerie. A perdita d’occhio vedevo esserini minuscoli volare nell’aria e pipistrelli e aquile plananti e rumore e confusione, tempeste di rumore, cose che cadevano, e polvere, polvere. Il conte Condu stava nella sua cassa, inchiodato per l’Eternità alle braci del Pozzo dove insieme a diecimila gnomi era precipitato gemendo a testa bassa insieme a Baroque, Espiritu, la contessa, Boaz Junior, Flapsnaw, Blook il Mostro, innumerevoli anonimi altri. Polvere dei tumulti, un mondo tenebroso…». D’un tratto tutto svapora. «Gridai al dottor Sax: “È questo il Castello del Mondo?”» Ma d’improvviso non c’era più traccia «del marciapiede di Moody Street, Pawtucketville, Lowell, Massachusetts, dove nel mio sogno stavo seduto con carta e matita in mano» lasciando «vagare libera la mente».

Kerouac venne a presentare il libro in Italia, ospite della casa editrice, in cambio d’un pidocchioso cachet di mille dollari. Sembrava che anche lui fosse svanito, «risucchiato giù nel grande fiume» mentre cercava di «prendere al laccio qualcosa che galleggiava trasportato dalla piena». Era uno straccio. Si presentò in televisione ubriaco fradicio, smarrito. S’addormentava quando lo intervistavano. Una volta, svegliandosi, dichiarò d’essere più grande di Dante. 1968. A Napoli, per aver ricordato con ammirazione un amico della vecchia ghenga beatnik reduce del Vietnam, fu cacciato dall’università dagli studenti marxleninisti: «Fascista! Fascista!» Diventato adulto, aveva detto d’aver visto ancora «diverse volte il dottor Sax, soprattutto al crepuscolo, d’autunno, quando i ragazzini saltano su e giù strepitando. Adesso si occupa solo di cose allegre». Quarantasettenne, Kerouac andò incontro al grande sonno un anno più tardi, nel 1969. A San Francisco, vent’anni prima, le «luci scintillanti» di Frisco certamente illuminarono, insieme al Borsalino di Spade, anche la figura d’ombra guizzante di Sax. Che fosse Frisco il Castello del Mondo?

Presto San Francisco, la città che faceva pensare a Sam Spade e agli omicidi espressionisti nel violento black and white dei vecchi film, avrebbe abbracciato l’intenso technicolor della Summer of Love: murales, marijuana, hippie in giro a piedi nudi per Haight-Ashbury, artisti di strada, San Francisco (Be Sure to Wear Flowers In Your Hair) e altre song sdolcinate, la critica a bischero sciolto della civiltà industriale di Herbert Marcuse, che insegnava a San Diego, lì a due passi, e che in piena singolarità controculturale, nel 1964, pubblicò L’uomo a una dimensione, il suo libro più celebre, e il più dimenticato. Frisco, tramontata l’età del classico cinema noir, diventò la città della libreria City Lighs di Lawrence Ferlinghetti, nonché delle edizioni omonime, dove apparvero le più classiche opere della beat generation: Ginsberg, Gregory Corso, lo stesso Ferlinghetti, Charles Bukowski. E anche qui, fateci caso, sono le «luci scintillanti» di Frisco che la libreria di Colombus Avenue celebra con le sue insegne. Sono le stesse luci che pochi anni più tardi, passata in fretta (e furia) la festa del flower power, avrebbero illuminato il set dell’Uomo venuto dall’impossibile (il film di Nicholas Meyer in cui H.G. Wells viaggia nel tempo per dare la caccia a Jack lo Squartatore fuggito nella Frisco psichedelica) e quello di Killer Élite, uno dei cult di Sam Peckinpah, nonché le prime immagini à sensation del Black Panther Party, nato anch’esso in città: fucili a pompa, baschi, giubbotti di pelle, sguardi cattivi. Cacciato dalla porta, il pulp era rientrato dalla finestra, with flowers in her hair. Era stato l’arrivo in città, molti anni prima, di Sal Paradise e Dean Moriarty, sparati e festanti giù dalle colline, a gemellare noir e beat, swing e be-pop, pulp polizieschi e controcultura, Hippos e hippies, Polizia Nova e Continental Detective Agency.

Non sono mai stato a San Francisco, ma ho una tracolla che mio nipote, sapendo che mi sarebbe piaciuta, ha comprato ad Alcatraz, isolotto a nord della baia di Frisco, un tempo carcere federale, oggi tetra meta turistica, praticamente il memento mori (direbbe Marcuse) della società amministrata. Sul davanti della borsa ci sono scritte le regole della prigione da cui Clint Eastwood fugge nel film di Don Siegel (e dalla quale se la fila anche Sean Connery in un altro film, meno memorabile, The Rock, mentre l’impresa non riesce, e anzi neppure la tenta, però addomestica in compenso un passerotto, a Burt Lancaster nell’Uomo di Alcatraz). Stampigliato sulla borsa, il regolamento di Alcatraz (che in spagnolo sta per «pellicano») dice così: «Hai diritto a cibo, vestiti, riparo e cure mediche. Qualsiasi altra cosa è un privilegio».

Come chi non si decide mai a tagliarsi i baffi, benché lo rendano ridicolo, io porto tracolle da più di cinquant’anni. Ci sono tracolle, in giro per casa, che risalgono alle guerre risorgimentali, o almeno alla guerra del Vietnam. Un tempo ci tenevo libri, giornali e sigarette. Ma libri e giornali, da una decina d’anni, li leggo in versione digitale: sull’iPad quando sono a casa, sull’iPhone quando sono in giro. Inoltre, fiato premendomi, non fumo più da un pezzo. Quindi delle borse, sempre vuote, flosce come l’autostima d’un politico, potrei fare tranquillamente a meno, vista anche l’età (non sono soltanto i baffi a rendere ridicoli). Ma come rinunciare alla borsa di Alcatraz? È il riassunto generale d’un secolo di film noir, di canzonette, di pulp intramontabili, di zen della motocicletta, di Gran Serpenti del Mondo, di risate terribiliste, di vigilantes mascherati.

Come le mutande di Eta Beta, e come la Divina Commedia secondo Leo Longanesi, una tracolla può inoltre contenere «tutto». Chiudi gli occhi e peschi a caso nel mucchio: Nikolaj Nikolaevič Suchanov. (Qual è il contrario di tombola? Stombola?)

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Tutte le Storie possibili https://www.carmillaonline.com/2022/10/26/storia-e-non-storia/ Wed, 26 Oct 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74440 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ucrònomicon. Ovunque e quandunque nel multiverso, WriteUp Books, Roma 2022, pp. 208, 21,00 euro.

Sono poco meno di 380 le ucronie esplorate e rivelate dal testo di Diego Gabutti, recentemente dato alle stampe dalla WriteUp Books. Un numero sufficiente per destare l’attenzione di chiunque sia appassionato o si interessi di letteratura fantastica o fantascientifica, anche se non tutte quelle contenute e riassunte nel volume provengono dalla penna di autori rinviabili alla paraletteratura o letteratura di genere.

Oltre ad autori come Harry Turtledove (un vero specialista del genere [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ucrònomicon. Ovunque e quandunque nel multiverso, WriteUp Books, Roma 2022, pp. 208, 21,00 euro.

Sono poco meno di 380 le ucronie esplorate e rivelate dal testo di Diego Gabutti, recentemente dato alle stampe dalla WriteUp Books. Un numero sufficiente per destare l’attenzione di chiunque sia appassionato o si interessi di letteratura fantastica o fantascientifica, anche se non tutte quelle contenute e riassunte nel volume provengono dalla penna di autori rinviabili alla paraletteratura o letteratura di genere.

Oltre ad autori come Harry Turtledove (un vero specialista del genere ucronico), Philip Josè Farmer, Michael Moorcock o Robert Heinlein, solo per citarne alcuni, possiamo trovare infatti Luciano Bianciardi (con le sue cronache garibaldine frammischiate a quelle delle proteste di piazza degli anni Sessanta), William Burroughs, Guido Morselli, Michel Houellebeq, Philip Roth, Winston Churchill (sì, proprio quello) e molti altri ancora che hanno scelto di parlare del proprio tempo magari immaginandone un altro, dalla storia pregressa o futura decisamente diversa e “impensabile” secondo gli standard di ciò che è stato acquisito come verità immutabile..

In cosa consiste in fin dei conti l’ucronia se non nell’immaginare tempi e modi di una Storia che non è mai stata, ma che avrebbe potuto essere. L’ucronia può infatti essere definita come una presentazione di eventi coerente, ma ipotetica, simulata sulla base di dati non realistici. Una “non storia”, come la battezzò Charles Rouvenier nel 1857, per metterla in rima con la parola coniata da Tommaso Moro nel 1516; utopia o “non luogo”. Un non luogo temporale che potrebbe aver sostituito, in altre dimensioni o in uno o più universi paralleli, la nostra realtà e le interpretazioni a posteriori che di questa sono state date.

Una Storia, ci dice Gabutti, fatta con i se piuttosto che con la documentazione storica, scritta e “certificata”, con cui è stata ricostruita la nostra, antica e recente.
Per questo l’autore divide meticolosamente l’antologia di autori, citazioni e riflessioni in una serie di capitoli (denominati Divergenze)che vanno Dal Big Bang (ma anche prima e di lato) al primo anno dell’era cristiana (prima “divergenza”) all’Anno Duemila e dove chissà (undicesima e ultima divergenza) passando per Crociate, Jihad e la scoperta di molte Americhe, Fine Ottocento e ancora le macchine a vapore parallele e Guerra fredda e rock’n’roll, per citarne solo alcuni a caso.

Metodo che permette al sempre ironico e smaliziato autore di mettere in evidenza come un po’ tutta la Storia sia fatta coi se, considerato il fatto che tutte le grandi (?) ideologie e i loro derivati, dal cristianesimo al marxismo, stalinizzato oppure ortodosso (aggettivo sempre estremamente ambiguo), fino al liberalismo o al fascismo e al nazismo, l’hanno prima di tutto interpretata e spiegata ancor prima che ricostruita “fedelmente”. Per annunciare tanto il socialismo in un solo paese e l’avvento dell'”uomo nuovo” sovietico quanto il Reich Millenario o la stessa “fine della Storia” per merito del liberismo globalizzante.

L’assunto teleologico di ispirazione giudaico-cristiana ha infatti finito col dominare la visione del tempo, del suo divenire e della sua o del suo fine. Trasformando lo scorrere, spesso disordinato e casuale, degli eventi in un motivato, ineluttabile e certo percorso per il raggiungimento di obiettivi sovra-determinati da un dio, dalla volontà soggettiva (o di una classe), dall’idea hegeliana oppure dallo scorrimento della tettonica a zolle costituita dai rapporti economici di proprietà e produzione.

Negli ultimi due secoli, mentre l’horror film della modernità scorreva macabro e interminabile, con rari intervalli tra un tempo e l’altro per uscire a sgranchirsi le gambe o a fumare una sigaretta, la storia e il potere si sono visti e piaciuti, così hanno stretto un patto d’acciaio, come a suo tempo l’Altissimo e i signori del mondo per diritto divino: il potere gioca la sua partita e gli storici badano a convalidare e anzi a consacrare ogni sua mossa. Da racconto più o meno ordinato degli eventi, un genere letterario come tanti, la storia esige d’un tratto la maiuscola, che subito ostenta come una croce di cavalierato, quindi scolpisce le sue leggi sulla carne viva dei popoli e si autoproclama «scienza»1.

In attesa di eventi “imprevedibili” che possano rimetterla in discussione, insieme ai suoi bonzi, la lettura, possibilmente attenta oltre che divertita, di questo ampio e come al solito, nello stile di Gabutti, implacabile excursus letterario, si rivelerà utile al fine di evitare di prendere troppo seriamente e considerare come verità assolute quelle che potrebbero rivelarsi come nient’altro che ipotesi tra le tante possibili. Insomma soltanto altre ucronie di cui un giorno qualcuno potrebbe ridere (atto che, comunque, se imposto dagli eventi, è sempre più desiderabile di quello di piangere). Buona lettura!


  1. D. Gabutti, Ucronia (o «non storia») versus utopia (o «non luogo») in D. Gabutti, Ucrònomicon. Ovunque e quandunque nel multiverso, WriteUp Books, Roma 2022, p. 15  

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Per una critica della società dell’Apocalisse permanente https://www.carmillaonline.com/2021/09/22/per-una-critica-della-societa-dellapocalisse-permanente/ Wed, 22 Sep 2021 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68263 di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel constatare come l’umanità contemporanea si sia assuefatta a vivere, anche se sarebbe forse meglio dire sopravvivere, in una apocalisse continua: climatica, economica, politica, militare, sanitaria, sociale e ambientale.
Un autentico inferno che, colui che è ancora rappresentato nell’iconografia cristiana come l’aquila, per la sua lungimiranza e profonda capacità visionaria, non avrebbe saputo anticipare nemmeno nei suoi incubi più terribili.

