Virgilio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Troia brucia dopo una guerra senza fine https://www.carmillaonline.com/2023/03/30/troia-brucia-dopo-una-guerra-senza-fine/ Thu, 30 Mar 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76699 di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della guerra, quando non c’è più rispetto né degli dei né degli uomini: violenza cieca perpetrata ai danni di donne e bambini inermi. La persis, cioè la caduta e la presa di una città, nella fattispecie Troia, non è fatta di gesta epiche e valorose, di scontri in battaglia, di duelli ma di soprusi e violenze esercitate nei confronti di esseri umani indifesi. Come scrive Camerotto, “il racconto dell’Ilioupersis è testimonianza di ciò che è la guerra, non delle glorie, non delle prodezze memorabili degli eroi. Sono glorie maledette, lo sappiamo bene. Allora raccontare la persis è la disperazione che sta nei grandi occhi delle donne, delle Troiane, nei loro gesti, nelle emozioni tremende, nelle grida e nei pianti delle loro voci”. È un po’ come la guerra ‘al grado zero’: contiene tutti i suoi orrori, i genocidi, i massacri della popolazione inerme. E se il racconto della persis di una città è un motivo diffuso presso diverse culture antiche del Mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto, le violenze perpetrate dai soldati nei confronti di una popolazione ‘nemica’ assediata e vinta riecheggiano in ogni tempo, fino alla modernità e alla contemporaneità. Quelle stesse violenze, oggi, non sono più raccontate dai dipinti su un vaso ma dai media che, quasi in tempo reale e in modo brutale, ci propongono immagini di genocidi e massacri, dal Ruanda all’Ucraina.

Alberto Camerotto riesce a spiegare i temi portanti del racconto della caduta di Troia, un autonomo blocco narrativo epico, in modo semplice ma non banale. Il suo saggio è strutturato come una grande narrazione in cui – a fianco di frequenti citazioni dagli autori analizzati (soprattutto Omero, Virgilio, Petronio, Quinto Smirneo e Trifiodoro), in greco e in latino, seguite dalla traduzione, e di un apparato di rigorose note di carattere filologico che dispiegano un’ampia bibliografia sull’argomento – incontriamo uno stile diretto e, per l’appunto, narrativo, caratterizzato da un periodare breve, con frequente punteggiatura, capace di creare nella mente del lettore immagini forti ed efficaci che lo accompagnano nel susseguirsi del racconto. L’analisi dello studioso si incentra quindi su “quattro motivi che fanno da punto di riferimento o da nuclei tematici della narrazione, attorno ai quali si aggregano gli altri motivi: la guerra infinita, l’inganno del cavallo di legno, la festa della liberazione, la persis della città”.

Lo scontro fra Greci e Troiani si trasforma in una guerra senza fine: anche su quella di Troia, all’inizio, aleggia l’illusione di una guerra lampo. E, come molte guerre che, anche nella contemporaneità, si sono protratte per lungo tempo, anch’essa inizia come una grande spedizione della ‘guerra giusta’ per vendicare il rapimento di Elena. La narrazione epica dell’Iliade inizia dall’ira di Achille, al nono anno di scontri, quando ormai la “guerra infinita” è diventata il paradigma e il segno dell’identità, e “nella celebrazione se ne dimentica il significato reale, si dimenticano i morti e le sofferenze, quelle più semplici, quotidiane, tremende, proprio mentre ne costruiamo la memoria”. Ecco che gli anni devono essere dieci, un numero dal valore simbolico. I morti si aggiungono ai morti perché “quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro”. Lo stesso potrebbe valere anche ai giorni nostri, in cui gli apparati bellici sono al servizio del capitale e dei suoi interessi: quelle stesse esigenze di carattere economico e strategico si trasformano in valori assoluti, in idee che non è possibile mettere in discussione, dall’una e dall’altra parte, come nel conflitto in Ucraina. Nel racconto della persis di Troia, sia in quello omerico che in quelli di Quinto Smirneo e Trifiodoro, entrambi del III secolo d.C., emerge anche la progressiva consunzione della macchina bellica, come se su tutto cadesse un velo di angosciosa stanchezza e l’intero apparato si stesse lentamente sgretolando. E tale consunzione sembra gravare più sugli oggetti che sulle persone: le navi, le corazze, le frecce, i dardi, gli scudi, gli elmi, gradatamente si trasformano, per utilizzare un’espressione di Francesco Orlando, in “oggetti desueti”, vecchi, consumati dal tempo. In questo caso, sembra che sia la stessa dimensione bellica a consumare, a divorare: è essa stessa divenuta desueta, vecchia, antiquata, imbambolata nella sua assurdità.

Nel racconto della caduta di Troia c’è un oggetto che spicca sopra tutti gli altri: è il gigantesco cavallo di legno che serve per la conquista e che costituisce il secondo nucleo tematico analizzato dall’autore. Il cavallo è altissimo, grande come un monte; il suo ideatore è Odisseo, mentre il costruttore è Epeo. Il cavallo rappresenta il trionfo del dolos, dell’inganno, l’unico modo per concludere una guerra di dieci anni. Esso, nei racconti di Virgilio e di Trifiodoro, assume anche connotazioni mostruose perché produce, appunto, un ‘parto’ mostruoso, i guerrieri che escono dal suo ventre: “c’è qualcosa di inquietante, è l’immagine spaventosa della vita che genera la guerra e la morte. Sono le contaminazioni che annunziano la persis”.

D’altra parte, contaminazioni inquietanti sono presenti anche nella descrizione della festa della città. I Troiani, infatti, introducono il cavallo in città convinti che si tratti di un dono dei Greci in occasione della fine della guerra e preparano una grande festa per accoglierlo. Gli avvertimenti di Laocoonte e Cassandra non vengono ascoltati e gli strepiti della festa si diffondono dappertutto travolgendo agni freno, ogni allarme, ogni resistenza. Nel momento in cui i guerrieri achei escono dal ventre del cavallo e cominciano ad uccidere i cittadini inermi, i cibi, il vino, le armi e il sangue, le grida di festa e quelle di dolore si mescolano in una inquietante antitesi: “Si muore come i maiali sacrificati nel banchetto infinito di un ricco signore, nella festa più grande” e “il vino rimasto nelle coppe si confonde col sangue”. La categoria della guerra si mescola con quella della festa: gli stessi oggetti (le tavole, i tizzoni dei bracieri, gli spiedi delle carni) che prima erano serviti per banchettare si trasformano in armi. Nella festa fa irruzione la morte: sembra di trovarsi di fronte al “vicinato” festa-carnevale-morte che Michail Bachtin intravede nel racconto di Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death), nel momento in cui la stessa “Morte Rossa”, la terribile pestilenza, sterminando tutti i partecipanti di una festa in maschera, riesce a penetrare nel castello dove un gruppo di giovani nobili si era rifugiato illudendosi di sfuggire all’epidemia.

L’ultimo motivo su cui si concentra l’attenzione dello studioso è il momento della caduta vera e propria di Troia che, è vero, “è solo una notte. Ma è qualcosa di più terrificante di dieci anni di guerra. Sono necessarie altre categorie per interpretare ciò che avviene. È un altro racconto”. È un momento in cui “ogni figura diventa un simbolo dell’immaginario della persis. Si ripete sempre, a ogni nuovo racconto”. Ogni individuo diventa una metonimia della sanguinosa caduta della città: ad esempio, Deifobo sta per i difensori, Priamo per la città e per i vecchi, Astianatte per la sorte dei bambini, Cassandra per il destino delle donne. Sono nomi famosi ai quali il nostro immaginario può associare i genocidi di esseri indifesi di ogni tempo: Astianatte, il figlio di Ettore scagliato giù dalle mura di Troia da Neottolemo su consiglio di Odisseo (il quale, adesso, appare come un efferato criminale di guerra e non come l’eroe errante perseguitato dagli dei consegnatoci dall’Odissea), diventa l’emblema dei bambini vittime delle guerre; Cassandra, la figlia di Priamo, profetessa condannata a non essere creduta, delle donne vittime di stupri e violenze. Troia è caduta, la sua persis sanguinosa è stata consegnata all’eternità dal canto epico; ma, possiamo chiederci, quante altre Troie oggi stanno bruciando e bruceranno? Quanti altri crimini efferati stanno continuando in svariate parti del mondo? Tante, purtroppo, sono le guerre che ancora si combattono – e tante sono quelle lontane dai riflettori dei media – non volute né dal fato e neppure dagli dei, ma dalla spietata logica del capitale che non guarda in faccia a niente e a nessuno.

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“Versicidio”: Riccardo Delfino, il poeta della vita tra amore ed eresia https://www.carmillaonline.com/2023/03/21/versicidio-riccardo-delfino-il-poeta-della-vita-tra-amore-ed-eresia/ Tue, 21 Mar 2023 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76554 di Iuri Lombardi

Riccardo Delfino, Versicidio, Terra d’ulivi edizioni, collana Deserti Luoghi, a cura di Giovanni Ibello, Lecce, 2023, pp. 60, euro 8,50.

È ancora fresco di stampa Versicidio, l’ultimo lavoro, il secondo per essere esatti, di Riccardo Delfino e la sorpresa pare esserci anche questa volta. Non solo perché Riccardo è – a mio avviso- uno dei poeti più bravi della sua generazione (il poeta ha appena ventidue anni), ma per il semplice fatto che questa sua ultima fatica poetica, che ho avuto il privilegio di seguire a cantiere aperto, viene ad arricchire il [...]]]> di Iuri Lombardi

Riccardo Delfino, Versicidio, Terra d’ulivi edizioni, collana Deserti Luoghi, a cura di Giovanni Ibello, Lecce, 2023, pp. 60, euro 8,50.

È ancora fresco di stampa Versicidio, l’ultimo lavoro, il secondo per essere esatti, di Riccardo Delfino e la sorpresa pare esserci anche questa volta. Non solo perché Riccardo è – a mio avviso- uno dei poeti più bravi della sua generazione (il poeta ha appena ventidue anni), ma per il semplice fatto che questa sua ultima fatica poetica, che ho avuto il privilegio di seguire a cantiere aperto, viene ad arricchire il panorama della poesia contemporanea e il coro di quella che ho definito scuola romana. Ma procediamo per punti.

