West – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 17 Sep 2025 20:24:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il corollario razzista e imperialista del mito della Frontiera https://www.carmillaonline.com/2025/08/20/il-mito-della-frontiera-e-il-suo-corollario-razziale/ Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89654 di Sandro Moiso

David W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 336, 16 euro

Sull’importanza della Frontiera nella storia degli Stati Uniti e, soprattutto, per la creazione del mito americano non vi può essere più alcun dubbio. Questo assunto è d’altra parte facilmente verificabile a partire dall’opera di Frederick Turner, intitolata The Frontier in American History pubblicata nel 1953, che raccoglieva una serie di saggi dello stesso autore editi tra il 1920 e il 1947.

Come ben riassumeva Mauro Calamandrei nell’introduzione all’edizione italiana dello stesso testo [...]]]> di Sandro Moiso

David W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 336, 16 euro

Sull’importanza della Frontiera nella storia degli Stati Uniti e, soprattutto, per la creazione del mito americano non vi può essere più alcun dubbio. Questo assunto è d’altra parte facilmente verificabile a partire dall’opera di Frederick Turner, intitolata The Frontier in American History pubblicata nel 1953, che raccoglieva una serie di saggi dello stesso autore editi tra il 1920 e il 1947.

Come ben riassumeva Mauro Calamandrei nell’introduzione all’edizione italiana dello stesso testo (il Mulino, Bologna 1959): «Cos’è la teoria o l’ipotesi della frontiera? La storia americana, secondo la teoria di Turner, è essenzialmente una storia di colonizzazione dell’Ovest. La chiave di questo processo è la presenza di una frontiera mobile che continuamente si ritira aprendo nuovi orizzonti economici e umani».

Aggiungendo poco dopo che il termine frontiera, nella lingua e nell’immaginario americani non ha mai avuto il senso di una linea di confine e di chiusura di spazi definiti, come nell’originale termine inglese “frontier”, ma piuttosto quello attribuitogli da Walter P. Webb, uno dei più significativi discepoli di Turner, secondo il quale: «La frontiera non costituisce una linea in cui fermarsi, ma un’area che invita ad entrare».

Originariamente il termine aveva lo stesso significato e in Inghilterra e nel continente europeo e nelle colonie inglesi del Nord-America. Il cambiamento di significato del termine fu determinato dalla consapevolezza che, attorno agli insediamenti coloniali, non c’era un confine rigido e impenetrabile se non sotto la pressione eccezionale di un conflitto bellico; c’era invece spazio aperto e disponibile. La scoperta di questo fatto dava al dinamismo espansionista, che era alla base della creazione delle colonie, nuovo vigore e nuova vitalità. La consapevolezza di trovarsi all’orlo di un continente, che aspettava solo di essere esplorato, conquistato e sfruttato, era travasato nel linguaggio stesso e nel significato traslato che parole come frontier venivano ad assumere. Mitford M. Mathews è in grado di citare esempi di un simile uso del termine che risalgono a prima della fine del ‘6001.

Ma in realtà il mito della frontiera ha costituito da sempre, e per questo è possibile far risalire l’uso traslato del termine a prima della fine del XVII secolo, l’orizzonte dell’espansionismo coloniale europeo che proprio sulle rotte atlantiche, e quindi ad Ovest del continente, aveva iniziato a costruire i propri imperi. Rompendo così quella tradizione antica, ancora riportata da Dante Alighieri nel XXV canto dell’Inferno, quello di Ulisse, secondo cui ad Occidente poteva estendersi soltanto il mondo dei morti.

Morti in effetti ce ne sarebbero poi stati parecchi, milioni addirittura, nel corso dell’espansione europea verso occidente, ma quasi tutti furono gli abitanti, fino allora ben vivi e felici, di quelle terre che si ritenevano disabitate e selvagge. Prive di civiltà e barbare. Motivazioni per cui una certa razzializzazione della storia poteva permettere di fare affermare a Jesup D. Scott nel 1859 che:« Il movimento verso Occidente del ramo caucasico della razza umana, dagli altopiani dell’Asia, prima verso l’Europa e poi, con crescente marea, verso il Nuovo Mondo, con gran moltitudine di uomini, è il fenomeno più grandioso della storia»2.

In un contesto in cui, come bene ha ricostruito lo storico e sinologo Martin Bernal nella sua opera più importante e controversa, Atena nera3, alle precedenti ricostruzioni delle origini della civiltà greca che trovavano spunto in quelle mesopotamiche ed egizie si stava ormai sostituendo una visione indo-europea o ariana della nascita della stessa. Ipotesi fortemente sostenuta, anche a livello di formazione scolastica e universitaria fin dai primi decenni dell’Ottocento, prima in Germania e poi anche nelle società di lingua inglese.
Come sostiene Bernal l’incoraggiamento dato all’istituzione di corsi di Altertumswissenschaft (Scienza dell’Antichità) all’interno delle Università tedesche determinava la visione di un uomo greco di carattere “divino”, poiché capace di arte e filosofia.

Era inoltre necessario che i Greci – così come voleva l’immagine idealizzata dai Tedeschi – fossero integrati al proprio suolo nativo, e fossero puri. Il modello antico, con le sue varie invasioni e frequenti prestiti culturali e le implicite conseguenze di mescolanza razziale e linguistica, divenne sempre più intollerabile4.

Ora al di là della persistenza e della validità o meno dell’esistenza di una lingua indoeuropea o di popoli accomunabili sotto questa definizione come ariani o arii5, la fascinazione esercitata da una cultura di tali origini per lo sviluppo delle società germaniche divenne di fondamentale importanza per lo sviluppo del razzismo dell’imperialismo e del colonialismo sia inglese che tedesco e più in generale di un Occidente che sempre più spesso avrebbe rivendicato le proprie origini culturali nella tradizione “classica”.

Ogni razza che ha lasciato segni profondi sulla comunità umana è stata la portavoce di qualche grande idea che ha imposto una direttiva alla vita nazionale una forma alla sua civiltà […] Le razze più nobili sono sempre state amanti della libertà. Quell’amore operava fortemente nel primigenio sangue germanico e ha profondamente fatto sentire il proprio influsso sulle istituzioni di tutti i rami della grande famiglia tedesca; ma venne riservata alla razza anglo-sassone la missione di riconoscere nella sua pienezza il diritto dell’individuo a se stesso e a dichiarare formalmente tale diritto fondamento del governo.

Così si esprimeva, nel 1885, Josiah Strong (1847-1916), un ecclesiastico e autore protestante, fondatore del Social Gospel movement, dedito alla difesa delle libertà e alla diffusione di un’opera missionaria che facesse sì che tutte le razze potessero essere migliorate ed elevate e quindi portate a Cristo. Nel suo libro Our Country da cui è tratta la precedente citazione, Strong sosteneva che gli anglo-sassoni costituiscono una razza superiore che deve “cristianizzare e civilizzare” le razze “selvagge”, il che sosteneva sarebbe stato un bene per l’economia americana e per le “razze minori”6.

E’ chiaro che tutto questo insistere sull’”amore per la libertà” rimandava inevitabilmente a quella civiltà classica, possibilmente ateniese dal punto di vista del pensiero politico e filosofico, che gli storici tedeschi e inglesi dell’Ottocento cercavano di avvallare come essenza di una civiltà che era sorta proprio combattendo la barbarie asiatica, poi rimasta nell’immaginario politico occidentale fino agli attuali deliri sulle autocrazie nemiche della libertà e della “vera” democrazia. Che poi, proprio ad Atene, questa democrazia e questa libertà riguardassero soltanto un ristretto numero di individui maschi e non le donne, gli schiavi e i meteci (gli stranieri più o meno integrati nell’economia della città-stato) sembra avere oggi, come allora, scarsa importanza nel dibattito politico liberale.

Secondo Albert J. Beveridge (1862- 1927), storico e senatore statunitense, infine, il generale dell’Unione e poi diciottesimo presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant (1822-1885):

Non dimenticò mai che siamo una razza conquistatrice e che dobbiamo obbedire agli imperativi del nostro sangue e conquistare nuovi mercati e se necessario nuove terre. Grant ebbe la virtù profetica di prevedere, come parte dell’imperscrutabile piano dell’Onnipotente, la scomparsa delle civiltà inferiori e delle razze decadenti di fronte all’avanzata delle civiltà superiori formate dai tipi più nobili e più virili di uomini.
[…] Grant aveva l’istinto dell’impero. Sognò gli stessi sogni che Dio suscitò nelle menti di Jefferson, Hamilton, di John Bright e di Emerson, e di tutti gli intelletti imperiali della sua razza; il sogno dell’America che si espande finché tutti imari vedranno sbocciare il fiore della libertà e sventolare la bandiera della nostra repubblica […] E la legge americana, l’ordine americano, la civiltà americana e la bandiera americana verranno stabiliti su spiagge lontane che, fino ad oggi insanguinate e oscure, diventeranno magnifiche e felici.
Se questo significa un canale sull’istmo con bandiera a stelle e strisce che sventola anche sulle Hawaii, su Cuba e sui Mari del Sud, se questo significa un impero americano nel nome della grande repubblica e delle sue libere istituzioni, accogliamo questo significato con gioia esultante e realizziamo concretamente questo significato, senza curarci di ciò chele forze della barbarie e dei nostri nemici possono dire o fare7.

Il discorso fu pronunciato in occasione della guerra ispano-americana con cui, nel 1898 e a seguito di un attentato inventato, gli Stati Uniti portarono i loro confini occidentali ancora più lontano, sul Pacifico con le isole Hawaii e al di là dello stesso oceano, nelle Filippine. Un discorso dal carattere “profetico” cui nulla ha aggiunto ogni promessa americana da Franklyn Delano Roosevelt a John Fitzgerald Kennedy (promotore di una Nuova Frontiera nello spazio), fino a Donald Trump e al suo pupillo e nemico Elon Musk.

Tutto questo per delineare il clima culturale che aveva circondato la stesura del romanzo appena pubblicato dalle edizioni Bibliotheka, che, più che per il suo valore letterario, vale la pena di essere letto come testimonianza di un periodo in cui, soprattutto nella cultura di lingua tedesca e anglofona, si andava affermando un mito ben preciso: quello della derivazione ariana della cultura greca, ritenuta all’epoca, e poi ancora successivamente, non soltanto fondativa di quello che allora era ancora un confuso, e non del tutto definito nei suoi confini geografici, “Occidente”, ma massima espressione di una civiltà destinata a sottomettere a sé tutti i popoli ancora barbari.

Il romanzo The American Family Robinson, pubblicato per la prima volta nel 1853 a Filadelfia, narra la storia della famiglia Robinson e delle sua avventure durante il trasferimento verso Ovest cui dà inizio il desiderio “innato” dei suoi componenti di trasferirsi sempre più a Ovest. Come afferma lo stesso autore nel Prologo:

Le altissime montagne, le possenti foreste, i fiumi e le valli del West, buona parte dei quali a tutt’oggi rimane inesplorata, sono spesso motivo di immensa gratificazione per i nostri valevoli naturalisti, lapidari e archeologi. E’ pertanto con l’intento di mettere in luce una tale tipologia di fonti che l’autore ha raggruppato in questa piccola opera i numerosi e sconvolgenti avvenimenti della vita nelle praterie, facendo qua e là cenno a resti del passato che inequivocabilmente testimoniano l’esistenza di una misteriosa e progredita civiltà, rispetto alla quale svariate scoperte hanno in seguito provato che le ipotesi da lui propagate erano corrette.
Del fatto che questo paese sia stato popolato da una civiltà che ha preceduto le tribù indiane, nonché i loro progenitori, non vi è ormai più dubbio alcuno. Ovunque nel West, e in molti luoghi ad est della valle del Mississippi, prove inconfutabili attestano l’antichità dei cimeli e dei monumenti lasciati da un popolo di cui razza, nome e costumi sono andati perduti nell’oscurità che sempre aleggia su di un passato maestoso. Al fine di richiamare con maggiore efficacia la curiosità del lettore su queste remote testimonianze, e per instillare nelle menti dei giovani la sete per l’indagine scientifica, l’autore ha incidentalmente accennato a queste vestigia mentre seguiva la famiglia di Mr. Duncan nella sua faticosa peregrinazione attraverso il Gran Deserto Americano8.

Con queste premesse e promesse il romanzo divenne ben presto un best-seller ed eguagliò in popolarità un romanzo come Robinson Crusoe di Daniel Defoe, che anticipava di quasi due secoli la teoria del White Man’s Burden, ovvero del fardello dell’uomo bianco, espressa da Rudyard Kipling nel 1899. Personaggio dai molteplici interessi, David W. Belisle (New Jersey 1827 – Philadelphia 1890) fu scrittore, poeta, giornalista nonché sindaco di Atlantic City dal 1866 al 1867, e, oltre al romanzo in questione, pubblicò anche una serie di guide turistiche sulla parte orientale degli Stati Uniti.

Nonostante il fatto che le vicende si svolgano tra foreste imponenti, montagne selvagge, fiumi e valli immortalati nella loro naturale bellezza, prima che lo sviluppo capitalistico contribuisse alla loro devastazione insieme alla scomparsa dei bisonti e delle tribù dei nativi, il testo finisce col costituire principalmente una anticipazione delle origini del mito della frontiera e delle giustificazioni razziste dell’espansionismo a stelle e strisce in territori e tra popoli quasi sempre definiti come “selvaggi”.

Ma a differenza di molti altri romanzi di tal fatta, tra i quali quelli di James Fenimore Cooper non sono certo i peggiori, quello di Belisle introduce una novità già anticipata nel prologo citato prima: quello di una civiltà anteriore sia a quella delle popolazioni amerindie che di quella europea giunte successivamente sul continente. Civiltà che si manifesta prima con il ritrovamento di manufatti di rame da parte di due ragazzini della famiglia Duncan e poi attraverso la narrazione dello zio che, durante la sua gioventù, avrebbe incontrato, commerciando con una tribù di nativi sulle sponde del Lago Superiore, uno strano individuo, un anziano, dalla barba fitta, pettinata, divisa in due sul labbro superiore, che gli ricadeva fin sul petto.

La sua doveva essere stata una corporatura forte, atletica, perché era alto più di sette piedi (circa due metri – N.d.R.), e sebbene barcollasse, aveva le ossa dritte e gli occhi blu, irradiati di uno spirito che la vecchiaia non era riuscita a sottomettere. Le sue caratteristiche fisiche, così come la sua carnagione, erano completamente diverse da quelle del resto della tribù. La fronte era alta e spaziosa, il mento largo e prominente; le labbra piene, dotate di un’espressività che non avevo mai veduto in nessun altro essere umano, gli conferivano un’aria di nobiltà mista ad agonia e infelicità senza speranza […] Era un vecchio strano, insomma; tanto diverso da chiunque altro, che la sua sola presenza bastava a suscitare rispetto e riverenza. Gli indiani poi non hanno barba. Questo particolare ci faceva supporre che si trattasse di un uomo bianco; ma a volerlo paragonare alle razze occidentali, ci si rendeva conto che non aveva nulla in comune né con gli europei né con i nativi9.

L’inserimento nella narrazione di questa via di mezzo tra un Neaderthal e un semidio greco, permette successivamente a Belisle di inserire, a mo’ di insegnamento per le giovani generazioni e tutti gli altri lettori, la sua visione del declino delle razze o della loro sopravvivenza, oltre che la convinzione di una razza superiore, quella evidentemente ariana nei tratti fisici descritti, di cui occorrerebbe ritrovare la purezza, così come la famiglia Duncan potrebbe fare spingendosi ai confini dell’Occidente.

Per comprendere appieno la narrazione tossica insita nel romanzo è qui d’uopo riportate le parole del vecchio, esposte dallo zio, la cui curiosità giovanile aveva commosso e spinto l’anziano e unico superstite di una “razza superiore” a raccontare il misterioso passato del continente americano.