Questa Apocalisse terrena, che non si è ancora sviluppata in alcuna lotta definitiva tra il Bene e il Male, anche se nel corso dei secoli milioni di persona sono morte a causa di crociate politico-militari e religiose che promettevano, da vari e contrastanti punti di vista, il trionfo del primo sul secondo, ha avuto, però e fin dai primi anni Settanta del ‘900, un suo anticipatore, seguito da un ristretto numero di seguaci, in Giorgio Cesarano.

Come afferma Francesco “Kukki” Santini nel riassumerne l’opera di Giorgio Cesarano (1928-1975) intitolata, appunto, Apocalisse e Rivoluzione (con Gianni Collu, come attestava il frontespizio del manoscritto, Dedalo, Bari 1973):

Secondo Cesarano, i tempi delle contraddizioni capitalistiche si stanno facendo stretti, ed è necessario che la dialettica rivoluzionaria incalzi il processo catastrofico in cui il capitale si scontra con i limiti termodinamici della biosfera, preparando esiti apocalittici.
Tutte le contraddizioni storiche si assommano per disegnare la prospettiva dello scontro ultimativo che oppone il capitale – giunto a colonizzare non solo l’estensione fisica del Pianeta ma la stessa interiorità dei suoi schiavi – alla specie umana. Stiamo vivendo le prime fasi della “rivoluzione biologica”, risposta della corporeità vivente contro il pericolo di annichilamento e superamento dei limiti di tutte le rivoluzioni “storiche”.
Nel suo movimento, il capitale realizza il processo di reificazione inaugurato, fin dalla remota origine della specie, dal combinarsi subalterno del corpo biologico – debole e indifeso di fronte alla natura terrifica e ostile – con l’utensile-protesi. Da questa primaria alienazione in poi, l’utensile-protesi ha continuato a svilupparsi a scapito della corporeità e della sensibilità della specie, divenendo l’UT che subordina a sé tutto lo sviluppo “storico”. L’antica alienazione del “senso” della vita, di cui tendono ad appropriarsi le caste dominanti religiose e militari, genera l’accumulazione di segni e simboli che formano la lingua, separata dal corpo della specie e dalle sue necessità di comunicazione. La lingua sequestrata produce a sua volta l’Ego separato dall’inconscio, dal rimosso, dal desiderio “istintuale”, come rappresentante del dover-essere e della normativa sociale, propri di un vissuto storico collettivo fondato sul lavoro e sulla sofferenza1.

Fermiamoci per un momento, soltanto per svolgere alcune osservazioni su quanto è stato qui appena citato.
Quello che sarebbe diventato uno dei manifesti della critica radicale italiana2, accompagnato dal successivo Manuale di sopravvivenza (Dedalo, Bari 1974 e Bollati Boringhieri, Torino 2000), raccoglieva già al suo interno vari stimoli provenienti dall’opera di Jacques Camatte sulla specie-gemenweisen e il capitale totale, dall’idea del linguaggio come virus tratta dall’opera di William Burroughs e dalle catastrofiche previsioni contenute nel rapporto commissionato dal Club di Roma al MIT e pubblicato nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo.

Senza farsi imprigionare dal pensiero contenuto nell’opera dei due autori oppure dei ricercatori americani autori del Rapporto, Cesarano provocava e apriva la riflessione in direzione di vie ancora inesplorate dal pensiero rivoluzionario tradizionale. Così è possibile cogliere oggi, in quelle poche righe, le radici delle successive elaborazioni del primitivismo di John Zerzan oppure le elaborazioni che si sarebbero succedute in seguito sul passaggio di consegne dalla classe operaia alla specie umana nel suo complesso dei compiti della lotta contro il capitale e il suo pestifero e mortifero sviluppo.

Anticipando però, già allora, una critica al catastrofismo di stampo capitalistico che, eludendo il problema dello scontro di classe, ineliminabile dai rapporti di produzione e dalle scelte di utilizzo delle risorse, sarebbe poi giunto, ai nostri giorni, alla riproposizione del green capitalism e del recupero del nucleare come energia “pulita”.
In fin dei conti, proprio nel corso degli ultimi giorni, la denuncia del ministro alla Transizione Ecologica del possibile aumento del 40% dei costi dell’energia elettrica non ha fatto altro che prolungare l’allarmismo securitario cui si sono affidati da anni, in un autentico susseguirsi epidemico di emergenze continue, i governi per mantenere, con la paura, il proprio potere sui governati, senza mai dover mettere in discussione il modo di produzione che causa davvero disastri e sprechi insostenibili per la specie e il pianeta. Anzi, semmai colpevolizzando la specie nel suo complesso attraverso le formulazione della teoria dell’Antropocene, evitando invece di parlare, più correttamente, di Capitalocene3.

La rivoluzione, come tradizionalmente l’alta magia e la religione, affronta il nemico esterno per mezzo della vera guerra. Questa non può prescindere dallo scontro con tutte le immagini del Sé, che lo riproducono a somiglianza del capitale come quantità di valore in processo, simbolo, ruolo, funzione della vita assente, inserito nella società in cui circola e si realizza (o si devalorizza) come merce immateriale e veicolo della lingua.
Il capitale, invece, condivide con la religione i contenuti della penitenza e del millenarismo: da un lato minaccia l’apocalisse, dall’altro chiama a sé a specie come gregge della sopravvivenza, inquadrato dalle nuove ideologie neocristiane del dubbio, del problema, dell’autocritica.
La produzione di persone di nuovo tipo è parte integrante del progetto planetario della carestia: trasferimento del grosso della produzione di merci materiali alla periferia del mondo capitalista e sua sostituzione con la colonizzazione dell’interiorità e la creazione di nuove merci corrispondenti (ruoli sociali, farmaci, comunità terapeutiche, servizi)4.

Santini scriveva decenni or sono di un libro apparso nel 1973, ma basterebbe aggiungere all’elenco i social media, che oggi hanno letteralmente colonizzato la mente e l’immaginario della specie, per avere un quadro completo dell’Apocalisse in atto e della necessità di superare la mera sopravvivenza con una svolta rivoluzionaria. Anche se, per ora, lontana dal venire.

All’epoca, la stessa scelta “armata” sembrava proiettare ancora i militanti all’interno del mondo della Carestia5, poiché in tal modo la vera guerra veniva sostituita con l’autovalorizzazione per mezzo del sacrificio sanguinoso e dell’eroismo ritualistico, ma, sempre secondo Cesarano, la prospettiva del capitale di assoggettare definitivamente la specie, facendola parlare con la propria stessa voce, stava per fallire.

Il movimento della rivoluzione, pur col ritardo necessario ma non inevitabile degli infortuni della passione, pur con le perdite causate dalla disperazione e dalla solitudine dovute all’esigenza di inverarsi immediatisticamente e di non recede dai livelli di radicalità raggiunti, si appresta a disvelare la menzogna del mondo fittizio in cui ogni corpo è strappato all’essere e abolito, e, trapassando tutte le ideologie e i travestimenti dell’inorganico fattosi uomo, si avvicina allo scontro ultimativo e alla vittoria6.

Il dramma che sorge dalla lettura dell’antologia di testi di Francesco Santini, proposta dalle sempre stimolanti e attente Edizioni Colibrì, sorge però dal fatto che a fronte di tanta determinazione critica e politica i principali protagonisti di quella stagione (Eddy Ginosa nel 1971, Giorgio Cesarano nel 1975 e lo stesso Santini nel 1996) decisero tutti, in maniera decisamente ultimativa, di non piegarsi alla mediocrità del momento, esattamente come Guy Debord, uno dei loro principali ispiratori, avrebbe fatto nel 1994.

Il Je mange pas de ce pain-la di Benjamin Péret, diventava un imperativo assoluto, tale da far sì che la spasmodica attesa dell’evento rivoluzione finisse, a causa della sua prolungata assenza, col coincidere con la stoica decisione di rinunciare a una non-vita, il cui unico valore, per chi la viveva consciamente, poteva essere costituito soltanto dalla depressione e dal senso di impotenza. Non resa dunque, ma estrema affermazione di alterità nei confronti di un mondo ancora non pronto a recepire la radicalità di un messaggio che, in compenso, la borghesia dell’epoca aveva già percepito e represso attraverso arresti e accuse di coinvolgimento nelle sue trame più oscure, proprio nei confronti degli ambienti anarchici e proletari in cui la critica radicale, pur rivendicandosi comunista, aveva trovato maggior ascolto e accoglienza.

Tra i testi ripubblicati, oltre a quello già contenuto nella Cronologia della vita e delle opere che introduceva il terzo volume delle opere complete di Giorgio Cesarano, pubblicato con il titolo Critica dell’Utopia Capitale per conto dell’associazione culturale «Centro d’iniziativa Luca Rossi», sono compresi vari contributi di Santini apparsi sulla rivista «Insurrezione» e in altri contesti. Tra questi il più importante è proprio quello che dà il titolo al libro e in cui l’autore, prendendo le mosse dal suicidio di Cesarano, traccia una storia delle origini e degli sviluppi della critica radicale italiana, indicandone le radici nel movimento ’68, nell’Internazionale Situazionista e nelle correnti più lucide del pensiero comunista, consigliare e anarchico, anche se, a ben vedere, la critica radicale si differenziò da tutte queste.

Non soltanto storia, però, ma anche necessario bilancio critico di un’esperienza che perso in gran parte l’appuntamento decisivo con quello che avrebbe potuto costituire l’affermazione materiale delle sua anticipazioni, ovvero il movimento del ’77, finì, secondo Santini, troppo spesso col rinchiudersi su se stessa, inaridendosi. Come scrive ancora:

Verso la fine del’76, mentre i piccoli nuclei di «radicali» presenti in varie città d’Italia tendevano a prendere un atteggiamento di vuota superiorità che li avrebbe resi incapaci di realizzare qualsivoglia intervento efficace, esistevano occasioni di incontro con i Circoli del Proletariato Giovanile e l’incipiente Autonomia.
[…] A partire dalla fine del ’76, con l’esperienza dei Circoli del Proletariato Giovanile, preannunciata dagli scontri della primavera del ’75,la situazione italiana si riaprì rapidamente tornando a offrire ai rivoluzionari ricche occasioni di comunicazione col sociale.
La comparsa sul palcoscenico della politica dell’Autonomia Operaia non costituì in sé una novità. Infatti l’Autonomia può essere giustamente considerata nient’altro che una forma di militantismo di sinistra conseguente. La spiegazione del successo dell’Autonomia sta essenzialmente nella chiara scelta da parte sua della pratica dell’illegalità e della violenza. Lo scompiglio provocato nel quadro politico dai gruppi autonomi aprì un varco entro cui poterono irrompere i selvaggi delle metropoli.
[…] I grandi movimenti di Roma e Bologna nei primi mesi del ’77 realizzavano il sogno delle grandi rivolte armate fuori e contro i racket politico-sindacali covato dai radicali per tanti anni. Il ’77 non ebbe la portata, la profondità sociale e la durata del movimento precedente del ’67-’69; tuttavia determinò una situazione ancora più favorevole per il comunismo radicale.
Intanto, questa volta la politica militante dei gruppettari – che per tanti anni aveva costituito un freno e un blocco con cui, volenti o nolenti, i rivoluzionari avevano dovuto fare i conti – fu investita subito dalla critica feroce e irridente di un movimento che esprimeva come proprio presupposto l’esigenza di lottare per sé, per la vita di ciascuno, contro il sacrificio, la noia, il lavoro, per cambiare immediatamente se stessi, affrontando nel contempo a viso aperto l’assedio del mondo delle merci. Inoltre, stavolta, il blocco staliniano PCI-CGIL venne identificato come il nemico; si schierò subito apertamente contro il movimento e,per la prima volta, perse completamente il controllo della piazza7.

Per Francesco Santini, così come lo era stata per la critica radicale prima e per la rivista «Insurrezione» sul finire degli anni Settanta, l’ago magnetico della bussola politica rivoluzionaria doveva essere sempre rivolto in direzione degli episodi insurrezionali, di violenza e illegalità (come confermano ulteriormente gli scritti sul comontismo), che si caratterizzavano per il proprio essere di massa e spesso spontanei, quasi sempre con il proletariato giovanile metropolitano nei panni del principale attore protagonista.