L’opera si divide in tre sezioni (Necessità, Baricentro, Terraferma) e, senza tanti convenevoli, il giovane poeta romano ci propone i temi a lui più cari, già presenti nella sua precedente fatica Il sorriso adolescente dei morti (RP libri). In effetti anche in Versicidio troviamo, ma accresciute e con maggiore smalto, la morte, l’amore, l’incomunicabilità dell’uomo contemporaneo, e quel pizzico di eresia che è tout court per il semplice fatto che Riccardo non solo va contro ogni realtà precostituita – la famiglia, lo stato, la religione, la sessualità- ma le smonta con pennellate di unicità lirica. Il tema della morte sembra di fatto essere caro al nostro Delfino, al punto di essere esplicita sino dai primi versi. Sorge così spontanea la domanda: di che morte stiamo parlando? A mio avviso non si tratta di una morte fisica, del noto trapasso, ma di una morte esistenziale che in Versicidio, a differenza del suo precedente lavoro, è molto meno astratta, molto meno metafisica e più materiale, coinvolge infatti la materia, la persona, il dolore della sopravvivenza quotidiana diventa fisico. E questo mi sembra esplicito sin dai primi versi che aprono il libro «quando viene quella scarica/accuratissima, stringo sempre le labbra/a due dita, è lei, è l’oscena prefazione/ del fine vita…», dove la morte si fa premessa del trapasso e diventa il viaggio stesso dell’esistenza umana. Per Riccardo pare non esserci altro modo per definirla, per farci sapere che lei (che potrebbe essere anche una donna) è parte della vita stessa e non un trapasso che si ottiene a meta raggiunta. Dunque, il discorso si fa materiale, privo di metafora.

Allo stesso tempo, medesima cosa è l’amore, vista non come un amarsi in due, come un esserci all’unisono, ma come un attitudine di sensi. Il sesso stesso si esplicita nella ricerca ossessiva dell’altro che ricorda il Pasolini di Supplica a mia madre «… ho un’infinita fame/d’amore, dell’amore di corpi senza anima». Una ricerca che fa dell’io del poeta l’Ulisse e il viaggio stesso, di un viaggio doloroso, sofferto, fisico a cui non è dato il conforto dello sbarco in terraferma. L’amore, questa ricerca spasmodica e probabilmente senza soluzione si muove « tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/per consegnare alla morte una goccia di splendore», come ci suggerisce in Smisurata preghiera Fabrizio De André. E il muovere gli ultimi passi – siamo sempre al margine e sul margine di qualcosa di non definito, ma sicuramente di compulsivo- conduce come Virgilio fa con Dante in una ricerca ontica, in un terreno quasi mai condivisibile con il prossimo «li preferisco di età prepuberale./Magri. Che paiono morti di fame». Ecco allora il terreno poco frequentabile dai molti, eccolo il tabù non condivisibile con il prossimo. L’amore si tinge di eresia, scardina i preconcetti, ogni istituzionale convenzione, va al di là di un rapporto d’etichetta, diventa trasversale, soggetto di un trasformismo inevitabile. Smontando quindi ogni sorta di convenzione e di istituzione – lo stato stesso, e per stato intendo il contesto, lo stato di cose- ecco che Riccardo riesce a plasmare molto, riesce a scardinare (finalmente!) la famiglia. Perché dissezionando l’amore, non facendolo secondo i canoni prestabiliti dalla maggioranza, inevitabilmente si scompagina la logica della famiglia. Famiglia intesa come unione tra un uomo e una donna che è destinata alla riproduzione e quindi della trasmissione di potere a cominciare dal cognome, mentre invece quella del nostro, l’idea che in esso serpeggia, è qualcosa che si concretizza e si tiene in piedi solo attraverso l’affetto; un elemento da non sottovalutare. È l’affetto ciò che muove il mondo, è questo impensabile sentimento (e il più delle volte dato per scontato) è l’asso piglia tutto, il jolly della vita stessa.

È scontato, per non dire ovvio, come il poeta sviluppa questo costituendo una propria geografia interiore, tirando dal taschino la propria bussola. Si tratta di una geografia romana, dei luoghi della sua infanzia, degli amori trovarti e lasciati, di quelli persi per sempre, della Roma per bene, lo spazio entro cui la lupa alleva i propri figli. In questo Riccardo è eretico, fuori misura, per la semplice ragione che non è condivisibile, si lascia fasciare dal vento dell’incomprensibile. Se Versicidio inizia infatti con la sezione Necessità e sviluppa un proprio piano d’attacco con Baricentro e infine con Terraferma è proprio perché Riccardo edifica una propria struttura, fonda richiamato dal canto delle sirene il suo mondo. Si tratta di un universo che lui difende con le unghia e con i denti, corazzato dal proprio cavallo di Troia.

Detto questo, al mio discorso sulla raccolta edita da “Terra d’ulivi” manca la giustificazione, il deterrente, l’ingerenza che costituisce l’alibi del delitto: la ragione dell’eresia. La giustificazione credo sia un discorso generazionale. In Delfino si riscontrano tutte quelle peculiarità che sono le fondamenta della scuola romana e che vedano in Gabriele Galloni il capostipite, l’apripista. Nello specifico non si tratta di una vera scuola, ma di un gruppo di poeti che sentono e percepiscono l’esistenza in una certa maniera. Si può parlare quindi di una tendenza romana. Sorvolo sui nomi di questa scuola per il semplice fatto che ogni esponente è diverso l’uno dall’altro e per età e per contenuti. Ciò che li accomuna è appunto una certa percezione, una assoluta sensibilità che fa della poesia un corpo civile dotata di una cifra stilistica di pregio. Questi elementi si possono brevemente elencare in due punti:

a) la morte come nuova possibilità dell’essere

B) l’amore per la vita

Questi due elementi, a partire dal primo punto, gettano le basi a livello di contenuto ad una ingerenza continua da parte di questi esponenti romani che trovano nella morte il senso dell’esistenza. Se la morte, infatti, come ebbe a dire Pasolini è il montaggio della propria vita, per questi poeti (nati dal ‘92 in giù) non è il passaggio finale, ma la lotta quotidiana, non è la resa ma la guerra consueta. La morte per loro coincide con la vita, e non c’è altra soluzione. È la lotta alla sopravvivenza.

In secondo luogo, ma non per ordine di importanza, li contraddistingue l’amore che questi autori hanno per la vita stessa. Nella vita si annidano morte e distruzione, lotta e speranza, ma anche rinascita e, al contempo, l’eresia; vale a dire la consapevolezza di infrangere certe regole convenzionali e le istituzioni stesse. Si tratta di un romanticismo di tendenza, un modo di percepire la vita e che Mario Praz nel saggio La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica riscontrò nei lirici metafisici inglesi. Insomma, siamo davanti ad un fenomeno che ha risollevato le sorti della letteratura contemporanea e lo ha fatto sia partendo dal piano stilistico sia dai contenuti.

Altro aspetto comune, ben lungi da prototipi precostituiti, è lo sviluppo in poesia di un piano prospettico, narrativo. Delfino, come il capostipite di questa scuola Galloni, non è un lirico, ma la sua poesia è un veicolo di un dramma a posteriori dove in esso germogliano possibilità narrative. L’opera stessa oggetto di questa mia riflessione è la prova schiacciante. Nelle tre sezioni della raccolta assistiamo a una forma stilistica che ricorda la migliore tradizione del poemetto, gettando le basi a una narrazione delle varie scene. Le liriche, i singoli testi non sono autosufficienti, non si tratta di istantanee, ma sono parti di una sequenza, di una storia. E questo è suggerito dalla mancanza di titoli dei singoli brani, elencati a numero romano progressivo.

Infine, mi sembra scontato gettare un occhio all’impianto ontologico della raccolta. A partire dall’io che come ci suggerisce la postfazione è mutevole. E lo è in quanto contemporaneo, fuori misura. L’io non più decodificabile spazia nel tempo e nello spazio, non fa sedere il poeta sulla cattedra come la tradizione (maledetta tradizione) vorrebbe. Permette invece all’autore una indagine più profonda, una presa di coscienza fino ad ora inedita. Il poeta della scuola romana, in questo caso Riccardo Delfino, scende dall’olimpo negli inferi, compie un viaggio in caduta libera, una rivoluzione antropologica che i colleghi delle generazioni precedenti non sono riusciti a compiere. Facendo questo il poeta diventa dimentico, la sua poesia diventa una esigenza di vita, un romanzo civile, che fa dell’esistere un perpetuo riaffermarsi. Non ci resta quindi difficile parlare di una poesia come scrittura di scena.
In ultima battuta, in zona Cesarini, tanto per usare un gergo calcistico, Riccardo incarna le caratteristiche di un autore contemporaneo per la consapevolezza che la poesia di oggi non ha futuro. È la poesia di un eterno presente, di un momento. Di un’espressione artistica che per fortuna vive una propria vita lontana dai chliché del mercato che la vorrebbero come merce. Mentre invece la poesia è un veicolo dell’oggi, di un adesso, senza tante pretese, e il poeta un giocoliere a cui spesso scappa di mano il cerchio.

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Ambiguus Aeneas https://www.carmillaonline.com/2022/08/26/ambiguus-aeneas/ Fri, 26 Aug 2022 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73756 di Franco Pezzini

Marilù Oliva, L’Eneide di Didone, pp. 266, € 16,50, Solferino, Milano 2022.

 

CORO – Dal fondo del tempo sul mare increspato…

ENEA – Ohè!

CORO – Emerge na nave che viè dal passato.

ENEA – Ohè! CORO – Avanza veloce e punta alla riva…

ENEA – Ohè!

CORO – Se ferma alla foce… anvedi chi ariva!

ENEA – Enea!… So arivato… portato dar fato.

LAVINIA – Ah… sì, sei venuto! T’ho sempre aspettato!

ENEA – Tu nun sai quer ch’ho patito tutto quello ch’ho passato pe’ dà loco a [...]]]> di Franco Pezzini

Marilù Oliva, L’Eneide di Didone, pp. 266, € 16,50, Solferino, Milano 2022.

 

CORO – Dal fondo del tempo sul mare increspato…

ENEA – Ohè!

CORO – Emerge na nave che viè dal passato.

ENEA – Ohè! CORO – Avanza veloce e punta alla riva…

ENEA – Ohè!

CORO – Se ferma alla foce… anvedi chi ariva!

ENEA – Enea!… So arivato… portato dar fato.

LAVINIA – Ah… sì, sei venuto! T’ho sempre aspettato!

ENEA – Tu nun sai quer ch’ho patito tutto quello ch’ho passato pe’ dà loco a sti penati che da Troia ho riportati.

CORO – Cascata Troia, Enea l’eroe troiano senza vortasse pe’ mannaie un bacio, agnede via cor padre n’cavaciecio e er figlio piccinino pe’ la mano, perse la moglie Creusa pe’ la via… lasciò Didone sola a dasse foco e n’antra moje je se para ar gioco, dei fati, a mette su famija.

ENEA – Lavinia se chiamava… era… burina [Lavinia lo guarda malissimo] e m’aspettava in pizzo a la marina. Era la fija d’un re, ei pur burino [altra occhiataccia], de fatti, era Latino de nome e de nazione, ma sempre a conclusione d’una peripezia d’un uomo sballottato dar destino, sempre di un re la fija aspetta e guarda er mare, da dove viè l’eroe, sta de vedetta e aspetta la nave maledetta e l’omo tenebroso che viene dar mistero, aspetta lo straniero buttato su la riva dar mare tempestoso, per cui l’omo in oggetto, dar fato prediletto, mannatove da Dio, guardateme… so’ io!

