virus – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 10 Dec 2025 21:00:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Virus letale https://www.carmillaonline.com/2025/11/26/virus-mortale/ Wed, 26 Nov 2025 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91113 di Sandro Moiso e Jack Orlando

La parola è ora un virus. Una volta forse il virus dell’influenza era una cellula polmonare sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia i polmoni. Una volta forse la parola era una cellula neurale sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno ha perso la facoltà di scegliere il silenzio. (William S.Burroughs – Il biglietto che esplose, 1962)

Chissà se Ari Aster, quando ha iniziato a progettare Eddington, ha riflettuto sulle parole di William Burroughs inscritte in uno dei testi imprescindibili della [...]]]> di Sandro Moiso e Jack Orlando

La parola è ora un virus. Una volta forse il virus dell’influenza era una cellula polmonare sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia i polmoni. Una volta forse la parola era una cellula neurale sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno ha perso la facoltà di scegliere il silenzio. (William S.Burroughs – Il biglietto che esplose, 1962)

Chissà se Ari Aster, quando ha iniziato a progettare Eddington, ha riflettuto sulle parole di William Burroughs inscritte in uno dei testi imprescindibili della letteratura americana della seconda metà del ‘900. Il film, di cui Aster aveva scritto la sceneggiatura ancora prima di esordire nel 2018 con Hereditary – Le radici del male, amplia infatti l’intuizione di Burroughs ben oltre il linguaggio vocale per adattarla all’odierna trasformazione antropologica seguita alla diffusione dei social media e delle tecnologie digitali. Una diffusione virale di cui la pandemia da Covid 19, che fa da sfondo al film, ambientato nel 2020, non può che costituire l’ovvia metafora.

La trama, sostanzialmente, è riassumibile in poche righe. Nel maggio del 2020, nel pieno esplodere del Coronavirus, delle proteste organizzate da Black Lives Matter per la morte di George Floyd a Minneapolis e della campagna elettorale per le elezioni presidenziali del novembre dello stesso anno, la cittadina di Eddington, nel Nuovo Messico, sale agli onori della cronaca quando una disputa tra l’asmatico e conservatore sceriffo Joe Cross (interpretato da Joaquin Phoenix) e il sindaco finto-progressista Ted García (Pedro Pascal) degenera rapidamente in un tragico bagno di sangue, mettendo gli abitanti gli uni contro gli altri.

Definito come un “western contemporaneo” il film è, invece, ascrivibile a quello che sta diventando rapidamente un vero e proprio genere per il cinema statunitense: quello della “guerra civile” strisciante o che viene. A differenza però dell’altrettanto recente Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson, rifiuta l’ambientazione ucronica, che già aveva caratterizzato anche Civil War di Alex Garland (2024), per inserirlo in un contesto sociale, storico e politico ben definito, dove fa spesso capolino il volto di Trump. Dando così origine a qualcosa che si potrebbe definire come una sorta di neo-realismo dell’era della comunicazione digitale.

Il regista, nato nel 1986 a New York, si è sempre mosso tra atmosfere horror, dark e noir, di cui costituiscono una significativa testimonianza i precedenti Hereditary (2018), Midsommar – Il villaggio dei dannati (2019) e Beau ha paura (2023). Ma questa volta, pur non attenuando il gusto per il noir e la violenza esplicita, prova a sviluppare un discorso, così come ha spiegato in un’intervista ai «Cahiers du cinéma», su come la diffusione degli smartphone, dei social media e dell’Intelligenza Artificiale abbia finito col dare vita ad un mondo caratterizzato da una sorta di iper-individualismo di massa in cui nessuno sembra essere più d’accordo sul concetto di “reale” o, perlomeno, su quelli che sono, o dovrebbero essere, gli elementi che costituiscono concretamente la “realtà”.

Non a caso, sullo sfondo delle vicende troneggia la proposta di costruzione nelle vicinanze della cittadina posta ai margini del deserto, e già afflitta dalla siccità, di un enorme data center. Un data center vorace di acqua ma, secondo i promotori dell’iniziativa, sindaco Garcia in testa, necessario a riportare la prosperità (se non la modernità) in un contesto economico e sociale in cui la pandemia, con tutte le sue restrizioni, sembra aver dato il colpo di grazia.

Intorno a tutto questo, però, si muovono non soltanto gli appetiti economico-produttivi della ditta specializzata in gestione dati ma anche le speranze di una parte dei cittadini, le paure dei complottisti, la volontà di riscatto di uno sceriffo debole attanagliato dai suoi fallimenti, dalle sue paure e dalle preoccupazioni per una moglie mentalmente instabile (interpretata da Emma Stone), la pervasività di una farlocca moralità di origine religiosa e le denunce degli abusi sessuali su bambini e adolescenti in loco e nell’intera America dei cinquanta stati.

Si muove la politica con la campagna trumpiana per la Casa Bianca e i giovani Antifa che promuovono manifestazioni e confusi disordini in seguito alla morte di George Floyd. Con parole d’ordine e slogan che spesso appaiono grotteschi, come quelli che riguardano una “bianchezza” che, da metafora universale delle diseguaglianze di classe, genere e razza, si tramuta in discorso assoluto da realizzare individualmente.

Con tutto il seguito, ridicolmente pomposo, di autodenunce, scuse, vittimismo e rimozione della storia portate poi parzialmente a compimento dai movimenti della cancel culture1 che proprio nel 2020 esplodeva definitivamente e di cui, in qualche modo, in tempi recenti Donald Trump ha approfittato ribaltandone il significato, per proporre la rimozione dai 21 musei e dai 14 centri di ricerca dello Smithsonian Institute i riferimenti ritenuti eccessivi e fuorvianti alla schiavitù negli Stati Uniti, in occasione del 250esimo anniversario della nascita dello Smithsonian. Una revisione orientata a “ristabilire verità e sanità nella storia americana”. Un’iniziativa tesa, sempre secondo il presidente, “ad assicurare l’allineamento con la direttiva di celebrare l’eccezionalismo americano, rimuovere narrative divisive e di parte e ristabilire la fiducia nelle nostre condivise istituzioni culturali” (qui).

Un atteggiamento che, sempre secondo quanto ha dichiarato il regista ai «Cahiers», rivela le responsabilità della sinistra che a partire dagli anni Sessanta, stanno alla base delle distorsioni destinate a dare vita a molte teorie complottiste, che si ritengono oggi patrimonio della destra populista degli Stati Uniti e non soltanto. Ma che, ancor prima di costituire un discorso di propaganda, rappresentano l’esternazione di una società che ha perso i suoi punti di riferimento, materiali e simbolici, e con essi la capacità di tenere insieme le persone, che vanno ora cercando nuovi cardini nelle verità più assurde, senza alcuna capacità di confrontarsi su un terreno comune.

Una società del piagnisteo, dell’autocompatimento e dell’autocommiserazione, in cui tutti trovano sfogo e motivi di rivincita, grazie soprattutto alle tempeste che si scatenano a partire dai social media e dal loro uso ossessivo. Fornendo parole d’ordine vuote quanto roboanti e “cause” pret-a-porter a tutte le parti in causa.

Così, se le tematiche del western classico sono spesso indirizzate nella direzione della fondazione di nuova società, dell’invenzione di una legge di fronte all’anarchia sociale, con il deragliamento dei social media prima e l’avvento dell’intelligenza artificiale poi ci si trova di fronte a una specie di “nuova frontiera”. In cui le immagini generate dall’intelligenza artificiale, ormai virulente come le parole di cui sopra, sono quelle destinate a “dirigere tutto” come un tempo si pensava della classe operaia. Anche se, come afferma ancora lo stesso Aster, tutto ciò non è normale, ma semplicemente demenziale.

Esattamente come succede nel caso di Joe Cross, non un autentico villain o principe del male, ma, piuttosto, un fallito in tutti gli aspetti della vita (lavorativi, umani e affettivi) che, nelle distorsioni prodotte dai video e dalle foto pubblicate su Instagram, “trova la forza” per affrontare e risolvere le cause dei suoi mali, più che di un unico male.

Tutti elementi cui si aggiungerà, nel granguignolesco finale che altro non potrebbe essere in una società che letteralmente affoga tra le armi, l’arrivo di un presunto commando di suprematisti bianchi sotto copertura, a bordo di un jet privato che determina il definitivo abbattimento del muro tra finzione e reale, tipico della mente paranoide che sembra governare il comportamento sociale (non solo) americano. Probabilmente convocati dalla stessa agenzia risoluta a realizzare il grande data center di Eddington, nonostante l’apparente progressismo dei suoi intenti, per innaffiare l’incendio tutt’altro che latente con un’ultima tanica di benzina.

Un film dunque ad elevato grado di ottani, confusione, violenza e follia che lascia lo spettatore frastornato, stordito dal flusso degli eventi, delle immagini e delle parole trasmesse da smartphone e computer portatili. Sfondo uditivo permanente, che molesta ogni interazione e frantuma ogni silenzio in modo ossessivo. Un gioco di rinvii in cui le immagini prodotte dall’AI e i discorsi deliranti diventano normali e facilmente spendibili. Per qualsiasi causa. Un autentico virus, mortale e irrefrenabile allo stesso tempo.

