Walter Tobagi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 06 Dec 2025 21:23:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cui prodest? https://www.carmillaonline.com/2014/01/16/cui-prodest/ Thu, 16 Jan 2014 00:00:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11999 di Sandro Moiso

  cittadino1Confusion will be my epitaph” (Epitaph, King Crimson 1968)

Se i macroscopici errori contenuti nel recentissimo sceneggiato televisivo, trasmesso su Rai 1, dedicato al commissario Calabresi fossero soltanto da attribuire alla grossolanità della sceneggiatura e all’insipienza della regia non ci sarebbe di che stupirsi. Né, tanto meno, ci sarebbe argomento del contendere: da più di vent’anni ormai il cinema e gli sceneggiati televisivi italiani, a parte pochi e rarissimi casi, fanno cagare.

L’impressione che però si ha di fronte alle attuali produzioni televisive e cinematografiche (dalla serie “Gli anni spezzati”, che ruba il titolo ad un [...]]]> di Sandro Moiso

 
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Confusion will be my epitaph” (Epitaph, King Crimson 1968)

Se i macroscopici errori contenuti nel recentissimo sceneggiato televisivo, trasmesso su Rai 1, dedicato al commissario Calabresi fossero soltanto da attribuire alla grossolanità della sceneggiatura e all’insipienza della regia non ci sarebbe di che stupirsi. Né, tanto meno, ci sarebbe argomento del contendere: da più di vent’anni ormai il cinema e gli sceneggiati televisivi italiani, a parte pochi e rarissimi casi, fanno cagare.

L’impressione che però si ha di fronte alle attuali produzioni televisive e cinematografiche (dalla serie “Gli anni spezzati”, che ruba il titolo ad un bellissimo film-antimilitarista ed anti-imperialista di Peter Weir, all’ancor recente “Il romanzo di una strage”) è che tale superficialità sia voluta. Una confusione di simboli, affermazioni e ricostruzioni raffazzonate che non dipende soltanto dalla mano degli autori, in alcuni casi, anche se non sempre, di destra. Ma che dipende, invece, da una ben precisa volontà di sovvertire l’ordine e il significato storico, politico e sociale degli avvenimenti rappresentati.

Lotta di classe è brutto” potrebbe essere il titolo sotto cui raccogliere tali capolavori che, in tutte le loro varianti, tendono a rimuovere e negare la centralità della lotta di classe non solo nella storia d’Italia, ma nella storia della specie umana. Che torna ad essere determinata soltanto dai sentimenti, dalle passioni e dai drammi, tutti rigidamente ed esclusivamente “individuali”. Una sorta di neo-romanticismo che del Romanticismo originario perde ogni passione politica per meglio adeguarsi alle esigenze del potere. Anzi, scusate, del capitale.

Il politico, come frutto delle contraddizioni dei modi di produzione e dello scontro tra le classi al fine del soddisfacimento di obiettivi sociali ed economici affatto diversi, scompare. I papi sono uomini come gli altri a cui è toccato un troppo gravoso compito; i commissari di polizia sono dei poveracci incompresi dalle loro vittime; gli agenti di polizia che manganellano o uccidono i dimostranti sono figli del popolo e lo Stato è di tutti, anche se, essendo un organismo imprescindibile per la convivenza umana, talvolta può sbagliare. Evviva!
Il prossimo manuale di storia per le superiori sarà scritto da Susanna Tamaro e Federico Moccia.
cittadino2 Purtroppo, però, la storia è vecchia, anche quella di queste evidenti contraffazioni della realtà e della verità. Un tempo si chiamava teoria degli opposti estremismi. Oggi si nasconde più velatamente dietro ad un generico ed istituzionale antifascismo che definisce come reazionario e populista, quando non terroristico tout court, qualsiasi episodio, violento o meno, che tenda a sfuggire all’ordito politico programmato dalle forze di governo.

D’altra parte, per chi è convinto che la creatività e l’intelligenza non derivino dall’alto dei cieli e nemmeno da qualche particolare secrezione ghiandolare ancora sconosciuta, la scarsa capacità di intendere e rappresentare il proprio tempo non può che essere riconducibile alla scarsa conflittualità sociale messa in atto dalle classi e dagli attori che dovrebbero rappresentare il nuovo che viene. Il sol dell’avvenire si sarebbe detto un tempo. Che, oggi, tarda a sorgere dando, invece, luogo ad un lungo, trascolorante e scarsamente illuminato crepuscolo.

Si sa, anche la luce crepuscolare, delle albe e dei tramonti, fu cara ai romantici. Ma è una luce che non permette di veder bene, talvolta è accompagnata dalle brume e il paesaggio diventa confuso.
Come per un difetto di astigmatismo si intuiscono le forme, ma non si individuano chiaramente i contorni. Ma sarebbe meglio dire, in questo caso, i fatti. Gli eventi e non soltanto le trame.
Che come si sa, possono essere costantemente riscritte, come in un eterno e poco lungimirante re-make cinematografico hollywoodiano.

Se nel 1970 Elio Petri poteva dirigere uno strepitoso Gian Maria Volontè nel ruolo del commissario Calabresi, pur senza mai nominarlo esplicitamente e pur non riconducendo la trama ai fatti della Questura di Milano, nel film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, ciò non era dovuto soltanto all’ingegno del regista, ma, anche, allo spirito dei tempi. Nessuno si indignò allora per il fatto che Petri non indicasse il personaggio con il suo effettivo nome e cognome, così come una certa sedicente sinistra ha fatto nei confronti di Daniele Vicari e del suo “Diaz”, né che il film non ricostruisse fedelmente gli avvenimenti successivi alla strage di piazza Fontana.
Chi voleva capire, capiva. E, allora, tutti capirono.

Ora, certo, non è più così. Nell’ottica controriformistica e revisionistica attuale il pubblico deve essere preso per mano ed accompagnato…il più possibile lontano dalla realtà. E, si faccia bene attenzione, questo non è da attribuire soltanto ad uno sforzo specifico degli autori, ad una loro ben precisa volontà. No, anche loro sono figli del loro, miserrimo, tempo. Marx scriveva in una lettera del luglio del 1871 all’amico Kugelmann: ”Fino ad ora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbrica più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanto una volta se ne potevano costruire in un secolo”. Sostituite o aggiungete cinema, televisione e rete e avrete lo stesso risultato moltiplicato per milioni di volte.

