western – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 09 May 2025 22:01:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemmeno John Wayne in soccorso del mito https://www.carmillaonline.com/2024/03/08/nemmeno-john-wayne-in-soccorso-del-mito/ Fri, 08 Mar 2024 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81449 di Giorgio Bona

Pat Garrett, L’autentica vita di Billy the Kid, a cura di Aldo Setaioli, pp. 176, € 15, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2024.

La modernità avanza a discapito del vecchio West, con il tramonto del periodo più puro in cui i temerari eroi della frontiera diventano mortali perdenti senza onore e senza legge. Un libro, L’autentica vita di Billy the Kid, che è in sintonia con la memorabile colonna sonora di Bob Dylan (1973), affascinante ballata western crepuscolare dove lo spirito indomito della frontiera e l’illusione di un’amicizia che ha il sapore di eterno non riescono a fare [...]]]> di Giorgio Bona

Pat Garrett, L’autentica vita di Billy the Kid, a cura di Aldo Setaioli, pp. 176, € 15, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2024.

La modernità avanza a discapito del vecchio West, con il tramonto del periodo più puro in cui i temerari eroi della frontiera diventano mortali perdenti senza onore e senza legge. Un libro, L’autentica vita di Billy the Kid, che è in sintonia con la memorabile colonna sonora di Bob Dylan (1973), affascinante ballata western crepuscolare dove lo spirito indomito della frontiera e l’illusione di un’amicizia che ha il sapore di eterno non riescono a fare diga contro un processo di civilizzazione drogato dal cinismo del neocapitalismo emergente e da una giustizia che non è uguale per tutti ma al servizio dei potenti. La fine di un’amicizia, quella tra Pat Garrett e Billy the Kid, segna anche il tramonto di un’epoca che, andando incontro al “progresso” legato ad una nuova visione del mondo, vede smarrirsi all’orizzonte i suoi eroi, mandriani e fuorilegge, cavalieri solitari e rinnegati.

Pat Garrett rappresenta colui che sa interpretare questa nuova visione di un mondo in mutamento e il suo racconto si presenta come una lunga meditazione crepuscolare in conflitto tra le ceneri del vecchio e le scintille per accendere il nuovo che sta sorgendo. Una ballata tra rassegnazione e speranza che non lascia capire quale dei due stia nel vecchio o nel nuovo per la patina di nostalgia negli occhi.

In Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, appunto 1973) Sam Peckinpah ha portato sulla scena un western d’addio dalla vena malinconica con un saluto di commiato al vecchio mondo. Per Peckinpah le figure di Pat Garrett e Billy the Kid rappresentavano l’opportunità di regolare i conti con il passato: l’amicizia tra i due finisce nel momento in cui Garrett diventa uomo di legge e appunta la stella di sceriffo sul petto, mentre il secondo continua a seguire la strada del fuorilegge. La caccia non potrà che condurre a uno scontro all’ultimo sangue.

I primi riferimenti su Billy the Kid si hanno da Sallie, nipote di John Chisum, il ricco allevatore del New Mexico portato sullo schermo da John Wayne in un film del 1970 – appunto Chisum – con la regia di Andrew V. McLaglen: una pellicola che ripropone i due miti del vecchio West in ruoli non precisamente memorabili e sembra una traslazione bislacca, perché quando di parla di personaggi come Pat Garrett e Billy the Kid si pensa decisamente ad altro. Sallie divenne una figura importante nella regione, visse fino al 1934 e lasciò un diario di importanza storica con tanti riferimenti a Billy the Kid e a Pat Garrett che lei aveva conosciuto di persona.

Per la prima volta appare in traduzione italiana la biografia di uno dei più leggendari banditi del West, Henry McCarty (1859-1881), alias William H. Bonney, meglio conosciuto come Billy the Kid, la cui leggenda è altrettanto epica di quella di un altro mattatore, Jesse James (1847-1882). In questo libro la storia ci viene raccontata addirittura da uno dei protagonisti, che rivela con meticolosa dovizia di cronaca le gesta del bandito. A scriverla è colui che gli diede la caccia e lo uccise nel 1881, Patrick Floyd Jarvis Garrett (1850-1908) uno dei più popolari sceriffi del vecchio West. Fu cacciatore di bisonti, barista, cowboy prima di diventare sceriffo di Lincoln nel New Mexico. Garrett ebbe la nomina di Deputy U.S. Marshall (agente federale), incarico che gli permetteva di seguire i ricercati oltre i confini di ogni singolo stato. L’amicizia tra Garrett e Billy the Kid finisce quando il primo diventa sceriffo e riceve l’incarico di arrestare il secondo: lo farà ostinatamente, contro tutto e tutti, e la caccia non potrà che portare a uno spargimento di sangue.

Questo è sicuramente il libro più vero e più ricco di dettagli attendibili che si sia dedicato al Kid perché fu scritto a ridosso dei fatti e ci offre una lettura a caldo della storia del famoso fuorilegge. Certo è scritto da Pat Garrett, e come suggerisce la logica sarebbe bello sentire la versione opposta, quella di Billy. Ma questo libro ci offre uno spaccato del vecchio West senza quell’alone di romanticismo e di leggenda che la filmografia mescola come ingredienti quasi inevitabili. La fine di un’amicizia viene imposta dai tempi, all’improvviso: due visioni della realtà che hanno sempre viaggiato parallele, a un certo punto arrivano a un bivio. La fine dell’amicizia si conclude con la morte di Billy.

Di qui un libro doloroso, eppur straordinariamente vivo: e Pat e Billy rappresentano due modi di essere “eroi” con visioni diverse. Per questo Pat Garrett nel suo scritto non si sente di condannare il vecchio amico che ha fatto una scelta sbagliata. È molto lontano dalle visioni cinematografiche come Chisum, dove William Bonney il Kid viene visto come un romantico inguaribile, con quell’aria da eterno ragazzo che non vuole crescere. Niente di tutto questo. C’è nel libro una forza antica che affonda le radici nella realtà del vecchio West, quella che ci ha fatto sognare, e pagine come queste ci permettono di recuperare.

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Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /2 https://www.carmillaonline.com/2023/10/21/pantera-magia-e-rivoluzione-nel-vecchio-west-di-valerio-evangelisti-2/ Fri, 20 Oct 2023 22:30:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79356 di Fabio Ciabatti

Avevamo lasciato, nella precedente puntata, Pantera che accettava, anche se dubbioso, l’aiuto dei poteri mesmerici Rosenthal e di quelli magici dell’indiano Vecchia Pipa. Proseguiamo il nostro percorso osservando che, nei due casi appena citati, Pantera sta utilizzando il Nganga, anche detto il Santo, strumento rituale composto da parti di corpo di una persona morta da poco, terra, sperma, sangue animale, erbe di varie specie, il tutto bollito in un pentolone. Si tratta di momenti decisivi nelle vicende narrate. Momenti in cui Pantera riesce ad accedere, con l’aiuto degli [...]]]> di Fabio Ciabatti

Avevamo lasciato, nella precedente puntata, Pantera che accettava, anche se dubbioso, l’aiuto dei poteri mesmerici Rosenthal e di quelli magici dell’indiano Vecchia Pipa. Proseguiamo il nostro percorso osservando che, nei due casi appena citati, Pantera sta utilizzando il Nganga, anche detto il Santo, strumento rituale composto da parti di corpo di una persona morta da poco, terra, sperma, sangue animale, erbe di varie specie, il tutto bollito in un pentolone. Si tratta di momenti decisivi nelle vicende narrate. Momenti in cui Pantera riesce ad accedere, con l’aiuto degli spiriti evocati  attraverso il Nganga, a una verità che prima gli risultava celata. In Metallo urlante scopre in questo modo una realtà che è l’opposto di quella che immediatamente appare. I dieci minacciosi e giganteschi cavalieri, che da subito Pantera ha identificato come kyumba, spiriti dei morti, in realtà “vogliono giustizia” perché sono stati uccisi orrendamente, attraverso la tortura che prevede il cospargimento del corpo con pece e piume.
In breve, tutto nasce da uno scontro tra Burton, padre padrone della città in quanto il più importante allevatore della zona, e suo figlio che aveva deciso di sposare la giovane Cindy, nonostante la sua dubbia reputazione. Il padre finisce per uccidere il figlio. Dieci cowboy amici di quest’ultimo cercano di ribellarsi a Burton ma vengono catturati. Furioso per l’accaduto lo stesso Burton ordina il loro supplizio e istiga tutti i bravi cittadini di Tucumcari a violentare a turno Cindy durante l’agonia dei dieci sfortunati. I veri mostri, dunque, non sono i dieci Cowboys from Hell! C’è una sorta di violenza originaria che cementa il patto sociale di Tucumcari e un’omertà collettiva che lo circonda. Una violenza che prosegue con i ripetuti abusi sessuali nei confronti di Cindy. La ragazza, apparentemente la più ingenua e indifesa delle creature, è colei che evoca gli spiriti dei dieci cowboy. Pantera era stato assoldato da Burt per “riportare la tranquillità” in un microcosmo messo in pericolo da una minaccia terrificante e apparentemente aliena. Ma, come già accennato, è il mondo ordinario a produrre mostri, perché intriso di violenza e sopraffazione. Il nostro eroe dunque non ristabilisce un ordine violato, ma strappa il velo di ipocrisia che nasconde l’ordinaria violazione di ogni umana giustizia. Per questo Pantera si troverà a combattere contro coloro che l’hanno assoldato nel mentre cerca di placare i dieci kyumba la cui sete di giustizia rischia di trasformarsi in  una indiscriminata furia di vendetta.   

Una simile dinamica la vediamo anche in Black flag. Pantera, sempre con l’aiuto del suo Nganga, riesce a comprendere  o, più precisamente, a vedere una realtà  su cui aveva avuto già numerosi indizi, senza riuscire a metterla definitivamente a fuoco. Ciò che riesce a vedere con chiarezza è la vera natura dei suoi nemici, quelli che l’avevano assoldato per uccidere l’uomo lupo, ma che poi avevano cercato di farlo fuori. 

Non erano esseri umani: erano lupi. Lupi diversi dalla sua guida però. Più famelici che affamati, più crudeli che selvaggi, più violenti che forti. Odiavano tutti, si odiavano tra loro, ma soprattutto odiavano lui, che pure apparteneva alla stessa specie, e la sua diversità […] pregustavano il momento in cui avrebbero soppresso l’anomalia, il lupo di branco. Feroce quanto loro, ma non sempre e non comunque.1

Dopo il combattimento finale Pantera decide di seguire nuovamente il suo vecchio comandante Juan Nepomuceno Cortina per andare in Messico e unirsi alla causa di Benito Juarez. Ha accettato finalmente la sua natura di lupo di branco e ha compreso che la battaglia appena affrontata è solo un episodio di una lunga guerra.

La lotta, in questo Paese, continuerà anche senza di noi. Lupi di branco contro lupi solitari. Se avranno la meglio i secondi, l’America sarà l’inferno, e prima o poi il mondo intero. La loro frontiera si sposta -. Ghigno tra sé – Bellegarrigue lo avrebbe però chiamato paradiso. Anzi paradice -. Imitò l’accento del francese.2

E in effetti quella frontiera nel 1989 si è spostata fino a Panama, bombardata dagli Stati Uniti che, nel paese centroamericano, stanno portando avanti un esperimento finalizzato alla creazione di un gruppo di soldati-mostro, utilizzando persone affette da una rara malattia genetica, la porfiria, e trattate con sali d’oro, come faceva Bellegarrigue con Kroger: il commando Gray Wolves. Lupi grigi come quelli solitari che il bianco lupo di branco Pantera aveva combattuto. Siamo nel mezzo di una guerra spietata che fa strage dei civili conferendo tono profetico alle parole di uno dei bushwackers:

noi portiamo la guerra dove gli eserciti non arrivano. Nei villaggi, nelle fattorie, nelle case, tra i civili codardi. Siamo noi il sale di questa lotta. Ho idea che tutte le guerre future somiglieranno alla nostra.3

La “loro frontiera”, nell’anno 3000, ha inglobato l’intero mondo, piagato da una sovrappopolazione di 300 miliardi di persone. In questo lontano futuro sorge un’unica megalopoli che unisce le vecchie città di New York, Los Angeles, Washington. Un mostruoso agglomerato urbano chiamato, appunto, Paradice (alla francese). Siamo in un un futuro distopico caratterizzato da una sorta di anomia ferocemente carnevalesca, in cui vige il più classico homo homini lupus, la guerra di tutti contro tutti. Un mondo in cui l’unica cosa che distingue le persone è la diversa psicosi da cui sono affette: esistono solo i Fobici, gli Isterici, gli Ossesso, gli Autistici, gli Schizo. Tra questi ultimi c’è la protagonista della storia ambientata nel futuro, Lilith (che, a proposito di One big novel, ritroveremo insieme a Eymerich in Rex tremendae maiestatis). Si tratta di una giovane donna astuta e forte come nessun altro, una belva piena di rabbia di cui non riesce a comprendere il motivo, una persona incapace di concepire alcun contatto umano diverso dalla violenza, dal dolore e dalla morte. Il perfetto prototipo della nuova umanità vagheggiata da Bellegarrigue.
Da questi brevi accenni capiamo che l’happy end delle avventure di Pantera in Black flag è solo apparente. Si tratta semmai di una narrazione implicitamente ucronica perché racconta una possibile biforcazione del tempo, quella che si sarebbe verificata qualora i lupi di branco avessero proseguito vittoriosamente la loro guerra contro i lupi solitari. Ma la storia, quella vera, ha imboccato un’altra via. Il bombardamento di Panama ci mostra che la guerra la stanno vincendo i lupi solitari e Paradice ci porta fino all’estrema catastrofe cui è destinato il mondo in assenza di uno scarto epocale nelle vicende umane.4

Torniamo ora a Pantera per notare un’interessante caratteristica della sua “visione” ottenuta con l’aiuto del Nganga. Il messicano, quando si rende conto che sta iniziando a percepire una realtà differente da quella ordinaria, teme di perdere la coscienza, ma la sua paura si rivela infondata.

Rimase lucido, ma tutto si colorò di bianco, salvo le sfumature di grigio e di nero che disegnavano ambienti, oggetti e persone. Era una candore che non aveva nulla di naturale […] Accecava, ma dava rilievo alle cose, incluse quelle che prima non riusciva a percepire.5

Cosa potrà mai essere una luce che acceca ma al contempo dà rilievo alle cose? Sembra una contraddizione in termini simile a quella che caratterizza un’espressione, “veglia sognante”, utilizzata da Evangelisti per spiegare il grande potere seduttivo esercitato dai maestri della narrativa popolare, capaci di far acquistare l’evidenza di cose reali a figure immaginarie.6 Assomiglia al paradosso espresso dall’alchimista Rupescissa, il nemico di turno di Eymerich in Cherudek, quando sostiene che si può, anche se con difficoltà, guidare “l’anima, la psyche, in un viaggio lucido nel mondo spirituale con cui siamo a contatto, osservando con consapevolezza ciò che di solito percepiamo solo confusamente in sogno.”7

Quest’ultima osservazione ci introduce a un altro ordine di questioni. Che rapporto c’è tra il più famoso personaggio di Evangelisti, l’inquisitore-condottiero Eymerich, e lo stregone-pistolero Pantera? In primo luogo c’è un rapporto di opposizione: quello tra il cosmo ordinato, secondo le leggi stabilite da Dio, difeso dall’inquisitore, e la visione del mondo sostenuta dal messicano “fatta di caos e di scontri”. Gli stregoni, come nota Franco Pezzini, sono i nemici per eccellenza di Eymerich, in quanto evocano poteri oscuri, demoniaci, cercando di introdurre il disordine estremo nel mondo. Il compito dell’inquisitore non è soltanto quello di riportare un ordine pratico, ma anche quello di ristabilire un assetto metafisico. Gli stregoni, dal canto loro, sono espressione di mondi sconfitti che i subalterni chiamano in loro aiuto per opporsi ai poteri dominanti. Sarebbe però errato, sostiene Pezzini, considerare questi nemici dell’oscurantista Eymerich come portatori tout court di istanze libertarie, sia perché i loro profili sono estremamente differenziati sia perché l’eruzione del caos (che l’inquisitore combatte) è talora funzionale all’affermarsi di idee francamente reazionarie.8
I nemici di Eymerich, come già scritto altrove, sono spesso personaggi intriganti, nel duplice senso di affascinanti e dediti a intrighi che si svolgono al di sopra degli inconsapevoli oppressi. Anche per questo l’immaginario alternativo che nasce delle eresie è popolato da innumerevoli creature inquietanti e, in fin dei conti, ha alcuni tratti tutt’altro che rassicuranti benché in esso si trovino sogni e pulsioni di libertà, frammenti preziosi e magmatici di possibili mondi alternativi potenzialmente in grado di creare un tessuto comune per le soggettività oppresse e sfruttate. L’immaginario alternativo rimane sospeso tra sogno e incubo.

Come stanno le cose nel caso dello stregone Pantera? C’è senz’altro un aspetto demoniaco nella sua religione. Quando gli chiedono in che dio crede, egli risponde: “Io in Sambia, e più ancora in Kadiempembe, che voi chiamate il diavolo”.9 Il suo mondo spirituale non rifiuta la violenza ed è questa caratteristica che, tra l’altro, consente a Pantera la doppia vita di uomo di religione e di pistolero. Il suo è inoltre un credo che oppone all’astrattezza dei principi cristiani la concretezza della natura.