Lo spettatore esce confuso anche in virtù di una colonna sonora minimale, curata da Bobby Krlić, alla sua terza collaborazione con Aster, dopo Midsommar e Beau ha paura, insieme a Daniel Pemberton. In cui oltre ai suoni si mescolano, quasi costantemente, le voci degli utenti dei servizi digitali. In una cacofonia che risulta poter essere l’unica colonna sonora possibile per una guerra civile sicuramente in arrivo, ma priva di alcuna linea di condotta. Sia politica che di classe.

Un film spiazzante e frastornante, e per questo assolutamente riuscito, che con il lungo fermo immagine che accompagna i titoli di coda rivela chi o cosa, almeno sul momento, è davvero uscito vincitore dallo scontro feroce e insensato che lo ha percorso dall’inizio alla fine.


  1. Si veda in proposito: C. Rizzacasa D’Ortogna, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Gius. Laterza e Figli S.p.a., Bari-Roma 2022.  

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Felicità e panico nella società distopica contemporanea https://www.carmillaonline.com/2024/03/07/felicita-e-panico-nella-societa-distopica-contemporanea/ Thu, 07 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80668 di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve [...]]]> di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve dai media gratificanti inviti al godimento insieme a scariche sensoriali che gli rendono le catastrofi familiari.

Riprendendo i concetti di postmodernità e ipermodernità, Giulio de Martino segnala come se posti in opposizione, questi tendono ad avere connotazioni rispettivamente utopistiche e antiutopistiche, mentre se collocati in sequenza indicano due epoche differenti: la postmodernità corrisponde all’espansione occidentale novecentesca mentre la ipermodernità al periodo più prossimo alla contemporaneità interpretata «come epoca di esplosione distopica delle contraddizioni e dei conflitti interni ed esterni all’Occidente» (p. 55).

A proposito della postmodernità Lyotard aveva evidenziato come comportasse la crisi dell’“universalità” conoscitiva, mentre Virilio si era preoccupato di sottolineare come con essa si entrasse nell’epoca della “condivisione dell’incertezza” e dell’empatia instabile. La postmodernità ha dunque finito per trasformarsi in una “condizione ipermoderna” eclissante l’universalismo antropologico (il cosmopolitismo) alla luce di una sorta di «coesistenza incomunicante (la globalizzazione). Una situazione in cui la pluralità definita delle persone e delle culture ha lasciato il posto al pluralismo indefinito degli “account” e dei “profili personali” sui social.

Dal punto di vista tecnologico, la Web culture è una postcultura includente e generalista, in cui si registra la presenza simultanea di tutte le culture e di tutte le lingue. Vi trovano spazio tutti i livelli di conoscenza, disposti senza gerarchia in un menù sempre attivo di generi e specializzazioni. La distinzione “verticale” fra la cultura High, Middle e Low (o “popular culture”) – come pure la distinzione “orizzontale” fra aree e gruppi locali culturalmente differenziati – ne risulta ridefinita e modificata.
Dal punto di vista cognitivo, la Web culture può provocare una scarsa interiorizzazione dei contenuti e una incerta differenziazione dovuta alla marcata astrazione digitale rispetto alla varietà degli ambienti e dei gruppi. Osservandola in atto nei numerosi dispositivi che la attivano, si può definire come una cultura “extramentale” e “transindividuale” di massa. La società cosiddetta omologata resta pluralista e discorde, ma non ha vie di uscita: consente soltanto percorsi di spostamento e di redislocazione al suo interno. La spettacolarizzazione e l’autofruizione indotte dalle tecnologie degli old e dei new media si svolgono nelle forme più estreme della semiosi e della metacomunicazione (dire qualcosa per dire altro). La trasformazione delle ideologie in mode e dei comportamenti divergenti, individuali e collettivi, in esibizioni e in messaggi prodotti all’interno dei mass media mostra come le azioni si riproducano come news. La guerra, la divergenza, la rivolta, il saccheggio, il crimine, il suicidio ecc. diventano Breaking News […]
La condizione di sradicamento dalla prossimità e di fruizione indifferente di tutto ciò che accade al mondo – ciò che Virilio chiama la “cecità” – non segnala un bivio davanti a cui l’umanità si trova, ma un evento già avvenuto. La postmodernità non pone un dilemma per l’Occidente. Piuttosto induce a livello planetario una situazione distopica che si chiama “ipermodernità” e che ha come conseguenza la crisi della certezza di vivere in un mondo di valori.
Il postmodernismo ha spinto la società occidentale ad esagerare le sue potenzialità e ad interpretare la società del “passato” e quella del “futuro” come se fossero la sua ombra e la sua anima. Il possibile e il probabile sono apparsi più reali di ciò che era avvenuto nel passato e di ciò che accadeva nel presente. Mentre nel mondo tradizionale, l’“oggi” veniva spiegato sulla base di ciò che era già avvenuto […] adesso il presente viene giudicato sulla base del futuro che ci si prospetta e la futurità si preannuncia nella forma della felicità, ma anche del panico e del terrore (pp. 58-59).

Nel volume Lo spettatore turbato, alla ricostruzione filosofica delle tappe principali che hanno condotto l’Occidente dalla postmodernità alla ipermodernità operata da De Martino, fa seguito un’appendice di Edoardo Ferrini, La sublime epidemia, incentrata sulle Esplosioni pandemiche nel cinema americano, ruotante attorno al concetto di rifugiato tecnologico derivato da Giorgio Agamben (A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet 2021).

A partire da una riflessione sul racconto La maschera della morte rossa (1842) di Edgar Allan Poe – da cui Roger Corman ha tratto l’omonimo film –, Ferrini evidenzia come in esso lo scrittore abbia messo in guardia «rispetto a due pericoli o dinamiche antropologiche concrete. In primo luogo, il Nemico virale è interno, non è racchiudibile all’esterno confinando i “sani”. […] Inoltre, il capro espiatorio da bandire – l’homo sacer di Giorgio Agamben – può tramutarsi in una forza autodistruttiva perché eccessivamente immunitaria». La peste mascherata narrata da Poe e, successivamente, da Corman,

agisce come gli odierni falsi positivi, è osmotica rispetto alla reale pandemia, anche se camuffata con le persone, che nella trovata finzionale del racconto ballano mascherate. Il falso positivo ha lo stesso linguaggio dell’uomo comune, gli effetti del virus non si vedono, sono come mascherati. Oltretutto […] mai come prima dell’insorgere del Covid-19, il linguaggio mediatico e sociale ha avuto una coincidenza così forte con i sintomi virali. La chiusura da lock-down, una delle conseguenze dei social media e della connessione “privata”, insieme alla proliferazione mediatica, globalizzata e virale delle notizie. Il tutto oggi rafforzato dalla tornata paura nucleare. In questa ricerca la distopia atomica e quella virale scorrono davvero in parallelo, a cominciare dal fatto che contengono alcune somiglianze fondamentali: l’esplosione nucleare causa malattie “virali” – la velocità di propagazione – la difficile localizzazione che crea il senso angosciante della Minaccia globalizzata. […]
La distopia non è esattamente una contro-utopia che magari esisteva prima di una reale od eventuale Nuova Atlantide, oppure che arriva Dopo in maniera del tutto antitetica rispetto all’utopia. No, a dire il vero le distopie sono utopie rovesciate, degenerate. […] L’effetto distopico è contaminato da paura-terrore, è dilagante, pandemico, ed è anche un effetto di rimpianto e di perdita, verso una protezione utopica non del tutto “ancora” realizzata. L’ordine militare, di certo una delle se non l’Utopia contemporanea, è ancora un “farmaco” protettivo, almeno dopo il crollo del muro di Berlino?
Il linguaggio mediatico a sua volta è quello che più di tutti ha affondato le radici nelle distopie. La premediazione è come una sottile interfaccia tra la realizzazione disastrosa e lo schermo protettivo. L’effetto è un duplice cortocircuito tra la minaccia imminente e il bisogno difensivo e catartico che l’esposizione mediatica dovrebbe procurare, aiutando lo spettatore turbato ad ambientarsi in un am­biente minacciato (pp. 231-232).

Dunque Ferrini prosegue il suo itinerario prendendo in esame Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick, Brazil (1985) di Terry Gilliam, la serie televisiva Better Call Saul (2015-2022) di Vince Gilligan e Peter Gould, World War Z (2013) di Marc Forster e The Batman (2022) di Matt Reeves, rapportando tali opere alla recente pandemia ed ai conflitti militari che stanno ridefinendo la vita degli individuali e delle collettività.

Se nell’opera di Kubrick l’aspetto distopico può essere identificato nella bomba, nel film di Gilliam, sottolinea Ferrini, esso è rappresentato dall’esercito che, al di là del presentarsi come garante della Sicurezza, agisce secondo finalità oscure mettendo in pericolo i cittadini che dovrebbe garantire.