Certo la carta stampata ha ancora il suo peso e l’ultimo libro di Benedetta Tobagi1 lo dimostra fin troppo bene. Uscito in netto anticipo rispetto alle celebrazioni del quarantennale della strage di Piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974, è diventato già un must. Almeno in quel di Brescia. E, guardate bene, nel caso specifico non vi è nulla di strano nel fatto che, in una città ferita da uno degli attentati più mirati della cosiddetta strategia della tensione, la tensione emotiva e l’attenzione siano ancora alte nei confronti di tutto ciò che riguarda quel sanguinoso episodio. Né nel fatto che la Tobagi, figlia di quel Walter che fu vittima di uno dei più odiosi e beceri attentati attribuibili ad una formazione armata di sinistra, cerchi di ricostruire le vite e il dramma di alcune delle vittime e gli affetti di coloro che sono loro sopravvissuti.

Il libro annoda, collega, ricostruisce fatti, trame e personaggi dell’allora pericolosissimo e spregevole terrorismo nero, attraverso la ricostruzione dei vari processi, in particolare dell’ultimo chiusosi nel 2010, che cercarono di individuare i colpevoli dell’attentato bresciano senza mai giungere alla condanna degli effettivi esecutori e dei mandanti dello stesso.
Non mancano i particolari, non mancano i precisi riferimenti ai responsabili dei servizi segreti e alle responsabilità della DC e dei governi di allora, non mancano la tensione e i depistaggi che da sempre hanno accompagnato la ricostruzione di quelle vicende. Ma ciò che manca è proprio ciò che di un’inchiesta o di una ricostruzione storica dovrebbe costituire la forza e il metodo: l’obiettività.

Certo, potrebbe dire l’autrice, voler ricostruire anche il punto di vista e i sentimenti delle vittime e dei loro parenti obbliga la scrittura a perdere di obiettività per provare a ricostruire ambienti e sensazioni come la nuda cronaca e la Storia non potrebbero fare. Manzoni docet, appunto.
Questo sarebbe ancora accettabile e spesso le migliori interpretazioni della storia o di eventi complessi sono venute più dalla letteratura che dagli studi istituzionali. Ma, c’è sempre un ma…. e in questo caso è grosso come una casa.

L’autrice si sforza talmente di comprendere le ragioni e i sentimenti di tutti che non può fare a meno di partecipare ad un dibattito a Casa Pound (insieme ad alcuni rappresentanti della Casa della memoria di Brescia) proprio sull’argomento e, ancor peggio, sottolineare, in più di una pagina, come molti giovani di destra si sentissero spinti verso Ordine Nuovo o le azioni armate della destra estrema a causa delle continue aggressioni a cui erano sottoposti, soprattutto a scuola o all’Università.2

Ora vorrei rimanere distante dall’antifascismo più scontato, ma vorrei ricordare alla Tobagi che una simile posizione ribalta assolutamente la realtà storica. E’ vero: i fascisti nelle grandi città, da Milano a Roma e a Torino, passando per un bel numero di città minori, ne presero tante, ma proprio tante. Ma solo dopo che, in seguito a continue e proditorie aggressioni, l’estrema sinistra iniziò ad organizzarsi per rispondere a siffatte violenze. Che, in molti casi, furono rispedite ai mittenti con un sovraccarico di interessi. Perché, dalle barricate di Parma nel ’22 fino agli anni settanta la teppa fascista e reazionaria avrebbe potuto essere facilmente sconfitta e rimossa dalla scena politica se non fosse stato per l’intervento, in sua difesa, delle forze dell’ordine e dello stato, anche all’ombra di una costituzione che ha finito col vietar solo formalmente la ricostituzione del partito fascista. Che resta, nelle sue infinite sfaccettature, un imprescindibile strumento di dominio del capitale, alla faccia delle fregnacce sulla destra sociale e no global.

L’uso delle squadracce fasciste per terrorizzare e reprimere i lavoratori e gli oppositori politici, però, dovrebbe averlo studiato anche l’autrice sui più banali testi scolastici di storia, fu una pratica costante da parte degli agrari e degli imprenditori sia negli anni venti del secolo appena trascorso, sia negli anni ’50, ’60 e ’70 per impedire la ripresa della lotta di classe. Servi erano, servi sono rimasti e servi saranno sempre. Punto e a capo, anche perché non è sul ruolo delle squadracce nere che intendo tediare il lettore.

L’uso strabordante e, per forza di cose, poco asettico dei sentimenti porta, poi, l’autrice a costellare il testo di numerosi e costanti richiami “al mio papà” che, se potevano essere giustificati nel suo primo libro3 tutto teso a ricostruire la figura paterna e le vicende che avevano portato al suo assassinio, appaiono in quest’altro contesto decisamente qui fuori luogo. Ma soltanto ad una prima e superficiale lettura.

Perché, in realtà, in questa sorta di “Va dove ti porta il cuore” della storia di una fase della strategia della tensione, l’uso del linguaggio e la formulazione delle frasi e delle affermazioni in esse contenute non è mai casuale né, tanto meno, innocente come si vorrebbe fingere che fosse. Così che ad un certo punto il lettore scopre che le Brigate Rosse non uccisero il fratello di Patrizio Peci per vendicarsi del suo pentimento e della successiva delazione, ma il suo “fratellino”. Pur non cambiando di una virgola l’inutilità e il senso di quel delitto, la parola fratellino, inserita senza alcun riferimento all’età della vittima (25 anni, mentre il fratello “pentito” ne aveva all’epoca 28), tende ad aggravare la posizione dei colpevoli suggerendo, all’ignaro lettore, che si sia trattato dell’uccisione di un bambino.
zibecchi
Così, anche quando il testo sembra più obiettivamente descrivere le lotte e le vittime di sinistra in quegli anni, la Tobagi non manca mai di incorrere in qualche clamoroso scivolone che, come minimo, dimostra la superficialità, direi a tratti la trasandatezza, con cui ha affrontato le questioni riguardanti l’ estrema sinistra. Con uno svarione degno di essere qui segnalato, Giannino Zibecchi finisce di essere ucciso da un candelotto che lo colpisce al petto (pag. 206) e non schiacciato dalle ruote di un mezzo dei carabinieri che ne fece schizzare il cervello a qualche metro di distanza.4 Ma questo, no, non andava bene dirlo perché la polizia uccide per sbaglio con qualche candelotto sparato ad altezza d’uomo, mentre gli estremisti di sinistra uccidono perfino i bambini.

