Vincenzo Cerami – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A noi due! Conversazione con Gianluigi Bodi su “Un posto difficile da raggiungere” 1/2 https://www.carmillaonline.com/2024/02/08/a-noi-due-conversazione-con-gianluigi-bodi-su-un-posto-difficile-da-raggiungere-1-2/ Thu, 08 Feb 2024 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81065 di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni. Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, [...]]]> di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni.
Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, mi sono posto nella posizione di quel lettore che volevo spiare e mi sono aperto via via che leggevo all’interlocuzione con lui. Posizione rischiosa, me ne rendo conto, poiché si rischia di mostrarsi vulnerabili, di prendere piste che poi si riveleranno sbagliate, di assumere posi-zioni che poi, a lettura completata, possono essere smentite.
Ma il rischio si può prendere per un amico. E io avevo un vantaggio: questo è un libro di racconti, che dunque hanno una certa autonomia, anche se – lo si vedrà via via nell’intervista -, questa autonomia è in parte smentita. Oltre al rischio, però, c’è un vantaggio, ovvero quello di provarsi in un genere nuovo: l’intervista in fieri, la ri-flessione che si sviluppa leggendo e non si ricompone a posteriori, come spesso capita. Dalla quale emergono sempre ipotesi ma anche dubbi, tracce, rielaborazioni. Qualcosa di nuovo, mi sembra, rispetto a recensioni e interviste che giocoforza riprendono moduli noti. La formula è semplice: per ogni racconto ho fatto due do-mande a Gianluigi e gliele ho scritte prima di leggere il racconto successivo. Il titolo di ogni sezione è semplicemente il titolo del racconto che si trova nel libro.
A conti fatti, il gioco è stato utile, forse troppo lungo, ma utile a me e – spero – anche a lui, perché la progressiva mutazione del lettore ha suscitato qua e là la reazione dell’autore. È un gioco speculare a quello della scrittura in cui all’azione dell’autore corrisponde la reazione del lettore che si cerca di intuire e di anticipare. Non me ne voglia Gianluigi (al quale concedo tutti gli opportuni scongiuri) se concludo con una frase del celebre saggio di Roland Barthes sulla morte dell’autore: «per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può che essere che la morte dell’Autore» (ma simbolica, simbolica!). Viene allora in mente la celebre dedica-sfida che Bufalino appose a esergo delle sue Menzogne della notte: a noi due!

“Il potere taumaturgico di Mike Bongiorno”

Mi pare che la scelta di Mike Bongiorno come correlativo oggettivo di un’epoca sia molto efficace. È il tempo della televisione, della scatola delle meraviglie nella quale tutto è bellissimo e tutto è possibile. Tu associ giustamente quel mondo all’epoca dei nonni: sono loro che subiscono questo fascino. Da allora ad oggi le cose sono molto cambiate, la televisione non ha più quel ruolo, che è stato assunto dai social che però hanno logiche molto diverse. Come interpreti questo passaggio epocale? O meglio: come lo interpreti tu e come lo interpreta il tuo protagonista per il quale uscire da quel mondo rappresenta quasi un rito di passaggio verso la maturità. Ma c’è anche qualcosa di nostalgico nel tono del racconto?