Il patto hobbesiano per cui il Leviatano ha il potere assoluto, senza mai però attentare alla sicurezza degli “ominidi”, in questo caso crolla. E, seguendo Giorgio Agamben (2021), nel paradigma pandemico, il cittadino tende a tramutarsi nel rifugiato. L’esercito è ingovernabile, agito da un linguaggio assurdo che rende le operazioni militari pericolose quanto le “minacce” che dovrebbero sventare. Ecco, di nuovo l’utopia della sicurezza che cozza contro la distopia del Contagio, bellico nel film, fatto di fuoco, sparatorie, esplosioni (p. 234).

Difficilmente nei film pandemici viene messa in discussione l’esistenza del virus. Solitamente questo, al pari delle forze complottiste e negazioniste che alimenta, si presenta come una forza antisistemica fonte di divisione e disgregazione che si propaga orizzontalmente, nelle modalità proprie della biopolitica o del biopotere di cui si è occupato Michel Foucault rifiutando

la derivazione verticale dei o dai “poteri forti”. È quindi più giusto parlare di ritorno alla distopia del totalitarismo nel suo paradigma immunitario, oggi. O quantomeno esiste il pericolo. Anche se tale distopia si avverasse, sarebbe di certo diversa dal classico totalitarismo staliniano diretto dall’Alto.
E, soprattutto se tale potere dall’alto esistesse veramente, la storia mostra che non è infallibile, come testimonia esemplarmente l’esplosione del reattore di Chernobyl. Rimane la distopia della contro-informazione, del proliferare altrettanto virale delle fake news. Nei totalitarismi basati sull’apologia e l’assolutizzazione del Sistema rispetto agli Individui, non fare trapelare le responsabilità del potere è più importante di sventare la minaccia effettiva (p. 243).

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Greenpass, nuovi confini e le frontiere della paura. Contributo per un ragionamento collettivo. https://www.carmillaonline.com/2021/07/29/greenpass-nuovi-confini-e-le-frontiere-della-paura-contributo-per-un-ragionamento-che-auspico-collettivo/ Thu, 29 Jul 2021 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67436 di Deriva

Dall’inizio della pandemia non ho mai scritto su blog, né uso i social, né ero dell’idea che fosse utile l’allarmismo dell’emergenza securitaria iniziale quando non si sapeva cosa stava realmente accadendo. Sono una scienziata sociale, non un medico, quindi mi sono attenuta a ciò che so fare: osservare, non esprimere parole avventate, ma continuare a osservare e scrivere. E però ora, dopo 16 mesi dall’inizio di questa pandemia (non sono due anni, mi dispiace, ma solo 16 mesi. e la deformazione della percezione del tempo che noto attorno a me [...]]]> di Deriva

Dall’inizio della pandemia non ho mai scritto su blog, né uso i social, né ero dell’idea che fosse utile l’allarmismo dell’emergenza securitaria iniziale quando non si sapeva cosa stava realmente accadendo. Sono una scienziata sociale, non un medico, quindi mi sono attenuta a ciò che so fare: osservare, non esprimere parole avventate, ma continuare a osservare e scrivere. E però ora, dopo 16 mesi dall’inizio di questa pandemia (non sono due anni, mi dispiace, ma solo 16 mesi. e la deformazione della percezione del tempo che noto attorno a me è un primo elemento che trovo allarmante), dopo 16 mesi dall’inizio della pandemia, ecco che ora sono preoccupata.

Sono preoccupata del silenzio, della totale assenza di dibattito, della mancanza totale di spazi di discussione cui ci siamo abituati e di cui non sembra vediamo più gli effetti deleteri. Sono preoccupata dell’amnesia totale che vedo attorno a me: non ci ricordiamo più cosa dicevamo solo 12 mesi fa, quando da tante e tante parti leggevo non vogliamo tornare a quello che c’era prima, perché quello che c’era prima era il problema. Sembra che non riusciamo a imparare dalla storia, e che non siamo in grado di vedere la differenza che c’è, oggi come nel 1969, nel 1980 o nel 2001, fra incidente e strage, tra incidente accidentale, e concorso in strage.
Certo, c’è un virus e questo non fa bene a nessuno e non va sottovalutato. Ma come dimenticare che il grosso numero di morti non lo ha provocato il virus da solo, bensì la gestione folle che già 16 mesi fa metteva l’economia davanti alla salute pubblica? Come dimenticare la Val Seriana e la Val Brembana nel bergamasco, sacrificate per il PIL della Lombardia che non doveva fermarsi? Come non vedere la differenza di responsabilità tra l’incidente (accidentale o meno che sia) del virus, e la strage provocata dei morti sul lavoro, o nelle RSA (Confindustria e Oms e governi vari tutti responsabili)?

I punti sono tanti, che non avendo più voluto/potuto discutere, andiamo perdendo. Proverò a nominarne alcuni (senza pretese di esaustività):

– La paura è al centro di tutte le reazioni e discorsi sul Covid, e l’incapacità di parlare e fare i conti con la paura (e con la morte, che è parte della vita e non sua eccezione) è certamente il punto Uno.

– Porre la questione in termini di vaccino si/no è porre malissimo la questione. La hubris umana ha un limite. Benissimo che i vaccini proteggano e tutelino al massimo le persone più fragili ed esposte agli effetti nefasti del Covid. Altra cosa è credere che il vaccino possa sconfiggere una pandemia che è globale, in cui i vaccini stanno toccando una porzione infinitesimale della popolazione globale, mentre corpi e soprattutto merci continuano a circolare e con essi i batteri, i virus e le varianti incrociate.

– Credo che un punto importante sia accettare che non siamo in una POST-pandemia, ahimè, ma che ci siamo ancora dentro fino al collo. La pandemia c’è e ci sarà ancora, fino a che la sua curva non raggiungerà il livello alto per poi scemare. Una pandemia globale ha dei tempi che sono al di sopra della hubris umana e della umana volontà di dominio su tutto il mondo che ci circonda.

– Il greenpass è uno strumento di controllo sociale, ieri il Ministro Speranza ha dichiarato che “Il green pass è la più grande opera di digitalizzazione mai fatta” (qui): dunque il punto è la digitalizzazione e il controllo a tappeto di tutte le azioni quotidiane, non la salute pubblica. Equiparare controllo e salute è davvero un binomio difficile da digerire. Il greenpass è un nuovo confine che stiamo vedendo erigere attorno a noi: non più alle frontiere degli Stati nazionali, ma alle frontiere dei nostri corpi. Si tratta sempre di mura, di confini che determineranno chi ha o meno dei privilegi. Ma in tante e tanti non urlavamo: La carta è solo carta la carta brucerà? Dov’è finita quella solidarietà verso i sans-papier e le persone che non possono e non potranno comunque accedere a questo pass? (e qui non è solo questione di procedure, si chiama paura anche quella).

– Il greenpass viene rilasciato dopo 1 sola dose di vaccino, che è ormai risaputo NON coprire né tutelare la persona dagli effetti nefasti del virus. Dunque nuovamente mi pare che lo Stato si voglia deresponsabilizzare per fare andare avanti l’economia senza dovere più provvedere a “ristori”. Ma dov’è la tutela della salute? Infine: il greenpass non è richiesto per entrare in Chiesa. Andare a Messa ancora una volta si rivela un assembramento consentito e tollerato beffando ulteriormente scuole, teatri e gli altri luoghi di socialità e cultura.

E alcune domande:

– Quanti soldi sono stati stanziati per implementare il sistema pubblico sanitario in Italia e in Europa in questi mesi? Perché pensiamo che la soluzione alla pandemia sia un vaccino e un nuovo passaporto digitale, invece che risorse a strutture, cultura della salute, del cibo, importanza dello sport e un attenuazione degli stress e della paura che sono invece fortissimi inibitori del sistema immunitario?

– Quale è l’intervento di salute pubblica che giustifica l’ipotesi di obbligo vaccinale per i giovani? Questo punto mi fa talmente male che non riesco neanche a commentarlo, ma è di una gravità immonda, e che non ci siano discorsi seri che prendano in conto i rischi che non conosciamo degli effetti negli anni di questo vaccino nei giovani (perché non c’è stato il tempo tecnico necessario) è l’ennesima testimonianza che viviamo in una violenta gerontocrazia patriarcale.

– Cosa ha provocato l’emergere del Covid? E cosa ha trasformato un virus in una pandemia globale? Come mai non si parla degli allevamenti industriali, dei combustibili fossili, delle centrali nucleari, e di tutte quelle miriadi di cose che producono e quotidianamente fabbricano le condizioni perché si sviluppino questo o altri virus?

– Infine: come possiamo illuderci che un vaccino risolva la pandemia (o tanto più un documento di controllo digitale), se non affrontiamo in nessun modo le cause strutturali che l’hanno provocata?

Sono cresciuta in un contesto in cui la cultura non erano nozioni da ingerire attraverso uno schermo, ma un quotidiano allenamento al pensiero critico, alla riflessione, all’osservazione e all’utilizzo del cervello che sento di avere sotto la corteccia cerebrale.