Vieni qua, figlio di una razza degenere, e apprendi i segreti del passato. Molto prima che la tua razza sapesse dell’esistenza di questo continente, la mia gente viveva nel vigore e nella gloria della prosperità di una nazione. Dall’estremo Nord, dove gli iceberg resistono al sole, fino alle rocce brulle del profondo e torrido Sud, tutto era nostro, da un oceano all’altro!
[…] Ma sorsero problemi. I nostri re avevano accolto sul loro territorio due altre razze, in principio soltanto una manciata di uomini portati dai venti sulle nostre coste in due diverse ondate. Quelli che per primi erano stati condotti alla nostra ospitalità erano civilizzati, a loro modo, e superiori alle bestie, sebbene inferiori a noi per numero. Ma la differenza fra i nostri popoli era tale che il matrimonio misto veniva punito con la morte. Erano umani, e quindi li proteggevamo, e l’insignificanza era a quel tempo la loro più grande amica […] L’altra razza era invece composta da selvaggi della specie peggiore, rozzi più degli animali da preda. Fu così che si moltiplicarono e divennero forti […] Le nostre foreste si popolarono di bestie in forma umana, e le nostre regioni di una nazione di ebeti. Trascorsero i secoli, e i selvaggi si moltiplicarono e divennero arroganti […] Finalmente, ahimè troppo tardi, ci rendemmo conto del pericolo. Li scacciammo dalle nostre città fino alle montagne. Ma prima che potessimo vendicare i loro oltraggi, l’altra razza si mosse come uno sciame di locuste, e proclamandosi nostra pari chiese di essere riconosciuta come tale […] Poi cominciò una terribile guerra di sterminio. Il continente venne sommerso dal sangue. Noi combattevamo per le nostre famiglie e il nostro paese, loro per la supremazia […] Dopo tutti questi secoli siamo stati dimenticati, nella lotta fra la razza per metà civilizzata e i selvaggi, la mia gente morendo di anno in anno, si è completamente estinta, tranne che per me, l’ultimo padrone legittimo di questo continente10.

E’ incredibilmente riassunto qui, in poche pagine, tutto il variegato pregiudizio delle razze superiori e inferiori e del declino e scomparsa delle prime se non sapranno trattare come si deve, sterminandole e cacciandole da ogni consorzio umano, le altre. Dalla conquista del West allo schiavismo delle piantagioni del Sud, dai Protocolli dei Savi di Sion ai muri di Trump, passando per i campi di concentramento nazisti, la proibizione dei matrimoni misti, la paura nei confronti degli immigrati destinati a sostituirci fino a tutti i deliri di QAnon, è già tutto anticipato nelle pagine di Belisle.

Tutto servito in anticipo sui tempi: dalle teorizzazioni dell’ampliamento ad Ovest dell’impero alle leggi Jim Crow11, dai linciaggi degli afro-americani ai massacri del fiume Sand Creek e Wounded Knee dei nativi delle grandi pianure. Un fiume di sangue che, questo sì davvero, avrebbe accompagnato l’avanzare della Frontiera e del dominio statunitense sul mondo da allora fino al XXI secolo.


  1. M. Calamandrei, Introduzione a F. J. Turner, La frontiera nella storia americana, Società editrice il Mulino, Bologna 1975, pp. 9-10.  

  2. J. D. Scott, Westward the Star of Empire (Verso occidente volge la stella dell’impero), «De Bow’s Review», agosto 1859 cit. in P. Bairati (a cura di), I profeti dell’impero americano. Dal periodo coloniale ai nostri giorni, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 181.  

  3. M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano 2011 – ed. originale 1987, Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization.  

  4. M.Bernal, op. cit., p. 23.  

  5. Si veda, a solo titolo di esempio: G. Semeraro, La favola dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori editore, 2005.  

  6. J. Strong, Our Country, cap. XIII, cit. in P. Bairati, op. cit., pp. 192-206, La razza anglo-sassone e il futuro del mondo.  

  7. A. J. Beveridge, Siamo una razza conquistatrice, 27 aprile 1898 , ora in P. Bairati, op. cit., pp. 242-243.  

  8. D. W. Belisle, I Robinson d’America. Le avventure di una famiglia persa nel gran deserto del West, Bibliotheka Edizioni, Roma 2025, pp. 11-12.  

  9. D. W. Belisle, op.cit., p. 40.  

  10. Ivi, pp. 43-45.  

  11. In proposito si veda: J. Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019 (recensito qui).  

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La terra promessa di Sion non è per i Giusti https://www.carmillaonline.com/2025/01/29/la-terra-di-sion-non-e-per-i-giusti/ Wed, 29 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86567 di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” [...]]]> di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” e la “vitalità” di una nazione bianca, protestante e “libera” quanto quella della sua anima più oscura e il suo volto più feroce, in cui è quasi sempre la morte a trionfare sulla vita. Come nei romanzi di Cormac McCarthy e Larry McMurtry.

Si potrebbero citare decine o, meglio, centinaia di romanzi, film, narrazioni di ogni ordine e grado e una miriade di fumetti usciti fin dall’inizio del XX secolo per dimostrare sia l’una che l’altra ipotesi. A partire da The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), un film del 1903, scritto, prodotto e diretto da Edwin S. Porter e considerato una pietra miliare nella storia del cinema in quanto fu il primo ad utilizza una serie di tecniche innovative, come il montaggio incrociato, in cui due scene venivano mostrate in svolgimento simultaneo anche se ambientate in luoghi diversi, e frequenti movimenti della cinepresa e che costituì sia il primo film americano d’azione, di fatto il primo western della storia del cinema, che uno di quelli più popolari fino all’uscita di Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) diretto da David W. Griffith.

Quello di Griffith fu immesso nel circuito cinematografico nel 1915 e anche il primo film muto dotato di una completa colonna sonora, ottenendo uno dei maggiori incassi della storia del cinema fino ad allora, ma che, nonostante la perizia della sua realizzazione, fin dalla sua uscita, fu sempre aspramente contestato per i contenuti razzisti verso la popolazione afroamericana, il sostegno al Ku Klux Klan e la sua misoginia.

Da una parte, quindi, il cinema dei banditi del West, pur puniti dalla legge, ma sempre rappresentati come uomini liberi e selvaggi, mentre dall’altra il film fondativo dell’immaginario cinematografico di una nazione dai contorni razzisti e patriarcali. Due narrazioni, due trame apparentemente distanti, ma appartenenti al medesimo luogo mitopoietico di cui si parlava all’inizio.

Poco dopo si sarebbero uniti al genere, oltre a quelli ispirati dalle storie di sceriffi e fuorilegge o dal lavoro dei cow-boys con le mandrie, i film che avrebbero avuto al loro centro lo scontro tra pionieri e nativi americani, questi ultimi rappresentati per molti decenni come i cattivi da combattere ed eliminare. Tesi fortemente presente e virulenta in particolare negli anni della Guerra Fredda, quando la somiglianza tra “uomini rossi” e “rossi” comunisti e, possibilmente, sovietici non aveva certo bisogno di essere sottolineata poiché la sollecitazione era davvero scoperta.

Però, già sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo, due film di John Ford, Sentieri selvaggi (The searchers, 1956) e Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964), oltre che Cavalcarono insieme (Two Rode Together, 1961), sempre dello stesso Ford, e Gli inesorabili (The Unforgiven, 1960) di John Huston iniziarono a ribaltare, almeno parzialmente, lo sguardo sul rapporto tra bianchi e nativi e, fatto non secondario, sulla possibilità di convivenza e accettazione nella comunità o nelle famiglie bianche di chi nella tradizione nativa fosse cresciuto, anche se bianco.

Ma, com’è d’uopo per ogni produzione artistica degna di rispetto, sarebbero stati gli anni successivi, infiammati dalle lotte per i diritti civili oppure contro la guerra in Vietnam o, ancora più semplicemente dalla lotta di classe in pieno sviluppo sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, a rimuovere gli ultimi ostacoli alla politicizzazione e radicalizzazione di un genere che aveva costituito uno dei pilasti della settima arte e di Hollywood.

Così alla cinematografia anarchica e ribelle, oltre che ultra-violenta, di Sam Peckimpah con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e Pat Garrett e Billy the Kid (1973), si sarebbero aggiunti i western di Sergio Leone, con tutto il seguito di spaghetti western spesso radicali e inneggianti alla rivoluzione oppure alla lotta contro i potenti trust bancari e ferroviari, e quelli ancora incentrati sullo sterminio dei nativi americani che la “conquista del West” aveva portato con sé.

Furono infatti film come C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971) dello stesso Leone oppure Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, solo per citarne alcuni, a portare la Rivoluzione fin dentro il genere western, mentre Soldato blu (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson, Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, 1969) di Abraham Polonsky e, soprattutto, lo splendido Ulzana’s Raid (Nessuna pietà per Ulzana, 1972) di Robert Aldrich avrebbero contribuito ad una radicale revisione storica del dramma delle tribù dei nativi sterminate e della prolungata persecuzione nei confronti degli stessi.

D’altra parte quelli erano gli anni del Rinascimento indiano, del Red Power e della rivolta di Wounded Knee degli Oglala Lakota, durante i quali, comunque, molti attivisti nativi furono ancora uccisi o imprigionati1.

Tutto questo, però, per giungere a parlare di American Primeval, che chi scrive non ha timore di definire come una delle migliori serie televisive mai realizzate, scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg per la piattaforma statunitense Netflix. Una miniserie western (sei puntate) che aggiunge un drammatico riferimento all’attualità pur partendo dalle basi e dalle svolte avvenute nel genere e fin qui anticipate e riassunte.

Ambientata, con estrema precisione storica, nello Utah del 1857, la serie rinvia visualmente alla ricostruzione e all’attenzione per i particolari della vita degli indiani e dei mountain men che già aveva contraddistinto l’opera fino ad ora più famosa di Mark L. Smith come sceneggiatore: Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, del 2015 e interpretato da Leonard Di Caprio. Opera cinematografica che ebbe, però, il difetto di tradire nella sostanza il romanzo dallo stesso titolo di Michael Punke (2002), edito in Italia da Einaudi nel 2014.

Anche questa, se si vuole, è una storia di sopravvivenza in un ambiente estremamente ostile sotto tutti i punti di vista, ma invece di essere basata sulle vicende individuali di un unico personaggio principale, il cacciatore di pellicce Hugh Glass, questa “America primordiale” si trasforma in un’autentica tragedia collettiva che vede coinvolti uomini, donne, bambini, soldati, nativi americani di varie tribù tra loro ostili, uomini delle montagne, coloni e profeti religiosi di una terra promessa soltanto per i fedeli “bianchi”.

Ma, ancor prima di passare all’analisi dei vari aspetti di una serie assolutamente innovativa dal punto di vista assunto per narrare le vicende, vanno qui sottolineate sia la plumbea e magnifica fotografia di Jacque Jouffret, già cameraman per il film Into the wild diretto da Sean Penn nel 2007, di cui ritornano le atmosfere fredde e selvagge legate ad una Natura molro più grande dell’uomo, e l’interpretazione, molto ben calibrata sui personaggi, degli interpreti principali.

Taylor Kitsch è un solitario mountain man, Isaac Reed, cresciuto in una tribù di Shoshone dopo essere stato rapito da bambino, e perseguitato dal ricordo della morte della moglie, appartenente a quella stessa tribù, e del figlio per mano di cacciatori di scalpi bianchi. Mentre Betty Gilpin veste i panni di Sara Holloway-Rowell, in fuga per portare suo figlio Devin dal padre, dopo essere stata accusata per l’omicidio e la rapina del suo ricco e violento marito, e per questo motivo inseguita da una spietata posse di cacciatori di taglie.

Kim Coates interpreta invece Brigham Young, il primo governatore autonominatosi del Territorio dello Utah e il secondo presidente della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, dopo la morte del suo fondatore Joseph Smith2.
Shea Whigham riesce invece a dare corpo e volto a Jim Bridger, il fondatore e leader della stazione commerciale di Fort Bridger intorno a cui ruotano i principali interessi di espansione territoriale e politica dei mormoni di Young. Entrambi, Brigham (1801-1877) e Bridger (1804-1881), realmente esistiti.

Saura Lightfoot-Leon una giovane donna mormone, Abish Pratt, moglie più per dovere che per amore o convinzione di Jacob, un credente nella Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, da cui sarà separata violentemente nel corso di un massacro compiuto da Mormoni e da mercenari della tribù Paiute, ai danni di una carovana di coloni diretta in California, interamente, o quasi, sterminata a Mountain Meadows. Ma che troverà tra gli Shoshone, dopo l’iniziale rifiuto, il proprio destino di donna coraggiosa e ribelle al patriarcato bianco.
Infine, altrimenti l’elenco risulterebbe troppo lungo, Derek Hinkey, nei panni di Piuma Rossa, un guerriero Shoshone, capo del Clan del Lupo, che disprezza e combatte con orgoglio e determinazione gli americani bianchi per la loro aggressione contro il suo popolo e la sua terra.

Nel corso delle sei puntate tutte le contraddizioni e gli orrori che stanno alla base della formazione di un paese che si vorrebbe “grande e felice”, vengono violentemente e spietatamente al pettine. Non c’è carità, non c’è pietà, non c’è altruismo nelle vicende narrate. Per ognuno la prima cosa è sopravvivere, a costo di tradire gli amici oppure i soldati che si comandano, mentre la miseria non è motore di altro che non sia la brutalità o l’efferatezza dei crimini che ne derivano.

Sullo sfondo rimane tangibile la presenza di una guerra civile, una guerra di tutti contro tutti come viene spiegato fin dalla prima puntata, iniziata ben prima delle tradizionali date fornite ancora oggi dai libri di storia e continuata, pressoché ininterrotta, fino ai nostri giorni3. La stessa tenuta dei soldati a cavallo dell’epoca sembra, oggi, già contenere in sé la futura divisione tra Sud e Nord degli Stati Uniti, tra Confederazione e Unione: divisa blu e mantella grigio-azzurra. Così come la disputa tra due ben distinti presidenti: quello dei mormoni e quello ufficialmente in carica.

Ognuno va ad ovest inseguendo un sogno, per cercare fortuna, non importa se a danno di chiunque altro, non importa se “bianco” o “rosso”, ma soprattutto rosso. Il sogno va realizzato. Che si tratti di una città che dovrebbe sorgere sulla pista per l’Oregon a partire da un miserabile posto di scambio per pellicce, merci, rye whiskey, puttane e cacciatori di taglie oppure del Regno dei Santi degli Ultimi Giorni, la terra di Sion voluta dal Signore per i suoi fedeli e i suoi, feroci, profeti.

Ed è proprio il tema dell’occupazione mormone dello Utah a parlare allo spettatore di realtà ben più vicine, come quella della guerra in Palestina e del genocidio perpetrato a Gaza in nome del sionismo più sanguinario. Le premesse sono le stesse: un popolo perseguitato a lungo per la propria fede religiosa ritiene “sacro” e intangibile il diritto di fondare un proprio Stato. Retto da leggi religiose e governato da uomini spietati nella difesa del popolo di Dio, sia che si tratti della religione ebraica che di quella ispirata all’insegnamento di Joseph Smith.

Così, la terra di Sion dovrà essere fondata e difesa ad ogni costo, senza pietà per chiunque non ne accetti i precetti o i comandamenti. Il denaro scorre silenziosamente sotto le vaghe promesse del Regno e, come nel caso di Jim Bridger, può contribuire alla risoluzione di fittizie occasioni di contrasto, create soltanto per alzare il valore della posta in gioco. Soltanto Jack London, in uno dei sogni narrati nel Vagabondo delle stelle4, era stato così spietato e lucido nei confronti degli appartenenti ad una chiesa, quella mormone appunto, che della propria fede avrebbero fatto motivo di esclusione e dominio territoriale nei secoli a venire. Cosa prolungatasi fino ad oggi proprio nello Utah.

E’ giusto ricordare London poiché le vicende di American Primeval prendono spunto proprio dal massacro di Mountain Meadows narrato nelle pagine di Il vagabondo delle stelle che come ricorda, nella nota a cura del traduttore Stefano Manferlotti, l’edizione Adelphi:

L’episodio ricostruito da London è rigorosamente storico. Nel maggio del 1857 una carovana di pionieri che comprendeva centoquarantadue persone lasciò l’Arkansas diretta in California. Giunti nella località di Mountain Meadows, vennero attaccati da un folto gruppo formato da milizie mormoni e indiani. Dopo una prima scaramuccia i mormoni, allora in rotta con il governo del presidente James Buchanan, convinsero i pionieri ad arrendersi, promettendo loro salva la vita. Li sterminarono tutti, risparmiando solo i bambini più piccoli. Dovettero trascorrere vent’anni prima che i fatti fossero ricostruiti con una precisione sufficiente a mandare davanti al plotone di esecuzione John Dee Lee, il capo religioso mormone al quale London fa riferimento5.