Parto dalla tua ultima domanda. C’è sicuramente un tono nostalgico nel racconto che forse è dovuto al fatto di aver vissuto l’epoca della nascita delle TV commerciali quando ero molto piccolo. C’era la sensazione, o forse il messaggio era molto esplicito ma io lo coglievo solo marginalmente, che tutto fosse possibile e che tutto fosse a portata di mano. Per un bambino che viveva in un piccolo paese quel tipo di sollecitazioni aveva-no un grande potere anche sui sogni e le mete future da porsi. Oggi mi rendo conto che quel messaggio, quel “se puoi vuoi” è sbagliato e ha implicazione che si sono riverberate nei decenni e che hanno procurato ferite profonde non solo sulla psiche delle persone, ma anche sulla società e l’ambiente che ci circonda.
Tornando al racconto però mi viene da dire che Mike Bongiorno sia il simbolo di una nuova fede, qualcuno che approfittando della fiducia che le persone nutriva per il mezzo televisivo ha instillato nelle menti più suggestionabili un nuovo credo consumistico. Non sono un teorico dei mass media e non sono uno studioso dei social, ma mi pare abbastanza evidente che pur essendosi evoluto il mezzo, e avendo, come dici tu, logiche diverse, c’è ancora questo potere quasi mistico che influenza i fruitori dei social network. Un potere che forse deriva proprio dall’epoca delle prime TV commerciali nelle quali ci è stato insegnato a credere a ciò che proveniva dall’altra parte del tubo catodico perché scintillante, perché privo di conflitti e, in fin dei conti, saturo di bellezza. E non si poteva non credere a qualcosa che era così bello. Oggi si tende non a ciò che è bello, ma a ciò che da una versione dei fatti più consona ai nostri gusti personali, quasi come se cercassimo in ogni notizia una dose di serialità televisiva.
Per quel che riguarda invece la voce narrante di questo racconto l’atteggiamento nel nonno sembra quasi quel-lo di un devoto a un culto pagano, sembra al limite della pura superstizione. Lo guarda un po’affascinato e un po’con distacco, ma in ogni caso non può non rendersi conto degli effetti tangibili che il buon Mike ha prodotto nello stile di vita della famiglia. In fin dei conti è come se si rendesse conto che nemmeno lui, che ha studiato e si è “emancipato”, può fuggire dal fascino della TV.

Quando leggo mi è inevitabile mettere in relazione la scrittura che trovo con la mia, e lo faccio tanto più con te che sei un amico. Mi pare che in questo racconto – ma anche in altri – tu abbia una grande capacità di creare un clima, un ambiente molto credibile e concreto, però per come intendo io la scrittura, mi pare che manchi, diciamo così, il colpo di grazia al lettore, cioè mi pare manchi quasi la scena madre. Io ho il problema contrario, l’assenza di frequenti scene madri mi metterebbe in imbarazzo, come se non donassi abbastanza al lettore. Sei d’accordo con questa lettura del tuo racconto? E, se sì, da dove credi nasca questa scelta, dalla tua conoscenza del minimalismo americano? Dalle lezioni di scrittura che hai frequentato? E forse, prima di queste domande: è una scelta consapevole?

Mi fai riflettere su una cosa a cui non avevo mai pensato in questi termini. Se, come dici tu, manca una scena madre, la cosa non mi disturba. O almeno diciamo che non mi disturba in questo racconto. E il motivo per cui almeno in questo racconto non mi disturba è che nello scriverlo sono partito dall’idea di raccontare un momento storico ben preciso attraverso gli occhi di un bambino che vede dipanarsi davanti a sé un cambia-mento a cui saprà dare un’interpretazione personale solo decenni dopo. Volevo che il fulcro della narrazione fosse quello di una crescita emotiva e non ero interessato a costruire una scena madre rivelatrice. Poi, come dici tu, questo tipo di narrazione da qualche parte deve arrivare e per quel che mi riguarda non ho mai fatto mistero di essere stato affascinato da Carver e dal suo scrivere asciutto. Poi sai, possiamo stare qui a discutere se sia lo stile di Carver, se sia lo stile di Gordon Lish, se sia davvero minimalismo oppure no, ma il succo è che nel momento in cui sono venuto a contatto con i racconti di Carver mi sono trovato davanti una lettera-tura fatta di piccole storie, di drammi personali, di leggere sfumature emotive e devo dire che l’ho amata fin da subito. Detto questo, non voglio imitare Carver, non voglio scrivere come lui (anche perché mi sarebbe impossibile) ma vorrei, se mi fosse possibile, proseguire un percorso di scrittura che mi si addica e che mi assomigli.
Anni fa mi sono imbattuto in una definizione della scrittura di Carver che trovo molto aderente al vero, pur-troppo non ricordo più dove l’avessi letta e di chi fossero le parole. Le storie di Carver sono come stanze sature di gas, si aspetta un’esplosione che invece non arriva mai. Sono andato a memoria e ho parafrasato, ma il senso mi pare quello e mi pare anche abbastanza chiaro. Spesso, non sempre, in quello che scrivo, non c’è l’esplosione, ma la stanza è ben satura di gas.