Quando era stato iniziato al Palo Mayombe, la religione cristiana in cui era stato sommariamente educato dai parenti era svanita in un attimo. D’improvviso tante cose gli erano apparse più chiare. Perché la pioggia, perché la sete, perché la luce. Perché tutte le cose hanno un’anima. Risposte molto più concrete di quelle fornite dalla religione dei bianchi, che non rispondeva a nulla. Non c’era palero che, venerando san Pietro, non rendesse in realtà omaggio al grande Zarabanda, nume ben più visibile e potente. Perché mai gli uomini avrebbero dovuto piegarsi a principi astratti, incapaci di dominare la natura? Cos’altro esisteva, se non la natura? Pian piano, aveva compreso la vacuità della sua vita di pistolero. Per i cristiani, uccidere poteva essere un peccato orrendo o una dura necessità; ma c’era sempre una qualche necessità ineludibile da invocare. Per un palero, invece, solo certi uomini potevano essere uccisi. Quelli che stonavano con l’armonia dei cicli naturali, che impedivano al prossimo di abbandonarvisi. Non era peccato liberare l’esistente da un intralcio. Era peccato turbarne la regolarità.10

Come già accennato, il politeismo del Palo Mayombe lo rende estraneo alla potenziale intolleranza insita nel monoteismo. Per Pantera la differenza tra le diverse religioni è di natura essenzialmente pratica: “Non c’è una religione vera e una falsa. Tutte sono vere. Però non tutte aiutano quando se ne ha bisogno”.11 Ciò non toglie che il messicano sia consapevole dell’ipocrisia che accompagna spesso la religione dominante. Di fronte alla prostituta Molly che si lamenta di essere rifiutata dai preti perché vive nel peccato, Pantera osserva: “Sono loro che vivono nel peccato. Odiano le cose naturali, e passano il tempo a sporcarle per poterle poi condannare. Il palo non è così”.12
La religione di Pantera, sebbene attinga a credenze ancestrali africane, nasce nella seconda metà dell’Ottocento a Cuba e ha natura sincretica. Il fatto che venga continuamente assimilata a stregoneria e magia è un destino comune alle religioni precolombiane, soppiantate dal cristianesimo dei conquistatori europei ma mai sradicate dalle credenze dei colonizzati. Queste rimanenze, in realtà molto diffuse, vengono spesso assimilate al culto di demoni e forze oscure presenti nel pantheon cristiano. Una simile dinamica avviene anche in Europa e nelle avventure di Eymerich ne abbiamo una trasposizione narrativa. L’inquisitore è spesso impegnato nella feroce repressione di eresie che attingono a credenze precristiane: “quelle che finora abbiamo chiamato divinità  – viene affermato in Cherudek – sono in verità demoni, impegnati a predicare una liberazione immediata, lontana da quella spirituale voluta dalle Scritture”.13 E per approfondire la contrapposizione tra l’inquisitore e lo stregone Pantera possiamo anche aggiungere che nell’universo spirituale di Eymerich la natura “è intimamente malvagia, perché è la negazione della ragione. E solo la ragione conduce a Dio”.14 Non deve dunque sorprendere l’atteggiamento di Pantera nei confronti di chi assimila le sue credenze alla pratica di arti occulte:  “Non è una magia. È una religione. E merita rispetto come tutte le altre religioni”.15  Il messicano non è interessato a fare proselitismo, ma vuole riconosciuta la dignità delle sue credenze.
Per comprendere meglio la relazione tra Eymerich e Pantera, citiamo un’osservazione di Evangelisti sul rapporto tra i due personaggi: “Sarebbero certamente nemici, però non mortali. Eymerich tenta di disciplinare il mondo a sua immagine, Pantera vorrebbe farsi gli affari suoi e odia avere seguaci. Però non si odierebbero, dato che li accomuna l’asocialità naturale”.16 Pantera, nonostante la sua asocialità, aggiunge Evangelisti in un’altra intervista, “poi si ritrova a dover fare il difensore dei perdenti”.17

Credo che una parte significativa del fascino del personaggio Pantera stia proprio in questa sua riluttanza che viene alla fine vinta. Si tratta, come già detto, di un cavaliere oscuro, da cui si sprigionano improvvisamente, direi quasi gratuitamente, lampi di umanità e senso di giustizia. Proprio perché queste luci non sono mai scontate, il lettore rimane sempre in sospeso: farà la cosa giusta o continuerà a farsi gli affari propri? Fino a quando il nostro eroe si decide a schierarsi a difesa dei più deboli e la tensione si scioglie. Finalmente! Però quasi mai Pantera dà una giustificazione agli altri e a sé stesso di questi gesti, tanto che poi può tornare immediatamente alla sua oscura asocialità. Si potrebbe dire che queste azioni sono mosse da un inestricabile impasto fatto di “primordiale diritto alla vendetta”18 e elementare senso di giustizia.  Il primo lo possiamo vedere, per esempio, quando a sangue freddo decide di uccidere Wishburn, il vicesceriffo di Tucumcari.

“Era proprio necessario?” chiese Rosenthal, con voce incrinata. Era palese che si riferiva all’assassinio di Wishburn. “No, non lo era” rispose Pantera, serafico. “Ma la mia religione non proibisce l’uccisione di uno stronzo. Né il piacere che questo procura.”19

Insomma, a Pantera, come al famoso cavaliere nero di Gigi Proietti, “nun je devi caca’ er cazzo”! Il tono faceto di questa osservazione non deve oscurare il punto in questione: Evangelisti non si fa problema a utilizzare un registro popolare, con tanto di effetti speciali, per catturare il suo lettore e trasportarlo in un universo narrativo di grande complessità e impegno. In fin dei conti è questo uno dei più importanti motivi per cui utilizza, in modo del tutto originale, la letteratura di genere. Chiusa questa breve digressione, torniamo al senso di giustizia del nostro Pantera cui avevamo accennato. Ne abbiamo un assaggio, sempre in Metallo urlante, quando il messicano schiaffeggia “con ponderata violenza” e subito dopo rimprovera duramente Gloria, una prostituta che si rifiuta di accogliere Cindy perché la considera una svergognata.

Ascoltami bene. Per il paese intero le svergognate siete tu e le tue amiche. In realtà siete ragazze a posto. Ma anche Cindy lo è, solo che è più debole di voi. Guai a chi se la prende coi più deboli, per assomigliare a chi lo umilia. Troverà sempre qualcuno più forte di tutti. In questo caso, io.20

Corso accelerato di etica per oppressi in salsa western: lesson number one! Ci sono poi fugaci momenti di profonda sensibilità umana. Per esempio quando chiede a Cindy, la fanciulla che viene continuamente abusata da tutto il paese, perché non se ne va e lei gli risponde “Dove dovrei andare? Qui mi vogliono tutti bene”. 

Le parole di Cindy colpirono Pantera come un pugno doloroso, togliendogli il fiato. Sopportava tutto, ma non l’indicibile squallore che intuiva dietro quelle frasi […] Si rimproverò le proprie sensazioni. Nel suo mestiere non si potevano avere sentimenti, pena la morte. Ma il viso da bambina di Cindy gli era troppo vicino. Non potè impedirsi di sfiorarle i capelli con le dita.21

Un altro fugace momento di introspezione lo vediamo quando Pantera chiede a Gloria, la stessa donna che aveva poco prima schiaffeggiato, di condurre via Cindy senza spaventarla perché si stanno avvicinando i cowboy dell’inferno.

“Lascia fare a me.” Il timbro della prostituta, benché velato di raucedine, era caldo e profondo. Il messicano provò per un attimo il rimpianto per qualcosa che non conosceva, ma che sapeva esistere da qualche parte. Però preferì non indagare sui propri sentimenti.22

In questi atteggiamenti Pantera ha qualcosa in comune con Eymerich. Anche quest’ultimo ha brevissimi momenti  di pietà nei confronti del prossimo e finanche delle proprie vittime, che reprime  immediatamente con rabbia. Eymerich, però, si richiude all’interno della sua armatura caratteriale, costruita nel tentativo di fronteggiare le sue fobie, per tener fede al suo ruolo di inquisitore e cioè disciplinare il mondo, compito che gli impone di avere, come sintetizza Evangelisti, “né eccessiva pietà verso i perdenti né eccessiva devozione verso i vincenti”.23 Il personaggio di Eymerich è costruito sapientemente da Evangelisti come un eroe sui generis, dalla doppia natura: coraggioso, intelligente, scaltro, dedito alla causa, incurante del proprio tornaconto personale, ma al tempo stesso spietato, iracondo, vendicativo, orgoglioso. Molte di queste caratteristiche contraddittorie potrebbero essere attribuite anche a Pantera. Tutto sommato anche al messicano potrebbe calzare il nomignolo che è stato affibbiato a Eymerich dai suoi nemici catari, San Malvagio. O forse sarebbe meglio invertire i termini: Pantera è un malvagio santo. È il seguace di una religione con alcuni tratti demoniaci ma che, volente o nolente, resiste alla distruzione dell’immaginario dei popoli colonizzati. Appartiene indissolubilmente al mondo dei vinti e degli oppressi. In fin dei conti, il primordiale diritto alla vendetta che rivendica è una forma, forse non completamente chiara a sé stessa, di odio per i vincitori e gli oppressori. Anche per questo Pantera finisce sempre per difendere una variegata congerie di reietti e per combattere insieme a loro. Da qui ripartiremo nella prossima puntata.

2- continua. Precedente puntata qui. Prossima puntata martedì 24 ottobre


  1. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002, p. 180. 

  2. Ivi, p. 207. 

  3. Ivi, p. 38. 

  4. Per il concetto di opera implicitamente ucronica Cfr. Wu Ming, New italian epic, Einaudi, Torino 2009. A proposito dell’appartenenza di Evangelisti a questa corrente letteraria va però menzionato una valutazione dello stesso scrittore: “ognuno è libero di in qualche modo interpretare l’opera narrativa di qualcuno secondo certi criteri. Il limite dell’operazione in quel caso è stato che appariva tanto come un manifesto di una generazione, io non mi ritrovavo tanto in questa cosa qua, non sono un teorico cioè se un teorico mi interpreta gli sono grato. Io però non ho seguito linee programmatiche per scrivere qualcosa, ho seguito i miei istinti personali”. Vedi intervista a V. Evangelisti, di E. Carraro, 5 dicembre 2012, in E. Carraro, Valerio Evangelisti, il ciclo di Eymerich e il romanzo dell’inconscio, tesi di laurea in Filologia e letteratura italiana, Università Ca’ Foscari, Venezia, relatore prof. Alessandro Cinquegrani, a.a. 2013/2014, p. 108. 

  5. Valerio Evangelisti, Black flag, cit. p. 197. 

  6. Cfr. V. Evangelisti, Perché Mompracem resiste ancora, in Id., Le strade di Alphaville, a cura di Alberto Sebastiani, Odoya, Città di Castello 2022, p. 183. 

  7. V. Evangelisti, Cherudek, Mondadori, Milano 1997, pp. 448-449. 

  8. Cfr. Franco Pezzini, L’inquisitore e gli stregoni, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani, a cura di, L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  9. V. Evangelisti, Black flag, cit., 65. 

  10. Valerio Evangelisti, Metallo urlante, Einaudi, Torino 1998, p. 97. 

  11. Ivi, p. 92. 

  12. V. Evangelisti, Black flag, cit., p. 65. 

  13. V. Evangelisti, Cherudek, Mondadori, Milano 1997, p. 301. 

  14. Ivi, p. 272. 

  15. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit.,p. 85. 

  16. Intervista a Valerio Evangelisti, di Cristina Donati, in “fantasy magazine”. 7 gennaio 2010, https://www.fantasymagazine.it/11552/intervista-a-valerio-evangelisti

  17. Intervista a V. Evangelisti, di E. Carraro, in E. Carraro, Valerio Evangelisti, il ciclo di Eymerich e il romanzo dell’inconscio, cit. p. 106. 

  18. V. Evangelisti, Black flag, cit., p. 197. 

  19. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 126. 

  20. Ivi, p. 116. 

  21. Ivi, p. 98. 

  22. Ivi, p. 127. 

  23. Intervista a Elisabetta Carraro, in Valerio Evangelisti, il ciclo di Eymerich e il romanzo dell’inconscio, cit. p. 106. 

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Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /1 https://www.carmillaonline.com/2023/10/17/pantera-magia-e-rivoluzione-nel-vecchio-west-di-valerio-evangelisti-1/ Mon, 16 Oct 2023 22:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79284 di Fabio Ciabatti

Il messicano Pantera, stregone e pistolero a pagamento, protagonista di avventure che attraversano gli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento, è uno dei personaggi più intriganti e noti usciti dalla penna di Valerio Evangelisti. Pantera ha il fascino tenebroso del cavaliere oscuro che però, alla fine, si risolve per fare la cosa giusta. È probabilmente l’unico eroe nella narrativa di Evangelisti, almeno se intendiamo questo termine in senso stretto, cioè come protagonista moralmente positivo di avventure straordinarie che affronta con capacità fuori dal comune. Ma di che tipo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Il messicano Pantera, stregone e pistolero a pagamento, protagonista di avventure che attraversano gli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento, è uno dei personaggi più intriganti e noti usciti dalla penna di Valerio Evangelisti. Pantera ha il fascino tenebroso del cavaliere oscuro che però, alla fine, si risolve per fare la cosa giusta. È probabilmente l’unico eroe nella narrativa di Evangelisti, almeno se intendiamo questo termine in senso stretto, cioè come protagonista moralmente positivo di avventure straordinarie che affronta con capacità fuori dal comune. Ma di che tipo di abilità parliamo?
La domanda è di particolare interesse perché questo personaggio ha una peculiarità che forse lo rende più unico che raro nel panorama letterario: le sue vicende appartengono a due generi narrativi completamente diversi. I primi due libri in cui compare,
Metallo urlante e Black Flag (pubblicati rispettivamente nel 1998 e nel 2002), possono infatti essere ascritti al genere fantastico, mentre il terzo, Antracite (pubblicato nel 2003), appartiene al genere del romanzo storico.
Questa capacità di rompere la barriera tra diversi generi conferma quanto sostiene Alberto Sebastiani: l’intera opera di Valerio Evangelisti costituisce una One big novel in cui si trovano continui rimandi tra vicende e personaggi presenti nei diversi romanzi. Ma soprattutto, le opere dello scrittore emiliano-romagnolo, pur molto differenti quanto a genere, trama, ambientazione storico-geografica, presentano una  profonda unità tematica: l’eterno conflitto tra chi detiene il potere e chi gli resiste.1 Dal canto mio, credo che la figura di Pantera ci possa dire qualcosa di significativo sull’universo letterario di Evangelisti e sulla sua concezione dell’immaginario, proprio per la sua caratteristica di eroe cross-genere.

Secondo Tzvetan Todorov “il fantastico rappresenta un’esperienza dei limiti” e per questo “un inventario di possibili”.2 I confini tra spirito e materia, tra soggetto e oggetto, tra parola e cosa vengono continuamente trasgrediti, senza essere ignorati, come accade nel pensiero mitico. La barriera tra reale e l’immaginario si fa porosa. Sempre Todorov sostiene che la letteratura fantastica ha nel Novecento perso sostanzialmente la sua funzione: da una parte non abbiamo più bisogno di figure come il diavolo per parlare di un desiderio sessuale sfrenato perché la psicanalisi ha rotto i tabù in questo ambito; dall’altra, non viviamo più nell’Ottocento positivista, con la sua realtà oggettiva ed immutabile completamente esterna al soggetto, di cui il fantastico possa essere la cattiva coscienza.
Il giudizio del critico letterario deve aver qualche fondata ragione se è vero che il fantastico, nell’Italia del dopoguerra, trova rifugio nel fantasy, un territorio letterario presidiato nel nostro paese dalla sottocultura fascista fino all’irruzione, agli inizi degli anni ’90, del primo libro del ciclo di Eymerich, scritto da Evangelisti. Come ci racconta Domenico Gallo,3 si tratta di un territorio dell’immaginario che la destra voleva caratterizzato dall’indomito ed eterno risorgere del mito, mai definitivamente sconfitto dalla cultura moderna, ma solo temporaneamente vinto dall’illuminismo, dal razionalismo e poi dal marxismo. Il fantasy, l’horror, il sovrannaturale dovevano essere gli ambiti in cui si trattava di elementi come la celebrazione della divisione in caste, la lotta alla democrazia, il rapporto diretto con la divinità, il concetto di prescelto, l’esaltazione della lotta e la gerarchia della società. Il fantastico, possiamo commentare, da esperienza del limite diventava limite dell’esperienza: non più strumento letterario per dischiudere i possibili, ma struttura narrativa che restringe la capacità di immaginare mondi alternativi alla resurrezione di un passato mitico. L’eterno ritorno della vecchia merda.
Ma la letteratura fantastica può assumere un senso diverso da quello che ha storicamente rappresentato, ben al di là della paccottiglia fascistoide. In fin dei conti se il soprannaturale, o quello che appare come tale, esprime la trasgressione di una legge (naturale e/o morale), e per questo un’esperienza del limite, come sostiene lo stesso Todorov, occorre capire quale sia oggi il sistema di regole prestabilite che risulta impossibile negare, pena l’aprirsi di profonde crepe nell’immaginario che sorregge il nostro mondo. In effetti l’obiettivo, tutto politico, dell’opera letteraria di Evangelisti è proprio quello di combattere quella che definisce la colonizzazione dell’immaginario, in modo da poter valicare le colonne d’Ercole del realismo capitalista che oggi ci impedisce anche solo di sognare altri mondi possibili.