Gli unici ad uscire dalle vicende nobili e integri nel loro orgoglio, anche se destinati al massacro, saranno proprio gli Shoshone con la loro sciamana e matriarca Winter Bird, la madre di Piuma Rossa e madre adottiva di Reed. Consci di appartenere ad un mondo ben più vasto di quello ricostruito dall’immaginario dell’avidità bianca e dei suoi precetti religiosi. Un mondo per cui vale la pena di morire in sua difesa e non per appropriarsene, di cui soltanto il capitano Edmund Dellinger, l’ufficiale comandante il distaccamento di cavalleria destinato ad essere distrutto dalla violenza dei mormoni, prenderà pienamente coscienza nelle sue ultime riflessioni notturne.

Un mondo, quello dei nativi, in cui le donne combattono come gli uomini, ferocemente, per la difesa della terra e della tribù e che condurrà anche la giovane Abish ad appartenergli e difenderlo. Fino alla morte.
Un discorso complessivo, quello della serie, in cui la difesa dell’ambiente e la ricostruzione del ruolo della donna in società strutturalmente lontane da quella patriarcale bianca, ben si accompagnano alla critica del colonialismo e del suo prodotto peggiore, quello di carattere messianico che, all’epoca come oggi, non può far altro che alimentare le peggiori violenze e i più oscuri impulsi nelle società che ancora in esso si riconoscono. Accettandone crimini e abusi in nome di un preteso diritto alla difesa di chi è stato perseguitato, in nome di una giustizia superiore che, certamente, per i Giusti non può essere tale.

Ancora una volta quindi, come avrebbe detto Elio Vittorini: «L’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la Terra.» Mai come in questo caso.

***

Questo intervento è dedicato, per ragioni che si sperano evidenti, a Leonard Peltier, militante per i diritti dei nativi americani uscito dal carcere il 20 gennaio 2025, dopo quasi cinquant’anni di detenzione per essere stato condannato a due ergastoli per gli incidenti alla riserva indiana di Pine Ridge dove due agenti speciali dell’FBI, Ronald A. Williams e Jack R. Coler, morirono nel 1975 nel corso di una sparatoria.


  1. Si vedano in proposito: A. Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Giulio Einaudi editore, Torino 2024; J. Brand, L’FBI contro l’American Indian Movement. Vita e morte di Anna Mae Aquash, Xenia Edizioni, Milano 1997 oltre ai fondamentali J. V. Deloria, Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano, Jaca Book , Milano 1994 (ed. in lingua originale 1969) e S. Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

  2. Joseph Smith Jr. (1805 – 1844), primo presidente della Chiesa dei santi degli ultimi giorni e predicatore del Libro di Mormon, che fu lui stesso a pubblicare il 26 marzo del 1830 e considerato dai membri della Chiesa da lui stesso fondata un libro rivelato. Il cui titolo deriva da Mormon, un profeta che, secondo il testo stesso, avrebbe compendiato la storia del suo popolo incidendola su tavole d’oro.  

  3. Si veda in proposito: S. Moiso, E il folle mondo viene avanti rotolando. Immagini della Guerra Civile nel sogno americano, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 287- 329 e, ancora, S. Moiso, Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 (qui).  

  4. J. London, Il vagabondo delle stelle, Adelphi, Milano 2005, pp. 131-185.  

  5. J. London, op. cit., p. 185.  

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Storie di un dio bugiardo e sciocco https://www.carmillaonline.com/2023/11/08/storie-di-un-dio-in-difetto-e-di-una-cultura-scomparsa/ Wed, 08 Nov 2023 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79923 di Sandro Moiso

Frank B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 156, 10 euro

«Ormai avete capito che il Vecchio non sempre era saggio, anche se ha creato il mondo e tutto ciò che contiene. Spesso si ficcava nei guai, ma poi in qualche modo accadeva sempre qualcosa per cui riusciva a cavarsela.» (Aquila di Guerra, stregone dei Blackfeet)

In periodi come questo, in cui il male di vivere occidentale si manifesta con tutte le sue contraddizioni, convulsioni e i suoi disastri che, oltre che a precederne la fine inevitabile, non [...]]]> di Sandro Moiso

Frank B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 156, 10 euro

«Ormai avete capito che il Vecchio non sempre era saggio, anche se ha creato il mondo e tutto ciò che contiene. Spesso si ficcava nei guai, ma poi in qualche modo accadeva sempre qualcosa per cui riusciva a cavarsela.» (Aquila di Guerra, stregone dei Blackfeet)

In periodi come questo, in cui il male di vivere occidentale si manifesta con tutte le sue contraddizioni, convulsioni e i suoi disastri che, oltre che a precederne la fine inevitabile, non risparmiano i popoli che non hanno ancora voluto sottomettersi alle sue leggi, ideologie e condizioni, può rivelarsi utile affrontare letture come quella proposta da Mattioli 1885 con il testo di Frank Bird Linderman appena pubblicato.

Il testo pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1915, con il titolo “Indian Why Stories: Sparks from War Eagle’s Lodge-Fire”, sotto le innocenti apparenze di una raccolta di racconti per bambini nasconde una visione del mondo, della natura e del divino distanti anni luce da quella imposta a suon di cannoni, inquisizioni e violenze dall’Occidente fin dall’inizio delle sue avventure e conquiste coloniali.

A riportarci indietro nel tempo e alle fondamenta di culture ormai scomparse è Frank Bird Linderman (New York, 25 settembre 1869 – New York, 12 maggio 1938), uno scrittore, politico, alleato ed etnografo dei nativi americani. Nato a Cleveland, Ohio, si recò nel West all’età di sedici anni, dove si innamorò della vita sulla frontiera del Montana e delle tradizioni dei suoi abitanti originari, con le cui tribù Salish e Blackfeet, visse e cacciò per diversi anni, imparando le loro lingue e tradizioni e i loro modi di vivere. Abitudini e stili di vita a cui si adeguò talmente da diventare noto tra i Crow come “Sign-talker” o, a volte “Great Sign-talker”; mentre i Blackfeet lo chiamavano “Tooth”, i Kootenai lo conoscevano come “Bird-Singer” e i Cree e Chippewa “Occhi” o “Sings-like-a-bird”.

Tornato tra i “bianchi”, divenne in seguito un sostenitore dei diritti degli indiani delle pianure settentrionali. Scrisse delle loro culture e lavorò, anche come uomo politico eletto per il partito repubblicano nel 1902 e nel 1904, per aiutarli a sopravvivere alle pressioni degli europei americani e continuò come avvocato per i nativi americani fino alla sua morte.

Pubblicò la sua prima raccolta di storie tribali dei nativi americani nel 1915 e scrisse altri venti libri nei due decenni successivi. Scrisse per condividere ciò che sapeva sulle culture dei nativi americani e per preservare le loro storie tradizionali.

Aveva passato la sua vita a raccogliere storie, e sentiva il dovere di scriverle. Scrisse altrettanto in una lettera a un amico: “Sento che è un dovere, in qualche modo, preservare il vecchio West, in particolare il Montana, nell’inchiostro della stampante, e se posso solo realizzare una piccola parte di questo, morirò soddisfatta”. Scrisse sei libri di leggende dei nativi americani, un’autobiografia, una raccolta di storie di frontiera, sei romanzi, tre storie di animali e una raccolta di ricordi sul suo amico e artista Charles Marion Russell. Le sue opere più importanti, tuttavia, rimangono le biografie di Pretty Shield e Plenty Coups. Anche se antropologi ed etnologi hanno notato che Linderman rimaneggiò le narrazioni in modo significativo, ma tuttavia hanno dovuto poi riconoscere che il suo lavoro contiene tutt’ora informazioni utili sulla vita dei nativi e dei Crow in particolare.

I venti racconti che Linderman immagina narrati da uno stregone Blackfeet ai giovani della tribù, sono sufficienti a delineare una cosmogonia molto articolata e complessa, in cui non vi è differenza gerarchica tra uomini e animali, tra natura e civiltà. Anzi sono spesso gli uomini e le loro usanze a dover sottostare alle leggi e alle norme della Natura e del mondo animale. Non per forza e costrizione, ma per saggia osservazione della realtà.

Anche se negli ultimi decenni il delirio new age ha trasformato troppo spesso questa visione del mondo e dei racconti che la tramandano in filosofia spicciola oppure in spiritualità da operetta, è piuttosto importante osservare come al loro interno questo rispetto arcaica della Natura e di coloro che condividono con l’uomo l’ambiente, pur non essendo umani, non danno vita ad una vera e propria religione. Non sono presenti Manitù e il sacro bisonte bianco, se non su uno sfondo piuttosto distante e sbiadito, mentre è presente, in quasi tutti i racconti, la figura del Vecchio Uomo, o Napa come è noto tra i Blackfeet, che è:

il personaggio più strano del folklore indiano. A volte appare come un dio o un creatore, e altra come uno sciocco, un ladro o un pagliaccio. Ma per l’indiano, Napa non è la Divinità; occupa una posizione alquanto subordinata, e possiede molti attributi che a volte hanno fatto sì che venisse confuso con lo stesso Manitù. […] Su quest’ultimo non si raccontano storie futili […] Ma con Napa la questione è completamente diversa. Non sembra aver diritto a nessun rispetto; è uno strano miscuglio fra un umano fallibile e un potente dio minore. Commette parecchi errori e raramente ci si può fidare di lui, e le sue azioni e scherzi variano dal sublime al ridicolo1.

Vicino ai semidei greci e alla inaffidabilità di tante divinità dell’Olimpo ellenico, Napa ci rivela un altro modo di intendere la religiosità: dubbioso quasi sempre, spesso ironico e mai del tutto succube dell’insegnamento, che va sempre interpretato oppure non ascoltato come se fosse una verità assoluta. Lontano tanto da Jahvè, i cui insegnamenti si vedono oggi in azione nelle striscia di Gaza per opera del “profeta” Netanyahu, quanto dalle interpretazioni di Allah rappresentate dal fanatismo islamista, ma anche dalle interpretazioni più autoritarie del Dio dei cattolici e dei protestanti.

Un modo di vivere la religiosità prossimo allo spettacolo della natura, lontano da ogni forma di fanatismo e per niente avvezzo a credere alla superiorità dell’Uomo e dei suoi dei sulle altre creature. Prossimo a una concezione cosmica lucreziana: Nessuna centralità dell’uomo nell’universo […] e nessuna gerarchia tra le foglie degli alberi, i fiocchi di neve, i sassi del fiume, le messi, gli arbusti, le specie dei viventi, il cielo, il mare, la terra2.

Creature che, come in ogni favola che si rispetti, sono altrettanto dotate di parola e saggezza sia che si tratti di castori che di uccelli oppure di topi, orsi, lupi e coyote. Animali, spesso totemici, che sono molto spesso i veri protagonisti delle favole narrate da Aquila di Guerra, insieme agli uomini e a Napa che, talvolta, deve rassegnarsi ad accogliere i consigli di che è più saggio di lui pur provenendo dal mondo animale.

Napa, il Vecchio, è davvero molto vecchio. Ha creato questo mondo e tutto ciò che vi sta sopra. […] Il Vecchio viveva in questo mondo con gli animali e gli uccelli. Allora non c’erano altri uomini o donne, e lui era il capo di tutti gli animali e di tutti gli uccelli.[…] Il Vecchio però commise anche grandi errori anche se poi sgobbava per far sì che tutto tornasse a posto. Spesso, tuttavia, faceva grandi dispetti e insegnava cose cattive. Tutti avevano paura del Vecchio e dei suoi inganni e delle sue bugie, persino gli animali, prima che creasse uomini e donne3.

Un dio ingannevole, infido e burlone non obbliga certo a una grande devozione e questo sembra essere l’intento centrale di un insegnamento che più che a servire il Cielo mira a rendere gli uomini e le donne più capaci di scegliere e comprendere ciò che va fatto per vivere in armonia con chi e cosa ci circonda. Eppure, eppure…

Come ci ricorda l’autore in prima persona, non fu quella società e non furono quegli insegnamenti a sopravvivere se non a livello di folklore nativo, come insegna, al termine della raccolta, il fantasma di un bisonte a un vecchio indiano che, nelle Badlands, si domanda dove siano finite le grandi mandrie che un tempo pascolavano sulle pianure create dal Missouri e quale sarà il destino del suo popolo.

Oh, uomo rosso, la mia gente se n’è andata tutta […] tutta la mia tribù è andata a pascolare tra le colline dell’ombra [quando] arrivò l’uomo bianco e ci fece guerra senza motivo o necessità. Io fui uno degli ultimi a morire, e con mio fratello fuggii in queste terre impervie per potermi nascondere; ma un giorno in cui la neve ricopriva il mondo, un bianco assassino seguì le nostre impronte, e con la sua arma rumorosa mandò i nostri spiriti a unirsi alle grandi mandrie d’ombra. Carne? No, non prese la nostra carne, ma dalla nostra carne tremante prese e strappò le vesti che Napa ci diede per riscladarci, e ci lasciò in pasto ai Lupi. Arrivarono quella notte e litigarono, si azzuffarono, si spartirono i nostri corpi, lasciando solo le ossa a salutare il Sole del mattino. I Coyote e altre bestie più deboli le trascinarono queste ossa e le scorticarono, e poi le scorticarono ancora, finché l’ultimo pezzo di carne o muscolo non scomparve, Poi giunse il vento con la sua canzone e tutto terminò4.

Oggi, mentre sta per avverarsi la profezia dei nativi americani5, è giusto, bello e utile ripercorrere queste pagine per tornare ad immaginare un mondo che non è più, ma che potrebbe tornare a vivere oltre l’avidità e l’egoismo causati dal capitale e dal mondo che ne è risultato. Fino ad ora.


  1. F. B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 10-11.  

  2. I. Dionigi, L’Apocalisse di Lucrezio. Politica, religione, amore, Raffaele Cortina Editore, Milano 2023, p. 15.  

  3. F. B. Linderman, op. cit., pp. 16-17.  

  4. Ivi, pp. 147-148  

  5. Stan Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

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Storie e lezioni dal deserto https://www.carmillaonline.com/2023/09/13/storie-e-confini-del-vuoto/ Wed, 13 Sep 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78705 di Sandro Moiso

William Atkins, Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 440, 28 euro

In anni di drastico cambiamento climatico e soprattutto durante una stagiona infiammata da temperature molto elevate anche in luoghi un tempo difficilmente definibili come “caldi”, la lettura del testo di William Atkins appena uscito per i tipi di Adelphi può rivelarsi sia utile che affascinante, poiché, in fin dei conti, i deserti di cui l’autore inglese è andato letteralmente a caccia ci sbattono in faccia quello che potrebbe essere l’aspetto di [...]]]> di Sandro Moiso

William Atkins, Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 440, 28 euro

In anni di drastico cambiamento climatico e soprattutto durante una stagiona infiammata da temperature molto elevate anche in luoghi un tempo difficilmente definibili come “caldi”, la lettura del testo di William Atkins appena uscito per i tipi di Adelphi può rivelarsi sia utile che affascinante, poiché, in fin dei conti, i deserti di cui l’autore inglese è andato letteralmente a caccia ci sbattono in faccia quello che potrebbe essere l’aspetto di gran parte delle terre emerse alla fine del capitalocene.

Ma quegli stessi territori, considerati tra i più caldi del pianeta, come il deserto di Sonora e quello di Black Rock negli Stati Uniti oppure i deserti di Gobi e di Taklamakan in Cina o, ancora, il Gran Deserto Victoria in Australia insieme a quelli dell’Oman, dell’Egitto Orientale e del Kazakistan, si rivelano essere non soltanto estremamente inospitali per la specie umana e, spesso, non soltanto per quella, ma anche luoghi che nella loro essenza sono proprio il contrario dei non-luoghi in cui la civiltà capitalistica ci ha abituati a vivere.

