Werner Herzog – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 The Shrouds (2024). Il corpo, oltre l’ultimo respiro https://www.carmillaonline.com/2025/04/13/the-shrouds-2024-il-corpo-oltre-lultimo-respiro/ Sun, 13 Apr 2025 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87864 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film il regista canadese ha aggiunto alla sua produzione un ulteriore episodio, portando la macchina da presa sin dentro la tomba, in quell’ultimo prolungamento di presenza del corpo ancora soggetto alla trasformazione nel suo lento e inesorabile processo di dissoluzione finale. Il desiderio di dare a vedere gli splendori e le mostruosità delle mutazioni del corpo umano in vita si è spinto alla sua ultima metamorfosi, prima della definitiva scomparsa.

Pensato inizialmente come opera seriale televisiva, The Shrouds (2024) si è trasformato in un film, presentato in anteprima al 77º Festival di Cannes nel 2024. Questa ultima produzione cronenberghiana ruota attorno alla figura di Karsh (Vincent Cassel), produttore di video industriali, che, dilaniato dalla perdita della moglie Becca (Diane Kruger), decide di costruire una futuristica necropoli dotata di una tecnologia, denominata Grave Tech, in grado di mostrare in tempo reale la decomposizione dei cadaveri avvolti all’interno di avveniristici sudari.

Nel momento in cui tale innovativa tecnologia si appresta ad essere lanciata sul mercato internazionale e dunque, potenzialmente, a divenire una modalità di sepoltura diffusa almeno tra chi può permettersi i costi, alcune di queste avveniristiche sepolture vengono profanate. Tentando di individuare i responsabili del gesto e di comprenderne le motivazioni, il protagonista si trova a fare i conti con una serie di ipotesi che contemplano non meglio definiti gruppi ecologisti antitecnologici, hacker al soldo dello spionaggio di potenze straniere e segrete sperimentazioni mediche, oltre che gelosie e risvolti passionali inconfessati di amanti ed ex coniugi che toccano i protagonisti del film, inducendo Karsh a riflettere sulla sua attività imprenditoriale e sul senso del prolungare il rapporto con il corpo dell’amata per via scopica.

Se tradizionalmente i sudari (shrouds), a cui ricorrono diversi riti funebri, intendono celare il volto dei defunti, nel film, nella loro variante tecnologica, questi manifestano, al contrario, l’intenzione di rivelare, insieme al volto ed al resto della salma di chi ha perso la vita, la “morte al lavoro”, nel suo atto di trasformare e consumare quel che ancora resta dell’essere umano dopo l’ultimo respiro, il corpo.

L’avveniristica tecnologia capace di prolungare il contatto visivo con il corpo intende soddisfare la necessità di mantenere il legame con il corpo di una persona cara, nell’incapacità di pensarla, anche nel ricordo, oltre ad esso. Per il protagonista del film, il corpo della moglie defunta resta l’unico, straziante, ancoraggio possibile all’amata; le immagini che mostrano in diretta il suo processo di deterioramento divengono, dunque, un ultimo disperato tentativo di prolungarne la presenza corporea.

Come ribadito tante volte dal cinema cronenberghiano e dallo stesso autore, il corpo resta la vera essenza dell’essere umano, la sua identità1. Un corpo destinato a trasformarsi in continuazione in vita come, per qualche tempo, dopo il sopraggiungere della morte, prima che di questo scompaia ogni traccia.

Karsh realizza una necropoli dalle forme minimaliste composta da una serie ordinata di lapidi dotate di monitor attraverso cui, ricorrendo ad una app, è possibile osservare i defunti a cui si è legati. Le sofisticate immagini tridimensionali dei corpi, a differenza di quanto accade nella tradizione che dalle antiche maschere mortuarie conduce alle fotografie post mortem, non mirano alla mummificazione degli effigiati, bensì a soddisfare un voyeurismo necrofilo, un desiderio scopico da consumare in tempo reale al fine di prolungare il rapporto, per quanto esclusivamente visivo, con i corpi dei defunti.

Non sfugge come il desiderio di mantenere il legame con la moglie venuta a mancare si converta in business, a riprova di come anche la morte ed il lutto non tardino ad essere piegati al profitto, né sfugge l’impulso a portare alle estreme conseguenze la pratica di vetrinizzazione ossessiva e continuativa a cui si è votato l’individuo contemporaneo2, in assenza della quale sembra non riuscire più a percepire ed a manifestare al mondo la propria presenza, il proprio esserci e con esso il proprio essere3. Emblematica, in tal senso, la conversazione, al loro primo incontro in un ristornate, tra il protagonista e Myrna Slotnik (Jennifer Dale), in cui i due ironizzano sull’impossibilità che si possano ancora dare “incontri al buio”, stante la possibilità tecnologica di sapere e, soprattutto, vedere tutto della persona con cui ci si incontra per la prima volta.

Come altri film cronenberghiani, The Shrouds mette in scena l’impossibile unità tra entità distinte e la tematica del doppio4 che si palesa non solo nelle due sorelle Becca e Terry, pressoché identiche, interpretate dalla medesima attrice e replicate persino nella grafica di Hunny, l’assistente AI installata sullo smartphone del protagonista, ma anche nel ricorrere, nel ruolo di quest’ultimo, ad un attore, Cassel, duplicante le fattezze del regista stesso.

Se nel film si possono cogliere richiami a celebri doppi femminili hitchcockiani, o a personaggi che si duplicano su più piani visivo/narrativi in film precedenti dello stesso canadese, a rafforzare l’effetto moltiplicatore provvedono i tanti schermi dei dispositivi tecnologici presenti, nonché i momenti di intimità con la moglie che si replicano nelle apparizioni oniriche di Karsh, mentre le menomazioni e le cicatrici di Becca ricompaiono, agli occhi dell’uomo, sul corpo di SooMin Szabo (Sandrine Holt), l’amante che, costretta a cercare il contatto tattile con la realtà e con gli individui, a causa del suo stato di cecità, suggerisce un’alternativa alla dipendenza scopica del protagonista.

Il futuro distopico e ipertecnologico narrato dal film, un futuro assai vicino e simile alla nostra epoca, in cui l’Intelligenza Artificiale ed i più diversi dispositivi digitali fanno parte della sfera più intima degli individui, è ossessionato dalle tombe e dalla morte come negli interstizi più arcani ed arcaici della modernità. Sembra che non ci sia nessuna differenza fra un’epoca digitalizzata e ipermoderna e gli inizi del XVIII secolo in cui si diffuse una vera e propria “epidemia vampirica” soprattutto nell’Europa dell’est5. Se i viaggiatori occidentali, all’epoca, erano ‘contagiati’ dalle credenze e dalle superstizioni delle sperdute lande orientali dell’Europa, laddove si riesumavano i morti e si mutilavano per paura che potessero riemergere dal sepolcro per nuocere ai vivi, in pieno occidente ipertecnologico si costruiscono tombe per poter osservare il processo di decomposizione dei cadaveri.

Quello messo in scena da Cronenberg è un mondo ossessionato dalla morte, che guarda con terrore a ciò che sta sottoterra e desidera tenere sotto controllo i processi di cui sono investiti i corpi nelle tombe: un mondo molto simile a quello degli inizi del Settecento, quando si temevano i vampiri e si riesumavano i morti. Le magiche superstizioni si sono velate di tecnologia ma restano ugualmente crudeli e barbare. L’orrore della modernità si è trasformato in tecnologia. Le paure notturne, il terrore degli incubi, quegli esseri che apparivano nella notte e si posavano sui corpi addormentati gravando su di essi riemergono sotto forma di ossessioni e depressioni legate a un passato irrisolto.

Se le fake news sui vampiri, negli anni Trenta del Settecento, hanno posto le basi per le attuali teorie del complotto6, sembra che queste ultime vadano di pari passo con il miglioramento delle tecnologie. L’aumento della tecnologia e delle innovazioni scientifiche corrisponde all’aumento di un sostrato magico7 lungamente represso che riemerge dalle profondità dei cimiteri. L’uomo digitalizzato, circondato di AI e di smart car che si guidano da sole, di ritrovati tecnologici all’avanguardia, è superstizioso e intriso di arcana magia non meno di un contadino della Slesia del Settecento8. Non a caso, il geniale informatico creatore di AI, Maury (Guy Pearce), è fermamente convinto di essere vittima di una serie di complotti.

Come per altre opere dell’autore, anche da The Shrouds è inutile pretendere maggiore verosimiglianza e definizione negli intrecci complottisti che vengono tratteggiati sommariamente soltanto per fare da sfondo alle questioni che interessano il regista, d’altra parte anche il mondo reale contemporaneo non è particolarmente incline alla plausibilità delle sue spiegazioni, basti pensare, ad esempio, alla narrazione riguardante le carneficine belliche in corso da parte di politici, media principali e narratori ‘alternativi’ da social inclini a limitarsi a ribaltare le versioni ufficiali.

Non è nemmeno impensabile che la smania voyeuristico-esibizionista contemporanea possa spingersi fino a seguire la decomposizione dei corpi oltre la morte, se si pensa che nella realtà vetrinizzata dei nostri giorni c’è persino chi, mosso da un incontenibile desiderio di esibizionismo sui social, non ha esitato a sottoporre al rischio di estinzione un’intera comunità indigena isolata dal resto del mondo al solo scopo di ottenere qualche visualizzazione in più9.

Anche in The Shrouds, come avviene in diverse altre opere cronenberghiane, viene posta una certa attenzione sull’atto del cibarsi da parte dei personaggi. La bocca rappresenta uno dei possibili viatici di accesso all’affascinante mondo interno ai corpi, a quella bellezza celata dall’epidermide a cui hanno fatto esplicito riferimento tanto Dead Ringers (1988), quanto Crimes of the Future (2022). Non a caso, dopo i titoli iniziali avvolti in un suggestivo pulviscolo luminoso ectoplasmatico dal lentissimo andamento spiraliforme, il film si apre su una bocca spalancata da un onirico urlo che si trasforma rapidamente nella cruda ‘realtà’ della cavità orale del protagonista sottoposto alle cure di un dentista, il dottor Jerry Hofstra (Eric Weinthal), che gli rivela come nel marcire della sua dentatura sia possibile vedere uno sorta di somatizzazione della decomposizione della donna amata osservata grazie ai tecnologici sudari.

L’urlo con cui si apre il film può ricordare quello lanciato da Lucy, sempre nei momenti iniziali della storia, in Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog. Qui, dopo una carrellata dalle connotazioni oniriche che riprende in primo piano diverse inquietanti mummie, vediamo la giovane svegliarsi di soprassalto e urlare, come se le immagini mostruose iniziali rappresentassero una prosecuzione ectoplasmatica del vampiro che sta per sferrare il suo attacco. Anche nel film di Cronenberg vediamo delle immagini che mostrano il corpo di Becca all’interno della tomba, un corpo evanescente che sembra uno spettro, una entità incorporea che non possiede assolutamente la fisicità della putrefazione cui lo stesso corpo è sottoposto.

Probabilmente, l’urlo viene lanciato proprio perché quel corpo si è trasformato in una escrescenza vampiresca, in una “mummia del pensiero”, un “automa spirituale” per utilizzare due espressioni usate da Gilles Deleuze riguardo agli esseri sonnambulici di Vampyr. Der Traum des Allan Grey (1932) di Carl Theodor Dreyer10. Come Nosferatu e come la vampira del film di Dreyer, Becca è un “automa spirituale” che riemerge non solo dalla tomba ma anche dal greve passato del protagonista. È un corpo non solo fisico ma anche spirituale perché emerge dalla coscienza ferita del personaggio; è un fantasma, è un corpo-pensiero divenuto spettro e vampiro. Becca assume connotazioni evanescenti e vampiresche anche nelle sue visite notturne a Karsh, al quale si mostra nuda e ricoperta di cicatrici, con un seno e un braccio amputati. Come in Crimes of the future (2022), le ferite e le alterazioni dei corpi sono anche ferite e alterazioni mentali e psicologiche: Becca-vampira è un corpo divenuto pensiero, emerso dalla terra putrescente ma anche dalle malate plaghe della mente del protagonista. È fatta più di pensiero che di carne.

Una delle prime sequenze del film mostra Karsh intrattenersi a pranzo con una donna, Myrna Slotnik (Jennifer Dale), presentatagli dal comune dentista, in un ristorante collocato nel complesso cimiteriale da lui realizzato. In un’elegante sala arredata con gusto minimalista giapponese alle cui pareti sono esposti alcuni esemplari degli inquietanti sudari tecnologici richiamanti antichi costumi orientali, Karsh consuma con fare controllato il suo pasto a minuti bocconi e piccoli sorsi di vino mentre inizia a confidare alla donna quanto ha realizzato per soddisfare il legame viscerale che continua ad intrattenere con la moglie scomparsa, in particolare con il suo corpo.

Che si tratti dei gesti del dentista sulla cavità orale dell’uomo, dei bocconi di cibo e dei sorsi di vino che valicano la bocca, viatico che conduce all’interno del corpo, o dell’osservazione del cadavere in decomposizione della moglie, attraverso orifizi, ferite e lacerazioni Cronenberg continua a condurre con le sue immagini oltre l’epidermide esplorando l’aspetto più corporeo dell’esistenza umana nella sua magnificenza e repellenza, nella sua potenza e vulnerabilità. The Shrouds ribadisce una volta ancora come il corpo resti per Cronenberg l’unico dato dell’esistenza umana a cui è possibile aggrapparsi, almeno finché ne resta traccia.

Il complesso cimiteriale e il ristorante di Karsh sono caratterizzati da linee geometriche e fredde, incastonate in un’architettura dai tratti razionalistici dai richiami orientali, come del resto la stessa abitazione avveniristica del personaggio. Non si può non pensare allora all’istituto di ricerca di Stereo (1969), al centro dermatologico House of Skin di Crimes of the Future (1970), al complesso residenziale delle Starliner Towers di Shivers (1975), alla clinica del dottor Keloid di Rabid (1977) ed al tetragono blocco granitico in cui ha sede la ConSec di Scanners (1981), tutti edifici isolati e caratterizzati da innovative architetture geometriche di stampo razionalista.

Nello spazio ipertecnologico, laddove la stessa tecnologia celebra i suoi fasti erigendosi a ornamento e sollazzo estetico per le frange più ricche della società, molto probabilmente, si cela l’orrore più terribile. Il perturbamento e l’orrore si nascondono negli angoli più razionali e tecnologici, dove i ricchi e i benpensanti, nei loro abiti eleganti, conversano amabilmente davanti a elaborate e costose portate.

Ancora una volta Cronenberg ci mostra come il mostro se ne stia rintanato negli spazi più impensati, nelle vite più regolate e scandite da razionali orpelli tecnologici e digitali. Se in Videodrome (1983) il mostro nascosto nell’intimità degli spazi domestici era rappresentato dallo schermo televisivo, terribile ed inquietante manipolatore degli individui, dei loro corpi e delle loro menti, The Shrouds mette in scena la pervasività dell’intelligenza artificiale che si insinua negli interstizi più privati dell’abitazione del protagonista. Hunny non è altro che una rivisitazione attuale e distopica dello schermo televisivo di Videodrome.

La stessa Tesla guidata da Karsh, lungi dall’apparire come un’icona pubblicitaria utilizzata subdolamente dal regista (niente di più lontano, crediamo, dagli intenti di Cronenberg per quanto notoriamente appassionato di automobili e motociclette), appare come un’auto mostruosa e ‘malvagia’, una versione attualizzata della demonica Crhistine di Christine la macchina infernale (Christine, 1983) di John Carpenter. Mentre il personaggio è alla guida, appare sì in primo piano il volante dell’auto con il marchio di fabbrica ma esso sembra alludere alla mostruosità insita in quello stesso marchio.

Se una volta era il diavolo in persona a guidare le automobili che andavano da sole, come la già citata Christine o la macchina nera dell’omonimo film (The Car, 1977) di Elliot Silverstein, adesso guidatrice fantasma è la tecnologia rappresentata per sineddoche dalle multinazionali automobilistiche, come Tesla appunto, in mano ad Elon Musk, braccio destro di Donald Trump e, come il neopresidente degli Stati Uniti, in prima fila fra le schiere dei negazionisti climatici.