E qui torniamo al nostro Pantera, con la sua magia e la sua religione popolata di spiriti ancestrali che si scontra con un nuovo mondo in formazione caratterizzato dall’“assenza di ideali, di sentimenti e di un futuro plausibile”, come scrive Evangelisti alla fine della storia del messicano in Black Flag. Salvo aggiungere, subito dopo, “O forse un futuro c’era: d’oro e di ferro. Comunque di metallo”.4 Ma in che modo il mondo sovrannaturale di Pantera ci aiuta a fare un’esperienza del limite? Da un punto di vista antropologico, sostiene Michael T. Taussing, lo studio dello strano e dell’esotico ci può mettere di fronte a quanto veramente strana sia la nostra stessa realtà. Non si tratta di assumere come vere le concezioni altre contrapponendole alla falsità delle nostre, ma di prendere sul serio il contrasto tra differenti visioni del mondo al fine di denaturalizzare i nostri stessi feticci.5
La magia di Pantera rispetto al mondo moderno appare come un arcaismo, memoria e tradizione di un passato che fatica a diventare una guida per il presente. L’attrito tra i differenti strati temporali genera una tensione la cui risultante appare inizialmente sospesa tra il mero rifugio nel passato e la creazione di nuove e inedite possibilità. Pantera, infatti, non ha molto da dire su ciò che accadrà al suo mondo o su ciò che pensa sia auspicabile per i tempi a venire. “Quando ho combattuto con Juan Nepomuceno Cortina – si limita a osservare in Black flag – l’ho fatto per difendere gli ejidos, le terre comuni. Non so altro”.6 Le lotte di Pantera in territorio messicano vengono appena accennate e sembrano quasi racconti di un mitico passato da cui trarre semplici insegnamenti. In realtà, storicamente, appartengono alla modernità ma, geograficamente, provengono dai suoi bordi estremi. Ed è proprio dalla periferia del nostro mondo che è più facile fare esperienza dei suoi  limiti.
Pantera è appunto un personaggio periferico rispetto all’ambiente in cui si svolgono le sue avventure. Talmente periferico da risultare difficilmente categorizzabile: viene ripetutamente considerato un “negro” e lui risponde, talvolta rassegnato talaltra irritato, che è un messicano, anche se in realtà è un meticcio figlio di uno schiavo nero e della moglie del suo padrone. Frequentemente viene appellato come uno stregone o un prete, ma lui rifiuta entrambe le qualificazioni sostenendo di essere un uomo di religione, la sua religione, sebbene sia anche un pistolero a pagamento. In lui sacro e profano si mescolano e si scontrano. La morte e la vita gli sono altrettanto indifferenti. Pantera vive nell’instabile congiuntura tra un inquietante mondo straordinario in cui si possono udire le voci degli spiriti della natura, potenti e selvaggi, e un mondo ordinario, altrettanto minaccioso, in cui l’urlo del metallo sovrasta tutte le altre voci. 

Per prima cosa bisogna notare che le strutture narrative dei tre romanzi in cui compare Pantera sono molto diverse. Il primo, Metallo urlante, è composto da quattro lunghi racconti, sostanzialmente autosufficienti, anche se tenuti insieme da un esile filo narrativo: Venom, Pantera, Sepoltura e Metallica. Il primo, che fa da cornice, si divide a sua volta su due livelli temporali: abbiamo da una parte le vicende dell’inquisitore Eymerich, dall’altra una storia ambientata in un XXI secolo piagato da due virus che deteriorano la carne, sostituita da parti metalliche, e da una guerra che vede succedersi manifestazioni mostruose. E in questo livello che apprendiamo come tutte le diverse storie narrate nel libro si collegano tra di loro. Vengono infatti citate per brevi accenni in una ricerca “storica” condotta per capire come si sia arrivati “a fare sì che ferro, acciaio e oro riuscissero ad agganciare le proprie molecole a quelle della pelle, aprendo le quinte di una nuova razza umana, tanto possente quanto sterile”.7 In questo contesto apprendiamo che Pantera “Ebbe a che fare con il mesmerismo, che rappresentò, se vogliamo, una prima forma di dialogo tra l’uomo e il metallo”.8
Il secondo romanzo, Black flag, presenta una struttura molto simile a quella tipica dei romanzi del ciclo di Eymerich. Prendendo a prestito la terminologia coniata da Sebastiani,9 abbiamo un tempo base (quello normalmente riservato all’inquisitore aragonese), ambientato durante la guerra civile americana che vede come protagonista Pantera e che occupa di gran lunga il maggior numero di pagine. Abbiamo poi altri due livelli temporali: uno a noi storicamente vicino, l’invasione statunitense di Panama, che fa da cornice, e l’altro proiettato in futuro distopico, allo scoccare del capodanno del 3000. Le storie che si svolgono nei tre livelli sono molto più intrecciate di quanto accada con i racconti di Metallo urlante: da una parte nei livelli I e II vediamo dipanarsi le terribili conseguenze storiche di ciò che è accaduto nel tempo base; dall’altra troviamo delle spiegazioni parascientifiche di fenomeni e vicende che, nel corso delle avventure di Pantera, potrebbero sembrare sovrannaturali.
La struttura di Antracite, infine, è più tradizionale, nel senso del romanzo di stampo realistico. La trama riguarda esclusivamente le vicende del protagonista, Pantera, seguendo il filo cronologico delle sue avventure. 

Un’ulteriore differenza tra i tre romanzi riguarda il rapporto tra le vicende narrate e il contesto storico di riferimento. In Metallo urlante le avventure di Pantera si svolgono in una sorta di luogo sospeso nello spazio e nel tempo. Praticamente assente ogni riferimento a ciò che accade al di fuori di Tucumcari, villaggio del selvaggio west statunitense dove si svolge la storia. Un isolamento sottolineato dal fatto che “nessuno riusciva ad abbandonare l’area condannata, il cui perimetro veniva circondato da una cortina invisibile, ma assolutamente impenetrabile”10 non appena si mettevano in cammino i dieci giganteschi e mostruosi cavalieri che Pantera era stato chiamato a fermare con i suoi poteri magici. Tucumcari più che un luogo reale è, come sostiene ancora Sebastiani, un luogo dell’immaginario che non a caso Evangelisti riprende dall’ambientazione di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone.
In
Black flag il contesto storico è ben presente, la guerra civile americana, ma le vicende narrate sono tutto sommato marginali rispetto allo svolgersi della del conflitto bellico benché finiscano per assumere un significato che trascende la loro effettiva incidenza sugli avvenimenti politico-militari dell’epoca. Con Antracite, infine, siamo catapultati direttamente nel centro della Storia con la “s” maiuscola, cosa particolarmente evidente nel finale quando Pantera viene coinvolto nelle vicende della comune di Saint Louis, sebbene controvoglia.

Il coinvolgimento, suo malgrado, nelle vicende altrui è una caratteristica tipica di Pantera, che, per certi versi, rappresenta il classico eroe riluttante. Uno di quelli, cioè, che sono “bisognosi di essere motivati o spinti all’avventura da forze esterne”.11 A differenza di questo cliché, però, il messicano è tutt’altro che passivo ed esitante. I dubbi li vedremo affiorare soprattutto in Antracite, senza che questo scalfisca la sua natura di uomo deciso, votato all’azione.
In ogni caso Evangelisti, come suo solito, gioca sapientemente con gli stereotipi dei generi paraletterari che utilizza: come nel più tipico western, Pantera è un eroe solitario. Talmente solitario che le uniche donne per lui interessanti erano le prostitute, perché poco impegnative. Quando durante qualche conversazione viene chiamato “amico”, anche per semplice cordialità, lui risponde invariabilmente che non ha amici. Quando qualcuno gli dice che non è una cattiva persona, può irritarsi oltremodo anche se non riesce a capirne il motivo. Pantera è un uomo d’azione, che rifugge l’introspezione, anche quando si trova casualmente a lambire i segreti della sua psiche. Gli capita, per esempio, quando, dopo aver affermato per l’ennesima volta di non avere amici, aggiunge subito dopo “Io sono solo”. In quel momento intuisce “di avere detto una verità che trascendeva l’occasione, ma non era solito perdere tempo a interrogarsi su se stesso, specie in momenti come quello”.12 Cioè i momenti di pericolo che esigono l’azione.
Però, come i più tipici pistoleri, Pantera un amico ce l’ha. Quando in Black flag viene disarmato “Il contatto delle dita con la cintura gli fece rimpiangere il revolver. Per un uomo come lui, quella mancanza equivaleva alla perdita dell’unico amico che avesse al mondo”.13 Un revolver che, a differenza dell’iconografia classica del cowboy, porta di solito infilata nella cintola sotto la palandrana. A chi si meraviglia del fatto che non abbia con sé pistole, risponde con un sorriso beffardo “Sì che le porto […] Piuttosto non porto né cinturone né fodero. Quella è roba che va bene per le donne e per i borghesi”.14 Della serie: i veri uomini del vecchio west sono meno pittoreschi di come ve li hanno sempre raccontati. E ancora, come nei più classico dei racconti della frontiera, la storia di Metallo urlante si conclude con l’eroe che si allontana cavalcando il suo destriero verso l’orizzonte infinito. Soltanto che l’ultima galoppata Pantera la fa quando, ferito a morte, si è trasformato in orisha, uno spirito: “Preso da un’incontenibile euforia, lanciò il cavallo verso il deserto, senza bisogno di usare gli speroni. La sua esistenza di orisha sarebbe stata un’unica, interminabile cavalcata”.15
Un utilizzo al limite della parodia degli stereotipi paraletterari, in questo caso dell’horror, lo vediamo all’inizio di
Black flag quando, assoldato per uccidere un uomo lupo, gli viene chiesto se ha trovato le pallottole d’argento, tipica arma per eliminare i licantropi. “Si ma è un’idiozia – rispose Pantera alzando le spalle – È un metallo troppo tenero. Non fora e il proiettile si deforma al momento dello sparo”.16 E infatti, quando proverà ad utilizzare queste munizioni, “Poco mancò che la carabina gli esplodesse tra le mani. Per fortuna l’argento fuso fu espulso dall’esplosione, e ricadde a pochi metri da lui. Pantera imprecò contro la magia cristiana”.17 Scoprirà più avanti che per uccidere gli uomini lupo le pallottole dovevano essere fatte non di argento ma di antimonio. 

Ma prima dovranno accadere molte cose. Quando tenta di uccidere l’uomo lupo, Kroger, Pantera viene tradito dalle stesse persone che l’avevano ingaggiato. Ferito, viene catturato dai bushwackers, milizie irregolari sudiste dedite a una cruenta guerriglia che non si fa scrupolo di fare strage di civili. Pantera, pur cercando di mantenersi defilato, finirà per unirsi a loro, soprattutto perché, inconsapevolmente, vuole risolvere l’enigma dell’uomo lupo, aggregato ai guerriglieri: “Lo aveva creduto un demone incarnato e finiva per scoprirlo un essere fragile, spaventato da ogni cosa ma soprattutto da se stesso”.18
Al seguito dei bushwackers c’è anche il francese Anselme Bellegarrigue, anarcoindividualista al limite della farneticazione con il suo vaneggiare di una nuova umanità composta da lupi solitari, forgiati nel ferro e nell’oro, interessati solo alla loro proprietà individuale libera da ogni vincolo statale, dediti alla distruzione del vecchio mondo senza alcuno scrupolo umano o sociale. Idee che vanno al di là dello già spietato conservatorismo sudista, raffigurato dal bushwacker Hamp Wyatt, per il quale lo schiavismo rappresenta un principio che si riassume in autorità e disciplina, un’istituzione necessaria per affermare  gerarchie e ruoli ben definiti, da estendere eventualmente a tutti i salariati.
Tornando a Bellegarrigue, egli non è soltanto un teorico ma anche una sorta di scienziato pazzoide, cultore del mesmerismo che intende utilizzare per plasmare l’uomo del futuro secondo i dettami della sua agghiacciante filosofia, a cominciare dai crudeli esperimenti cui sottopone il riluttante Kroger per trasformarlo in una perfetta macchina per uccidere. I proiettili di antimonio sono una sua scoperta e sarà lui stesso a consegnarli a Pantera.

Il mesmerismo, dunque, compare anche in Black flag. La sua funzione narrativa è la stessa: la possibilità di interpretare in termini parascientifici i fenomeni apparentemente sovrannaturali consente alla narrazione di mantenersi nel registro del fantastico e cioè, secondo la definizione del già citato Todorov, su un livello di incertezza e di indecidibilità circa la natura dei fenomeni straordinari cui assistiamo nel corso del racconto. Realtà o sogno, percezione veritiera o mera illusione, fenomeno sovrannaturale o fatto semplicemente “strano” benché spiegabile senza violare le ordinarie leggi scientifiche?
Se rimaniamo all’interno delle prime due storie di Pantera dobbiamo sospendere il giudizio. Ma se teniamo conto di quanto ci viene raccontato nei differenti livelli temporali in cui si articolano Metallo urlante e Black flag il dilemma può essere sciolto. Evangelisti assorbe le energie narrative che sgorgano dall’elemento soprannaturale senza lasciare spazio al misticismo cui è spesso associato. In altri termini Evangelisti spariglia le carte ibridando atmosfere tipiche del fantasy e dell’horror con la fantascienza. Le anomalie che sovvertono il nostro ordine metafisico perdono il loro alone mistico perché possono essere spiegate attraverso teorie parascientifiche per le quali, normalmente, lo scrittore utilizza i risultati di rami marginali della scienza realmente esistiti.
Il caso più famoso nella narrativa di Evangelisti è quello della fisica psitronica che torna ripetutamente nei romanzi di Eymerich. Non è importante il fatto che questi rami della scienza siano stati abbandonati e oggi siano considerati fallaci. L’importante è il meccanismo narrativo che toglie il terreno sotto i piedi ai cantori del mito tecnicizzato: ciò che è inspiegabile, sovrannaturale, diabolico o mitico in un determinato paradigma di conoscenze può trovare spiegazione razionale se inquadrato in un paradigma differente. 
Insomma, il mondo definito dai parametri della razionalità dominante è solo uno dei mondi possibili. E decisamente non il migliore.19

Tornando al mesmerismo e alle vicende che riguardano direttamente Pantera, va rilevata una differenza tra i due racconti. In Metallo urlante il messicano passa da un atteggiamento di iniziale ostilità nei confronti di questa scienza a una sorta di agnosticismo che non esclude la sua capacità di produrre spiegazioni e effetti concreti. Il cambiamento nasce dall’aver constatato la buona fede di Rosenthal, il sedicente medico che esercita questa disciplina a fini curativi. Si tratta, neanche a dirlo, di un personaggio eccentrico ed emarginato, considerato dai più un mero imbonitore, ma mosso da buone intenzioni sia nella sua pratica “scientifica” sia nel suo atteggiamento nei confronti del suo prossimo, in particolare di Cindy, una ragazza ingenua al limite della stupidità, utilizzata da tutti gli uomini di Tucumcari come sfogo sessuale gratuito. D’altra parte la metafisica di Pantera, se così possiamo chiamarla, è politeista e non può escludere la presenza di forze e divinità diverse da quelle da lui venerate. Il suo è essenzialmente un multiverso.
Ciò nonostante, in Black flag, la sua relazione con il mesmerista Anselme Bellegarrigue, diventa esplicitamente antagonistica. Ciascuno cerca di spiegare le credenze dell’altro alla luce delle proprie. Per Bellegarrigue, così come per Rosenthal, il magnetismo può dare conto scientificamente di tutti i fenomeni apparentemente sovrannaturali che Pantera è in grado di produrre, compresa l’apparizione nel cielo di un gigantesco lupo che terrorizza l’accampamento dei bushwacker. Per il francese si tratta soltanto di un’allucinazione collettiva determinata da un livello assurdo di fluido magnetico. Pantera, dal canto suo, quando entra nella carrozza laboratorio di Bellegarrigue, per quanto avesse “dimestichezza con ogni genere di prodigi, non riuscì a reprimere un brivido. C’erano spiriti in quell’abitacolo. Spiriti non buoni”.20. Il messicano era convinto che “Anselme Bellegarrigue conosceva il modo per evocare gli Ndoki, gli spiriti più maligni. Trovava scuse razionali al proprio potere solo per ingannare meglio il prossimo”.21
L’atteggiamento che assume Pantera nei confronti del mesmerismo, dunque, non è dettato dal contenuto in sé di questa pretesa scienza, ma dalle intenzioni di chi la pratica. Il messicano, in
Metallo urlante, è pronto ad accettare l’aiuto di Rosenthal. Quando il francese propone di utilizzare una bacchetta per potenziare gli effetti della cerimonia “magica” di Pantera, quest’ultimo, di fronte alle spiegazioni sul funzionamento del fluido mesmerico, si limita a commentare: “Non capisco una parola di quello che dice, ma le credo”.22 Allo stesso modo, in Black Flag, non rifiuterà l’appoggio sovrannaturale dell’indiano Vecchia Pipa, sebbene quella di Pantera appaia anche in questo caso come un’agnostica apertura di credito: “Non ci sarà da danzare Pipa. Però partecipa pure. Gli spiriti malvagi della tua gente sono gli stessi presenti dappertutto. Tu li scaccerai a modo tuo, io a modo mio”.23

1- continua. Prossima puntata sabato 21 ottobre


  1. Cfr. A. Sebastiani, Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti, Odoya, Milano 2018. In particolare vedi Cap. 1. 

  2. Cfr. T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 2022. 

  3. Cfr. D. Gallo, “La battaglia del mito e della scienza. Valerio Evangelisti e la fantascienza come pratica radicale”, in S. Moiso e A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  4. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002, p. 208. 

  5. Cfr. M. T. Taussing, Il diavolo e il feticismo della merce, DeriveApprodi, Roma 2017. 

  6. V. Evangelisti, Black flag, cit. p.123. 

  7. V. Evangelisti, Metallo urlante, Einaudi, Torino 1998, pp. 38-39. 

  8. Ivi, p. 23. 

  9. Cfr. A. Sebastiani, cit., p. 38. 

  10. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit, p. 105. 

  11. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 1999, p. 43. 

  12. V. Evangelisti, Black flag, cit, p. 27. 

  13. Ivi. p. 33. 

  14. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 66. 

  15. Ivi. p. 137. 

  16. V. Evangelisti. Black flag, cit., p. 16. 

  17. Ivi. p. 21. 

  18. Ivi. p.143. 

  19. Cfr. D. Gallo, “La battaglia del mito e della scienza. Valerio Evangelisti e la fantascienza come pratica radicale”, cit. 