Sono caduta nello sconforto quando vedevo persone accorrere in fila allo spriz appena riapriva il bar, tanto quanto ora pensare che il vaccino “è l’unica soluzione che abbiamo”. Tanto più trovo razionalmente infondata ogni equiparazione tra vaccino e greenpass. Difenderò sempre l’importanza dei vaccini per difendere le persone a rischio e limitare la circolazione del virus. Ma nessuno può farmi credere che il vaccino a meno dell’1% della popolazione mondiale possa arginare un virus che la mal-gestione delle istituzioni che ci governano ha trasformato in pandemia. Mi rifiuto di dimenticare le responsabilità politiche che hanno portato alla strage del bergamasco e su cui- tra l’altro, per inciso- non si vuole indagare, nonostante le richieste dei familiari delle vittime.

Mi rifiuto di smettere di utilizzare il mio cervello, perché il fatto che funzioni me ne lascia una responsabilità enorme. Mi rifiuto di pensare che fare una passeggiata con o senza cane possa fare male a qualcuno, che stare chiusa in casa faccia bene alla salute (mentre le fabbriche erano sempre piene), che oggi mangiare al ristorante o bere il caffè senza essersi potuti vaccinare equivalga ad attentare alla salute pubblica. C’è una bella differenza tra egoismo neoliberale che vuole solo fare crescere il PIL o tornare a una brutta copia di quel che era prima, e un singolo corpo che cammina e respira. Le stragi le fanno i padroni, e come tanti anni fa, ancora adesso spesso si fanno aiutare dai fascisti per ottenere il risultato che vogliono.

Non smettiamo di usare la testa, non smettiamo di essere solidali, non smettiamo di cercare e condannare le responsabilità strutturali che hanno condotto al punto in cui ci troviamo.

Infine: impariamo ad ammettere che abbiamo paura, anzi che siamo terrorizzati pure. Che la morte ci spaventa, che la malattia ci fa paura. Non è un male avere paura, è parte della vita la morte, come è parte dell’amore la paura della sua fine. Eppure, impariamo a conviverci, perché l’amore è più forte.

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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 2: il falò delle vanità https://www.carmillaonline.com/2021/01/31/pandemia-economia-e-crimini-della-guerra-sociale-stagione-2-episodio-2-il-falo-delle-vanita/ Sun, 31 Jan 2021 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64697 di Sandro Moiso

“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]

Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)

Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) [...]]]> di Sandro Moiso

“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]

Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)

Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) scienza. Successivamente i ritardi nelle consegne, gli ingarbugliati (a dir poco) contratti firmati dall’Unione Europea con le ditte produttrici, il malfunzionamento degli apparati sanitari preposti e l’incompetenza delle amministrazioni locali, basata su anni di tagli della spesa per la salute dei cittadini e di prevaricazioni politiche in nome dell’interesse privato sbandierati come “eccellenza sanitaria”, hanno finito col fare più danni di qualsiasi protesta No Vax1.

Come se ciò non bastasse anche il nazionalismo economico si è ritagliato il suo spazio vitale nella corsa ai vaccini così che, nonostante la contrarietà manifestata da numerosi virologi ed esperti (o almeno presunti tali)2, anche il governo italiano, insieme al suo commissario straordinario Arcuri, ha deciso di investire in patria per sostenere quello della Reithera, di cui non si conosce assolutamente il grado di efficacia e la cui prima consegna è stimata per l’autunno di quest’anno. Ma si sa…piatto ricco mi ci ficco!

Forse può essere sufficiente un titolo, pubblicato su Repubblica il 23 dicembre 2020, per svelare il tentativo di confondere le idee del pubblico sulle questioni legate alla pandemia, alla salute pubblica e al vaccino: Peste, colera e vaiolo. Tutte le volte che i vaccini hanno cambiato la storia. L’articolo, a firma di Corrado Augias, riportava correttamente che quello per il vaiolo, scoperto nella seconda metà del XVIII secolo ad opera del medico inglese Edward Jenner, fu il primo vaccino utilizzato per sconfiggere una malattia che a lungo ha afflitto l’umanità e che soltanto all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso è stata dichiarata sconfitta. Ma il titolo sembra suggerire che anche altre gravi malattie epidemiche, come la peste e il colera, siano state sconfitte dall’invenzione di vaccini ad hoc.

In realtà, come già si è riportato in una precedente recensione pubblicata qui su Carmilla, per fare i conti con le grandi epidemie manifestatesi nella storia della nostra specie occorre ricordare che

Comprese in un arco cronologico esteso dall’antichità greca e romana ai primi decenni del XVIII secolo, le epidemie di peste coinvolsero in ogni epoca tutti i possibili aspetti della vita economica, politica, sociale, pubblica e privata, dando ampia materia di discussione a svariate discipline. La storia della medicina e quella sanitaria, la psicologia, la letteratura, la demografia, la storia economica e quella politica, hanno affrontato nel corso dei secoli questo tema affascinante e terribile, mettendo in evidenza impressionanti analogie.
E’ incredibile soprattutto constatare come, nonostante i progressi straordinari delle discipline mediche, gli strumenti a disposizione ai nostri giorni per la prevenzione delle epidemie siano ancora quelli elaborati nel ‘300 a partire dal Nord della Penisola (Milano, Firenze, Venezia, Genova, Lucca), recepiti tardi dal resto dell’Europa (tardissimo dall’Inghilterra), e adottai con successo fino al 17203.

Due scienziate e ricercatrici del King’s College di Londra e dell’università di Bristol, Caitjan Gainty ed Agnes Arnold-Forster, raccontano, poi, ancora un’altra storia. Ad esempio, anche sull’eradicazione del vaiolo – una spietata malattia virale provocata da due varianti del virus Variola, Variola maior e Variola minor, con un tasso di letalità del 30-35% – per la quale non è corretto affermare che solo i vaccini contro il vaiolo abbiano condotto alla sconfitta del patogeno, di cui l’ultimo caso venne diagnosticato nel 1977 in Somalia.
La malattia del vaiolo ha ucciso 300 milioni di persone solo nel corso del Novecento, prima di essere ufficialmente dichiarata eradicata l’8 maggio 1980, ma non ci si è arrivati da un giorno all’altro e non solamente attraverso la vaccinazione. Che è condizione necessaria ma non sufficiente di fronte a certe pandemie.
In un certo senso, dicono le due esperte, per quanto l’eradicazione della malattia sia appunto ricordata come la prova del definitivo successo dei vaccini, “non dovremmo dimenticare che il vaiolo ha imperversato per secoli prima di essere sconfitto”. I 150 anni seguenti alla prima inoculazione del vaccino da parte di Edward Jenner sono stati contraddistinti dalle preoccupazioni sull’efficacia del vaccino, dalla sicurezza e dagli effetti collaterali e ancora nel 1963 i medici britannici erano allarmati dalla scarsa adesione alla vaccinazione rutinaria contro il vaiolo, avvertendo che questa indifferenza avrebbe richiesto un vasto programma rieducativo4.

Basterebbe poi scorrere le pagine di un qualsiasi manuale di Storia delle scuole superiori per venire a sapere che, ad esempio, la peste è stata sconfitta soltanto da un miglioramento delle condizioni di vita (igieniche ed alimentari) anche se oggi non è stata debellata del tutto. Mentre il colera si annida proprio laddove ancora regnano miseria, scarsa igiene e cattiva alimentazione. Tutti e tre elementi più legati alla povertà che a fattori “naturali”.

A ricordacelo, per esempio, è stato anche Richard Horton, direttore della celebre rivista scientifica “The Lancet”, tra le cinque più autorevoli al mondo, secondo il quale:

Abbiamo ridotto questa crisi a una mera malattia infettiva. Tutti i nostri interventi si sono concentrati sul taglio delle linee di trasmissione virale. La “scienza” che ha guidato i governi è composta soprattutto da epidemiologi e specialisti di malattie infettive, che comprensibilmente inquadrano l’attuale emergenza sanitaria in termini di peste secolare. Ma ciò che abbiamo imparato finora ci dice che la storia non è così semplice. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia.

Aggiungendo poi ancora:

Il particolare svantaggio dei ceti meno abbienti e istruiti è stato certificato dalle analisi sui morti condotte negli Stati Uniti e in America Latina, dove decessi e contagi risultano prevalenti tra comunità afroamericane e minoranze. E anche dai dati dell’Istituto nazionale di statistica italiano: a partire dai mesi primaverili del 2020 è stato registrato un aumento dell’incidenza della mortalità tra le persone meno istruite rispetto a quelle più istruite. Nelle donne, il divario porta alla situazione per cui ogni 4 decedute meno istruite ne muoiono 3 con un grado di istruzione superiore, riporta l’Istat.
Le misure restrittive decise dai governi inoltre possono creare un vero e proprio circolo vizioso che riduce i redditi già bassi, diminuendo contemporaneamente condizioni di lavoro e aspettative di vita dei più deboli5.

«Parlare solo di comorbilità è superficiale», ammonisce lo scienziato.
Soprattutto, se i programmi per contrastare l’attuale epidemia, o quelle successive, non terranno conto di fenomeni come la crescita dell’inquinamento, degli effetti della povertà sulla salute psico-fisica e della mancanza di investimenti in sanità pubblica e della diffusione di malattie come obesità, diabete, malattie cardio-vascolari, respiratorie e cancro, questi programmi saranno destinati al fallimento, perché non potranno mai garantire la salute di tutti..