“La macchina che costruisce gli ingranaggi”

Questo è un racconto che colpisce molto. Sembra un racconto sulla fabbrica e sul lavoro ma non lo è. I personaggi fanno scelte inaspettate, a volte inspiegabili e questo dipende proprio dal fatto che il tema non è il lavoro né la fabbrica. Il tema è l’ansia, che porta a volte a un desiderio di annullamento di sé: quell’annullamento di sé che nel racconto chiami: «il punto che è necessario raggiungere», con chiaro riferimento al titolo. È un tema portante, mi pare, nella tua letteratura. E proprio per questo nel racconto l’evento straordinario diviene ordinario, il racconto di un fatto eccezionale rappresenta la quotidianità, per chi conosce cosa sia l’ansia. Sbaglio?

Non sbagli. L’ansia è un tema ricorrente di questa raccolta e credo che ciò sia dovuto al fatto che nel periodo in cui ho scritto questi racconti l’ansia non era una semplice compagna di viaggio ma era diventata una presenza ingombrante. Il suo ruolo era accresciuto senza quasi che me ne accorgessi e senza che riuscissi a dare un nome a certi pensieri che formulavo poco prima di andare a dormire. Con il senno di poi, dopo aver avuto modo di esplorare meglio il mio rapporto con gli stati ansiosi, mi sono reso conto che molte delle cose che ho scritto erano influenzate dal tentativo di dare una risposta alle cose che sentivo. Più avanti nella lettura troverai un altro racconto profondamente legato all’ansia che si intitola “La statua sulla colonna” che forse, per certi versi, è il meno consolatorio di tutto il libro, ma che fotografa un momento preciso in cui sembrava non ci fosse una via d’uscita o un modo per liberarsi di lei.
In questo racconto che si sviluppa quasi esclusivamente all’interno di uno dei classici capannoni industriali dell’area trevigiana il protagonista è alla fine del suo percorso lavorativo, è passato attraverso continui tagli di personale e la possibilità di uscire dalla scena lavorativa era sempre dietro l’angolo. In un certo senso quello che tu chiami fatto straordinario gli darebbe la possibilità di andarsene a modo suo, con i suoi tempi, prendendo una decisione e non subendola. Vede uno spiraglio di fuga da quell’ansia che negli anni l’ha divorato. Ma in lui non c’è solo l’ansia, c’è anche l’idea di aver fatto un lavoro “inutile”, che non ha influito minimamente nelle vite delle persone. Pensa di non aver lasciato il segno e quindi, l’evento straordinario, per quanto negativo, sembra metterlo di fronte al fatto che invece un’influenza il suo lavoro ce l’ha avuta.
Come dici tu però non si tratta di un racconto sulla fabbrica o sul lavoro, credo sia più un racconto sull’ansia, sulle aspettative disattese e, più in generale, sull’insoddisfazione, tema, quest’ultimo, che secondo me si addice molto agli scrittori.

Questa parabola sull’ansia, mentre rende il racconto molto bello, secondo me, perché riesce a farsi allegoria di altro, pone anche qualche insidia di carattere tecnico che riguarda il punto di vista. Mi sembra infatti che la voce narrante oscilli di tanto in tanto tra il narratore onnisciente e la falsa terza persona. Io credo che questo derivi dal punto precedente, ovvero dal fatto di raccontare una cosa (un episodio in fabbrica) mentre in realtà ne stai raccontando un’altra (l’ansia), quindi a volte sei dentro il tuo personaggio (falsa terza persona), a volte sei dentro di te (narratore onnisciente). Di fronte a questa affermazione un narratologo professionista mi dirà che il narratore onnisciente comunque non è l’autore e quindi il problema resta meramente tecnico. Ma noi che scriviamo sappiamo quanto sia di-verso entrare nei panni di un personaggio o entrare nei panni di un narratore tanto astratto da tendere all’infinito – senza arrivarci – dove quell’infinito è la figura reale dell’autore. Ora, vengo alla domanda: quello del punto di vista è un problema che ti sei posto? Ci hai lavorato magari in fase di riscrittura?