  20. V. Evangelisti, Black flag,  cit., p. 115. 

  21. Ivi. p. 118. 

  22. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 129. 

  23. V. Evangelisti, Black flag, cit., p. 174. 

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Il diritto alla città dentro e fuori gli schermi https://www.carmillaonline.com/2023/02/06/il-diritto-alla-citta-dentro-e-fuori-gli-schermi/ Mon, 06 Feb 2023 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75418 di Gioacchino Toni

I videogiochi open world, nel loro proporre un mondo virtuale che il giocatore può esplorare in modo relativamente autonomo, sono basati essenzialmente sullo spazio, uno spazio connesso a quello del mondo concretamente esperito. La spazialità di questo tipo di videogame assume frequentemente connotazioni inquietanti e conflittuali soprattutto nelle interazioni con l’ambito metropolitano simulato. Ciò è particolarmente evidente in Red Dead Redemption 2 (2018), un videogame sviluppato e pubblicato da Rockstar Games ambientato tra le praterie, i deserti e le zone che si stanno urbanizzando dell’America settentrionale ottocentesca che il giocatore, [...]]]> di Gioacchino Toni

I videogiochi open world, nel loro proporre un mondo virtuale che il giocatore può esplorare in modo relativamente autonomo, sono basati essenzialmente sullo spazio, uno spazio connesso a quello del mondo concretamente esperito. La spazialità di questo tipo di videogame assume frequentemente connotazioni inquietanti e conflittuali soprattutto nelle interazioni con l’ambito metropolitano simulato. Ciò è particolarmente evidente in Red Dead Redemption 2 (2018), un videogame sviluppato e pubblicato da Rockstar Games ambientato tra le praterie, i deserti e le zone che si stanno urbanizzando dell’America settentrionale ottocentesca che il giocatore, vestendo i panni del cowboy Arthur Morgan, si trova ad attraversare.

Alla politica dello spazio simulato è dedicato il saggio di Jack Denham e Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi (Mimesis, 2023) [su Carmilla].

Nell’analizzare le interazioni di una quindicina di giocatori ventenni, dieci ragazzi e cinque ragazze, ricorrendo sia a interviste, prima e subito dopo la sessione di gioco, che all’osservazione diretta del gameplay, i due studiosi hanno verificato una marcata contiguità tra la percezione dello spazio concreto e virtuale.

I videogiochi open world possono essere definiti come «esperienze sociali contestate giacché propongono dinamiche di interazione mercificate, ostili e alienanti. Queste caratteristiche – che riflettono una specifica ideologia di design a sua volta basata su una concezione neoliberista della società – ci permettono non solo di contestualizzare, ma di comprendere la riluttanza dei giocatori a interagire con l’ambiente urbano costruito»1

Nella “dialettica triplice dello spazio” formulata sul finire degli anni Sessanta da Hernri Lefebvre2 per decifrare gli spazi sociali si distinguono uno spazio concepito, uno vissuto e uno percepito. Riprendendo la formulazione del francese che vuole lo spazio concepito come quello ordinante la società, teso a rafforzare il controllo egemonico attraverso aspettative e regole imposte dall’alto, con riferimento all’universo videoludico questo è identificabile con il mondo simulato e le regole del gioco pianificate dagli sviluppatori.

Nell’illustrare sul finire degli anni Sessanta le trasformazioni dell’ambiente urbano, Lefebvre3 ha sottolineato come le grandi trasformazioni urbanistiche dell’epoca, pur avendo migliorato le condizioni di vita di alcune zone cittadine, abbiano fatto perdere alla città il suo storico significato legato all’uso: anziché essere costruita e gestita secondo il suo valore d’uso, come accadeva in passato, la città ha finito per essere pianificata e realizzata in base al suo valore di scambio.

Tra i giocatori di Red Dead Redemption 2 è stato percepito il carattere «classista, esclusivo e sofisticato che rigetta e respinge i ruvidi cowboy»4 della città virtuale e non è passato inosservato come il paesaggio americano in evoluzione tratteggiato dal videogioco mostri una «concentrazione della ricchezza in poche mani nello spazio concepito della città»5.

A proposito dello spazio vissuto, della comprensione simbolica rappresentativa, i giocatori hanno individuato all’interno di Red Dead Redemption 2 elementi narrativi evocativi che rinviano al cinema western, a partire dall’immagine stereotipata del cowboy come maschio “duro” e “ruvido”.

Circa lo spazio percepito, inteso come «l’esperienza “dal basso verso l’alto” del giocatore che “accoglie la produzione e riproduzione e le particolari locazioni e caratteristiche di ciascuna formazione sociale”»6, nel libro Il diritto alla città, Lefebvre segnala come i valori urbani siano concepiti in modo esclusivo anziché inclusivo e siano tesi a privilegiare il valore di scambio. «In questo senso, i cowboy come Arthur Morgan sono attivamente ostracizzati: non hanno il diritto di abitare i nuovi spazi industriali e capitalistici»7.

Il genere open world si rivela un’esperienza spaziale che lega fortemente l’universo virtuale a quello non virtuale in cui sono giocati; considerare il gioco come uno spazio isolato non consente di cogliere il suo più ampio contesto sociale. Nonostante promettano estrema libertà al giocatore, i videogiochi manistream risultano spesso intrisi di logiche neoliberiste giustificanti lo sfruttamento classista e di genere, legittimanti l’alienazione, l’industrializzazione e la distruzione delle risorse naturali che il giocatore non può negoziare in quanto imposte dalle regole del gioco.

Il nostro campione considera l’esperienza di gioco in un mondo aperto come la libertà simultanea di esplorare mondi incontaminati dai processi di meccanizzazione e industrializzazione urbana, contrastata da un senso di esclusione nel momento in cui quei panorami sono stati “colonizzati” dal summenzionato nesso tecno-capitalista. I partecipanti allo studio erano, per lo più, studenti universitari, cresciuti in contesti urbani, che risiedono in città. Come tali, essi hanno ben presenti i danni prodotti dalla gentrificazione, dall’urbanizzazione, dall’inquinamento, dalla conflittualità, dalla competizione opprimente del capitalismo. Il videogioco fornisce loro la possibilità di riflettere su questi fenomeni in forma metaforica8.

Red Dead Redemption 2 finisce per riflettere e incoraggiare la partecipazione del giocatore all’imperativo capitalistico della crescita senza limiti, alla colonizzazione e allo sfruttamento delle risorse; il videogioco diviene insomma «una sorta di una rivisitazione ludica e spaziale della “logica egemonica liberale e liberista che assegna un primato assoluto al mercato” tipico degli spazi urbani moderni»9. I giocatori sono così spinti «a riflettere sul “diritto collettivo” di occupare gli spazi e di agire negli spazi, come scrive il Lefebvre del Diritto alla città»10, impattando anche sul modo in cui esperiscono l’esperienza del videogioco.

I giocatori usano le esperienze open world offerte da RDR2 per indulgere nell’“esperienza urbana contemporanea con un’aura di libertà e scelta nel mercato”, usando il tempo a disposizione per aggirare le intenzioni dei programmatori e degli sviluppatori, all’interno di uno spazio giocabile che rispecchia i principali aspetti della moderna economia politica urbana. Non rivendicano alcun “potere di modellare il processo di urbanizzazione” che costituirebbe un diritto alla città virtuale, ma abbracciano il diritto alla città come una forma di resistenza. Sono consapevoli della relazione tra cittadinanza e capitalismo che rimodella e “afferma […] il diritto degli utenti di far conoscere le loro idee sullo spazio e sul tempo delle loro attività” cozzando contro scelte di design non negoziabili11.

Quanto sin qua tratteggiato circa il “diritto alla città”, seppure in maniera decisamente diversa,  è per certi versi al centro anche di film focalizzati sulle periferie parigine come L’Odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz, I Miserabili (Les Misérables, 2019) di Ladj Ly e Athena (2022) di Romain Gavras. Ad essere ostracizzati dalla città disciplinata e disciplinare, in questi casi, non sono i ruvidi cowboy che “vengono da fuori” ma quella riottosa feccia – come la definiva quel galantuomo di Nicolas Sarkozy – confinata nelle periferie metroplitane.

Il film di Kassovitz ha portato sul grande schermo le banlieue francesi di inizio anni Novanta e lo ha fatto raccontando un giorno e una notte di tre giovani amici che, mettendo piede nella Ville Lumière, non possono che vivere sulla loro pelle quanto questa si riveli ostile nei loro confronti. Ed è proprio negli eleganti Champs-Élysées parigini, tra tricolori e inno nazionale cantato all’unisono per celebrare la vittoria dei Bleus ai Mondiali, che si apre il film Ladj Ly. L’unità francese esibita dalla Capitale si rivelerà una maschera incapace di celarne l’inospitalità di fondo nei confronti di chi non può permettersi di abitarla.

L’Odio sembra per certi versi il prologo de I Miserabili, film uscito oltre due decenni dopo e le periferie degli anni Novanta mostrate da Kassovitz rappresentano la premessa alla situazione in cui versano le banlieue contemporanee, veri e propri concentrati di guerra civile quotidiana che, al di là della contrapoposizione tra gendarmi e abitanti, vedono, rispetto al passato, nuovi attori non statali della violenza caratterizzati da originali configurazioni di potere in competizione tra loro con cui i singoli devono fare i conti12.

La banlieue messa in scena dal film si palesa come una prigione labirintica costituita da palazzoni e isolati tra i quali incessantemente si perpetua, in una sorta di loop quotidiano, il pattugliamento dell’anticrimine: uno spazio che, in linea con il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, può dirsi contemporaneamente chiuso in sé e in relazione col mondo, in contatto, ad esempio, con la grande Ville Lumière che la contiene ma che, tuttavia, la contraddice13.

Tutto ciò è ripreso, in questo caso con respiro epico e tragico, anche da Athena di Romain Gavras che, come gli altri film, sbatte letteralmente in faccia allo spettatore la guerra civile che attraversa le periferie occidentali14 ed anche in questo caso, come ne I Miserabili, tutto inizia in un inospitale centro urbano, che però, stavolta, palesandosi direttamente come centrale di polizia, non maschera nemmeno più la sua ostilità nei confronti di chi vive nelle periferie. I tricolori francesi, paradossalmente, vengono fatti sventolare durante il concitato “ritorno a casa” da parte di, obbligato alle periferie, ha ormai deciso di rispondere agli oppressori con il loro medesimo linguaggio pur sapendo che le cose non potranno andare a finere bene.

In banlieue ci si muove sull’istanza del bisogno: il lavoro, la casa, gli spazi, la bestialità dei gendarmi; sofismi ideologici mal si accordano al cemento armato. E ci si muove coi propri vicini, coi parenti e con gli amici. Non si può tracciare una linea di demarcazione netta tra il corpo politico e quello sociale. […] La banlieue è il territorio di sperimentazione del capitale, dove la disarticolazione della vecchia classe operaia è stata presupposto e trampolino per la ristrutturazione dell’intero modo di produzione capitalista interno della Francia (ma similmente è avvenuto per il resto d’Europa). È il più avanzato laboratorio del nemico e pertanto la trincea di prima linea dei subalterni15.

Questo gruppo di film impone non solo una riflessione sui rapporti centro-periferia ma anche sulle tante strutture di potere con cui i singoli abitanti delle banlieue devono fare i conti nella loro quotidiana lotta per vivere una vita degna di questo nome.


 


  1. Jack Denham e Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, p. 261. 

  2. Hernri Lefebvre, La produzione dello spazio, Pgreco, Milano, 2018. 

  3. Hernri Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014. 

  4. Jack Denham, Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, cit. p. 274. 

  5. Ibidem

  6. Ivi., p. 279. 

  7. Ivi., p. 283. 

  8. Ivi., pp. 287-288. 

  9. Ivi., p. 288. 

  10. Ibidem

  11. Ivi., pp. 288-289. 

  12. Cfr. Sandro Moiso, I don’t live today / 2: la guerra delle periferie, in “Carmilla”, 26 agosto 2020. 

  13. Gioacchino Toni, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso, Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone, Roma, 2021, p. 362. 

  14. Cfr.: Sandro Moiso, La nostra guerra civile quotidiana: Athena, in “Carmilla”, 12 ottobre 2022; Guy Van Stratten, “Athena”: quando la rivolta degli ultimi diventa un poema epico, in “Codice Rosso”, 1 novembre 2022. 

  15. Jack Orlando, Parlami di noi. Note di ricerca e militanza in banlieue, in “Carmilla”, 3 gennaio 2003. 

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Black Flag, speranza e distopia. Ricordando la meraviglia del primo incontro con Valerio Evangelisti https://www.carmillaonline.com/2022/05/07/black-flag-speranza-e-distopia-ricordando-la-meraviglia-del-primo-incontro-con-valerio-evangelisti/ Sat, 07 May 2022 06:52:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71775 di Fabio Ciabatti

Quando il mio ricordo va a Valerio Evangelisti la prima immagine che mi viene in mente è quella di un grande narratore, di una persona capace di raccontare storie meravigliose. Storie che non avevano una conclusione definitiva, ma che potevano ricominciare sempre, continuare all’infinito perché avevano un carattere aperto e multilineare. Storie pensate per costituire una sorta di memoria collettiva degli oppressi e degli sfruttati e per consentire loro di riappropriarsi delle proprie passate gesta, cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Insomma, nel mio ricordo Valerio più che apparire come uno scrittore in senso stretto assomiglia un po’ [...]]]> di Fabio Ciabatti

Quando il mio ricordo va a Valerio Evangelisti la prima immagine che mi viene in mente è quella di un grande narratore, di una persona capace di raccontare storie meravigliose. Storie che non avevano una conclusione definitiva, ma che potevano ricominciare sempre, continuare all’infinito perché avevano un carattere aperto e multilineare. Storie pensate per costituire una sorta di memoria collettiva degli oppressi e degli sfruttati e per consentire loro di riappropriarsi delle proprie passate gesta, cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Insomma, nel mio ricordo Valerio più che apparire come uno scrittore in senso stretto assomiglia un po’ al narratore di cui ci parla Walter Benjamin.
Sono ben consapevole che questo paragone ha dei limiti. A cominciare dal fatto che raramente i suoi romanzi hanno per protagonista l’uomo giusto e semplice di cui ci parla il filosofo berlinese. È più frequente che il motore della narrazione proceda dal “lato cattivo della storia”. Basti pensare al suo personaggio più famoso, l’inquisitore Nicolas Eymerich. I suoi racconti, in questo modo, sono in grado di dissezionare i fondamenti antropologici, ideologici, psicologici del potere, mettendosi dalla parte del potere stesso. È poi ovvio che il suo mezzo espressivo principale era il racconto scritto e non quello orale, per quanto sia anche vero che, sentendolo parlare con il suo tono di voce basso e leggermente cantilenante, non si poteva non rimanere affascinati dalla sua capacità affabulatoria e dalla sua sottile ironia.  

Rimane il fatto che Valerio non si accontentava di cristallizzare in forma letteraria l’insanabile scissione tra significato e vita, come accade al romanziere tipo benjaminiano. I suoi racconti, come quelli del narratore descritto dal filosofo berlinese, hanno un orientamento pratico anche se di natura peculiare. Hanno una finalità eminentemente politica, fanno cioè parte della sua battaglia per contendere palmo a palmo territori dell’immaginario alle potenze mitiche al soldo delle classi dominanti. Pur non avendo assolutamente nulla di didascalico, le sue storie hanno una morale. Si prenda come esempio la conclusione, tragica e al tempo stesso priva di rassegnazione, di Black Flag.

– È inutile! Tanto hanno già vinto! Il mondo è loro! Il futuro è loro!
Sheryl rispose: – Può darsi. L’importante è che sappiano che c’è chi resiste.
Avanzò verso i carri sparando tutti e sei i colpi del tamburo, in successione. Sei pallottole argentee perforarono il metallo urlante.

Devo confessare che a questo romanzo sono particolarmente legato, non perché lo consideri una delle opere più significative di Evangelisti, ma semplicemente per il fatto che è stato il suo primo libro che ho letto. Per me, oramai vent’anni fa, fu una vera folgorazione scoprire la sua eccezionale capacità di mescolare diversi tipi di narrativa di genere (western, horror, fantascienza, racconto di guerra) e di intrecciare nello stesso testo epoche passate, presenti e future tra loro distantissime costruendo un insieme incredibilmente compatto, appassionante, popolare, profondo. Per quanto sia poi diventato un avido lettore della sua opera, la meraviglia di quella scoperta letteraria è rimasta per me indelebile. Tanto da farmi venire la voglia di rileggere questo romanzo quando ho saputo della scomparsa di Valerio.
Ci sarà tempo per considerazioni di più ampio respiro rispetto a quelle che sto proponendo in questo scritto. I compagni della redazione di Carmilla e tutti coloro che conoscono più di me la vita personale, la produzione letteraria e l’attività politica di Valerio potranno dare il loro contributo. Nel frattempo, penso valga la pena di condividere la rilettura di un testo che per me ha avuto un grande significato. 