Certamente, il direttore di una delle più autorevoli riviste scientifiche, che al problema sindemia, ovvero quella sovrapposizione di elementi patogeni, degrado ambientale e socio-economico in grado di scatenare nuovi eventi epidemici a partire dal rafforzamento e dall’aggravamento di ognuno dei tre fattori, dedica da diverso tempo una notevole attenzione (qui), non potrà essere accusato di essere un No Vax, termine che sembra oggi definire il campo del “nemico” ogni qualvolta una voce si levi per collegare l’attuale pandemia e i suoi rimedi miracolosi, sia in campo economico (Recovery Fund, Mes, bonus, etc.) oppure scientifico (gli infiniti vaccini promessi e promossi dai governi, dall’industria farmaceutica e dai cittadini di “buona volontà” di ogni colore e risma), alle strutture sociali e ai risvolti climatici, ambientali e medici che queste portano con sé, ma occorre anche dire che non abbiamo mai sentito, in questi lunghi mesi, a livello politico e mediatico ufficiale qualcuno che affrontasse la questione in tali termini.

Anzi, sia il Cnr che l’Arpa Lombardia si sono sforzati di dimostrare, ancora nei primi giorni di gennaio che l’inquinamento non avrebbe nulla a che fare con la diffusione del/dei virus6. Si parla qui di virus al plurale poiché l’esplosione delle varianti scoperte dalla Gran Bretagna al bresciano passando per il Sud Africa e il Brasile, pur ammessa la profonda similitudine all’interno delle stesse, permette ragionevolmente di credere che l’evoluzione del virus sia piuttosto rapida e, nonostante tutte le rassicurazioni, destinata a sviluppare, come già sta accadendo, forme, forse meno letali, ma più aggressive in termini di infettività e in grado di limitare l’efficacia dei vaccini così rapidamente proposti dall’offerta commerciale delle grandi industrie farmaceutiche.

I “fattori naturali” entrano in gioco principalmente là dove la natura e l’ambiente sono stati stravolti e intossicati dall’incontrollabile sviluppo di quelle che un tempo anche la Sinistra chiamava “forze produttive”. Forze produttive il cui sviluppo ha sempre più rivelato l’autentico volto, fatto non soltanto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma anche di devastazione, sfruttamento e distruzione di quell’ambiente e di quelle risorse di cui la specie ha un estremo bisogno per sopravvivere.

Come ha affermato David Quammen, autore del noto ed inizialmente citatissimo Spillover (Adelphi, Milano 2012), ma oggi (chissà perché) sempre meno citato:

Certi gruppi di virus si adattano e cambiano molto più velocemente degli altri. I più rapidi fanno parte di un gruppo di famiglie di virus noto come virus Rna a singolo filamento. Significa che i loro genomi sono composti di un singolo filamento della molecola Rna, invece che il Dna, che è a doppio filamento. Un genoma Rna a singolo filamento commette molti più errori quando si copia mentre i virus si stanno replicando: e quegli errori, che si chiamano mutazioni, sono le materie prime dell’evoluzione per selezione naturale. Il vecchio meccanismo di Darwin. Quindi questi virus Ss-Rna, in costante mutamento e adattamento, sono più capaci di trasferirsi a nuovi ospiti, come gli esseri umani, e proliferare. E tra i più noti virus Rna a filamento singolo ci sono i coronavirus […] siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo pianeta e solo su questo. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo […] consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus.
Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse”7.

Gli esperti dell’Intergovernmental Science Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes – organismo itituito dalle Nazioni Unite per monitorare la biodiversità) ipotizzano che esistano attualmente da ottocentomila a un milione e settecentomila virus sconosciuti pronti a fare il salto di specie (zoonosi)8 con conseguenze sanitarie sempre più allarmanti, se la nostra società non deciderà di fermare la deforestazione, la cementificazione e l’urbanizzazione sempre più devastanti dei territori in ogni angolo del mondo cui si ricollegano sia il cambiamento climatico in atto che lo sviluppo di un’agricoltura sempre più intensiva.

Se la Scienza “ufficializzata” non vorrà farsi carico di tutto ciò, con un indirizzo chiaro, per continuare invece a servire la ricerca disperata di profitti ed investimenti del capitale in ogni campo, e non solo nel settore farmaceutico, è chiaro che qualsiasi serio discorso sulla diffusione del Covid-19 o di qualsiasi altro virus, sui suoi possibili rimedi e la difesa della salute pubblica rischia di essere castrato e ridotto, fin dalla partenza, ad una spettacolarizzazione di opinioni asservite e inutili, se non dannatamente pericolose per l’intera specie.

Quanto scritto fin qui va letto come ipotesi provocatoria poiché è chiaro a tutti, o quasi, che la struttura classista di una società fondata sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, delle risorse naturali e della conoscenza in nome dell’accumulazione di profitti e capitali non è certo favorevole ad un salto epocale come quello che sarebbe attualmente necessario.
Ma poiché chi scrive è ben lontano dalle posizioni No Vax e ancor meno è complottista, si rende necessario soffermarsi per un attimo su alcuni concetti.

Il capitale approfitta di qualsiasi occasione, ma non per istinto malevolo, piuttosto per sua intrinseca natura. Questo non vuol dire che il capitale e i suoi funzionari, governanti o imprenditori non importa in che ordine di importanza, siano in grado di affrontare o risolvere sempre qualsiasi situazione a proprio vantaggio, né che i suoi piani strategici siano di così lunga durata. Anzi occorre dire che la “continuità strategica” di certe azioni del medesimo, ad esempio le guerre imperialiste o di controllo dei mercati e delle materie prime, è dovuta più ad una errata percezione di azioni molto più vicine nel tempo di quanto si pensi, più che a reali strategie di lungo periodo. E di questo si deve rendere conto chi lo vuole osteggiare e inviare all’Inferno. Modificando una percezione del tempo che si presenta sempre più velocizzata e che nell’immaginario condiviso globalmente allontana gli avvenimenti grandi e piccoli come fossero sempre enormemente distanti, anche quando non lo sono. Un tempo percepito sulla base del qui, dell’adesso, dell’istante e del momento che impedisce di cogliere come siano i secoli e i millenni a scandire il tempo reale della storia della specie e del pianeta che abita. Che non corrisponde affatto a quello scandito dai media, dai social e dall’alta velocità come fine ultimo del cammino umano.

Le ipotesi espresse poco sopra sono poi confermate anche dagli ultimi dati forniti dall’Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief il nome esteso in inglese).

L’ultimo rapporto, intitolato non a caso “The inequality virus”, rivela con abbondanza di dati come la pandemia abbia “portato alla luce, nutrito e aumentato le disuguaglianze esistenti dal punto di vista della ricchezza, del genere e della razza”. Sono oltre due milioni le persone che nel mondo sono morte finora a causa del virus, e “in centinaia di milioni sono precipitati in povertà, mentre dall’altra parte della barricata i più ricchi del mondo – individui e società – stanno prosperando”, si legge nel report.
A partire dalla militarizzazione dei territori, delle decisioni politico-sanitarie e delle imposizioni cui i cittadini dovrebbero sottostare in tutti gli stati coinvolti. Accettarne compostamente e in silenzio le conseguenze, anche lavorative segnerebbe sicuramente un bel punto per il controllo capitalistico della specie e dell’ambiente negli anni a venire.
[…]L’87% degli economisti interpellati da Oxfam ritiene che il coronavirus porterà a un aumento delle disuguaglianze nel loro Paese, il 56% pensa che la pandemia peggiorerà le disparità di genere e oltre due terzi che porterà a maggiori disparità razziali. “Come una radiografia, il covid-19 ha rivelato le fratture nel fragile scheletro delle società che abbiamo costruito”, ha commentato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. “La pandemia sta portando alla luce ovunque errori e false convinzioni: come l’idea sbagliata che il mercato libero possa garantire a tutti le cure sanitarie, o ancora l’illusione di vivere in un mondo post-razzista o il mito in base al quale siamo tutti sulla stessa barca. In realtà stiamo navigando tutti nello stesso mare, ma è chiaro che qualcuno si trova su un super yacht, mentre molti altri non possono far altro che aggrapparsi ai relitti galleggianti”9.

Un altro esempio? Eccolo: mentre il rigoroso controllo degli spostamenti individuali prosegue, accompagnato da tutta una serie di limitazioni destinate ad impedire non l’affollamento nelle vie dei centri urbani o nei grandi centri commerciali per la celebrazione dei riti del consumo, ma l’eventuale adunata “sediziosa” di coloro che volessero organizzare resistenze e proteste, il governo ha tirato fuori dal cappello magico i 67 siti individuati per lo stoccaggio del materiale radioattivo formato dalle scorie nucleari provenienti dalle centrali di quel genere, forse non solo italiane (qui).