Nel momento in cui Karsh appare ‘prigioniero’ della sua auto, condotto da Maury contro la sua volontà, la macchina da presa inquadra il volante mentre in sottofondo ascoltiamo delle sonorità inquietanti e dalle connotazioni ‘mostruose’, come se l’essere umano alla guida sia in realtà un impotente burattino in mano alla tecnologia che lo sta imprigionando e comandando. L’auto assume connotazioni inquietanti come la vecchia auto guidata da Vaughan in Crash (1996), personaggio mostruoso e quasi novella creatura frankensteiniana. In tale film, l’auto, guidata da quest’ultimo, sembrava quasi una entità infernale che si muoveva da sola.

Non possono che tornare alla mente anche le ‘demoniche’ Tesla di un recente film come Il mondo dietro di te (Leave the World behind, 2023) di Sam Esmail, in cui una schiera di Tesla impazzite a guida automatica rischia di travolgere e uccidere la famiglia protagonista mentre sta fuggendo dalla misteriosa villa in cui si era recata per una breve vacanza.

Se la “nuova carne” era il prodotto più mostruoso di film come Videodrome e Crimes of the Future (2022), adesso, in The Shrouds, la carne sembra essersi ormai decomposta insieme ad ogni residuo di umanità, mentre resta la ‘nuova tecnologia’ che ormai ha fagocitato i corpi e li ha sotterrati insieme a quella stessa umanità ormai putrefatta e dimenticata.


  1. David Cronenberg: «il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci»: intervista rilasciata a Richard Porton, Il regista come filosofo, in D. Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di D. Schwartz, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, p. 270. 

  2. Cfr. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. 

  3. Cfr. E. Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  4. Cfr. A. Chimento, C. Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in L. Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso, Mimesis, Milano-Udine, 2012. 

  5. Cfr. F.P. de Ceglia, Vampyr. Storia naturale della resurrezione, Einaudi, Torino, 2023, p. 20 e seguenti. 

  6. Cfr. ivi, pp. 22-23. 

  7. Cfr. V. Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  8. Cfr. G.N. Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024. 

  9. Cfr. Tenta di contattare una delle tribù più isolate del mondo, arrestato youtuber americano, “Rai News.it”, 7 aprile 2025. 

  10. Cfr. G. Deleuze, Cinema II. L’immagine tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989, p. 190. 

]]>
Uomini e Topor https://www.carmillaonline.com/2023/07/05/uomini-e-topor/ Wed, 05 Jul 2023 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78063 di Franco Pezzini

Roland Topor, La principessa Angina, prefaz. di Carlo Mazza Galanti, trad. dal francese di Federico Musardo e Lucrezia Pei, Cliquot, Roma 2022.

 

«È un romanzo dell’orrore. Il mio trentunesimo, il più riuscito. L’ispirazione mi è venuta da un libro che ho appena finito di leggere, l’ho seguito passo passo. Non può immaginare quanto tatto e quanta sofferenza mi ci siano voluti per eclissarmi dinanzi all’opera di un collega! A partire da una storia molto semplice, ho scritto uno dei vertici della letteratura universale, dove il lirismo più sfrenato si congiunge felicemente con la chiarezza dello stile. Stando [...]]]> di Franco Pezzini

Roland Topor, La principessa Angina, prefaz. di Carlo Mazza Galanti, trad. dal francese di Federico Musardo e Lucrezia Pei, Cliquot, Roma 2022.

 

«È un romanzo dell’orrore. Il mio trentunesimo, il più riuscito. L’ispirazione mi è venuta da un libro che ho appena finito di leggere, l’ho seguito passo passo. Non può immaginare quanto tatto e quanta sofferenza mi ci siano voluti per eclissarmi dinanzi all’opera di un collega! A partire da una storia molto semplice, ho scritto uno dei vertici della letteratura universale, dove il lirismo più sfrenato si congiunge felicemente con la chiarezza dello stile. Stando così le cose, come potrebbero interessarmi ancora gli odiosi microbi che si annidano nei vostri organismi? [N.B.: A parlare è un medico, il dottor Angosci.] Addio!»

«Addio. Lasci la bottiglia, per favore.»

 

Non c’entra direttamente con la citazione in incipit, ma in un episodio straordinariamente visionario e poetico del Casanova di Fellini (1976), il nostro eroe si trova alle prese con la fiabesca attrazione di un circo itinerante: la Grande Mouna, una sorta di immensa balena da esplorare come un tunnel dei misteri, dove il termine triestino mona – sesso femminile ma, nel parlato, sinonimo di stupido – si trasfigura in mouna al filtro linguistico del romagnolo Tonino Guerra e dell’accento inglese sul Tamigi dove la scena si svolge. (Proprio a Trieste, peraltro, da bambino avevo potuto vedere surrealmente esposto in un baraccone in Piazza Unità il corpo olezzante di una balena, con quel tanto di meraviglioso e improbabile che simili spettacoli popolari – oggi, immagino, vietatissimi – comportavano: ovviamente non si entrava dalla bocca ma da un condotto coperto laterale dotato di spioncini.) Memorabile nel Casanova il discorso dell’imbonitore, tra risate e colpi d’occhio della telecamera sul mondo circense onirico, magico (donne in giostra come streghe volanti) e vagamente allucinato che il protagonista ha intorno.

 

The Great Mouna! La regina delle balene! Il Leviatano di Giona! Tutti quanti possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina. Guardate, la sua bocca vi invita ad entrare. Avete paura? Chi non entra nel ventre della balena non troverà mai il suo tesoro: così dice l’antico libro della saggezza. Entrate e vedrete, giù per la gola e ancora più in fondo, nella pancia della Grande Mouna…

La Mouna è una porta che conduce chissà dove, un muro che devi buttare giù.  La Mouna è una ragnatela, un imbuto di seta, il cuore di tutti i fiori.

 

E così via, tra suggestioni varie mitiche e sessuali. L’entrata permette al protagonista in profonda crisi una sorta di fantasioso regressus ad uterum, in tutti i sensi possibili. Ma su un aspetto merita soffermarsi: all’interno della Great Mouna una lanterna magica – strumento eminente di un immaginario precinematografico – presenta una sequenza di tavole (surreali, inquietanti, fortemente oniriche nel cifrare la suggestione dell’organo femminile via via in riposo o dentato, maelstrom o mistero occhieggiante nel buio) di Roland Topor. Del resto un po’ tutto l’episodio, da in lato tanto felliniano, dall’altro può richiamare il tipo specifico di fantasie dell’artista francese di origine ebraica-polacca, nato a Parigi nel 1938. Sull’onda si una simile consonanza nel segno dell’onirico, altre sue tavole verranno preparate per La città delle donne (1980) e il mai realizzato e grondante spiriti Mastorna, e non sembra strano associare un artista tanto visionario a un film esistente solo nei sogni – o incubi – di Fellini e in fondo di un intero orizzonte cinematografico.

Per incontrare sugli schermi Topor in persona (almeno in film di grossa notorietà in Italia, era già stato attore e cosceneggiatore in Le Boucher, la star et l’orpheline, 1975) occorre attendere ancora tre anni, con Ratataplan di Nichetti e soprattutto con il Nosferatu di Herzog, entrambi 1979. Proprio quest’ultimo film, dove Topor interpreta un sovreccitato Renfield, che impazzisce e diventa il conduttore dell’esercito dei topi del conte, dà un po’ l’idea di cosa Topor sia diventato per un cinema che tra gli anni Sessanta e Settanta ha corteggiato in mille forme, autorali o popolari, le ragioni del sogno e del delirio. Anche se nel cinema non mancheranno successive comparsate del geniale artista, e se in generale la sua produzione su grande e piccolo scherma, ma anche a teatro, conoscerà ancora opere irriverenti e coraggiose (si pensi solo a Marquis, 1989, una storia di Sade riveduta e corretta in cui gli autori indossano grottesche maschere animali, e dove Topor è cosceneggiatore e art director), è chiaro che l’epoca a cui si rivolge nel modo più diffuso e di cui restituisce più radicalmente linguaggio e sberleffi è quella dei due decenni Sessanta e Settanta, dal suo primo libro di disegni Les Masochistes (1960) e dalla suo prima novella L’Amour fou (entrambi 1960) alla fondazione con Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky dell’anti-movimento neosurrealista Panique (1962, in risposta a un surrealismo diventato mainstream) fino a una serie di pellicole d’animazione visionarie, corti o lungometraggi come il celebratissimo La Planète sauvage (1973).

Il che non significa ovviamente stralciare la produzione matura di Topor come scarsamente interessante (non sarebbe vero), dimenticare il suo ruolo di agitatore culturale (fino alla fondazione nel 1992 dell’associazione RomaliaisonParis, per l’amicizia fra artisti italiani e francesi e la realizzazione di iniziative comuni) o richiudere l’autore – morto nel 1997 – in modelli sui quali ha invece saputo fino alla fine costruire altro, con la sua esuberante, lisergica fantasia: ma solo cercar d’intercettare i maggiori punti di tangenza tra la sua opera e la nostra vita, l’immaginario in cui siamo stati diffusamente immersi in una certa stagione collettiva e che ci ha offerto miti e sensibilità in anni magari remoti.

Quel Topor inquilino chimerico della postmodernità (dal suo primo romanzo Le Locataire chimérique, 1964, da cui il film L’inquilino del terzo piano di Polański, 1976), nel mixare Arcimboldo e Freud, è anche capace di regalarci la fiaba nera, del tutto folle e a tratti esilarante La Princesse Angine (1967, era apparso in Italia la prima volta nel 1969 per Milano Libri): un testo che lascia incantati e ha il passo sghembo e pirotecnico delle sconclusionate filastrocche della nostra infanzia – o delle grottesche e crudeli nursery rhyme di tradizione anglosassone (chi scrive non conosce abbastanza del panorama della parallela chanson enfantine francofona). In copertina, una delle illustrazioni che ben rende lo spirito di Topor: un volto di profilo, dove i tratti sono formati proprio dalla scritta profil. E le altre tavole trasfigurano scene della storia nel modo più surreale, onirico e – in qualche punto – disturbante: l’eredità dell’antimovimento Panique, in fondo.

Ma, a dar conto di una dignità narrativa pienamente nel solco del surrealismo e della patafisica, il nonsense si fa scampagnata linguistica con continue trovate tradotte con meravigliosa, a tratti fanciullesca ironia dai bravissimi Musardo e Pei: e se i personaggi restano giustamente burattineschi, come enfatizzato nella lanterna magica dell’apparato di illustrazioni dove emerge il Topor più noto, surreale e spiazzante, è impossibile non restare incantati dalla protagonista eponima (dal nome di sindrome ma in radice da angor, afflizione), dalla sua dispettosa grazia infantile, dalla storia della sua fuga su un furgone a forma di elefante con pochi amici fidati, mentre i nemici della Corona tramano contro di lei…

 

«[…] Il Critico, sull’orlo della disperazione, iniziò a girare per le strade alla guida di un rullo compressore. Lo chiamava “fare antiscultura”.»

«Il senso di questo aneddoto mi sfugge. C’è una morale?»

«Ce ne sono molte. Morale, al singolare, è senz’altro immorale.»

«Dopotutto, le resta la letteratura!»

«Sì, però…»

 

…………………………………………………………………………………………………………………..

Bisogna scrivere sulle strisce pedonali per non farsi asfaltare dalla Critica.

…………………………………………………………………………………………………………………..

 

Cercheremo di ricordarcelo. Grazie davvero di tutto, signor Topor.

 

]]>
Spazio disciplinato e spazio libero in “Nomadland” https://www.carmillaonline.com/2021/05/27/spazio-disciplinato-e-spazio-libero-in-nomadland/ Thu, 27 May 2021 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66444 di Paolo Lago

Nomadland (2020), di Chloé Zhao, mostra una significativa contrapposizione di spazi: da una parte c’è lo spazio libero, non incasellato da alcun tipo di controllo sociale; dall’altra, invece, c’è quello regolato dalle dinamiche della ripetitività quotidiana, disciplinato dalle pratiche del controllo e del lavoro. La sessantenne Fern (Frances McDormand), protagonista del film, dopo aver perso una occupazione stabile durante la “grande recessione” che dal 2006 ha colpito duramente gli Stati Uniti, alterna periodi di lavoro stagionale a momenti in cui percorre le lande del Nevada e degli stati dell’Ovest con il [...]]]> di Paolo Lago

Nomadland (2020), di Chloé Zhao, mostra una significativa contrapposizione di spazi: da una parte c’è lo spazio libero, non incasellato da alcun tipo di controllo sociale; dall’altra, invece, c’è quello regolato dalle dinamiche della ripetitività quotidiana, disciplinato dalle pratiche del controllo e del lavoro. La sessantenne Fern (Frances McDormand), protagonista del film, dopo aver perso una occupazione stabile durante la “grande recessione” che dal 2006 ha colpito duramente gli Stati Uniti, alterna periodi di lavoro stagionale a momenti in cui percorre le lande del Nevada e degli stati dell’Ovest con il suo van riadattato a abitazione viaggiante.

Gli spazi della sedentarietà, sottoposti alle regole del controllo, sono fondamentalmente i luoghi di lavoro e gli interni domestici. All’inizio del film vediamo Fern che lavora da Amazon, in un enorme spazio in cui gli addetti sono impegnati a inscatolare gli oggetti che i clienti acquistano online. Il gigantesco capannone di Amazon può essere definito come un “non luogo”, secondo l’efficace espressione di Marc Augé: anche se l’analisi dello studioso francese è prevalentemente incentrata su spazi come autostrade, stazioni, aeroporti e supermercati, si potrebbe osservare che anche un luogo di lavoro come un capannone di Amazon assume connotazioni spaziali diverse rispetto a quelle prettamente moderne di una fabbrica di tipo tradizionale, con la sua catena di montaggio. Come osserva Augé, “se i non luoghi sono lo spazio della surmodernità, questa non può pretendere alle stesse ambizioni della modernità”1. Il termine “surmodernità” (calco del francese surmodernité) è stato coniato da Augé per indicare una fase storica di superamento della postmodernità, caratterizzata dalle dinamiche socio-economiche della contemporanea società globalizzata. Nella “surmodernità”, si potrebbe dire, cambiano anche gli spazi e le modalità del lavoro. Gli impiegati di Amazon sono costretti a trascorrere il proprio tempo lavorativo in uno spazio enorme, svolgendo lavori ripetitivi e usuranti (essendo spesso sottoposti a ritmi di lavoro massacranti, come è emerso da scioperi di protesta da parte dei lavoratori, svoltisi recentemente anche in Italia), non finalizzati alla costruzione di un oggetto-merce, come nella tradizionale catena di montaggio, bensì volti all’impacchettamento e alla spedizione di quegli stessi oggetti già costruiti. Si tratta di un lavoro di vendita realizzato come un lavoro di produzione. Lo stesso spazio del capannone è diverso rispetto a quello di una fabbrica tradizionale; esso stesso è all’insegna di quell’eccesso che, secondo Augé, caratterizza la “surmodernità”: eccesso di spazio, fagocitante e alienante, in cui i tradizionali parametri di orientamento vengono totalmente stravolti, sostituiti da indicazioni di movimento sovrapponibili e sostituibili ogni momento. In un tale spazio, il personaggio di Fern appare continuamente sottoposto a un processo di perdita: del sé, della propria esistenza e della propria personalità. Quest’ultima sembra essere totalmente riconquistata soltanto nei momenti in cui, in solitudine, guidando il suo van, solca i territori degli stati americani occidentali.

Un altro spazio in cui Fern lavora durante i suoi spostamenti è quello dei parchi turistici come addetta alle pulizie. Il parco è una tipologia di luogo che più si avvicina a quelli descritti da Augé, legati alla fruizione da parte dei turisti. Si tratta, fondamentalmente, di lembi di natura che vengono ‘inscatolati’, attrezzati e offerti al turista dietro pagamento: quella stessa natura inscatolata, in fin dei conti, non è poi troppo diversa dagli oggetti impacchettati di Amazon. Fern, anche in questi spazi, appare costretta, come se anche lei fosse stata inscatolata dalle dinamiche lavorative che regolano la società. I veri momenti di libertà, per la protagonista, sono rappresentati dal contatto genuino con la natura: nel parco minerario, quando si allontana dal gruppo dei turisti per passeggiare da sola, inquadrata dall’alto dalla macchina da presa come se facesse parte ella stessa della terra che la avvolge; oppure, anche nel momento in cui si getta nuda in un torrente di montagna liberando il proprio corpo in una sorta di unione con gli aspetti più fisici e corporei di quel territorio che sta percorrendo in lungo e in largo. Il territorio americano, in questo senso, è rappresentato in modo estremamente vitalistico e appare perciò molto diverso, ad esempio, dal paesaggio statunitense mostrato ne La ballata di Stroszek (Stroszek, 1976), di Werner Herzog, in cui le desolate e gelide praterie del Wisconsin sono la cornice ideale per la condizione di marginalità e di terribile solitudine che attanaglia il protagonista. Anche Fern è avvolta da una condizione di marginalità e solitudine (per certi versi, anche autoimposta), ma possiede una profonda forza interiore strettamente legata al territorio.