Si potrebbe individuare anche un motivo meno personale per parlare di Black flag, legato in qualche modo all’attualità. In questo romanzo, infatti, in primo piano c’è la guerra, intesa come fondamento nascosto del mondo contemporaneo che tende a farsi inerzialmente esito ultimo e totalizzante della sua storia, guerra civile globale potremmo anche dire.  Il romanzo è pubblicato nel 2002 quando è ancora fresco il ricordo dell’abbattimento delle Torri Gemelle a New York e da non molto è iniziata l’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti. Ma la storia inizia e finisce con un’altra vicenda bellica, l’invasione statunitense nel 1989 di Panama dove Sheryl e Carl, medici psichiatrici americani, sono impiegati per curare nove marines affetti da una misteriosa malattia. I due scopriranno di essere stati inconsapevole strumento di un esperimento dell’esercito statunitense finalizzato alla creazione di un gruppo di soldati-mostro: il commando Gray Wolves. La parte più ampia della narrazione è però ambientata al tempo della guerra civile americana e segue le vicende di uno spietato gruppo di irregolari sudisti, i bushwhackers, cui si unisce per caso il Pantera, stregone e killer a pagamento messicano.
Un altro filone della storia è ambientato all’alba dell’anno 3000, in un futuro distopico caratterizzato da una sorta di anomia ferocemente carnevalesca. Un mondo in cui vige il più classico homo homini lupus, la guerra di tutti contro tutti. Un mondo in cui l’unica cosa che distingue le persone è la diversa psicosi da cui sono affette: esistono solo i Fobici, gli Isterici, gli Ossesso, gli Autistici, gli Schizo. Tra questi ultimi c’è anche Lilith, una giovane donna astuta e forte come nessun altro, una belva piena di rabbia anche se incapace di comprenderne il motivo.

Qui vediamo all’opera l’estrema conseguenza della logica bellica. 

Al riparo dalla violenza! Lilith si sentì fremere dall’indignazione. Senza violenza non c’era contatto umano. Che razza di società poteva mai essere, quella che ignorava la comunicazione attraverso la morte e il dolore?

Tutta Paradice stava vivendo l’unica forma di empatia tra gli uomini rimasta sulla terra. L’antitesi del gelo che si viveva normalmente. Uccidere per uscire dal proprio isolamento ed entrare in rapporto col prossimo. La festa. Finì per sgozzare il giovane inebriandosi dei suoi sussulti. Lo amò per un istante.

Come si è potuti arrivare a questo punto? Bisogna tornare indietro nel tempo, al periodo della guerra civile americana. Qui l’intero territorio dell’immaginario sembra esaurirsi nella dialettica tra un delirante utopismo anarco-individualista e un realismo conservatore meno visionario ma altrettanto spietato. Tra un massacro e un altro di civili perpetrato dai bushwhackers, Pantera assiste a ripetuti dialoghi tra Hamp Wyatt, uno degli uomini della milizia sudista, e Anselme Bellegarrigue, medico parigino dedito a cinici esperimenti sul malcapitato Koger, uomo lupo al seguito della banda, per renderlo suo malgrado una spietata macchina da guerra. Le argomentazioni del francese non vanno tanto per il sottile. Per lui non è la “sciocchezza” della schiavitù a tener insieme ciò che resta della Confederazione, ma è il suo “stile di vita”.

Noi ci battiamo per un’America in cui nessun governo ostacoli la proprietà individuale e le scelte del singolo. Non c’è governo che non sia nemico naturale della proprietà.

Proprietà equivale a libertà. Quando ogni americano bianco, maschio e adulto avrà la propria particella di terreno, grande o piccola che sia, non serviranno più leggi.

Caricare di energia il metallo che è in noi, renderci di nuovo belve e predatori. Questo è l’obiettivo. Uomini liberi capaci di vivere fuori di ogni costrizione sociale, così come vivono i lupi che hanno abbandonato il branco. Ognuno potente come una pila galvanica. In pratica tanti magneti che si respingono. 

L’uomo servile, che vive in gregge, costruisce. L’individualista, che disprezza il branco, distrugge. È quest’ultimo che fa la storia. 

Hamp Wyatt, replica con simpatia ma ritiene il suo interlocutore un po’ folle. 

D’accordo, ma la schiavitù è un principio, che poi si riassume in autorità e disciplina. Servono gerarchie, ruoli ben definiti. È questa l’anima del Sud, e lo schiavismo ne è la sintesi.

Racconti storie. Non c’è terra per tutti, e non tutta la terra è coltivabile senza braccia. La schiavitù è una necessità economica prima che morale.

Wyatt, in ultima istanza, considera pericoloso l’utopismo del francese perché 

Nel Nord gente come lui, ha persuaso gli operai a scioperare in piena guerra … Comincio a credere che la schiavitù andrebbe estesa a tutti i salariati. 

Il mondo però non si esaurisce nella dialettica tra i Bellegarrigue e i Wyatt. Perché tra di loro si aggira anche Pantera, eroe riluttante, infastidito catalizzatore della fiducia e della speranza dei più strambi emarginati nel gruppo dei bushwhackers. Attorno a lui si aggira un mondo di spiriti maligni ma giusti. La sua magia rispetto al mondo moderno appare come un arcaismo, memoria e tradizione di un passato che fatica a diventare una guida per il presente. L’attrito tra i differenti strati temporali genera una tensione la cui risultante appare inizialmente sospesa tra il mero rifugio nel passato e la creazione di nuove e inedite possibilità. Pantera, infatti, non ha molto da dire su ciò che accadrà al suo mondo o su ciò che pensa sia auspicabile per i tempi a venire. Chiamato in causa in una delle tante discussioni tra Bellegarrigue e Wyatt si limita a commentare Quando ho combattuto con Juan Nepomuceno Cortina l’ho fatto per difendere gli ejidos, le terre comuni. Non so altro”. Alla fine, però, sotto l’apparenza riuscirà a percepire un’altra realtà. Che si tratti dei suoi poteri di stregone o di una mera allucinazione poco importa. Quello che riesce a vedere con chiarezza è la vera natura dei suoi nemici. 

Non erano esseri umani: erano lupi. Lupi diversi dalla sua guida però. Più famelici che affamati, più crudeli che selvaggi, più violenti che forti. Odiavano tutti, si odiavano tra loro, ma soprattutto odiavano lui, che pure apparteneva alla stessa specie, e la sua diversità … pregustavano il momento in cui avrebbero soppresso l’anomalia, il lupo di branco. Feroce quanto loro, ma non sempre e non comunque. 

Dopo il combattimento finale Pantera decide di seguire nuovamente il suo vecchio comandante Juan Nepomuceno Cortina per andare in Messico e unirsi alla causa di Benito Juarez. Ha accettato finalmente  la sua natura di lupo di branco e ha compreso che la battaglia appena affrontata è solo un episodio di una lunga guerra.

La lotta, in questo Paese, continuerà anche senza di noi. Lupi di branco contro lupi solitari. Se avranno la meglio i secondi, l’America sarà l’inferno, e prima o poi il mondo intero. La loro frontiera si sposta -. Ghigno tra sé – Bellegarrigue lo avrebbe però chiamato paradiso. Anzi paradice -. Imitò l’accento del francese.

E in effetti quella frontiera nel 1989 si è spostata fino a Panama, bombardata dagli Stati Uniti. E, nell’anno 3000, ha inglobato l’intero mondo, piagato da una sovrappopolazione di 300 miliardi di persone. In questo lontano futuro sorge un’unica megalopoli che unisce le vecchie città di New York, Los Angeles, Washington. Un mostruoso agglomerato urbano chiamato, appunto, Paradice. Un mondo votato all’autodistruzione, alla stregua di Lilith che in un estremo tentativo di ribellione, uccide l’uomo che la controlla e la vuole violentare. Ma i due si trovano in una navetta spaziale che li sta portando sulla Luna, ultimo avamposto “civilizzato” della Organizzazione mondiale per la sanità mentale in grado di tenere sotto controllo gli abitanti della terra attraverso i lampi, una sorta di scariche planetarie di elettroshock. Lei, rimasta sola e incapace di guidare la navetta, è destinata alla morte. Ma l’uccisione del suo carnefice era l’ultimo disperato tentativo di cercare un contatto umano, l’ultima esperienza voluttuosa che “valeva bene la morte”. 

Questa versione fantascientifica della vecchia favola dello scorpione e della rana non vuole rappresentare un futuro ritenuto ineluttabile sulla base di un’antropologia pessimistica. È piuttosto un monito. “Quando un sistema di vita abolisce la comprensione del prossimo, l’aggressività diventa la norma. Dopo non ci sono che nemici, e se non ci sono li si inventa”, sostiene Sheryl poco prima del suo estremo atto di resistenza.  Un atto che, occorre sottolineare, non si configura come mero gesto individuale. Evangelisti ce lo fa capire a modo suo: l’arma utilizzata da Sheryl per sparare contro le mostruose forze dell’esercito statunitense è una vecchissima colt a tamburo dalla canna brunita molto lunga, curiosamente caricata a palle argentate, raccolta un attimo prima dalle mani di un giovane panamense ferito a morte che indossava una maglietta insanguinata con la scritta Battallon de la dignidad. Evangelisti non ce lo dice esplicitamente ma è chiaro che è la pistola di Pantera, passata di mano in mano per generazioni di resistenti!
C’è dunque un filo rosso che unisce le lotte degli oppressi del passato e del presente. Un futuro possibile che è stato sconfitto nel passato può risorgere trasfigurato nel presente. Ma quale speranza ci potrà mai essere di fronte a un nemico così potente? Nell’universo narrativo di Evangelisti non c’è spazio per un ingenuo ottimismo, né per alcuna indulgenza verso il mito del buon oppresso. In fin dei conti anche gli sfruttati possono essere dei lupi feroci. Ed è bene che lo siano al momento giusto. E anche se appaiono più deboli dei loro oppressori, non tutto è perduto. La storia di Pantera e dei suoi strambi compagni di viaggio ci mostra che c’è sempre una chance:

Il messicano contemplò, all’ultimo raggio della luna che stava per tornare a sparire, i miseri campioni di umanità che aveva davanti. Trascinare con sé quelle creature fiacche e inservibili poteva costargli la vita. Tuttavia valutò che forse la somma delle loro debolezze poteva dare un risultato superiore alle parti. La magia zoppicante di Vecchia Pipa, la vigoria in declino di Koger, la modesta sensualità di Molly, se prese insieme, formavano quasi una sgangherata forma di potenza. Aggiunta alla sua, poteva dare qualcosa di buono. 

La morale di Black flag, insomma, ci offre un monito e una speranza. Attraverso una narrativa di genere tutto suo, Valerio ci ha regalato una storia fantastica per ricordarci, insieme a Marx, che la lotta di classe dovrà finire “con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”; ci ha fatto dono di un meraviglioso racconto per dirci ancora una volta, riprendendo lo slogan degli Industrial Workers of the World, che “noi saremo tutto” soltanto se saremo capaci, per prima cosa, di essere un “noi”.

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La narrazione audiovisiva all’americana. Dall’avvento della tv all’età della convergenza digitale https://www.carmillaonline.com/2017/08/18/36436/ Thu, 17 Aug 2017 22:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36436 di Gioacchino Toni

Nicholas_Ray-Martin_Scorsese_Nello scritto precedente [su Carmilla] ci siamo soffermati sulla narrazione audiovisiva all’americana compresa tra il muto e la fase classica del cinema hollywoodiano esposta da Federico di Chio nella prima parte del suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016), in questo secondo intervento, integrandola con altri scritti, passeremo in rassegna quanto propone la seconda parte del saggio relativamente al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

Nell’affrontare la postclassicità degli audiovisivi statunitensi, Federico di Chio segnala come essa sia caratterizzata, tra le [...]]]> di Gioacchino Toni

Nicholas_Ray-Martin_Scorsese_Nello scritto precedente [su Carmilla] ci siamo soffermati sulla narrazione audiovisiva all’americana compresa tra il muto e la fase classica del cinema hollywoodiano esposta da Federico di Chio nella prima parte del suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016), in questo secondo intervento, integrandola con altri scritti, passeremo in rassegna quanto propone la seconda parte del saggio relativamente al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

Nell’affrontare la postclassicità degli audiovisivi statunitensi, Federico di Chio segnala come essa sia caratterizzata, tra le altre cose, dalla progressiva diffusione della televisione, che a metà anni Cinquanta è presente già nella metà delle case americane, e da una regolamentazione che, rompendo il modello industriale dei decenni precedenti – basato sul monopolio degli Studios nella produzione, distribuzione e proprietà delle sale -, penalizza la distribuzione delle opere minori. Il nuovo assetto hollywoodiano comporta una maggiore attenzione verso il mercato internazionale ed un decentramento produttivo finalizzato all’abbattimento dei costi, oltre che all’aggiramento dei vincoli protezionistici introdotti da diversi paesi stranieri.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta il western e la produzione di grandi opere per il cinema affiancano la realizzazione di numerosi telefilm per la televisione. In generale i nuovi eroi tendono ad essere non più giovanissimi, spesso si mostrano acciaccati, indeboliti e costretti a destreggiarsi senza l’aiuto della collettività. «Per questi eroi la frontiera non è più il limite da oltrepassare, l’orizzonte della possibilità, ma la fine del percorso, il luogo in cui finalmente fare i conti con se stessi e con quei valori (autodeterminazione, fiducia in se stessi, senso dell’onore) celebrati, sì, dalla tradizione e che però, se assolutizzati, si rivelano fattori di isolamento, di autodistruzione e persino di disumanità» (p. 88). L’ambientazione stessa si rivela ostile e tale ripiegamento tende a trasformarsi in un’insistita teatralità dei dialoghi in cui sono più le relazioni ad interessare che non le azioni.

Numerose sono le pellicole belliche realizzate nel periodo compreso tra la guerra di Corea e quella del Vietnam ed anche in questo caso, diversamente rispetto al passato, si assiste ad una maggiore introspezione: la guerra viene mostrata più per la sua durezza che non per la sua spettacolarità.

In American storytelling si sottolinea come siano diversi i generi che risentono del clima della guerra fredda e della paranoia anticomunista. La figura del detective borderline tende a lasciare il posto a quella dell’uomo delle istituzioni integerrimo ed un certo spazio viene dedicato all’americano qualunque che si trova improvvisamente coinvolto, suo malgrado, in situazioni pericolose. Non mancano pellicole che mostrano il crimine dal punto di vista dei malviventi. Ad inizio degli anni Sessanta il crime si sviluppa lungo due direzioni; se al cinema si mettono in scena situazioni cupe e violente, nelle produzioni televisive si seguono maggiormente i canoni consolidati. Nei telefilm polizieschi, ad esempio, trionfano uomini delle istituzioni senza macchia e senza peccato.

Tale periodo è caratterizzato dal trionfo del macro genere del drama che ricorre spesso ad autori teatrali e letterari. «Le commedie degli anni Cinquanta sono forse lo specchio più evidente del clima culturale americano dell’epoca: risultano, in generale, prive di mordente, opache, prevedibili, per quanto visivamente sofisticate» (p. 92).
La fantascienza degli anni Cinquanta è invece fortemente permeata dalle avventure spaziali, dalla paranoia atomica e dal clima della guerra fredda che vede minacce comuniste ovunque. A tal proposito si rimanda al saggio di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) su cui ci siamo lungamente soffermati in passato [su Carmilla].

Nel corso degli anni Sessanta se la commedia al cinema , dopo un avvio sofisticato, intraprende una direzione decisamente movimentata, in linea con le turbolenze del periodo, la produzione televisione pare decisamente più convenzionale. In un clima fortemente condizionato dal perbenismo e dal pericolo dell’infiltrazione comunista, in generale «il malessere psicologico e relazionale dei personaggi […] viene circoscritto alla sfera privata e, dunque, isolato dal contesto sociale, economico e politico. Individualizzando e patologizzando il disagio, gli autori si [mettono] al riparo dall’accusa di ritrarre una società malata. Una prudenza di ordine politico che peraltro si [aggiunge] a quella convinzione tipica della mentalità americana […] per cui le ragioni della debolezza o della devianza di un uomo sono da ricondurre alla sua indole e non a contesto sociale in cui vive» (p. 94).

Di Chio si sottolinea come la famiglia resti uno dei temi più trattati durante questo periodo, soprattutto attraverso la sua celebrazione, ma non mancano opere capaci di mostrarne la crisi. Anche la donna viene trattata come soggetto problematico e se al cinema viene mostrata alla faticosa ricerca di un equilibrio tra realizzazione professionale ed impegni domestici, le produzioni televisive tendono invece ad accontentarsi di modelli molto più rassicuranti per il pubblico maschile. «Le donne pericolose degli anni Quaranta lo erano perché irretivano l’uomo: lo manipolavano (per sbarazzarsi del marito, arricchirsi ecc.), ma ne avevano bisogno; quelle degli anni Cinquanta, invece, sono pericolose perché sanno farne a meno!» (p. 96).

Rebel Without a Cause (1955, Nicholas Ray)

Rebel Without a Cause (1955, Nicholas Ray)

Una delle maggiori novità del periodo riguarda la figura del “giovane sensibile e tormentato” che si presenta sullo schermo assai distante dagli stereotipi della middle class masculinity. In alcune pellicole ad essere messo in scena è un giovane riflessivo, sensibile, insicuro e magari ribelle ma quasi sempre lontano dai risvolti politici e sociali; si tratta di un ragazzo che non vuole scappare dal mondo o cambiarlo ma solo farne parte a pieno titolo.

Secondo lo studioso nodi centrali della produzione postclassica sono il difficile rapporto tra individuo e comunità e la degradazione dell’eroe. Nel primo caso i film esplicitano le difficoltà del rapporto ricorrendo spesso al topoi narrativo dell’arrivo del forestiero o del ritorno a casa di un membro della comunità dopo una prolungata assenza; questa figura altra contribuisce a rompere gli equilibri di facciata ed a far emergere il rimosso. Nel caso della degradazione dell’eroe nel saggio si insiste sulla sua ambiguità e sul suo isolamento dalla comunità, tanto che questa figura finisce col perdere quella gradevolezza necessaria all’immedesimazione da parte dello spettatore.
Nell’era postclassica più che al cinema le figure forti ed affascinanti di official hero in cui identificarsi le si ritrovano nelle produzioni televisive. Anche la figura dell’outlaw degrada la sua posizione e mentre al cinema diventa sempre più simile al villain, in televisione conserva tutto sommato il suo vecchio statuto.