Una concezione che vedeva nel rivoluzionario colui che sapeva cogliere e seguire con attenzione (se impossibilitato alla partecipazione diretta) tutte le possibili anticipazioni della Rivoluzione a venire, per momentanee e caduche che fossero, al fine di stilare un autentico atlante delle città insorte e del cammino verso la liberazione della specie dall’attuale modo di produzione dominante. Fatto che, come ci insegnano i nostri giorni, potrebbe rendersi ancora necessario nel nostro immediato futuro, in ogni angolo del mondo e in ogni frangente riconducibile allo scontro tra specie e capitale.

L’Italia di Roma e Bologna del ’77 si aggiungeva, come nuovo laboratorio insurrezionale, a Detroit, Stettino, Danzica, Belfast, Oakland, la Torino di corso Traiano, Parigi del maggio e tante altre città in rivolta, così come oggi Minneapolis, Beirut, Santiago del Cile, Barcellona, Hong Kong, le città francesi invase dai gilets jaunes e dai giovani delle banlieues, e altrettante ancora segnano e segneranno puntualmente il cammino sull’atlante stradale della rivoluzione. Che non potrà essere, per forza di cose e sempre di più, che anonima e tremenda.

Anche soltanto per questo il testo qui proposto dovrebbe essere letto da chiunque si voglia porre sul lato giusto delle barricate di oggi e domani. Nella certezza che soltanto la promessa di sviluppo infinito del capitalismo costituisce in sé un’illusoria utopia, al contrario di quanto molti servitori della sua causa hanno sempre voluto far credere al fine di segare le gambe all’immaginario e alla materialità della concretezza rivoluzionaria.


  1. Francesco “Kukki” Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1 a F. “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 90-91  

  2. Della quale si è parlato già qui su Carmilla  

  3. Come suggerisce invece Jason W. Moore in Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017  

  4. F. “Kukki” Santini, op. cit. pp.91-92  

  5. Sulla critica radicale all’esperienza della lotta armata si veda ancora Parafulmini e controfigure, numero speciale della rivista «Insurrezione», maggio 1979 qui oppure l’intero opuscolo, contenente estratti da Terrorismo o rivoluzione di Raoul Vaneigem (1972) e da Apocalisse e Rivoluzione (1973), ripubblicato con lo stesso titolo dalle Edizioni Anarchismo nella collana «Opuscoli provvisori» con il n° 28 e giunto alla sua terza edizione nel novembre 2013  

  6. F. K. Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1, op.cit., p. 92  

  7. Francesco “Kukki” Santini, La grande occasione del’77, in Apocalisse e sopravvivenza, op.cit., pp. 73-74  

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Si può vivere solo nel modo più feroce possibile https://www.carmillaonline.com/2021/03/17/si-puo-vivere-solo-nel-modo-piu-feroce-possibile/ Wed, 17 Mar 2021 21:10:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65293 di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio Vittorini e Fernanda Pivano), sicuramente un ottimo punto di riferimento. Prova ne sia questo romanzo di Robert Coover, tradotto magistralmente da Riccardo Duranti.

Robert Coover (1932), autore di romanzi e racconti, è considerato uno dei padri della letteratura postmoderna statunitense e ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University.
Riccardo Duranti che ha avuto il compito, e la capacità, di trasporre in italiano le sue invenzioni linguistiche e letterarie, ha precedentemente tradotto l’opera omnia di Raymond Carver e autori come Cormac McCarthy, Richard Brautigan, Philipo K.Dick e Henry David Thoreau.

Per un romanzo che riprende le vicende del più noto, o dei più noti, tra i personaggi di Twain la traduzione si rivela come uno dei punti di forza, considerato che, per la prima volta, il linguaggio torna ad essere quello desiderato dallo scrittore che aveva preso il proprio nome d’arte dal gergo dei battellieri del Mississippi e che aveva tratto le proprie storie e le parole con cui raccontarle da quelle della Frontiera e della società americana a cavallo tra ‘800 e ‘900. Come afferma lo stesso Duranti:

A parte la narrazione fluida, in cui i piani temporali si sovrappongono e si fondono con continuità, i fantasmagorici effetti cooveriani di questo romanzo sono essenzialmente concentrati nel linguaggio. Coover riprende e porta alle estreme conseguenze l’intuizione di Twain di affidare a narratori improbabili e linguisticamente anomali la testimonianza degli eventi; e a mio parere raggiunge risultati ancor più efficaci dello stesso Twain, amplificando l’azione eversiva del linguaggio ruspante di Huck.
Questa centralità del linguaggio mi ha posto seri problemi di traduzione: nello sforzo di riprodurre, in un contesto linguistico diverso, scarti e deformazioni espressive irrinunciabili, le normali sfide traduttive sono amplificate ed esasperate.
[…] Come in tutti i tentativi di derivazione, non sempre le soluzioni sono all’altezza dell’originale, ma in alcuni casi, con mia grande sorpresa, l’equivalente italiano si è rivelato molto efficace, aggiungendo assonanze allusive più esplicite. Per esempio, il soprannome affibbiato al generale che perseguita Huck, Hard Ass, che diventa Culo Tosto e lo avvicina dal punto di vista fonico all’evidente modello storico del Generale Custer, con cui condivide almeno due nessi. Oppure le riunioni sulla “stragetia” da adottare con i pellirossa che Tom tiene con i suoi sodali e in cui la metatesi rivela più immediatamente in italiano che in inglese le inquietanti intenzioni che le sottendono1.

Coover si misura, in realtà, con un romanzo, Le avventure di Huckleberry Finn (1884), che T.S. Eliot aveva definito un “capolavoro”, in cui «il genio di Twain trova la sua piena realizzazione». A questo giudizio si sarebbe poi aggiunto quello di Ernest Hemingway: «Tutta la letteratura americana viene da un libro di Mark Twain che si intitola Huckleberry Finn… Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo»2.

Operazione certamente impegnativa quella di riprendere i personaggi di Mark Twain per seguirli nelle avventure successive a quelle originali, senza intaccarne le caratteristiche. Ancor di più se si coglie che Coover li immerge deliberatamente fino al collo nella storia del loro paese per circa un trentennio, sviluppandone le personalità con un realismo ed una credibilità sorprendenti.
Ma ciò ancora non basta: Coover riesce a demistificare e far implodere tutto il “mito americano”, soprattutto quello fondante della Frontiera.

Trent’anni di storia americana condensati nello sgangherato resoconto di Huck con tutte le relative tragedie e “contardizioni” (dalla guerra “sivile” alla corsa all’oro, passando per il genocidio delle tribù native ad opera dei coloni e dei “calvari-legieri”), da cui la retorica del mito patriottico esce decisamente a pezzi. Mentre sono impressionanti, e certamente non casuali, i collegamenti con l’attualità politica contemporanea.

«Gli Stati Uniti rivendicano questo territorio a se stessi per cacciare fuori a calci i pellerossa cannibali e blastemi – che non sono manco del tutto UMANI!» così ha detto. «E d’ora in poi, l’esercito americano proteggerà TUTTI i migranti legali e i minatori! OVUNQUE volete andare!». Tutti si sono messi ad acclamarlo come matti. «Vi assicuro, amici, che non ci saranno più massacri pellerossa né processi somari e manco più linciaggi! Tutto sarà LEGALE e PRO-PROGRESSO, aggiusta regola! La regola AMERICANA! Grassatori, osti-lì e leva-picchetti saranno PERSEGUITATI! Tutto dovrà essere come DOVREBBE essere! Stiamo costruendo la prima nazione perfetta al mondo quaggiù e non c’è nessun maledetto pellerossa che si metterà di traverso, e nemmanco nessun re e nessuna sciocchezza né senti né mentale né quacchera che sia, per non parlare manco dei banchieri forestieri! Costruiremo il paradiso in terra dove tutti saranno RICCHI e nessuno oserà togliervi quello che vi aspetta di diritto ed è VOSTRO! Questo è il nuovo ELDORADO!»3.

La grande promessa americana, sulle labbra dell’amico di sempre, Tom Sawyer, oppure su quelle di Trump o di Biden fa lo stesso, come Make America Great Again nasconde sempre la truffa, la menzogna e la violenza. Sarà l’evidenza dei fatti, e delle stragi di tribù e di animali (soprattutto cavalli) a spingere Huck, coerentemente al suo istintivo pessimismo anarchico, verso una crescente ammirazione per le storie del trickster Coyote, modello ideologico che Huck assorbe da Eeteh, il nuovo e definitivo (?) amico nativo americano, insieme ad un maggior apprezzamento di quello sociale, anche se decisamente imperfetto, dei Sioux Lakota con cui ha vissuto (non sempre felicemente) rispetto a quello “bianco” che si va affermando in tutta la sua crudezza.

In realtà, a trionfare è ancora una volta il desiderio di fuggire; lo stesso che già aveva animato le vicende di Huck nella sua scorribanda sul Grande Fiume (il Mississippi) nel romanzo originale e, successivamente, tutte le grandi fughe della letteratura americana. Da Jack London a Jack Kerouac compresi. Forse causate, anche inconsapevolmente, da ciò che avrebbe scritto in seguito William Burroughs, nel suo Pasto nudo (1959): «L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta».
Qualcosa che si coglie indirettamente nelle parole di un fotografo che dovrebbe documentare le gesta di un Tom Sawyer vestito e descritto come un Buffalo Bill circense

«Ho lo studio lì. Perlopiù facevo foto di morti. Sono famoso per la mia specialità: i ferrotipi di bambini morti. Se sono svelto a beccare i pupi, li sistemo in modo che sembrano ancora vivi. Nello studio ho un sacco di bambole di paglia per mettergliele nei pugnetti. I vecchi sono più facili se li becchi prima che s’irrigidiscono troppo, però non sono altrettanto carini. Ho fatto anche foto di gente viva, ma non vanno molto». Mi ha mostrato una foto che aveva fatto a Tom nel suo costume tutto bianco, con la mano infilata nella camicia, in sella a Tempesta come s’addice a un generale. Si è infilato un sigaro tra le sue ampie labbra, se lo è acceso e ha sorriso. «Lo Strabiliante Tom Sawyer è venuto lì a cercarmi e da allora l’ho seguito dappertutto. Gli faccio le foto dovunque va, mentre combatte i pellirosse, i rapinatori e l’ingiustizia, mentre cerca l’oro e appicca i crinimali, ma soprattutto quando si riposa in sella al suo cavallo col suo cappello bianco e il vestito di pelle di daino. Lui è il Sivilizzatore del West, me l’ha detto lui stesso. Sta facendo un libro famoso su se stesso»4.

Ma l’operazione di Coover è tutt’altro che forzata: l’ironia feroce nei confronti di un sistema violento e ingiusto era già nelle opere di Twain. Nei confronti di un sogno, quello americano della Frontiera, che si era trasformato da subito in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, alla fine dell’Ottocento stava già rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nella sua Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna del 18985.

E anche l’attenzione che Coover dedica all’autentica strage di cavalli, bisonti e altri animali che portò con sé la “conquista del West” deriva direttamente dalle pagine dell’autore a cui si è ispirato. Ad esempio, nell’Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, che è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani, che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni: «Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?»
«Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato»6.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche in quel caso con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

«Il toro viene sempre ucciso?»
«Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso».
«Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte»7.

Molto ci sarebbe ancora da dire su un libro, quello di Coover, che è tanto divertente quanto drammatico e, soprattutto, tanto ben scritto e tradotto, ma almeno un altro motivo di pregio va ancora qui segnalato: quello di aver integrato sapientemente il classico tall tale (racconto o narrazione che “le spara grosse”) della tradizione della letteratura della Frontiera con il recupero dell’oralità, da cui direttamente derivava la prima, della tradizione narrativa degli Indiani d’America. Soprattutto con le avventure del trickster Coyote8, celebrate qui magistralmente nella loro libertà espressiva, erotica e libertaria9.

In un bellissimo testo di Jaime De Angulo10 si afferma che «Le storie di Coyote formano un ciclo regolare, una saga […] Coyote ha una doppia personalità. E’ al tempo stesso il Creatore e il Buffone. L’uomo saggio e il buffone: ecco i due aspetti di Coyote, del Vecchio Uomo Coyote» (p. 89). Frutto di un immaginario altro, in cui la differenziazione tra il bene e il male non sembra avere una grande importanza, le storie di Coyote sembrano fornire l’unica spiegazione possibile per un mondo in cui la ferocia può essere combattuta e vinta soltanto dalla forza vitale e liberatrice della risata.