Si son levate le voci di sindaci e governatori regionali, preoccupati forse più per la salvaguardia del proprio serbatoio elettorale che per la salute dei cittadini e dell’ambiente, ma sembra difficile che chi abita quei territori possa nel giro di poco tempo mobilitarsi significativamente per opporsi alla proposta. Eppure, eppure…

Più che farsi sorprendere da ogni singola iniziativa gestionale o politico-economica del capitale e dei suoi servitori, come se queste costituissero costantemente una novità o un’emergenza assoluta (travisamento prospettico che regala al nostro avversario proprio il vantaggio su cui da sempre conta), si rende sempre più necessario anticiparne e prefigurarne le mosse e il destino, individuandone per tempo i punti deboli e le linee di frattura in cui poter inserire la leva adatta ad ampliarne le contraddizioni. Prima che questo riesca recuperare il tempo o il vantaggio, sempre e solo, momentaneamente perduto.

(2continua)


  1. Secondo i dati “reali” forniti dall’Iss e Istat, la campagna vaccinale in Italia, continuando di questo passo e anche senza tener conto del blocco del vaccino di AstraZeneca per gli over 65, potrebbe aver termine nel novembre 2025: Giampiero Maggio, Vaccini anti Covid, altro che marzo 2021: la campagna in Italia finirà a novembre 2025, “La Stampa”, 28 gennaio 2021  

  2. Gli scettici del vaccino italiano. “Due che funzionano già ci sono, che senso ha?”, “Huffpost”, 30 gennaio 2021  

  3. Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste, Editoriale Jouvence, Milano 2020, p. 13  

  4. Si veda: Simone Cosimi, Perché non bastano i vaccini per sconfiggere un virus, e varrà anche per il Covid-19, “Esquire”, gennaio 2021  

  5. Si veda ancora: Edmondo Peralta, “Covid-19 is not a pandemic”: non una pandemia, ma una “sindemia” (qui e qui)  

  6. Si veda, ancora: L’inquinamento non favorisce la diffusione del Covid: lo studio di Cnr e Arpa Lombardia (msn.com)  

  7. Si veda https://www.wired.it/play/cultura/2020/03/09/coronavirus-david-quammen-spillover-intervista/?refresh_ce  

  8. Si veda: Davide Michielin, Le nuove epidemie: dopo Covid quali sono i rischi per l’umanità, la Repubblica, 20/11/2020  

  9. Chiara Merico, Covid e disuguaglianze: i Paperoni hanno recuperato in 9 mesi, i poveri ci metteranno 10 anni. Italia, 10 milioni “senza rete”, “Business Insider Italia, 25 gennaio 2021  

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Effimeri cercatori di senso https://www.carmillaonline.com/2021/01/20/effimeri-cercatori-di-senso/ Wed, 20 Jan 2021 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64567 di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno [...]]]> di Sandro Moiso

Telmo Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 280, 16,00 euro

La finitudine ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. (Telmo Pievani)

Non vi può essere alcun dubbio che l’attuale situazione di confusione pandemica abbia spinto molti a riscoprire la necessità di confrontarsi con la morte e la finitudine di tutte le cose. Riflessione che a molti potrà sicuramente sembrare deprimente, triste e rabbuiante, ma che invece Telmo Pievani, in questo romanzo filosofico costruito intorno ad un dialogo immaginario e mai avvenuto tra il genetista Jacques Monod e lo scrittore Albert Camus, riesce a trasformare in un autentico inno alla vita e alla sua specificità nel contesto di un universo che non è sicuramente adatto ad ospitarla.

L’autore immagina che Camus non sia deceduto nell’incidente d’auto che pose fine alla sua vita il 4 gennaio 1960 e che l’amico Jacques Monod si rechi ripetutamente in ospedale per portargli conforto e dare vita, insieme a lui, ad un testo dedicato appunto alla finitudine e, paradossalmente, alle enormi potenzialità di “liberazione” che tale coscienza può portare con sé. Testo che, all’occhio attento del lettore che anche solo conosca in parte le opere dei due premi Nobel (assegnato al primo nel 1957, per la Letteratura, e al secondo nel 1965, per la Fisiologia e la Medicina) risulterà costituito proprio dall’essenza delle opere dei due intellettuali. In particolare, per il libertario Camus, tratte da L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo e per lo scopritore del controllo genetico della sintesi delle proteine (insieme a agli amici e colleghi di una vita François Jacob e André Lwoff, tutti e tre uomini della Resistenza francese contro l’occupazione tedesca e il nazifascismo) da Il caso e la necessità. Testo pubblicato nel 1970 e destinato, dopo L’origine delle specie di Darwin, a suscitare uno dei più importanti dibattiti scientifici e filosofici.

I due, inoltre, al momento della morte avevano lasciato incompiuti gli appunti per due possibili testi 1, cosa che permette a Pievani di immaginare un loro ulteriore testo a quattro mani, completato nella finzione narrativa al momento della morte di Camus, posticipata al 26 giugno 1960.
Telmo Pievani, professore di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, può essere considerato come una sorta di fuorilegge del sapere italiano. Da anni, infatti, il suo lavoro disobbedisce alla regola che informa la scuola, l’università e i pensieri che in quelle si sono formati: la regola secondo cui da una parte (e più in alto) ci sarebbero le discipline umanistiche, dall’altra ci sarebbero quelle scientifiche.

Proprio per abbattere queste barriere, oggi decisamente superate, ha studiato fisica, poi filosofia della scienza e, infine, biologia evoluzionistica, finendo per applicare la filosofia della scienza alla biologia e creando così un sapere che in Italia non c’era, Un sapere e una concezione della scienza che lo accomuna ai due grandi “eretici” protagonisti del dialogo intellettuale contenuto nel romanzo. Un sapere mai precluso, però, agli avvenimenti del mondo circostante e sempre conscio dell’obbligo alla rivolta contro l’ingiustizia compreso nel ruolo dello scienziato autentico e degli intellettuali degni di questo nome (oggi in Italia piuttosto scarsi, se non assenti del tutto).

Lo scienziato è un sovversivo a tutto tondo. Si rivolta contro le conoscenze acquisite, contro il sapere dell’epoca, contro ogni conservazione, pagandone il prezzo. Lo scienziato sfida necessariamente le autorità precostituite, comprese quelle interne alla scienza. Lo scienziato si rivolta contro le ipotesi dei colleghi e dei pari, contro le correnti di pensiero dominanti, contro le tradizioni di ricerca alternative […] Lo scienziato si rivolta contro le sue stesse concezioni, le rimette continuamente in discussione, si tormenta e infine le modifica.
Lo scienziato è un contestatore nato che tradisce i suoi maestri […] Lo scienziato disobbedisce
ai suoi mentori e ai suoi mecenati, oggi diremmo ai suoi finanziatori […] Quale migliore interprete
della rivolta?
[…] Si rivolta per mestiere, per etica della conoscenza, per competenza professionale, e questo lo rende un eretico di una specie particolare. Lo scienziato, infatti, non deve confortare né rendere felici gli esseri umani [ma] deve dire la verità, che a volte – anzi, spesso– è scomoda, spiazzante, controintuitiva. Sfida la percezione comune [poiché] suo unico nemico è la menzogna2.

Sulle moderne tracce di Lucrezio e del suo De rerum natura e, perché no, anche di Leopardi e delle sue riflessioni poetico-filosofiche, ecco allora che il discorso scientifico sulla finitudine di tutte le cose (dell’universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi). ci rivela, fin dalle pagine iniziali del libro che non solo la Terra è vecchia:

per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto.
Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo.
[…] In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali […] Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo […] Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita.
Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.
Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri3.

Si chiede poi ancora l’autore Pievani/Monod/Camus:

Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca
3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, peri cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens4.

Nulla rispetto alla, soltanto presunta, eternità del cosmo, ancor meno se riferito soltanto alla nostra specie.
A questo punto il senso di insignificanza del tutto, del vuoto che ci circonda e che ci attende, così come attende l’Universo in tempi appena più lunghi, potrebbe schiantare qualsiasi speranza o velleità, precipitandoci nel nichilismo più assoluto. Eppure, eppure…
Pievani immagina che Monod e Camus leggano e discutano le bozze praticamente sul letto di morte dello scrittore francese mentre, allo stesso tempo ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi oppure commentano i tragici fatti che hanno accompagnato la rivolta d’Ungheria, pochi anni prima, e le sue conseguenze sulle vite di amiche e amici conosciuti. Oppure commentano le infinite casualità in cui la possibile morte, per mano del nemico o per scherzo del destino, è stata evitata per un soffio. Ed è altamente simbolico il fatto che le bozze siano completamente lette e approvate un soffio di tempo prima che Camus si addormenti per sempre (e per davvero).

Perché l’uomo, forse l’unico animale simbolico del pianeta e quindi, probabilmente, dell’intero universo, porta con sé la grande capacità di aver saputo concepire, allo stesso tempo, la propria finitudine e immaginare il modo di vincerla. In questo secondo aspetto sembrano infatti risiedere l’emergere sia del desiderio che della rivolta, purché questo, ammonisce il testo, non si lasci abbindolare dalle illusioni religiose: siano queste di carattere monoteistico, politeistico o animistico.