 

(da I sette re di Roma, di Luigi Magni, con Gigi Proietti)

 

Nella sua rilettura al femminile – e femminista – dei miti classici, Marilù Oliva dopo Odisseo affronta Enea: un eroe che, è chiaro, la convince molto meno. Non si tratta solo del cambio di registro dal vitalismo di Omero alla malinconia virgiliana: il fatto è che il pius Aeneas di tante banalizzazioni ginnasiali e strumentalizzazioni fascistoidi appare già in età antica una figura non proprio entusiasmante.

Si parte dai cenni un po’ criptici dell’Iliade, dove Enea ce l’ha con i parenti della casa reale troiana, per cui combatte a singhiozzo; salvo trovarsi griffato da una strana profezia in grazia della quale viene salvato a più riprese dagli Dei. La spiegazione è probabilmente metatestuale: l’Omero che sta cantando quei versi intende celebrare qualche ascoltatore celebre, monarca o principe micrasiatico (al Lazio non ci si pensa proprio) alla cui corte è ospitato, un dinasta che si presenta come discendente di Enea. Cosa di meglio che attribuire il salvataggio di tanto tempo prima proprio a un piano divino mirante a salvaguardare tale gloriosa schiatta?

Anche perché, facciamocene una ragione: se è storicamente credibile che i Popoli del mare alla cui risacca potrebbe aggregarsi un Enea storico abbiano trovato effettivamente spazio nello scacchiere italico del collasso dell’età del bronzo, l’Enea dei miti più antichi non si spostava così tanto. Probabilmente non partiva neppure dalla costa anatolica, dove sarebbe subentrato all’inaccorta casa priamide (con le sue storie di harem sultaneschi e figli maleducati che seducono mogli altrui) a guida della Troade; ma già Virgilio doveva disporre di una pletora di alternative, con il Nostro a zonzo per buona parte delle coste di Tracia, Macedonia e Grecia continentale – e insediato qui o là a seconda della tradizione, impalmando signorine locali. Immaginando una serie di tappe, Virgilio recupera pro parte queste storie.

Dove però l’esule appare moderatamente pius: se la pietas che tanto colpirebbe i nemici achei da concedergli un salvacondotto particolare – ma le versioni sono davvero tante, comprese quelle di Enea che tradisce Troia e favorisce gli invasori – si esaurisce nella devozione patriarcale verso il genitore, che non a caso terrà sul groppone, per il resto della famiglia in queste storie non emerge particolare beneficio. E insomma ciò spiega non solo la distrazione per cui Enea perde la moglie Creusa in Virgilio (l’episodio è un po’ più complicato ma tant’è) ma le varie storie su un empius Aeneas che stupra principesse al suo passaggio. Quindi non solo un’incertezza sulle vicende umane ma pure sul profilo psicologico dell’eroe: qualcosa su cui Virgilio ha ampia documentazione e da cui spigola con libertà d’artista, brandendo la scelta già maturata in ambiente etrusco/latino del pio Enea e non del furbacchione Odisseo/Ulisse (giunto pure lui su quelle coste) quale protoeroe portatore di valori comunitari. E poi c’è da celebrare la stirpe augustea… salvo il fatto che che man mano che Virgilio scrive, l’entusiasmo per il Grande Timoniere cala.

L’Eneide è un testo rimasto in progress: è una balla colossale la storia – ammannitaci magari sui banchi di scuola delle medie e del ginnasio – che il perfezionista Virgilio volesse solo rifinirne un po’ i versi. Il poema, nella sua struggente bellezza, mantiene contraddizioni stridenti, episodi mancanti, personaggi che all’improvviso cambiano natura senza credibile spiegazione endotestuale. Perché alla grossa la seconda parte del poema, quella tutta trombe e muscoli, è stata scritta prima, con gli dei calorosamente solleciti verso l’eroe: ma la prima parte è ben diversa. Dei di marmo dai quali è vano attendersi un abbraccio, freddi come il committente con la sua spietata Agenda; un eroe pieno di dubbi e ben poco statuario, goffo e pasticcione; e ancora un re Latino genuinamente benevolo e persino coraggioso nel tener testa ai guerrafondai – a differenza che negli ultimi libri (di precedente tessitura), dove è succube del fanfarone protonazionalista Turno. Persino quell’episodio importante che segna il cambio di passo della guerra in Italia, cioè l’incontro di Enea con gli Etruschi (a Corito presunta patria della famiglia di Dardano?), resta sbrigato in modo troppo frettoloso: mentre è credibile che Virgilio, di stirpe etrusca, vi avrebbe dato maggiore spazio. E così via. L’autore contava di dedicare ancora anni al poema: ma poi ecco quel viaggio fatale – come tanti viaggi allora, non è necessario immaginare chissà che cospirazioni imperiali contro Virgilio un po’ meno allineato – e la morte. Un viaggio che forse avrebbe irrobustito la tensione spirituale del poema già fitto di richiami ai Misteri neppure troppo sotto testo (per il pitagorico Virgilio le iniziazioni ai culti misterici aprivano orizzonti assai prossimi): Enea come nuovo Orfeo, i Penati come Grandi Dei flirtanti col culto samotrace eccetera. Ma non possiamo che formulare ipotesi.

Un poema rimasto in progress rappresenta un invito a nozze per un narratore: tanto più che buchi e incongruenze nel meccanismo narrativo possono forse essere identificati con maggiore facilità da un autore di fiction che non dai lettori scolastici ostaggi della reverenza. Provare a leggere l’Eneide come un romanzo in costruzione può in effetti costituire un’esperienza abbastanza sconvolgente: e invito a farne la prova.

Ma poi c’è un’altra sfida, rappresentata dal personaggio di Didone. Il primo a parlare di Didone è lo storico Timeo di Tauromenio (attivo tra il IV e il III sec. a.C.), che la chiama Theiosso, detta in fenicio Elissa e poi dai Libici appunto Deidó per il suo lungo peregrinare. Esempio paradigmatico di fedeltà allo sposo perduto, Theiosso – transfuga dopo che il fratello le ha ammazzato il marito – si uccide quando il suo popolo vuole obbligarla alle nozze con un re libico. La leggenda potrebbe essere autenticamente punica, Timeo lavora in Sicilia e insomma può attingere tradizioni circolanti, nell’eco anche di altri racconti su mogli suicide nel fuoco (come quella di Asdrubale alla presa di Cartagine da parte dei Romani): ma la critica recente è divisa. Virgilio può avere per le mani il lavoro di Timeo, non lo sappiamo; ma molto probabilmente ha quello di Pompeo Trogo, non pervenutoci se non attraverso un’epitome che dettaglia la storia – sempre quella – della bella e coraggiosa Elissa (Alissar, Elissar, Elishat). Poi certo, c’è un grave problema cronologico, perché la fondazione di Cartagine viene avvicinata a quella di Roma: in un primo tempo tra Enea e Romolo si calcola uno scarto molto limitato, ma lentamente le date si distanziano, per cui Enea arriverebbe sulla costa africana secoli prima di Didone (per chi abbia familiarità con le cronologie bibliche, è pronipote della biblica Gezabele, morta circa 842 a.C.). Però il Bellum Poenicum di Gneo Nevio, risalente al periodo della Seconda guerra punica (219-202 a.C.) ma echeggiante gli eventi della prima, faceva già fatalmente incontrare i due personaggi, mostrando forse Didone come una maga (simile a quel punto a Medea o Circe) che cerca di irretire Enea. Insomma uno spunto troppo bello per non usarlo, a prescindere dall’altra versione registrata da Varrone secondo cui a innamorarsi di Enea sarebbe stata non Didone ma la sorella Anna.

È un fatto che per il lettore di Virgilio il punto di più bassa affezione al personaggio Enea sia proprio in rapporto alla vicenda con Didone: una storia d’amore che anche e proprio nel suo fallimento mantiene una tale carica di autenticità da colpirci a distanza di tanto tempo. A trattare forse con pragmatico scetticismo gran parte degli innamoramenti e le inevitabili crisi nel rapporto tra parallele solitudini e fragilità psicologiche di fondo: la regina che viveva col freno tirato in un orizzonte di doveri, forte nell’azione ma aggrappata all’immagine di vedova madre d’un popolo, e che vede andare in frantumi la propria identità, versus l’eroe involontario che fatica a riconoscersi in una missione non scelta e alla prima prova di adultità (il vecchio pater familias è appena morto) si trova tentato a una vacanza esistenziale. Non stupisce che, nel rendere questa storia materia del suo delicato e malinconico sceneggiato per la RAI, Franco Rossi ritocchi un po’ il quadro, rendendo Enea più nobile e duro, e facendoci amare appassionatamente Didone.

Il problema a questo punto per un recensore di L’Eneide di Didone è non spoilerare sulle libertà dalla tradizione: per cui è impossibile raccontare la soluzione – ingegnosa, avventurosissima e un tantino improbabile – adottata da Oliva nel tratteggiare con occhi moderni la sua bella figura di donna combattente, indomita, dotata di mille risorse come i suoi Fenici e inizialmente scettica verso quegli dei – dee, soprattutto – che invece avranno parte nella vicenda. Perché la vita conosce dinamiche e incidenti che sfuggono alle previsioni umane… Il romanzo, intelligente, filologicamente ricco (appena può l’autrice mostra grande rispetto per il testo virgiliano), reca una provocazione interessante.

E il nodo, evidenziato dalle Note finali, si traduce in una domanda: “come è possibile che una donna forte, determinata e autonoma come Didone, regina di popoli, in fuga da un fratello assassino e avido, abbia deciso di uccidersi per un uomo che – si sapeva fin dall’inizio – era solo di passaggio?”. Di qui la scelta di una variatio che in questa sede non si narra, forte della plasticità (sempre) del materiale mitico e della consuetudine, soprattutto in altri linguaggi artistici come il teatro o l’opera lirica, di licenze anche forti nella gestione di storie tradizionali. Per cui accantoniamo le risposte che i commentatori antichi avrebbero fornito alla domanda di Oliva (tutti uomini, l’amore di Didone ed Enea non appariva loro materia troppo seria) e soprattutto quelle di Virgilio (che intende immettere nell’epos lo scontro – proprio del linguaggio dei tragici – tra punti di vista diversi, capitalizzare un dramma a monte dei rapporti tra Cartagine e Roma, e mostrare come l’eros possa essere la leva che fa frantumare l’equilibrio psicologico profondo di una figura già troppo rivolta ai morti, nonché erede della simil-Medea neviana); accantoniamo lo scarto tra la visione di un’antica società mediterranea e una moderna. E lasciamoci cullare dalla voce di Oliva, calda di volti e di colori, nel suo sforzo di recuperare spazio a una figura eccezionale.