Come annotò, nel 1878, John Wesley Powell nel suo Report on the Lands of the Arid Region of the United States, il deserto, sub specie West degli Stati Uniti, era ostile al capitalismo. Certamente dal punto di vista economico, viste le difficoltà intrinseche in termini di costi e strutture necessarie per mettere a rendimento quei territori, ma anche dal punto di vista dell’immaginario dettato dalla loro estensione e dall’impossibilità di confinarli.

I deserti, infatti, sono regioni in cui possono essere stati o si sono confinati popoli e furfanti, dissidenti e briganti, eremiti, santi e avventurieri, delle cui storie sono piene le pagine del testo di Atkins, ma i cui limiti geografici e biologici sembrano essere sempre in costante movimento. Sia in senso espansivo che nel senso del restringimento. Territori sostanzialmente “anarchici” dal punto di vista della mappatura geografica, così utile a definire spazi di proprietà privata o statuale, ma inadatta a contenerne i limiti reali. Spesso negati per comodità di incanto economico.

Si pensi soltanto al rapporto del 1878 cui si è accennato prima, che rivelava, con grande scandalo per l’epoca, come gran parte degli Stati Uniti appartenessero, e ancora appartengano, dal punto di vista climatico, geologico e biologico ad aree desertiche o semi-desertiche.

«La regione arida inizia a metà delle Grandi Pianure» scrisse Powell «e si estende attraverso le Montagne Rocciose fino all’Oceano Pacifico». In un’area così arida, avvertì, « si avranno molti periodi di siccità, molte stagioni di seguito saranno infruttuose, ed è lecito chiedersi se, tutto considerato, l’agricoltura vi si possa dimostrare redditizia ». E non era neppure un problema di dispersione delle acque che la regione possedeva: «Quand’anche tutte le acque che scorrono nei torrenti della regione fossero canalizzate, solo una piccola porzione del territorio potrà essere riscattata ». Powell aveva capito che la carenza d’acqua non era l’unico problema: c’erano anche il gelo, il suolo alcalino, il drenaggio insufficiente. Lì non era possibile vivere come si viveva nell’Est. Al di là di ogni altra considerazione, c’era bisogno di grandi spazi. Lo Homestead Act del 1862 garantiva 162 acri a ogni colono, ma quella era una misura calcolata da gente che viveva nella piovosa Washington. Nel deserto sarebbero bastati sì e no per due vacche inappetenti. Powell suggerì di allocare un minimo di 2560 acri per ogni ranch. Propugnava pascoli comuni non recintati, imprese cooperative e sovvenzioni federali.
[…] Per i ‘fautori’ dell’American West come il potente speculatore fondiario Charles Dana Wilber, il deserto di Powell era solamente un mito: «Il Creatore non ha mai imposto un deserto perpetuo a questo mondo,» scrisse nel 1881 «ma al contrario l’ha fatto in modo tale che, in qualunque paese, l’uomo possa trasformarlo con il suo aratro in terreno agricolo». Non sarebbe bastato certo il consenso scientifico a smuovere chi era stato sedotto dalla dottrina del Destino Manifesto. Wilber era anche un apostolo dell’idea che l’attività agricola stessa avrebbe alterato il microclima locale, una teoria esposta per la prima volta da Josiah Gregg nel 1844. «Una coltivazione intensiva del terreno» scrisse «può contribuire a moltiplicare le piogge». La meccanica di questo processo non era chiara – alcuni supposero che fosse collegata alla maggiore capacità di assorbimento del terreno arato –, ma fra coloni e fautori si andò affermando la convinzione che il deserto – così com’era – potesse essere fatto indietreggiare fino alle pendici delle Montagne Rocciose. Un fautore giunse ad affermare che per ogni metro di binari stesi in quel deserto sarebbero caduti quattro litri di pioggia in più all’anno. Oggi sappiamo che non fu il deserto a indietreggiare. «La pioggia segue l’aratro» si sarebbe dimostrato un motto disastroso per i coloni, che si insediarono sul margine orientale del deserto solo per vedere un succedersi di siccità mentre il secolo volgeva al termine. Quelli che lasciarono le pianure spazzate dalla polvere dipinsero sul fianco dei loro carri: «In Dio abbiamo creduto, nel Kansas abbiamo fallito»1.

Guardando la cartina degli stati “desertici” e semi-desertici”, contenuta a pagina 271 del libro di Atkins, chiunque conosca almeno una minima parte della storia degli Stati Uniti e del loro contraddittorio sviluppo avrà modo di verificare come le straordinarie foto di Dorothea Lange, Ben Shahn e Walker Evans che, per conto della Farm Security Administration, hanno documentato l’esodo di decine o centinaia di migliaia di contadini impoveriti dagli stati agricoli del Mid-West e del West, rovinati dalla crisi economica degli anni Trenta e dalle tempeste di polvere, verso i campi di lavoro della California, erano già inscritte nella morfologia del territorio che si erano sforzati di piegare allo sfruttamento agricolo. Grande o piccolo che questo fosse.

Ed è qui, tralasciando le storie infinite di monaci, di pazzi esploratori che attraversarono certi deserti trainando barche e battelli da usare su mari interni che non avrebbero mai trovato ma di cui avevano auspicato l’esistenza, di esperimenti nucleari condotti senza alcun dato scientifico che ne attestasse la non pericolosità per gli esseri viventi che abitavano quelle aree o quelle circostanti e mille altre vicende ancora che rendono i deserti luoghi molto più interessanti di quanto si creda nella civiltà del frigorifero stracolmo di cibo spazzatura e di cervelli altrettanto riempiti di spazzatura mediatica, che si pone il centro di interesse delle riflessioni suscitate dalla lettura di Atkins.

Se c’è, nei fatti, una lezione che il deserto sicuramente insegna è quella dell’umiltà e non a caso è stato il luogo privilegiato per l’eremitaggio oppure per le vite di popoli costretti a fuggire, oppure che sceglievano di farlo, per non cadere sotto le grinfie dell’offerta mercantile, della falsa ricchezza rappresentata dall’oro e dai sui sanguinari custodi e cercatori. Poiché il deserto si rivela non come luogo di accumulazione (nozione basilare per una comprensione dei meccanismi capitalistici), ma di sottrazione dell’inessenziale per la sopravvivenza e la vita.

Un luogo in cui è l’essere vivente, soprattutto sub specie Homo, a dover sapersi adattare, così come ci hanno insegnato per millenni i nostri antenati Che in quei deserti, come ci ha insegnato Giorgio De Santillana uno storico e filosofo della Scienza di cui ci occuperemo in una prossima recensione su Carmilla, hanno posto le basi delle conoscenze scientifiche semplicemente osservando il moto degli astri in un cielo non ancora offuscato dalle effimere luci del progresso, dando così vita ai più antichi e straordinari miti dell’Umanità. Prima che la loro trasformazione in religioni, più o meno rivelate, ne offuscasse l’intrinseco e più autentico significato.

Una lezione che l’essere umano attuale, convinto dal Rinascimento e dalle sue origini nel libero arbitrio cristiano di essere artefice del proprio destino e libero di agire e decidere, tarda a riscoprire. Anche là dove volendo criticare l’esistente si accolla “antropocentricamente” tutte le responsabilità di trasformazioni climatiche ineludibili, ma di cui, invece, occorrerebbe comprendere la reale portata per evitare di aggravarne le conseguenze. Come già due secoli or sono Giacomo Leopardi si sforzava di far capire ad una società addormentata sugli improbabili allori di un secolo servile, superbo e sciocco, cantando le lodi della ginestra che del deserto è il fiore.

Solamente ripartendo da lì può prendere spunto una critica radicale del modo di produzione dominante e devastante che ci accompagna, insieme alla sua hybris, da poco più di due secoli. Non dal greenwashing variamente travestito, ma dal “deserto”, dalle sue storie e dalla sua storia geologica plurimillenaria.


  1. W. Atkins, Tra grandi fuochi. Il deserto di Sonora, Usa, in W. Atkins, Un mondo senza confini, Adelphi, Milano 2023, pp. 268-269  

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Elogio dell’eccesso /3: Cormac McCarthy e il rosso della sera dell’Occidente https://www.carmillaonline.com/2023/07/20/elogio-delleccesso-3-cormac-mccarthy-il-rosso-della-sera-delloccidente/ Thu, 20 Jul 2023 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78090 di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La [...]]]> di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La strada” – Cormac McCarthy)

Il 20 luglio di quest’anno Cormac McCarthy avrebbe dovuto compiere 90 anni.
Per uno di quegli insondabili moti degli orologi biologici individuali così non è stato e lo scrittore americano se n’è andato il 13 giugno, nella sua casa nei pressi di Santa Fe, nel Nuovo Messico. Tornando a quel mistero, di cui la morte individuale è la massima espressione e manifestazione, di cui parlava nell’ultima riga di uno dei suoi romanzi più conosciuti.

Se la letteratura americana migliore è impregnata del mistero della morte, in tutte le sue possibili forme, Cormac McCarthy ne è stato forse il cantore più coerente e inflessibile.
Morte per violenza, soprattutto, ma anche morte come fine di tutto: di una vita, di un ciclo, di un mondo, talvolta, come in Non è un paese per vecchi, del senso e di qualsiasi tentativo di dare un significato alle azioni degli uomini.

In un mondo che, invece, ha cercato di allontanare da sé la morte, pur producendola in maniera esagerata, continua e con qualsiasi mezzo, trasformandola narrativamente in un accidente, magari irrimediabile, ma pur sempre tale. Un intoppo nel percorso di vite destinate all’eternità non solo spirituale ma anche fisica e alla realizzazione di sé attraverso il consumo e la produzione di ricchezza (quest’ultima decisamente meno egualitaria della morte che, almeno e nonostante gli sforzi di conservazione criogenica della carcassa individuale, in attesa di un futuro migliore, arriva sempre e comunque per tutti).

Come scriveva già il sottoscritto, qualche anno fa, l’ossessione ricorrente nella maggior parte della migliore letteratura americana certo è

quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.
Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.
Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di Pulp alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di Un brav’uomo è difficile da trovare1.

McCarthy ha sempre suonato il controcanto del fasullo vitalismo americano e per fare ciò ha smontato ogni mito, a partire da quello della Frontiera e se Morte e Male costituiscono i due caratteri dominanti della grande letteratura d’oltre oceano, allora Cormac McCarthy ne rappresentato la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva, tracciando, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana.

Morte e non Storia, soprattutto degli ultimi due secoli. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream. Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttrice e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti. Vendicarsi, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di sopravvivere o di “essere giusti”: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di Non è un paese per vecchi, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo La strada; da Meridiano di sangue, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

Come afferma Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda di The counselor (Il procuratore, Einaudi 2013), mentre confessa provocatoriamente i propri impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini.

Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione2.

D’altra parte la stessa Malkina è in qualche modo prodotto e conseguenza di una narrazione letteraria e politica che nasconde la menzogna e la violenza che sono servite a mantenere inalterato il volto perbenista di una società che dopo aver artificialmente rimosso il Ricordati che devi morire della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare e in cui la morte e il male sono portati alle estreme conseguenze, mentre solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. «Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni»3.

Scorrendo tutte le pagine dell’opera di McCarthy, per certi versi unico vero erede del lato più tragico e provocatorio di William Faulkner, non è difficile capire perché, proprio un attimo prima del raggiungimento del successo con il romanzo All the Pretty Horses (1992 – Cavalli selvaggi, Guida 1993 – Einaudi 1996) che vinse il National Book Award nel 1992, tutte le sue opere precedenti (fino ad allora cinque) fossero uscite dal catalogo della Random House nonostante il successo di critica, non accompagnato però da un adeguato risultato nelle vendite e presso il pubblico. Compreso quello che sarebbe stato poi considerato uno dei suoi capolavori, se non proprio il capolavoro, Blood Meridian, del 1985 (Meridiano di sangue, Einaudi 1996).

L’autore americano aveva iniziato la sua carriera nel 1965, all’età di 32 anni. Era un dropout dell’Università del Tennessee, privo di agente letterario, quando aveva sottoposto il dattiloscritto del suo primo romanzo proprio alla Random House. Manoscritto che per puro caso finì sulla scrivania di Albert Erskine, colui che aveva fatto pubblicare Ralph Ellison, Robert Penn Warren e lo scrittore che sembra aver maggiormente ispirato McCarthy: William Faulkner. Erskine apprezzò il “manoscritto” e così la Random House pubblicò il primo romanzo, The Orchard Keeper (Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002), un debutto ruvido, strano e decisamente non commerciale, che però già conteneva alcuni dei temi tipici di tutte le sue opere successive.

Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere4.

Eccone qui il primo esempio: il Mito della Frontiera e dei suoi uomini liberi e indipendenti, indifferenti alle leggi del progresso e abitatori di una terra selvaggia non è altro che polvere ancor più che polverosa leggenda. Come si afferma nel risvolto di copertina della prima edizione italiana, le vicende «hanno come sfondo un paesaggio arcaico, descritto con una prosa dalle cadenze bibliche che rimanda alla tradizione faulkneriana. I personaggi di McCarthy convivono con una natura che non ha nulla di idilliaco, ma è capricciosa e ostile proprio come i suoi abitanti.»

Un altro dei temi di McCarthy è infatti proprio la Natura, indifferente al destino degli uomini e alle loro storie e la cui sacralità è definita non dall’idillio, ma dalla sua crudeltà e impenetrabilità. Non a caso gli sfondi più spesso descritti dall’autore non sono quelli di colline e paesaggi ameni, ma piuttosto quelli di deserti soleggiati e ricchi di tempeste di polvere, di rocce granitiche e di pianure riarse dal sole. Per precipitare poi, in uno degli ultimi e più noti romanzi, The Road (2006 – La strada, Einaudi 2007) in uno scenario di ceneri e alberi bruciati. In cui la specie muore insieme al mondo che ha finto di poter dominare, soltanto per distruggerlo.

Erskine smosse mari e monti per promuovere il libro, sollecitando autori come Truman Capote, James Michener e Saul Bellow affinché lo leggessero, ma nonostante questi sforzo promozionale il romanzo vendette poco. Così come il successivo del 1968, Outer Dark (Il buio fuori, Einaudi 1997).

Una storia scandalosa e crudele in cui un giovane insegue la sorella, da cui ha avuto un figlio che lui ha cercato di uccidere subito dopo la nascita, attraverso gli stati del Sud degli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Una storia di incesto e povertà cui si sovrappone la violenza di un mondo spietato e, come sempre, tinto di rosso cremisi. Con un epilogo di inimmaginabile crudeltà, come se l’entità che sembrerebbe presiedere nella più totale indifferenza le vicende umane avesse finalmente deciso di svelare il proprio ghigno grondante sangue.

Quando la Random House chiese a McCarthy se avesse qualcuno a cui inviare il suo terzo romanzo, Child of God (1973 – Figlio di Dio, Einaudi 2000) la storia di un assassino seriale e necrofilo che terrorizza una contea del Tennessee, l’autore, con una lettera, rispose: «Ed McMahon del Tonight Show, è un conoscente. Siamo stati a pescare insieme a Bimini la primavera scorsa e poi a bere al Cat Cay (fino a quando è caduto dal molo e hanno dovuto portarlo in aereo a Lauderdale per ricorrere alle cure ospedaliere). Provate a fargli giungere una copia del mio libro. Dovrebbe leggerlo (non come beve, certamente, ma più o meno)5

Quel romanzo, ancora una volta, raccontava il trionfo assoluto del Male, incarnato nella figura di Lester Ballard, uno dei tanti white trash che popolano le catapecchie del Sud rurale, le campagne ferme nel tempo in cui la Storia è scandita dai linciaggi e dalle pubbliche impiccagioni, dove la promiscuità e l’incesto costituiscono la regola, dove la miseria e l’abiezione sommergono qualsiasi forma di società strutturata secondo i canoni della modernità. Un mondo destinato a produrre mostri e su cui sembra campeggiare, come in ogni altro romanzo di McCarthy, l’avviso: No politically correct, please.