E poi guardi, cara Benedetta, ad essere ucciso da un candelotto al cuore fu Saverio Saltarelli, simpatizzante del Movimento Studentesco, che morì a 23 anni durante gli scontri di piazza avvenuti a Milano il 12 dicembre 1970, ucciso da una bomba lacrimogena sparata dai carabinieri ad altezza d’uomo. All’epoca, sull’episodio, fu scritta anche una canzone. Sono dati che si trovano anche, e facilmente, su Wikipedia. Se solo avesse voluto, non sarebbe stato difficile, soprattutto per una ricercatrice attenta come Lei che non dimentica mai di sottolineare ad ogni piè sospinto come il suo interesse per la strategia della tensione le sia costato anni di lavoro, ricerche e sofferenze, rintracciare maggiori elementi di precisione ed obiettività da utilizzare nella ricostruzione del clima politico italiano prima e dopo la strage di Piazza della Loggia.

Si può far risalire una tale incuria ad una ben precisa volontà di falsificazione? Ad una mente obnubilata dal dolore per una perdita violenta di cui non è mai stato adeguatamente elaborato il lutto? No, il problema di fondo è un altro. E corrisponde, esattamente, a quello che è stato detto all’inizio. E non dipende soltanto dall’autrice. O, almeno, non del tutto. Perché quella che trionfa nel testo qui affrontato, così come in tutte le rappresentazioni attuali della storia degli anni sessanta e settanta, è la vulgata storico-politica di marca PCI – PDS – PD, quella che afferma che tutto ciò che è avvenuto in quegli anni fosse dovuto ad una superiore volontà di impedire l’affermazione democratica del Partito Comunista come partito di governo del paese. Dalle bombe di Piazza Fontana alla lotta armata dei gruppi di sinistra, passando per Piazza della Loggia, la strage del treno Italicus5 , il sequestro Moro e tutto il resto. The Great Complotto! Oh, Yeah!

Ora, che la particolare posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo abbia sempre fatto sì che questa fosse una sorta di “sorvegliato speciale” per la politica dei servizi segreti americani, francesi, israeliani e sovietici non vi può essere alcun dubbio. Le ricostruzioni contenute in tante inchieste e le rivelazioni, per quanto parziali e probabilmente distorte, di quelle buone anime di Cossiga e di Andreotti non lasciano molti dubbi in proposito. Ma che tutto ciò che è avvenuto in Italia sia stato, sempre e soltanto, dovuto principalmente alla volontà di impedire l’entrata al governo del PCI…beh, è davvero poco convincente e sicuramente limitante dal punto di vista della ricostruzione storica e politica.

Considerato che, quel partito, dalla svolta di Salerno all’amnistia Togliatti, dal compromesso storico di Enrico Berlinguer ai viaggi negli USA di Giorgio Napolitano6 e dalle proposte di revisione pacificatrice della Resistenza da parte di Luciano Violante fino agli inciuci di D’Alema e Renzi con Berlusconi, ha fatto di tutto per tranquillizzare gli alleati Nato, i democristiani e anche la destra. Tutto ciò per meritare il peso che ha rivestito nella gestione della politica e dell’economia italiana degli ultimi trentacinque anni. Mentre, allo stesso tempo, tale vulgata ha contribuito a rimuovere quasi del tutto le contraddizioni di classe e le loro manifestazioni politiche non solo dalle politiche del PCI, ma anche dalla storia e, soprattutto, dalla mente di coloro che di tali contraddizioni e lotte dovrebbero essere i maggiori protagonisti: i lavoratori e i giovani. Sempre invocati e sempre gabbati. Fino a spingere frange di essi a simpatizzare per le espressioni della destra più oltranzista che si possono rilevare nell’attuale movimento dei forconi.

Sì, perché quegli attentati di destra e quella strategia della tensione erano ben diversi nelle finalità da ciò che fu confuso da alcuni, a sinistra, come preparazione dello scontro rivoluzionario decisivo e cioè la lotta armata portata avanti dalle organizzazioni guerrigliere. Entrambe le esperienze furono certamente infiltrate dalle forze del dis/ordine statale, ma la prima fu diretta a creare un fronte comune della borghesia nazionale e d internazionale contro l’ondata di lotte che percorreva l’Italia dalle scuole alle fabbriche, dalle regioni arretrate a quelle più sviluppate, ed ogni aspetto della società. Contro il cambiamento era diretta la strategia della tensione che fu, effettivamente controrivoluzionaria. E che non ha mai cessato di essere messa in atto, come dimostrano bene l’attentato messo in atto alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 o quelli che accompagnarono il periodo della cosiddetta trattativa Stato-Mafia o, ancora, l’attentato in diretta televisiva che ha accompagnato l’insediamento del Governo Letta il 28 aprile 2013. Oppure, ancora, fatti strani come le presunte recentissime minacce al senatore Sì TAV Esposito del PD, evidentemente destinate a criminalizzare ulteriormente il movimento No TAV.

Nella sparatoria davanti a Palazzo Chigi realtà e fiction televisiva sembrano addirittura essere giunte ad una insuperata sintesi, anticipando, con qualche colpo di pistola e due carabinieri feriti, il refrain che poi sarebbe diventato comune da quel giorno in poi: il pericolo dell’instabilità di governo e i rischi presenti in tutte le manifestazioni (definite come terroristiche se di classe e populistiche se espressione della destra) contrarie al suo agire e a quello della BCE. Altro che Sorrentino, ancora una volta il Golden Globe se lo sarebbe meritato il regista di quella vicenda. Prodotta sicuramente con una joint-venture tra diversi e contrastanti interessi e lo Stato come supremo mediatore.