Tutte le questioni tecniche mi affascinano e, magari esagerando, mi tolgono il sonno. Anche se tendo sempre a privilegiare l’aspetto emotivo di un racconto ho in grandissima considerazione la tecnica forse perché mi rendo conto che non sono ancora del tutto in grado di padroneggiarla o anche perché a volte non riesco a cogliere completamente tutti gli aspetti tecnici. Mi auguro ovviamente che anche questo faccia parte di un pro-cesso di crescita e che poco a poco sappia far mio i ferri del mestiere per poterli utilizzare con competenza sulla mia idea di letteratura. Tornando alla tua domanda posso risponderti che sì, mi sono posto il problema del punto di vista, non tanto nella stesura iniziale che, per questo racconto, è stata portata a termine quasi di getto, ma nelle successive riletture. Credo che, passaggio dopo passaggio, alcune sbavature siano state corrette, ma in realtà mi sono reso conto fin da subito che il personaggio principale, per quanto lontanissimo da me come esperienza vita, era una mia emanazione diretta. Si parla spesso di empatia nei confronti dei personaggi, nel caso di questo racconto l’empatia nei confronti del protagonista è stata talmente tante che mi ha reso difficile staccarmi da lui e distanziarmene completamente. Credo che questo produca quell’effetto oscillante tra narratore onnisciente e falsa terza persona di cui parli della tua domanda. Ho cercato per quanto possibile di raccontare una storia partendo dal narratore onnisciente perché avevo bisogno di mettere un po’ di distanza tra me e il protagonista, ma anche perché, molto banalmente, nella narrazione c’erano degli aspetti e delle informazioni che ritenevo importanti e che solo così sarei riuscito a mettere all’interno del quadro. A un certo punto però sempre che il narratore onnisciente parteggi per il protagonista e faccia il tifo per lui, che si senta coinvolto nella storia e questo secondo me lo fa virare verso una falsa terza persona. Ti mentirei se di dicessi che la cosa è stata voluta fin dall’inizio, ma a risultato concluso mi è sembrato che questa labilità di confini potesse funzionare anche in virtù del fatto che scrivevo di lavoro mentre parlavo d’altro.

“Il rito”

Qui compare un altro tuo grande tema, la famiglia. Che però è una famiglia piena di enormi difetti, a tratti terribile, sede di difficili rapporti di forza e spesso volta a censurare le individualità. In questo caso è una famiglia ricca o almeno molto benestante, affarista, col padre padrone che almeno a paro-le tiene alla famiglia, ma poi la distrugge con amanti e insulti ai figli. Oltre a una generale osserva-zione su questo, ti chiedo: nel testo non ci sono indicazioni di natura geografica, ma quanto può contare secondo te, nella tua narrativa, il Veneto, che sembra avere molte delle caratteristiche negative che tu descrivi?

A volte basta non nominare una cosa per evocarla. Il Veneto, in questo racconto ma anche in altri, c’è tutto. Diciamo che questo racconto raccoglie quando mi è capitato di vedere nel corso degli anni. Per motivi personali mi sono spesso trovato a girare tra tre provincie diverse, Venezia, Treviso e Rovigo e anche se mi rendo conto che il tessuto alla base di queste tre province è diverso, sotto molti aspetti ho trovato che ci siano forti elementi che le accumunano.
A me sta molto a cuore il tema della famiglia, sia quando si tratta di mostrarne gli effetti positivi, sia quando si tratta di mostrare quelli negativi. In particolare, in questo racconto, mi interessava calcare su questi ultimi. Il padre padrone di questa famiglia è un uomo che si è elevato sugli altri grazie al fiuto per gli affari. Ha fatto strada grazie ai soldi. Ciò che più gli interessa è che venga mantenuta sempre una perfezione di facciata e che tutto sia controllabile secondo i suoi desideri. Ho voluto calcare un po’ sui personaggi cercando di stare sull’orlo della stereotipizzazione perché, per quando sia surreale io queste persone, negli anni, le ho conosciute davvero. Ho visto all’opera il potere subdolo dei genitori nei confronti dei figli, la manovre nemmeno troppo velate per cercare di conformarli a un’ideale per il quale prima viene l’immagine che si mostra agli altri e poi viene tutto il resto.
Io non so se questa sia una caratteristica esclusiva del Veneto anche se tendo a escluderlo, ma in un’ambiente in cui la prima domanda che ti fanno è: quanto ti pagano? La figura del figlio per me era emblematica di una diversità osteggiata dall’ambiente famigliare, quasi derisa. Volevo che il figlio fosse l’elemento della narrazione che svolge il compito mostrarti che l’imperatore è nudo.