Nella seconda metà degli anni Sessanta gli Stati Uniti sono scossi da una serie di spinte sociali, politiche e culturali che mettono in discussione nelle fondamenta il modello americano palesando contraddizioni sino a questo momento celate e taciute. Anche l’industria cinematografica è costretta a fare i conti con il nuovo clima che attraversa la società e lo fa avviando una ristrutturazione degli Studios da qualche tempo in preda ad una crisi economica e d’identità. Nel frattempo anche il Codice Hays, riformulato una prima volta nel 1956 ed una seconda nel 1966, finalmente, nel 1968, viene accantonato e sostituito da un sistema di mera “indicazione di visione” (es. “G” General, per tutti, “X” vietato ai minori ecc.). Tale sistema, gestito dalla CARA – Code And Rating Administration, permette sostanzialmente al cinema di rappresentare esplicitamente (quasi) qualsiasi tematica e situazione. A cambiare, però, a partire dalla fine degli anni Sessanta, è soprattutto il pubblico: nelle sale cinematografiche il calo della presenza   di famiglie e componente femminile, tendenzialmente assorbite dalla televisione, lascia il campo ad un segmento maschile, giovane e scolarizzato di middle class.

Se da un lato, sul finire degli anni Sessanta, Hollywood dedica numerose produzioni low budget al pubblico giovanile (i figli del baby boom) concentrandosi su tematiche controverse legate al sesso ed alla violenza, dall’altro continua a produrre opere ad alto budget decisamente più convenzionali. A tal proposito nel saggio si ricorda come negli Oscar del 1969 vengano premiati contemporaneamente due cowboy molto diversi: la statuetta al miglior film viene assegnata a Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede, 1969 di John Schlesinger), mentre il riconoscimento al miglior attore tocca a John Wayne per il film True Grit (Il “Grinta”, 1969 di Henry Hathaway).

I film maggiormente impostati su posizioni anticonformiste sono centrati «più sui personaggi che sul plot, con un andamento narrativo lasco e rapsodico ben oltre i canoni della forma debole del racconto […] dominati da antieroi irregolari, gravati dal senso del limite, che manifestano un’attitudine critica, spesso anche apertamente ostile, verso le agenzie istituzionali (la famiglia, la politica, l’esercito, la polizia, la religione) e verso l’autorità in genere» (p. 109). In alternativa, sull’altro versante, si trovano spesso personaggi attivi e risoluti, come militari fanatici e poliziotti ossessionati dalla persecuzione del crimine, che popolano narrazioni dallo sviluppo lineare.

Di Chio sottolinea anche come non manchino nemmeno pellicole di incerta classificazione in cui si trovano giustizieri che non agiscono secondo la tradizionale visione «reazionaria e machista, bensì per disperazione e paranoia […] e per necessità, tradendo un’angoscia e una sensibilità che ne fanno eroi di segno decisamente diverso. In tutti i casi, la produzione della New Hollywood è caratterizzata da un’amarezza e da una cupezza decisamente evidenti. «La cupezza di questi film si deve al dilagare di scene di violenza, lunghe e disturbanti. Molto spesso si tratta di una concessione facile ai gusti del pubblico più giovanile e maschile, resa possibile dall’abbandono dell’eufemismo tematico e visivo imposto dal Codice. Ma in taluni casi […] la rappresentazione rivela un consapevole approccio “controculturale”: quell’elemento così controverso e tuttavia costitutivo della storia de del carattere degli americani, che la narrazione mitica aveva sublimato e a volte addirittura rimosso, viene ora esibito in modo talmente insistito e iperbolico da rivelare al sua vera natura e la sua autentica funzione storica. Il processo si riscrittura operato dal mito viene in questo modo smascherato» (pp. 110-111).

Di Chio si sofferma anche su come il genere horror moderno offra una rappresentazione del tutto nuova del male e di come la minaccia si sviluppi in seno all’umanità stessa. Da parte nostra abbiamo approfondito in un precedente scritto [su Carmilla] il tema dell’essere umano nemico di se stesso in ambito fantascientifico. Una profonda revisione tocca un po’ tutti i generi: dal noir al musical, dal crime al western che si avvia, tra fine anni Sessanta e primi anni Settanta, ai suoi ultimi colpi di coda alternando opere convenzionali ad opere manierizzate presentando anche interessanti riletture del mito della frontiera.

Trasversale a diversi generi, la figure dell’eroe, sia outlaw che official, tende a dissolversi. Secondo lo studioso nel caso dell’outlaw si perdono alcune sue caratteristiche fondamentali come l’asocialità e la performatività; si tratta ora di un personaggio fragile e sbandato che non riesce più a cavarsela da solo e ciò lo rende sempre più simile alla figura del villain. Nel caso dell’official, ad esempio nel poliziotto, si perdono la disciplina istituzionale ed il legame sociale tanto che diviene sempre più solitario. Nel saggio viene fatto notare come outlaw ed official non si incontrino quasi più nelle storie: o abbiamo uno o l’altro. Al posto di queste due tipologie tradizionali di eroe sembra sempre più prendere piede la figura dell’antieroe privo di una visione del mondo e di riferimenti valoriali forti. Tutto ciò, però, sottolinea lo studioso, non avviene in televisione; in questo caso ci si tiene decisamente alla larga dagli antieroi tragici e distruttivi.

Taxi Driver (1976, Martin Scorsese)_

Taxi Driver (1976, Martin Scorsese)

In American storytelling si pone l’accento su come il cinema della New Hollywood risulti contraddistinto dal pressoché totale predominio di personaggi maschili ed in parte ciò è dovuto alla crisi in cui versa la figura maschile ormai incapace di raccapezzarsi nella nuova società. Qualche persistenza di eroe forte la si ritrova ancora, ad esempio, nei film poliziesco-giustizialisti, negli spy-thriller e, soprattutto, nei disaster movie ove, non di rado, si ritrova un personaggio maschile maturo che, a costo di fuoriuscire dalle norme comportamentali istituzionali, funge da leader di un piccolo gruppo che si trova a dover fronteggiare una situazione estrema. «Come nel dopoguerra, ma in modo ancora più evidente, la messa in scena della debolezza del maschio (l’antieroe), così come la riaffermazione fin troppo esibita della sua forza (i nuovi eroi d’azione, tutti d’un pezzo e politically incorrect) hanno a che fare con la crisi della maschilità e del modello patriarcale della società che in questi anni, a valle della rivoluzione femminista, emerge in modo davvero esplosivo» (p. 117).

Tra le novità introdotte dalla produzione della New Hollywood nel saggio vengono indicati il ricambio generazionale degli attori, l’uso di una fotografia decisamente contrastata e desaturata con effetti realistici, il ricorso a focali in grado di cogliere dettagli tanto ravvicinati che in lontananza o di allargare a dismisura i confini del visibile.

Alla New Hollywood succede quella che è stata definita l’età della restaurazione o del ritorno all’ordine anche se, a dire il vero, le cose risultano decisamente più complesse e variegate. È comunque sicuramente vero che sul finire degli anni Settanta l’immaginario americano cominci a distanziarsi da quel clima caratteristico della New Hollywood in cui si intersecano critica, sfiducia e pessimismo. Sul finire del decennio nei diversi generi riemerge la volontà di riproporre la forza dei miti non di rado viene messo in scena il riscatto di protagonisti del ceto medio-basso che ritrovano un sogno per cui vale la pena fare sacrifici. Sembra dunque far capolino nuovamente l’American dream smarrito.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta del secolo scorso viene abbandonata la strategia classica di distribuzione che tendeva a centellinare il numero di pellicole distribuite per allungare il più possibile il tempo di permanenza dei film nelle sale. Ora la strategia diventa quella della saturazione: vengono distribuite contemporaneamente molte copie, supportate da un lancio pubblicitario ragguardevole, cercando di incassare tutto l’incassabile nel minor tempo possibile. Ciò contribuisce alla sempre più marcata tendenza hollywoodiana di concentrare enormi investimenti su di un numero ridotto di pellicole, tendenza che poi, nel corso degli anni Ottanta, si relaziona con la possibilità di sfruttare i grandi titoli anche nei circuiti delle pay tv. Il pubblico di questi blockbuster votati alla spettacolarità è quello delle famiglie anche se una fetta importante di produzioni mira ad un pubblico maschile per il quale vengono realizzati prodotti privilegianti scene violente.

Esauritosi il western, secondo l’autore, è per certi versi la fantascienza a raccogliere il testimone del mito della frontiera tanto caro al pubblico americano. Una parte importante della produzione a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta spetta alle commedie demenziali giovanili, anche se spesso costrette ad ambientazioni retrodatate per potervi collocare condotte sguaiate ed anticonformiste altrimenti difficilmente ambientabili nell’edonismo dell’epoca del rappel à l’ordre. Inoltre, dalla metà degli anni Ottanta la paura dell’AIDS non consente ai film di trattare la sessualità giovanile in maniera scanzonata. «Se il melodramma giovanile degli anni Cinquanta-Sessanta e l’horror degli anni Sessanta-Settanta […] avevano radici nella repressione causata dalla struttura rigida, patriarcale o matriarcale, della famiglia, i teen drama e i teen horror di questi anni ci raccontano che i ragazzi, una volta liberati dalle autorità oppressive, iniziano ad aver paura di loro stessi, delle proprie emozioni e persino dei propri sogni!» (p. 123).

Nel clima che attraversa i decenni Ottanta e Novanta è evidente il disimpegno politico ed il ripiegamento nel privato, tanto che della critica espressa dai due decenni precedenti resta ora soltanto il disincanto che facilmente si trasforma in cinico opportunismo ed è per certi versi da quest’ultimo che riemerge, con non poche contraddizioni, l’American dream.

Nel cinema più commerciale, di pari passo all’accantonamento dell’impegno e della critica sociale e politica, tende a far capolino un certo ottimismo in cui spiccano eroi d’azione inclini a sfidare i pericoli più incredibili uscendone indenni. Da un certo punto di vista rientrano in questo profilo anche diversi supereroi e personaggi delle serie poliziesche televisive. Grazie a tali eroi viene «nuovamente celebrata la maschilità performante attraverso l’esibizione di “hard bodies” […], forti e violenti: un’evidente riscossa nei confronti dell’antieroismo e del femminismo critico del periodo precedente» (p. 125).

Insieme al ritorno dell’eroe maschile sotto tali sembianze, sottolinea Federico di Chio, ricompare con forza l’affermazione dell’ordine patriarcale, mentre la donna autonoma ed indipendente, comunque già poco presente nelle produzioni della New Hollywood, ora diviene una moglie egoista, una madre scostante ed un pericolo per l’uomo. Soltanto nei primi anni Novanta, secondo lo studioso, si ha un’attenuazione del riflusso patriarcale con il conseguente ritorno sugli schermi di figure femminili meno stereotipate. Nel saggio viene riportata anche l’interessante tesi dello studioso Fred Pfeil (“From Pillar to Postmodernism” in Jon Lewis , ed., The New American Cinema, 1998) che tende a ricollegare «la restaurazione patriarcale, il rilancio dell’individualismo capitalistico e il ritorno della narrazione “forte” degli anni Ottanta» (p. 126).

Da parte nostra abbiamo affrontato il clima di nostalgia e di bisogno di normalità trasmesso dal cinema americano degli anni Novanta nello scritto “A Family Affair” (2004) [su Carmilla] mostrando come in molte opere si palesi la crisi della vecchia istituzione famigliare ed una visione nostalgica per un’epoca idilliaca che sembra essersi eclissata. In diverse pellicole dell’epoca il riscatto della nazione, gravemente ammalata, sembra potersi dare solo attraverso la riconquista, da parte maschile, di quello smarrito senso di responsabilità nei confronti della sua cellula base: la famiglia. In sostanza il ristabilimento del sistema patriarcale viene presentato come condizione necessaria al riscatto dell’intera nazione.

Falling Down (1993, Joel Schumacher)

Falling Down (1993, Joel Schumacher)

In “A Family Affair” abbiamo evidenziato come in diverse opere l’incapacità, non solo da parte maschile, di far fronte ai problemi che investono la famiglia, conduca i protagonisti a veri e propri deragliamenti mentali e comportamentali. Ad accomunare molti film è il desiderio provato dai protagonisti di riottenere quella normalità americana andata perduta certo anche a causa loro, ma, più spesso, per colpa di una società che, inspiegabilmente, sembrerebbe aver perso la bussola. È un’America malata quella messa in scena, con personaggi che manifestano i sintomi della malattia: l’incapacità di costruirsi una normalità, di praticare quei valori tramandati da generazioni a cui si credeva e si vuol continuare a credere. I protagonisti percepiscono non solo la propria incapacità nel raggiungere tali obbiettivi ma anche di trovarsi di fronte una società ostile, pronta a rinfacciare loro i fallimenti.
Sempre in “A Family Affair” abbiamo visto come non manchino film in cui la perdita di identità di un membro della famiglia sembra derivare dal successo professionale quando al suo conseguimento corrisponde la perdita dei vecchi valori sui quali si fondava il rapporto di coppia.

Di Chio sottolinea giustamente come la serializzazione di alcuni film d’azione o d’avventura finisca con il minare la narrazione forte: al fine di giustificare nuovi capitoli, al protagonista è negata la risoluzione definitiva della minaccia che affligge il mondo. In tali film l’eroe risolve la minaccia immediata ma «non riesce a operare una piena trasformazione di sé e della realtà in cui vive. Ed è questa la grande differenza con il regime classico» (p. 126). A tale incapacità risolutiva che tocca tanto il cinema, quanto le produzioni televisive, facilmente seriali, si supplisce spesso con eccessi autoreferenziali poco utili all’evoluzione narrativa e/o con un’accentuazione dell’aspetto ludico.

Naturalmente, a fianco di una produzione hollywoodiana orientata all’ottimismo superficiale, esiste anche una proposta più amara e riflessiva. Non mancano infatti opere votate a smascherare le ipocrisie e i miti riproposti. Nel saggio sono elencati diversi film che denunciano la politica istituzionale ed il mito yuppie, che sottolineano la fine dell’innocenza americana e palesano le difficoltà di convivenza tra le diverse etnie e tra i diversi orientamenti sessuali. Occorre sottolineare che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta finalmente anche la televisione propone situazioni problematiche, tanto da giungere a mettere in scena rappresentazioni della famiglia meno stereotipate e più critiche.

Nel corso degli anni Ottanta diverse opere cinematografiche danno immagine ad una problematica che inizia a diffondersi nell’immaginario collettivo occidentale: la mutazione. Come abbiamo sostenuto nello scritto “Immagini e trasformazioni postindustriali americane” (2004) [prima parte e seconda parte, su Carmilla] tale tematica non può essere ricondotta al solo New Horror del decennio; la sensazione di perdere la propria identità è una problematica diffusa che ha a che fare con la paura o, in misura minore, con la speranza della mutazione. L’idea stessa di mutazione sembra svilupparsi in reazione alla perdita dell’identità e se il più delle volte l’individuo tenta di resistere alla mutazione, in altri casi ne palesa la necessità.

Sempre in “Immagini e trasformazioni postindustriali americane” abbiamo visto come il cinema degli anni Ottanta e Novanta metta in scena diverse forme di crisi di identità e diverse forme di mutazione: crisi della middle class, classe cinematografica per eccellenza, in preda all’amaro risveglio post-reaganiano (crollo del tenore di vita e del sogno americano), crisi dell’identità di genere tradizionale (amplificata dall’incapacità maschile di comprendere il mutato ruolo sociale), dunque crisi della famiglia e con essa dell’idea di nazione ma anche crisi dell’individuo nei confronti delle nuove tecnologie di comunicazione e dei relativi modelli di percezione delle realtà.

Nei film di questo ventennio il senso di crisi che ha investito la società americana è rappresentato a volte come crisi temporanea di un modello fondamentalmente sano, altre come crisi definitiva che ha finito per colpire anche l’unico sistema sopravvissuto alla guerra fredda. A tal proposito nella nostra analisi abbiamo indicato due filoni di opere, dai confini non sempre marcati: uno votato alla nostalgia per un passato felice andato perduto, ed uno decisamente più apocalittico.

Spesso nelle produzioni hollywoodiane tanto le visioni progressiste quanto quelle reazionarie tendono ad individuare le cause della deriva non nelle fondamenta stesse del modello americano, ma nelle deviazioni dalla retta via che esso ha subito. Se la visione più reazionaria tende a leggere la disgregazione come conseguenza di ciò che ha prodotto l’epoca della contestazione (a cui vengono sostanzialmente imputate la sconfitta militare in Vietnam, la distruzione della famiglia come nucleo-base della società, il dilagare dei problemi razziali, il disordine sessuale ecc.), la visione più progressista proposta dal cinema sembra voler ricercare le colpe in quella politica economica ultraliberista che, al potere, ha prodotto il cinismo individualista di uomini d’affari senza scrupoli che ha distrutto quanto generazioni e generazioni di veri americani hanno pazientemente costruito. In entrambe le letture il male non sembra tanto essere endemico al modello quanto piuttosto derivato dal suo tradimento.

L’idea di vecchia-America socialmente unita e solidale, che sugli schermi sembra propria tanto della visione conservatrice quanto progressista, tende a vedere nei mali dell’America contemporanea il crollo di tutti i suoi valori a causa di chi ha operato smarrendo l’American way. La soluzione, in entrambi gli approcci, parrebbe essere nel ristabilimento dell’ordine e della morale di un tempo, dunque in molte pellicole si procede secondo una narrazione volta alla redenzione.