In molti hanno, nel tempo, giocato allo stesso tavolo: servizi segreti nel pieno delle loro capacità (altro che deviati!), Democrazia Cristiana, Stati Uniti, destra estrema e moderata e, naturalmente, anche il PCI-PDS-PD. Ognuno cercò di tirare acqua al proprio mulino, ma, soprattutto, tutti concordarono sul fatto che quella stagione di lotta dovesse finire prima di diventare troppo pericolosa. Insomma, per quanto riguardava i proletari insorgenti di quegli anni, parafrasando Dante Alighieri, non li voleva l’Inferno capitalista che cercavano di rovesciare e non erano certo amati dal PCI che al di là del voto da loro non voleva altro, per non essere meno bello agli occhi della borghesia “illuminata” ( Ma chi? Gli Agnelli forse? O la sinistra DC?).

Certo la Destra minacciava, attentava e ammazzava ed anch’essa aveva un suo ben preciso piano per risolvere il problema…e un prezzo sarebbe stato pagato anche dal PCI. E allora perché non cogliere due piccioni con una fava e indirizzare una parte dell’organizzazione politica autonoma che cresceva nelle fabbriche e nelle scuole, anti-autoritaria e anti-capitalista, contro il pericolo di un colpo di stato e contro il fascismo? Inteso, quest’ultimo, solo come deviazione dal quadro democratico che il PCI e il capitalismo illuminato intendevano garantire per i secoli a venire? Far fuori gli avversari più agguerriti, sviando la furia di massa dalla lotta contro il capitale verso la difesa della legalità e dello Stato.

In fin dei conti, dalla guerra civile spagnola in poi, l’alleanza tra forze rivoluzionarie e Stato in chiave anti-fascista si è sempre trasformata in un bagno di sangue per i giovani e i proletari. La sussunzione dell’autonomia di classe all’interno delle strategie borghesi ha sempre portato ad una disfatta politica e militare di coloro che aspiravano ad un superamento radicale della società divisa in classi. In maniera drammatica nel 1939 con la cessazione degli aiuti internazionali e il patto Ribbentrop- Molotov, che portò alla fine di qualsiasi assistenza alla Repubblica spagnola, ma anche nella Resistenza con la sottomissione dell’antifascismo di classe ai compromessi con l’inossidabile classe dirigente italiana. Alla fine, le forze politiche che rappresentano variamente gli interessi del Capitale hanno sempre trovato e troveranno sempre un accordo a discapito dei lavoratori dopo aver contribuito a dissanguarne le forze.

La Tobagi cita nella bibliografia il testo di Guido Panvini “Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni sessanta e settanta (1966 – 1975)”, pubblicato da Einaudi nel 2009. Ma ancora una volta si lascia sfuggire qualcosa che avrebbe potuto minare la sua fiducia nella bontà della narrazione pidista. Infatti nel testo di Panvini, a pagina 128, troviamo un interessante estratto dai Verbali della direzione del Partito Comunista del 27 gennaio 1971, in cui a parlare è proprio quell’Umberto Terracini da lei, indirettamente, tanto stimato:”[…] nella tattica di rispondere all’indomani di ogni azione squadrista con una manifestazione […] Se non si arriva a una giornata di battaglia dando l’indicazione di mettere a posto, luogo per luogo, i fascisti e le loro sedi […] non si conclude nulla. Questo tipo di reazione […] non possiamo farlo noi come PCI. Ma deve essere una proposta che formuliamo, alla quale altri aderiscano, per poi passare all’azione”.

Chiaro era il riferimento al coinvolgimento della sinistra extraparlamentare, anche se Luigi Longo e Enrico Berlinguer si opposero. Per riprenderla poi più tardi quando, a seguito di altri attentati alle sedi e ai militanti dei partiti della sinistra istituzionale da parte dei fascisti, Longo propose addirittura la costituzione di una struttura scientifico-militare, organizzata in piccole unità che potessero rapidamente muoversi ed agire.7 Ma chi ebbe l’occasione di partecipare alle ronde all’alba, organizzate dai servizi d’ordine dei movimenti extraparlamentari di sinistra insieme ai militanti del PCI, in previsione di un possibile golpe, sa bene come tale proposta fosse ancora una volta più di facciata che di sostanza. Perfettamente compatibile con la strategia del doppio binario ideata da Togliatti come supremo specchietto, più per gli allocchi che per le allodole.

Poi, però, quando il golpe di Junio Valerio Borghese fu scoperto davvero, il PCI cambiò ancora una volta strategia: premere sulle istituzioni democraticamente e lasciare agli ultra-sinistri il compito di contenere i fascisti. Fino alle elezioni amministrative del 1975. Dopo la vittoria del PCI in quell’occasione, l’estremismo fu abbandonato e i membri dei servizi d’ordine, divenuti ormai troppo ingombranti per l’immagine che il PCI voleva dare di sé, furono criminalizzati. Di nome (fascisti rossi) e di fatto. Gli opposti estremismi costituirono così non più solo il cavallo di battaglia delle montanelliane maggioranze silenziose, ma anche della sinistra parlamentare. Finalmente e definitivamente libera di danzare sulla tomba della lotta di classe. Fino ad oggi.

Così che quando, ancora oggi, ci troviamo di fronte alle sviste della Tobagi o agli attacchi, immotivati e condotti al di fuori di ogni giustificato contesto, di Marco Travaglio contro quello che fu il servizio d’ordine di Lotta Continua non si sa davvero se ridere o piangere. Possibile che siate ancora così tanto ignoranti della storia recente? Certo le reticenze di quelli che furono i leader delle maggiori formazioni extraparlamentari, spesso più impegnati a rifarsi una verginità politica e culturale che a contribuire alla fedele ricostruzione degli eventi e delle scelte di quegli anni, non hanno aiutato a fare chiarezza né, tanto meno, scaricando ogni volta ogni responsabilità sugli irresponsabili dei servizi d’ordine (Sì, ma loro dove erano? Chi li avrebbe creati di nascosto all’interno delle organizzazioni?), ad inquadrare obiettivamente i fatti, ma chi ancora oggi osa fingere di scoprire “un sistema che chiamare corruzione è un pietoso eufemismo. Questi non sono corrotti. Questi sono subumani, vampiri, organismi geneticamente modificati che mutano continuamente natura verso la più bruta bestialità grazie all’omertà e all’inerzia di chi dovrebbe controllarli, fermarli, cacciarli”,8 per poi continuare a condannare qualsiasi forma manifesta di lotta di classe, qualche problema ce lo pone.
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La confusione di ruoli, di promesse, di interpretazioni e affermazioni e dei dati (economici, sociali, politici e storici) sembra costituire ormai l’unico stile di governo attualmente possibile e sembra costituire l’unico collante per i rappresentanti di una cultura ormai moribonda. Esattamente come per la Tobagi e per gli autori dei film e sceneggiati citati all’inizio. Finendo proprio col tradire il senso, vero, di quel Io so di Pier Paolo Pasolini9 ripetuto oggi ad libitum e, troppo spesso, a sproposito. Ma, scusate, vien da chiedere: “Ci fate o ci siete?!