Un altro luogo sottoposto alle dinamiche del controllo e della sorveglianza, in Nomadland, è quello domestico. Fern rifiuta categoricamente di fermarsi sia nella casa della sorella che in quella di Dave, un attempato viaggiatore che, innamoratosi della donna, la invita a fermarsi con lui insieme ai figli e ai nipoti. La regista è davvero abile nel mostrare due spaccati di vita sedentaria tipicamente americana. Nei momenti della sosta presso la casa della sorella, Fern partecipa con lei e suo marito a una cena all’aperto con barbecue, insieme agli amici della coppia, nel giardino della loro elegante villetta. La macchina da presa la mostra poi in una camera da letto mentre il suo corpo sembra rifiutare la morbidezza accogliente di quello stesso letto. Il corpo di Fern sembra essere in sintonia solamente con gli spazi aperti e naturali, con le lande nomadiche che lei, nuovo “soggetto nomade” della contemporaneità (per utilizzare un’espressione di Rosi Braidotti2), percorre in modo molto fisico e ‘corporeo’. Lo spazio domestico è regolato da numerose regole e convenzioni alle quali Fern non accetta di sottostare: in primis, forse, quelle di un patriarcato familiare che continua a persistere nella contemporanea società occidentale. Perciò, non può fermarsi neppure nella casa che le offre Dave: un altro interno levigato e perfetto, accogliente e protettivo. È emblematico, infatti, che lei abbandonerà la casa al mattino molto presto, quando ancora tutti dormono, mentre sta per scatenarsi un forte temporale. Fern abbandona lo spazio domestico e familiare, caldo e accogliente, per mettersi alla guida e affrontare strade inospitali sulle quali si sta scatenando una pioggia incessante. A uno spazio caratterizzato da calore e accoglienza, nella quale vive la tipica famiglia felice americana, la donna preferisce la propria solitudine e la propria libertà, nonché lo spazio auto-organizzato allestito dagli altri viaggiatori in aree di sosta in mezzo a vastissime lande desertiche. Se – rifacendoci all’analisi offerta da Deleuze e Guattari in Mille Piani – quelli di Amazon e degli interni domestici possono essere considerati come spazi “striati”, sottoposti alle griglie del controllo, quelli desertici e nomadici sono dei veri e propri spazi “lisci”3 , caratterizzati dal movimento incessante dei nomadi (che, secondo gli studiosi, non è comunque per forza associato al movimento spaziale).

Come scrive Franco La Cecla in Mente locale, lo spazio “nostro”, oggi, è sempre meno “nostro”: “Dai marciapiedi alle strade, allo spazio dell’appartamento, al paesaggio urbano in generale, abbiamo a che fare con uno spazio rigido, predeterminato, con una serie di griglie, di incasellamenti e di canali dentro cui, bene o male, si svolge la nostra vita”4. La città moderna impone il passaggio da una concezione di spazio “come ambito manipolabile del proprio abitare a un’idea più astratta e generale di spazio, e quindi anche più impersonale e statica”5. L’unico domicilio ammesso è perciò quello della “residenza”, un domicilio regolarizzato e disciplinato, una vera e propria istituzione6. È a questa istituzione che si oppone Fern: lei e tutti gli altri ‘nomadi’ che vivono nei loro camper, nei loro furgoni e nelle loro automobili e che si ritrovano in spazi auto-organizzati. Infatti, come nota sempre La Cecla, il disciplinamento degli spazi ha prodotto negli ultimi anni delle migrazioni e degli spostamenti continui, volontari o forzati, la cui impronta “non è quella del muoversi dei nomadi ma del vagare di chi si è perduto”7. Ma questo perdersi, per Fern e gli altri ‘nomadi’, possiede una forte impronta costruttiva: spostandosi continuamente, essi si oppongono, in una silenziosa ribellione, al disciplinamento degli spazi, alle residenze, all’esproprio dello spazio che, nella contemporaneità, continua incessantemente ad avvenire. A fronte dello spazio quotidiano manipolato e disciplinato dal potere, essi creano lo spazio libero del loro immaginario, ‘sacro’, per certi aspetti, all’interno di un universo ‘desacralizzato’, un luogo fluttuante e corporeo, come i loro movimenti nomadici sul territorio. I viaggiatori nomadi costruiscono i loro campi come dei villaggi tradizionali antropologicamente connotati, all’interno dei quali lo spazio dell’abitare assume non solo connotazioni magico-sacrali ma anche politico-sociali. Essi organizzano il proprio spazio a loro piacimento, sfuggendo a ogni disciplina, secondo lo stesso sistema attuato, ai margini delle città contemporanee, dai tanto odiati campi Rom.

La sera, Fern e gli altri si ritrovano attorno al fuoco per parlare e per ascoltare le storie e i ricordi di ognuno: la parola che fluttua libera – come nei racconti orali di arcaiche popolazioni – appare allora quasi come un’appendice della libera estensione dei corpi dei viaggiatori, riuniti nella loro pratica di resistenza all’incasellamento sociale. Per mezzo della loro voce, dei loro corpi e del loro viaggio incessante, questi nomadi sradicati della contemporaneità inanellano una dopo l’altra diverse pratiche di resistenza ad ogni forma di disciplinamento sociale. Nomadland, in questo senso, ci offre la rappresentazione documentaristica e poetica di numerose pratiche sociali contemporanee che si oppongono alla massificazione crescente, tanti atti di coraggio che, lentamente, scalfiscono il rigido involucro dello spazio disciplinato che ci avvolge.


  1. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. elèuthera, Milano, 2009, p. 98. 

  2. Cfr. R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma, 1995, p. 9. 

  3. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, pp. 451-458. 

  4. F. La Cecla, Mente locale, elèuthera, Milano, 2021, p. 35. 

  5. Ibid. 

  6. Cfr. ivi, p. 36. 

  7. Ivi, p. 63. 

]]>
Con Salgari alle radici del tempo https://www.carmillaonline.com/2021/02/07/un-novello-salgari-in-fondo-al-buio/ Sun, 07 Feb 2021 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64802 di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è [...]]]> di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è lecito pensare che questa esista soprattutto negli occhi di chi guarda al mondo come a un gioco o a una sfida.

Un gioco da bambini, o da uomini e donne che dei bambini non vogliono perdere lo sguardo. Ben distante da quello di coloro che sono invece affascinati dalle utilitaristiche tentazioni legate alla conquista, al dominio, al denaro, al potere. L’avventuriero è così, da sempre, una sorta di suonatore Jones cui, purtroppo, troppo spesso altri si sono accodati per trarre profitto, fama o successo dalle sue imprese.
Chi cerca l’avventura, di solito, esplora nuove possibilità e chi esplora, in fin dei conti, cerca prima di tutto l’avventura. Così luoghi dell’avventura possono essere individuati tanto nelle giungle delle Filippine quanto nelle valli e nelle grotte piemontesi. Illuminati dal sole del nuovo mattino o sprofondati nel buio del tempo geologico del mondo infero esplorato dagli speleologi, ben diversamente scandito e percepito da quello vissuto in superficie.

Andrea Gobetti, novello Salgari dell’avventura moderna, si è sempre mosso tra luce ed ombra, tra pareti verticali da affrontare con vertiginose salite e orridi e pozzi, sul cui fondo non arriverà mai la luce del sole, in cui sprofondare per ri/trovare ciò che la luce del giorno non può nemmeno immaginare. A differenziarlo da Salgari, che come lui visse molti anni della sua vita in prossimità delle colline torinesi, è però il fatto che mentre il padre di Sandokan e del Corsaro Nero visse le sue avventure soltanto attraverso gli occhi dell’immaginazione (e numerosi atlanti squadernati sul tavolo di lavoro), Andrea ha pienamente vissuto ciò che racconta, non importa se ogni tanto con il tono canzonatorio e spaccone dei tall tale che hanno sempre caratterizzato le narrazioni della letteratura e del folklore della frontiera americana.

Speleologo, alpinista, scrittore ed esploratore dei confini reali e immaginari del mondo, l’autore (classe 1952) del testo pubblicato dalla Società Editrice Milanese vive da molti anni in Lucchesia. Nel corso di un’esperienza più che cinquantennale ha conosciuto personaggi straordinari, ha fatto parte dei giovani arrampicatori ispirati dall’amico Giampiero Motti, teorico visionario del “nuovo mattino” ispirato dall’arrampicata californiana e da una diversa interpretazione della Montagna e della Natura; ha percorso abissi ritenuti insondabili ed è stato autore di numerose pubblicazioni e collaboratore nella realizzazione di vari documentari1.

Soprattutto, anche quando in gioventù è stato attivo in una delle formazioni più agguerrite e vituperate della sinistra extra-parlamentare, è sempre stato prima di tutto un militante dell’avventura e del sogno. Un’avventura e un sogno che richiedevano coraggio, ma anche elementi onirici e di autentica estasi, che una volta perduti avrebbero trasformato l’azione dirompente in mera archeopolitica, adatta soltanto ad amministrare l’esistente2. Un’esperienza di cui rimangono tracce significative, sotto forma di ricordi, anche nell’ultimo libro.

Se il titolo di quest’ultima opera offre già motivo di riflessione al lettore in quel guardar le stelle dal fondo di un pozzo, anche la prima opera edita di Andrea Gobetti portava con sé più di una promessa: Una frontiera da immaginare3. Ma quella frontiera, che all’epoca l’autore situava soprattutto tra le cime e le grotte del massiccio del Marguareis, nelle Alpi piemontesi, nel corso degli anni si è allargata e allontanata di un bel po’. Sia verso l’esterno “geografico”, sia in direzione di quell’inner space che è inseparabile da qualsiasi discorso sul sogno e l’avventura moderna.

Se scendi sottoterra, benché vivo e vegeto, subito alcune strane novità ti saltano agli occhi e anche addosso […] Nel buio scopri alcune curiose trasparenze.
La più nota è detta “Guarda la stella dal fondo del pozzo”, distaccati dalle luci del mondo e vedrai più lontano di quanto la massa degli abbagliati per vocazione non voglia né possa immaginare.
Un’altra trasparenza di quel buio primordiale scioglie il velo del tempo, ci mostra reale e presente una parte del mondo rimasta uguale a se stessa da migliaia se non milioni di anni. Nelle grotte il tempo non è più quel mostro furioso che in superficie divora uomini e panorami; pare invece paziente, fiero di sé mentre dedica tutta la sua arte agli arabeschi del vuoto.
Lo puoi accarezzare, tanto pare immobile.
[…] In questo su e giù di visioni spaziali, temporali, umane e fantastiche si eccitano, s’illudono e si consumano gli ardori degli speleologi, spesso mal accompagnati dalle solite scomodità notturnofile: il sonno, l’umido, il freddo, la fatica, la paura.
Perché ci vadano e perché tu li segua non è ben chiaro, ma laggiù nulla lo è. Forse le predette scomodità sono antidoti, vaccini contro mali ben peggiori in libera circolazione superficiale; forse sei matto, cerchi di andare dove il denaro non è mai arrivato4.

Certo, già prima di giungere allo splendore delle architetture sotterranee e prima ancora di poter contemplare l’opera del tempo secondo una differente prospettiva occorre affrontare un mondo esterno che spesso può riservare notevoli sorprese. Dall’apparizione improvvisa di un gruppo di guerriglieri comunisti nella giungla filippina, in cui si dileguano poi come fantasmi, alla cena preparata con un’anguilla da sette chili pescata da un membro di una delle tante spedizioni in un grande lago già in parte sotterraneo che custodisce l’accesso ad una gigantesca e inesplorata grotta tropicale.

Sorprese talvolta marcate dalla violenza, come spesso nel mondo di superficie accade e magari preannunciata dalla visita in sogno dell’amico Grundhal, come durante un viaggio in Albania al tempo delle sommosse popolari (che certo non risparmiarono le violenze ai danni dei rappresentanti del governo) degli anni ’90, oppure dallo stupore di fronte ad una massa di bianco calcare ancora mai sfidata e fino ad allora soltanto sognata.

Alla mia età scopro che si realizzano, a fronte delle delusioni e dei fallimenti riguardanti molti dei progetti in cui ho creduto in età adulta, i veri desideri di gioventù: una montagna di bianco calcare si erge ancora completamente inesplorata.
«Be’, sono qui, tutt’attorno a te» ride lei. «E ora che te ne fai di me, vecchio malvissuto?»
Lei e io siamo due esseri lontani uno sproposito, sia su scala spaziale che su scala temporale. Entrambi però siamo vuoti dentro, abbiamo la pelle traforata da migliaia di buchi grandi e piccini, siamo percorsi da fiumi e battuti dal vento. Tutti e due difendiamo una stabile temperatura interna. In fondo siamo più simili di quel che sembra, potremmo anche diventare amici.
Ogni volta che frequento grotte sconosciute finisce che scopro qualcosa di me, ma loro sono tante, mentre io solo uno.
«Ci vuole la banda» dice dal nulla la voce di un amico perduto.
Icaro, l’amico per vocazione.
Ci siamo mossi insieme in tantissime occasioni, quasi sempre cavandocela benissimo, finché non è caduto.
Ancora mi capita di consultarlo dentro di me, o forse è lui che viene a trovarmi quando non so dove sta il bandolo di una matassa appena avvistata5.

Vale la pena di concludere questo breve excursus, in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura anche a chi non ha nessuna intenzione di affrontare pozzi e sifoni sotterranei e tutta l’umidità, la fatica e, talvolta, la paura che ne conseguono, con un’ultima riflessione dell’autore sulla memoria e sulla fortuna di poter comprendere i segreti delle montagne e delle grotte in esse nascoste, che non tutti, per loro sfortuna e per fortuna delle grotte stesse, che mai potranno diventare luoghi di turismo di massa se non in alcuni e ben delimitati casi, potranno mai comprendere.

So che non vale la pena di impegnarsi mezz’ora per ricordare un nome, un posto, una data che chi ci ascolta dimenticherà in pochi secondi.
La mia memoria è sempre stata bella strana, conserva un’infinità di cose inutili sin da quando ero ragazzo, ma già allora era incapace di dirmi dove stavano il quaderno, le scarpe da football, le chiavi della macchina.
«Non trovi niente!» si infuria mio padre nei miei ricordi più antichi.
«Non trovo gli occhiali!» mugolo adesso.
Per giunta sono trasparenti, e non li avrei comprati se ci vedessi bene.
Insomma, sono in forte disagio con le cose che si spostano, che vagano insieme a me or qui or là; con quelle ferme mi trovo meglio.
Le grotte non si muovono mai; si modificano all’interno, ma non fuori. La loro fissità è proverbiale. Credo che diffondano attorno a loro una certa qual aura di presenza antica, una stabilità temporale anomala che alcuni riescono a captare. Pare che io sia tra i fortunati6.

La conquista dell’inutile costituisce il titolo del diario tenuto da Werner Herzog nel corso dei due anni trascorsi nella foresta amazzonica per le riprese di Fitzcarraldo7, mentre I conquistatori dell’inutile è quello del diario, pubblicato per la prima volta nel 1961, dall’alpinista francese Lionel Terray8. Una definizione che va benissimo per definire l’avventura dell’esplorazione in qualsiasi contesto: infatti là dove inizia la ricerca dell’utile, come mi insegnò un certo amico fraterno ed istruttore del corso di speleologia del CAI – Uget di Torino ormai più di quarant’anni fa, finisce il divertimento.