  1. Riccardo Duranti, Huck Finn pessimista e anarchico in Robert Coover, Huck Finn nel West, Enne Enne editore, Milano 2021, pp. 9-10  

  2. cit. in Norman Mailer, Huck Finn, vivo dopo 100 anni in M.Twain. Le avventure di Huckleberry Finn, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004, p.VI  

  3. R. Coover, op. cit., pp. 214-215  

  4. R. Coover, op. cit., pp. 249-250  

  5. Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli, Roma 2014  

  6. Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, p.88  

  7. M. Twain, op.cit., p.86  

  8. Sulla figura del trickster (briccone) nella tradizione dei popoli nativi dell’America settentrionale si veda: Carl Gustav Jung, Karl Kerény, Paul Radin, Il briccone divino, SE, Milano 2006  

  9. Ma raccolte anche, dalla voce dei nativi, nel magistrale Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi, Milano 1973, da troppi anni assente dal mercato editoriale italiano  

  10. Indiani in tuta, Adelphi 1978  

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Scommessa psichedelica, magia e favole per la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2021/01/25/scommessa-psichedelica-magia-e-favole-per-la-rivoluzione/ Mon, 25 Jan 2021 21:30:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64655 di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, [...]]]> di Piero Cipriano

Molti libri ho letto mentre l’anno infausto volgeva al termine e io smaltivo la penetrazione del virus nelle mie vie aeree. La febbre ne ha confuso perfino i confini, e in una inattesa book dissolution talvolta un libro o un autore si sconfinava nell’altro e diventava un solo testo.

 

Questi tre libri entrano a pieno titolo nel redivivo dibattito sulla psichedelia.

 

La scommessa psichedelica (Quodlibet) ormai fa il paio con Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. Se quello è stato definito una sorta di bibbia, questo, curato da Federico Di Vita, è considerato un po’ un vangelo, non lo so se è proprio il vangelo della psichedelia in Italia, senz’altro è un libro da leggere e rileggere, perché i contributi sono tanti, e gli evangelisti sono tutti formidabili.

Inizia Federico Di Vita con una efficacissima Breve storia universale della psichedelia. Così anche chi non ne sa niente entra nell’argomento. Suddivide in un’età dell’oro (quella dei pionieri Hoffmann, Huxley, Leary per capirci), un Medioevo psichedelico (dagli anni Settanta al nuovo secolo, dove personaggi più o meno sotterranei come Terence McKenna mantengono acceso il fuoco psichedelico sotto la cenere) e un rinascimento psichedelico (che si fa cominciare nel 2006, coi nuovi studi scientificamente ineccepibili dei vari Griffiths, Nutt, Carahart-Harris). Beppe Fiore racconta cos’è un trip report. Francesca Matteoni racconta una cerimonia sciamanica con ayahuasca che si svolge non in Amazzonia ma sulle colline toscane. Ilaria Giannini racconta perché tre o quattrocento milioni di depressi nel mondo (la popolazione degli Stati Uniti, per capirci) potrebbero giovarsi di psilocibina o microdosing di Lsd piuttosto che di farmaci SSRI da assumere a vita senza guarigione. Gli psichedelici, sostiene, riprendendo David Foster Wallace, potrebbero essere l’estintore che spegne l’incendio del grattacielo che induce le persone depresse a gettarsi di sotto per sottrarsi alle fiamme. Agnese Codignola, già autrice di LSD, altro importante volume sull’argomento, racconta, con la solita accuratezza, perché, tra molte molecole psichedeliche, l’ex presidente Trump si era fissato con la più scarsa di tutte: l’esketamina, la forma levogira della (più efficace) ketamina. Marco Cappato in Psichedelia e politica, ribadisce l’ineccepibile idea radicale: “il punto di vista libertario, in base al quale sono da rifuggire tutte le norme che limitano ingiustificatamente l’autodeterminazione individuale e mirano a imporre uno Stato Etico, per il quale ciò che è considerato moralmente giusto o opportuno da parte di chi detiene il potere può essere imposto con la forza a tutti i cittadini”. Lo leggevo e mi domandavo come si concilia il pensiero di Cappato con l’attuale pronunciamento di Emma Bonino in favore dell’obbligo di vaccinazione Covid. Vanni Santoni pone l’accento sul rischio concreto che il sistema (per mezzo di Big Pharma), non potendo più reprimerle, si risolva per inglobare le molecole psichedeliche. E, come ha fatto con la canapa light, depotenziata della visionarietà grazie alla sottrazione di Thc (la psichiatria accademica lo considera schizofrenogeno) lasciando l’innocuo cannabidiolo, possa arrivare “al paradosso degli psichedelici non visionari”: vale a dire togliere la visionarietà a psilocibina o ibogaina o Dmt. Per addomesticarle, farle diventare mero farmaco e non più tecnologia sofisticatissima in grado di cambiare coscienze e società. Operazione che, secondo Giorgio Samorini, denota non aver capito niente di psichedelia (togli la visionarietà, hai tolto la possibilità dell’estasi) oppure, dico io, vuol dire averla capita e volerla, proprio per questo, caricare a salve. Silvia Del Dosso e Noel Nicolaus scrivono di internet e psichedelia e magia, non dico altro perché non l’ho capito del tutto. Devo leggerlo meglio. Carlo Mazza Galanti suggerisce una serie di opere narrative che hanno parlato di droghe e grazie a lui ho appena iniziato a leggere Roma senza papa di Guido Morselli, una specie di Mondo nuovo dove i religiosi, non più celibi, invece che liquori alle erbe producono enteogeni. Federico Di Vita scrive di wahnstimmung nei festival di psytrance e Chiara Baldini racconta perché i festival psichedelici rappresentano una “versione moderna di qualcosa di molto antico” ovvero gli antichi culti misterici. Gregorio Magini, nel suo Pseudoglossario psichedelico, tra i vari temi affronta la morte dell’ego, il mito dello psiconauta, tutti ne parlano ma pochi forse hanno capito cosa sia ‘sta ego dissolution.

Gnosticismo acido, di Edoardo Camurri, è forse il saggio più difficile, molti ammettono di non averlo capito, alcuni gliel’hanno perfino confessato: Camurri, che hai scritto? E lui: mangia un po’ di fungo e rileggi.

A me pare dica questo (più o meno, ma senz’altro devo rileggere). Ci sono due eserciti gnostici, quelli buoni, noi, i maghi bianchi, dell’apertura, la cui tecnologia è la psichedelia, e quelli cattivi, i maghi neri, tra cui gli ingegneri lisergici cresciuti a pane e microdosi a Silicon Valley, la cui tecnologia è il medium digitale, ovvero l’imitazione della psichedelia.

La corrente ascensionale di dati, di informazioni, che vanno ad alimentare la macchina algoritmica che è il dio, e la corrente in discesa di dati, che ci confermano di essere ciò che siamo, ovvero il gatto di Canetti che gioca col topo (o meglio il topo giocato dal gatto), è nient’altro che la riedizione della doppia corrente, di discesa e ascesa delle anime, del pensiero gnostico: un dio veterotestamentario demiurgo omicida e irresponsabile ha creato un mondo carcere, dove forse nemmeno lui sa di avere, sopra la sua testa (essendo lui nient’altro che un “tirato a sorte tra gli angeli”, direbbe Cioran) il Dio supremo, il vero Dio, talmente trascendente da non essere conoscibile. Dunque, questa nostra anima, per azione di Demiurgo e delle sue potenze arcontiche, si incarna nei corpi, dimenticandosi la propria origine divina. Un mondo terribile e crudele. Ma grazie alla gnosi della propria origine divina, l’illuminato esce dal tempo, esce dalla storia, si risveglia, il suo tempo diventa eterno presente, ecco che la sua morte non esiste più.

Dunque, nella attualizzazione camurriana della dicotomia Demiurgo-Dio vero: il dio macchina è il dio demiurgico che crede di essere illimitato invece è, come quello della Genesi, una specie di i-dio-t savant, e Camurri, con Mark Fisher, propone di recuperare la tecnologia sciamanica (che questo è la psichedelia, nient’altro che una delle tecnologie, la più sbrigativa, se vogliamo, dell’arte sciamanica) questa ingegneria che sembra fuori dalla scienza, ingegneria che i signori del limite ovvero gli sciamani sanno usare, per democratizzare gli stati di coscienza espansi, e dunque la gnosi (che era poi l’obiettivo di Leary e non quello di Huxley, Huxley voleva illuminare le élite, Leary tentò di accendere tutti proprio tutti, e qui bisognerebbe passare direttamente all’altro contributo, quello di Andrea Betti, ma ci arrivo tra poco).

Per cui sì: se non puoi cambiare la storia, cambia il cervello di quante più persone. Rendere le persone dei comunisti acidi (dice Fisher) o degli gnostici acidi (dice Camurri) o dei mistici selvaggi (direi io) o, perché no, degli anarchici psichedelici (dico ancora io).

Ha ragione Camurri: la gnosis è autocoscienza, gli gnostici sono dei salvati per natura, la conoscenza libera, soprattutto (ecco il misticismo che consegue allo gnosticismo) libera l’amore, quello stato dell’essere che è la naturale conseguenza della gnosis.

Accade però che mentre sto per scrivere questo, e sto per scrivere qualcosa di Lucia la figlia di Joyce, e sto per scrivere qualcosa del Finnegans Wake (oddio, pure Biden l’ha citato), mi chiama Lucia, davvero, nel senso che mi chiama Gloria, la “schizofrenica” più florida e invasa di voci che io abbia mai conosciuto (e provato a curare). E mi attacca la ramanzina della telepatia, della telecinesi, del tempo, che in realtà – mi assicura – siamo nel 2039 e che di notte quelli vengono a farle visita (Chi? Gli esseri? Sembra vittima di una abduction notturna, Gloria). Ecco, dopo la telefonata di Gloria ripenso a Lucia la figlia di Joyce, e ciò che Joyce disse a Jung, ovvero che lui e sua figlia si erano saputi collegare (come spieghi se no l’anticipazione di parole future, google nike tigerwood) (Philip K. Dick, che la sapeva lunga su queste cose, l’aveva capito) con una coscienza cosmica, con un campo akashico direbbe Ervin Laszlo, o meglio con un campo morfogenetico direbbe quell’altro genio di Rupert Sheldrake (il padre di Merlin Sheldrake l’autore di un altro libro, L’ordine nascosto, di cui dovrei parlare ma non c’è tempo), per prendere parole che a noi, i coetanei, sembrano incomprensibili, glossolaliche, xenoglossia pura, ma che esistevano già, nel futuro. E Lucia, la schizofrenica figlia di Joyce, forse sa pescare nel futuro, nel registro akashico, ancora di più del padre. E l’insetto forbicina? Ma non faceva questo Burroughs col suo cut-up? Ma non facciamo tutto ciò, noialtri che scriviamo, non stiamo facendo gli insetti scrivani forbicina? Camurri ha sforbiciato Culianu Fisher Joyce io sforbicio Camurri Sheldrake Gloria, siamo tutti Earwicker. Noi infettati, parassitati, dal virus del linguaggio.

Gli schizofrenici sono (Joyce e sua figlia Lucia insegnano), forse, quelli che si sono spinti più in là, sono ormai fuori, sono salvi dalla macchina algoritmica, sono i salvati del secolo in corso però sono anche i sommersi del secolo scorso e di quello precedente, gli internati, troppo avanti erano, sono. Entronauti (direbbe Piero Scanziani) internati.

Lo stesso i dementi senili, pensateci, i parenti anziani degli schizofrenici (che dementi precoci venivano chiamati, a fine Ottocento, da Emil Kraepelin), entrambi fanno a meno della Default Mode Network (o huxleyana valvola della riduzione, che è più semplice) e riprendono possesso del cervello limbico e rettiliano o meglio dell’intero network gelatinoso di un chilo e mezzo per connettersi con gli altri mondi. Nietzsche, per esempio, che dicono impazzito per la demenza da treponema. Siamo sicuri che non abbia scelto di andare da Dioniso dopo averne così tanto scritto?

Siccome non c’è spazio e non c’è tempo vorrei dire qualcosa dello scritto di Andrea Betti, ex psiconauta che adesso non si arrischia perché non sa se la sua cardiopatia potrebbe risentire di un blotter pacco in cui non c’è Lsd ma chissà cosa. Lui mi piace molto, mi ci trovo proprio nel suo quasi fastidio per i rinascimentali, i rinascimentali che si sono svegliati ora e vorrebbero consegnarsi agli scienziati che fanno le ricerche ora sì ben fatte altro che quelle caciarone degli anni Sessanta, quelle sono da buttare, ricominciamo daccapo, i rinascimentali che danno addosso a Timothy Leary il più buffone di tutti, l’irresponsabile che voleva dare acido a tutti, e non soltanto alla “casta sacerdotale scientifica e letteraria che controlla, sintetizza e centellina il farmaco miracoloso ai ceti subalterni, microdosandoli” per garantirne la performance, la produttività macchinica. Giustamente, sottolinea Betti, qui è restaurazione altro che rinascimento. Ce l’ha con Michael Pollan, Andrea Betti, e io pure, quando ho letto il suo compito libresco ben fatto, tutto polarizzato sulla linea genealogica “aristocratico-farmaceutico-mistica” di Hofmann-Huxley-Osmond (diamo le molecole psichedeliche alle élite, sostengono i tre), minimizzando (o perfino biasimando) la linea genealogica “controculturale-rivoluzionaria” che fa capo a Artaud-Ginsberg-Leary-Kesey (accendiamo quanti più umani è possibile, e cambiamo la storia).