Divertente sì, se non fosse che ancora oggi gli opposti estremismi servono, in Italia e in Europa. Dove ogni manifestazione contro le decisioni assassine della Banca centrale e dei banchieri al governo deve essere demonizzata e, possibilmente, criminalizzata. A meno che non sia manifestamente contraria a qualsiasi forma di lotta di classe. Così, mentre in Italia tutti i partiti istituzionali mugugnano contro l’Europa, senza mai proporre di rispedire il debito al mittente senza per forza uscire dall’Europa e dall’euro, in Grecia, con la scusa degli opposti estremismi si usa Alba Dorata per proporre anche la messa al bando di Syriza, e del suo leader Alexis Tsipras, unico partito di opposizione a non cadere nel populismo della destra di stampo fascista, leghista o grillina che sia10 .

Così mentre ad ogni svolta processuale o politica istituzionale i benpensanti di sinistra possono piangere sul fatto che ancora una volta non sono stati individuati e condannati i colpevoli e i mandanti delle stragi, ci si dimentica (anche se ad onor del vero la Tobagi sfiora questo argomento nel suo testo) che, al contrario di quelli di estrema destra o dei servizi, tutti i responsabili degli attentati compiuti dalle formazioni armate di sinistra sono stati condannati a centinaia di anni di carcere. Il depistaggio continua, mentre la teoria degli opposti estremismi rivela qual è la sua reale funzione: quella di liquidare ogni espressione compiuta della lotta di classe.

E allora, signori e signore, la domanda vera cui si deve dare risposta è, ancora una volta: “Cui prodest?A chi giova?

– A cosa doveva servire quella messinscena da buffoni, Dagenham?
– Turba la tua mente legale, eh? Facevano tutti parte del cast della nostra operazione DFCC. Divertimento, Fantasia, Confusione e Catastrofe

(Alfred Bester, Tiger! Tiger!, 1956)


  1. Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio, Storia di una strage impunita, Einaudi 2013  

  2. Quando il ribellismo di sinistra diventa il nuovo conformismo nelle scuole e nelle università, alcuni vedononel passare dall’altra parte della barricata l’unico modo di essere davvero «contro». «Molti di questi giovani diventano fascisti solo perché, non essendo comunisti, vengono ritenuti tali e trovano ostilità –dice Carlo Fumagalli, l’ex partigiano fondatore del M.A.R. (Movimento di azione rivoluzionaria), dei ragazzi che aveva arruolato – Molti studenti che ho conosciuto sono diventati fascisti soltanto perché, non avendo voluto aderire al Movimento studentesco, furono non soltanto osteggiati, ma anche pestati». In moltissime storie di vita di terroristi neri, ma anche semplici militanti, la scintilla che porta a schierarsi a destra è l’aver subito la violenza dei ragazzi di sinistra, o, essendo stati testimoni, il sentimento cavalleresco di stare dalla parte dei pochi, degli untorelli, degli emarginati” B.Tobagi, op.cit., pag. 236  

  3. Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi 2009  

  4. Giannino Zibecchi (28 anni), militante del Coordinamento dei comitati antifascisti, morì investito da un camion dei carabinieri, guidato dal milite Sergio Chiairieri, in Corso XXII marzo a Milano il 17 aprile 1975, durante una manifestazione di protesta seguita alla morte di Claudio Varalli (18 anni), studente presso un Istituto tecnico milanese e aderente al Movimento Lavoratori per il Socialismo, che fu ucciso da un militante di Avanguardia Nazionale il 16 aprile 1975  

  5. La strage dell’Italicus fu un attentato, riconducibile al terrorismo nero, compiuto nella notte del 4 agosto1974 a San benedetto di Sambro, in provincia di Bologna. Nell’attentato morirono 12 persone e altre 48 rimasero ferite.  

  6. Su quest’ultimo argomento si veda il recentissimo testo di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, I panni sporchi della sinistra. I segreti di Napolitano e gli affari del PD, Chiarelettere, Milano 2013  

  7. si veda ancora G. Panvini , op. cit, pag. 129  

  8. Marco Travaglio, Il capitale subumano Il Fatto Quotidiano, Domenica 12 gennaio 2014  

  9. Pier Paolo Pasolini, Cos’è questo golpe? Io so, Corriere della Sera del 14 novembre 1974  

  10. Si vedano: Beda Romano, Grecia, emergenza per l’ordine pubblico, Il Sole 24ore, Sabato 11 gennaio 2014 e Antonio Ferrari, L’abbraccio di Toni Negri a Tsipras che imbarazza la sinistra greca, Il Corriere della Sera, Sabato 11 gennaio 2014  

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Hallelujah (Taranto new wave) https://www.carmillaonline.com/2014/01/09/hallelujah/ Thu, 09 Jan 2014 22:59:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11859 di Girolamo De Michele

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[Questo testo è stato pubblicato come “Pre-Fazione” al libro di Sergio Maglio Taranto new wave. Dalla byte generation al Great Complotto (Scorpione Editrice, Taranto 2013, pp. 204, € 16.00). Il libro è introdotto/concatenato dal video Taranto new wave].

Now I’ve heard there was a secret chord That David played, and it pleased the Lord But you don’t really care for music, do you? Leonard Cohen, Hallelujah

1. Spellbound

“You hear a laughter cracking through [...]]]> di Girolamo De Michele

taranto_nw

[Questo testo è stato pubblicato come “Pre-Fazione” al libro di Sergio Maglio Taranto new wave. Dalla byte generation al Great Complotto (Scorpione Editrice, Taranto 2013, pp. 204, € 16.00). Il libro è introdotto/concatenato dal video Taranto new wave].