Cogliere il miracolo autentico della momentanea esistenza della nostra specie e delle nostre brevissime vite non può essere un fatto religioso, ma piuttosto l’assunzione della piena coscienza della durata di questo attimo, proprio perché unico e irripetibile.
«Come onde del mare, ci siamo sollevati per un momento ad ammirare il resto dell’oceano e poi ci immergeremo di nuovo nel tutto»5. Compreso ciò, ci sarà probabilmente dolce naufragare in questo mare, anche se l’inquietudine continuerà ad animare e pervadere il nostro modo di essere effimere creature volte alla ricerca di un senso delle cose.

Ma, una volta coscienti dell’istantaneità del tutto, una volta divelte le illusorie paratie della potenza del destino manifesto dell’Uomo, tutt’altro che al centro dell’Universo, non potremo e non dovremo dedicarci ad altro che alla rivolta contro tutto ciò che vuole ridurre questo breve istante di eternità, vissuto da ognuno e dalla specie nel suo insieme, a miserabile commedia di potere, violenza, sfruttamento, ricerca della ricchezza e consumo smoderato e senza scopo. Solo in tal modo sarà possibile, pur nei limiti del tempo concessoci, godere pienamente della vita, ben consci che «anche se ognuno di noi finirà, anche se la vita finirà, anche se la Terra finirà, anche se le galassie si raffredderanno, anche se l’universo in un gran botto finirà, anche se tutto cadrà in una notte perpetua, nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla»6.

Una concezione esclusivamente utilitaristica della Scienza la ritiene

un’attività esclusivamente costruttiva e creativa, oltre che utile. Si dimenticano così le enormi potenzialità distruttive, in senso culturale, del metodo scientifico, che ha reso indifendibili uno dopo l’altro i concetti tradizionali che avevano dato un significato alla vita umana. Non c’è dogma, non c’è aristocrazia colta che possa reggere, dinanzi a un ribelle del genere. Ha i fatti dalla sua parte. E i fatti, certe volte, sanno essere implacabili. Come disse nel 1923 il biologo John B.S. Haldane in un discorso non a caso rivolto alla Heretics Society di Cambridge, coloro che, come gli scienziati, trovano “nella ragione la maggiore e la più terribile delle passioni” sono “i distruttori di civiltà e imperi in declino, disintegratori, deicidi, cultori del dubbio”7.

Così, nella sua essenza, al di là dell’illusione di vincere la morte contenuta nelle religioni o nel suo uso meramente “tecnico”, ci ha insegnato che

Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso. Non siamo
più schiavi di una posizione privilegiata nel cosmo. Non siamo più schiavi di un radioso avvenire da tradurre in realtà. Non siamo più schiavi di un’attesa che vanifica il presente. Siamo circondati da due oceani di inesistenza, ma nel dirlo esistiamo. Non c’è nulla di disperante, quindi, nel dispiegarsi della finitudine di tutte le cose, perché non c’è vita che, almeno per un attimo, non sia stata immortale.
Avere coscienza della finitudine ha inoltre un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino, ma ci dona anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso. La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino, della solidarietà tra disperati, una solidarietà che nasce tra le catene. Siamo mortali, ma non siamo soli. Lo siamo tutti. Siamo uniti nella sofferenza, nello sforzo eroico di Sisifo, partecipi della medesima sorte: noi, gli altri esseri viventi, il pianeta e l’universo. Rivoltarci contro la finitudine ci stringe insieme8.

Nel restituirci il “senso” della fine ultima e della rivolta come strumento di emancipazione non solo sociale ma umana e vitale, il libro di Pievani, da leggere e rileggere proprio nei momenti difficili e apparentemente più disperanti, si rivela un autentico livre de chevet destinato ad accompagnare il lettore per molto tempo, rivelandogli ad ogni successiva lettura come il confine tra vera scienza e autentica poesia sia, talvolta, assai sottile.


  1. si tratta di L’ultimo uomo per Camus e di L’uomo e il tempo per Monod  

  2. Telmo Pievani, Finitudine, pp. 272-273  

  3. T. Pievani, op. cit., pp. 12-14  

  4. ibidem, pp. 16-17  

  5. ibidem, p. 245  

  6. ibid., pp.276-277  

  7. ibid., p. 274  

  8. ibid., p.252  

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Il libro bolañiano dei morti di Piero Cipriano https://www.carmillaonline.com/2020/11/13/il-libro-bolaniano-dei-morti-di-piero-cipriano/ Fri, 13 Nov 2020 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63321 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Il libro bolañiano dei morti, Milieu, Milano, 2020, pp. 176, € 16,50

Eccoci. Quel provocatore di Piero Cipriano – uno che, con il mestiere che fa, ha imparato a individuare la follia sopratutto al di fuori dei luoghi in cui questa società ha preteso di confinarla – ha dato alle stampe un libro costruito sulle Chiamate telefoniche pubblicate su “Carmilla”. «Il libro bolañiano dei morti si pone come spartiacque tra la precedente trilogia basagliana della riluttanza e la prossima trilogia psichedelica della resistenza. Questo passaggio tematico, dalla liberazione [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Il libro bolañiano dei morti, Milieu, Milano, 2020, pp. 176, € 16,50

Eccoci. Quel provocatore di Piero Cipriano – uno che, con il mestiere che fa, ha imparato a individuare la follia sopratutto al di fuori dei luoghi in cui questa società ha preteso di confinarla – ha dato alle stampe un libro costruito sulle Chiamate telefoniche pubblicate su “Carmilla”. «Il libro bolañiano dei morti si pone come spartiacque tra la precedente trilogia basagliana della riluttanza e la prossima trilogia psichedelica della resistenza. Questo passaggio tematico, dalla liberazione dai manicomi alla liberazione della coscienza dalla gabbia della realtà ordinaria accade, per congiuntura o sincronicità, nell’anno del grande panico. L’anno in cui il mondo scopre di essere in uno stato di Bardo, che rende inevitabile l’esercizio di sconfinamento dai limiti del proprio io. “Questo nuovo sforzo letterario di Piero Cipriano, psichiatra basagliano e psico-farmacologo critico, è un lungo e fitto pensiero oscuro. È un presente che incombe sul futuro… Forse impazziremo tutti quanti.”»

Così si esprime Pierpaolo Capovilla, autore della prefazione al libro di Cipriano pubblicato da Milieu edizioni che, come detto, ingloba, rielaborandole, anche quelle Chiamate telefoniche pubblicate su “Carmilla” che tracciavano una storia iniziata «quando il virus ancora non era epidemico, ancora si poteva uscire di casa, fare la spesa, correre nei parchi, ancora non era iniziato il trattamento sanitario obbligatorio con obbligo di dimora a casa per chi una casa ce l’ha, e possibilità di uscire solo se i motivi sono con-provati».

Le Chiamate terminavano quando ormai il virus sembrava avesse concluso il suo mandato… avendo nel frattempo contagiato, eccome, seppure «in altro modo», tutti e tutto… Il libro bolañiano dei morti è andato oltre, continuando a fare i conti con il passato, con il presente e con il futuro ricordando che

«Le epidemie (scrive Paul B. Preciado) “sono grandi laboratori d’innovazione sociale”. Se l’epidemia della lebbra era stata gestita necropoliticamente escludendo i lebbrosi dalla città, l’epidemia di peste fu affrontata invece con forme di “inclusione esclusiva, cioè segmentando la città e confinando i corpi in casa” (scrive Foucault). Oggi il Covid ha riproposto questo doppio schema, da una parte il modello biopolitico di Italia Francia Spagna con un lockdown inflessibile che ricorda l’inclusione esclusiva da peste, dall’altra il modello psicopolitico di Corea del Sud Taiwan Hong Kong Giappone e Cina con il monitoraggio di smart phone e carte di credito. È la nemesi del delirio sovranista. Che pare già preistoria. L’Europa chiude le frontiere, l’America chiude le frontiere, muri chilometrici, centri di detenzione per migranti infetti, virali. Arriva il nuovo migrante invisibile (il virus) e sposta la frontiera sul ballatoio di casa tua. Calais o Lampedusa diventa il tuo condominio. Il confinamento del migrante non lo fai più nel centro di detenzione ma nel tuo appartamento, perché il migrante infetto potresti essere tu, l’ospite indesiderato è dentro di te. Il modello biopolitico, europeo-americano, perde. Il modello, psicopolitico, asiatico, vince. Controllare corpi, controllare menti, senza pelle senza mani senza scambio di contante usando sempre carte di credito senza parlare vis a vis lasciando audio vocali senza volto (che è coperto da maschera) senza nome basta l’indirizzo mail o il profilo Facebook il corpo è sostituito da un codice, e la casa è il luogo dove tutta la vita si svolge lavoro scuola consumo sesso. Lì sappiamo dove trovarti. Non puoi essere altrove. Come ti salvi dalla macchina algoritmica che estrae continuamente dati che vanno a costituire il tuo avatar? Come renderti irriconoscibile al deep learning digitale che si adopera, click dopo click, connessione dopo connessione, post dopo post, per classificarti, inquadrarti, diagnosticarti in una diagnosi che non è più psichiatrica ma è algoritmica? Come fai a renderti (stirnerianamente, anarchicamente) unico incatalogabile inclassificabile imprevedibile irraggiungibile?»