Rende giustizia, Betti, al genio di Antonin Artaud che nel 1936, in Messico, nel paese dei Tarahumara non ci va per guarirsi la dipendenza da laudano, e non ci va per incontrare Gesù Cristo, ma per trovare se stesso, ovvero Artaud, ovvero Dio. E sembra davvero che Artaud sia l’alfa della scommessa psichedelica laddove Mark Fisher sia l’omega. Questi due non proponevano un impiego di queste molecole per addomesticare gli umani e “creare persone docili in comunione col cosmo” ma (ecco Fisher) se non puoi cambiare la realtà del capitalismo, puoi cambiare la tua realtà, la tua coscienza, il tuo spazio-tempo, e ecco che la storia muta in ucronia. Questo fu l’esperimento magico degli anni Sessanta di cui dice Camurri, la psichedelia non era una novità, c’è sempre stata, da millenni, ma controllata da sciamani e alchimisti, negli anni Sessanta invece di colpo si democratizzò, la possibilità di modificare la propria coscienza e dunque la percezione della realtà fu un fenomeno accessibile a tutti.

*

A quel punto, però, il gioco psichedelico finì. E perché il gioco psichedelico finisce, verso la fine degli anni Sessanta, ce lo racconta un altro degli scapestrati protagonisti di quegli anni, Robert Anton Wilson detto RAW, in Sex, Drugs & Magik, libro che uscì la prima volta nel 1973 e che è stato appena ripubblicato da Spazio Interiore (a proposito, nella attuale celebrazione psichedelica c’è pochissimo spazio, in Italia, quasi niente anzi, per Spazio Interiore, ma questa casa editrice, in tutti questi anni di Medioevo psichedelico, è stata l’unica in Italia, insieme a Shake e Stampa Alternativa, a tenere accesa la fiammella, con le sue decine di pubblicazioni, da Stanislav Grof a Rick Strassman e, soltanto negli ultimi 3-4 anni, ha editato diversi testi importanti, ne cito solo alcuni: Frontiere della coscienza psichedelica di David J. Brown, Frammenti di un insegnamento psichedelico di Julian Palmer, o il bellissimo La via del fulmine dello sceneggiatore spericolato Marco Saura). Questo libro di RAW, come Il volo magico di Ugo Leonzio pure lui da poco ripubblicato per il Saggiatore, esce nei primi anni Settanta, subito dopo la messa al bando delle molecole brucia-cervello. Scrive RAW che il suo libro è “una storia informale di come certe pratiche segrete e a lungo nascoste […] si siano insinuate nel mondo occidentale durante il Medioevo, per essere schiacciate e/o ricondotte nel sottosuolo dalla Santa Inquisizione, e venire gradualmente riscoperte a partire dal 1900 circa”. “Esse sono emerse all’improvviso come una forza socio-rivoluzionaria negli anni Sessanta, per poi essere di nuovo schiacciate e ricondotte nel sottosuolo”. RAW pensa di aver compreso “il motivo per cui queste tecniche segrete di programmazione della mente siano state tenute nascoste così accuratamente e perché diventino oggetto di una persecuzione così feroce ogni volta che ne viene a conoscenza una più ampia fetta di popolazione in qualunque luogo del mondo”. Il Tantra, per esempio, “è riuscito a sopravvivere in Oriente proprio perché teneva nascosti i suoi segreti e non tentò mai di diventare una forza rivoluzionaria che avesse come conseguenza una qualche forma di cambiamento sociale. I tantristi, come gli altri buddisti, ritengono che liberarsi della coscienza o meglio imparare a modificare la coscienza tramite un atto di volontà sia possibile solo per una persona per volta, e che cercare di liberare il mondo intero sia controproducente”.

E’ l’errore di Leary, secondo RAW. Ammesso lo si voglia considerare un errore. E aggiunge: “Può darsi che non siamo ancora morti, ma solo ipnotizzati da filosofie morbose e moribonde. Forse i poteri della mente umana non si sono mai sprigionati pienamente a causa dei giochi paleolitici, neolitici, feudali, capitalisti o socialisti”. Insomma, deve ancora arrivare l’era buona perché gli esseri umani possano esercitare (per dirla con l’antipsichiatra Thomas Szasz) il “diritto all’autoprescrizione”. Diritto all’autoprescrizione grazie al quale tutti possano accedere alla grazia gratuita (direbbe Huxley) o a una peak experience (direbbe Maslow) o al satori (direbbero i buddisti zen) o al samadhi (direbbero gli indù) o al risveglio (direbbe Gurdjieff).

Questo si incaricò di fare Timothy Leary. Sottrarre queste tecnologie prodigiose ai pochi, per informare il mondo che “Dio era vivo e stava bene”.

E questo (torno allo scritto di Camurri) è un discorso puramente gnostico. Sono gli gnostici, che nei primi secoli della nostra era, propongono che l’uomo possa avere accesso ( ovvero conoscenza diretta) al paradiso, già da vivo, non solo da morto. Questo discorso gnostico, scrive RAW, non è mai venuto meno, ma si è trasmutato (alchemicamente) nel socialismo, nel comunismo, nell’anarchismo. Trovando l’acme proprio nella rivoluzione psichedelica degli anni Sessanta. Rivoluzione accesa da quegli “sciamani birichini e maliziosi” che furono Timothy Leary, Alan Watts, Aldous Huxley, Allen Ginsberg, William Burroughs, John Lilly, Humphrey Osmond e Ken Kesey. Sono questi moderni sciamani ad aver convinto milioni di esseri umani a diventare gnostici psichedelici capaci di penetrare l’Eden non per la porta principale (che per quella bisogna essere senza peccato, dice il Cristianesimo) ma per quella di servizio, non per la porta di Cristo, dunque, ma per quella di Dioniso.

Conclude RAW: il genocidio psichedelico che si è prodotto a partire dagli anni Settanta non è stato un caso unico nella storia, ma è soltanto l’ultimo episodio di caccia alle streghe. Perché “è in corso una guerra religiosa, ed è il pregiudizio teologico, più che l’obiettività scientifica” ad avere l’ultima parola.

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Il libro di Stefania Consigliere è dedicato all’antropologo David Graeber, “diplomatico fra mondi reali e possibili e poeta dell’anarchia”, ora in viaggio in un altro mondo possibile, ed è “dedicato a chi ha avuto una volta sentore di un altro mondo fuori dalle mura di un diverso stato del tempo”. Per cui ho pensato, mentre lo leggevo, che Favole del reincanto (Derive Approdi) era dedicato anche a me.

Qualche mese fa, qui su Carmilla, non fui molto gentile col libro (Psicotropici, edito Meltemi) di un importante antropologo francese, Jean-Loup Amselle, perché? Perché aveva maltrattato, irriso perfino, quegli occidentali che erano andati ai tropici a bere l’ayahuasca. Mi aveva infastidito il modo con cui scherniva i suoi colleghi antropologi che, dopo aver bevuto l’ayahuasca, avevano in qualche modo lasciato l’antropologia e si erano sciamanizzati (Michael Harner è forse l’esempio più noto). Lo so, mi ero fatto prendere la mano in difesa degli antropologi maltrattati da Amselle (quelli che non ce l’hanno fatta a fare la sua carriera, scriveva lui) e l’avevo maltrattato (perché lui non ce l’aveva fatta a bere, scrivevo io). Mi dispiace. Non lo farò più.

Ma come faceva a non rendersi conto che l’Amazzonia è ciò che per oltre un millennio era stata Eleusi, dove “intere generazioni di uomini e donne, schiavi, padroni” andavano per essere iniziati ai Misteri. Dove, dopo aver bevuto il kikeon, vedevano. Eleusi fu, per i greci, “un dispositivo iniziatico di massa”. Di cui noi occidentali, nei secoli successivi, siamo stati privati, “i roghi delle streghe”, “le istituzioni totali”, “i genocidi, i totalitarismi, la depressione di massa”, malattia degli occidentali. Dov’è, ora, Eleusi? Là dove è andata Stefania Consigliere, l’antropologa che si spinge oltre la barriera della superstizione (superstitio: eccessivo timore delle divinità, ciò che non è cristiano è pagano, dunque è superstizione, o, potremmo dire oggi, ciò che non è scientifico, razionale, ateo, è superstizione), in una maloca, la grande capanna rituale, dove il taita prepara lo yagé, a bere il doppio decotto, e dopo fare il “lungo corpo a corpo con la pianta”, parlare a tu per tu con l’abuelita.

Non sappiamo, scrive Stefania Consigliere, “quando i popoli amazzonici hanno iniziato a usare la banisteriopsis caapi” bollirla insieme alla psicotria viridis o altre piante visionarie per produrre questa bevanda che apre la “scorza psichica” degli umani e li rimette in connessione con le piante, con gli spiriti, con gli animali (li reincanta, dunque, li guarisce dal disincanto). Sarebbe bello che fosse avvenuto proprio quando la missione reincantatrice di Eleusi è venuta meno, il testimone è passato all’altro emisfero. Perché, scrive, “Yagé nights e riti eleusini si affiancano”, si rassomigliano proprio per questa “squalifica etica, epistemologica e ontologica che la cosmovisione moderna vi getta sopra”. Abbiamo rimosso dalla Grecia, per renderla razionale e logica, Eleusi e Orfeo, Dioniso e le baccanti, gli oracoli e il daimon di Socrate.

Perché una delle caratteristiche della modernità è “non pensarsi etnica, popolo fra altri popoli, ma universale”. Ecco, eventualmente, un limite del discorso di Mark Fisher: non c’è alternativa al capitalismo, scrive. Dove? Nel mondo moderno, occidentale, là dove c’è storia. In altri mondi, fuori dalla storia e fuori dalla modernità e dove c’è spazio per altri stati della coscienza: hai voglia, quante alternative. Gli spiriti, gli antenati, i morti, ridono del capitalismo. E ridono della storia.

Per avere la certezza di ciò, basta fare l’esperienza che ha osato Stefania Consigliere e ha ricusato Jean-Loup Amselle: “Lo yagé porta visioni di una precisione assurda”. “La possibilità di stare contemporaneamente in due mondi”, all’improvviso è possibile. Ecco il reincanto.

Questi “misteri sono una liturgia” (infatti in gergo vengono chiamati cerimonie), sono “un servizio”, che “serve a far funzionare il mondo in modo accettabile”. Adesso mi viene da pensare che le cerimonie sono riti di cura incredibilmente più efficaci del rito stanco e ormai unicamente polarizzato sul dio psicofarmaco (il dio occidentale non è diventato malattia, è diventato psicofarmaco), che si svolge nei Centri di Salute Mentale, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, e pure negli sterminati studioli privati di psicoterapeuti e psicanalisti (dove lo psicofarmaco serve da doping alla terapia parlata). Un dio psicofarmaco che restringe la coscienza e ottiene esattamente l’effetto opposto della molecola o pianta o bevanda che fa psiche + delos, allarga inverosimilmente il campo della coscienza. E super-incanta.

Il disincanto, che il mondo moderno ha prodotto, ha separato gli umani dal mondo, oltre all’Homo sapiens sembra che nient’altro ci sia, di pari dignità, nel cosmo: “Ninfe e spiriti scompaiono dai boschi”, “piante e animali smettono di interloquire”. Ovvio che un pianeta così depersonalizzato, si presti a essere depredato.

Scrive Stefania Consigliere che nel pamphlet di Jean-Loup Amselle “qualcosa non torna”: lui “racconta di gringos annoiati, hipsters alla ricerca di sensazioni forti, cowboy dello sballo”. Invece, la maggior parte delle persone che lei ha incontrato nella selva, le sono parse alla ricerca di qualcosa che, “a casa”, in occidente, non si riesce nemmeno a nominare. “Molti lavorano nelle istituzioni dei paesi ricchi, nei laboratori di ricerca, nelle università” (non sono tutti scappati di casa come nella narrazione di Amselle), sono “intellettuali raffinati addestrati allo scetticismo e al metodo scientifico”. E però sono andati nella selva, hanno partecipato alle yagé nights, per riconoscersi parte di un’esperienza iniziatica, che immaginavano antidoto al disincanto. O alla stregoneria capitalistica.