Now I’ve heard there was a secret chord
That David played, and it pleased the Lord
But you don’t really care for music, do you?
Leonard Cohen, Hallelujah

1. Spellbound

“You hear a laughter cracking through the wall
It sends you spinning You have no choice”
(Siouxie and the Banshees, Spellbound)

Ma chi gliel’avrà fatta fare, a Sergio Maglio, di aprire il vaso di Pandora della memoria e far volare fuori quei pezzi di carta, quelle foto, quei versi, quelle memorie di una stagione all’inferno? Non è infilando nella piaga il dito intinto nella tintura di iodio che si fanno i libri di successo, oggi che Taranto è diventata una città della quale tutti hanno detto che… Non poteva anche lui fare un rassicurante copincolla di cose già scritte, invece di riavvolgere lo spaziotempo e farlo scorrere dal presente al passato? E soprattutto, non poteva evitare di mandarmi un anno fa questo manoscritto dentro il quale, come nella macchina scacchistica di Poe, si nascondeva il nano gobbo dei ricordi?
No: non poteva. Per dirla con García Márquez, fa’ che arriva sempre un guastafeste a ricordare ciò che tutti cercano di dimenticare. E a chiederti di scriverci sopra qualcosa, con il cuore in mano e la tastiera bagnata di sangue.
E come si fa a scrivere della New Wave ‘mbra le cozze, senza riaprire il quaderno della nostra Spoon River, senza ricordare i fratelli che non sono più fra noi – Giorgio caduto in un fosso, e Virus e Franco portati via dalla peste, e Peppe e Samuele e Laura morti in uno schianto, e… Rain on You, fratelli e sorelle: per voi ci sarà sempre Jeff Buckley – Maybe there’s a God above – a cantare un hallelujah.

La New Wave, dunque. Quella che nelle storie della musica, ordinate come i grani di un rosario, arriva dopo il punk, che arriva dopo il rock. Ma a Taranto, il punk non c’è stato. E, in fondo, neanche il rock. C’erano nicchie, amici che si riunivano nelle case attorno a un piatto che ruotava, sette devote a Canterbury e alla Corte del Re Cremisi, pacchi di dischi comprati per corrispondenza: ma a farla da padrone erano, fuori tempo massimo, ancora gli America e i Genesis. Solo una minoranza si nutriva dell’utopia di un mondo nuovo che avremmo costruito, di magnifiche sorti e progressive che anche il rock ci raccontava. C’è ancora tempo per il giorno, quando gli occhi si riempiono di pianto, cantavamo senza sapere che quel tempo era agli sgoccioli, e i giorni del pianto erano alle porte. A Taranto, come altrove.
La Brith Invasion, l’arrivo della New Wave, ha significato questo, in Italia come a Taranto: la presa di coscienza della fine del sogno di un assalto al cielo. Schiacciato in vicoli sempre più stretti, tra lo Stato che alzava il tiro e un’altra parte che alzava i muri usando il cemento fornito dallo Stato, il movimento che voleva tutto e subito aveva abdicato a un potere che aveva le mani pulite solo perché a sparare mandava i gendarmi, e a mettere le bombe i fascisti. Billy the Kid era stato ucciso, avevano vinto i Pat Garrett, i pentiti, quelli buoni a vuotare un sacco che non avevano mai riempito. Quelli bravi a spiegarci che il mondo non può essere cambiato, solo amministrato. Un mondo sul quale il punk insegnò a sputare, a noi che avevamo Anarchy in U.K. e My Generation scritte sul banco di scuola e facevamo incazzare la professoressa (e adesso che sui libri di storia quelle canzoni sono riportate tra i documenti, mi consenta, professoressa: avevamo ragione noi!).

A Taranto, in un’epoca nella quale le informazioni non circolavano più attraverso il circuito politico, ma attraverso quello musicale – continuazione della politica con altri mezzi – toccò alla new wave prendersi la responsabilità dell’unico gesto etico possibile davanti a questo mondo: vomitarci sopra.
Leggete i testi di Siouxie, dei Joy Division, dei primi Cure, dei Sound. Leggete i testi, i documenti, i poemi che troverete in questo libro. Provate a guardare una luna piena senza sentire Jan McCulloch cantare Killing Moon. Riascoltate le sonorità basse e cupe di quei dischi, di quei gruppi, e capirete.
Lo squallore delle periferie suburbane e delle città industriali; la precarietà come condizione permanente; la depressione e il panico come cifra sociale di una società irretita dalle passioni tristi. Il punk aveva gridato No Future – non preoccuparti del tuo futuro, tanto non ce l’hai! –, ma non aveva saputo (tranne qualche singolo caso: i Dead Kennedys di Jello Biafra) andare oltre l’espressione di superficie; la new wave articolava l’urlo strada per strada, quartiere per quartiere, scrostando dai muri ogni residua patina di ottimismo (che restava buono per i parrucchieri di Sheffield). Lo spazio metropolitano veniva compreso e rappresentato come una gigantesca, onnipresente fabbrica, le cui patologie invadevano come metastasi ogni angolo del sociale: e le tragedie personali di Ian Curtis e Adrian Borland ne divennero la rappresentazione più emblematica. Non è un caso che il gruppo forse più amato, a Taranto, sia stati The Sound, altrove misconosciuto e malcompreso, nella sua cupa grandezza: lo capì anche Adrian Borland, quando all’apertura di un concerto bolognese si trovò un manipolo di tarentini che attaccarono I can’t escape myself con mezza battuta d’anticipo: e concesse loro, stupito, l’intera prima strofa, prima di cominciare a cantare.
Fu una liberazione: perché neanche quel rock che a Taranto si ascoltava sì e no aveva detto con tanta chiarezza che questo mondo fa schifo. Cos’era, il mito della classe operaia che avrebbe liberato il mondo dallo sfruttamento, se non un nascosto elogio del progresso e dell’industria? Era una forma di asservimento del movimento operaio, di subordinazione ai movimenti del capitale, interiorizzati come necessità economica: fino alla conseguente distruzione di quel movimento operaio ufficiale che anche a Taranto era servito, nel ’77-’78, come cane da guardia del capitale. Forse per questo a Taranto “Rosso”, assieme a “Primo Maggio” l’unico giornale dentro il movimento (otre ca agitprop: da ‘u spedale vuè ‘cchianne ‘a salute?) capace di aprire gli occhi su quanta merda ci fosse nella condizione di assoggettamento alla catena di montaggio, non era arrivato.
E a Taranto la fabbrica significava Italsider e Cementir: Siderlandia.