C’è ancora una questione tecnica che mi fa riflettere ed è, in questo caso, l’uso o non uso dell’ironia. Mi interessa la postura del lettore. Il racconto è in prima persona, noi dovremmo stare facilmente vicino al personaggio protagonista ma quello che gli accade è grottesco e questo ci porta lontano da lui. È il procedimento ironico che utilizza per esempio DeLillo: Rumore bianco è in prima persona, ma quello che accade ai personaggi è così grottesco che noi non ci identifichiamo in Jack ma lo guardiamo dall’esterno, da una posizione vicina a quella dell’autore. È la cosiddetta ironia di DeLillo. Ciò che capita al tuo personaggio mi porterebbe lì, da quelle parti, un’ironia amara con cui si possono trattare anche argomenti tragici (del resto Rumore bianco parla dell’angoscia della morte). Però, ecco il punto, secondo me tu lo vivi molto seriamente. La boutade del regalo grottesco, per te è una tragedia. Questo mi spiazza come lettore, perché ho l’impressione di non essere in perfetta sintonia con te.

Anche in questo caso mi porti a fare delle riflessioni che non avevo ancora del tutto messo a fuoco. Non so se sia io a vivere il grottesco di questo racconto molto seriamente oppure se in realtà non sia il personaggio a viverlo in maniera seria. Il fatto è che a un certo punto il lettore potrebbe accorgersi che non c’è una via di fuga per il protagonista, potrebbe rendersi conto che i regali preziosi e costosi che il festeggiato non può nemmeno capire ma che valuta solo in base al loro costo non sia una cosa così tanto innocua. Mi rendo conto che in questo racconto ho calcato molto sul pedale del grottesco perché volevo che a delle risate iniziali subentrasse una presa di posizione forte che ponesse il lettore al fianco del protagonista.
La tragedia di cui parli tu forse è la mancanza di uscita da questa situazione che alla fine sembra diventare evidente anche al protagonista. Quell’ironia iniziale che si trasforma in grottesco poi lascia spazio a un senso tragico di impotenza anche perché, soprattutto quelli che dovrebbero essere dalla tua parte, e qui sto pensando alla sorella del protagonista, lo usano come fosse una semplice pedina priva di valore al di fuori del gioco.

“Un gatto morto sul ciglio della strada”

All’inizio del racconto precedente, il protagonista dice di riuscire a parlare con l’analista so-lo di animali e bambini. Qui un animale – un gatto che peraltro porta un nome umano – ha un ruolo decisivo per il protagonista e per lo svolgimento della narrazione. Che cosa rappresenta per te il mondo animale?

Nel caso del racconto precedente il binomio bambini/animali aveva a che fare con un certo tipo di purezza e con tutta una serie di comportamenti non costruiti. Un uccello raccoglie dei ramoscelli per costruirsi il nido e non per mostrarli con orgoglio agli altri uccelli. Questo era il motivo per cui il protagonista de “Il rito” riesce a parlare di questi argomenti. Per come sta vivendo la sua vita gli sembra che di sentirsi più affine a quel modo di vivere piuttosto che a quello della sua famiglia.
Ne “Un gatto morto sul ciglio della strada” il gatto del racconto sostituisce nella vita del protagonista la presenza di un figlio. Il protagonista è stato messo nella condizione di pensare di essere una persona inutile, non in grado di badare a se stessa e quindi nemmeno capace di badare a un altro essere umano.
Per quel che riguarda ciò che rappresenta per me il mondo animale posso solo darti una risposta molto personale. Credo che gli animali siano capaci di agire senza preconcetti e senza dietrologia. Questa è una cosa che farebbe bene anche agli esseri umani. Legandomi al racconto precedente, il padre agisce per mantenere uno status quo di potere, per lui ogni scelta deriva dall’utilità che questa comporta, ma deriva anche dalla risposta a una domanda che si ripete sempre uguale a se stessa: cosa penseranno gli altri di me se mi comporto così?
A me piace pensare che nel mondo animale questo tipo di pensiero sia limitato o quasi assente. Soprattutto se ci riferiamo ad animali in cattività e non ad animali domestici che, vivendo a stretto con-tatto con gli esseri umani, hanno finito per assomigliarci un po’ troppo.