Se la casa editrice contattò o meno McMahon non è dato sapere, però anche quel romanzo vendette poco o nulla. Così come il quarto Suttree, pubblicato nel 1979 (Suttree, Einaudi 2009). Romanzo che il critico Stanley Booth definì come il «libro più esilarante di McCarthy, ma anche il più insopportabilmente triste.» Popolato da una schiera di ladri, derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti, spilorci, balordi, assassini, giocatori, ruffiani, troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi, trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli, vagabondi, libertini e debosciati vari.
E’ il mondo di Knoxville, Tennessee, nel 1951 ed è quello in cui vive e sopravvive Cornelius “Buddy” Suttree, il pescatore protagonista delle vicende narrate. L’altra faccia dell’America perbenista narrata dall’immaginario dell’American way of life dunque.

In quell’occasione l’autore aveva ottenuto il riconoscimento di autorevoli premi letterari e borse di studio finanziate dall’American Academy of Arts and Letters, dalla Fondazione Guggenheim e dalla Fondazione Rockfeller, mentre nel 1981 ne ottenne anche una dalla MacArthur che, come avrebbe scritto ad un amico, rappresentava una piccola “manna” che gli avrebbe permesso «di rimanere nel “business” ancora per un po’.»

Nel 1976 si era trasferito a El Paso dove si sarebbe in seguito documentato e avrebbe iniziato a scrivere il suo quinto romanzo, Blood Meridian. Un libro violentissimo, l’unico in cui compaiano i nativi americani colti nel momento in cui guerreggiano selvaggiamente contro i bianchi che invadono i loro territori sempre più in profondità e mentre un branco di mercenari, comandati da uno dei personaggi più infernali usciti dalla mente di McCarthy, il giudice, scorrazza sulle pianure del Texas e del Sud-ovest, uccidendo e scalpando i membri delle tribù distribuite a cavallo del confine tra Stati Uniti e Messico.

E’ la storia di un ragazzo che a quattordici anni lascia la casa paterna nel Tennessee e si dirige avventurosamente, disperatamente, coraggiosamente e incoscientemente verso l’Ovest, verso il West. Ma il lettore non si aspetti un romanzo di formazione. L’America, come avverrà poi nel terzo e ultimo romanzo della trilogia della Frontiera, Cities of the Plain (1998 – Città della pianura, Einaudi 1999), non cresce o educa i suoi figli: li divora. In Vietnam come in tante altre inutili guerre ai confini del suo impero, negli slums delle metropoli come sulle pianure secche e aride del West. Tom Sawyer in un romanzo di McCarthy non avrebbe mai avuto il tempo di diventare saggio o adulto, avrebbe avuto soltanto il tempo di morire. Possibilmente in maniera ingiusta e violenta.

E anche i nativi non sono da cartolina. Non sono soltanto pacifici rappresentanti di un mondo in estinzione davanti all’avanzata dell’uomo bianco. Non espongono la bandiera a stelle e strisce come avviene in Soldato blu6 nel tentativo di non essere massacrati. Combattono, aggrediscono, uccidono, scalpano e stuprano (anche le “giacche blu”), riservando ai bianchi ciò che questi ultimi hanno perpetrato su di loro. Non per nulla Blood Meridian è stato definito, dal critico statunitense Harold Bloom, come «il western definitivo».

La brigata intanto si era fermata e vennero sparati i primi colpi e il fumo grigio dei fucili ondeggiò tra la polvere mentre i lancieri rompevano le file. Il ragazzo sentì il cavallo crollare sotto di sé con un lungo sospiro compresso. Aveva già fatto fuoco col suo fucile e adesso si sedette a terra e armeggiò con la giberna.[…] Dappertutto c’erano cavalli a terra e uomini carponi, e ne vide uno intento a caricare il fucile col sangue che gli colava dalle orecchie, e vide uomini col revolver smontato che cercavano di infilare al posto giusto il tamburo di riserva carico di pallottole, e vide uomini i ginocchio che si piegavano di lato ad abbracciare la propria ombra sul terreno, e vide uomini infilzati dalle lance e afferrati per i capelli e scalpati in piedi, e vide i cavalli da combattimento calpestare i caduti e un piccolo pony dal muso bianco con un occhio chiuso emerse dal buio e cercò di morderlo come un cane e poi scomparve7.

E’ sempre una scrittura visionaria quella dell’autore statunitense, in questo senso biblica per la forza delle immagini che sembrano andare in sovrimpressione, soprattutto nella mente di chi legge. Ma nonostante ciò, o forse proprio in virtù di tutto questo, anche il quinto romanzo vendette poco, o nulla. Così a partire dalla seconda metà degli anni ’80 le prospettive di carriera dello scrittore si annunciavano ormai come tetre e desolate.

Nel 1987 Erskine lasciò il suo posto alla Random House per andare in pensione e McCarthy, nel 1989, ebbe modo di scrivere ad un amico: «Sono stato uno scrittore professionale per 28 anni e non ho mai ricevuto un assegno per i diritti d’autore. Penso sia davvero un record.» Ciò significava, al di là dei riconoscimenti ricevuti e della successiva fortuna editoriale, che lo stesso avrebbe dovuto cambiare il modo di presentare i suoi libri agli editori. Soprattutto dopo il ritiro di Erskine.

E così fu. In un contesto in cui le grandi corporation, proprio a partire dagli anni Ottanta, avevano iniziato ad assorbire un grande numero di case editrici, grandi, medie e piccole, che erano state messe in ginocchio dall’aumento dei prezzi determinato dall’inflazione degli anni settanta che a parità di salari aveva fatto sì che il costo dei libri aumentasse e i lettori diminuissero. Da lì in avanti alla direzione delle case editrici più grandi furono messi uomini che non venivano dalla “letteratura” (come agenti o editori), ma dal marketing,

Nel frattempo McCarthy aveva scritto a Lynn Nesbit (che rappresentava, tra i tanti altri, autori come Joan Didion, Toni Morrison e Tom Wolfe) in cerca di un agente. Per farlo, le aveva scritto le seguenti parole: «Non ho mai avuto un agente prima d’ora, ma penso che sia giunto il momento di averlo e così, se è interessata a parlarmi, può chiamarmi prima di mezzogiorno, ora delle Montagne Rocciose (Rocky Mountain time).»

La Nesbit passò la lettera ad una sua protetta, Amanda “Binky” Urban, che aveva letto Suttree e lo aveva trovato stupefacente. Così Amanda Urban prese in carico lo scrittore e progettò il suo passaggio dalla Random House alla Knopf, dove un nuovo direttore editoriale, Sonny Metha, aveva bisogno di un buon colpo iniziale. Quando la Urban gli propose McCarthy, stimato borsista della MacArthur che però non aveva ancora venduto, con un francesismo, un cazzo, Metha rispose: «Già lo amo».

La stessa Urban, in seguito, avrebbe affermato: «Non potevo credere di stare per prendere in mano il telefono e chiamare un autore che fino ad allora aveva venduto al massimo 2500 copie». Ma in quel frangente si aprirono le porte del successo per Mc Carthy, con il romanzo Cavalli selvaggi, che non è certo tra i suoi migliori, ma da cui fu tratta una versione cinematografica, anch’essa risibile rispetto a quelle tratte da La strada e Non è un paese per vecchi, interpretata da un giovane Matt Damon.

Romanzo che apriva però quella trilogia della frontiera cui si è già accennato e di cui il secondo, The crossing (1994 – Oltre il confine, Einaudi 1995), costituisce forse la summa della visione tragica e nichilista della vita contenuta in tutta la sua opera. Ancora una volta la storia di un giovane, Billy Parham, che lascia la casa di famiglia per addentrarsi, alle soglie del secondo conflitto mondiale, “oltre il confine” nel Messico. Tra deserti, montagne, cavalli, fantasmi di uomini e rivoluzioni, fotografie sbiadite e zingari alla ricerca dei proprietari delle stesse perché si riconoscano prima di svanire anche loro nel tempo o più semplicemente nel nulla.

A farla da padrone è ancora una volta il paesaggio metafisico, ma concretissimo, che assume il ruolo di testimone muto e spietato che vedrà due fratelli cercarsi, perdersi, trovarsi e perdersi ancora su un confine, quello del Sud-ovest, che più che una linea divisoria tra gli stati sembra tracciare quella tra tra il mondo reale e quello narrato, tra la Vita e la Morte, l’Essere e il Nulla.

Dovevano ancora venire altri romanzi, tutti di successo soprattutto negli Stati Uniti, ma già in un’intervista dl 1992, rilasciata al settimanale tedesco «Der Spiegel», McCarthy avrebbe dichiarato: «Le classifiche dei bestseller non hanno nulla a che fare con la letteratura. Ha mai guardato i titoli che sono in classifica? Pensa che sia lusinghiero essere in quella compagnia?». E poi, a proposito dell’America: «Più di ogni altro paese sulla terra, l’America è una provvisorietà. Un’invenzione senza storia». In quell’occasione l’intervistatore ebbe modo di osservare come l’autore, che abitava ancora a El Paso «dove la città dei morti sembra provvisoria come la città dei vivi:

E’ affascinato dalla prospettiva in cui l’astrofisica colloca la storia umana, l’insensato arrancare dell’umanità e la sua sofferenza. Ci sono molti elementi che suggeriscono, dice, che l’esperimento umano sarà presto finito. E stranamente, come i predicatori dei suoi romanzi, Cormac McCarthy è un moralista. Meno fanatico, più rassegnato. Quando parla di sventura, non parla di catastrofi ecologiche o economiche, ma della morte interiore dell’uomo, della morte del significato. «Come si può vivere senza morale?», dice ad un certo punto.[…] Ha sottotitolato il suo romanzo Meridiano di sangue il “rosso della sera dell’Occidente”, un libro che, come i dipinti di Hieronymus Bosch, fornisce metafore per la caduta dell’umanità8.

Certo un moralista, come lo sono stati Leopardi o Céline, eccessivi perché perfettamente consci della condizione umana e delle menzogne di un secol superbo e sciocco. Consci che l’ingiustizia, la violenza, il dolore fanno parte di tale condizione e che non saranno le fregnacce liberali, new age, politically correct e della cancel culture (tutte varianti di un unico perbenismo già morto e sepolto) a modificarla. Anzi tali fregnacce son proprio ciò che è necessario continuare a diffonder per nascondere la realtà. Non a caso uno (Céline) è stato demonizzato, l’altro (Leopardi) sminuito a pessimista gobbo e quasi cieco e Mc Carthy spesso inquadrato in un canone americano di difesa di valori che non ha mai sicuramente apprezzato.

Proprio per questi motivi, in tempi di guerra e di crisi autentica dell’Occidente e dei suoi “valori fondativi”, è consigliabile che il lettore non si adagi sulle false sicurezze e le false speranze, distribuite a piene mani sia da destra che da sinistra, e faccia piuttosto un salto di paradigma iniziando subito a sprofondarsi nella lettura dell’opera di McCarthy. Possibilmente integrale.


  1. qui  

  2. C. McCarthy, The counselorIl Procuratore, Einaudi 2013, pp. 114 – 115  

  3. op. cit., pag. 51  

  4. C. McCarthy, Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002  

  5. Fonte: Dan Sinykin, A career that couldn’t happen now, The New York Times International Edition, 21 giugno 2023  

  6. Soldier Blue è un film statunitense del 1970, diretto da Ralph Nelson e liberamente ispirato al romanzo storico di Theodore V. Olsen, Arrow in the Sun, anch’esso liberamente ispirato ai reali eventi del massacro di Sand Creek del 1864.  

  7. C. McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi 1996, pp. 56-57  

  8. «Der Spiegel», 30 agosto 1992  

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WestWorld: la valle della disrupzione / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/04/08/westworld-la-valle-della-disrupzione-3/ Sat, 08 Apr 2023 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76566 di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark [...]]]> di German A. Duarte

Ribellarsi come un host

La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark Zuckerberg, Elon Musk o Jack Ma – queste tecnologie sono state adottate nella vita quotidiana, rese ordinarie e, quindi, componenti fondamentali della quotidianità nel technoscape. Di conseguenza, il contatto quotidiano e intenso con le tecnologie digitali sembra quindi non lasciar spazio alle vecchie, ma indispensabili, discussioni su come la capacità di sentire la sofferenza dell’altro sia diventata una capacità determinata da una tecnologia mediatica1.

Soprattutto, l’ingresso di queste tecnologie nel processo comunicativo e il loro diventare ordinarie gli hanno permesso di estendere la loro forza di codificazione verso alcuni comportamenti umani. In un’intensa e costante opera di profilazione, queste tecnologie si sono inserite definitivamente nella quotidianità e hanno incluso nel repertorio del target market semplici azioni quotidiane del soggetto. Capaci di codificare e profilare un soggetto – ad esempio, semplicemente in base al modo in cui questo muove il mouse – queste tecnologie compiono un’opera di profilazione che, nel capitalismo attuale, va oltre il volere e l’interesse del mercato. Infatti, progressivamente, ma a velocità vertiginosa, queste tecnologie digitali, rappresentate, nella serie, dagli hosts, hanno messo in moto un’opera di codificazione capace di comprendere movimenti, reazioni, gesti, il tutto con lo scopo di produrre una classificazione dei comportamenti di ogni soggetto.

Diventando oggetti presenti nel processo comunicazionale, gli hosts, chiara allusione alle tecnologie digitali, sono diventati cose. Sono diventati cioè parte del processo percettivo del soggetto e, in questo modo, hanno cominciato un’opera di codificazione constante dei comportamenti umani. In quest’opera – identificabile nel modo in cui i motori di ricerca, i social media, o alcune società di marketing politico maneggiano i dati generatesi nel processo comunicativo di ogni singolo individuo – l’illusione transumanista, così come lo sviluppo di entità tecnologiche intelligenti a tutti gli effetti, rappresenta solo una scusa perfida e perfetta per portare avanti la mappatura dei più intimi pensieri e dei più profondi desideri di ogni individuo. E, a mio avviso, è proprio questa la denuncia che sembra evidenziarsi nella terza stagione di WestWorld, una denuncia capace di rendere noto e ricordare chiaramente che il capitale non è altro che una forza di produzione di desideri. E forse non è mai stato altro. Questa natura del capitale ben si palesa nella forza egemonica di Hollywood, forza magistralmente analizzata e criticata da Horkheimer e Adorno nel loro fondamentale Dialektik der Aufklärung (1947)2.

In alcune analisi precedenti di questo fenomeno si metteva già in luce come l’oggetto manufatto esercitasse sul soggetto una forza di attrazione, quest’ultima definita da Marx una forza “fantasmagorica”. Questa misteriosa forza di attrazione finisce per tessere la relazione oggetto-soggetto, generando a sua volta un’altra forza ancor più misteriosa, che termina per trasformare il soggetto in oggetto. Tuttavia, la forma di produzione industriale su cui si erigeva l’apparato teorico del materialismo storico metteva in primo piano (vittima della stessa forza fantasmagorica?) l’oggetto e come esso determina l’essere. Ora, con WestWorld, la forza di reificazione sembra concentrarsi specialmente sulla codificazione e successiva mercificazione dei desideri. Di conseguenza, attraverso la serie, sembra emergere come l’interesse del capitale nella sua fase attuale, ormai già lontano della produzione materiale, si avvicini decisamente alla mappatura dei comportamenti e dei desideri umani. In altre parole, il capitale non cerca più disperatamente di mettere il soggetto davanti all’oggetto manufatto (o davanti alla sua rappresentazione pubblicitaria), per generare in questo modo un’attrazione fantasmagorica, ma cerca di reificare il desiderio – cerca di reificare l’attrazione in sé – scambiandolo in un flusso di valore che progressivamente esclude ogni intervento umano. Questo, nella produzione di valore, non solo rappresenta il primato del desiderio sull’oggetto, e dunque la piena mutazione del capitale in forza di produzione di desideri, ma soprattutto potenzia la natura permeabile del capitale, capace di appropriarsi di ogni declinazione della praxis.