2. I can’t escape myself1

“I’m sick and I’m tired of reasoning / just want to break out shake off this skin / I can’t escape myself”
(The Sound, I can’t escape myself)

ranxMa come si è arrivati a questa situazione? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro, perché Taranto non è descrivibile con le chiavi di lettura della mancata o incompiuta modernizzazione del meridione: mentre le realtà meridionali “saltano” direttamente dalla realtà urbano-rurale all’affermazione del terziario, Taranto rappresenta un caso da manuale di sussunzione della società all’interno della fabbrica. Lo si capisce focalizzando l’attenzione sul “metalmezzadro”, quella strana anomalia che Walter Tobagi colse in un’inchiesta su Taranto nel 1979: «il vero protagonista sommerso si chiama metalmezzadro. È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra» (Walter Tobagi, Il «metalmezzadro» protagonista dell’economia sommersa al Sud, “Corriere della sera”, 15 ottobre 1979).
Nella stessa inchiesta, Tobagi coglieva «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno». Contraddizione esemplificata dalla vertenza dei lavoratori delle ditte appaltatrici, risolta con l’uso consociativo e assistenziale della cassa integrazione concordato coi sindacati: «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia. Le spiegazioni sono tante: mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale, che furono la prima base industriale della città».
Tobagi aveva già colto le linee essenziali del rapporto tra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati — che si espresse in particolare nel fornire al PCI i servizi d’ordine utilizzati per spazzare via dalle piazze il movimento, indebolito dall’assenza di una componente studentesca (l’assenza di un’università costringeva all’emigrazione i diplomati che non entravano in fabbrica) e dalla moderazione del ceto operaio.
Aggiungiamo altri due elementi, interni allo sviluppo edilizio. La città diventa oggetto di un faraonico piano regolatore che trasforma in terreno edificabile l’intera area tarantina, dando l’avvio a una speculazione che si è concretizzata nella costruzione di falansteri e quartieri-ghetto, con la conseguente deportazione in orribili periferie (il cui governo, negli anni Ottanta, è stato garantito dai clan malavitosi locali) degli abitanti dei quartieri popolari lasciati in malora – prima tra tutti la Città Vecchia, e la creazione di un potente ceto di costruttori, intrecciato a filo doppio con la malavita locale. L’emblema dell’arroganza di questo ceto è il grattacielo costruito sul percorso del lungomare che, se avesse raggiunto il faro di San Vito abbracciando il Mar Grande di levante, sarebbe stato di straordinaria bellezza.
Accanto a questa speculazione “borghese”, una selvaggia speculazione “proletaria”, incarnata dall’operaio urbano che si costruiva, spesso con le proprie mani e in regime di abusivismo edilizio, la casa al mare, devastando un litorale tutto dune di sabbia e pinete marine: l’individualismo proprietario, inoculato dalla fabbrica nell’operaio-massa tarantino, si è concretizzato in uno scempio ambientale che ha cancellato la possibilità di sviluppare un’industria del turismo paragonabile a quella del “rinascimento del Salento”.
In questo modo si crea a Taranto una peculiare composizione di classe, senza soluzione di continuità: il metalmezzadro fa da giuntura tra il contadino e l’operaio; l’operaio metalmeccanico che allarga la fascia di reddito con gli straordinari assume lo stile di vita del piccolo borghese proprietario; la piccola borghesia commerciante avvicina il proprio stile alla borghesia parassitaria, quella che scimmiotta la borghesia settentrionale intravista nelle figure di dirigenza e controllo della fabbrica (ma isolata dal contesto urbano). Il collante di questo continuum sociale è la Fabbrica, il Moloch magnifico e progressivo che nessuno mette in discussione.
Negli anni Ottanta, la crisi della siderurgia apriva le porte all’unica alternativa sociale disponibile alla miseria: la produzione illegale di reddito e la formazione di una “seconda borghesia” malavitosa che si è aggiunta alla “prima”, colmandone il deficit di forza sociale dapprima attraverso un’accumulazione originaria di capitale derivante dal controllo e dall’espansione, in regime di monopolio, del mercato delle droghe leggere (spazzando via il freak che tornava dall’India o dal Marocco) e pesanti (diffondendo dapprima l’eroina, e poi la coca), e dell’imposizione di una governance criminale dopo una feroce guerra intestina; e poi attraverso il controllo degli appalti, dei sub-appalti e dell’edilizia, all’assorbimento all’interno della borghesia locale di soggetti provenienti dalla circolazione “legale” del capitale “illegale” (cioè dal riciclaggio del denaro “sporco” in attività formalmente “pulite”), sottoposta a quella particolare forma di controllo che è la governance del debito — dall’usura al gioco d’azzardo: non dimentichiamo che la Puglia è stata la porta d’ingresso di quella autentica peste dell’immaginario neo-borghese che è il burraco. Le giunte comunali Cito e Di Bello troveranno linfa e ragion d’essere in questo humus, mentre l’inquinamento del Mar Piccolo, determinato sia dagli scarichi della fabbrica che dalla dispersione di materiale inquinante durante le attività portuali, infligge un ulteriore colpo alla sopravvivenza dell’economia ittica e alla mitilicoltura.
È in questo contesto sociale che verrà fuori Giancarlo Cito, un ex mediocre picchiatore fascista (più fuggiasco che inseguitore) dalla reputazione esagerata a dismisura dalla chiacchiera indigena che favoleggia di piazze insanguinate, interno, come i processi hanno attestato, alla malavita locale: la cui figura resta enigmatica come la venuta degli Hyksos, se non si coglie la composizione delle forze sociali e degli interessi che lo hanno sorretto, e il suo legame col sistema-fabbrica al quale si dichiarava, falsamente, estraneo, e al quale è invece organico.
È questa la città sulla quale la new wave eserciterà una critica senza sconti.