Quello degli animali non è il solo elemento di continuità. C’è anche una famiglia che in modo persino troppo esplicito (anch’io credo che la famiglia sia la sede di complessi rapporti di forza, ma credo che questi restino per lo più impliciti e non detti) disprezza il protagonista. Sembra che esista una precisa continuità tra i racconti. Io penso da sempre che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia sia pure in forme diverse, tuttavia qui questa prossimità mi pare più palese, quasi che sia – come diceva Kundera che pure faceva operazioni simili – un romanzo a variazioni, ovvero un romanzo a cui manca la continuità di tempo e spazio ma ha una compattezza d’altro tipo, per lo più tematica o appunto fondata sull’identità del personaggio. Tu percepisci questa continuità?

Qui devo andare un po’ per ordine. Prima di tutto i racconti che sono stati inseriti in questa raccolta sono frutto di una selezione che ne ha esclusi altri. Un’esclusione che non ha nulla a che vedere con la qualità, a bontà tecnica o con qualche altro parametro di questo livello. Sono stati esclusi perché non mi sembravano affiatati con gli altri, erano buoni racconti che però raccontavano altro rispetto a quello che volevo trasmettere con questa raccolta. Quindi, in riferimento a quella che tu chiami “continuità” mi verrebbe da dirti che era voluta e che mi fa piacere che si percepisca.
Inoltre ho cercato di mettere assieme alcuni temi a me cari e ne ho lasciati fuori altri che, pur essendomi altrettanto cari, rischiavano di rendere la raccolta troppo eterogenea.
Detto questo, anche io penso che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia che nella scrittura ci sia un continuo processo di rimescolamento della materia narrativa. Pare evidente anche a me che alcuni temi siano ricorrenti in questa raccolta e che a volti siano più palesi perché il modo che ho scelto per raccontarli li mette più al centro della narrazione, mentre in altri casi sono quasi temi secondari legati al principale in un rapporto causa effetto che però li lascia comunque in secondo piano. Credo che la famiglia sia un nucleo di storie potenzialmente infinito.
Capisco quello che intendeva dire Kundera e mi fa molto piacere che intraveda in questa raccolta un “romanzo a variazioni”. Tu sai che il mio primo tentativo nel mondo editoriale è stato un romanzo per racconti che purtroppo non ha avuto fortuna. In quel caso l’unità del romanzo per racconti era data da un luogo, mentre per quel che riguarda “Un posto difficile da raggiungere” ho voluto, o almeno ho cercato, di dare una continuità di temi e l’idea era un po’ quella di raccontare gli stessi temi da angolazioni diverse per provare a renderli a trecentosessanta gradi. Non so se ci sono riuscito ma il fatto che si percepisca questa compattezza mi fa molto piacere.

“Capitani coraggiosi”

Questo racconto, soprattutto se messo in relazione ai precedenti, mi ha posto subito un interrogativo che credevo di natura tecnica ma forse non lo è. Come dicevo, secondo me, sei molto bravo a costruire delle ambientazioni molto concrete, a entrare nelle pieghe del tuo protagonista, a gestire le sue reazioni in modo inaspettato per il lettore. Però quello che mi convince meno sono i personaggi minori, sono tutti cattivi cattivi cattivi, o, se mi permetti, stronzi stronzi stronzi. Io penso che uno scrittore debba porsi con empatia e complessità con tutti i personaggi, anche i minori. In una conversazione con Nicola Lagioia lui diceva, molto efficacemente secondo me, che, quando scrive un saggio o un articolo, i politici corrotti per esempio sono disegnati come persone spregevoli senza riserve ma quando scrive un romanzo (parlava allora della Ferocia) l’autore prova empatia e compassione anche per quei personaggi. E’ la stessa ragione per cui Cerami, forse un po’ provocatoriamente, diceva che non si può scrivere un romanzo su Hitler, proprio perché non ha sfumature, non ha bar-lumi di luce.
Proprio a partire da queste considerazioni, pensavo a questo aspetto come un difetto tecnico dei tuoi racconti. Poi però ci ho ripensato, anche in virtù della nostra conoscenza e ho pensato che questa è davvero la tua visione del mondo: quella dell’uomo che sta solo sulla terra e non trova appigli o pertugi di salvezza e per il quale l’altro rappresenta sempre un’insidia o una minaccia. Così al di là di questioni tecniche, i racconti hanno cominciato a insinuare una angoscia strisciante che via via si sta facendo opprimente: ed è questo un merito della letteratura, costringerci a percepire il disagio, per farci uscire diversi dall’esperienza della lettura. Non è una domanda, ma vorrei capire le tue riflessioni su questi aspetti.