  1. Qui alcuni titoli dei tanti libri pubblicati: Andrea Gobetti, Le radici del cielo, Centro Documentazione Alpina Torino 1986; L’Italia in grotta. Guida alle più belle grotte d’Italia , Gremese 1991; Drammi e diaframmi. Immagini e storia dei film di montagna (con Fulvio Mariani), Corbaccio 1997; L’ombra del tempo. Gli esploratori delle caverne, CDA & Vivalda 2003; Animalia Tantum (con Andrea Micheli), Skira, Milano 2000; L’uomo che scala, Visentini 2008; Le omelie del diavolo, Diffusione Immagine 2014  

  2. Forse è bene, a questo punto, ricordare come, pur partendo da ipotesi politiche diverse, un certo Lenin, in Stato e rivoluzione, abbia sostenuto che «il primo dovere di un rivoluzionario è quello di sognare»; mentre Paul Mattick, il teorico tedesco-americano del comunismo consigliare, avrebbe a sua volta successivamente riconfermato il concetto proprio nel titolo della sua autobiografia: La rivoluzione. Una bella avventura (a cura di Antonio Pagliarone, Asterios Editore, Trieste 2020)  

  3. A. Gobetti, Una frontiera da immaginare, prima edizione dall’Oglio editore 1976; seconda edizione CDA, Centro Documentazione Alpina, Torino 2001; terza edizione Alpine Studio, 2014  

  4. A. Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle, SEM 2020, pp. 5-6  

  5. A. Gobetti, op. cit.. p. 77  

  6. op. cit., p. 53  

  7. Werner Herzog, La conquista dell’inutile, Mondadori, Milano 2018  

  8. L. Terray, I conquistatori dell’inutile. Dalle Alpi all’Annapurna, Hoepli, Milano 2017  

]]>
Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

]]>
Nemico (e) immaginario. L’incontro con l’Altro. Il vampiro, il mostro, il folle https://www.carmillaonline.com/2019/05/16/nemico-e-immaginario-lincontro-con-laltro-il-vampiro-il-mostro-il-folle/ Thu, 16 May 2019 21:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52502 di Gioacchino Toni

Nel libro di Paolo Lago, Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij (Editrice Clinamen, 2019), vengono presi in esame tre film che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 affrontano “l’incontro con l’Altro”: Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog, The Elephant Man (Id., 1980) di David Lynch e Nostalghia (Id., 1983) di Andrej Tarkovskij. Si tratta di opere che ricorrono a strutture narrative abbastanza simili: un individuo si allontana dalla sua comunità compiendo [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel libro di Paolo Lago, Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij (Editrice Clinamen, 2019), vengono presi in esame tre film che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 affrontano “l’incontro con l’Altro”: Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog, The Elephant Man (Id., 1980) di David Lynch e Nostalghia (Id., 1983) di Andrej Tarkovskij. Si tratta di opere che ricorrono a strutture narrative abbastanza simili: un individuo si allontana dalla sua comunità compiendo un percorso che lo porta ad avvicinarsi a chi non ne fa parte: l’Altro, il Diverso, l’Emarginato.

Nel film di Herzog – con inevitabili riferimenti al precedente di Murnau del 1922 e, ovviamente, al romanzo del 1897 di Bram Stoker – si ha in Jonathan Harker il personaggio del viaggiatore e nel vampiro la figura dell’Altro. L’analisi di Lago procede mettendo in luce gli elementi che nel film tracciano il rigore geometrico della città di Wismar, in Germania, e l’etichetta borghese che vi regna, mostrando come ciò palesi una situazione di staticità e ripetitività da cui Harker dovrà allontanarsi per intraprendere quel viaggio in Transilvania che lo condurrà in un mondo lontano e selvaggio, dominato dal mistero e dalla magia, fino a giungere di fronte all’Altro.

Attraverso il viaggio, il personaggio (come del resto il lettore) viene dapprima proiettato in un nuovo mondo sconosciuto, ove lo sguardo razionale del viaggiatore  occidentale è costretto a confrontarsi con una comunità di zingari, prima incarnazione dell’alterità, e con una locanda, spazio “altro”, che si rivela luogo della diversità in cui il «freddo sentire» occidentale finisce con il sentirsi circondato da un linguaggio, una fisicità e una ventata di irrazionalità a lui del tutto incomprensibili. Nel moto di avvicinamento al castello la scoperta razionale di un nuovo mondo lascia pian piano il posto ad «un’immersione onirica in un territorio fantastico e immaginifico». Da questo momento, sottolinea Lago, il viaggiatore occidentale, con la sua pretesa superiorità razionale, si sente «schiacciato dallo spazio arcano e misterioso dei territori che sta attraversando» (p. 22). L’occidentale si trova pertanto costretto ad abbandonare lo sguardo distaccato ed irrisorio con cui sino a quel momento ha guardato al folclore e alle leggende locali; ora viene fagocitato da un ambiente naturale che si rivela ai suoi occhi terribile. Uno percorso «non mappizzato» in cui il viaggiatore vive una «vertigine dell’erranza» che lo conduce, attraverso la perdita del sé, al terribile incontro con l’Altro.

Nell’analizzare lo spazio in cui viene a trovarsi Harker, Lago ricorre ai concetti elaborati da Deleuze e Guattari di «spazio liscio» (proprio del «deserto» nomadico) che si contrappone allo «spazio striato» (caratteristico della città disciplinata da rigide griglie di controllo). «Il cammino è percorso adesso non più da uno scienziato razionalista ma da un esploratore che si muove verso il vuoto informe, verso territori inesplorati […] D’ora in poi l’incedere del viaggio assume un’altra tonalità: a quella dell’orrore si sovrappone quella romantica e titanica […] Lo spostamento del personaggio si tramuta in rapsodia romantica velata di titanica solitudine» (p. 23).

Al termine di questo percorso il viaggiatore fa il suo incontro con l’Altro che, in questo caso, ha le sembianze del vampiro che Herzog presenta come una figura di emarginato e solitario individuo che si «stacca dall’oscurità». «L’Altro è quindi ciò che appare quasi inconoscibile, ciò che fa parte della notte, dell’oscurità ed è difficilmente comprensibile dalla mente “illuminata” e raziocinatane del viaggiatore occidentale» (p. 25), mentre a tale alterità è invece consentito, proprio per il suo essere distaccato dal corpo sociale, di «vedere e sentire oltre».

Particolarmente importante, segnala Lago, è lo spazio del castello in cui dimora il conte. Si tratta infatti di uno spazio che, come suggerisce a più riprese lo sguardo della macchia da presa, sembra sottrarsi alla logica quotidiana del tempo. Harker si trova dunque costretto a fare i conti con uno spazio che, come chi lo abita, appare pietrificato. È attraverso l’abbandono del castello in direzione di Wismar che il vampiro sembra sottrarsi dal “non tempo” regnante nella dimora per entrare nella logica temporale del viaggio.

Dopo il percorso che ha condotto l’occidentale al cospetto dell’Altro è ora quest’ultimo a compiere l’itinerario inverso, viaggio che lo porta «a sferrare, dal silenzio della propria malattia e della propria solitudine, un attacco all’inconsapevole Occidente per contaminarlo con la sua stessa malattia: un attacco che assumerà le sembianze di un lugubre e macabro carnevale» (p. 30). E così la nave con cui il vampiro veleggia verso Wismar si presenta come «lento vettore della contaminazione» destinato ad investire l’Occidente. «Adesso, il vampiro, con la sua profonda sofferenza, col suo frustrato e inappagato desiderio d’amore […] diviene forte della propria emarginazione e solitudine e attacca, cercando di portarvi contagio e contaminazione, quell’ordinato spazio urbano che, perduto nella ripetitività dei suoi tic quotidiani, all’inizio ne ignora totalmente la presenza» (p. 35). Al processo di contagio, sottolinea Lago, contribuiscono i suoi ratti, veri e propri agenti di contaminazione rizomantica.

Giunto in città, lo straniero resta totalmente escluso da quella comunità degli esseri umani decisa a negargli quell’amore da lui inutilmente implorato. Lo studioso si sofferma anche sul processo di rovesciamento del conflitto tra Eros e pulsione di morte tratteggiato da Freud ne Il disagio della civiltà in cui la civiltà viene vista come portatrice di vita, di Eros. «Il vampiro, esponente di un’arcaica nobiltà decaduta ed estraneo a qualsiasi organizzazione sociale basata sul lavoro, porta un Eros che è anche la Morte per i meccanismi sociali di Wismar. Egli è colui che rovescia la realtà, che scambia il giorno con la notte, che vive di notte mentre è assente dal mondo durante i giorno» (p. 37). Se gli esseri umani civilizzati si sono via via allontanati della natura e dagli animali, il vampiro, forte del suo restare straniero alla comunità umana, si mantiene in sinergia con quel mondo arcaico in cui sopravvivono, inoltre, il mito e la leggenda banditi dalla civiltà razionalista borghese. Ed è proprio la «macchina da guerra nomadica» del vampiro a condurre l’attacco alla comunità dello «spazio striato».

Nel film di Herzog l’incontro con l’Altro palesa anche il processo di identificazione ed ibridazione tra i due personaggi: dopo essersi gradualmente trasformato in vampiro, al termine del film, sarà proprio il viaggiatore, ormai identificatosi col conte, a portarne avanti i piani. «Dopo un primo viaggio, l’incontro con l’Altro e la contaminazione da esso portata nello spazio della città, il film si chiude con un nuovo viaggio e con una non-fine» (p. 49), quasi a suggerire l’inevitabilità della contaminazione con l’Altro.

Se in Nosferatu il personaggio di Harker incontra l’Altro dopo un lungo e difficoltoso viaggio ai confini dei territori conosciuti, compiendo «una vera e propria immersione in un vuoto informe, in uno spazio “liscio” lontano dalle griglie del controllo cittadino» (p. 53), in The Elephant Man di Lynch, il personaggio del dottor Treves giunge al cospetto del Diverso, l’uomo elefante, nel cuore stesso della civiltà occidentale, in quella Londra vittoriana in cui giunge il vampiro di Dracula di Bram Stoker.

Treves incontra l’Altro «negli interstizi infernali della città». Ed infatti, dopo una sorta di preambolo onirico-mitico, le vicende narrate dal film di Lynch prendono il via con il dottor Treves che, alla ricerca dell’uomo-elefante, è costretto ad attraversare una sorta di cunicolo infernale ed oscuro popolato di “esseri mostruosi” o “strani”, appartenenti a quella categoria di emarginati esposti alla curiosità della londinese “comunità dei normali”. L’itinerario compiuto dal medico nelle sequenze iniziali rappresenta certamente lo spazio «di un tempo “liberato”», nel cuore stesso della città, la fiera in cui il cittadino cerca evasione dalle «griglie del controllo quotidiano», ma, sottolinea Paolo Lago, anche lo spettacolo può essere una forma di controllo: «è l’altra faccia della razionalità illuministica di una città in cui impera ogni dove la meccanica geometrica di una tarda Rivoluzione Industriale. Lo spazio della fiera è l’altro aspetto della razionalità rigida e greve che regna […] nello scenario industriale che avvolge i tenebrosi vicoli londinesi. È la zona magica, irrazionale, mistica e popolata di esseri strani dove la stessa razionalità illuministica corre a rifugiarsi» (p. 53).

In questo caso il Diverso è già presente nello «spazio striato» della città, è un appartenente alla comunità – è un inglese, ribadirà Treves ai colleghi – «divenuto straniero» in virtù della sua deformità fisica. John Merrick, l’uomo-elefante, è un Diverso nato e cresciuto nel cuore dell’impero e per poterlo incontrare non occorre affrontare alcun lungo viaggio ai confini del mondo occidentale: basta cercarlo negli anfratti della civiltà vittoriana in cui imperversano inquietanti macchinari. È all’interno dello spazio urbano occidentale che Treves deve volgere il suo sguardo raziocinante per giungere all’incontro perturbante con l’Altro. Dopo il fallito tentativo di incontrare l’uomo elefante nel tunnel dei freaks alla fiera, per raggiungerlo, il medico è costretto ad attraversare, col suo incedere veloce e sicuro, carico di razionalità illuministica, i vicoli malfamati londinesi in cui si incontrano esseri umani costretti a vivere e lavorare in scenari infernali. Welcome to the dark side of the Industrial Revolution.

L’incontro con l’Altro avviene per Treves nelle viscere della civiltà delle macchine, nell’anfratto di un palazzone di un quartiere popolare. Il suo intento è quello di sottrarre l’uomo-elefante dall’esibizione fieristica per esibirlo a sua volta ai colleghi del London Hospital, trasformandolo così, sottolinea Lago, in un caso clinico sottoposto ad un dispositivo di controllo. Se però lo spettacolo fieristico tende a ricondurre Merrick nell’inferno dell’orrore, lo sguardo illuminista del medico sembra ricondurlo «ad una logica razionale all’interno di un un universo dominato dal logos e dalla scienza, l’altra faccia di quella lancinante Rivoluzione Industriale che trasforma in inferno la realtà e in dannati gli stessi uomini» (p. 60).

Nonostante la luce della scienza, la diversità dell’uomo-elefante viene nuovamente celata alla vista della comunità all’interno di una stanza d’isolamento: nel cuore del panoptismo ospedaliero, il mostro viene sottratto agli occhi della comunità. Se nel tunnel fieristico il corpo deforme dell’uomo viene esibito, all’interno del «cuore assistenziale della metropoli occidentale» esso viene nascosto alla vista, trasformato in fantasma. «L’ospedale, cuore “meccanico” e avanzato» della metropoli finisce per palesarsi, soprattutto nelle ore notturne, come «il regno oscuro di quel progresso» in cui ogni rumore, sovente meccanico, è percepito da Merrick come una minaccia. La dimensione del terrore, sottolinea Lago, si rovescia: non è più l’Altro a provocare orrore ma è la “normalità” della civiltà occidentale a spaventare il Diverso.

L’ingresso di Merrick nella scansione di un tempo “normale” e “civile” avviene attraverso l’emissione di parola, strumento con cui il Diverso, dopo aver vissuto nel silenzio, cerca disperatamente di entrare a far parte della comunità. La presa di parola avvia il processo di normalizzazione del mostro che così inizia ad essere accolto all’interno della società urbana e borghese. A differenza del vampiro, nell’uomo-elefante non è presente alcuna volontà destabilizzante nei confronti della società. Se Merrick viene dapprima accolto nella clinica come mostruosità, successivamente il salotto borghese illuminato vittoriano lo accoglie come “cittadino” demostrificato. A differenza del vampiro di Herzog che entra di nascosto nel cuore della civiltà occidentale minandone le fondamenta, l’uomo-elefante vi entra alla luce del sole.

Lago sottolinea come l’intera esistenza Merrick sia ripetutamente toccata dalla dimensione spettacolare: «prima esibito come fenomeno da baraccone, poi esposto allo sguardo della scienza e della medicina, successivamente presentato come un elegante dandy alla buona società londinese, fino al momento culminante […] della sua apparizione proprio all’interno di un teatro» (p. 69). Merrick resta pur sempre uno «straniero interno», non raggiunge mai una dimensione compiutamente “umana” e ben presto si trova nuovamente catapultato nell’inferno della fiera dei mostri fino a quando i freaks decidono di “far gruppo” e ribellarsi dando vita ad una “comunità altra”, diretta verso un “altrove” che poi si fa per l’uomo-elefante viaggio individuale che lo conduce sul palcoscenico. «Per essere accettato, egli deve ridurre a una dimensione teatrale la sua condizione di diverso, di emarginato e di “straniero interno”. Se così si può dire, la sua diversità deve essere, per certi aspetti, teatralizzata, riportata nei meccanismi della finzione» (pp. 75-76).

Nel film Nostalghia di Tarkovskij, invece, il viaggio che compie il poeta Gorčakov è un atto mentale verso la regressione nostalgica che prende il via da una condizione di malattia che gli impedisce di affrontate la bellezza in qualsia forma essa si manifesti, bellezza che all’inizio del film coincide con il celebre affresco della Madonna del Parto di Piero della Francesca.
La sua condizione di esiliato si traduce in una devastante sensazione di «perdita interiore» delle persone e dei luoghi della sua terra e della sua storia. Il rifiuto di visionare il capolavoro pierfrancescano non manca di alludere alla nostalgia per un “mondo altro” rispetto a quello incarnato dall’arte italiana rinascimentale votata ad un antropocentrismo “razionalista” destinato ad allontanare sempre la dimensione del sacro dall’essere umano.

Lago sottolinea come il viaggio di Gorčakov, che lo porta al cospetto dell’Atro, in questo caso il folle Domenico, si configuri come un movimento chiuso, privo di possibili sviluppi, «bloccato in una condizione di rifiuto e di stanchezza». È nell’antico borgo termale senese di Bagno Vignoni che «la dimensione occludente del viaggio si sfalda definitivamente».
Nello spazio dell’albergo – in cui il volto di Eugenia, l’accompagnatrice, a tratti appare agli occhi del poeta la «prosecuzione estetica» del dipinto pierfranescano – Gorčakov, nell’esprimere il suo convincimento circa l’intraducibilità della poesia, sottintende l’impossibilità della comprensione tra culture diverse, dunque l’impossibilità del viaggio stesso, «del movimento verso un altrove». Ed è a fronte di ciò che il protagonista si trova in balia di una lancinante nostalgia.