3. Grinding Halt

“Everything’s coming to a Grinding Halt”
(The Cure, Grinding Halt)

A Taranto non era arrivato “Rosso”: ma arrivò la “Makina Metropolitana”.
E non arrivò dal nulla.
Lo_SassoL’anno chiave è il 1980. Racconta, questo libro, del concerto di Lou Reed ad Avellino, che testimoniava un’insaziata fame di musica: il sottoscritto calcolò con cura i tempi della preparazione per l’esame di maturità, per esserci. Altri tarentini fuorisede (oggi li si direbbe cervelli in fuga), in quegli stessi giorni, scoprivano i Clash in piazza Maggiore. Poi i flussi cominciarono a intrecciarsi: chi partiva si incrociava con chi tornava, e con chi faceva avanti e indietro, socializzando le esperienze di una scena musicale che finalmente si riapriva ai grandi concerti – i Devo, i Bauhaus, i Pere Ubu, di nuovo i Clash. Eccetera.
Da questi incroci germinarono il Voltage Control, i Panama Studios2, la Makina Metropolitana, la mostra Taranto-Berlino. Era nata una generazione che tradiva le proprie appartenenze: il figlio dell’avvocato non sognava di fare l’avvocato, il figlio dell’operaio non sognava l’Italsider, e tutti e due, invece di sognare, suonavano, e suonando compivano la mossa fondamentale di ogni azione politica: tracciavano una chiara distinzione tra il proprio campo e quello avverso.
Qualcuno diceva: utopie, frikkettonate. Come oggi, davanti alla rivolta contro la fabbrica della morte e all’utopia di una città liberata dall’Ilva: squadrismo teppistico, idee masticate male e aria consumata, detriti del passato e rabbia implosa nel presente. E la fabbrica buona, quella che non inquina e non uccide, lo Stato che promuove un sistema industriale rispettoso della salute e della vita e non del profitto, invece, cos’è? Realismo lirico? L’avete mai vista, una fabbrica, una classe politica, uno Stato come quello di cui favoleggiano i riformisti sempre bravi a fare la critica del presente, ma a condizione che non cambi quel presente di cui abbisognano per poter fare la loro critica?

È un caso che, come scrive Sergio Maglio, «la porta che si stava cominciando ad aprire verso il mondo giovanile venne dunque precipitosamente chiusa, soprattutto per una scelta compiuta dalle istituzioni» (p. 168)? Che si possa ricondurre tutto al «distacco generazionale con le giovani generazioni, che essi [i politici e intellettuali tarantini] percepivano come inquietanti, problematiche e notevolmente ispide nei rapporti. Questi non erano più i giovani contestatori degli anni ’60 e ’70, bensì qualcosa di diverso, più oscuri, sfuggenti, imprendibili, imprevedibili e non classificabili nelle consuete categorie» (p. 120)? Che tutto dipenda dal cataldismo e dell’insularità dei tarantini, come se il carattere fosse un destino e non, anch’esso, una costruzione sociale?
L’incontro-scontro che avvenne nel Caffè, in coda alla mostra Taranto-Berlino, tra una qualificata rappresentanza del ceto politico e intellettuale locale (compreso il futuro sindaco Battafarano) e questa strana bestia di cui qui si narra, dimostrò che non c’era reale possibilità di dialogo – se non nelle pieghe di quelle intelligenze culturali, che il PCI locale ha sempre sfruttato e spremuto senza alcuna riconoscenza, timoroso di chi è capace di pensare con la propria testa – con una classe politica che considerava la propria missione quella di fare da gendarme e custode allo status quo. E nell’ottusa arroganza con la quale, alla richiesta di un centro sociale per combattere la diffusione dell’eroina, il più illustre (per retaggio politico-familiare) di quei burocrati rispose che «per combattere l’eroina non servono i centri sociali, basta il napalm sulle piantagioni e sui coltivatori di oppio» contiene già in sé tutte le ragioni della caduta libera nella quale stava per avviarsi la sinistra ufficiale jonica. Era la vigilia dell’apertura del processo per gli arrestati del 7 aprile: a Taranto i Masanielli erano ben accetti se cantati, a tre secoli di distanza, dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, non se cercavano di sovvertire il presente.
«I giovani di Taranto – scrive nelle ultime pagine Sergio Maglio (pp. 170-171) – restarono così da soli a strusciarsi come sempre nella loro piazza, che però cominciò poco alla volta a mostrarsi sempre più rada e vuota, quasi avesse perso la vivacità speranzosa di un tempo. Restarono soli, quei ragazzi, senza i laboratori creativi che desideravano, senza i teatri ed i cinema che erano stati chiusi. Chi restò, poté vedere le menti migliori di quella generazione continuare a sconvolgersi il più possibile di canne, pere e sniffate senza speranza, assistendo da stanchi e spauriti spettatori alla spenta decadenza di una città che voleva diventare metropoli e che invece vedeva scappare la qualità della vita ed i suoi abitanti. Poté osservarli mentre guardavano muti lo spettacolo di una grande industria che si ristrutturava grazie ai tanti soldi pubblici per potersi graziosamente vendere, pochi anni dopo, a un boss privato per quattro soldi. […] E così, quella città priva di verde, di ossigeno, di speranza e di futuro – che era diventata il regno di grattini, scippatori, contrabbandieri e spacciatori – nel giro di pochi anni venne consegnata nelle mani del demagogo di AT6».

Rileggendo la mia storia in questo libro, ho capito, ancora una volta, che avevamo ragione noi. L’avevamo nel ’77, come nei primi anni ’80. Ma la ragione non basta averla: bisogna che te la diano. O che te la prendi, by any means necessary.
Oggi Taranto è, ancora una volta, davanti a un punto di svolta. La storia ha il vizio assurdo di ripetersi, se nessuno spezza le sue infami circolarità: ma può anche disegnare traiettorie sconosciute, se qualcuno ha la forza di tracciarle e percorrerle.
Questo libro è una scatola di attrezzi che vengono da un passato più attuale del presente in cui siamo impantanati: il valore di questi attrezzi dipenderà dall’uso che ne verrà fatto.
Nel frattempo, grazie a Sergio per averlo scritto, e a tutti quelli che ci sono dentro per esserci stati.

I did my best, it wasn’t much
I couldn’t feel, so I tried to touch
I’ve told the truth, I didn’t come to fool you
(Leonard Cohen, Hallelujah)


  1. Questo paragrafo è tratto da Taranto: la città che non vuole morire a norma di legge, pubblicato su carmilla il 10 ottobre 2012. 

  2. In questo video lo storico concerto dei Panama Studios del 5 agosto 1983. 

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