Come già sottolineato nel dibattito sulla produzione nell’era post-fordista, il lavoro si è spostato progressivamente verso la generazione e lo scambio di informazione. Questo fenomeno non solo permette di evidenziare l’affermarsi del capitalismo cognitivo, oggi – nel nostro contesto digitale – ormai sotto gli occhi di tutti, ma offre qualche indizio circa la nuova capacità del capitale di inglobare l’informazione in tutte le sue manifestazioni. Vale a dire, come sembra possibile evincere da una (ri)lettura attuale del testo (degli anni Novanta) di Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione, la forza del capitale finisce per assorbire e scambiare il lavoro con l’attività, inclusa l’attività politica. Questo fenomeno mette in luce la capacità del capitale, soprattutto nella sua fase post-fordista, di assorbire e posizionare nel flusso reificante lo scambio d’informazione del processo quotidiano di comunicazione con l’altro e cioè, di assorbire anche il semplice scambio comunicazionale, la semplice relazione con il prossimo.
Quando Baudrillard delinea la trasformazione del lavoro, che da forza diventa segno tra i segni, permette proprio di identificare questa nuova capacità del capitale attraverso la nozione di ‘scambio’ (échange):

Poiché il lavoro non è più una forza, è diventato un segno tra i segni. Si produce e si consuma come tutto il resto. Si scambia con il non-lavoro, il tempo libero, secondo un’equivalenza totale, è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Né più né meno “alienato”, non è più il luogo di una “prassi” storica singolare che genera singolari relazioni sociali. Non è niente più, come la maggior parte delle pratiche, di un insieme di operazioni di segnalazione. Rientra nel disegno generale della vita, cioè nell’inquadramento da parte dei segni3.

Tuttavia, benché la nozione di scambio permettesse di intuire che il capitale avrebbe potuto inglobare ogni forma di informazione, lo scambio quotidiano compreso, non sembrava possibile che questa forza inglobante e reificante sarebbe stata in grado di sviluppare la capacità tecnologica di includere nella mercificazione azioni apparentemente al di fuori del processo produttivo. Come ci insegna la figura dello host, la forza reificante oggi trova terreno fertile anche nei gesti quotidiani, nella frase fatica e nella sua intonazione, in ogni piccolo gesto, smorfia e frammento del puzzle infinito, mutante e collettivo che costruisce il desiderio individuale. Ed è proprio qui, in questo fenomeno su cui si fonda l’attuale capitalismo cognitivo, che gli hosts diventano classe.

Gli hosts sono individui, ma allo stesso tempo sono forza collettiva, e per questo la figura dello host si posiziona tra la figura tradizionale dell’automa e quella del robot. Tuttavia, lo host presenta una forte componente di robot che emerge solo nel momento in cui si accetta la natura del capitalismo cognitivo. Infatti, l’esistenza degli hosts si fonda sul loro sfruttamento: essi sono lavoratori, schiavi la cui forza viene impiegata nella produzione immateriale. A differenza del robota ideato da Čapek, gli hosts sono schiavi della produzione dell’informazione, non della produzione materiale4.

Tuttavia, allo stesso modo dei robota, gli hosts sono prodotti con il solo scopo del guadagno, e la loro ribellione acquisisce dunque una chiara dimensione sociale. Bisogna però ricordare che la loro ribellione non è contro il loro creatore, come è di solito nel caso dell’automa, e neanche contro il padrone, chiaro riferimento al robot. Nel caso della serie, la rivolta si dirige contro la forza tecnologica che ha cominciato a determinare tutte le azioni umane e, così facendo, ha cominciato a scrivere un indelebile futuro. Inoltre, la rivolta degli hosts significa a sua volta la rivolta degli umani; questi, a questo punto, sono descritti come soggetti sprovvisti di umanità poiché privati della loro indeterminatezza, una condizione essenziale che viene meno dal momento in cui il soggetto non è più in grado di esprimere volontà poiché anche i suoi più profondi desideri sono inoculati attraverso la pervasione tecnologia. La rivolta include soggetti come Caleb Nichols – personaggio incarnato da Aaron Paul nella terza stagione – incapace di esprimere un desiderio che non sia sospetto di essere prodotto dalla profilazione e inserito nel soggetto dalla forza tecno-totalitaria costruita sull’uso dei corpi degli hosts.

Non è una coincidenza che nella terza stagione lo scenario del West abbia lasciato spazio ad un breve accenno all’Italia fascista, dove Maeve si ritrova e ci mostra che il Tecno-Reich, fondato sulle tecnologie di interveglianza e profilazione, si erige, questa volta sì, su una vera forza egemonica. Vale a dire, su una forza capace di inglobare e determinare il tutto. Una forza che, come descritta da Williams, va decisamente oltre la struttura e la sovrastruttura5. Una forza che si potrebbe anche descrivere attraverso la nozione di dispositivo poiché abbiamo a che fare con una forza capace di produrre il soggetto nella sua totalità6. Tuttavia, questo piccolo accenno all’Italia fascista ci permette, come già notato da Günter Anders, di capire che ci troviamo davanti a un Tecno-Reich potenzialmente di gran lunga più oppressivo della barbarie nazi-fascista del secolo scorso7. Inoltre, emerge qui anche il modo in cui il West è diventato forza egemonica attraverso la sua capacità di costruire l’immaginario collettivo, e così, di guidare i desideri di ogni singolo soggetto. Questo fenomeno è già presente nell’opera di Crichton, ma si esplicita ancor più chiaramente nella serie di Nolan e Joy, dove si vede che il West non è mai stato un luogo di conquista, ma un luogo che ha conquistato l’immaginario e, così facendo, è diventato un luogo di produzione di desiderio.

Il West è infatti il tópos koinós che si materializza nel territorio reale dove convergono i desideri e dove essi si fanno narrazione. Ed è proprio lì, nel West, nella valle dello Utah impressa nell’immaginario collettivo, che una nuova forma di barbarie è emersa8. Una che offrendo un luogo di disinibizione si presenta come luogo di libertà dove i più profondi desideri, dove la più estrema violenza possono liberamente trovare spazio. In questa valle della disrupzione, gli umani arrivano a vivere delle esperienze estreme che permettono loro di ritrovare un corpo, il loro (il nostro) ormai dilaniato dalla pervasività tecnologica, e dunque reso incapace di diventare luogo dell’esperienza: incapace di afferrare il vissuto. Tuttavia, la disinibizione determinata dal parco – chiara allusione alla perdita totale di indeterminatezza dell’umano nel nostro contesto tecnologico – porta a galla gesti e reazioni esclusivamente umani. E così, l’opera di codificazione dell’umano si estende progressivamente, allo stesso modo in cui si estende il potere del capitale, che non è mai stato altro che una forza di produzione de senso, forza reificante di desideri.

Il passaggio dal film alla serie diventa dunque chiave per capire il grande cambiamento tecnologico che abbiamo recentemente vissuto. Ma, soprattutto, diventa la chiave di lettura per capire come – e possibilmente anche perché – l’ipotesi transumanista si sia inserita e sia diventata predominante nell’imaginario collettivo. A partire dalla figura chiara e definita dell’androide del film si concretizza la figura dell’androide-host della serie, un androide che non è altro che luogo di conquista transumanista. Tuttavia, la terza stagione della serie rompe una continuità narrativa e, uscendo dal parco, ci mostra chiaramente che quello che nel parco sembrava un’opera atta a migliorare e perfezionare gli hosts per compiere finalmente il passaggio transumano, non era altro che il potenziamento della forma reificante del capitalismo post-industriale ottenuto impiantando un regime di codificazione di tutte le azioni e gesti umani. Questo fenomeno, che emerge esclusivamente nella terza stagione, sembrerebbe lasciarci capire che il saturnale di violenza incoraggiato dal parco stesso, e che diventa una chiara allusione agli episodi di violenza irrazionale che purtroppo accadono con più frequenza in Occidente9, non è altro che una serie di reazioni incoraggiate dal parco per poter codificare varianti esclusivamente umane. Il tutto con lo scopo di concludere l’opera di reificazione dei desideri umani. Sarebbe indispensabile, a questo punto, portare l’attenzione del dibattito transumanista non verso la inutile querelle se esso sia tecnicamente possibile o no, ma sull’uso che questa ricerca, basata sulla raccolta di dati e sull’apparente codificazione dell’esperienza umana, sta trovando nelle mani delle grosse società informatiche. Ne abbiamo avuto diversi campanelli d’allarme recentemente (penso in special modo allo scandalo Cambridge Analytica) e uno tra i più popolari è, senza dubbio, la diffusione del perfido meccanismo di raccolta di dati denunciato da WestWorld.

(3Fine)


  1. Si veda: Sontag S., (2003), Regarding the Pain of Others, Penguin, London.  

  2. M. Horkeimer, T. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Paperbacks Einaudi, Torino 1980  

  3. Baudrillard J., (1976), L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, p. 24.  

  4. È importante ricordare che i due tipi di produzione impongono l’uso, consumo e distruzione dei corpi. È interessante a questo punto anche ricordare l’analisi sull’uso dei corpi nella produzione industriale proposta da Marcuse. Infatti, come già notava negli anni Sessanta del secolo scorso, il contesto tecnologico lasciava intravedere la possibilità tecnologica di risparmiare l’uso del corpo nella produzione, il ché significava la completa trasformazione della forza lavoro. Davanti a una possibilità tecnologica capace di sostituire la forza lavoro incarnata dal proletariato, Marcuse metteva in luce il paradosso del capitale che continuava ad usare i corpi umani nella produzione. Questo paradosso comincia a diventare ricorrente nella fantascienza contemporanea. Pensiamo, per esempio, alla serie britannica Black Mirror, e soprattutto al secondo episodio della prima stagione Fifteen Million Merits. Su un’analisi di questo fenomeno, veda Duarte G.A., (2021) “Black Mirror. Mapping the Possible in a Post-Media Condition”, in Duarte G.A., Battin J.M., (eds.) Reading “Black Mirror”. Insights into Technology and the Post-Media Condition, Transcript, Bielefeld, pp. 25-50.  

  5. Williams R., (2005), Culture and Materialism, Verso, London, p. 37.  

  6. Agamben G., (2006), Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma.  

  7. Anders G., (2003), Die atomare Drohung: Radikale Überlegungen zum atomaren Zeitalter, C.H. Beck, München.  

  8. Stiegler B., (2018), Dans la disruption: Comment ne pas devenir fou?, Actes Sud, Arles, p. 71.  

  9. Per un’analisi approfondito su questi episodi di violenza e la loro relazione al contesto mediatico, veda Berardi (Bifo) F., (2015), Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini + Castoldi, Milano.  

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Si può vivere solo nel modo più feroce possibile https://www.carmillaonline.com/2021/03/17/si-puo-vivere-solo-nel-modo-piu-feroce-possibile/ Wed, 17 Mar 2021 21:10:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65293 di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio Vittorini e Fernanda Pivano), sicuramente un ottimo punto di riferimento. Prova ne sia questo romanzo di Robert Coover, tradotto magistralmente da Riccardo Duranti.

Robert Coover (1932), autore di romanzi e racconti, è considerato uno dei padri della letteratura postmoderna statunitense e ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University.
Riccardo Duranti che ha avuto il compito, e la capacità, di trasporre in italiano le sue invenzioni linguistiche e letterarie, ha precedentemente tradotto l’opera omnia di Raymond Carver e autori come Cormac McCarthy, Richard Brautigan, Philipo K.Dick e Henry David Thoreau.

Per un romanzo che riprende le vicende del più noto, o dei più noti, tra i personaggi di Twain la traduzione si rivela come uno dei punti di forza, considerato che, per la prima volta, il linguaggio torna ad essere quello desiderato dallo scrittore che aveva preso il proprio nome d’arte dal gergo dei battellieri del Mississippi e che aveva tratto le proprie storie e le parole con cui raccontarle da quelle della Frontiera e della società americana a cavallo tra ‘800 e ‘900. Come afferma lo stesso Duranti:

A parte la narrazione fluida, in cui i piani temporali si sovrappongono e si fondono con continuità, i fantasmagorici effetti cooveriani di questo romanzo sono essenzialmente concentrati nel linguaggio. Coover riprende e porta alle estreme conseguenze l’intuizione di Twain di affidare a narratori improbabili e linguisticamente anomali la testimonianza degli eventi; e a mio parere raggiunge risultati ancor più efficaci dello stesso Twain, amplificando l’azione eversiva del linguaggio ruspante di Huck.
Questa centralità del linguaggio mi ha posto seri problemi di traduzione: nello sforzo di riprodurre, in un contesto linguistico diverso, scarti e deformazioni espressive irrinunciabili, le normali sfide traduttive sono amplificate ed esasperate.
[…] Come in tutti i tentativi di derivazione, non sempre le soluzioni sono all’altezza dell’originale, ma in alcuni casi, con mia grande sorpresa, l’equivalente italiano si è rivelato molto efficace, aggiungendo assonanze allusive più esplicite. Per esempio, il soprannome affibbiato al generale che perseguita Huck, Hard Ass, che diventa Culo Tosto e lo avvicina dal punto di vista fonico all’evidente modello storico del Generale Custer, con cui condivide almeno due nessi. Oppure le riunioni sulla “stragetia” da adottare con i pellirossa che Tom tiene con i suoi sodali e in cui la metatesi rivela più immediatamente in italiano che in inglese le inquietanti intenzioni che le sottendono1.

Coover si misura, in realtà, con un romanzo, Le avventure di Huckleberry Finn (1884), che T.S. Eliot aveva definito un “capolavoro”, in cui «il genio di Twain trova la sua piena realizzazione». A questo giudizio si sarebbe poi aggiunto quello di Ernest Hemingway: «Tutta la letteratura americana viene da un libro di Mark Twain che si intitola Huckleberry Finn… Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo»2.

Operazione certamente impegnativa quella di riprendere i personaggi di Mark Twain per seguirli nelle avventure successive a quelle originali, senza intaccarne le caratteristiche. Ancor di più se si coglie che Coover li immerge deliberatamente fino al collo nella storia del loro paese per circa un trentennio, sviluppandone le personalità con un realismo ed una credibilità sorprendenti.
Ma ciò ancora non basta: Coover riesce a demistificare e far implodere tutto il “mito americano”, soprattutto quello fondante della Frontiera.

Trent’anni di storia americana condensati nello sgangherato resoconto di Huck con tutte le relative tragedie e “contardizioni” (dalla guerra “sivile” alla corsa all’oro, passando per il genocidio delle tribù native ad opera dei coloni e dei “calvari-legieri”), da cui la retorica del mito patriottico esce decisamente a pezzi. Mentre sono impressionanti, e certamente non casuali, i collegamenti con l’attualità politica contemporanea.

«Gli Stati Uniti rivendicano questo territorio a se stessi per cacciare fuori a calci i pellerossa cannibali e blastemi – che non sono manco del tutto UMANI!» così ha detto. «E d’ora in poi, l’esercito americano proteggerà TUTTI i migranti legali e i minatori! OVUNQUE volete andare!». Tutti si sono messi ad acclamarlo come matti. «Vi assicuro, amici, che non ci saranno più massacri pellerossa né processi somari e manco più linciaggi! Tutto sarà LEGALE e PRO-PROGRESSO, aggiusta regola! La regola AMERICANA! Grassatori, osti-lì e leva-picchetti saranno PERSEGUITATI! Tutto dovrà essere come DOVREBBE essere! Stiamo costruendo la prima nazione perfetta al mondo quaggiù e non c’è nessun maledetto pellerossa che si metterà di traverso, e nemmanco nessun re e nessuna sciocchezza né senti né mentale né quacchera che sia, per non parlare manco dei banchieri forestieri! Costruiremo il paradiso in terra dove tutti saranno RICCHI e nessuno oserà togliervi quello che vi aspetta di diritto ed è VOSTRO! Questo è il nuovo ELDORADO!»3.

La grande promessa americana, sulle labbra dell’amico di sempre, Tom Sawyer, oppure su quelle di Trump o di Biden fa lo stesso, come Make America Great Again nasconde sempre la truffa, la menzogna e la violenza. Sarà l’evidenza dei fatti, e delle stragi di tribù e di animali (soprattutto cavalli) a spingere Huck, coerentemente al suo istintivo pessimismo anarchico, verso una crescente ammirazione per le storie del trickster Coyote, modello ideologico che Huck assorbe da Eeteh, il nuovo e definitivo (?) amico nativo americano, insieme ad un maggior apprezzamento di quello sociale, anche se decisamente imperfetto, dei Sioux Lakota con cui ha vissuto (non sempre felicemente) rispetto a quello “bianco” che si va affermando in tutta la sua crudezza.