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Eneide, Profugus: la tempesta https://www.carmillaonline.com/2019/06/11/eneide-profugus-la-tempesta/ Tue, 11 Jun 2019 21:16:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53052 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Profugus. Misteri, migrazioni e Popoli del mare nell’Eneide di Virgilio, pp. 640, € 30, Odoya, Bologna 2019 (presentazione giovedì 13 giugno ore 21 alla libreria Comunardi di Torino). Se ne riporta qui uno stralcio (con citazioni tratte dall’edizione Virgilio, Eneide, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967). Una riflessione teatrale sul tema in un’ora di lezione recitata, Enea profugo, prodotta per la Compagnia Marco Gobetti (e raccolta nel volume di AA.VV., Conflitti, lavoro e migrazioni. Quattro “Lezioni recitate”, SEB27, Torino 2018) è [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Profugus. Misteri, migrazioni e Popoli del mare nell’Eneide di Virgilio, pp. 640, € 30, Odoya, Bologna 2019 (presentazione giovedì 13 giugno ore 21 alla libreria Comunardi di Torino). Se ne riporta qui uno stralcio (con citazioni tratte dall’edizione Virgilio, Eneide, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967). Una riflessione teatrale sul tema in un’ora di lezione recitata, Enea profugo, prodotta per la Compagnia Marco Gobetti (e raccolta nel volume di AA.VV., Conflitti, lavoro e migrazioni. Quattro “Lezioni recitate”, SEB27, Torino 2018) è in giro per l’Italia con l’attore Andrea Caimmi.

 

§  Capitani lamentosi?

Proemio a parte, di fatto l’Eneide inizia con una tempesta: e non una tempesta qualunque, ma un perfect storm virato sulla meteorologia del mito, un’arcitempesta in cui tutti i venti a disposizione di un dio intervengono a recare la maggior devastazione possibile. Una tempesta, inoltre, collocata a Occidente, sui mari poco noti in direzione del sole al tramonto: un dato geografico/simbolico da apprezzare non tanto in relazione alle ormai dettagliatissime mappe dell’età di Virgilio (dove il far west andava ben oltre la Spagna), ma piuttosto alle rotte di capitani micenei o egeoanatolici della tarda età del bronzo. Una tempesta, in terzo luogo, che determina il naufragio a Cartagine, dove poi Enea narrerà le proprie avventure. In realtà Virgilio riprende qui e ritocca lo schema dell’Odissea, dove un’altra tempesta a Occidente poco dopo l’apparizione in scena dell’eroe (libro V, cioè dopo i primi quattro sulle avventure di Telemaco) ne determinava il naufragio sulle coste dei Feaci, e lì a sua volta avrebbe narrato le sue avventure. Insomma una sequenza costituita da una natura sconvolta verso i limiti del mondo, le disavventure di una nave, e un narrare.

Rispetto a Omero, Virgilio enfatizza anzi la suggestione: all’estremo come situazione (l’arcitempesta) e come posizione geografica (l’Occidente, limite del mondo) aggiunge quello della posizione nel testo (l’inizio, limite dell’opera). La realtà estrema è per definizione quella delle situazioni-limite, della terra incantata ai confini del mondo (in senso geografico come simbolico) che provoca a rileggere quanto crediamo di conoscere. Pensiamo all’isola Ogigia della ninfa Calipso in qualche lontano Occidente (il nome Ogige è stato associato al personaggio dell’epopea di un primo diluvio, al titano/fiume liminare Oceano, e a termini greci per concetti estremi come primordiale o gigantesco): lì Odisseo mette a fuoco che è preferibile invecchiare da mortale coi propri cari piuttosto che farsi immortale con Calipso. Pensiamo all’isola beata dei Feaci, dove l’eroe può rileggere – rivedendone il senso – tutto quanto ha vissuto. Pensiamo ancora alle terre favolose degli Etiopi e (più tardi) degli Antipodi, homines pedibus aversis coi paradossi del mondo alla rovescia: tutti casi in cui la realtà estrema è una terra beata, terra della meraviglia e delle meraviglie, che mette in questione le nostre categorie. E che però è anche miticamente un confine cosmico col caos: l’arcitempesta a Occidente parla il linguaggio delle paure sull’Oceano, per gli antichi l’immenso fiume che circonda il mondo degli uomini ed è insieme misura, limite e riflesso di un inconcepibile “esterno”. Da quel caos verrà il tentativo per l’eroe di riordinare narrando: e per Odisseo alla corte dei Feaci ciò sarà possibile. Mentre per Enea, la narrazione avrà esito fallimentare: quella tempesta rispecchia in fondo – lo scopriremo – qualcosa che ha dentro, che causerà tragedie e occorrerà riarmonizzare.

C’è dunque un senso profondo, in questo inizio, e il soffermarvisi non risponde unicamente a una logica di buona poesia. E che sia questo l’inizio lo dice anche il fatto che qui per la prima volta vediamo Enea, lo udiamo parlare e anzi ne troviamo il nome, finora elegantemente alluso o sostituito da qualifiche o epiteti.

Ancora una volta può spiacere a lettori ubriachi di un certo tipo di romanità che il primo incontro con l’eroe avvenga in questi termini:

 

Di colpo le forze si sciolgono a Enea, con un brivido,

e geme e giunte levando le mani alle stelle

grida: “Oh beato, oh mille volte beato

chi sotto gli occhi dei padri e l’alte mura di Troia

poté incontrar la sua sorte! E tu, fra i Dànai fortissimo,

Tidide, perché nella piana d’Ilio a me pure

non toccò stramazzare, esalar per tua mano la vita,

là dove per l’arma d’Achille giace Ettore fiero,

e il gran Sarpedonte, e, sotto l’onde travolti, il Simòenta

tanti scudi d’eroi ed elmi e forti corpi trascina!”

Gridava così e, stridente d’Aquilone, una raffica

gl’investe la vela, scaglia l’onda alle stelle.

 

Si può obiettare che in quel momento i Troiani avrebbero avuto bisogno di vedere nel capo ben altra calma. Ma quell’arcitempesta è l’epifania anche visiva di un punto di rottura interiore, sopraggiungendo (il lettore non lo sa ancora) in un momento critico della vita di Enea; e quel gridare è rivelativo di una serie d’implicazioni.

Anzitutto, “Di colpo le forze si sciolgono a Enea, con un brivido”: cioè appunto all’improvviso la resistenza di anni cede, e cede nel panico. Enea, per quanto all’anagrafe semidio, è un uomo come gli altri e ha paura. Ma ha paura tanto più perché (scopriremo) suo padre è morto poco prima; e lui si è trovato all’improvviso il capo/pater familias del suo popolo, con tutto ciò che ne deriva in termini di responsabilità. E (come pure scopriremo) non è ancora pronto a gestirla. Ecco dunque che con linguaggio nuovamente teatrale, aperto cioè alla drammatizzazione del punto di vista soggettivo, Virgilio inizia con l’eroe che tocca il proprio limite, il proprio essere spezzato, il proprio incassare emozioni di tutti e anzi potenziate dalle responsabilità del ruolo. Questa scena non è insomma solo un semplice, brillante ricalco di quella più o meno corrispondente dell’Odissea con l’angoscia dell’eroe nella tempesta – anche se qui iniziamo già a vedere come Virgilio lavori col precedente omerico –, ma è anche il grido – letteralmente – di Virgilio contro ogni banalizzazione eroicistica. Però c’è probabilmente anche una seconda suggestione, parallela: quel brivido – che ne preannuncia vari altri, in occasione di epifanie sovrannaturali – mostra che Enea sembra avvertire la manifestazione di una potenza che va oltre l’ordinario di una tempesta per mare. Che la sensibilità di Enea flirti con una vaga veggenza ci sarà confermato dal prosieguo.

Poi “geme e giunte levando le mani alle stelle / grida”. E qui sono due i movimenti interiori, prima ancora che esteriori, questo gemito dal profondo (“ingemit”) e uno slancio verso l’alto che ha il moto e l’urlo della preghiera, e ricorda agli dei che sarebbe stato meglio finire diversamente: ma non riesce neppure a rivolgersi loro, fatica a staccarsi da ciò che poteva essere, da ciò che un uomo può augurare a se stesso. Tanto più che morire in mare significa in genere non avere sepoltura, con tutte le penose conseguenze oltremondane (la lunghissima attesa dell’anima per accedere alla pace, eccetera). Ma la trovata brillante di Virgilio è inserire in poche frasi anzitutto un vertiginoso riepilogo dei fatti di Troia cantati dall’Iliade – le morti sotto gli occhi dei padri, il duello del libro V tra Diomede (è lui “fra i Dànai fortissimo, / Tidide”) ed Enea che viene salvato dalla madre divina in vista di una sorte gloriosa, il fiume che trascina via i corpi – e insieme il rapporto con ciò che avverrà. Perché nell’Eneide ritroveremo Diomede, ma è cambiato il senso e non vorrà più combattere con Enea; troveremo di nuovo un fiume ad arrossarsi di sangue e Virgilio lascerà implicite tutte le voci su Enea che vi scompare, affogato o assunto in cielo. Per questo qui non si tratta banalmente di un capitano lamentoso, ma di un dar voce a un conato di preghiera che interessa tutti, e dove Enea è il capo che parla, geme e leva lamentazione per la sua gente. Però la tempesta è scatenata.

 

I remi si spezzano, la prua si rivolta, offre all’onde

il fianco: gli corre incontro il monte d’acqua scrosciando.

Pendono questi in vetta al flutto, a quelli l’onda, che piomba,

apre tra i flutti la terra, schiuma e sabbia ribollono.

Tre navi il Noto afferrando, su scogli insidiosi le getta

(Are li chiamano gli Itali, nel mezzo dell’onde

dorso immane a fior d’acqua); tre l’Euro dall’alto

spinge alle Sirti sabbiose, spettacolo degno di pianto,

in mezzo alle secche le caccia, le stringe una morsa d’arena.

Una, che i Lici e il fido Oronte portava,

enorme piombando, davanti ai suoi occhi, un maroso

investe a poppa: ne balza via il timoniere

e a capofitto precipita; l’onda tre volte

fa roteare la nave, il vortice avido l’inghiotte nel mare.

Si vedono corpi nuotare dispersi pel gorgo funesto,

armi guerriere, e tavole, e teucri tesori fra l’onde.

Già d’Ilioneo, d’Acate guerriero già la valida nave,

e quella d’Abante, e quella che il vecchio Alete trasporta,

son vinte dalla tempesta: già tutte, sconnesso il fasciame,

accolgono l’acqua nemica, le falle s’allargano.

 

Questa descrizione straordinaria, con quelle di Omero e di poche altre voci resta a monte di un’intera letteratura sul tema della tempesta: vi sono già in nuce, e sembra già quasi di riconoscerli, Shakespeare, Coleridge, Conrad e tanti altri.