Io capisco bene quello che dici e capisco bene il pensiero di Lagioia e posso dirti che sono molto d’accordo con questa visione. C’è però un ma. Quando ho iniziato a scrivere, per qualche motivo che forse ha a che fare con la mia frequentazione con Carver, mi sono ritrovato a scrivere una serie di racconti un cui, alla fine, anche i personaggi più cattivi ne uscivano bene. Mi mancava il “coraggio” di andare in profondità nel fango e nel sangue. Ora, una cosa del genere può andare bene quando è funzionale al racconto. Se vuoi raccontare la storia un uomo cattivo perché gli hanno mostrato che nella vita c’è solo quello allora ci sta che lo scrittore cerchi di illuminare anche gli aspetti bui del suo animo e fare in modo che il lettore provi pena anche per chi sulla pagina nasce cattivo.
Poi però mi sono ricordato di un episodio di quando ero ancora alle scuole elementari. In classe con me avevo un bambino che era a tutti gli effetti la figura perfetta del bullo. Manesco, irriverente, lingua tagliente con compagni e maestre. Ecco, io mi ricordo perfettamente che quasi per confortarmi, quasi a cercare uno spiraglio in quella situazione, mi ritrovavo a pensare che da adulto non avrebbe potuto altro che migliorare e diventare una persona migliore. Non è successo, anzi, la sua vita è costellata di arresti e reati. La mia visione di bambino è stata distrutta dai fatti della vita e io questo non l’ho più scordato.
Vero è che, conoscendoci, sai anche come la vedo io su molti aspetti e in effetti quella dell’uomo solo è una tematica che mi sta molto cara, ma credo che in questo racconto subentri anche l’influenza che ha avuto Stephen King. In alcuni libri di King, anzi, in praticamente tutti, l’antagonista principale è una declinazione del male puro. Una persona, un’entità, una cosa, capace solo di perseguire il male, incapace di redenzione, incapace anche solo di concepire l’idea che ci sia una redenzione possibile. In questo racconto ma anche in altri, ho voluto inserire quella visione tremendamente cupa di King. Volevo che il protagonista si scontrasse con il male e volevo che uscirne vincitore, per lui, significasse esserne contagiato.

Finora è l’unico racconto in cui parli della lettura, che in fondo è parte importante della tua vita. In questo caso sembra essere il referente della marginalità (il ragazzino che legge è trattato come uno sfigato, e la lettura è causa e conseguenza di tutto questo). Però, almeno per un attimo, e forse senza troppa convinzione, la lettura è anche un elemento di possibile riscatto, è ciò che potrà permettere al tuo protagonista un avvenire migliore dei bulletti che gli fanno del male. Tu sei un lettore forte, che ruolo ha nella tua vita la lettura?