E non è forse stregoneria, magia nera, questo accumulo di ricchezza e potere che non viene rimesso in circolo? E non ha fatto proprio questo tipo di magia nera il capitalismo: sostituire la povertà (povertà è dove ancora c’è una quantità di beni materiali e c’è, ancora, la possibilità di procurarsi ciò che serve: coltivare il cibo o costruirsi la casa) con la miseria? Questo, dunque, è il capitalismo: magia nera. In Africa è stregone chi usa i propri poteri per il potere e la ricchezza, il plusvalore è magia nera.

Allora: perché si va nei luoghi dell’estasi, perché ci si affida agli sciamani signori del limite? Non certo per “scambiare l’ekstasis per il fine”, perché questo sarebbe molto triste, sarebbe nulla di più di una “mezz’ora d’aria concessa a chi acconsente alla gabbia”. “Non si va dove gli angeli esitano per aggiungere una tacca sull’atlante dell’esotico, per sballo o per darsi arie una volta tornati a casa”. Nella dimensione ek-statica occorre astuzia, metis e saggezza. Si va in quanto “rappresentanti di un gruppo” a cercare una notte di “preveggenza”, a “negoziare con le forze che, dentro di noi, ci piegano al meno peggio e all’acquiescenza”.

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Due passi avanti nell’Underground e uno indietro nell’oblio. https://www.carmillaonline.com/2019/10/02/due-passi-avanti-nellunderground-e-uno-indietro-nelloblio/ Wed, 02 Oct 2019 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54843 di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, [...]]]> di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, ma anche per lanciarsi nel mondo dell’underground e della controcultura attraverso la sua parallela Zapple: “Apple è stata una manifestazione di ingenuità beatlesiana, di ingenuità collettiva: dicevamo che avremmo fatto questo e quello, che avremmo aiutato chiunque e via dicendo: E siamo rimasti fregati alla grande, proprio alla grande. Non si sono fatti vivi gli artisti migliori, nessuno che valesse la pena di registrare – ci siamo beccati tutti gli scarti, gente a cui tutti gli altri avevano chiuso la porta in faccia. E gli altri, quelli che ci stavano veramente dentro, sono rimasti alla larga perché erano troppo orgogliosi”.
Un’efficace descrizione di un fallimento forse annunciato ma che, allo stesso tempo, descrive e sintetizza le speranze, le ingenuità, le gelosie e l’inettitudine che caratterizzarono la breve stagione della controcultura, al di qua e al di là dell’Atlantico, sul finire degli anni Sessanta.

Barry Miles (classe 1943), autentico cronista di quella cultura a cavallo degli anni Sessanta e Settanta cui ha dedicato decine di testi, fu indubbiamente tra i protagonisti di quella stagione: fondatore di International Times, meglio nota come IT, la prima rivista underground inglese ed europea, gestore di librerie e gallerie d’avanguardia (tutte destinate a chiudere quasi sempre rapidamente i battenti), amico e sodale di musicisti, poeti e artisti sui due lati dell’Atlantico, oltre ad essere anche tra gli organizzatori del 14 Hour Technicolor Dream, il concerto tenutosi il 29 aprile 1967 presso la Great Hall dell’Alexandra Palace di Londra, che avrebbe lanciato definitivamente gruppi come i Pink Floyd e i Soft Machine.

Nel testo, uscito in lingua originale nel 2014 per la Elephant Book Company Limited e corredato da un apparato iconografico piuttosto ricco ed interessante nell’attuale edizione, con ironia molto british e molta partecipazione, con qualche tracci di antipatia nei confronti di John Lennon e Yoko Ono e di ammirazione per il giovane Pul McCartney, narra appunto le vicissitudini di un esperimento creativo ed imprenditoriale, quello della Zapple Records, destinato all’insuccesso probabilmente fin dai primi vagiti che ne accompagnarono la nascita, di cui ci rimangono soltanto due opere, criptiche ed insolute: The Unfinished Music no.2. Life with Lions di John Lennon e Yoko Ono, assistiti da due musicisti jazz d’avanguardia come John Tchicai al sax e John Stevens alle percussioni, e Electronic Sounds di George Harrison, destinate a vedere la luce entrambe il 9 maggio 1969.

Come afferma nella sua prefazione Enzo Gentile:

I solchi del primo vinile rilasciano rumori, feroci feedback chitarristici, singhiozzi, strepiti: in parte le registrazioni provengono dall’ospedale in cui Yoko era stata ricoverata per una minaccia d’aborto.
Sono macchie di vita, emozioni e virus potentissimi, da sprigionare tra lo stupore dei media e la sostanziale incomprensione dei fans dei Beatles: i quali contemporaneamente lanciavano sul mercato il singolo Get Back, seguito dopo qualche settimana da The Ballad of John and Yoko, mentre correvano a pieni giri anche i motori delle session di Abbey Road, previsto per fine settembre.
Uno tsunami continuo, inafferrabile, il precipizio e l’estasi dentro il perimetro beatlesiano che oggi pare irreale, quasi una sfida al buon senso comune…

Un’esperienza crepuscolare, sul finire della storia del quartetto che più ha segnato la musica pop degli anni Sessanta in termini di successo, creatività e innovazione, che non vide coinvolti soltanto altri musicisti ma, soprattutto, anche poeti e scrittori del calibro di William Buttoughs, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Richard Brautigan, Charles Bukowski, Ken Weaver (membro dei Fugs) e Charles Olson.

Sì, poiché mentre gli artisti che furono prodotti e raggiunsero il successo con l’etichetta Apple, o anche soltanto lo sfiorarono, furono piuttosto insulsi come Mary Hopkins oppure i Grapefruit, il piano della Zapple prevedeva la pubblicazione di dischi contenenti le registrazioni di tali altri poeti mentre recitavano o leggevano le loro opere. Pare oggi incredibile, quando anche le letture di Patti Smith sembrano stentare a raccogliere un minimo di successo, ma all’epoca la poesia registrata poteva raggiungere buoni livelli di vendita e i festival di poesia potevano essere affollati anche da migliaia di persone.

Barry Miles avrebbe dovuto essere il responsabile di tali registrazioni e di tale settore della Zapple ed effettivamente ne realizzò diverse, sia in patria che negli Stati Uniti. Ma quell’esperienza doveva essere fatta, shakespearianamente, della sostanza dei sogni e quelle che furono realizzate effettivamente furono pubblicate solo successivamente, alla chiusura dell’esperienza Zapple, su altre etichette (EMI-Harvest, Folkways, Fantasy), mentre quelle di Charles Bukowski uscirono soltanto nel 1988 come album doppio per la King Mob: At Terror Street and Agony Way.
La parte più consistente di questi diari è proprio quella dedicata a questi incontri e all’influenza che alcuni di questi poeti, principalmente Burroughs con la sua tecnica di cut-up e Ginsberg con le sue stravaganze, ebbero sui Beatles e su John e Paul in particolare.

Un libro sicuramente da leggere per conoscere e approfondire la storia, e non il mito, di un’epoca e di un gruppo fondamentali per l’evoluzione della musica popolare e della cultura contemporanea, attraverso la breve vita di un’etichetta e di un progetto (febbraio 1969 – giugno dello stesso anno) destinati all’oblio nei fatti e al culto nella memoria di chiunque li abbia conosciuti e apprezzati.

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Ragazzi selvaggi affacciati alle finestre di un altro mondo https://www.carmillaonline.com/2018/08/01/ragazzi-selvaggi-affacciati-alle-finestre-di-un-altro-mondo/ Wed, 01 Aug 2018 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47670 di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce Il ventunesimo secolo inizia qui. Fuori dall’Occidente alla velocità della luce Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che [...]]]> di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra
Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce
Il ventunesimo secolo inizia qui.
Fuori dall’Occidente alla velocità della luce
Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio
Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che ho da dire
Questa è la fine di tutto ciò che è usuale
E questi saranno tempi in cui i mondi entreranno in collisione

Realizzate tutto ciò di fronte al Caos
In un universo indifferente e selvaggio».

Credo che siano davvero le parole più adatte per celebrare le decine di migliaia di persone che si sono raccolte, forse sarebbe meglio dire si sono polarizzate, intorno alla lotta No Tav della Val di Susa, ai suoi militanti, alle sue ragioni, al suo saper guardare al futuro.
Se il più ostile Tg regionale del Piemonte ha parlato di almeno 50.000 partecipanti, credo, senza timore di esagerare, che anche gli organizzatori possano confermare una simile cifra nell’enumerare tutti coloro che sono stati attratti magneticamente dall’area del Festival durante le quattro, meravigliose giornate.

Cinquantamila persone costituite al 90% da giovani compresi tra i sedici e i trent’anni. Ragazzi selvaggi non per i modi, ma per essersi lasciati trasportare dall’istinto, dall’amore per la libertà individuale e collettiva e dalla passione per un mondo diverso e altro. Per aver saputo costituire, massicciamente e senza alcun problema, una nuova comunità umana fatta di gentilezza, riso, felicità, lotta e rifiuto del modello esistenziale dominante.

Mentre i media e tutti i giornali mainstream, compreso il sempre più soporifero e inutile Manifesto, hanno dedicato all’evento poche righe, senza mai saperne cogliere la rilevanza oppure negandola per paura che di questa si accorgano altri milioni di giovani, italiani e stranieri esattamente come quelli che hanno popolato l’iniziativa e il suo disordinato, coloratissimo e vastissimo campeggio, i partecipanti, con la sola loro presenza, hanno saputo dire di NO al mondo dei grandi progetti, del capitale finanziario, delle mafie e camarille politiche, soprattutto di quelle che ancora si fingono di “sinistra”.

Ma il Re è nudo, e sarà inutile chiedersi ancora a “sinistra” dove sono i giovani: sono da un’altra parte, sulla frontiera delle lotte e dei cambiamenti magmatici che già si delineano all’orizzonte.
Sono ragazze e ragazzi bellissimi, detentori e portatori di un nuovo canone estetico e di nuovi desideri che, allo stesso tempo, sono coraggiosi, ingenui e maturi come tutti gli altri che li hanno preceduti nel tempo sullo stesso campo di battagli.

Sono giovani ragazzi selvaggi come quelli descritti decenni or sono da William Burroughs, il cui fantasma, in un ambiente off limits per le forze del disordine, vegliava sul tutto al bivio per Venaus sulla strada del Moncenisio, seduto come sempre con il suo fucile messo di traverso sulle ginocchia. Da lì la polizia e i carabinieri non potevano passare.

Nemmeno dopo la manifestazione, formata da migliaia di persone, che aveva raggiunto il cantiere fasullo e truffaldino come tutta l’opera, in Val Clarea, nonostante la pioggia e i soliti blocchi posti lungo il suo percorso.
Stop ai lavori! Si sente già nell’aria odore di vittoria mentre allo stesso tempo i fantasmi e gli schiavi del Capitale, come servitori traditi ed abbandonati, cercano di portare ancora le loro ragioni meschine e mefitiche sugli schermi delle tv e su pagine di giornali ormai destinate ad essere stracciate dal vento della rivolta e della gioia di vivere.

Non saranno infatti i tweet del ministro Toninelli a chiudere l’opera: lo hanno già fatto una lotta più che ventennale e una mobilitazione che cresce ogni anno di più, mentre in maniera inversamente proporzionale scendono le ragioni e le possibilità di realizzazione di una linea ad alta velocità nata morta. Come il congelamento da parte della società TELT di un bando internazionale per l’appalto di lavori per un valore di 2,3 miliardi di euro ha dimostrato proprio nei giorni seguenti la manifestazione.

Manifestazione in cui la parte musicale serale ha costituito soltanto uno degli aspetti, durante la quale, sia dal palco che nelle interviste rilasciate nel backstage, molti artisti si sono apertamente schierati sia a fianco della lotta NoTav che di quella NoTap. Mentre durante il giorno presentazioni di libri ed autori si affiancavano a dibattiti, con militanti italiani e stranieri, sulle trasformazioni del lavoro, sulla questione dei migranti, sulla fine del Novecento “politico” e sulla fine di un paradigma partitico di rappresentanza di cui soltanto da qualche tempo si è iniziata comprendere l’importanza e l’impatto sulle lotte reali e sulle loro forme organizzative.

Dibattiti in cui si è parlato di repressione, autodifesa e trasformazione del Diritto. Di continuità tra Fascismo e Repubblica, smantellando il paradigma istituzionale falsamente democratico e antifascista.
Della Palestina e dell’indipendentismo catalano e, ancora, della magnifica e vittoriosa esperienza della ZAD di Notre Dame des Landes così come delle lotte francesi contro la loi travail e dei cortei di testa a cui hanno dato vita migliaia di manifestanti di ogni età e appartenenza sociale.