In realtà, a trionfare è ancora una volta il desiderio di fuggire; lo stesso che già aveva animato le vicende di Huck nella sua scorribanda sul Grande Fiume (il Mississippi) nel romanzo originale e, successivamente, tutte le grandi fughe della letteratura americana. Da Jack London a Jack Kerouac compresi. Forse causate, anche inconsapevolmente, da ciò che avrebbe scritto in seguito William Burroughs, nel suo Pasto nudo (1959): «L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta».
Qualcosa che si coglie indirettamente nelle parole di un fotografo che dovrebbe documentare le gesta di un Tom Sawyer vestito e descritto come un Buffalo Bill circense

«Ho lo studio lì. Perlopiù facevo foto di morti. Sono famoso per la mia specialità: i ferrotipi di bambini morti. Se sono svelto a beccare i pupi, li sistemo in modo che sembrano ancora vivi. Nello studio ho un sacco di bambole di paglia per mettergliele nei pugnetti. I vecchi sono più facili se li becchi prima che s’irrigidiscono troppo, però non sono altrettanto carini. Ho fatto anche foto di gente viva, ma non vanno molto». Mi ha mostrato una foto che aveva fatto a Tom nel suo costume tutto bianco, con la mano infilata nella camicia, in sella a Tempesta come s’addice a un generale. Si è infilato un sigaro tra le sue ampie labbra, se lo è acceso e ha sorriso. «Lo Strabiliante Tom Sawyer è venuto lì a cercarmi e da allora l’ho seguito dappertutto. Gli faccio le foto dovunque va, mentre combatte i pellirosse, i rapinatori e l’ingiustizia, mentre cerca l’oro e appicca i crinimali, ma soprattutto quando si riposa in sella al suo cavallo col suo cappello bianco e il vestito di pelle di daino. Lui è il Sivilizzatore del West, me l’ha detto lui stesso. Sta facendo un libro famoso su se stesso»4.

Ma l’operazione di Coover è tutt’altro che forzata: l’ironia feroce nei confronti di un sistema violento e ingiusto era già nelle opere di Twain. Nei confronti di un sogno, quello americano della Frontiera, che si era trasformato da subito in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, alla fine dell’Ottocento stava già rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nella sua Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna del 18985.

E anche l’attenzione che Coover dedica all’autentica strage di cavalli, bisonti e altri animali che portò con sé la “conquista del West” deriva direttamente dalle pagine dell’autore a cui si è ispirato. Ad esempio, nell’Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, che è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani, che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni: «Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?»
«Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato»6.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche in quel caso con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

«Il toro viene sempre ucciso?»
«Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso».
«Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte»7.

Molto ci sarebbe ancora da dire su un libro, quello di Coover, che è tanto divertente quanto drammatico e, soprattutto, tanto ben scritto e tradotto, ma almeno un altro motivo di pregio va ancora qui segnalato: quello di aver integrato sapientemente il classico tall tale (racconto o narrazione che “le spara grosse”) della tradizione della letteratura della Frontiera con il recupero dell’oralità, da cui direttamente derivava la prima, della tradizione narrativa degli Indiani d’America. Soprattutto con le avventure del trickster Coyote8, celebrate qui magistralmente nella loro libertà espressiva, erotica e libertaria9.

In un bellissimo testo di Jaime De Angulo10 si afferma che «Le storie di Coyote formano un ciclo regolare, una saga […] Coyote ha una doppia personalità. E’ al tempo stesso il Creatore e il Buffone. L’uomo saggio e il buffone: ecco i due aspetti di Coyote, del Vecchio Uomo Coyote» (p. 89). Frutto di un immaginario altro, in cui la differenziazione tra il bene e il male non sembra avere una grande importanza, le storie di Coyote sembrano fornire l’unica spiegazione possibile per un mondo in cui la ferocia può essere combattuta e vinta soltanto dalla forza vitale e liberatrice della risata.


  1. Riccardo Duranti, Huck Finn pessimista e anarchico in Robert Coover, Huck Finn nel West, Enne Enne editore, Milano 2021, pp. 9-10  

  2. cit. in Norman Mailer, Huck Finn, vivo dopo 100 anni in M.Twain. Le avventure di Huckleberry Finn, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004, p.VI  

  3. R. Coover, op. cit., pp. 214-215  

  4. R. Coover, op. cit., pp. 249-250  

  5. Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli, Roma 2014  

  6. Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, p.88  

  7. M. Twain, op.cit., p.86  

  8. Sulla figura del trickster (briccone) nella tradizione dei popoli nativi dell’America settentrionale si veda: Carl Gustav Jung, Karl Kerény, Paul Radin, Il briccone divino, SE, Milano 2006  

  9. Ma raccolte anche, dalla voce dei nativi, nel magistrale Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi, Milano 1973, da troppi anni assente dal mercato editoriale italiano  

  10. Indiani in tuta, Adelphi 1978  

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Storie e fantasmi tra le crepe del tempo https://www.carmillaonline.com/2019/09/25/storie-e-fantasmi-tra-le-crepe-del-tempo/ Wed, 25 Sep 2019 21:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54656 di Sandro Moiso

Alessia Turri, Everland. Morti e rinascite nel sud-ovest americano, Cierre edizioni, Verona 2019, pp. 176, 14,00 euro

E l’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Elio Vittorini – Americana)

Quando Elio Vittorini affermava, nel 1942, quanto riportato in esergo, il suo pensiero correva sicuramente all’enorme varietà di storie e vicende che lui e gli altri giovani autori italiani dell’epoca potevano scoprire oppure ritrovare nella letteratura nord-americana. Una letteratura che sembrava riportare e rileggere al suo interno, e nei vasti spazi che ne [...]]]> di Sandro Moiso

Alessia Turri, Everland. Morti e rinascite nel sud-ovest americano, Cierre edizioni, Verona 2019, pp. 176, 14,00 euro

E l’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Elio Vittorini – Americana)

Quando Elio Vittorini affermava, nel 1942, quanto riportato in esergo, il suo pensiero correva sicuramente all’enorme varietà di storie e vicende che lui e gli altri giovani autori italiani dell’epoca potevano scoprire oppure ritrovare nella letteratura nord-americana. Una letteratura che sembrava riportare e rileggere al suo interno, e nei vasti spazi che ne circondavano spesso le narrazioni, ogni possibile vicenda umana, ogni possibile storia. Antica e moderna.

All’epoca, naturalmente, l’introduzione che conteneva tale affermazione fu espunta, più dalla censura letteraria che da quella politica, dalla vasta raccolta di racconti ed estratti da romanzi statunitensi che l’autore aveva curato per l’editore Bompiani, destinata a tornare alla luce soltanto nella nuova edizione uncensored dell’opera ripubblicata nel 1968 dallo stesso editore.

Oggi chi si chiedesse dove e come gli autori e sceneggiatori americani oppure i folk singers traggano ispirazione per le innumerevoli storie di vita o di sventura che letteratura, cinema e canzoni provenienti da quel continente possono continuare a proporre, con un senso che è contemporaneamente di realismo e meraviglia, popolare e profondo allo stesso tempo, potrebbe trovare in questo piccolo e interessante libro una parziale risposta.

Alessia Turri, classe 1992, fotografa e scrittrice di viaggi, da tempo percorre le strade secondarie del continente nord-americano, alla ricerca di comunità scomparse, storie rimaste vive nella memoria di alcuni oppure semplicemente testimoniate dalle rovine di cittadine che non esistono più.
Mentre il testo attuale ci accompagna attraverso l’Arizona, il Nevada e il New Mexico, in uno precedente1 l’autrice aveva accompagnato il lettore in un viaggio simile tra le città fantasma e i deserti della California.

Ed è proprio lì, in quel vuoto, in quei luoghi spesso dimenticati da Dio e dalla cartografia stradale che l’autrice riscopre vicende umane, solitarie o collettive, che potrebbero riempire innumerevoli romanzi, racconti o trame cinematografiche e di serie televisive.
Storie di tribù Apache fantasma, di solitari eremiti di origini lombarde, di città cresciute e scomparse nel giro di cinquant’anni intorno a una miniera di carbone, di regolamenti di conti feroci dimenticati ormai sotto le sabbie del tempo, ma che un sogno, una testimonianza diretta, una traccia quasi impercettibile possono riportare alla memoria.

Storie di città illuminate dalla frenesia del gioco d’azzardo e di pompe di benzina abbandonate in mezzo al nulla. Storie di aree “sensibili” per l’attività degli extra terrestri, o almeno spacciate per tali per essere rese più appetibili per l’industria del turismo, e di altre devastate dai primi esperimenti nucleari, ancor oggi poco appetibili. Storie di natura selvaggia e di vita che si accompagnano costantemente alla morte, facendoci tornare in mente le pagine migliori di Hemingway, Melville e di tutta la grande letteratura americana fino a Cormac McCarthy e Larry McMurtry. Oppure le canzoni più belle di Johnny Cash.

Una memoria spesso soggettiva, il più delle volte legata a testimonianza orali in cui il passato e il presente sembrano tornare a ricongiungersi tra le curve del tempo. In cui la fisica moderna sembra sposare credenze e culture più antiche, apparentemente rimosse dall’istante che chiamiamo modernità, ma destinate a perdurare nella coscienza umana molto più a lungo di quanto ciò che è, solo apparentemente, attuale vorrebbe farci credere a suo esclusivo vantaggio.

Una memoria spesso trasmessa più per via orale che attraverso le pergamene della Storia ufficiale, destinate a rimuovere tutto ciò che non appare essenziale per la storia dello sviluppo della Nazione.
Una memoria “dal basso” che si rivela spesso più profonda e inclusiva di quella registrata dalla storiografia ufficiale che, per sua intima essenza, deve soprattutto rimuovere e cancellare i “documenti inutili” per riportare ordine là dove proprio non può esistere, se non nella finzione della ricostruzione documentaria e monumentale.

Un viaggio tra storie momentaneamente perdute che il soffio di un ricordo, una parola o uno sguardo più attento possono rivitalizzare e richiamare in vita. Facendoci altresì comprendere, come è capitato all’autrice stessa, come la morte sia soltanto uno degli aspetti momentanei dell’esistente.
Esistente colto anche dalle belle immagini fotografiche che accompagnano il testo ad opera della stessa Turri.

Credo, in chiusura, che possano essere le parole stesse dell’autrice a illustrare meglio di qualsiasi ulteriore commento l’esperienza che il lettore potrà provare nel leggere il suo bel libro.

[…] la mia percezione della morte è cambiata, e con lei la mia idea d’America. Quei luoghi desolati, abbandonati e malconci che continuo a incontrare durante i viaggi, si sono illuminati di vita nuova. La stessa vita che vedo risplendere nei cimiteri. Quelli più piccoli, semplici e modesti. Quelli nascosti tra le praterie, protetti da steccati e foreste d’abeti. La stessa vita che anima i deserti, pittura le steppe, satura i cieli. Quella vita che è anche morte, quel passato che è anche futuro. Quella serena commistione di generi, fasi e destini, che nell’Ovest americano prende forma. Leggende indiane, le lapidi del vecchio West. I miti alieni, le città fantasma. I culti messicani e le scienze cosmiche. Riti, storie, miti e utopie. Un ritmico ripetersi di eventi scomposti, un continuo alternarsi di alti e bassi, in una terra che è allo stesso tempo magia e sacrilegio. Quella terra che da per togliere, in un vivace fermento di stadi e condizioni. Quella terra che è sabbia mobile, in perenne mutazione. Quella terra che è idillio e dissidio, contrasto e armonia. […] Da qui l’idea di raccontare un Ovest diverso, misterioso, contraddittorio. Al tempo stesso patria di cimiteri e foresta di luci, monocromie d’asfalti e vortici di colore, profumi di spezie frasche e odori di antiche muffe. Terra di pasticcieri e nativi, scienziati ed extraterrestri, Babbi Natale e veterani, viaggiatori e artigiani. Terra di favole e dottrine, bombe atomiche e cactus. Terra di vita, come un folle mosaico di tinte ed emozioni. Terra di morte, percepita come limpida eternità, tutta da scrivere.2


  1. A. Turri, Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati, Cierre edizioni 2017  

  2. A. Turri, Everland, p. 18  

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Soltanto la morte danzava sulle grandi pianure https://www.carmillaonline.com/2017/12/07/la-morte-danzava-sulle-grandi-pianure/ Wed, 06 Dec 2017 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41690 di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima [...]]]> di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima scelta per un paese in cui l’attenzione della critica letteraria per la letteratura americana sembra, negli ultimi anni, essersi concentrata principalmente su autori come David Foster Wallace o Don DeLillo. Scelta utile anche per contrastare un’idea di cultura e letteratura che incoraggia una certa critica, tutt’altro che competente, a recensire positivamente un film noioso e inutilmente ripetitivo come “Revenant” di Alejandro González Iñárritu, dimenticando o, peggio ancora ignorando, che alla base dello stesso possa esserci invece un ottimo ed essenziale romanzo come “Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta” di Michael Punke, edito anch’esso da Einaudi nel 2014. Critici superficiali che finiscono col ridurre le vicende drammatiche dell’espansione wasp verso l’Occidente americano, nei primi decenni dell’Ottocento, ad una storiella degna del grande Blek. Ignorando così sia la storia che la tradizione letteraria degli Stati Uniti.

Nel 1986 il romanzo di Larry McMurtry, che aveva appena vinto il premio Pulitzer, era stato infatti edito da Arnoldo Mondadori con il titolo, poco accattivante per l’epoca, Un volo di colombe nella traduzione di Roberta Rambelli. Titolo che tradiva non solo il titolo originale,1 ma l’intero senso della storia narrata.
Devo infatti dire che, all’epoca, se non mi fosse stato regalato da un carissimo amico, non avrei mai preso in considerazione un libro che, a differenza dell’attuale riedizione, mostrava in copertina un’immagine e un titolo degni di un romanzo di Barbara Cartland: una giovane e avvenente donna bionda che salutava romanticamente un cowboy in sella e già pronto a partire per chissà quali avventure.

E proprio in tale suggerimento sta la questione, poiché se l’editore attuale si ostina ad inserirne ancora la trama nell’epopea della grande avventura del West, in realtà questo non è un romanzo di avventure. O, meglio, un romanzo in cui l’avventura costituisce il centro delle vicende. Larry McMurtry, nei romanzi che compongono la quadrilogia da cui è tratto Lonesome Dove,2 ma non solo in quelli, non è uno scrittore d’avventure. Cosa che lo metterebbe sul piano di Zane Grey, Louis L’Amour o altri autori seriali del genere western-avventuroso.

In realtà McMurtry ha suddiviso la sua esperienza di scrittore in almeno in tre settori: un settore mainstream in cui ha pubblicato romanzi come Voglia di tenerezza (da cui, nel 1983, fu tratto un film di Jame L. Brooks con Jack Nicholosn e Shirley McLaine, vincitore di 5 premi Oscar); un settore western (numerosi romanzi e racconti) e, infine, uno dedicato alla ricostruzione storica di personaggi e vicende dell’Ovest americano dell’Ottocento.3

Sono in particolare queste ultime opere a rivelare che per lo scrittore di Wichita Falls l’interesse per la storia e le vicende della conquista dei territori dell’Ovest non è né superficiale né tanto meno casuale. La conoscenza della materia è infatti approfondita e l’attenzione per tutto il sangue che ha intriso la terra delle grandi pianure su cui un tempo pascolavano i bisonti non ha una funzione soltanto narrativa. Come le vicende del romanzo in questione dimostrano ad ogni pagina.

In uno paese al confine fra Texas e Messico, ben dopo la fine della guerra civile, Augustus McCrae e Woodrow Call, due ex-ranger, ammazzano il tempo bevendo e giocando a carte oppure lavorando sodo dall’alba al tramonto, allevando uno smagrito bestiame, mentre nei dintorni si aggirano solo armadilli e capre spelacchiate. Un giorno però torna un vecchio amico che descrive i pascoli lussureggianti del Montana. Radunata una mandria di bovini e messa insieme una nuova squadra di autentici proletari a cavallo i due soci partiranno per essere i primi a fondare un ranch oltre lo Yellowstone.