Strappata dalla costa nord a quella sud della Sicilia, la flotta troiana viene trascinata da Aquilone verso l’Africa e il canale di Tunisi. Per comporre il brano, Virgilio si informa sulle rotte, studia i rischi sui resoconti di viaggio e attraverso cenni suggerisce dove ci troviamo. Cioè – alla grossa – non lontani da Cartagine: gli scogli chiamati Are (“Aras”), citati da Livio e Plinio il Vecchio, saranno noti in arabo come Al Giamar o Zimbra e in francese Iles des Imbes; le Sirti, cioè Syrtis Maior (golfo della Sirte o golfo di Sidra, sulla costa settentrionale della Libia, a est) e Syrtis Minor (golfo di Gabès in Tunisia, a ovest) sono temutissime per i loro banchi di sabbia.

Tre navi – Virgilio non ci offre ancora, come farà più tardi, i nomi degli scafi – finiscono sulle Are, altre tre nella Piccola Sirti; quella di Oronte affonda; quelle di Ilioneo, Acate, Abante e Alete sono devastate dalla furia del mare. Iniziamo a ricordare questi nomi, specialmente alcuni che torneranno: Ilioneo, il più anziano e il più saggio dei compagni, citato fino al libro IX, dove si misura in combattimento ancora con gran forza fisica (nello sceneggiato RAI figura come composto sacerdote); Acate, scudiero di Enea (cioè quello che originariamente ne condivideva il carro in battaglia), presente ancora nei combattimenti dell’ultimo libro; Abante, che invece non verrà più ricordato; Alete, che riapparirà solo un paio di volte nel libro IX. La sensazione, qui come altrove, per nomi poi lasciati alla deriva dell’opera, è di un’invenzione contingente legata a esigenze metriche: ma non possiamo neppure escludere che Virgilio ammicchi a qualche figura minore da fonti perdute, nell’ambito dell’immenso iceberg di testi di cui solo una punta sopravvive nel tempo.

Il caso però più intrigante è quello di Oronte e della sua nave, perché ben introduce a un altro dei grandi temi sottostanti il quadro storico evocato da Virgilio. Il personaggio del capo licio Oronte – non presente nell’Iliade ma inteso nell’elaborazione successiva a Virgilio come successore del principe Glauco morto combattendo sotto Troia – è citato come “fido” (“fidumque”) perché ha accettato di seguire Enea e i Troiani nelle loro peregrinazioni, invece di tornare in patria dopo la guerra. Va detto che un altro licio, Scilaceo, rientrato in patria con le cattive notizie sulle perdite pesantissime del contingente e giudicato poco valoroso, sarebbe stato lapidato dalle vedove (Quinto Smirneo, Posthomerica, X, 167 segg.), ma Virgilio non ne considera la vicenda. Ora, l’affondamento della nave licia – a richiamare scene, in quel mare, che purtroppo conosciamo – viene letto dai commentatori in termini mitici: al loro popolo non spetta entrare in Lazio, la promessa non è destinata a loro e dunque muoiono in mare (ma è un tema che Virgilio sembra aver inserito tardi nel poema, negli ultimi libri più antichi i Lici non mancano). Però un’ombra d’imbarazzo ai mitologi resta: e al di là della storia di Scilaceo che pare una giustificazione un po’ forzata, perché a guerra terminata quel resto di contingente non ritorna in Licia e si aggrega a una stirpe di profughi? Posto che si ragiona in termini virtuali, di ombre di tradizioni e dati letterari dalla lunghissima gestazione, una risposta pur problematica emerge in rapporto al profilo particolare dei Lici della tarda età del bronzo: riconducibili cioè a quei Lukka insediati in una porzione dell’Anatolia probabilmente ben più ampia della Licia storica (ma c’è dibattito), e le cui terre sono menzionate in testi ittiti a partire dal II millennio a.C. Il mistero che li riguarda – cruciale anche per inquadrare le peregrinazioni dei Troiani nell’Eneide – è quello dei cosiddetti Popoli del mare.

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L’uomo, l’ambiente e la letteratura. Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura https://www.carmillaonline.com/2018/03/01/luomo-lambiente-e-la-letteratura-le-relazioni-narrative-fra-ecologia-e-letteratura/ Thu, 01 Mar 2018 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43990 di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le [...]]]> di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le sue memorie, gli alberi non ci sono più o si sono drasticamente ridotti: «Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure» (I. Calvino, I nostri antenati, Mondadori, Milano, 2003, p. 303). Dopo la morte di Cosimo, il ragazzo e poi l’uomo che ha vissuto sugli alberi, gli stessi alberi sembrano non aver resistito, sono morti, sono stati tagliati. Il «barone rampante», infatti, era stato un po’ un simbolo della sinergia uomo-natura: come nota Gregory Bateson, almeno a partire dal XVIII secolo, si è creata una profonda frattura fra coscienza individuale umana e natura. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda del romanzo di Calvino si ambienti proprio nel Settecento, quell’epoca dei lumi in cui tale frattura ha iniziato a prodursi. Cosimo, diverso da tutti, è l’uomo che va in direzione opposta, che ‘ritorna’ alla natura. Bisogna inoltre ricordare che il romanzo è del 1957, in un periodo in cui l’Italia stava inesorabilmente e rapidamente mutando sotto la spinta del benessere e delle ricostruzioni postbelliche, e la penna di Calvino non è certo immune da uno spirito di denuncia nei confronti della società contemporanea, denuncia un po’ nascosta sotto il piglio fiabesco della narrazione.

Adesso, a schiarirmi le idee c’è un interessante e rigoroso saggio di Niccolò Scaffai che illumina in modo adeguato le complesse relazioni fra ecologia e letteratura, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, uscito recentemente per Carocci. Come spiega l’autore nell’introduzione, uno degli intenti principali del libro è quello di porre «al centro la relazione tra ecologia e letteratura facendo reagire la tematica ambientale con i dispositivi formali che ne definiscono la presenza nelle opere d’invenzione» (p. 14). Un importante dispositivo è, ad esempio, lo straniamento: per illustrare i danni prodotti dall’inquinamento sull’ambiente, un autore può farci guardare con occhi diversi gli effetti di alcune nostre abitudini quotidiane facendocele osservare dalla prospettiva di altri esseri, animali o creature fantastiche. Dispiegando su letteratura e ecologia uno sguardo comparatistico, Scaffai sottolinea dunque l’importanza, fra gli studi culturali, dell’ecocriticism, disciplina che, da una parte, interpreta la relazione tra uomo e natura presente in un testo, dall’altra tende a fare dell’opera letteraria uno strumento di diffusione per la coscienza ambientale. Basti pensare alla letteratura americana: opere importanti in questo senso sono Foglie d’erba (1855-92) di Walt Whitman o Walden ovvero Vita nei boschi (1854) di Henry D. Thoreau. All’interno della cultura americana, infatti, è presente in profondità l’aspirazione alla vita in una natura incontaminata, la wilderness. Un autore americano contemporaneo in cui è presente una forte componente ecologica è poi Jonathan Franzen, in cui grande rilievo ha l’esperienza stessa della natura. Ad esempio in Libertà (2010), la coppia protagonista, appartenente alla classe borghese, decide di trasferirsi in una località a diretto contatto con la natura all’insegna della riscoperta dei valori fondamentali, sulla scia del grande archetipo thoreauviano. La critica ecologia può poi fondersi con la geocritica, la quale studia la rappresentazione dello spazio nella letteratura. Ogni ambiente è infatti prima di tutto uno spazio e, come scrive il maggior esponente della geocritica, Bertrand Westphal, un punto d’incontro fra spazio e ambiente può essere intravisto nel momento in cui entrano in sinergia la «cultura guardata» e la «cultura guardante», in modo da creare uno spazio coabitato da una multifocalità di prospettiva.

La natura è poi presente all’interno della letteratura sotto forma di diversi topoi, come ad esempio il locus amoenus. Quest’ultimo è uno spazio caratterizzato da una vegetazione fresca e ombrosa, un corso d’acqua, il tutto attraversato da una leggera brezza e dal canto degli uccelli. Il locus amoenus è presente in tantissime opere della letteratura classica e medievale: in Virgilio, ad esempio, il paesaggio ben regolato assume quasi il simbolo del buon governo, all’interno di un gioco di metafore assai presente non solo nelle letterature classiche. Un altro importante topos è quello della primavera, connotato contemporaneamente da angoscia e bellezza, il quale vede la sua più importante presenza nelle letterature romanze. Se la natura si risveglia in aprile (il mese “che apre”), spesso e volentieri il poeta è angosciato e soffre per le pene d’amore infertegli da una insensibile dama. Si tratta comunque di una rappresentazione topica di lunga durata, se esso è presente, mutando nella forma, in poeti contemporanei come Montale, Pasolini o Zanzotto. Ad esempio, L’arca di Montale si apre con l’immagine di una tempesta – una vera e propria catastrofe atmosferica – la quale «ha sconvolto / l’ombrello del salice, / al turbine d’aprile». In Pasolini, invece, la primavera assume connotazioni dolorose soprattutto per la lontananza della persona amata, soprattutto nelle giovanili poesie in friulano e ne L’usignolo della chiesa cattolica. In Zanzotto, lo spazio del locus amoenus diviene poi lo spazio eletto dell’otium cum litteris, consacrato all’«autocoscienza della poesia» (Galateo in bosco).

Un capitolo del saggio di Scaffai è successivamente dedicato alla letteratura distopica e al tema dell’apocalisse. Quest’ultima è rappresentata in moltissimi romanzi contemporanei come un disastro ecologico che colpisce la terra, mentre gli esseri umani superstiti sono costretti a muoversi in uno spazio devastato e contaminato. Un genere contemporaneo in cui letteratura e ecologia entrano in stretta correlazione è l’ecothriller: «Il protagonista di un eco thriller, spesso un giornalista o uno scienziato (talvolta una coppia, in cui uno dei due personaggi, per lo più quello femminile, ha lo scontato ruolo di deuteragonista) deve fronteggiare e possibilmente sventare un’emergenza biologica e ambientale, scatenata, favorita o sfruttata da un antagonista (un’associazione segreta o semplicemente criminale)» (p. 114).