L’incontro con l’Altro avviene qua nello «spazio amniotico» della vasca termale della piazza della cittadina.
Nel film di Tarkovskij, l’Altro assume le sembianze del folle, di un ex internato in manicomio da poco liberato dalla “legge Basaglia” insieme a tanti altri segregati. L’incontro tra Gorčakov ed l’Altro avviene inizialmente grazie all’intermediazione di Eugenia, «spettro di quella prorompente arte che il poeta aveva rifiutato all’inizio: figura raziocinante e “antisacrale”, è probabilmente l’inconsapevole conduttrice dell’elemento inquietante e “diabolico” di una pittura e di una concezione artistica che nega la semplicità e il rigore essenziale […] Per avvicinarsi per la prima volta a Domenico, Gorčakov deve quindi passare attraverso la mediazione di una concezione artistica che gli provoca un lancinante dolore» (pp. 90-91).

Si tratta in questo caso dell’incontro tra due stranieri: il folle, uno «straniero interno» esiliato e costretto al silenzio dalla “comunità dei normali”, ed il poeta russo, uno straniero di un altro paese, con un’altra cultura ed un’altra lingua che egli ritiene intraducibile, dunque impossibilitato ad entrare a far parte della comunità in cui si trova ora a vivere. «Forse, l’unica comprensione fra stranieri è allora possibile quando essi siano posti nella stessa condizione, quando siano entrambi esiliati ed estranei allo stesso luogo» (p. 95). Come accade nel film di Lynch, ove i freaks diventano comunità solidale per potersi difendere dalla “comunità dei normali”, altrettanto il russo ed il folle possono farsi comunità, immedesimandosi luno nell’altro, per sostenere il peso dell’esclusione. «Se il poeta rappresenta per il folle l’introduzione del “nuovo”, un appartenente alla comunità dei cosiddetti “normali” che finalmente gli va incontro senza sorrisi di scherno» (p. 99), da parte sua Gorčakov inizia ad identificarsi con Domenico riuscendo, proprio grazie alla seduzione dell’Altro, a andare oltre il dolore e la nostalgia personale, abbracciando adesso col proprio sguardo olimpico la realtà circostante che pulsa e continua a pulsare in un nuovo spazio e in un nuovo tempo» (p. 116).

Paolo Lago mette i luce come nei tre film esaminati l’incontro con il Diverso determini una trasformazione all’interno dello spazio sociale in cui questo si trova ad agire: Nosferatu, attraverso la contaminazione e la malattia, porta distruzione nell’ordine razionale occidentale; Merrik, da essere emarginato, finisce per essere inglobato all’interno della buona società vittoriana, pur dovendo subire un processo di teatralizzazione; Domenico manifesta la sua protesta ed il suo desiderio di ricongiungimento con quella comunità che lo aveva recluso in manicomio prima e mantenuto ai margini poi. In tutti tre i casi le storie finiscono con la morte dell’Altro: il vampiro cessa di vivere alle prime luci dell’alba ma finisce con l’incarnarsi in Harker; l’uomo-elefante si spegne soffocando per poter dormire come tutti i “normali”; il folle muore dandosi fuoco per protesta contro una società che continua a non accettare la diversità.

L’analisi proposta da Lago mete in luce come il vampiro, il mostro ed il folle rappresentino «gli altri da noi e, contemporaneamente, un’altra faccia di noi stessi, quella più in ombra, quella più nascosta, quella che fa più paura», mentre Harker, Traves e Gorčakov incarnino quegli appartenenti alla «società dei “normali”, irregimentati nei loro mondi ordinati e regolati», seppure il russo in misura minore, «che compiono delle vere e proprie “derive” verso territori sconosciuti, al di là dei confini prestabiliti, per partecipare delle sofferenze degli esclusi, degli emarginati, dei lontani» (p. 15). Non è difficile cogliere, sottolinea lo stesso autore, l’attualità delle tematiche affrontate da queste tre opere e di come, al di là delle ritrosie iniziali con cui si tende a guardare a ciò che non si conosce, valga la pena affrontare un viaggio di avvicinamento nei confronti dell’Altro ricavandone «inaspettati momenti di fratellanza e condivisione».


Serie completa di “Nemico (e) immaginario” 

]]>
L’«ospite di Dracula» in viaggio https://www.carmillaonline.com/2017/04/16/lospite-di-dracula-in-viaggio/ Sat, 15 Apr 2017 22:01:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37581 di Paolo Lago

l'ospite di draculaBram Stoker, L’ospite di Dracula (Dracula’s Guest), testo originale a fronte, Leone Editore, Milano, 2016, pp. 51, € 6,00

L’ospite di Dracula è un capitolo tagliato del romanzo di Bram Stoker, Dracula (1897), recentemente recuperato come un godibilissimo racconto e pubblicato da Leone Editore nella collana di classici della letteratura con testo a fronte, nella bella traduzione di Andrea Cariello. Al centro del racconto vi è il tema del viaggio, importantissimo anche nella versione definitiva del romanzo dello scrittore irlandese: il protagonista (presumibilmente lo stesso Jonathan Harker), durante [...]]]> di Paolo Lago

l'ospite di draculaBram Stoker, L’ospite di Dracula (Dracula’s Guest), testo originale a fronte, Leone Editore, Milano, 2016, pp. 51, € 6,00

L’ospite di Dracula è un capitolo tagliato del romanzo di Bram Stoker, Dracula (1897), recentemente recuperato come un godibilissimo racconto e pubblicato da Leone Editore nella collana di classici della letteratura con testo a fronte, nella bella traduzione di Andrea Cariello. Al centro del racconto vi è il tema del viaggio, importantissimo anche nella versione definitiva del romanzo dello scrittore irlandese: il protagonista (presumibilmente lo stesso Jonathan Harker), durante il suo viaggio per raggiungere la dimora del conte, fa tappa a Monaco e, incautamente messosi in cammino all’approssimarsi della notte di Valpurga (peccato per il refuso, sul risvolto di copertina, «notte di Valpurnia»), si troverà immerso in una situazione da incubo. Secondo il folklore germanico e dell’Europa settentrionale, nella notte di Valpurga (della quale la più famosa eco letteraria si può incontrare nel Faust di Goethe), fra il trenta aprile e il primo maggio, le streghe si ritrovano per danzare alla luce della luna. Nell’area tedesca e nordica, in questa notte, vengono celebrati dei festeggiamenti per salutare l’arrivo della primavera.

Il racconto è interessante perché sembra rispecchiare al suo interno la struttura di viaggio dello stesso Dracula. La narrazione in prima persona è incentrata sulla partenza del protagonista dopo aver alloggiato a Monaco in un albergo, l’hotel Quatre Saisons. Dopo aver percorso un certo cammino in carrozza, fra boschi e vallate, il cocchiere si rifiuta di proseguire poiché sta facendo sera e quella che sta giungendo è la ValpurgisNacht (cioè la notte di Valpurga). Nessun tedesco, infatti, si avventurerebbe in quei luoghi in quella notte. Il personaggio ribatte che lui non è tedesco e, ostinatamente, insiste per proseguire a piedi fino ad imbattersi in un cimitero abbandonato. Il movimento di viaggio avviene tra una grande città come Monaco e uno spazio ‘desertico’ e lontano caratterizzato da boschi, vallate e montagne. Lo scrittore ci presenta poi uno scontro tra due mentalità: quella razionalista del giovane inglese e quella superstiziosa e legata ad arcaiche credenze del cocchiere tedesco. Anche in Dracula assistiamo al progressivo avanzamento del protagonista in uno spazio ‘esotico’ e lontano dal razionalismo inglese, verso l’Europa centro-orientale. Ad esempio, quando Harker raggiunge Budapest, annota nel suo diario (il romanzo è costituito da pagine di diario e da lettere) di avere la sensazione di trovarsi in un punto di incontro fra Oriente e Occidente. Lo spirito con il quale il personaggio va incontro alla terra incognita della Transilvania è lo stesso di un razionalista inglese del Settecento: afferma infatti di aver fatto ricerche al British Museum, prima di partire, sugli usi e i costumi di quella lontana e ‘selvaggia’ regione; annota inoltre nel suo diario ogni particolarità sulla cucina e le usanze dei paesi che attraversa, soprattutto della Transilvania. Un universo strano, esotico, affascinante, velato quasi di magia, si affaccia all’orizzonte del viaggiatore inglese che, gradatamente, si sta immergendo in territori sconosciuti. Come ha scritto Edward W. Said, il viaggiatore colto inglese che si reca in Oriente in epoca vittoriana si muove come un padrone sulla sua terra poiché attraversa un territorio colonizzato culturalmente e politicamente dalla Corona britannica. In questo senso, Dracula riflette profondamente la mentalità vittoriana (periodo in cui l’Inghilterra conosce un vero e proprio predominio culturale, commerciale e coloniale): Harker che si muove verso la Transilvania sembra rappresentare quasi la raziocinante mentalità inglese che si incontra con l’altro da sé, il Diverso, lo Straniero. Dal centro del mondo, rappresentato dalla Londra vittoriana, dallo spazio «striato» per eccellenza, lo spazio cittadino – per utilizzare un’espressione di Deleuze e Guattari – Harker si muove verso lo spazio «liscio» e nomadico del «deserto». Lo stesso conte Dracula appare come l’incarnazione più perturbante della figura dello Straniero. Egli, in un movimento di viaggio contrario rispetto a quello del protagonista, si recherà successivamente nella città per sferrare il suo attacco al cuore della civiltà e contemporaneamente al cuore del capitalismo colonizzatore e accentratore. Come un nuovo Dioniso, Dracula diffonde l’irrazionalità e la malattia all’interno del razionalismo borghese dell’Ottocento, proiettandosi nel cuore di quella Londra vittoriana che, nei suoi interstizi, produceva comunque già di per sé numerosi ‘mostri’ e creature fantastiche, come racconta il bel libro di Franco Pezzini, Victoriana. Maschere e miti, demoni e dèi del mondo vittoriano, uscito recentemente per Odoya.

Proprio come avviene in L’ospite di Dracula, anche nel romanzo la mentalità razionale di Harker si scontra con quella superstiziosa delle popolazioni indigene. Nel momento della partenza dalla locanda verso la magione di Dracula, la vecchia locandiera si reca nella stanza di Harker scongiurandolo di non partire poiché si sta avvicinando la notte di San Giorgio (specchio della notte di Valpurga del racconto), in cui i poteri oscuri e malvagi si aggirano sulla Terra. Durante il viaggio in carrozza, poi, il cocchiere e gli altri viaggiatori si rivolgono al protagonista con strani gesti e con segni della croce, poiché sapevano che il giovane straniero si sarebbe diretto al castello ‘maledetto’ di Dracula. Harker liquida ogni ammonimento dei locali con l’espressione «fantomatiche paure». Come nel racconto, egli insiste nel proseguire il suo cammino nonostante i numerosi avvertimenti del pericolo imminente.

L’albergo, la locanda è uno spazio letterario assai importante nella narrativa di viaggio e in Dracula in particolare. Se in esso, Harker, in Transilvania, alloggia in un’antica locanda in un paesino sperduto, nel racconto il personaggio alloggia a Monaco in un grande albergo di lusso dal nome francese. La sosta nella locanda (nonché la stessa struttura del viaggio) sarà un topos ricorrente anche nelle diverse riletture cinematografiche del romanzo di Stoker, dal Nosferatu (Nosferatu. Eine Simphonie des Grauens, 1922) di Friedrich Wilhelm Murnau fino al Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula, 1992) di Francis Ford Coppola passando attraverso le produzioni Hammer degli anni Sessanta. La sosta nella locanda viene poi narrativamente ampliata in quella che è la più geniale parodia cinematografica dedicata a Dracula, Per favore non mordermi sul collo (The Fearless Vampire Killers, 1967) di Roman Polanski. Il film narra le avventure del professor Abronsius e del suo assistente Alfred i quali, dopo un lungo viaggio attraverso l’Europa centrale dedicato alla ricerca dei vampiri, si fermano in una locanda in un paesino della Transilvania. Qui si succedono ad un ritmo incessante numerose gag, dagli scambi di persona e dagli inseguimenti notturni per i corridoi fino all’innamoramento non ricambiato dell’ingenuo Alfred per la bella locandiera, figlia della padrona, che verrà ‘vampirizzata’ dal conte.

In L’ospite di Dracula il movimento verso il luogo ‘esotico’ che sarà lo sfondo della vicenda da incubo vissuta dal protagonista è una vera e propria immersione in un ambiente naturale descritto come dotato «di un’affascinante bellezza». Ugualmente, in Dracula, mentre Harker viene condotto in carrozza al luogo dell’appuntamento con il cocchio del conte, rimane letteralmente affascinato da una natura descritta come bellissima e stupefacente. Nella rilettura quasi ‘filologica’ del film di Murnau attuata da Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979) viene accentuato proprio l’elemento della bellezza della natura durante il viaggio a piedi di Harker verso il castello di Nosferatu, viaggio musicalmente cadenzato dal Preludio all’Atto I de L’oro del Reno di Wagner. Nel nostro racconto, la natura che era apparsa al protagonista come un bellissimo e placido teatro naturale si trasforma improvvisamente in uno scenario terribile: comincia infatti a imperversare una tormenta di neve e lo sprovveduto viaggiatore sarà costretto a trovare rifugio in un cimitero abbandonato. Qui egli farà un perturbante incontro con una vampira, la contessa Dolingen di Graz, morta suicida, personaggio femminile nel quale si rispecchiano le vampire incontrate da Harker al castello in Dracula (del resto, la donna vampiro aveva debuttato in letteratura ben prima di Dracula, nel 1872, con Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu).

Salvato in extremis dalle fauci della vampira e da quelle di un lupo mostruoso ad opera un gruppo di soldati, l’incauto viaggiatore inglese viene ricondotto a Monaco all’Hotel Quatre Saisons. Qui scoprirà che l’albergatore aveva allertato i soccorsi proprio grazie a una lettera di Dracula nella quale il conte si raccomandava di vegliare su quel suo giovane ospite, «inglese, quindi di indole avventurosa». Il racconto si chiude su queste parole dell’incauto viaggiatore: «Di certo godevo di una misteriosa forma di protezione. Da un paese lontano era arrivato, proprio in extremis, un messaggio che mi salvava dal pericolo di rimanere addormentato nella neve e dalla minaccia delle fauci del lupo» (p. 51).

Ancora non sa, l’ingenuo protagonista, che di lì a poco quel ‘protettore’ misterioso, «da un paese lontano», sferrerà un terribile attacco alla sua Londra vittoriana, cuore economico e culturale di un inconsapevole Occidente.

]]>
“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

__________________

Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

]]>
Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/22/28837/ Tue, 22 Mar 2016 22:45:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28837 di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. [...]]]> di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. Riprendendo gli studi di Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) che indicano nel cinema la presenza di due caratteri, quello della pittura non-realista, votata alla creazione di una propria realtà, e quello della fotografia, volta ad immortalare la realtà esistente, Rabbito segnala come nel caso della finzione terziaria, ciò che si osserva risulti sbilanciato sul versante della pittura non realista.
Nella finzione terziaria di grado minimo la finzione è occultata, nonostante lo spettatore sappia perfettamente di trovarsi di fronte ad una costruzione. Allo spettatore è richiesto di stare al gioco al fine di godersi lo spettacolo; la realtà rappresentata deve essere percepita come vera, come uno specchio della realtà. Fingendo vi sia soltanto il rappresentato senza alcun rappresentante, si struttura uno spettacolo antitetico a quello proposto da Bertold Brecht (Scritti teatrali).
Nel caso di una finzione terziaria di grado intenso, si riprendono alcune finalità tipiche delle rappresentazioni barocche, cioè «spingere a fare proprio il sapere dell’incertezza, di diffidare di ciò che si vede e di stare all’erta sia nei riguardi della realtà sia nei riguardi della finzione. […] Si invita insomma a considerare l’immagine per quella che è, una rappresentazione, e non creare una confusione tra questa e la realtà» (pp. 121-122). Dunque, nel ricorso alla finzione terziaria di grado intenso si intenderebbe: mettere in discussione il linguaggio audiovisivo; ripensare al ruolo del regista e dello spettatore; evidenziare la complessità della realtà mostrata; esplicitare le modalità di messa in rappresentazione della realtà; rendere vigile lo spettatore e farlo riflettere sulle nuove immagini. In tal modo lo spettatore non verrebbe più trascinato in un ruolo passivo ed ipnotico, ma resterebbe vigile e consapevole.