Si è parlato del Rojava e dello straordinario esperimento comunitario delle sue genti e si è parlato di ambiente, di natura e dei costi di realizzazione di uno dei tanti mostri tecnologico-speculativi proposti da un modo di produzione fatiscente e giunto ormai al proprio promontorio tra i secoli. Dibattiti e presentazioni, gite e passeggiate in cui la presenza è sempre stata alta e motivata.

Anche se, per ora, ci si è solo affacciati alle finestre di un altro mondo, già si sente nell’aria l’annuncio:
Genti della Terra
Una nuova stagione è iniziata
La creatività e l’immaginazione trionferanno sul lavoro morto
e sul valore feticcio estorto con la forza dalla fatica di milioni di individui.
Così da dare vita ad un mondo senza barriere etniche, di classe, genere e senza confini tracciati da nazioni ed imperi ormai condannati alla polvere dei secoli, come tutti i loro predecessori.
In cui la Vita possa finalmente trionfare sulla Morte, i suoi servi e i loro miserabili feticci.

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It’s the art of graphic novel, baby! https://www.carmillaonline.com/2018/01/10/its-the-art-of-graphic-novel-baby/ Wed, 10 Jan 2018 22:32:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42556 di Sandro Moiso

Per l’ennesima volta, negli ultimi cinquant’anni di storia editoriale italiana, stiamo assistendo ad un autentico assalto alla diligenza del mercato del fumetto e dei comic book. Editori grandi e piccoli, conosciutissimi e assolutamente sconosciuti, o quasi, inondano infatti fumetterie, edicole e librerie di una massa impressionante di libri, quasi sempre graphic novel, ed albi a fumetti rischiando di impattare, probabilmente a breve, in una delle tante crisi editoriali che, nel periodo sopra citato, hanno portato alla scomparsa di tante case editrici specializzate nel settore.

Tali, prevedibilissime crisi non sempre [...]]]> di Sandro Moiso

Per l’ennesima volta, negli ultimi cinquant’anni di storia editoriale italiana, stiamo assistendo ad un autentico assalto alla diligenza del mercato del fumetto e dei comic book. Editori grandi e piccoli, conosciutissimi e assolutamente sconosciuti, o quasi, inondano infatti fumetterie, edicole e librerie di una massa impressionante di libri, quasi sempre graphic novel, ed albi a fumetti rischiando di impattare, probabilmente a breve, in una delle tante crisi editoriali che, nel periodo sopra citato, hanno portato alla scomparsa di tante case editrici specializzate nel settore.

Tali, prevedibilissime crisi non sempre sono dipese soltanto dai meccanismi più scontati della sovrapproduzione e del sottoconsumo insiti nella società mercantile, ma anche da un’abbondanza di proposte che, per mantenersi tale, spesso ha abbandonato la qualità a favore della quantità.
La necessità di rubare spazio nelle edicole o sui banchi delle librerie alla concorrenza ha portato, ciclicamente, a vanificare lo sforzo propositivo iniziale a favore della novità e della qualità, sia che si trattasse, nel corso del tempo, della diffusione dei fumetti popolari thriller-horror-avventurosi ad alto contenuto erotico e della scoperta dei super-eroi della Marvel alla metà degli anni sessanta oppure della scoperta del fumetto francese e d’autore negli anni settanta-ottanta o, ancora, quella dei manga giapponesi nel corso degli anni ottanta e novanta e in seguito della rilettura del fumetto d’azione o superomistico in chiave complessificata tra gli anni novanta e i duemila.

Tali periodi di espansione e crisi hanno sicuramente portato ad una selezione “naturale” di case editrici e modelli narrativi e stilistici particolarmente severa, ma tale severità, spesso di ordine economico, non sempre ha giovato al miglioramento generale della comic art e dei gusti del pubblico anche se in alcuni casi, si veda l’esempio di una delle massime case editrici di fumetti popolari come la Bonelli, ha portato ad un equilibrio prima sconosciuto tra fumetto di massa e opera d’autore, sia nella grafica che nelle sceneggiature.

Tra alcuni giganti dell’editoria scesi in pista negli ultimi tempi, come la Mondadori con la nuova collana Oscar Ink e la Rizzoli con l’acquisizione del marchio Lizard, e alcuni piccoli editori, come la Salda press affermatasi con le collane dedicate ai morti viventi, al fantastico e alla fantascienza, vale qui la pena di sottolineare l’autentica e interessante azione culturale portata avanti, ormai da qualche anno, dalla Eris di Torino che con la sua collana Kina ha proposto e propone metodicamente alcune delle opere più interessanti del settore, scelte nel panorama internazionale e nazionale.

Tale qualità è sempre legata ad una cura editoriale che nel formato dei volumi, nella scelta della carta, nella riproduzione dei colori e delle grafiche oltre che nella traduzione e del lettering è veramente encomiabile. Mentre allo stesso tempo la scelta editoriale non confonde mai l’interessante con ciò che annoia, come purtroppo spesso accade con ricostruzioni di fatti storici o biografie attraverso l’uso didascalico e para-didattico del fumetto, al contrario, probabilmente, di quanto vanno facendo altri big dell’editoria (da Newton Compton a Feltrinelli oltre a quelli già citati).

Un settore editoriale in cui si stanno buttando tutti perché si dice che sia tra quelli che tirano di più adesso e che ha fatto dire a qualche esperto che “tra poco anche la Crai avrà la sua collana di fumetti”.
Mentre tutto questo potrebbe già creare entro il 2018 una incredibile bolla destinata ad esplodere: troppi libri per troppi pochi lettori.
Lasciandosi dietro una moria di autori giovani, vanitosi, sedotti e abbandonati, se non bruciati, che preferiscono essere lusingati dai big anziché coltivare un proprio percorso artistico. Insomma, storie già viste.

Di quanto fino ad ora detto, invece, a proposito della qualità e dell’originalità, ne sono prova tre volumi pubblicati da Eris nella parte finale dell’ormai trascorso 2017:

Danijel Zezeli, BABILON, Eris novembre 2017, pp.116, € 17,00

Liz Suburbia, Sacred Heart, Eris settembre 20117, pp.310, € 19,00

Professor Bad Trip (Gianluca Lerici), PSYCHO, Eris ottobre 2017, pp.106, € 16,00

Il primo è l’opera di un autore croato che, lasciata Zagabria nei primi anni ’90, lavora attualmente come fumettista, pittore, animatore e illustratore , vivendo tra Zagabria e Brooklyn. Tipico ed importante esponente del genere definito come wordless novel, Zezeli ha collaborato numerose serie vincitrici di premi come DMZ, Northhlanders, Scalped, Hellblazer, Loveless e El Diablo con editori come DC Comics e Marvel.

Il suo è un tratto sanguigno, che buca la pagina e, soprattutto nelle opere in bianco e nero come la presente, non ha bisogno di parole. In questo caso, una storia di corruzione,di speculazione e di degrado urbano assume una dimensione onirica che si pone a metà strada tra la storia fantastica e la disgressione di carattere sociale senza che il lettore abbia bisogno di ulteriori aiuti o per comprendere da che parte, e perché, stanno i “buoni” e i “cattivi”. Un autentico realismo magico di cui l’autore croato, che con l’opera Luna Park nel 2010 ha ottenuto una nomination all’Eisner Award nella categoria Miglior Disegnatore, è un autentico maestro; rinviando per certi versi, e soltanto per fare un esempio ed un confronto con un altro grande autore, a quell’UT di Corrado Roi pubblicato in sei albi da Bonelli nel corso del 2016.

Il secondo volume qui presentato è quello che maggiormente corrisponde alle caratteristiche della graphic novel. Una vicenda che vede come protagonisti i teen ager di una cittadina americana dove, per qualche oscuro motivo, gli adulti sembrano essersi eclissati e scomparsi. Una storia in cui i sogni d’amore e d’amicizia dell’adolescenza si incrociano furiosamente con una sessualità che si deve manifestare nelle infinite forme dell’erotismo, dalla gioia all’incubo alla perversione, e con una graduale sparizione degli adolescenti stessi ad opera di un misterioso assassino.

Liz Suburbia, una delle nuove e più promettenti voci della scena del fumetto indipendente degli States, entra nel catalogo Eris e tra il pubblico italiano con un’opera sicuramente originale dal punto di vista della sceneggiatura e dal segno grafico apparentemente semplice ma niente affatto scontato, che ben si attaglia alla ricerca continua di nuove narrazioni, eterodosse, capaci di ibridare diversi generi portata avanti nella collana Kina.

Sacred Heart si concentra sulla vita di Ben, un’adolescente arrabbiata e solitaria, che fa tatuaggi, va a concerti punk e s’infastidisce per il sessismo delle canzoni della band locale. Ma questa è un’opera corale e gli adolescenti di Liz Suburbia cercano di essere forti, indipendenti, ma non possono che vivere i propri traumi in solitudine.
L’archetipo narrativo non è quello del teen drama, ma un Signore delle mosche moderno, dove lo scenario non è costituito da un’isola deserta, ma dalla provincia americana, dove regna sovrana l’impossibilità di conoscere il futuro e fare piani che vadano più in là della serata.

L’opera è già stata paragonata dalla critica statunitense a fumetti come Love and Rockets e Black Hole, in cui i temi della sessualità e della tenerezza si incrociano con temi metafisici che sembrano rappresentare l’orrore dell’entrata nell’età adulta in cui ogni diversità sembra preludere a drammi e processi di esclusione (economici o di genere) che caratterizzano una società tutto sommato ignobile e tutt’altro che desiderabile dal punto di vista giovanile. E in cui la religione, più che svolgere una funzione consolatoria, non può essere altra che quella cristiano-giudaico della punizione, dell’espiazione e del giudizio universale.

Last but not least viene Psycho, primo volume di una serie destinata alla ripubblicazione dell’opera integrale di Gianluca Lerici, meglio conosciuto come Professor Bad Trip, uno dei più importanti e significativi disegnatori, anche se considerata la vastità del suo impegno (nel campo del fumetto, dell’illustrazione, della pittura, della scultura, del design, della musica, del collage e di molto altro ancora) sarebbe forse meglio dire artista tout court, a livello internazionale degli ultimi trent’anni.

Nato nel 1963 a La Spezia e scomparso prematuramente nel 2006 per un infarto, il Professore (titolo che si era dato quando era ancora studente di Belle Arti, in opposizione ad un paese di professori incartapecoriti e in particolare di quelli svogliati e conservatori che lo avevano accompagnato nel suo tortuoso percorso di studi) ha segnato indelebilmente il fumetto, la grafica e l’estetica underground fin dai suoi esordi.

L’attuale volume edito da Eris contiene una delle storie, se così si possono definire, più celebri tra quelle ideate dall’artista spezzino, ispirata tanto al noir quanto alle atmosfere dei romanzi di Philip Dick e di William Burroughs. Il tutto però rielaborato in una chiave visionaria ed anticipatrice che le rende, anche se Psycho fu pubblicato per la prima volta nel 1996, estremamente attuali. Alla storia principale nel volume si accompagna Khatodic Karma, una storia breve pubblicata per la prima volta nel 1994 a Spoleto all’interno dell’antologia Talking Heads.

Radicale nel segno e nel contenuto, Lerici non ha mai nascosto le sua aperte simpatie anarchiche e libertarie fin dagli inizi, quando diede grande impulso all’ambiente delle autoproduzioni indipendenti, con le sue iniziative sia musicali che grafiche.
Per scoprirne l’importanza e la rilevanza culturale, ma anche politica si rivelano utilissimi i due saggi curati da Vittore Baroni e Marco Cirillo Pedri oltre che la dettagliata biografia curata dalla compagna del Professore, Jenamarie Filaccio, e Stefano Dazzi Dvořák oltre che dallo stesso Baroni.

Un’opera, quella della ristampa dei lavori di Professor Bad Trip, che rivela ancora una volta la serietà e l’attenzione con cui l’Associazione culturale Eris propone o, come in questo caso, ripropone creazioni grafiche e a fumetti destinate a rivelare come una delle manifestazioni più diffuse e, inizialmente, più umili della cultura di massa abbia finito col rivelarsi come uno dei settori artistici e letterari più creativi e innovativi degli ultimi decenni. Nonostante i ripetuti tentativi di soffocarla tra i meccanismi del mero profitto e della, conseguente, sovrapproduzione.
Buona lettura!