Molti film mettono in scena personaggi cresciuti con sani valori che, improvvisamente, ed inspiegabilmente, si trovano magari a maneggiare tastiere di computer pericolose come i comandi delle testate nucleari, in grado di distruggere l’intero sistema costruito da generazioni di americani che ora si sentono traditi da quegli stessi figli che hanno messo al mondo. Può il mito americano aver allevato un mostro? É possibile porvi rimedio e redimerlo dall’interno? O siamo di fronte ad un mostro che soltanto oggi inizia a mostrare anche alla middle class quanto milioni e milioni di individui di ceto sociale più basso, all’interno ed all’esterno del paese, conoscono già da diverso tempo? Sulla sostanziale coincidenza tra tante visioni progressiste e quelle più apertamente reazionarie ha impietosamente insistito Sandro Moiso in diversi suoi scritti utili a comprendere l’attualità statunitense. Si veda, ad esempio, “Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo)” (2017) [su Carmilla].

Se c’è una cosa che i colletti bianchi, nel corso degli anni Ottanta, hanno finito per comprendere, al di là della retorica mediatica a cui hanno voluto prestar fede fino a quando non ne sono stati coinvolti direttamente, è il vero significato del termine ristrutturazione: peggioramento delle condizioni e dei rapporti di lavoro, se non il licenziamento vero e proprio. E quell’America cresciuta con il mito del consumo illimitato senza pensare che si sarebbe potuto perdere il lavoro e con esso tutto il resto, quell’America che ha contribuito a costruire e difendere il Paese, improvvisamente si sente abbandona a se stessa.

Anche in American storytrelling viene concesso spazio al problema dell’ibridazione corpo/macchina segnalando come diverse pellicole affrontino «la dissoluzione, lo slittamento, l’incertezza dell’identità personale e la labilità della soglia tra umano e non umano, nelle due opposte forme dell’umanizzazione del non umano, con il proliferare di cloni, droidi, robot; e della disumanizzazione dell’umano, insistendo sulla virtualizzazione delle esperienze» (p. 128). Da parte nostra abbiamo affrontato l’immaginario attorno al quale ruotano tali tipi di opere nello scritto “Il postumano tra soggettivazione emancipatoria e nuove forme di dominio” (2016) [su Carmilla].

L’insistenza sul corpo umano di molti film si lega inevitabilmente alla riflessione sull’identità americana che «si è costruita storicamente sull’esistenza di un nemico esterno, dai pellerossa ai comunisti, dai nazisti ai viet-cong» (p. 129). Dal momento che viene a mancare una minaccia esterna sentita come realmente tale, l’individuo americano tende a rivolgersi verso di sé: «al corpo che non ci risponde più, alla mente che ci tradisce o che si sdoppia, alla fantasia che ci minaccia. Nell’era dell’individualismo senza antagonisti, insomma, il nemico sono io. Non a caso, altro grande tema ricorrente è l’indistinzione di realtà e immaginazione» (p. 129).

Se dal punto di vista contenutistico la produzione hollywoodiana degli anni Ottanta è certamente contraddistinta da un evidente rappel à l’ordre, pur essendo più variegata di quel che appare ad un primo sguardo, dal punto di vista produttivo il nuovo decennio porta invece una vera e propria rivoluzione tecnologica, con le sue inevitabili ripercussioni produttive e distributive: si apre l’era digitale e con essa l’età della convergenza. In altri termini l’innovazione digitale e la rimozione di vecchi vincoli normativi permettono forme convergenti tra Studios, Broadcaster televisivi, DVD, tv multi-channel ed internet che non mancano di avere importanti ricadute anche sull’immaginario collettivo. Qua si apre davvero una nuova fase tutta da approfondire.

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La narrazione audiovisiva all’americana. Dal muto al classicisimo hollywoodiano https://www.carmillaonline.com/2017/08/11/36343/ Thu, 10 Aug 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36343 di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione [...]]]> di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

L’analisi proposta dal saggio prende il via da quando, nella prima metà degli anni Dieci del Novecento, ai cortometraggi, che sin dagli anni precedenti vengono proiettati a ciclo continuo da mattina a sera nei nickel-odeon popolari, si affiancano i lungometraggi ed alla working class che frequenta le sale si aggiunge un pubblico di ceto sociale più agiato. Molto velocemente il cortometraggio è soppiantato dal nuovo formato capace di raccontare storie più elaborate ed avvincenti secondo un’articolazione in tre macro-generi caratterizzati da una netta e stereotipata contrapposizione tra bene e male: l’avventuroso, il comico-dinamico ed il drammatico.

Iron Horse (1924, John Ford)

Iron Horse (1924, John Ford)

Nel corso degli anni Venti, in un clima di crescita dei consumi negli Stati Uniti, l’etica del sacrificio e della parsimonia borghese-puritana si allenta ed il cinema sembra riflettere un nuovo modo di guardare ai valori della famiglia tradizionale, alla figura femminile ed alla sessualità. Il western è probabilmente il genere che meglio riesce a dare immagine allo spirito di ottimismo individualista ricorrendo al mito della conquista ed al principio del destino manifesto. I lungometraggi tendono dunque a celebrare e promuovere i valori della libertà individuale e della proprietà in storie che narrano del conflitto tra operosi coloni ed insidiosi villain che hanno le sembianze dei banditi, degli indiani e degli speculatori.

I generi si fanno via via più complessi ed ai successi della commedia romantica brillante si affiancano quelli dei light drama «che narrano la parabola di affermazione di esponenti del ceto medio-popolare […] o, di contro, la parabola di discesa e conversione di altezzosi aristocratici o di ricchi industriali messi alla prova dal destino» (pp. 24-25). Amore, benessere materiale ed affermazione dell’individuo divengono gli elementi trainanti del cinema muto.

Il saggio analizza anche lo sviluppo della figura della flapper, una giovane donna ammaliata dal sogno della ricchezza e dalla libertà dei costumi che, solitamente, sul finire della narrazione, si rende conto dei rischi della deriva intrapresa e sceglie di recuperare i valori tradizionali fondamentali.

In generale la narrazione nel cinema muto americano è decisamente più dinamica rispetto alle produzioni europee dello stesso periodo, tanto che l’incalzante ritmo narrativo ne diviene un tratto distintivo. Secondo lo studioso la produzione hollywoodiana del periodo sembra adottare due forme base: «La prima centrata sull’azione efficace e spettacolare del protagonista che sconfigge i malvagi villain o supera gli ostacoli della sorte, restituendo a sé stesso e alla comunità l’equilibrio perduto. La seconda forma base è invece centrata sulla reazione del personaggio, costretto in una condizione di passività» (p. 28). La struttura narrativa è orientata al risultato che, il più delle volte, significa il ristabilimento dell’equilibrio iniziale.

Sul finire degli anni Venti del Novecento nel cinema americano arriva il sonoro e ciò impone una costosa trasformazione del sistema-cinema. Mentre nuove star sostituiscono quelle del muto ed il linguaggio del cinema cambia, il paese si trova a fare i conti col crack economico-finanziario del ’29 che assesta un colpo pesante all’immaginario del mito americano e molti Studios, in preda alla crisi, finiscono nelle mani di grandi banche. La ristrutturazione dell’industria cinematografica comporta una maggiore standardizzazione produttiva e narrativa ed il cinema per riconquistare pubblico gioca soprattutto la carta del sensazionalismo.

Anche se è entrato in vigore nel 1930, il codice di censura Production code inizia ad essere realmente applicato soltanto attorno alla metà del 1934. Il periodo compreso tra l’avvento del sonoro (fine anni Venti) e la reale applicazione del Codice viene identificato come Pre-Code Era ed è caratterizzato da una certa licenza espressiva e contenutistica, tanto che numerose pellicole insistono su storie di lussuria, adulteri e rapine. Nonostante i personaggi positivi restino in primo piano, un certo rilievo viene concesso a protagonisti negativi come gangster, personaggi violenti, bad girl, gold digger (ciniche cacciatrici di un buon partito), fallen women, shyster (farabutti dell’alta società) ecc.

american-storytellingDal punto di vista narrativo, sottolinea l’autore, i primi anni Trenta palesano notevoli differenze rispetto alle produzioni del muto. «Da un parte, le storie hanno un andamento lineare, scandito dal ritmo serrato e incalzante degli eventi e della varietà delle soluzioni; dall’altra, però, si tratta di una linearità episodica, più che vettoriale: le relazioni causa-effetto, motivazione-azione, sono un po’ lasche e i processi trasformativi non sono affatto pronunciati […] la parabola del protagonista procede per tappe […] Ellissi, passaggi bruschi da un filone dell’intreccio a un altro, equivoci inspiegabili, decisioni immotivate, coincidenze sorprendenti, interrogativi che restano senza risposta sono all’ordine del giorno in un modo di raccontare che non ha ancora trovato non solo fluidità espositiva, ma anche la “necessità” logica di fondo» (p. 37).

A puntellare tali narrazioni si inseriscono parecchi momenti di attrazionalità. A livello narrativo, si sostiene nel volume, alla trasformazione si sostituisce sovente una semplice risoluzione ed i protagonisti si mostrano incapaci di gestire totalmente le situazioni in cui si imbattono per poterle condurre a buon fine. In un’epoca di crisi sociale che mina le fondamenta del sogno americano è difficile dare spazio ad eroi risolutivi.

Il western, che già negli anni Venti è il genere trainante della produzione hollywoodiana, agli inizi del nuovo decennio è in sofferenza tanto per le difficoltà derivate dal sonoro (che per qualche tempo limita le riprese in esterno) che per il mutato immaginario; l’ottimismo nel progresso, il mito della frontiera e le capacità performative del personaggio che contraddistinguono il decennio precedente, inevitabilmente stentano di fronte alla Depressione. «Enfatizzare il ruolo del destino o del caso nelle vite degli uomini e denunciare la loro incapacità di incidere sulle cose significa però anche ridimensionare le responsabilità. In questo, dunque, la drammaturgia hollywoodiana del periodo [sfida] la diffusa convinzione secondo cui le ragioni della debolezza o della devianza di un uomo sono da ricondurre alla sua indole e non alle difficoltà del contesto sociale in cui vive» (pp. 40-41).

Di pari passo al New Deal si assiste al recupero dell’american dream e con esso al bisogno di eroi; non è un caso, sottolinea Federico di Chio, che sul finire degli anni Trenta nascano eroi di carta come Superman e Batman.
Con l’applicazione del Codice il cinema abbandona i soggetti più scabrosi e si allontana dalla vita quotidiana. Tutti i generi subiscono una forte trasformazione ed a partire dalla fine degli anni Trenta il western torna a conquistare il suo spazio lungo due direttrici: da una parte attraverso racconti di taglio epico-storico, volti a far coincidere il progresso collettivo con il sogno individuale, dall’altra attraverso storie di pistoleri che, seppur frequentemente poco inclini a sottostare alla legge, risultano dotati di un forte senso di giustizia che li porta a difendere i più deboli dal grande capitale.

Giunti a metà degli anni Trenta si entra nell’età di quel “cinema classico” che appare ormai capace di gestire il sonoro ed è in tale periodo che, secondo lo studioso, si giunge alla forma forte della narrazione cinematografica che ha le sue radici nel racconto popolare mitico, epico e d’avventura, tanto da mutuarne «il pattern vettoriale (stimolo)-motivazione-azione-obiettivo-(risultato)» (p. 50). È l’azione che determina il corso degli eventi e rivela i caratteri dei personaggi ed in tale tipo di narrazione forte la progressione lineare segue «una struttura di implicazione aperta, tipica delle sequenze domanda-risposta: ogni scena suscita questioni, interrogativi, possibilità che aspettano una risoluzione nelle scene successive» (p. 50).

Se l’eroe del cinema muto nel conseguire l’obiettivo non trasforma il mondo né se stesso, l’eroe del cinema classico con la sua azione cambia il mondo e se stesso e tale azione si mostra del tutto proporzionata dal punto di vista qualitativo e quantitativo alle finalità. Nella forma debole del racconto, invece, i personaggi sono in condizione di passività rispetto alla sorte ed alle azioni altrui e non riescono ad incidere sugli eventi.

Dall’introduzione del Codice, inoltre, segnala Federico di Chio, la distinzione tra personaggio positivo e negativo torna ade essere netta ma si delinea un’articolazione interna ai due poli. Quando il protagonista non appare del tutto positivo compare un secondo personaggio come incarnazione del bene assoluto e lo stesso accade per i ruoli negativi.

Interessante anche la distinzione proposta da Robert B. Ray (A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, 1985) tra official hero ed outlaw hero. Nel primo caso si ha a che fare con un rappresentate delle istituzioni, integrato nella comunità, rispettoso delle leggi e votato al conseguimento dell’interesse comune, nel secondo caso, invece, abbiamo un personaggio individualista ed anticonformista che fatica a sottostare alle leggi ed all’autorità, che agisce in linea non tanto con ciò che impone la legge ma con ciò che ritiene essere giusto.

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Secondo lo studioso «lo schema narrativo classico, nella sua dimensione valoriale, traccia anzitutto un confine tra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, e definisce poi i ruoli dei personaggi in relazione a questa assiologia» (p. 63). Lo schema prevede che il protagonista agisca all’interno del negoziabile mentre l’antagonista deve restane fuori. La drammaturgia classica impone il confronto tra il soggetto e l’altro-da-sé (l’antagonista) e tra il soggetto e un altro-possibile-sé (il deuteragonista che rappresenta ciò che il protagonista potrebbe essere). «In questo schema, a differenza di quanto succedeva nel regime preclassico, l’attenzione si concentra pertanto sul terreno del negoziabile e sulle sue dinamiche interne, lasciando sullo sfondo il grande conflitto tra bene e male assoluti» (p. 64).

Come accade per il cinema Pre-Code, l’autodeterminazione resta una componente importante per i protagonisti ma ora essa appare temperata dal confronto con altri valori. Nel cinema classico l’esito resta sostanzialmente positivo grazie all’intesa spesso raggiunta tra le diverse istanze ma tale sintesi comporta spesso sacrifici e rinunce. Anche se la dialettica valoriale va a buon fine non è detto che si giunga ad un unico punto di sintesi.

Nello sforzo di conciliazione valoriale cercato dal cinema classico, volto alla tenuta ed all’evoluzione simbolico-culturale della società nordamericana, si combinano due spinte: «La prima, più profonda, di lungo periodo e di natura culturale, è legata alle forme della mentalità americana che […] si caratterizza […] proprio per la volontà di non eliminare […] alcuna opzione dal proprio orizzonte di possibilità: ogni scelta di campo compiuta è virtualmente connessa a quella opposta, che rimane un’opzione sempre possibile e la cui insistenza dà continuamente senso alla decisione presa. In questo senso il reconciliatory pattern andrebbe inteso […] come una sorta di “forma simbolica”, uno schema a priori della coscienza americana. La seconda spinta, più contingente […] deriva dall’adozione del Production Code» (pp. 70-71). L’autoregolamentazione, secondo lo studioso, stabilisce un framework negoziale complesso tra valori contrastanti, e se è vero che per diverso tempo parecchi temi, valori e visioni del mondo restano escluse, occorre ammettere che quando anche questi sono presenti nel cinema Pre-Code lo sono soprattutto per finalità spettacolari gratuitamente scandalistiche.

Nel saggio  si insiste anche su come sia limitativo mettere in luce il solo aspetto censorio del Codice; esso si pone anche l’obiettivo di promuovere una determinata visione del mondo. Sarebbe però altrettanto sbagliato non cogliere come, nonostante il Codice, si siano prodotte opere in cui si trovano suggestioni non del tutto normalizzate.

Alla produzione degli anni Quaranta viene fatta risalire la “seconda classicità” del cinema americano. La Seconda guerra mondiale incide profondamente sull’immaginario statunitense ed Hollywood, nel corso di questo decennio, sembra prendere due direttrici principali: da una parte lo smarrimento che attraversa la società americana viene rispecchiato ed interpretato dai film (il noir, il social drama, il male drama ed il woman’s film…), dall’altra il cinema tende a compattare e motivare il paese durante il conflitto e la ripartenza successiva.

Durante il periodo bellico ad avere la meglio sono certamente i film che, in un modo o nell’altro, insistono sul mito collettivo della nazione senza però annullare i miti individuali. Il war movie è sicuramente il genere che meglio di ogni altro riesce a miscelare le due mitologie: spirito di gruppo e leader capaci, cooperazione ed individualismo, bene collettivo e volontà del singolo.

Se nella prima parte degli anni Quaranta il war movie si sostituisce al western, a partire dalla metà del decennio il western viene rilanciato tanto da vivere la sua stagione d’oro e tutto ciò avviene grazie alla rinascita del mito della frontiera e dell’espansionismo americano.

Nel saggio viene evidenziato anche come l’immediato dopoguerra acuisca conflitti culturali e valoriali interni: il mondo agreste-pastorale Vs. il mondo tecnologico industriale, la vita di provincia Vs. la massificazione delle grandi metropoli ecc.

Nel western di questo periodo lo schema narrativo insiste nel giustificare il ricorso alla violenza, anche estrema, attraverso un processo emotivo in cui essa viene motivata e legittimata moralmente. Anche i moventi passionali o la degenerazione dei legami all’interno della comunità famigliare o comunque ristretta hanno il loro spazio.

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Il disincanto e l’amarezza emergono soprattutto in generi come il noir ed il drama in tutte le sue sfaccettature. «Il sogno americano, qui, non è più “destino manifesto”, e neanche un’opportunità dura ma possibile, ma un miraggio lontano. Colpa della scarsa rilevanza del singolo in una società sempre più massificata, segnata da irrimediabili diseguaglianze [e] colpa della fragilità psicologica e della misera levatura morale dell’individuo che non è più all’altezza delle sue aspirazioni» (p. 76).