In questo scritto ci si limiterà a prendere in esame la finzione terziaria di grado intenso proposta dal volume di Andrea Rabbito.

Synecdoche, New York (2008) di Charlie KaufmanIn Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, analizzato da Rabbito a partire dagli studi di José Ortega y Gasset (Meditazioni del Chisciotte), in un intrecciarsi di figure retoriche (metafora, sineddoche, metonimia), si narra di come il protagonista, il regista Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), intenda creare uno spettacolo teatrale capace di riproporre il mondo esterno in una sorta di doppio del reale che lo porta a ricreare all’interno di un grande capannone uno spaccato di una zona di New York. «La New York di Cotard diviene così una particolare metafora/sineddoche/metonimia dell’originale New York, nel senso che la prima sostituisce la seconda; il rappresentante, dunque, il doppio, il falso più che rimandare al rappresentato, al vero, crea con questo un forte legame e tende a sostituirlo» (p. 136). Cotard giunge a creare una situazione talmente legata alla realtà che finirà col perdersi in questa con-fusione tra i due mondi.
La duplicazione del reale allestita dal protagonista lo induce anche a trovarsi un alter ego, Sammy Barnathan (Tom Noonan), che lo interpreti trasferendosi nell’appartamento allestito sul set. «Quello che si verifica dunque, con progressiva evidenza, è la dinamica della metafora/sineddoche/metonimia: ovvero il rappresentante, Sammy, nega sempre più la propria realtà per essere sostituito dal personaggio che rappresenta, Cotard; e questi a sua volta si orienta ad una sempre maggiore derealizzazione di se stesso, per sparire nell’irreale da lui creato. E tale derealizzazione avviene con esito così incisivo in quanto non è in gioco un rimando, ma un legame, reso mediante l’eccedere la norma della verosimiglianza. Il riflesso speculare si confonde con il soggetto reale di cui duplica le apparenze, creando una dinamica di reciproca sostituzione dei due enti e profonda confusione fra questi» (pp. 139-140).
Si apre così un gioco di specchi che porta alla creazione di un altro set che, dal suo interno, duplica il primo, così che Sammy possa imitare Cotard. A ciò si aggiunge poi l’idea di aumentare il tutto di un nuovo livello di riproduzione, un terzo spazio in cui continuare questo gioco di duplicazione. Tale proliferazione conduce a quella mise en abyme di cui parla Andrè Gide analizzata da Lucien Dällenbach (Il racconto speculare). «Si palesa come attraverso la mise en abyme si costruisca una rappresentazione mostrando in che modo questa intenda rimandare alla realtà, e come il rappresentato rimandi al rappresentante, mettendo in luce la modalità con cui queste dimensioni “si derealizzano, si neutralizzano” tra loro. E, inoltre, si mostra come la derealizzazione avvenga in maniera particolarmente suggestiva quando vi è una forte somiglianza, la quale […] pone in essere non più un rimando, ma un legame tra rappresentato e rappresentante, fra rappresentazione e realtà; quando infatti fra questi due vi è una forte somiglianza, la finzione più che a rimandare al vero, tende a legarsi in maniera radicale a quest’ultimo fino ad orientarsi a farne le veci e a sostituirlo» (p. 143).
Di fronte ad una tale confusione di piani, lo spettatore è indotto a riflettere a proposto del confine che separa realtà e finzione e di come ogni tipo di rappresentazione crei un dialogo tra reale e simulacro. Quello sviluppato dal film di Kaufman, sostiene Rabbito, è un discorso metalinguistico che, pur riguardando anche le immagini classiche, sembra avere come vero obiettivo le nuove immagini.

La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański è un film – tratto da una pièce di David Ives che narra delle prove teatrali dell’adattamento di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch – che mette in scena il rapporto di stampo sadomasochistico tra i due interpreti soffermandosi sulla descrizione dei meccanismi della rappresentazione. Il primo livello di lettura dell’opera è rivolto allo spettatore che intende limitarsi a seguire il contenuto, il secondo livello è invece destinato a chi desideri approfondire la forma mediante la quale il contenuto si offre al pubblico.
A differenza della rappresentazione cinematografica convenzionale che tende a mostrarsi come duplicazione del reale, il film di Polanski «mira invece a decostruire la magia cinematografica, a scardinarla, in quanto mostra i meccanismi mediante i quali la rappresentazione realizza la sua magia» (pp. 149-150). Il cineasta polacco mostra quel significante che solitamente risulta celato nelle opere cinematografiche. Attraverso l’uscita dai personaggi di Wanda e Thomas l’illusione viene continuamente interrotta in modo da indurre lo spettatore a rimanere vigile.

venere pellicciaA partire dalla resa esplicita della finzione si moltiplicano i livelli di realtà ed i personaggi iniziali, Wanda von Dunayev (Emmanuelle Seigner, attrice moglie di Polanski) e Thomas Novachek (Mathieu Amalric, attore somigliante a Polanski) finiscono per rinviare alla coppia Polanski-Seigner generando nello spettatore «la strana sensazione che Polanski e Seigner stiano recitando la parte di Thomas e Wanda, e che questi due, a loro volta, interpretino i ruoli di Wanda Dunayev e Severin Kushemski» (p. 151). Il gioco di specchi continua ed alle «tre dimensioni, a cui rimanda il film, vanno aggiunte quella relativa al Thomas e alla Wanda, non dell’adattamento di Thomas, ma del romanzo di Sacher-Masoch; e in più, viene interpellata anche la dimensione dello stesso von Sacher-Masoch e della scrittrice Fanny Pistor, i quali realmente pattuirono un rapporto di padrone e schiavo dietro la volontà dello scrittore, il quale, in seguito, trasse da questa personale vicenda ispirazione per la sua opera letteraria» (p. 151). Si crea così un inestricabile mise en abyme che spinge lo spettatore a riflettere a proposito dell’illusione del doppio ed a proposito di come risulti difficile distinguere la realtà dalle rappresentazioni.

Il film Dans la maison (2012) di François Ozon narra invece del rapporto tra il professore di letteratura Germain (Fabrice Luchini) e l’allievo Claude Garcia (Ernst Umhauer) che sottopone al docente suoi resoconti del tempo passato presso la famiglia dell’amico Rapha Artole (Bastien Ughetto). Dall’intrecciarsi della tendenza della letteratura e del cinema di duplicare il reale si giunge ad esplicitare come ciò «si leghi al desiderio di ammirare e possedere il mondo esterno. A riguardo il mito di Narciso descrive chiaramente come l’uomo risulti affascinato dalla possibilità sia di visionare la realtà che si apprezza, sia di far proprio tale fenomeno del reale; ed è per questo il simulacro si dimostra, come mette in luce il mito, una perfetta forma che soddisfa tali desideri e che permette di immergersi in esso, e in questo perdersi» (p. 156). Rabbito ricorda a tal proposito come Christian Metz sottolinei come i desideri di vedere ed ascoltare attivati dal cinema si possano considerare “pulsioni sessuali” basate sulla “mancanza”.
Germain, grazie ai racconti di Claude, si introduce all’interno dell’abitazione della famiglia Artole, ma, sostiene Rabbito, il voyeurismo del docente è diverso da quello dello spettatore cinematografico; lo spettatore è di fronte ad un prodotto di finzione mentre Germain spia l’intimità dell’abitazione. «Certo, quello di Germain è proprio un atto di spiare, è vero, ma Ozon ci rende coscienti, a noi spettatori, che ciò che sta leggendo il suo personaggio possa essere un inganno, una costruzione immaginata da Claude. Ed è lo stesso Germain che all’inizio ne è cosciente» (pp. 158-159). Seppur cosciente del possibile inganno operato da Claude attraverso il racconto, il docente non è più in grado di discernere la finzione dalla realtà giungendo così, un po’ alla volta, per essere fagocitato dall’Oltremondo.

Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard intende svelare l’illusorietà delle nuove immagini ed enfatizzare come, a differenza di quanto accade ai protagonisti dei film precedentemente analizzati di Kaufman, Polanski e Ozon, non si debbano con-fondere i due mondi. Le immagini sono le immagini e la realtà è la realtà, sembra suggerire con forza il lungometraggio del cineasta francese.
In Adieu au langage, suggerisce Rabbito, non abbiamo un protagonista che cade vittima della proliferazione dei duplicati di realtà determinata dal teatro o dalla letteratura, ma i principali protagonisti del film di Godard risultano essere la rappresentazione stessa e lo spettatore.
«Non c’è infatti, nell’opera di Godard, la creazione di una vera e propria storia con un personaggio che si trova coinvolto nelle spire della finzione, ma è lo spettatore stesso che diviene il protagonista ed è lui a dover da un lato fronteggiare senza intermediari il mondo delle nuove immagini e della loro illusione, dall’altro lato confrontarsi con la loro messa in discussione sviluppata dal regista francese» (p. 162).

cinema-rabbito-onda-medialeL’opera di Godard recupera la forma epica brechtiana rivolgendosi ad uno spettatore a cui si richiede la “ratio” e non il “sentimento” e, sostiene Rabbito, attraverso la sua opera, il regista francese «ridimensiona l’onda mediale, interrompe sul nascere la possibilità del sorgere di illusioni da parte del film, e di identificazioni da parte dello spettatore [indirizzandosi] verso quella “funzione sociale” propria del cinema […] Funzione che riconosce come uno dei suoi fini quello non solo di spezzare le illusioni, ma di rendere consapevole il pubblico, attraverso lo svelamento del “gioco” della rappresentazione, di come quest’ultima agisce» (p. 163).
Secondo Rabbito il film di Godard critica quelle immagini che duplicano il reale, che lo uccidono sostituendolo con il suo simulacro. È evidente quanto ciò sia affine alle tesi di Jean Baudrillard (Le strategie fataliIl delitto perfetto) che ha più volte evidenziato come la perfetta duplicazione della realtà comporti l’uccisione del reale. A tutto ciò, sostiene Rabbito, Jean-Luc Godard aggiunge, analogamente a Guy Debord (La società dello spettacolo) che la duplicazione e la sostituzione pregiudicano il funzionamento dei sentimenti dell’uomo, della sua esperienza cosciente o subcosciente. «L’obiettivo […] che si pone Godard, recuperando il pensiero di Brecht, è quello di “rinuncia[re] a creare illusioni” per far “prendere posizioni” allo spettatore e svegliarlo dal suo sonno e dal suo cattivo sogno, e questo permette anche all’autore di instaurare un dialogo costruttivo e stimolante con il proprio pubblico» (p. 174).
Adieu au langage mette dunque «in evidenzia che, con le nuove immagini, […] gli oggetti del reale [e] ciò che crea l’uomo, si confondono fra loro, in una duplicazione in cui il referente reale si perde nel suo doppio, in maniera molto più esaustiva rispetto a quanto riescono le immagini classiche» (p. 175).

Gone Girl (2014) di David Fincher riflette sul ricorso alle nuove immagini come registrazione oggettiva della realtà. Se per mettere in discussione la presentazione della realtà da parte delle nuove immagini, Godard fa ricorso alle modalità epiche brechtiane, Fincher preferisce riprendere i meccanismi barocchi: denuncia le illusioni delle nuove immagini proponendo agli spettatori le stesse illusioni prodotte da tali immagini.
Se nella prima parte del lungometraggio lo spettatore è indotto a condividere con i personaggi del film, influenzati dalle immagini, che il protagonista Nick è colpevole della scomparsa della moglie, nella seconda parte del film si fa strada il dubbio, le deduzioni iniziali risultano superficiali. «Il farci cadere in errore, da parte di Fincher, è una scelta funzionale per far riflettere come la presentazione della nuova immagine possa essere del tutto inattendibile, e sollecita a ripensare come sia una quasi-realtà ciò che viene proposta in immagine e non una realtà, marcando particolarmente il suo essere “quasi”» (p. 182). Se col metodo brechtiano rappresentante e rappresentato vengono differenziati sin dall’inizio enfatizzando lo statuto illusorio, la “via barocca” propone invece una momentanea illusione poi messa in discussione.

Gli esempi riportati da Rabbito hanno mostrato come la capacità delle immagini di presentare la realtà esterna possa essere utilizzata al fine di contrastare questa loro capacità illusionistica. Tra gli ulteriori titoli citati dallo studioso come esempi di opere capaci di far riflettere lo spettatore circa il fatto che le immagini dovrebbero limitarsi ad avere un ruolo di mediazione e non di identificazione con il reale si possono ricordare: Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, eXistenZ (1999) di David Cronemberg, Being John Malkovich (1999) di Spike Jonze , Mulholland Drive (2001) di David Lynch, Dogville (2003) di Lars von Trier, La mala educacion (2004) di Pedro Almodóvar, Cigarette burns (2005) di John Carpenter, The Wild Blue Yonder (2005) di Werner Herzog, La Science des rêves (2007) di Michel Gondry, Avatar (2009) di James Cameron, Shutter Island (2010) di Martin Scorsese, Inception (2010) di Christopher Nolan, Holy Motors (2012) di Leos Carax, Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, Youth – La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino. Anche grazie a queste opere, la lotta contro l’illusione di cui parla Edgar Morin (I sette saperi necessari all’educazione del futuro), è aperta.

]]>
Fassbinder. Una vita spesa per “creare disagio nelle strutture della borghesia” https://www.carmillaonline.com/2015/10/02/fassbinder-una-vita-spesa-per-creare-disagio-nelle-strutture-della-borghesia/ Fri, 02 Oct 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24581 di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un [...]]]> di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un trentennio cruciale della sua storia, periodo in cui il paese si trova a fare i conti con tante contraddizioni interne, tra queste il suo doversi confrontare tanto con quel passato nazista difficile da metabolizzare, quanto con una nuova Germania che, restia a cambiare davvero nel profondo, viene attraversata da una cruenta stagione di conflittualità. L’intrecciarsi di tutti questi fattori rendono questa biografia di Fassbinder una storia che, pur nella sua parzialità, racconta un trentennio cruciale della vita della Repubblica federale tedesca prima che questa si indirizzi, nel decennio successivo, verso la riunificazione.

Il rapporto tra Fassbinder ed il cinema ha un inizio tormentato, visto che gli viene rifiutato l’accesso ai corsi cinematografici sia per le carenze tecniche dimostrate nell’uso della macchina da presa che, secondo l’autore della biografia, per la scarsa politicizzazione delle prove presentate, “premessa indispensabile per tutti i candidati e all’epoca, in un’istituzione come quella, l’orientamento doveva essere dichiaratamente di sinistra e ostile all’establishment della Repubblica Federale Tedesca”. La politica in senso stretto e diretto non è tra gli interessi del giovane regista, tanto che, a differenza di diversi coetanei, quando finisce nei guai con la giustizia non è a causa della militanza. Il testo riporta un aneddoto emblematico di come il cineasta tedesco e le vicende politiche di piazza si intreccino: nel 1968, in pieno Maggio francese, proprio a Parigi, il regista viene arrestato e rinchiuso in carcere per cinque settimane. In Germania il fatto desta scalpore e tende ad essere ricondotto ad una sua supposta presenza sulle barricate mentre, in realtà, l’arresto è dovuto ad una retata in una sauna gay irregolare. L’omosessualità di Fassbinder, come quella di tanti altri, è costretta a fare i conti con un clima culturale ed una legislazione che in Germania, come in altri paesi europei, appare estremamente retrograda. Soltanto nel 1969, in Germania, si danno alcune modifiche di legge che cancellano l’onta dell’illegalità per gli omosessuali consentendo così, in tutto il paese, la proliferazione di locali aperti alla comunità gay.
L’impressione di un artista egocentrico e disinteressato ad interagire con le vicende che gli stanno attorno, si sviluppa anche a causa di un atteggiamento che il regista, all’inizio della carriera, manifesta negli incontri con la stampa, quando ama mostrarsi del tutto indifferente all’opinione pubblica. Per certi versi il suo presentarsi come giovane ribelle anticonformista diviene una sorta di maschera indossata al fine di celare una certa timidezza. Soltanto negli anni in cui il successo gli conferisce maggior sicurezza, il regista inizia a mostrarsi più disponibile nei confronti dei media, evitando di mettere in scena sempre e comunque il ruolo del ribelle indifferente.

fassbinder 01Trimborn ricostruisce egregiamente come l’idea di Fassbinder di dar vita ad una sorta di comune creativa, un luogo in cui vivere e lavorare con persone di idee affini, si scontri con una personalità che appare sì smaniosa di vivere in maniera comunitaria ma, come sul lavoro, si dimostra poco propensa ad interagire realmente con gli altri. Per certi versi emerge il ritratto di un uomo che, sfruttando la sua forte personalità ed il fascino esercitato sugli altri, sembra più ambire a circondarsi di una corte adorante da plasmare a piacimento che non a confrontarsi realmente con gli altri. A tal proposito, nella biografia si trovano diversi aneddoti che narrano, ad esempio, del piacere provato dal regista nel dimostrare ad amici e collaboratori il potere incondizionato esercitato nei confronti di alcuni di essi, atteggiamenti che mal si confanno proprio a colui che ama sottolineare come il tema centrale dei suoi film abbia a che fare con lo “sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo”. Nel corso della lettura del libro, appare evidente come non ci si trovi di fronte ad una biografia di santificazione dell’uomo Fassbinder; occorre rendere merito all’autore di aver ricostruito un personaggio a tutto tondo, decisamente contraddittorio, in cui convivono spinte estremamente libertarie ed anticonvenzionali e condotte a tratti ciniche, egocentriche ed autoritarie. Nel testo viene testimoniato anche uno spiccato interesse per il denaro ed il lusso ostentato del quale, dopo i primi successi cinematografici, pare non riuscire a fare a meno. Per certi versi si può dire che il “nemico numero uno” della mentalità borghese si rivela così spietato nell’attaccare il nemico perché, tutto sommato, lo conosce bene, proviene dalle sue fila e, di certi suoi aspetti, probabilmente, non è risuscito, non ha potuto, o non ha voluto, liberarsi del tutto.