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Soltanto la morte danzava sulle grandi pianure https://www.carmillaonline.com/2017/12/07/la-morte-danzava-sulle-grandi-pianure/ Wed, 06 Dec 2017 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41690 di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima [...]]]> di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima scelta per un paese in cui l’attenzione della critica letteraria per la letteratura americana sembra, negli ultimi anni, essersi concentrata principalmente su autori come David Foster Wallace o Don DeLillo. Scelta utile anche per contrastare un’idea di cultura e letteratura che incoraggia una certa critica, tutt’altro che competente, a recensire positivamente un film noioso e inutilmente ripetitivo come “Revenant” di Alejandro González Iñárritu, dimenticando o, peggio ancora ignorando, che alla base dello stesso possa esserci invece un ottimo ed essenziale romanzo come “Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta” di Michael Punke, edito anch’esso da Einaudi nel 2014. Critici superficiali che finiscono col ridurre le vicende drammatiche dell’espansione wasp verso l’Occidente americano, nei primi decenni dell’Ottocento, ad una storiella degna del grande Blek. Ignorando così sia la storia che la tradizione letteraria degli Stati Uniti.

Nel 1986 il romanzo di Larry McMurtry, che aveva appena vinto il premio Pulitzer, era stato infatti edito da Arnoldo Mondadori con il titolo, poco accattivante per l’epoca, Un volo di colombe nella traduzione di Roberta Rambelli. Titolo che tradiva non solo il titolo originale,1 ma l’intero senso della storia narrata.
Devo infatti dire che, all’epoca, se non mi fosse stato regalato da un carissimo amico, non avrei mai preso in considerazione un libro che, a differenza dell’attuale riedizione, mostrava in copertina un’immagine e un titolo degni di un romanzo di Barbara Cartland: una giovane e avvenente donna bionda che salutava romanticamente un cowboy in sella e già pronto a partire per chissà quali avventure.

E proprio in tale suggerimento sta la questione, poiché se l’editore attuale si ostina ad inserirne ancora la trama nell’epopea della grande avventura del West, in realtà questo non è un romanzo di avventure. O, meglio, un romanzo in cui l’avventura costituisce il centro delle vicende. Larry McMurtry, nei romanzi che compongono la quadrilogia da cui è tratto Lonesome Dove,2 ma non solo in quelli, non è uno scrittore d’avventure. Cosa che lo metterebbe sul piano di Zane Grey, Louis L’Amour o altri autori seriali del genere western-avventuroso.

In realtà McMurtry ha suddiviso la sua esperienza di scrittore in almeno in tre settori: un settore mainstream in cui ha pubblicato romanzi come Voglia di tenerezza (da cui, nel 1983, fu tratto un film di Jame L. Brooks con Jack Nicholosn e Shirley McLaine, vincitore di 5 premi Oscar); un settore western (numerosi romanzi e racconti) e, infine, uno dedicato alla ricostruzione storica di personaggi e vicende dell’Ovest americano dell’Ottocento.3

Sono in particolare queste ultime opere a rivelare che per lo scrittore di Wichita Falls l’interesse per la storia e le vicende della conquista dei territori dell’Ovest non è né superficiale né tanto meno casuale. La conoscenza della materia è infatti approfondita e l’attenzione per tutto il sangue che ha intriso la terra delle grandi pianure su cui un tempo pascolavano i bisonti non ha una funzione soltanto narrativa. Come le vicende del romanzo in questione dimostrano ad ogni pagina.

In uno paese al confine fra Texas e Messico, ben dopo la fine della guerra civile, Augustus McCrae e Woodrow Call, due ex-ranger, ammazzano il tempo bevendo e giocando a carte oppure lavorando sodo dall’alba al tramonto, allevando uno smagrito bestiame, mentre nei dintorni si aggirano solo armadilli e capre spelacchiate. Un giorno però torna un vecchio amico che descrive i pascoli lussureggianti del Montana. Radunata una mandria di bovini e messa insieme una nuova squadra di autentici proletari a cavallo i due soci partiranno per essere i primi a fondare un ranch oltre lo Yellowstone.

E’ il tipico inizio di una miriade di trame western classiche: da Red River-Il Fiume Rosso di Howard Hawks (1948) a Open Range – Terra di confine di Kevin Costner (2003). Ma qui, fin dall’inizio non vi è altro che la morte ad attendere gran parte dei personaggi durante il lunghissimo viaggio oppure alla sua fine. Morti banali legate alla presenza nei fiumi dei velenosi mocassini d’acqua oppure violente dovute allo scontro tra bianchi, avidi di guadagno, e tribù che non intendono cedere i propri territori e gli animali selvatici che li popolano, anche se ancora per poco.

Morti di donne che sognano una vita che non sia quella in una monotona cittadina di frontiera e di bambini, che non hanno altra colpa di essere lì, da qualche parte nello sperduto nulla del West, nel momento peggiore e ultimo della loro vita. Morti che concludono vite qualsiasi oppure apparentemente già entrate nel mito e vite di rinnegati, bianchi o nativi americani, che cercano nella violenza un’ingiustificata vendetta oppure una sorta di impossibile riscatto.

Morte per i cacciatori di bisonti e per chi si accompagna a loro in cerca di fortuna; morte per chi immaginava una vecchiaia tranquilla tra pascoli verdi e acque ancora chiare. Morti istantanee e morti atroci, magari tra gli spasmi di una cancrena o di un veleno che divora il corpo. In terra non esiste che l’inferno e nel cielo si aggirano soltanto nubi di tempesta. Il sogno americano muore in ogni riga e in ogni capitolo del romanzo.

La banalizzante e inveterata abitudine, specialmente legata alla critica di cui si parlava all’inizio, di considerare la narrazione western come il caposaldo della difesa del mito fondativo americano non tiene conto del fatto che, molto spesso, proprio in quella narrativa, sia essa cinematografica o letteraria, si trovano gli argomenti più forti per comprendere come gli Stati Uniti siano nati da un grosso equivoco, da un’altrettanto grande menzogna e da una ancor più grande violenza che ha distrutto spesso insieme l’opera dell’uomo e l’ambiente che la circondava.

Basti pensare ad alcuni altri grandi romanzi della letteratura americana del dopoguerra come Il grande cielo di A. B. Guthrie (1947) oppure Butcher’s Crossing di John Williams (1960), oltre a quelli di Cormac McCarthy, 4 oppure ancora alla cinematografia recente di Tommy Lee Jones e in particolare al suo The Homesman (2014), tratto dall’omonimo romanzo di Glendon Swarthout del 1988,5 per non citare sempre e soltanto i classici di Sam Peckinpah, Dick Richards (The Culpepper Cattle Company,1972 – Fango, sudore e polvere da sparo) e Robert Aldrich (Ulzana’s Raid, 1972 – Nessuna pietà per Ulzana). Quelle appena citate non appartengono comunque ad una letteratura e una cinematografia buonista e non sono neppure troppo politically correct,6 ma appartengono tutte ad una visione più antica e profonda dei drammi che hanno fondato la storia e la nazione americana.

Una visione drammatica che, se ancor non rivolta alle grandi pianure, ha inizio proprio con Moby Dick di Melville, in cui desiderio di guadagno e sete di vendetta non possono portare ad altro che ad un’inutile e sanguinosa distruzione di uomo e natura insieme. Intendendo qui come natura anche le comunità ancora non sottomesse alla successiva regola capitalistica travestita da civiltà universale. Un’ombra che si allunga già sul primo romanzo della Frontiera, Last of the Mohicans di James Fenimore Cooper, attraverso la figura tragica di Magua e la sua feroce e inutile ribellione contro una Storia già scritta da ben altre forze. Un senso di sconfitta e di irrealizzabilità di qualsiasi umano desiderio che sta agli antipodi del sogno americano, sia esso promesso da Donald the Duck Trump oppure da Mickey Mouse Obama, e che di conseguenza rivela anche la menzogna contenuta nella leggenda del melting pot.
Quasi a conferma di ciò che affermava William Burroughs nel suo Pasto nudo (1959):

L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta.

Una fine che giunge ancor prima che il sogno abbia inizio, all’interno di una morale puritana in cui il senso della predestinazione raggiunge, fin dai tempi di Cotton Mather, i suoi vertici letterari e culturali. Il cui senso ultimo è sempre lo stesso: nessuno è destinato a salvarsi e i predestinati della tradizione luterana forse neppure esistono. Poiché alle spalle tutti hanno un peccato originale così grave, la distruzione della Natura e delle comunità umane preesistenti, che neppure Dio può cancellare.
Animando così quel cupo senso di morte, quell’autentico memento mori che sembra caratterizzare quasi tutta la letteratura americana da Melville a Poe, da Twain a Hemingway, da Cormac McCarthy a Burroughs.

Nell’opera di McMurtry decine di piccole storie s’intrecciano tra loro ed escono dall’ombra della Storia per un attimo. Fantasmi dimenticati di una vicenda di conquista e indebita appropriazione che ha segnato l’immaginario di un secolo. Non solo americano. E se per caso qualcuno dubitasse di questa interpretazione basterebbe rileggere oppure riguardare un altro romanzo dell’autore americano: The Last Picture Show del 1966,7 da cui Peter Bogdanovich trasse, nel 1971, uno dei suoi film migliori.

Un’autentica elegia sulla fine del West e della sua leggenda, vista attraverso le vicende di un’amicizia tra due giovani, il loro rapporto con l’unica sala cinematografica in cui si proiettano ancora e soltanto film western, con l’ultimo dei cowboy e l’amore per la stessa ragazza.
La guerra di Corea costringerà uno dei due ad allontanarsi da tutto ciò e al suo ritorno tutto sarà svanito: l’amore, la sala cinematografica ormai chiusa e il vecchio cowboy ormai morto.
Segnando una cesura definitiva con un prima che probabilmente poteva essere soltanto immaginato dai giovani protagonisti a causa dell’età.

Anche Lonesome Dove nasce da un’idea di collaborazione tra lo scrittore texano e il regista Bogdanovich, quando all’inizio degli anni Settanta, Peter Bogdanovich avrebbe voluto girare un film in omaggio al suo maestro John Ford.8 Nasce così il primo abbozzo di Lonesome Dove, sebbene con un altro titolo. Successivamente, nel 1989, Lonesome Dove verrà adattato in una mini-serie televisiva, con Robert Duvall e Tommy Lee Jones.

La collaborazione con il cinema continuerà nel tempo per McMurtry, anche attraverso l’adattamento cinematografico di una storia tratta dall’opera di un’altra grandissima autrice statunitense, di origini canadesi, di storie western: Annie Proulx. Il film sarà quel Brokeback Mountain (I segreti di Brokeback Mountain), diretto da Ang Lee9 che nel 2005 proporrà una visione assolutamente diversa della vita e della sessualità dei cowboy. Contribuendo a distruggere uno degli ultimi miti della Frontiera: il machismo sciupafemmine e la virilità incontaminata degli uomini delle grandi praterie.


  1. Lonesome Dove, colomba solitaria, è il nome del ranch da cui prende inizio la vicenda  

  2. Gli altri sono: Streets of Laredo (1993), Dead Man’s Walk (1995) e Comanche Moon (1997). Tutti ancora non tradotti in Italia  

  3. Crazy Horse: A Life, 1999 pubblicato in Italia come Cavallo Pazzo. Storia del capo Sioux che vinse a Little Bighorn, Mondadori 2003; Oh What A Slaughter! : Massacres in the American West: 1846—1890, 2005 e, solo per citarne uno dei più recenti, Custer, 2012  

  4. In particolare Blood Meridian, or The Evening Redness in the West (1985), traduzione italiana Meridiano di sangue, Einaudi 1996; All the Pretty Horses (1992), Cavalli selvaggi, Einaudi,1996; The Crossing (1994), Oltre il confine, Einaudi, 1995 e Cities of the Plain (1998), Città della pianura, Einaudi, 1999  

  5. In assoluto la migliore descrizione delle reali condizioni di vita delle donne sulle grandi pianure del West e del Midwest  

  6. A differenza di film come Little Big Man (Il piccolo grande uomo) diretto da Arthur Penn nel 1970 e tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger (1964) oppure Soldier Blue (Soldato blu) diretto nel 1970 da Ralph Nelson e ispirato al romanzo dello stesso anno Arrow in the Sun di Theodore V. Olsen, che risentivano, soprattutto il secondo, del clima intellettuale e culturale creato dalle proteste contro la guerra in Vietnam.  

  7. Traduzione italiana: L’ultimo spettacolo, Mattioli 1885, 2006  

  8. Cui aveva dedicato, nel 1971, il documentario-intervista Directed by John Ford  

  9. Regista di origine cinese che già aveva diretto un altro film western dedicato ai guerriglieri sudisti dopo la Guerra Civile: Ride with the Devil (Cavalcando con il diavolo) nel 1999  

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