Relativamente agli anni Quaranta risultano di particolare interesse i generi noir e quelli che concedono spazio alla figura femminile. Nel primo caso si «lavora essenzialmente sulla parabola esperienziale della “discesa agli inferi”, declinandola in varie direttrici narrative: a) l’investigazione su un mistero apparentemente insolubile […] b) l’esperienza tragica di persone accusate ingiustamente […] c) la caduta morale e psicologica di individui che compiono un crimine per debolezza o per necessità […] d) il confronto tra criminali psicopatici, capaci di manipolare/ingannare gli altri, e le loro vittime» (pp. 76-77).
Per quanto riguarda le figure femminili occorre far riferimento soprattutto ai cosiddetti woman’s film che, rispetto al passato, concedono particolare attenzione al protagonismo della donna nella società e nel mondo del lavoro. Noir e woman’s film sembrano indirizzarsi verso la ricerca della verità celata dietro le apparenze. Ad essere indagata è la “soggettività” che si manifesta attraverso le azioni e le espressioni.

Dal punto di vista narrativo a partire dal 1940 la visione veicolata dai film è quella del protagonista che non di rado in voice over introduce gli eventi mostrati in soggettiva o con soluzioni tecniche che rimandano a pensieri e ricordi personali. «La narrazione […] da oggettiva, impersonale, procedente da un’istanza superiore, collocata a una giusta distanza dalle cose, si fa “situata”, incardinata nel soggetto inscena e nella sua interiorità, e dunque parziale. Corrispondentemente, lo spettatore perde il dominio sugli accadimenti. Gli intrecci si fanno complicati, assumendo un andamento non lineare, sia logicamente che cronologicamente, e si sciolgono a fatica» (p. 78).

Il cinema americano del dopoguerra rivela anche la crisi simbolica del maschio che si ritrova in una società che comprime l’individualismo e l’autodeterminazione e deve confrontarsi con figure femminili che non intendono rinunciare all’indipendenza ed all’autonomia a cui si sono abituate durante il conflitto. Da questo punto di vista è il macro genere del drama a palesare le difficoltà che uomini e donne hanno nel negoziare un equilibrio nella nuova realtà.

Nel prossimo intervento esamineremo la parte di American storytelling – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

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Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex De la Iglesia https://www.carmillaonline.com/2016/01/19/streghe-pagliacci-mutanti-il-cinema-di-alex-de-la-iglesia/ Tue, 19 Jan 2016 22:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27502 di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: il tempo e lo spazio.
Il saggio è suddiviso in tre capitoli. Nel primo capitolo (Tempo) la studiosa si avvale di testimonianze dirette del cineasta e di un’analisi approfondita degli scritti a lui dedicati al fine di testimoniare la relazione esistente tra l’esperienza spettatoriale del regista, la sua formazione culturale e le sue opere. Nel secondo capitolo (Spazio) vengono da una parte indagate le maschere ed i corpi messi in scena nelle opere del regista e dall’altra i luoghi in cui vengono ad agire i personaggi. Nel terzo capitolo (Opere), attraverso una serie di schede critiche, viene offerta una panoramica dell’intera produzione del cineasta.

La prima parte del saggio è strutturata in modo da offrire una rassegna critica della produzione del regista a partire da Mirindas asesinas (1991), cortometraggio d’esordio di Álex de la Iglesia. Si tratta di un 16 mm in bianco e nero che da una situazione comica iniziale si trasforma via via in una commedia nera surreale per poi diventare un thriller psicologico. Sin da questa opera compaiono alcuni personaggi che risulteranno poi essere una costante delle opere visionarie del regista.
azione_mutanteIl primo lungometraggio di de la Iglesia, Acción mutante (Azione mutante, 1993), prodotta da Pedro Almodóvar, inizia alludendo al film A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) di Stanley Kubrick,  trasformandosi poi in un prodotto audiovisivo dall’estetica tipica dell’informazione televisiva, dunque in una commedia sempre più nera fino a giungere alla fantascienza, all’horror ed al western. «De la Iglesia realizza un lungometraggio che offre un paesaggio completamente inusuale nel cinema spagnolo e dove i riferimenti costanti alla televisione, al suo linguaggio, ai suoi segni e al suo stile, annunciano già il peso che avrà questo medium nella gran parte dei suoi lavori. Per lui parlare della televisione è come parlare del mondo. La televisione è un’imago mundi attraverso cui vedere l’intero universo. La sua generazione ha conosciuto tutto attraverso il filtro della televisione» (p. 27).
Il nuovo lungometraggio, El dia de la Bestia (1995), si sviluppa attorno all’idea di pensare il maligno nell’uomo dalla porta accanto. «L’anticristo nasce nelle torri KIO [La Porta d’Europa di Madrid, NdR], simbolo tanto del potere finanziario come della dittatura franchista e nel film diventano poi, piegate dagli sceneggiatori, anche simbolo di antiche premonizioni» (p. 29). Di nuovo, sottolinea l’autrice, si intrecciano generi diversi, «Commedia, humour nero, tradizioni ispaniche, immaginario satanico, estetica heavy metal, cinema del terrore» (p. 29). Il film intende denunciare «l’intolleranza, il razzismo, la violenza politica, la televisione spazzatura, le sette sataniche, i programmi esoterici» (p. 31), senza timore di fare nomi e cognomi dei personaggi che il regista detesta nella società contemporanea.
L’opera successiva è Perdita Durango (1997), realizzazione internazionale d’ambientazione americana con un cast importante che incontra non pochi problemi di censura: violenza, sesso esplicito e contenuti ritenuti blasfemi bloccano il film in molti paesi o lo vedono ampiamente mutilato. Il film è realizzato ibridando, nuovamente, generi diversi; di fondo è un thriller ma risulta decisamente contaminato dal cinema politico, gotico e surreale. «De la Iglesia passa dalla demonologia di El dia de la bestia alla santeria di Perdita Durango; anche se il soggetto del film non è scritto da lui, il tema del male come potenza e come fascinazione permane» (p. 33).

Muertos de Risa (1998) è invece una commedia nera, non distribuita in Italia, che narra l’acuirsi, fino alle estreme conseguenze, dell’odio reciproco di una coppia di comici televisivi. «In Muertos de risa de la Iglesia contrappone immagini della Spagna franchista con quelle dell’inaugurazione dei Giochi olimpici (la Spagna europea), ma si tratta dello stesso paese, così come i protagonisti del lungometraggio rappresentano il dritto e il rovescio di un’unica medaglia, rispondendo a una sorta di cliché comune a tutte le culture nelle coppie di comici» (p. 36). Oltre al discorso politico, nel film vi è anche una riflessione sul rapporto tra umorismo e violenza e sull’influenza sociale della televisione. Se nelle prime opere il regista gioca con i generi cinematografici, con Muertos de risa si inaugura una piccola serie di opere basate sulla rappresentazione della quotidianità intesa come ambito che si rivela denso di misteri e colpi di scena.
La comunidad (2000) è una commedia grottesca che svolta sempre più verso l’horror ma, segnala Sara Martin, è anche «un tour de force metacinematografico»; sono evidenti infatti i rimandi a diversi film di Alfred Hitchcock, Roman Polanski ed alla serie The Twilight Zone (Ai confini della realtà, di Rod Serlig, 1959-1964). Secondo la studiosa mentre El dia de la bestia esibisce i demoni esteriori di Madrid, La comunidad invece mostra quelli interiori, quelli di una città dura e spietata che dietro all’immagine di progresso e modernità cela corruzione e marciume.
Con 800 balas (2002), opera non distribuita in Italia, il regista si cimenta anche con il genere western, seppure con un taglio surreale. Come in molte opere, sostiene Martin, anche in 800 balas, i personaggi secondari permettono al regista di mettere in scena una serie di perdenti che si trovano meglio a vivere una vita di finzione piuttosto che la realtà quotidiana. Sebbene il film, nella sua struttura portante, celebri il cinema, non manca di criticare la società spagnola contemporanea affetta da corruzione e speculazione edilizia. I perdenti tornano anche nell’opera successiva, Crimen ferpecto (2004), commedia nera che non manca di omaggiare, nuovamente, Alfred Hitchcock e Luis Buñuel, ambientata in un universo in cui dilaga l’ipocrisia. Anche in questo caso tornano personaggi eccentrici e perdenti che finiscono col suscitare una certa simpatia nello spettatore ma, a differenza di quanto accade nei film precedenti, sostiene Sara Martin, qui la scena è totalmente occupata dai personaggi principali e le presenze femminili risultano violente, spietate, avide e, soprattutto, trionfanti sugli uomini.
Pluton_BRB_Nero_Serie_TV_22Dopo aver realizzato La habitación del niño (La stanza del bambino) (2006), un horror per la tv con diversi riferimenti ai mondi paralleli derivati da Philip K. Dick, de la Iglesia lavora ad un poliziesco di produzione internazionale girato in inglese, The Oxford Murders (Oxford Murders – Teorema di un delitto) (2008) ed a Pluton B.R.B. Nero (2008-2009), una serie televisiva, mai trasmessa in Italia, di 26 episodi suddivisi in due stagioni, in cui compaiono ossessioni e personaggi cari al regista. «Più che una serie fantascientifica», sostiene Sara Martin, «Pluton B.R.B. Nero è una commedia in costume intrisa di humour nero e provocazione» (p. 48),
Il successo internazionale per de la Iglesia arriva con Balada triste de trompeta (2010). Il film ottiene il Premio della giuria e quello per la Miglior sceneggiatura alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2010. Per certi versi si tratta del seguito di Muertos de risa, con due pagliacci al posto dei comici televisivi. «Attraverso il racconto di due losers (e una donna), de la Iglesia percorre ancora una volta la storia del suo Paese con toni scuri, neri. I riferimenti cromatici del film sono da individuarsi soprattutto nella pittura di Goya e di Grünewald. Le atmosfere sono quanto di più lontano dal cinema felliniano a cui sovente l’autore spagnolo è stato paragonato. Per Fellini il circo è magia e meraviglia, per de la Iglesia il circo è sangue e morte e in Balada non a caso si colloca fra le rovine in un luogo decadente, squallido, brutto. I titoli di testa e quelli di coda raccontano la Spagna e raccontano il film. Si alternano immagini documentali della guerra civile e del post-guerra franchista. Nei titoli di testa si scorgono numerose immagini iconiche del franchismo (…) alternate a riferimenti alla cultura del paese (…) e miti cinematografici personali del regista» (p. 55).
Di nuovo, si sottolinea nel saggio, è il mondo della televisione a fornire immagini a tale patchwork visivo in cui, insieme ai rimandi colti, viene criticata quella sottocultura che ha fatto da sfondo all’immaginario collettivo negli ultimi tempi che «nel cinema di de la Iglesia ha una doppia funzione: da una parte desacralizzare la Cultura “alta”, dall’altra accumulare immagini, oggetti, personaggi che vanno a costruire un cinema che si pone coscientemente all’opposto della sobrietà, della pulizia, della misura per dare libero sfogo all’eccesso, alla stravaganza, alla ricchezza delle immagini stratificate nello spazio e nel tempo» (p. 56).

Dopo la realizzazione di La chispa de la vida (2011), tragedia in cui non si salva nessuno, influenzata dalla situazione politica e sociale spagnola segnata da crisi economica, disoccupazione e precarietà, il regista basco gira Las brujas de Zugarramurdi (Le streghe son tornate) (2013), una commedia horror ambientata nella cava di Zugarramurdi, tra Francia e Navarra, luogo in cui l’inquisizione Spagnola, ad inizio XVII secolo, ha dato vita ad una spietata caccia alla streghe. Il film, che non manca di criticare gli stereotipi di genere che attraversano la società contemporanea, è disseminato di riferimenti ai film amati dal regista, in particolare al cinema fantastico hollywoodiano degli anni ’80. Poco dopo il cineasta realizza Messi (2014), una biografia del celebre calciatore argentino e, nello stesso periodo, il cortometraggio The Confession, con cui Álex de la Iglesia prende parte al film collettivo Words with Gods (2014) ideato da Guillermo Arriaga in cui diversi registi raccontano, credenti o meno, la personale visione del mondo e dell’uomo in rapporto alla religione.

balada tristeLa seconda parte del saggio si sofferma sulle maschere, sui corpi e i luoghi messi in scena dal regista basco. Il pagliaccio è sicuramente una delle figure ricorrenti nei film di Álex de la Iglesia; «La figura del pagliaccio è una maschera che non simula un personaggio ma lo estetizza, nel senso che la finzione è dichiarata, la messa in scena evidente. Niente come il trucco del pagliaccio rende presente l’emozione che si trova dipinta sul viso. Il sentimento è tutto fuori, così come lo è il contesto in cui il pagliaccio si muove (il circo, la festa, il carnevale)» (p. 71). In Balada triste de trompeta si narra la storia di Javier, un pagliaccio triste disadattato che vive gli ultimi anni del franchismo vittima della superficialità e della violenza dei suoi simili, incapace di integrarsi fino a quando, improvvisamente decide di ribellarsi ma, anziché liberarsi del costume e della maschera da pagliaccio triste, «Javier fonde la maschera al proprio corpo cancellando così ogni traccia della sua storia personale: si sbianca il viso con dell’idrossido di sodio e si stampa delle cicatrici rosse con un ferro da stiro per creare un trucco da pagliaccio permanente (…) Finalmente il suo abito corrisponde al suo essere, un angelo sterminatore in grado di riportare il giusto equilibrio nella sua vita e nel mondo, padrone del proprio corpo e delle proprie azioni» (p. 70).
Elemento ricorrente nelle opere di de la Iglesia è la presenza della «immagine del “vendicatore folle” che fa esplodere lo spazio reale della fisica per impossessarsi del nuovo mondo comunitario, dove ciò che è brutto, vecchio, sporco e dimenticato, si riannoda alle dinamiche di un nuovo cosmo fatto di corpi che sono immagini, in un’euforia post-apocalittica dove i vecchi idoli del capitale e della borghesia, vengono spazzati via, fatti letteralmente saltare in aria. Le storie di de la Iglesia (…) si strutturano sempre intorno ad una visione apocalittica dello spazio scenico, in un processo di disgregazione progressiva dell’ordine costituito per mano di personaggi borderline». (pp. 72-73)

AccionmutanteI corpi rappresentano un altro elemento su si sofferma il saggio, ad esempio, in Accion mutante «una comunità di invalidi postapocalittica organizza il rapimento della figlia di un magnate dell’industria e della televisione. Questa volta il corpo-proprio è trasfigurato dalle protesi macchina che nascondono o cancellano una deformità (…) Il corpo dello storpio non simula, è autenticamente acrobatico, ovvero intrinsecamente spinto a ribaltare gli ostacoli in vantaggi, in un movimento di super-compensazione che può portarlo a gettare via le stampelle, si chiamino Stato, Democrazia, Borghesia, ecc.. Da qui deriva la sua aura rivoluzionaria sfruttata dal regista» (pp. 74-75). Il personaggio dell’alieno Roswell in Plutón B.R.B. Nero «odia l’umanità come l’umanità ha odiato lui, è disgustoso fisicamente e ributtante dal punto di vista etico-morale: trae godimento soltanto dal dolore fisico personale e dall’osservazione del dolore altrui. L’alieno deforme ribalta la sua disabilità e ne fa un’arma a danno degli esseri umani» (p. 75). Per certi versi anche nell’opera documentaria Messi, il protagonista è un freak; un individuo sproporzionato, dalle gambe corte, afflitto da problemi di crescita ma che riesce a diventare un campione del calcio alla faccia di tutti i “normodotati”. Dal cinema di de la Iglesia si evince, secondo Martin, che «i freak rimangono freak, e gli outsider rimangono outsider, ma aver mostrato la fine possibile, aver scritto un’apocalisse nera e impietosa, significa aver creato lo spazio della sua apparizione, significa reintegrare lo scudo narcisistico di tutti coloro che non accettano la disillusione in cui ci ha catapultato l’epoca moderna di matrice illuminista» (p. 83).

Anche i luoghi in cui il cineasta basco colloca i suoi personaggi hanno una funzione importante nell’ambito della costruzione narrativa. Il film La comunidad è ambientato all’interno di un condominio madrileno abitato da individui che sembrano impossibilitati ad abbandonare lo stabile. «Impressiona la spazzatura e la sporcizia che in più riprese invade lo schermo; pare che l’organismo del condominio non possa purificarsi espellendo i propri escrementi. Tutto rimane dentro. (…) La comunità che si è costituita nel condominio è ormai un agglomerato di mostri» (p. 76). Secondo Sara Martin l’idea di fondo è quella di mettere in scena quel processo di disgregazione sociale che ha investito da qualche decennio la società contemporanea ed «il progressivo ritorno a uno stile epocale estetico barocco, che si intravvede nel mondo contemporaneo bombardato da milioni di immagini, in sostituzione di uno stile economico che ancora sopravvive, si traduce in Álex de la Iglesia come ritorno al mondo dei corpi e delle immagini, luoghi assoluti della compresenza, un mondo fatto di carne e sangue. Per raggiungere questa nuova dimensione neo-comunitaria, il mondo conosciuto, classico, spazialmente coerente e matematicamente organizzato, deve essere distrutto» (p. 78).
In La habitación del niño lo spazio interno diviene il personaggio centrale della narrazione e giocando sul concetto di mondo parallelo il regista basco mette a confronto nello spazio interno dell’abitazione due dimensioni estetiche contrapposte, una fatiscente ed una perfetta. All’interno di una stanza segreta si trova una miniatura della casa ed il protagonista, dopo essere entrato a contatto con questa, una volta uscito dalla stanza si ritrova proiettato in un mondo parallelo perfetto e ben arredato. Il «mondo bello, ricco e colorato nascosto dentro la casa, come ne La comunidad, è il luogo originario in cui si muove l’individuo dionisiaco del futuro, destinato a sovvertire l’ordine costituito e chiuso del mondo borghese. È dall’interiorità pura, priva di relazioni con il resto del mondo che ha inizio la rivolta, la distruzione dell’universo. Un virus autoprodotto che si genera dal burnout di una vita organizzata sul mito della certezza e del progresso, ormai fuori controllo in una società stanca e decadente (…) L’apocalisse come rinascita. La distruzione come rigenerazione. Questo è il fil rouge della produzione scenica di Álex de la Iglesia» (pp. 81-82).

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