Gli insuccessi nei corsi di cinema spingono Fassbinder verso il teatro anche se l’approccio con cui lo affronta è decisamente cinematografico; è lì che vuole arrivare ed il teatro rappresenta una sorta di prova generale. Il rapporto tra l’iniziale produzione teatrale e quella, successiva, cinematografica risulta fecondo, tanto che lo stesso regista, dopo aver operato in entrambi gli ambiti, ha modo di affermare di aver messo in scena il teatro come se si trattasse di cinema e di aver girato film come se si fosse trattato di teatro. Nel testo viene passata in rassegna, nel dettaglio, l’intera produzione teatrale di Fassbinder a partire dal 1967, anno in cui avviene l’importante incontro con il gruppo dell’Action-Theater di Monaco, collettivo fortemente influenzato dall’esperienza del Living Theatre americano. Ad interessare Fassbinder è più la modalità innovativa di fare teatro che non l’intervento politico esplicito dell’Action-Theater. Le tematiche affrontate dal regista, una volta ottenuta la direzione, si concentrano sulle questioni della diversità, sulla difficoltà di comunicare, di intrecciare rapporti sinceri e sulla mentalità retrograda piccolo borghese. Anche quando decide di attuare un teatro più politico, il regista opta per farlo attraverso la messa in discussione della cultura dominante.
Katzelmacher (tr. appros. Terrone), la sua prima opera teatrale, è la storia dell’ostilità di un gruppo di giovani di un villaggio bavarese nei confronti di un lavoratore straniero greco da poco arrivato. L’opera è contraddistinta da una narrazione asciutta, uno stile minimalista e dialoghi brevi e concisi.
Le vicende di Fassbinder narrate dalla biografia, si intrecciano con gli eventi che scuotono il paese alla fine degli anni ’60, quando si susseguono azioni di protesta da parte degli attivisti contro il gruppo editoriale Springer, i cui giornali sono visti come i principali responsabili del clima repressivo. Anche l’Action-Theater, con i suoi spettacoli, partecipa alla campagna contro la stampa di Springer. Fassbinder, però, tende a prestare poco credito alle possibilità del teatro di influire sulla vita politica del paese. In ogni modo, l’obiettivo da perseguire, secondo Fassbinder, diviene quello di “creare disagio nelle strutture della borghesia”. Questo è il modo con cui il regista intende far politica.
Le discrepanze con alcuni dei fondatori dell’Action-Theater, portano la compagnia a trasformarsi adottando il nome di “antiteater”, scritto con lettere minuscole e senza la “h”. Gli scandali iniziano ad accompagnare ad ogni passo l’attività del gruppo teatrale. Ad esempio, quando viene messa in scena, nel 1968, la pièce Orgia Ubu, in cui si narra di una festa in un ambiente piccolo borghese che termina con un’orgia di gruppo, nel momento in cui gli attori iniziano a denudarsi sul coro dei prigionieri del Nabucco di Verdi, il direttore del locale interrompe lo spettacolo.
Nel 1971, è la volta della messa in scena di Blut am Hals der Katze (Sangue sul collo del gatto), ove un personaggio proveniente da qualche lontano pianeta, viene inviato sulla terra per indagare le modalità con cui gli esseri umani comunicano tra loro. Così Fassbinder presenta lo spettacolo: “La pièce ci mostra che in questo sistema, per come la vedo io, tutto porta all’oppressione. Questo meccanismo s’innesca subito, non appena le persone cercano di comunicare tra loro”. Durante il breve periodo, nei primi anni ’70, in cui ha la direzione del Theater am Turm di Francoforte, Fassbinder scrive una pièce intitolata Der Müll, die Stadt und der Tod (I rifiuti, la città e la morte) in cui vengono messi in scena degli antisemiti ed un imprenditore edile ebreo provvisto di tutti i classici cliché. Tale opera suscita una marea di proteste e la pesante accusa di antisemitismo.

Intrecciandosi con le vicende di Fassbinder, nel testo viene anche ricostruito il rinnovamento del cinema tedesco a partire dai primi anni ’60, quando la produzione tradizionale viene messa sotto accusa da diversi giovani registi. Nel 1962, ventisei registi, capitanati da Alexander Kluge, firmano il Manifesto di Oberhausen: l’obiettivo è contrastare tanto il cinema tedesco del dopoguerra, giudicato superato e reazionario, quanto lo strapotere dell’industria cinematografica hollywoodiana che, dal 1945, opprime le cinematografie nazionali dei paesi europei. I riferimenti propositivi guardano al Free Cinema inglese ed alla Nouvelle Vague francese. Il nuovo cinema tedesco intendere nascere libero dai condizionamenti culturali del mercato e dai finanziamenti dei tradizionali studios tedeschi. L’ambizione è quella di evitare il film d’evasione in favore, piuttosto, di opere in grado di confrontarsi con la realtà e con il tragico passato nazionalsocialista. Nel testo è sottolineato come, con la fine della guerra, in Germania, così come in altri ambiti della vita del paese, anche a livello cinematografico, non si ha una vera e propria rottura con il periodo nazionalsocialista: persone, strutture e contenuti restano i medesimi e buona parte del mondo del cinema ha lavorato nella macchina propagandistica di Goebbels. Nemmeno dal punto di vista formale c’è una vera e propria rottura, “l’estetica di Goebbels”, ancora negli anni ’50, resta alla base del cinema tedesco occidentale, così come contenuti, personaggi, divi e filoni restano saldamente permeati dal retaggio nazionalsocialista. Nata nel 1965, la Commissione del giovane cinema tedesco, grazie al sostegno economico statale, finanzia diversi film di giovani autori della seconda generazione del movimento. Nonostante i riconoscimenti ottenuti nei festival internazionali, questi film non riescono a conseguire successo nelle sale tedesche, restano un fenomeno di nicchia, per una cerchia ristretta di intellettuali. Nel corso degli anni ’60 le sale cinematografiche tedesche sono in grave crisi anche a causa della televisione e, ben presto, le collaborazioni del cinema con le emittenti televisive, in grado di garantire finanziamenti, diventano indispensabili. La terza generazione del Nuovo cinema tedesco comprende autori come Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders. La capacità di realizzare film low budget, mostrata da Fassbinder col suo primo lungometraggio, diviene una delle strade percorribili al fine di produrre film senza sottostare all’industria cinematografica ed alle imposizioni statali.

germania in autunnoNuovamente la politica torna ad intrecciarsi, prepotentemente, con la vita di Fassbinder. Nel 1977 il clima che si respira in Germania diviene sempre più pesante; mentre è in corso il processo alla prima generazione della Raf nel carcere di Stuttgart-Stammheim, il gruppo armato dispiega una serie di azioni volte alla liberazione dei propri compagni prigionieri che culmina con l’uccisione del direttore della Dresdner Bank ed il sequestro del presidente degli industriali. A tali episodi eclatanti segue il dirottamento di un aereo diretto a Francoforte, da parte di un commando palestinese, che si risolve con l’irruzione di un’unità antiterrorismo della polizia federale tedesca che libera gli ostaggi ed uccide i dirottatori. Lo stesso giorno Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, rinchiusi nel carcere di Stammheim, vengono trovati morti. Poco dopo viene fatto rinvenire il cadavere di Hanns Martin Schleyer, ufficiale delle SS durante la guerra, membro dell’Unione Cristiano Democratica e presidente della confindustria tedesca. In seguito a questi fatti, alcuni registi del Nuovo cinema tedesco decidono di realizzare, autofinanziandolo, il film collettivo Deutschland im Herbst (Germania in autunno) al fine di riflettere sul clima che si vive nel paese lacerato dall’interminabile scia di sangue. Dopo le immagini d’apertura sui funerali di Schleyer, il film inizia con l’episodio di Fassbinder che lo vede confrontarsi direttamente sulle questioni di attualità politica in un colloquio con la madre ove si discute dello stato di diritto, del passato nazista e della svolta autoritaria. Il regista, con ragionamenti alquanto contraddittori, nel deplorare l’uso della violenza della Raf, auspica un non meglio precisato intervento energico da parte dello stato ed, al tempo stesso, si dice comprendere le ragioni profonde che hanno portato il gruppo armato ad attaccare il “fascismo latente” presente nella Germania occidentale.
L’anno successivo Fassbinder torna ad occuparsi direttamente della Raf con il film Die dritte Generation (La terza generazione). Relativamente alla terza generazione di militanti della formazione armata, il regista attacca il loro agire perché lo vede privo della benché minima prospettiva. L’intento profondo dell’opera è forse quello di contestualizzare l’uso sconsiderato della violenza da parte dei militanti evidenziando come, secondo il regista, ciò sia determinato dalla società tedesca dell’epoca. Il film viene accolto negativamente tanto dalle istituzioni statali quanto dai militanti di sinistra che, in diverse occasioni, contestano la proiezione dell’opera.

Nel libro viene, ovviamente, passata in rassegna puntualmente anche l’intera produzione audiovisiva del regista individuando nello “sfruttamento dei sentimenti” il filo conduttore di buona parte delle opere. Nella prima parte della produzione cinematografica i personaggi, pur avendo la possibilità di reagire alle situazioni umilianti in cui si trovano a vivere, tendono a non farlo, a restare inerti. Dal punto di vista della scelta poetica, Fassbinder dichiara la propria contrarietà ai film che imitano eccessivamente, soprattutto nei dialoghi, la realtà ed, a tal proposito, nel corso di un’intravista, afferma: “Trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa (…) l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria”.
L’itinerario che porta Fassbinder a realizzare audiovisivi inizia, come per molti della sua generazione, dall’interesse per le opere della Nouvelle Vague francese e per le riviste cinematografiche più innovative come “Cahiers du Cinéma” e “Sight and Sound”. Ne 1966 il giovane regista passa finalmente all’azione e gira, a Monaco, il suo primo cortometraggio in Super 8 raccogliendo in maniera avventurosa i fondi necessari a coprire le spese. Preclusa la strada dell’imparare il mestiere facendo assistenza ad un regista esperto, visto che in Germania,  all’epoca, non vi sono grandi personalità, e scartata, per ragioni economiche, l’ipotesi di trasferirsi in Francia, paese di maggiori prospettive per un giovane cineasta, a Fassbinder non resta che visionare film a ripetizione. Nel 1966 il regista gira il cortometraggio, Der Stadtstreicher, (t.l. Il vagabondo) opera di una decina di minuti concepita come omaggio a Le signe du lion (Il segno del leone, 1959) di Éric Rohmer. Il secondo cortometraggio arriva poco dopo, nel 1967 gira Das Kleine Chaos (t.l. Il piccolo caos), opera in 35 mm, in cui rende omaggio a Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) di Godard. In questo caso inizia a palesarsi la passione per i gangster movies hollywoodiani di cui ama soprattutto White Heat (La furia umana, 1949) di Raoul Walsh. Proprio tale cinematografia americana è alla base della storia poliziesca su cui Fassbinder costruisce il suo primo lungometraggio del 1969, Liebe ist kälter als der Tod (t.l. L’amore è più freddo della morte). L’intenzione è quella di mettere in scena un poliziesco non convenzionale, in grado di mostrare il ruolo delle strutture sociali nella trasformazione delle persone in criminali. Sin da questo primo lungometraggio è presente il tema dell’attrazione omoerotica tra due personaggi. Dal punto di vista narrativo, la mancanza di mezzi tecnici e finanziari, costringe a lunghi piani sequenza, spesso privi di dialogo. Diverse scene, ad inquadratura fissa, si svolgono in ambienti minimali in modo da concentrare l’attenzione sulla mimica e la gestualità degli attori. Le inquadrature sovraesposte, quasi senza ombre, contribuiscono a creare un’atmosfera irreale e claustrofobica. Per la recitazione Fassbinder evita di dare istruzioni precise agli attori, non ama provare a lungo prima di girare e si mostra poco incline alla rielaborazione collegiale delle parti. Molto viene lasciato alla capacità istintiva dell’attore. Tale metodo ha il vantaggio di risultare economico e ben si accorda con le ristrettezze finanziare degli esordi. Le reazioni sia di pubblico che critica sono generalmente negative.

Il secondo film, Katzelmacher, (tr. appros. Terrone) del 1969, riprende l’omonima opera teatrale scritta per l’Action-Theater l’anno precedente. Se il testo teatrale si concentra sulla figura dell’immigrato greco, il film, invece, si sofferma sulle condizioni di vita dei bavaresi che gli sono ostili. La questione delle costrizioni sociali ed i principi morali insisti nella società, la noia e l’immobilità piccolo borghese, il perbenismo, insieme alla questione dell’incomunicabilità contemporanea, sono al centro dell’interesse del regista. Anche in questo caso i dialoghi risultano molto scarni e volutamente artefatti. L’opera ottiene un’ottima accoglienza da parte della critica e, da parte dalla prestigiosa rivista anglosassone “Sight and Sound”, viene celebrato il ricorso ad un linguaggio nuovo. Anche nel film Götter der Pest (t.l. Dei della peste) del 1969, ricompare un rapporto tra i due protagonisti improntato all’omoerotismo. Se i due primi film hanno un’evidente derivazione teatrale, qua l’impianto è, finalmente, cinematografico.
Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa), è un film del 1970 che affronta i problemi di una troupe cinematografica che deve iniziare le riprese di un film. I diversi personaggi sono ritratti in modo davvero poco lusinghiero, “Fassbinder lascia chiaramente intendere di considerare il cinema una forma di prostituzione nella quale sono tutti coinvolti, attori e registi, come pure tecnici del suono e truccatori: tutti in balia della ‘puttana santa’. Al tempo stesso il film è una riflessione sulle ragioni per cui nel loro caso la condivisione di vita e lavoro in una comunità non può funzionare”.
Der Händler der vier Jahreszeiten (t.l. Il mercante delle quattro stagioni) del 1971 è il primo film in cui decide di sperimentare le modalità narrative sirkiane che impongono che la storia sia raccontata in maniera semplice e sobria ma con empatia per le vicende umane messe in scena. Il film ottiene un buon successo di pubblico e critica.

fassbinder lacrime_amare_petra_von_kantNel 1972 Fassbinder riprende una sua precedente realizzazione teatrale, Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant), per trasformarla nell’omonimo film. La storia mostra la difficoltà di una donna, che pur si pensa emancipata, nel liberarsi dalle strutture culturali tradizionali. Il film viene accusato dagli ambienti femministi di essere una critica rivolta alle donne emancipate. Altre interpretazioni vedono nell’opera un tentativo di dimostrare come, anche nei rapporti omosessuali, la protagonista ha infatti una relazione con un’altra donna, tutto si riduca ad una questione di possesso e dipendenza. Nella lettura proposta dal Trimborn, Fassbinder, ancora una volta, intende affrontare piuttosto l’isolamento dell’individuo nella società contemporanea e la sua incapacità di apprendere a comunicare.
Dopo essere riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo piano come regista d’avanguardia con i primi film influenzati dai gangster movies americani e dalla Nouvelle Vague francese, Fassbinder decide che è giunto il momento di provare a conquistare anche “il grande pubblico”. Il riferimento diviene a questo punto il cinema del maestro del melodramma: Douglas Sirk. Del grande autore hollywoodiano, di origini tedesche, ammira la perfezione artigianale con cui realizza i film e l’impianto narrativo. Nelle sue opere vede un’incredibile capacità di scandagliare la sfera privata e gli stati d’animo senza trascurare il ruolo del contesto sociale. “Tutti questi film mostrano come la gente si inganni da sola, e perché sia costretta a farlo”, afferma Fassbinder, riferendosi alle opere del vecchio maestro del melodramma.