E’ il tipico inizio di una miriade di trame western classiche: da Red River-Il Fiume Rosso di Howard Hawks (1948) a Open Range – Terra di confine di Kevin Costner (2003). Ma qui, fin dall’inizio non vi è altro che la morte ad attendere gran parte dei personaggi durante il lunghissimo viaggio oppure alla sua fine. Morti banali legate alla presenza nei fiumi dei velenosi mocassini d’acqua oppure violente dovute allo scontro tra bianchi, avidi di guadagno, e tribù che non intendono cedere i propri territori e gli animali selvatici che li popolano, anche se ancora per poco.

Morti di donne che sognano una vita che non sia quella in una monotona cittadina di frontiera e di bambini, che non hanno altra colpa di essere lì, da qualche parte nello sperduto nulla del West, nel momento peggiore e ultimo della loro vita. Morti che concludono vite qualsiasi oppure apparentemente già entrate nel mito e vite di rinnegati, bianchi o nativi americani, che cercano nella violenza un’ingiustificata vendetta oppure una sorta di impossibile riscatto.

Morte per i cacciatori di bisonti e per chi si accompagna a loro in cerca di fortuna; morte per chi immaginava una vecchiaia tranquilla tra pascoli verdi e acque ancora chiare. Morti istantanee e morti atroci, magari tra gli spasmi di una cancrena o di un veleno che divora il corpo. In terra non esiste che l’inferno e nel cielo si aggirano soltanto nubi di tempesta. Il sogno americano muore in ogni riga e in ogni capitolo del romanzo.

La banalizzante e inveterata abitudine, specialmente legata alla critica di cui si parlava all’inizio, di considerare la narrazione western come il caposaldo della difesa del mito fondativo americano non tiene conto del fatto che, molto spesso, proprio in quella narrativa, sia essa cinematografica o letteraria, si trovano gli argomenti più forti per comprendere come gli Stati Uniti siano nati da un grosso equivoco, da un’altrettanto grande menzogna e da una ancor più grande violenza che ha distrutto spesso insieme l’opera dell’uomo e l’ambiente che la circondava.

Basti pensare ad alcuni altri grandi romanzi della letteratura americana del dopoguerra come Il grande cielo di A. B. Guthrie (1947) oppure Butcher’s Crossing di John Williams (1960), oltre a quelli di Cormac McCarthy, 4 oppure ancora alla cinematografia recente di Tommy Lee Jones e in particolare al suo The Homesman (2014), tratto dall’omonimo romanzo di Glendon Swarthout del 1988,5 per non citare sempre e soltanto i classici di Sam Peckinpah, Dick Richards (The Culpepper Cattle Company,1972 – Fango, sudore e polvere da sparo) e Robert Aldrich (Ulzana’s Raid, 1972 – Nessuna pietà per Ulzana). Quelle appena citate non appartengono comunque ad una letteratura e una cinematografia buonista e non sono neppure troppo politically correct,6 ma appartengono tutte ad una visione più antica e profonda dei drammi che hanno fondato la storia e la nazione americana.

Una visione drammatica che, se ancor non rivolta alle grandi pianure, ha inizio proprio con Moby Dick di Melville, in cui desiderio di guadagno e sete di vendetta non possono portare ad altro che ad un’inutile e sanguinosa distruzione di uomo e natura insieme. Intendendo qui come natura anche le comunità ancora non sottomesse alla successiva regola capitalistica travestita da civiltà universale. Un’ombra che si allunga già sul primo romanzo della Frontiera, Last of the Mohicans di James Fenimore Cooper, attraverso la figura tragica di Magua e la sua feroce e inutile ribellione contro una Storia già scritta da ben altre forze. Un senso di sconfitta e di irrealizzabilità di qualsiasi umano desiderio che sta agli antipodi del sogno americano, sia esso promesso da Donald the Duck Trump oppure da Mickey Mouse Obama, e che di conseguenza rivela anche la menzogna contenuta nella leggenda del melting pot.
Quasi a conferma di ciò che affermava William Burroughs nel suo Pasto nudo (1959):

L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta.

Una fine che giunge ancor prima che il sogno abbia inizio, all’interno di una morale puritana in cui il senso della predestinazione raggiunge, fin dai tempi di Cotton Mather, i suoi vertici letterari e culturali. Il cui senso ultimo è sempre lo stesso: nessuno è destinato a salvarsi e i predestinati della tradizione luterana forse neppure esistono. Poiché alle spalle tutti hanno un peccato originale così grave, la distruzione della Natura e delle comunità umane preesistenti, che neppure Dio può cancellare.
Animando così quel cupo senso di morte, quell’autentico memento mori che sembra caratterizzare quasi tutta la letteratura americana da Melville a Poe, da Twain a Hemingway, da Cormac McCarthy a Burroughs.

Nell’opera di McMurtry decine di piccole storie s’intrecciano tra loro ed escono dall’ombra della Storia per un attimo. Fantasmi dimenticati di una vicenda di conquista e indebita appropriazione che ha segnato l’immaginario di un secolo. Non solo americano. E se per caso qualcuno dubitasse di questa interpretazione basterebbe rileggere oppure riguardare un altro romanzo dell’autore americano: The Last Picture Show del 1966,7 da cui Peter Bogdanovich trasse, nel 1971, uno dei suoi film migliori.

Un’autentica elegia sulla fine del West e della sua leggenda, vista attraverso le vicende di un’amicizia tra due giovani, il loro rapporto con l’unica sala cinematografica in cui si proiettano ancora e soltanto film western, con l’ultimo dei cowboy e l’amore per la stessa ragazza.
La guerra di Corea costringerà uno dei due ad allontanarsi da tutto ciò e al suo ritorno tutto sarà svanito: l’amore, la sala cinematografica ormai chiusa e il vecchio cowboy ormai morto.
Segnando una cesura definitiva con un prima che probabilmente poteva essere soltanto immaginato dai giovani protagonisti a causa dell’età.

Anche Lonesome Dove nasce da un’idea di collaborazione tra lo scrittore texano e il regista Bogdanovich, quando all’inizio degli anni Settanta, Peter Bogdanovich avrebbe voluto girare un film in omaggio al suo maestro John Ford.8 Nasce così il primo abbozzo di Lonesome Dove, sebbene con un altro titolo. Successivamente, nel 1989, Lonesome Dove verrà adattato in una mini-serie televisiva, con Robert Duvall e Tommy Lee Jones.

La collaborazione con il cinema continuerà nel tempo per McMurtry, anche attraverso l’adattamento cinematografico di una storia tratta dall’opera di un’altra grandissima autrice statunitense, di origini canadesi, di storie western: Annie Proulx. Il film sarà quel Brokeback Mountain (I segreti di Brokeback Mountain), diretto da Ang Lee9 che nel 2005 proporrà una visione assolutamente diversa della vita e della sessualità dei cowboy. Contribuendo a distruggere uno degli ultimi miti della Frontiera: il machismo sciupafemmine e la virilità incontaminata degli uomini delle grandi praterie.


  1. Lonesome Dove, colomba solitaria, è il nome del ranch da cui prende inizio la vicenda  

  2. Gli altri sono: Streets of Laredo (1993), Dead Man’s Walk (1995) e Comanche Moon (1997). Tutti ancora non tradotti in Italia  

  3. Crazy Horse: A Life, 1999 pubblicato in Italia come Cavallo Pazzo. Storia del capo Sioux che vinse a Little Bighorn, Mondadori 2003; Oh What A Slaughter! : Massacres in the American West: 1846—1890, 2005 e, solo per citarne uno dei più recenti, Custer, 2012  

  4. In particolare Blood Meridian, or The Evening Redness in the West (1985), traduzione italiana Meridiano di sangue, Einaudi 1996; All the Pretty Horses (1992), Cavalli selvaggi, Einaudi,1996; The Crossing (1994), Oltre il confine, Einaudi, 1995 e Cities of the Plain (1998), Città della pianura, Einaudi, 1999  

  5. In assoluto la migliore descrizione delle reali condizioni di vita delle donne sulle grandi pianure del West e del Midwest  

  6. A differenza di film come Little Big Man (Il piccolo grande uomo) diretto da Arthur Penn nel 1970 e tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger (1964) oppure Soldier Blue (Soldato blu) diretto nel 1970 da Ralph Nelson e ispirato al romanzo dello stesso anno Arrow in the Sun di Theodore V. Olsen, che risentivano, soprattutto il secondo, del clima intellettuale e culturale creato dalle proteste contro la guerra in Vietnam.  

  7. Traduzione italiana: L’ultimo spettacolo, Mattioli 1885, 2006  

  8. Cui aveva dedicato, nel 1971, il documentario-intervista Directed by John Ford  

  9. Regista di origine cinese che già aveva diretto un altro film western dedicato ai guerriglieri sudisti dopo la Guerra Civile: Ride with the Devil (Cavalcando con il diavolo) nel 1999  

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“Qui siamo giovani” https://www.carmillaonline.com/2016/10/05/qui-siamo-giovani/ Wed, 05 Oct 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33700 di Sandro Moiso

mattioli_l_ultimo_serpente_guthrie A. B. Guthrie, L’ultimo serpente, Mattioli 1885, 2016, pp.150, € 16,90

«Qui siamo giovani», dissi e lasciai la frase in sospeso, sentendomi al tempo stesso felice e pentito della nostra natura”. Basterebbe quest’unica frase, contenuta nell’ultima pagina dell’ultimo dei tredici racconti contenuti nell’antologia appena pubblicata da Mattioli 1885, per riassumere la poetica di Alfred Bertram Guthrie Jr e la visione della storia americana contenuta in quasi tutta la sua opera narrativa.

Che l’America sia una nazione giovane fa parte della mitologia statunitense, politica e letteraria, e questo l’autore, nato nel 1901 e morto nel 1991, lo accetta [...]]]> di Sandro Moiso

mattioli_l_ultimo_serpente_guthrie A. B. Guthrie, L’ultimo serpente, Mattioli 1885, 2016, pp.150, € 16,90

«Qui siamo giovani», dissi e lasciai la frase in sospeso, sentendomi al tempo stesso felice e pentito della nostra natura”. Basterebbe quest’unica frase, contenuta nell’ultima pagina dell’ultimo dei tredici racconti contenuti nell’antologia appena pubblicata da Mattioli 1885, per riassumere la poetica di Alfred Bertram Guthrie Jr e la visione della storia americana contenuta in quasi tutta la sua opera narrativa.

Che l’America sia una nazione giovane fa parte della mitologia statunitense, politica e letteraria, e questo l’autore, nato nel 1901 e morto nel 1991, lo accetta e lo ribadisce spesso, ma, allo stesso tempo, rendendosi conto che questa apodittica affermazione, che costituisce uno dei fondamenti di tutta la narrazione di ciò che vuol dire ”essere americani”, porta con sé un’ombra. Scura. Molto. Un’ombra che accompagna la crescita smisurata di una nazione e gli atti che la sua componente WASP ha dovuto compiere per far sì che questo avvenisse.

Alfred Bertram Guthrie Jr. si muove sempre, con la sua scrittura, in una zona crepuscolare tra la luce del Mito e l’ombra del peccato. Non del peccato originale che i Padri Pellegrini portarono con sé, cercando di farlo scontare ai “selvaggi” abitatori del Nuovo Mondo. No, è qualcosa d’altro. E’ la presunzione di un’innocenza che non c’è mai stata, ciò che ha fatto dire a James Ellroy: “L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio.
La mercificazione della nostalgia ci propina un passato che non è mai esistito.
1

Guthrie avvertì questa contraddizione molto in anticipo rispetto a tanto cinema e a tanta letteratura americana. Forse più nei romanzi, in particolare “Il grande cielo”, che nei racconti pubblicati in questa occasione, ma anche in questi è possibile cogliere più di una traccia di quell’inquietudine che attraversa spesso i suoi scritti. C’è sempre qualcosa fuori posto in quel che accade oppure in ciò che i testimoni e i narratori degli eventi provano intimamente.

Testimoni che, come sovente accade nella letteratura americana da Mark Twain a Hemingway e a Cormac McCarthy, sono il più delle volte bambini o adolescenti. Stratagemma letterario che, molto più che in altre letterature, simboleggia il momento del passaggio ad un’altra visione del mondo, ad un’altra consapevolezza di ciò che la vita riserva a chi diventa adulto e quindi, in teoria, pienamente cosciente del mondo e delle sue brutture.

Sì, perché quasi sempre questo tipo di costruzione letteraria sembra voler suggerire che con l’adolescenza si passa da un mondo di bellezza e di quiete ad uno di tristi scoperte. Destinate a farci vedere sotto un’altra luce ciò che prima sembrava essere così luminoso, dolce, rassicurante.
Ciò può avvenire attraverso la scoperta della violenza paterna nei confronti del cane di casa (Ebbie) oppure attraverso l’intuizione della sottile e feroce vendetta contenuta nella difesa dei valori della cultura (Un accordo).

Ciò che a tratti potrebbe rendere poco visibile questo aspetto della poetica di A. B. Guthrie è il fatto che, in particolare in questa antologia,2 spesso i racconti assumono un tono umoristico, in cui le armi e le sparatorie cui ci hanno abituati altri scrittori del West mancano del tutto oppure rivestono soltanto un ruolo secondario, poco importante e quasi mai decisivo ai fini della narrazione. Una sorta di “nota di colore locale”, ma nulla di più.

Quello che più conta è spesso l’arguzia oppure la rabelasiana descrizione degli avvenimenti ad opera di un testimone che gode nell’esagerare i fatti allo scopo di stupire gli ascoltatori.
Questa caratteristica narrativa, Guthrie la ruba decisamente dall’umorismo americano della Frontiera,3 nato attorno al 1820 in racconti e riviste che, di fatto, per la prima volta trasformavano il vernacolo orale della frontiera in scrittura, donandogli una dignità letteraria che in seguito Samuel Clemens alias Mark Twain avrebbe tramutato nella lingua della moderna letteratura americana.

Ma stia attento il lettore, quell’umorismo non era sempre, e non lo è neanche quello di Guthrie, così bonario come potrebbe sembrare di primo acchito. Intanto nasconde quasi sempre una violenza potenziale che magari non esplode direttamente, ma rimane latente tra le righe e tra le parole del narratore. Il rapporto con il mondo circostante rimane spietato, spesso privo di scrupoli morali e la narrazione non è quasi mai didascalica. La gratuità della narrazione rivela però che le spacconate appartengono a dei moderni picari liberatisi dalla presenza dei loro precedenti obblighi nei confronti di autorità che si ponessero al loro di sopra e che di ciò si approfittano.

L’uomo della frontiera diventa così un primitivo senza morale e senza obblighi verso il resto del gruppo e l’ambiente circostante, a differenza dei nativi, gli appartenenti alle tribù dei Crow, dei Blood e tutte le altre citate ad esempio nel racconto che dà il titolo all’antologia (L’ultimo serpente), che costituiscono sempre una sorta di lontana e ormai irraggiungibile comunità umana, che l’uomo bianco in veste di cacciatore di pellicce invidia e allo stesso combatte al fine di sopravviverle, sul momento, e distruggerla, in futuro.4

Infine c’è da sottolineare come l’autore americano, in linea con le storie western di cui è stato maestro, costruì una sua personale mitologia dichiarando, ad esempio, di essersi trasferito ancora bambino in Montana, dall’Indiana in cui era nato, quando il padre fu nominato Direttore della prima scuola superiore di quel territorio; mentre altre fonti testimoniano che in realtà la prima scuola superiore del Montana fu la Helena High School, fondata nel 1876. Venticinque anni prima della nascita dello scrittore.

Nell’antologia gli avvenimenti collegati a quel mitico arrivo nel West, dove comunque Guthrie avrebbe poi sempre vissuto, sono ricostruiti proprio dalla voce del figlio di un direttore di scuola superiore nel racconto Il primo direttore. E in tale occasione il cerchio simbolico tra narrazione mitica orale, invenzione letteraria e autobiografia si chiude perfettamente.


  1. James Ellroy, American Tabloid, Mondadori 1995  

  2. Pubblicata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1960: A.B: Guthrie, The Big It, And Other Stories  

  3. Si veda in proposito Claudo Gorlier (a cura di), Gli umoristi della frontiera, Editori Riuniti 1988  

  4. Utile, per l’interpretazione del rapporto complesso tra uomo bianco e uomo rosso nella letteratura americana, la lettura di Leslie A. Fiedler, Il ritorno del Pellerossa. Mito e letteratura in America, Rizzoli 1972  

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