Un importante tema che attraversa la relazione fra letteratura e ecologia è poi quello dei rifiuti, intesi come oggetto di straniamento che porta a concepire l’esistente in forma di spazzatura. Ad esempio, in un romanzo in cui la tematizzazione dei rifiuti assume un ruolo preponderante, Underworld (1997) di Don DeLillo, il protagonista percepisce ogni oggetto, anche nuovo, «in termini di spazzatura», mentre quest’ultima assume connotazioni sacre e quasi feticistiche. Nella pièce teatrale di Daniel Pennac, Il sesto continente (2012), un personaggio intende trasformare la famigerata, gigantesca «isola dei rifiuti», (realmente esistente, individuata nell’Oceano Pacifico e composta per l’ottanta per cento da materiale plastico) in una attrazione turistica organizzando delle crociere. Essa viene così offerta al voyeurismo di massa dei croceristi, «testimoni di un “naufragio” ecologico di cui sono responsabili e vittime, oltre che spettatori» (p. 142). Anche Italo Calvino, ne Le città invisibili (1972), tematizza l’invasione della spazzatura all’interno dello spazio cittadino, anche stavolta con uno spirito di denuncia: come egli stesso scrive a proposito del libro, «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili».

Nel Novecento letterario italiano un autore che ha affrontato da vicino tematiche ecologiche è senza dubbio Pier Paolo Pasolini. Oltre ad aver rappresentato poeticamente la trasformazione dell’Italia, anche in termini ecologici (basti ricordare il «pianto della scavatrice», nell’omonima poesia delle Ceneri di Gramsci, in cui la scavatrice ‘urla’ di dolore devastando i prati per la costruzione di nuovi quartieri di periferia, oppure la descrizione delle ‘devastate’ periferie romane nel postumo e incompiuto Petrolio), Pasolini, in un celebre articolo degli Scritti corsari, utilizza la metafora della «scomparsa delle lucciole» per indicare il mutamento del potere in Italia. Il potere che spadroneggia dopo la «scomparsa delle lucciole» è quello dei nuovi consumi, un regime forse più terribile di quello fascista, irreggimentatosi con il tacito consenso della classe politica democristiana degli anni Sessanta e Settanta.

Anche Paolo Volponi possiede uno spiccato sguardo ‘ecologico’, soprattutto ne Il Pianeta irritabile (1978), in cui è evidente il richiamo di scrittori come Huxley, Orwell, Asimov e Bradbury. La vicenda del romanzo si svolge a partire dall’anno 2293 nel territorio marchigiano caro all’autore ma il paesaggio è ormai irriconoscibile poiché il mondo è stato devastato da una grande esplosione atomica. I protagonisti di questa sorta di favola ecologica sono un babbuino, un’oca ammaestrata, un elefante e un nano. Quest’ultimo, l’unico umano del gruppo, si convertirà verso l’animalità rinunciando al linguaggio e estraniando in questo modo la dimensione umana da una natura che proprio dall’uomo era stata devastata.

Anche nei risvolti più contemporanei del romanzo italiano – ai quali è dedicato l’ultimo capitolo del ricco saggio di Scaffai – è possibile incontrare tematiche ecologiche. Ad esempio, in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, in cui il ‘ritorno’ alla natura dei protagonisti è oscurato dalla violazione e dai gravi danni inferti al territorio da parte del proprietario della casa che essi vogliono acquistare. Fra recenti esempi di fiction distopica si può invece ricordare Sirene (2007) di Laura Pugno, in cui la razza umana è costretta a rifugiarsi sott’acqua per sfuggire alle radiazioni solari che provocano terribili cancri alla pelle, o Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante, in cui in un futuro imprecisato, dopo la «sciagura» provocata forse da una grave crisi economica, quello che resta dell’umanità deve rifugiarsi in sperdute e incontaminate valli alpine o, ancora, Qualcosa là fuori (2016) di Bruno Arpaia, che racconta una Italia del futuro devastata apocalitticamente dal surriscaldamento globale.

Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura continuano perciò anche nella contemporaneità, anzi, sembra che si stiano intensificando sempre di più. E questo non può essere che un bene perché la letteratura, sfoderando la propria vocazione fantastica, onirica e visionaria forse riesce gradualmente a ricucire la frattura di matrice illuministica e tecnica creatasi fra coscienza umana e natura e a migliorare la vita in comune degli individui ricreando nuove e inedite relazioni d’amore fra di esse. Perché, come scrive Giorgio Caproni in Versicoli quasi ecologici, se «l’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore», dove ricomincia l’erba e l’acqua rinasce, l’amore ricomincia.

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Un manoscritto inedito di Dante Alighieri https://www.carmillaonline.com/2014/06/24/manoscritto-inedito-dante-alighieri/ Mon, 23 Jun 2014 22:05:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15411 di Sandro Moiso

dante 1Dante Alighieri, Inferno – Canto XXXIII Bis – L’incredibile manoscritto ritrovato in Val Susa, Edizioni TABOR, Valle di Susa (TO) 2013, pp. 64, € 6,00

Sono note da secoli le profezie dantesche contenute nella Commedia, come ben sanno gli studenti liceali costretti a studiarle e a scriverne sui siti delle scuole per far ben figurare i loro Istituti e i loro insegnanti. Ma il manoscritto fortunosamente ritrovato tra le carte depositate presso la Sacra di San Michele apre agli studiosi nuove possibilità di indagine sulle capacità divinatorie del Poeta. Non soltanto per quanto riguardava la sua vita [...]]]> di Sandro Moiso

dante 1Dante Alighieri, Inferno – Canto XXXIII Bis – L’incredibile manoscritto ritrovato in Val Susa, Edizioni TABOR, Valle di Susa (TO) 2013, pp. 64, € 6,00

Sono note da secoli le profezie dantesche contenute nella Commedia, come ben sanno gli studenti liceali costretti a studiarle e a scriverne sui siti delle scuole per far ben figurare i loro Istituti e i loro insegnanti. Ma il manoscritto fortunosamente ritrovato tra le carte depositate presso la Sacra di San Michele apre agli studiosi nuove possibilità di indagine sulle capacità divinatorie del Poeta.
Non soltanto per quanto riguardava la sua vita e il suo esilio, ma anche il destino della specie umana nel suo insieme.

Dalla sofferente esclusione dalla propria patria nasce, infatti, il grande ruolo profetico di Dante come portatore di reale e nobile virtù, ma se le profezie di Ciacco, di Farinata degli Uberti, di Brunetto Latini e dell’avo Cacciaguida erano tutte rivolte alla vita del poeta e al suo esilio oppure alle vicende politiche di Firenze tra XIII e XIV secolo, qui siamo di fronte ad una scoperta sensazionale, non solo dal punto di vista della storia della letteratura, poiché il Divin Poeta delinea con precisione quello che sarà il destino dell’umanità nel suo insieme e della Valle che egli stava percorrendo per recarsi a Parigi dove, intorno al 1308, avrebbe frequentato per qualche tempo la facoltà di Teologia.

E’ veramente da lodare, quindi, l’impegno con il quale il Prof. Filippo Mollea Ceirano ha affrontato il gravoso compito di ricostruire il testo nella sua interezza e nel travaglio che ne hanno accompagnato, prima, la stesura e, poi, la decisione di abbandonarlo alla critica corrosiva dei topi.
Lavoro filologico che, come è ben chiarito nell’introduzione, ha dovuto fare i conti con i sempre più frequenti tagli intervenuti sulle spese universitarie da parte di un governo che non sembra , nemmeno lontanamente, comprendere l’importanza del lavoro svolto dal dipartimento di Storia delle origini della letteratura italiana diretto dal professore.

Il fatto, poi, che l’Università cui fa riferimento il suddetto Dipartimento rimanga anonima è sicuramente dovuto alla volontà di aver voluto impedire l’esplodere di curiosità e di ipotesi che avrebbero potuto, e potrebbero ancora, danneggiare la serietà del lavoro scientifico svolto dal professore e dalla sua ristretta e fidatissima équipe che temono di essere presentati ed assillati dai media come novelli Dan Brown.

Ma veniamo ora al testo. Occorre subito dire che, come quasi tutti i testi di Dante, è un testo legato alle esperienze del poeta stesso e che, come quasi tutti quelli della maturità, è un testo politico. Militante si potrebbe quasi dire. Dante, in esilio, stava attraversando le terre del conte Amedeo di Savoia nel periodo in cui, su richiesta del Papa Clemente V e del Re di Francia Filippo il Bello, si provvedeva a migliorare la strada che collegava la Francia con Torino, Asti (all’epoca importante centro di commerci e attività economiche), il marchesato di Saluzzo e il Monferrato.

Tale progetto cozzava però con la resistenza montanare e contadina di coloro che lungo il percorso previsto si opponevano sia all’esproprio forzato dei terreni appartenenti ai piccoli proprietari indipendenti, sia al lavoro coatto richiesto come corvée dal conte savoiardo per la realizzazione del progetto stesso. E Dante, proprio all’altezza di Sant’Ambrogio, finiva con l’essere coinvolto in una diatriba tra villici e scherani del conte, finendo con l’essere da questi ultimi duramente e ingiustamente malmenato e, infine, trattenuto con l’accusa di aver eccitato gli anime con le sue parole.

Rilasciato in condizioni miserabili, sarà ospitato dai monaci della Sacra di San Michele che lo cureranno con un intruglio che lo stesso poeta descrive nelle carte ritrovate: ”eravi nella nomata potione di certo aliquanta santoreggia, e della artemisia absinte, e poca digitale e laudano in buona mensura; eranvi di poi li fiori di una particulare spezie di canapa, che dicesi venga dalle lontane Indie, ma che bene forte s’accresce anco nello giardino de’ divoti frati, che spesso l’usano per fare de’dolciumi, manducati li quali spesse volte li fa visita Nostra Signora la Madonna; eranvi di poi una radice di genziana, et multi essiccati pezzi del fungo, che trovasi nelli boschi attigui, che chiamasi ammanita […] et essi anco sono di molto aiuto alle lor preci, imperrocché ingollata la giusta dose mai fu vana l’attesa di una divina apparizione”.

E’ straordinaria la ricostruzione d’ambiente che l’Alighieri, con spirito più prossimo a quello dell’antropologo che a quello del letterato, riesce a tramandare a distanza di secoli. Ma ancor più straordinaria è la profezia sul futuro di quella valle e del genere umano contenuta nei versi di un canto che lo stesso poeta, forse spaventato dalla sua stessa visione, volle poi abbandonare tra le mura della Sacra. Visione certamente non estranea al consumo fatto della suddetta pozione.

dante 2Il canto conta più del doppio dei versi normalmente contenuti negli altri e forse anche questo spinse Dante a tralasciarlo per non venir meno all’unità stilistica della sua opera, ma l’avvio del canto è “classico”. Il poeta scorge, attraverso una fessura, dei diavoli all’opera per preparare quella che sembra essere un nuovo girone dell’Inferno e naturalmente sarà il suo accompagnatore, Virgilo, a dargliene spiegazione:

Si puniranno in cotesta contrada
quei peccatori che avran disianza
di trasformare, a seconda ch’aggrada,

del mondo la natura e la sostanza
e impiegheran l’ingegno e la fatica
per appagar la loro tracotanza” (vv. 64 – 69)

Vedendo il poeta turbato, Virgilio continua:

Questo è distinato

a castigare il tristo tradimento
di chi in imperio suo vorrà ogni umano
per costringerlo a un folle movimento.