Una parte della biografica è dedicata alla produzione televisiva del regista. Nella televisione Fassbinder vede le possibilità di realizzare produzioni veloci ed a basso costo, su questioni legate all’attualità, pensate appositamente per le specificità del mezzo e non derivate dal teatro, come invece è consuetudine nel cosiddetto “teledramma” tedesco degli anni ’50 e ’60. Le prime produzioni ottengono scarso entusiasmo e non mancano di suscitare scandalo a causa delle tematiche affrontate.

Con la serie Acht Stunden sind kein Tag (t.l. Otto ore non sono un giorno), del 1972, la classe operaia fa la sua comparsa sul piccolo schermo attraverso un melodramma socio-romantico. I tradizionali sceneggiati televisivi tedeschi a sfondo familiare, sempre di tono leggero, risultano ambientati in contesti borghesi o piccolo borghesi ma sull’onda del clima post ’68, anche la televisione inizia a dare spazio alle questioni sociali che attraversano la società. Per rendere la serie più realistica, l’equipe di Fassbinder realizza, per quasi un anno, ricerche tra i lavoratori delle fabbriche e le sceneggiature vengono fatte leggere ad operai della Ford di Colonia. La realizzazione fassbinderiana, oltre a rappresentare la realtà sociale di una famiglia operaia in maniera autentica, dando spazio, ad esempio, a questioni come l’emergenza abitativa e la mancanza di posti negli asili, intende suggerire chiaramente allo spettatore che ribellandosi le cose si possono cambiare. Nonostante il buon successo di pubblico, ma non di critica, la serie non prosegue a lungo anche a causa di una feroce polemica scatenata dal regista nei confronti dei sindacati accusati, nella serie televisiva, di non avere più nulla da dire alle persone e  di dover piuttosto tornare ad ascoltare la base operaia. A tale produzione televisiva segue, nel 1973, Welt am Draht (Il mondo sul filo), un visionario film di fantascienza diviso in due parti basato su Simulacron 3, un romanzo utopico dell’americano Daniel F. Galouye. L’opera, oltre a riflettere sul ruolo del progresso tecnologico, approfondisce soprattutto le possibilità di autodeterminazione dell’uomo in un contesto in cui viene costantemente controllato e manipolato dal potere.

fassbinder berlin alexanderplatzNel 1979 è la volta della serie per la tv Berlin Alexanderplatz, la produzione probabilmente più impegnativa realizzata dal regista. Si tratta di una trasposizione televisiva del romanzo omonimo di Alfred Döblin, seppure riletto in maniera del tutto personale da Fassbinder che, anche in questo caso, si sofferma nuovamente sul tema dell’amore impossibile tra due uomini a causa delle convenzioni sociali. Il progetto Berlin Alexanderplatz, all’epoca la produzione televisiva tedesca più costosa mai realizzata, prevede tredici episodi ed un epilogo trasmessi con cadenza settimanale in prima serata. Nonostante il successo di critica ottenuto alla proiezione in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia del 1980, in Germania le polemiche non tardano ad arrivare soprattutto a causa del, solito, gruppo editoriale Springer che parla, a proposito dell’opera, di “orgia di violenza, perversione e blasfemia”, “atmosfera da orinatoio”, “sesso sporcaccione”, “sottofondo sadomaso” ecc. Trasmessa, dopo tante pressioni, ad orario più tardo, la serie risulta essere troppo complessa per il pubblico televisivo .

Tornando alla produzione cinematografica, l’opera Angst essen seele auf (La paura mangia l’anima), ottiene un grande successo internazionale ed una vera e propria acclamazione al Festival di Cannes del 1974. La tematica, come in Katzelmacher, riguarda i rancori della società nei confronti dei lavoratori stranieri. Nel film, ispirato ad All That Heaven Allows (Secondo amore) di Douglas Sirk, ad essere trattato da Fassbinder è il tema dei pregiudizi a cui si espone una donna di modeste condizioni sociali nel legarsi ad un uomo, per di più straniero, molto più giovane di lei. In tale opera la crisi tra i due inizia a manifestarsi proprio quando a livello sociale cresce la tolleranza nei confronti della loro unione; in quel momento iniziano a palesarsi i veri conflitti tra i due. Ancora una volta un’opera che manifesta l’impossibilità di una relazione amorosa felice.
Nel testo viene evidenziato come, nei opere di Fassbinder, le donne siano spesso innamorate senza speranza, figure che che crollano al cospetto del loro amore non corrisposto. Nel film Martha si insiste sul fatto che le donne sono condizionate tanto quanto gli uomini dalla società patriarcale in cui si trovano a vivere. Anche in Effi Briest, tratto dal romanzo di Fontane, si affrontano i rapporti di dipendenza all’interno di una coppia: contro la sua volontà una ragazza viene data in moglie ad un barone di vent’anni più vecchio di lei in passato innamorato di sua madre. L’infelicità matrimoniale porta la giovane a legarsi clandestinamente con un giovane amico del marito. Scoperto casualmente il tradimento della moglie, quando ormai da parecchi anni i due si sono trasferiti in un’altra città, il barone decide di seguire le convenzioni sociali e, sfidandolo a duello, uccide il giovane rivale e ripudia la moglie che, respinta anche dai genitori, muore di tubercolosi. Girato in bianco e nero, il film nelle intenzioni del regista deve presentare la realtà della vita alla fine del diciannovesimo secolo così come la ritrae il romanzo di Fontane.
Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) del 1974, è invece il primo film ambientato esclusivamente nel mondo omosessuale ove si racconta di un giovane che vive mestamente lavorando in un parco divertimenti e prostituendosi, grazie ad una vincita alla lotteria, il ragazzo diviene improvvisamente ricco e, finalmente, accolto da quell’ambiente omosessuale piccolo borghese che fino a questo momento lo ha sostanzialmente escluso per la sua provenienza proletaria. Nasce così una relazione tra il giovane ed il figlio di un imprenditore che poi finisce per derubarlo di tutta la sua vincita. La disillusione porta il ragazzo a suicidarsi, solo come un cane, in una stazione della metropolitana non soccorso dai vecchi amici che preferiscono far finta di nulla e, persino, derubato, ormai cadavere, da due ragazzini che gli svuotano tasche. Nuovamente Fassbinder sceglie una storia utile a ribadire l’impossibilità di un amore corrisposto e di un rapporto paritario tra due individui. Diverse associazioni omosessuali contestano il film che, nelle intenzioni dell’autore, denuncia come anche in ambito omosessuale, esattamente come avviene nella società eterosessuale, i sentimenti sono oggetto di sfruttamento.
Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, (t.l. Il viaggio in cielo di mamma Küsters) del 1975, è un atto di accusa nei confronti della sinistra tedesca sia istituzionale che radicale. La storia narra di un operaio che, temendo di essere licenziato, dopo aver sparato al capo del personale, si toglie la vita. La vedova viene emarginata dai famigliari, dai conoscenti ed anche dai comunisti del Dkp che preferiscono non avere a che fare con la vicenda del marito. La donna, che intende riabilitare la figura del marito, finisce col dare credito ad un giovane estremista che la coinvolge in un’azione armata sconsiderata dal tragico epilogo. In occasione della proiezione del film alla Berlinale scoppiano disordini.
Nell’opera del 1975 Angst vor der Angst (t.l. Paura della paura), si narra di come, in una donna, nel corso della gravidanza, si generi un’inspiegabile inquietudine che le provoca un’inguaribile stato di depressione. Pian piano emarginata dal marito e dai conoscenti, la donna finisce sempre più isolata senza che il film suggerisca alcuna ipotesi come causa dell’improvvisa deriva emotiva della donna.

Le accuse di antisemitismo ricevute in occasione della sua attività teatrale francofortese, si ripetono anche nei confronti della sceneggiatura tratta dal romanzo Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond di Gerhard Zwerenz scritta per un nuovo film. Il sostegno economico promesso dalla Filmförderungsanstalt salta in quanto la commissione giudicatrice inizia a temere che il film possa confermare i “pregiudizi antisemiti o addirittura di suscitarne altri della stessa natura”, tanto da esprimersi in questo modo nella lettera di rifiuto: “Il protagonista del film, l’ebreo Abraham, corrisponde esattamente in tutte le sue caratteristiche a quel cliché del nemico che Hitler ha descritto nell’undicesimo capitolo del Mein Kampf”. A tali accuse il regista reagisce scompostamente, tanto che, seppure da ubriaco, arriva, in alcune circostanze, a vaneggiare di congiura ebraica, ad intonare canzoni naziste od a dichiarare, provocatoriamente, di essere la reincarnazione di Hitler.
Successivamente, nel 1976, Fassbinder gira Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana), opera incentrata nuovamente sulla denuncia di come tutti i rapporti umani siano segnati dallo sfruttamento reciproco. Nel film è presente anche una riflessione sull’industria culturale ed una satira sulla sensibilità culturale dei tedeschi. Dopo il grande successo di pubblico di Effi Briest, i film successivi segnano, da questo punto di vista, una crisi profonda tanto di botteghino che di critica. La stampa inizia a vedere nei suoi nuovi film, sempre più autobiografici, un eccesso di autocommiserazione. Nel film del 1976 Ich will doch nur, dass ihr micht liebt (In fondo voglio soltanto che mi amiate), Fassbinder riflette, seppure indirettamente, sulla propria infanzia infelice priva di affetto.

A metà anni ’70, di pari passo alle critiche piovute in patria sulle ultime opere ed a un consumo di alcol, medicinali e droghe sempre più smodato, Fassbinder inizia ad essere celebrato in America come la figura più importante del nuovo cinema tedesco e come il maggior talento europeo dopo il mostro sacro Godard. Nel 1977 il regista gira per il mercato internazionale, direttamente in lingua inglese, il film Despair – Eine Reise ins Licht (Despair), presentato a Cannes si rivela un insuccesso mentre in patria ottiene miglior accoglienza.
fassbinder marriage-of-maria-braunDie Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun), uscito nel 1978, realizzato col fine di ottenere un “film tedesco in stile hollywoodiano”, ottiene un successo internazionale sia di critica che di pubblico. Il film è ambientato negli anni immediatamente successivi al crollo del regime nazionalsocialista, “quando tra le macerie delle città prendeva forma l’edificio dei valori morali e sociali su cui si basava la Repubblica Federale nata nel 1949”. La storia racconta delle vicissitudini di Maria Braun, interpretata da Hanna Schygulla, donna che, dopo un periodo di miseria nera, credendo il marito morto in guerra, se lo vede ricomparire quando ormai ha tentato di ricostruirsi una vita insieme ad un militare americano di colore. Ucciso il nuovo amante per dimostrare il perdurare dell’amore nei confronti del marito, la donna si trova nuovamente sola quando, quest’ultimo, autoaccusandosi dell’accaduto, viene incarcerato. Si viene successivamente a creare un complesso triangolo di rapporti tra la donna, il suo nuovo e facoltoso amante ed il marito. La vicenda, in cui si intrecciano patti segreti tra i vari protagonisti, ha un epilogo tragico che, stavolta definitivamente, impedisce ai due sposi di vivere assieme. Attraverso la figura della protagonista, Fassbinder mette in scena la forza e la caparbietà di tante donne tedesche che, nel corso della guerra e negli anni immediatamente successivi, sono riuscite ad abbandonare quel ruolo passivo imposto loro dalla tradizione e sopravvivere con autodeterminazione. Il film termina con l’eco della vittoria tedesca dei mondiali di calcio del 1954, quando nella società tedesca non solo si conclude la prima fase del dopoguerra, ma, sottolinea Trimborn, si tornano a relegare le donne alla storica sudditanza nei confronti dei mariti. Il ruolo attivo femminile, sviluppatosi tra le macerie, vine soffocato dalla ricostruzione che sembra, per certi versi, voler riportare tutto entro i ruoli tradizionali.

Concepito non certo per essere un film di cassetta, nel film del 1978, In einem jahr mit 13 monden (Un anno con 13 lune), di cui Fassbinder firma soggetto, sceneggiatura, produzione, scenografia, montaggio, fotografia e regia, si raccontano gli ultimi giorni di vita della transessuale Elvira, suicida a causa della solitudine e dell’indifferenza da cui è attorniata.
Lili Marleen è un film, ad alto budget, realizzato nel 1980, sulla vita dell’attrice e cantante tedesca Lale Andersen, diva del Terzo Reich. Fassbinder trasforma la vita della cantante tedesca, interpretata, ancora una volta, da Hanna Schygulla, nella storia di un amore contrastato negli anni della guerra. Una volta uscito il film ottiene giudizi contrastanti, perlopiù negativi. L’opera viene accusata di essere superficiale, piena di cliché, e troppo comprensiva nei confronti di chi ha fatto carriera negli anni nazionalsocialisti. Fassbinder viene accusato di aver reso omaggio all’estetica nazista mentre egli afferma di voler “far capire il Terzo Reich attraverso i dettagli affascinanti del suo modo di rappresentarsi”.
Lola, del 1981, racconta la storia di come un funzionario all’edilizia, giunto a fine anni ’50 in una cittadina del nord della Baviera, finisca per tradire i suoi propositi di contrastare il malaffare e la corruzione a causa di Lola, una cantante e prostituta che lavora nel bordello di uno squallido personaggio che controlla buona parte della cittadina. L’amore per questa ragazza finisce col renderlo parte di quel sistema corruttivo che inizialmente intende combattere. “Anche in questo film Fassbinder rappresenta l’amore come il più efficace strumento di repressione sociale”, scrive Trimborn. Lola, nelle intenzioni di Fassbinder, sottolinea anche come nella Germania del miracolo economico, lo sfruttamento della donna non sia affatto cambiato rispetto al passato.

veronika vossLa protagonista di Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss), film in bianco e nero girato nel 1981, cerca di cavarsela nella Germania del miracolo economico ma è destinata al fallimento. La protagonista, un’attrice divenuta morfinomane per continuare a sognare l’epoca del Terzo Reich in cui è stata una stella, è totalmente succube di una dottoressa che approfitta del suo stato di dipendenza. Temendo che le indagini di un giornalista, che nel frattempo ha conosciuto l’attrice, possano crearle problemi, la dottoressa decide di eliminarla. Presentato alla Berlinale del 1982 il film è un successo, viene visto come una sorta di risposta tedesca a Sunset Boulevard (Viale del tramonto), capolavoro di Billy Wilder.
Nell’ultimo film di Fassbinder, uscito nel 1982, Querelle, tratto dal romanzo Querelle de Brest di Jean Genet, tornano le tematiche a lui più care: amore, tradimento, dipendenza, violenza, solitudine, ricerca di una propria identità e di condivisione con un altro essere umano. Il film viene realizzato da un autore ormai fortemente condizionato dall’uso di droghe che, per non smentire il gusto della provocazione, per quanto concerne le foto di scena, contatta addirittura Leni Riefenstahl, che, ammalata, non è in grado di accettare l’offerta. Lo stato di alterazione con cui gira il film è pari soltanto al ritmo forsennato che decide di dare alle riprese, quasi una gara con la morte che sembra avvicinarsi sempre più velocemente.

Nel giugno del 1982, dopo aver assunto una dose eccessiva di cocaina pura, insieme a medicinali vari in grande quantità, nel corso della notte, il cuore di Fassbinder cessa di battere. Con lui se ne va un uomo contrastato, inquieto, contraddittorio ma capace, con il suo lavoro, di sferzare le coscienze di quel mondo piccolo borghese tedesco che forse non è riuscito, o non ha voluto, debellare fino in fondo quelle strutture sociali e culturali non sparite per incanto con la fine della guerra. In Germania e nel resto dei paesi in cui sono stati proiettati i suoi film, certamente Fassbinder è riuscito nel suo scopo: “creare disagio nelle strutture della borghesia” e le sue riflessioni sull’incomunicabilità e sull’esercizio del potere sui, ed attraverso i, sentimenti restano del tutto attuali.

]]>