Il libro bolañiano dei morti di Cipriano esce ora, con i lockdown di nuovo in essere, ricordando che la storia «si ripete sempre due volte la prima è tragedia la seconda è commedia anzi no è un film dell’orrore anzi no è un film di zombie gli zombie sono metà dell’umanità che si è acconciata con una mascherina sul grugno e non vuole più toglierla, e non dà più la mano e non esce di casa salvo quando deve fare cose per sopravvivere, la vita è sopravvivenza, ora niente più divisione del mondo in due blocchi: destra/sinistra, occidente/blocco comunista, ricchi/poveri, nord/sud, la divisione adesso è tra zombie-con-maschera, d’ora in poi definiti i responsabili e zombiesenza-maschera di volta in volta definiti i complottisti, oppure i negazionisti, oppure sentite questa (sembra fatta apposta per me) i cretini libertari.»

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L’immondo di Quark https://www.carmillaonline.com/2020/08/02/limmondo-di-quark/ Sun, 02 Aug 2020 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61762 di Alessandra Daniele

Dal punto di vista strettamente scientifico, i politici nostrani sono degli organismi perfetti. Si adattano a qualsiasi ambiente. Sfruttano qualsiasi situazione. Si nutrono di qualsiasi cosa. Hanno un appetito superiore a quello di qualunque predatore, e una capacità e velocità di mutazione superiori a quelle di qualunque virus. Proliferano anche nelle condizioni peggiori. Si moltiplicano anche per scissione. Né glaciazioni, né inondazioni, né desertificazioni, né terremoti, né piogge di meteoriti riuscirebbero mai ad estinguerli del tutto. Potrebbero essere l’unica specie sul pianeta a sopravvivere a una guerra nucleare. Superano di gran lunga la resistenza degli scarafaggi. Purtroppo però [...]]]> di Alessandra Daniele

Dal punto di vista strettamente scientifico, i politici nostrani sono degli organismi perfetti.
Si adattano a qualsiasi ambiente.
Sfruttano qualsiasi situazione.
Si nutrono di qualsiasi cosa.
Hanno un appetito superiore a quello di qualunque predatore, e una capacità e velocità di mutazione superiori a quelle di qualunque virus.
Proliferano anche nelle condizioni peggiori.
Si moltiplicano anche per scissione.
Né glaciazioni, né inondazioni, né desertificazioni, né terremoti, né piogge di meteoriti riuscirebbero mai ad estinguerli del tutto.
Potrebbero essere l’unica specie sul pianeta a sopravvivere a una guerra nucleare.
Superano di gran lunga la resistenza degli scarafaggi.
Purtroppo però fanno anche molto più schifo.
Ne stiamo avendo una prova evidente e significativa anche in occasione della pandemia di Covid-19. I loro intrallazzi non si sono fermati un momento, neanche durante la fase più rigida del lockdown, neanche nelle zone più colpite dal virus.
Mentre gli esseri umani morivano a migliaia, loro continuavano a prosperare, approfittando di ogni opportunità di guadagno offerta dalle circostanze.
Ogni possibilità di tornaconto, sia politico, in termini di consenso e posizioni di potere, che economico, in termini di arricchimento personale.
Questa è la specie infestante alla quale sarà affidata la gestione sul territorio dei miliardi di euro del Recovery Fund.
È la più adatta.
La più simile a quella che guida l’Unione Europea.

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Paziente zero https://www.carmillaonline.com/2020/07/12/paziente-zero/ Sun, 12 Jul 2020 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61269 di Alessandra Daniele

– Hai di nuovo sospeso i tuoi farmaci. – Ricomincio quando voglio. – Ma tu non vuoi, Giuseppe. E sai cosa ti succede quando non prendi i tuoi antipsicotici. Ricominci a crederti Presidente del Consiglio. – Io sono Presidente del Consiglio. Lo psichiatra sospira. – Ecco, di nuovo quella storia della dimensione parallela nella quale tu sei diventato premier di due diversi governi consecutivi… L’uomo annuisce. – … E poi una misteriosa pandemia ti ha consentito di assumere pieni poteri, e dichiarare lo stato di emergenza. L’uomo annuisce ancora. – Esatto. E ho appena deciso di prorogarlo fino [...]]]> di Alessandra Daniele

– Hai di nuovo sospeso i tuoi farmaci.
– Ricomincio quando voglio.
– Ma tu non vuoi, Giuseppe. E sai cosa ti succede quando non prendi i tuoi antipsicotici. Ricominci a crederti Presidente del Consiglio.
– Io sono Presidente del Consiglio.
Lo psichiatra sospira.
– Ecco, di nuovo quella storia della dimensione parallela nella quale tu sei diventato premier di due diversi governi consecutivi…
L’uomo annuisce.
– … E poi una misteriosa pandemia ti ha consentito di assumere pieni poteri, e dichiarare lo stato di emergenza.
L’uomo annuisce ancora.
– Esatto. E ho appena deciso di prorogarlo fino a dicembre. Non tanto per fronteggiare il virus, quanto per tenere sotto controllo l’autunno caldo. Le piazze devono restare vuote. Ci penso io.
– Giuseppe, ti rendi conto di quanto sia assurda questa tua fantasia?
– Non è una fantasia. È una dimensione parallela – ripete l’uomo in tono pignolo.
– E come fai a trasferirti in questa dimensione?
– Con la forza del pensiero.
– Quando sospendi gli antipsicotici, giusto?
– Devo farlo. Il mio paese ha bisogno di me. Solo io sono riuscito a convincere l’Unione Europea ad aiutarci. Sta per concederci 174 miliardi di fondi per riassestare la nostra economia.
– Giuseppe, stai peggiorando. Devi assolutamente riprendere i tuoi farmaci.
L’uomo scuote la testa.
– Non adesso. Io sono l’epicentro d’un cambiamento epocale. Sono il Punto Zero.
– Sai che posso ordinarti un TSO. Un trattamento sanitario obbligatorio.
– Non ci sono gli estremi. Qui io non sono una minaccia né per me, né per gli altri. È giuridicamente chiaro.
– Già, tu eri avvocato…
– Io sono avvocato. E Presidente del Consiglio – l’uomo sorride – Per quanto assurdo possa sembrare alle persone limitate come lei, che ignorano le infinite possibilità del multiverso. E del trasformismo.

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Il Conte Tacchia https://www.carmillaonline.com/2020/06/14/il-conte-tacchia/ Sun, 14 Jun 2020 20:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60709 di Alessandra Daniele 

Tacchia significa zeppa di legno. “Metterci una tacchia” vuol dire quindi cercare di rimediare a qualcosa alla meno peggio, in modo raffazzonato e precario. Ed è il massimo che il governo Conte sia stato capace di fare riguardo ai danni catastrofici della pandemia, come a qualsiasi altra crisi si sia ritrovato ad affrontare. Quando non ha peggiorato le cose. E i risultati si vedono. Le mascherine non si trovano. I soldi promessi non arrivano. I tamponi non bastano. I negozi chiudono. Le fabbriche annunciano licenziamenti. Ma Conte rimane al suo posto. Perché lui stesso è una tacchia. Ed è anche un [...]]]> di Alessandra Daniele 

Tacchia significa zeppa di legno.
“Metterci una tacchia” vuol dire quindi cercare di rimediare a qualcosa alla meno peggio, in modo raffazzonato e precario.
Ed è il massimo che il governo Conte sia stato capace di fare riguardo ai danni catastrofici della pandemia, come a qualsiasi altra crisi si sia ritrovato ad affrontare. Quando non ha peggiorato le cose.
E i risultati si vedono.
Le mascherine non si trovano. I soldi promessi non arrivano. I tamponi non bastano. I negozi chiudono. Le fabbriche annunciano licenziamenti.
Ma Conte rimane al suo posto. Perché lui stesso è una tacchia.
Ed è anche un Conte Tacchia. Un cialtrone vanesio che si dà arie salottiere da Belle Epoque, fra le macerie e le bare.
Non che l’opposizione abbia o avrebbe fatto di meglio, anzi.
Nonostante le sguaiate risse quotidiane per motivi pretestuosi, di visibilità o spartizione di poltrone, in realtà i due schieramenti condividono la stessa impostazione politico-economica di fondo: liberismo mercatista, mal temperato da un po’ di assistenzialismo clientelare.
Non a caso sono entrambi fans delle Grandi Opere, compreso il leggendario Ponte sullo Stretto di Messina, che tirato fuori in questi giorni risulta particolarmente grottesco.
Ed entrambi, in obbedienza a Confindustria, hanno negato la zona rossa ad Alzano e Nembro.
Questa falsa alternativa fra due facce dello stesso culo è l’unica proposta dalla nostra cosiddetta democrazia liberale, parte d’un sistema socio-politico che ha tradito tutte le sue promesse di benessere, libertà, sicurezza e progresso.
Ma la misura è colma.
Gli Stati Generali potrebbero davvero portare al Conte Tacchia la stessa fortuna che portarono a Luigi XVI.

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Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

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