Questi imporran lo sforzo inane e vano
di mover di continuo cose e genti
sempre più in fretta e sempre più lontano.

Lo bieco fine degli spostamenti
sarà crear profitti con l’inganno
promettendo vantaggi inesistenti” (vv. 84 – 93)

Ma cosa aveva turbato Dante così tanto, tra ciò che aveva intravisto del lavoro degli operosi demoni?

Una strada ponean tratto per tratto
sovra la terra, fatta in duro acciaro,
sì come ‘l fabbro forma il catafratto.

Due barre parallele paro paro
li diavoli avvitavano a traverse
fitte in la terra nel verso contraro.

Così un sentiero sovra il pian s’aderse,
non di ghiaioso fondo, o lastricato,
ma di ferree rotaie lisce e terse” (vv. 73 – 81)

Ciò che impressiona non è solo la previsione delle ferrovie ultra-veloci che avrebbero dovuto solcare in futuro la Valle, ma la punizione tremenda, tipica del contrappasso, che sulle quelle rotaie sarà consumata ai danni degli amministratori, dei politici, degli imprenditori, dei mafiosi e finanzieri che saranno coinvolti secoli dopo nell’orrendo progetto. Tutti facilmente riconoscibili ancora oggi.

Ma per non turbare oltre il lettore e, soprattutto, per non guastare il suo divertimento, non resta che chiudere su questo punto; ricordando che l’opera è distribuita da una piccola, coraggiosa e meritoria agenzia di distribuzione libraria torinese che da anni è impegnata nel diffondere a livello nazionale le pubblicazioni dell’ editoria antagonista e indipendente.1


  1. DIEST, via Cognetti de Martiis n.39, 10149 Torino, telefono/fax: 011 8981164, e-mail: posta@diestlibri.it  

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Violent femmes: The Beginning (I) https://www.carmillaonline.com/2013/08/15/violent-femmes-the-beginning-i/ Thu, 15 Aug 2013 21:28:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8450 di Franco Pezzini

Copertina VF con bandelle.inddLe dee del doppiogioco

In un bel volume uscito nel 2008 per i tipo Odoya, “Violent Femmes. Donne-spia da Mata Hari ad ‘Alias”’, la studiosa britannica Rosie White, Senior Lecturer alla Northumbria University di Newcastle, raccoglie dalla storia, ma soprattutto da narrativa e schermi, una ricca carrellata di figure femminili nel segno del segreto e (appunto) della violenza. Una violenza che però non si consuma nella dimensione emotiva o sensuale delle vecchie vamp squilibrate e squilibranti, ma accede a interessi razionali: non necessariamente condivisibili, certo, ma provocatoriamente non diversi da quelli perseguiti – [...]]]> di Franco Pezzini

Copertina VF con bandelle.inddLe dee del doppiogioco

In un bel volume uscito nel 2008 per i tipo Odoya, “Violent Femmes. Donne-spia da Mata Hari ad ‘Alias”’, la studiosa britannica Rosie White, Senior Lecturer alla Northumbria University di Newcastle, raccoglie dalla storia, ma soprattutto da narrativa e schermi, una ricca carrellata di figure femminili nel segno del segreto e (appunto) della violenza. Una violenza che però non si consuma nella dimensione emotiva o sensuale delle vecchie vamp squilibrate e squilibranti, ma accede a interessi razionali: non necessariamente condivisibili, certo, ma provocatoriamente non diversi da quelli perseguiti – sempre secondo stereotipi – dalla sezione maschile dell’umanità.

In effetti la qualifica professionale più corretta per una simile, variegata costellazione di personaggi è quella di agenti segrete: e il quadro della citata violenza è molto vario, abbracciando un arco ideale tra gli amabili cazzotti di Emma Peel e le pallottole della tormentata Nikita.

Le saghe di queste “donne violente” investono e mettono in crisi non solo le raffigurazioni convenzionali del rapporto tra i sessi, ma quello con la società e le istituzioni, esplorate nei loro giochi d’interessi e nei più imbarazzanti dietro-le-quinte: e conquistandosi ruolo di protagonista, sia pure all’interno di organizzazioni in gran parte maschili, “la figura della donna-spia mette a nudo una serie di contraddizioni che […] sono lo specchio delle contraddizioni in atto nel mondo reale” – come sintetizza Carmen Covito nell’introduzione.

La storia di questo peculiare (e niente affatto ingenuo) punto di osservazione corre da Mata Hari, figura archetipica di spia/donna fatale, attraverso un secolo di convulsioni dei modelli sessuali, sociali, politici: basti pensare al forte stacco tra l’ottimismo delle saghe di agenti segrete degli anni Sessanta e il clima ben diverso della cultura del sospetto postmoderna. Qualcosa insomma che appare emblematico di una continua, vertiginosa ridefinizione di modelli dell’immaginario in stretto rapporto con scelte, fedi e scetticismi dell’uomo della strada.

“Sebbene spie e spionaggio esistano sin dai tempi biblici, i resoconti popolari che hanno per protagonista l’agente segreto sono legati a un’inquietudine tipica del Ventesimo secolo intorno al tema dell’identità nazionale e personale” – così Rosie White, che àncora il preambolo del suo volume al fronte dell’identità sessuale delle spie maschili nella letteratura popolare inglese all’inizio del Novecento, prima fra tutti la Primula Rossa della Baronessa Orczy. Ma, appunto, agenti e spie esistono sin dai tempi biblici, se vogliamo usare questa espressione: e la storia pregressa delle violent femmes è assai più ricca di provocazioni di quanto spesso si pensi. Una galleria che senza forzature occorre far partire dall’alba della storia, visto che fin da età assai remote un’attività di intelligence – nei fatti o nella finzione narrativa – ha coinvolto a pieno titolo anche donne.

Se la rozza maschera della mulier chiacchierona, incapace di tenere il segreto, è da sempre un topos patriarcale, anche il carattere in apparenza opposto di attrice per natura teorizzato per esempio nell’Ottocento (intriganti le considerazioni di Bram Dijkstra nel classico Idoli di perversità. La donna nell’immaginario artistico filosofico letterario e scientifico tra Otto e Novecento, Garzanti 1988) ha in realtà origini antichissime: che la donna finga, inganni, illuda seguendo una peculiare e innata propensione del proprio sesso rappresenta un altro diffuso luogo comune, neppure scalfito dall’ipotesi che possa (semmai) trattarsi di possibili strategie di resistenza in contesti storico-sociali che non concedono alternative.

D’altra parte quelle stesse caratteristiche – finzione, inganno, illusione – giocate da figure maschili possono assurgere a qualità ammirate: e non è un caso che agli albori dell’intelligence in Occidente brilli la figura del mentitore Odisseo, che non solo dirige operazioni “coperte” o vi partecipa in prima persona, ma attorno a sé coagula una schiera di colleghi/trickster come l’arciladro Autolico (suo nonno), l’astuto Sisifo (attribuitogli da qualcuno per vero padre, invece del povero Laerte), l’ingegnoso Palamede (poi dal Nostro accusato falsamente di doppiogioco coi Troiani e giustiziato) e l’infiltrato Sinone. Non ci stupiamo allora, quando Odisseo penetra travestito in Troia durante l’assedio come un moderno James Bond, che finisca a confrontarsi con una donna essa pure ritratto dei più sfuggenti doppigiochi. A ricordare: “[…] l’ignorarono / tutti; io sola lo riconobbi, anche così conciato” è infatti la fulgente Elena, quando nell’Odissea Telemaco giunge alla corte di Lacedemone per recuperare notizie del padre.

La regina incalza: “e l’interrogai molte volte: e con astuzia eludeva. / Ma quando io lo lavavo e l’ungevo con l’olio, [dove le pratiche dell’ospitalità sconfinano nel brivido erotico del contesto noir] / e vesti gli posi addosso e giurai gran giuramento, / che non avrei scoperto ai Troiani Odisseo / prima che fosse tornato all’agili navi e alle tende, / allora tutto il piano degli Achei mi narrò” (Odissea, 4, 249-256, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi 1989). O almeno la parte del piano che in quel momento il prudentissimo re di Itaca poteva esporsi a spifferare a un’interlocutrice, giuramenti o meno, di relativa affidabilità. Calate le carte, fu in quella situazione che (secondo altre fonti) Elena gli avrebbe svelato quale copia del Palladio fosse autentica, permettendo una seconda incursione entro le mura con Diomede allo scopo di rubarla – onde indebolire magicamente Troia e, diremmo noi, fiaccarne il morale. Ma in quel dialogo insperato con l’agente degli Alleati Elena riuscì a contrattare anche la propria incolumità per il giorno della caduta della città? In ogni caso la donna che parla a Telemaco è ormai reintegrata da anni al posto di moglie, madre e sovrana, lasciandosi alle spalle sogni e scandali: ed è forse naturale che nel racconto enfatizzi il proprio appoggio all’agente greco, e la fiducia riposta in lei da un uomo saggio come Odisseo.

Per continuare: “Poi, dopo ch’ebbe ucciso molti dei Teucri col bronzo affilato, / tornò fra gli Argivi e molte notizie portò. / Allora le Troiane acuto singhiozzavano; invece il mio cuore / godeva, perché l’animo s’era già volto a tornare / indietro, in patria, e piangevo la colpa che Afrodite mi spinse / a commettere, quando dalla mia patria mi condusse laggiù, / la figlia mia abbandonando e il talamo e l’uomo / a nessuno inferiore per bellezza o per senno”. Cioè quel (non proprio travolgente) Menelao che le sta davanti, e lei ritiene prudente blandire: con una prova di eloquenza dai toni di spiacevole cinismo – il cenno al pianto delle Troiane – ma che rammenta per mielosa abilità la parlantina dello stesso Odisseo.

Si noti che qui Elena non menziona un paio di successivi episodi, nel segno del più funambolico doppiogioco, che mostrerebbero anche meglio alcune sue peculiari capacità. Anzitutto a favore dei Troiani quando, sotto il cavallo di legno che conteneva tra le costole i migliori guerrieri achei, avrebbe preso a imitare diabolicamente le voci delle loro mogli: col risultato di farli andare in crisi, costringendo addirittura Odisseo a ucciderne uno che aveva perso il controllo. Con un vertiginoso voltafaccia, sarebbe stata però sempre lei che, nella Troia in festa per la creduta partenza dei Greci, aveva trovato modo di segnalare con un fuoco dall’alto il via libera alla flotta appostata presso Tenedo. Episodi che nella loro contraddittorietà – esemplare è in tal senso l’Elena di Virgilio – la dicono lunga sulla complessità del personaggio.

È evidente che la maschera della donna alla deriva dei sensi (il potere di Afrodite che trascina alla colpa) non esaurisce Elena nel profilo di una vamp più trascinante di altre. Dimentichiamo la biondina belloccia di Troy: se proprio vogliamo offrire volto d’attrice a una delle espressioni in assoluto più emblematiche delle contraddizioni sessuali di una cultura patriarcale – che trattiene come le ombre di un mondo diverso, di dee e potestà femminili di spiazzante fulgore – meglio ricordare allora l’enigmatica Scilla Gabel dell’ottima Odissea televisiva di Franco Rossi, 1968, col trucco similegizio quasi memore della storia che vorrebbe la vera Elena custodita sul Nilo, mentre Achei e Troiani si accoppano per un fantasma. E registrare il commento di Barry Strauss, che nello studio La guerra di Troia, Laterza 2007, avvicina Paride ed Elena a Juan ed Evita Perón, permette di cogliere ulteriori sfumature del ritratto.

In effetti la figura della donna più bella del mondo è troppo complessa perché si pretenda di ricondurla a una cifra unitaria, e la psicologia del personaggio (peraltro cangiante, per più versi inafferrabile) muove da convulse riletture e razionalizzazioni di un contesto mitico arcaico, poi indefinitamente rievocato. L’eventuale profilo di ingrata doppiogiochista resta così circonfuso di ambiguità: e ogni versione reca in fondo un’Elena diversa, trattenendo mistero e contraddizioni in un provocatorio gioco d’ombre. Tuttavia in quella donna che sotto il cavallo, con mossa d’attrice consumata, simula voci di amiche e conoscenti udite tanti anni prima, o che invece sulla rocca di Troia segnala con archi di fiamma nella notte il via libera agli Achei, giocando il tutto per tutto di una partita che coinvolge vita propria e assetti politici, militari ed economici in un momento di collasso epocale, è in fondo lecito ravvisare almeno qualche rapporto con le violent femmes in discorso. E forse vedere proprio Elena col suo gioco di finzioni, inganni e illusioni quale archetipo femminile della categoria, in coppia con lo smaliziato collega Odisseo.

Se la maschera di colei che tradisce le porte è insomma congrua a un’immagine di intelligence come area del disinvolto doppio gioco, del tradimento dalle insondabili motivazioni, e che guarda a una realtà complessa di interessi e ragioni, Elena non è però certo l’unica a vantare una simile licenza. Nella storia arcaica di Roma, la figura di Tarpea (o Tarpeia) che apre le porte ai Sabini non è meno sfuggente: il desiderio avido di ciò che i ricchi nemici tengono al braccio sinistro, le armille d’oro per i quali la ragazza mercanteggia il tradimento, resta un’accusa colorita dell’improbabilità di certe oniriche motivazioni di fiaba. E come nelle fiabe Tarpea viene punita – schiacciata da qualcos’altro che i nemici tengono appunto al braccio sinistro, cioè i pesantissimi scudi. Se in generale nell’episodio si è individuata una filigrana mitica indoeuropea – una guerra di fondazione, conflitto simbolico originario tra i Romani espressioni delle prime due funzioni, religiosa e militare, e i Sabini della terza produttrice di ricchezza, in vista di una conciliazione alla base della Storia – anche il dettaglio di Tarpea è a ben vedere frutto di una razionalizzazione storicistica. Da un lato il personaggio può rispondere a un ruolo “critico” del plot indoeuropeo (nell’omologo conflitto tra Æsir e Vanir della mitologia norrena, Dumézil giudica corrisponderle l’enigmatica figura della maga Gullveig, su cui gli Æsir si accaniscono invano), ma dall’altro affonda radici in un culto ancestrale del Campidoglio. In accordo con la forma più arcaica della leggenda su una Tarpea vergine guerriera, il nome – di origine, pare, non latina ma sabina – doveva suonare *tarqueia, da tarqu-, “vincere” : la figura raffigurata nelle monete, che emerge a braccia sollevata da una catasta di scudi, e ancor prima la statua-trofeo che doveva spuntare da un cumulo di armi strappate al nemico, effigiava la dea tutelare del Mons Tarpeius (“monte della vittoria”), una delle due cime del Campidoglio. Era insomma questa sorta di Palladio la vergine che sorge dalla battaglia, la guerriera eponima del primissimo mito col suo tumulo di scudi: anzi forse tali spolie dei nemici coprivano la sede della Dea ancor prima della costruzione del tempio di Giove Capitolino – anche se di ciò nulla resta nell’età dei cronisti.

Non sappiamo se l’uso di precipitare dal precipizio meridionale del colle i rei di tradimento e altre gravi colpe contro la comunità (fino al I secolo d.C.) si colleghi a qualche arcaica forma sacrificale: ma anche nel caso di Tarpea indagare sul profilo di un personaggio che resta mitico significa indagare sui motivi simbolici e ideologici – compresi stereotipi e nervi scoperti – alla base di una o dell’altra riscrittura. Anche qui infatti le versioni si sprecano: se nella principale, di Tito Livio, Tarpea è la figlia di Spurio Tarpeio comandante della cittadella, una variante di tale Antigono, criticata da Plutarco, la vorrebbe figlia dello stesso re sabino Tito Tazio, rapita da Romolo e dunque in cerca di rivalsa: il che sembra cambiare parecchio il significato del “tradimento”, per quanto egualmente sanzionato dai congiunti sabini (per mostrare comunque, si immagina, un exemplum di rigore contro chi svende le porte della città).

In una terza versione, di Calpurnio Pisone e documentata da Dionigi di Alicarnasso, si tratterebbe invece di un piano per ingannare il nemico – il che addirittura capovolge il senso tradizionale del racconto, mutando la traditrice in improvvisata agente segreta di Roma intenzionata a privare i Sabini degli scudi (avrebbe chiesto direttamente quelli), e ahimè tradita dal messo inviato a Romolo. Si è osservato che una simile versione in chiave di revisionismo buonista appare piuttosto forzata; nondimeno Dionigi la preferisce perché il monumento funebre alla ragazza sul colle più sacro della città e le libazioni annue in suo onore gli parrebbero inconciliabili con la memoria di una traditrice. Visto che probabilmente si tratta di un’antica dea, il motivo ovviamente perde forza. D’altra parte il noto uso di precipitare proprio di lì traditori e criminali poteva militare a favore della lettura colpevolista, che semplificava le cose anche da un punto di vista ideologico: se la razionalizzazione romana storicizza il mito, spiegare una disfatta militare attraverso una traditrice aggiusta il quadro assai meglio della penosa storia di un’agente sfortunata (o pasticciona). Ma la suggestione resta.

Si diceva che il movente dell’avidità di Tarpea reca un forte sapore da fiaba: del resto nella filigrana del racconto i Sabini rappresenterebbero funzionalmente i portatori della ricchezza, ed è coerente con lo sviluppo simbolico e di exemplum (in negativo) mostrare almeno una figura che da questa ricchezza resti abbacinata fino al tradimento. Poi certo, le storie di true crime evidenziano come spesso i veri moventi e strategie criminali suonino assurdi, antieconomici e comunque improponibili per un narratore con pretese di “credibilità”: il che può suggerire cautela nel tranciare giudizi sui racconti tradizionali. Ma le fonti recano un altro possibile movente: invece che per desiderio di oro, Tarpea potrebbe aver tradito per una diversa forma di concupiscenza – non meno legata alla funzione di ricchezza/fertilità. Parliamo dell’attrazione fisica.

A colpire Tarpea con la sua avvenenza sarebbe stato il capo Sabino Tito Tazio, di cui – sostiene romanticamente Properzio – la Vestale Tarpeia si sarebbe invaghita di un amore doppiamente proibito; ma in un’ennesima variante, ancora documentata (con scetticismo) da Plutarco sulla base del racconto del poeta Similo, il fatale innamoramento di Tarpea non avrebbe riguardato il re e l’assedio dei Sabini, bensì il capo dei Celti Boi e una diversa vicenda bellica – alla luce di una tradizione letteraria ellenistica molto più interessata ai Galli che non ad arcaici popoli italici quali i Sabini. Dalla versione “gallica” di Similo deriva a sua volta probabilmente la storia pseudoplutarchea (pare farlocca) di una pseudo-Tarpea dell’Asia Minore, tale Demonice di Efeso, che avrebbe tradito la propria città consegnandola ai Galli dell’ennesimo Brenno per desiderio dei loro preziosi ornamenti.

Non occorre entrare in questa sede in letture molto analitiche che pure aprirebbero intriganti percorsi (come sul ruolo in Livio delle donne legate alle origini di Roma, che per vari motivi si aprono a clan diversi dal proprio – in direzione insomma orizzontale invece che verticale/patriarcale – per incorporare stranieri nel popolo romano). Basti invece considerare come anche stavolta una figura miticamente equivoca e con funzione narrativa di doppiogiochista e magari agente segreta finisca col rappresentare un efficace specchio degli imbarazzi comunitari – il rapporto con lo “straniero” (tanto più se indissolubilmente legato alla nostra storia), con l’idea di sconfitta, con le origini stesse di un’epopea costituzionale.

Se poi la lettura erotica del tradimento di Tarpea sembra di origine ellenistica (il responsabile potrebbe essere proprio Similo) e dunque il movente più antico pare quello della cupidigia, è però vero che la prima definirà un topos. Ancora Paolo Diacono, parecchi secoli dopo, lo ripropone per un’altra traditrice/apritrice di porte, Romilda, moglie del duca del Friuli Gisulfo (Historia Langobardorum, IV, 37). Assediata in Cividale dagli Avari che le hanno ucciso il marito (circa 610), la duchessa scorgerebbe dall’alto delle mura l’aitante e giovane capo nemico che passa in rassegna le truppe. A quel punto “meretrix nefaria concupivit” e gli manda un messaggino in cui, in sostanza, propone uno scambio: lui la sposa, e lei gli lascia in balia la città con tutti gli abitanti. Le conseguenze per Cividale saranno spaventose, ma a sua volta la dark lady pagherà cara l’idea: dopo una notte allegra con il giovane re finirà violentata da dodici Avari e poi impalata, con il compiaciuto commento “Talem te dignum est maritum habere”. Sia o meno vero il fatto, il racconto riecheggia in chiave di topos antifemminile le antiche storie citate. Certo, la Tarpea che per amore o lascivia tradisce Roma, e la Romilda che per lussuria (o paura?) tradisce Cividale si apparentano più alle femme fatale travolte dai sensi che alle agenti segrete di cui in discorso: ma i motivi del segreto, del tradimento comunitario, del doppiogioco e della simulazione collocano le loro storie in un bacino almeno contiguo.

Per trovare però un’agente segreta in senso più proprio – rapporto con un’organizzazione, periodici rendiconti, altalena iniziale di frustrazioni e poi successo – dobbiamo tornare, come ricordava opportunamente Rosie White, verso i tempi biblici: e fare insomma la conoscenza dell’agente filistea nome in codice Dalila.

 

(Continua.)

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