Credo di avere un rapporto con la lettura che in qualche modo dipende molto da come sono io come persona. Ci sono periodi in cui leggo tantissimo e ci sono periodi in cui leggo molto poco e con fatica. Direi che si tratta di un rapporto un po’ bipolare ma non posso farci nulla. Ho però vissuto la lettura in maniera diversa nel corso degli anni. Sono stato preso in giro perché leggevo, mi è stato fatto nota-re che se leggevo troppo significava che disprezzavo il posto da cui venivo e le mie origini cosa che non è assolutamente vera. Mi è stato anche detto che leggevo le cose sbagliate e che i libri giusti mancavano dalla mia libreria. Assurdità di questo tipo.
Per il protagonista di “Capitani coraggiosi” la lettura è più semplicemente un modo per allontanarsi dalla realtà, non dover pensare a una situazione familiare poco piacevole, ai rapporti con i coetanei malsani e a una forma fisica sgraziata. Nelle pagine dei libri che legge più che esserci la possibilità di riscatto c’è una via di fuga. Certo, è il protagonista stesso a un certo punto a dire che si augura che i suoi compagni restino al palo mentre lui spicca il volo, ma lui si riferisce allo studio più che alla lettura.
Comunque, tornando al “lettore forse” non posso non ammettere che la lettura, soprattutto negli ultimi dieci anni, ha avuto un ruolo molto importante nella mia vita. Leggere è diventato un po’ anche studiare, smontare il giocattolo per capisce come funzionano i meccanismi e cercare di riprodurli quando poi scrivo. La lettura è parte di, passami il termine, aggiornamento professionale; è una spinta a cercare di fare sempre meglio sulla pagina.

“Il Vecchio in bicicletta”

Il bello di porti le domande durante la lettura credo sia che si vede formarsi un parere via via anziché ricostruirlo poi secondo un progetto complessivo. In questo caso vorrei dirti che Il vecchio in bicicletta è il racconto più bello, quello che apre a una certa visionarietà, che fa convergere elementi realistici e aspetti surreali, e lo fa mantenendoli in un equilibrio che è sempre difficile. C’è la realtà drammatica (la perdita del lavoro, la guerra) che diventa naturalmente quasi una favola. A pensarci lucidamente non so se sia davvero in assoluto il racconto più bello, ma è il racconto di cui, come lettore, avevo bisogno. Lo si capisce bene dalle domande al racconto precedente: era esattamente il momento di prendere un po’ d’aria, il momento dell’ironia positiva: ed è arrivato proprio quando io ne avevo bisogno. Mi rinsaldo sempre più nell’idea della compattezza di questa raccolta, che ha i tempi narrativi di un ro-manzo, le salite e discese emotive al momento giusto. So che hai scritto i racconti in tempi diversi e solo a posteriori organizzato la raccolta. Mi chiedo perciò se anche nel tuo percorso di scrittura questo racconto abbia avuto un ruolo particolare o meno, se sia nato in un conte-sto diverso dagli altri e ti abbia dato diverse emozioni di scrittura.

Quando ero ragazzo ero un consumatore folle di musica. La musica è arrivata prima dei libri. All’epoca spendevo tutti i soldi che avevo per comprarmi le prime audio cassette e poi i primi CD. E quando mi innamoravo di una ragazza, e capitava spesso, mi mettevo lì con pazienza a estrapolare traccia dopo traccia per creare la giusta compilation, quella che potesse poi mostrare senza ombra di dubbio alla ragazza chi ero veramente. Però le audiocassette non le consegnavo mai e la maggior par-te delle ragazze per cui bruciavo d’amore non se ne sono nemmeno mai accorte.
Quando ho iniziato a pensare a questa raccolta di racconti mi sono chiesto subito come costruirla e mi sono ricordato del periodo del taglia e cuci con le cassettine. Ho cercato di posizionare i racconti in modo che non fossero tutti raggruppati per tematica e che ogni tanto ci fosse uno stacco rispetto ai racconti precedenti. Quindi mi fa piacere che tu abbia notato questo stacco subito dopo il climax del finale del racconto precedente. Mi viene da pensare che forse quelle audiocassette in gioventù avrei dovuto consegnarle.
Per quel che riguarda il racconto devo dire che nasce tutto dall’immagine dell’anziano in bicicletta che trasporta i rami. Mi piacerebbe poter dire che è tutta farina del mio sacco ma in realtà quell’anziano esiste o meglio, esisteva. Per un periodo, durante la quarantena, lo vedevo passare a velocità lenta e sulle spalle aveva rami enormi. Mi chiedevo come facesse a stare in equilibrio, ma soprattutto mi chiedevo che se ne facesse di tutti quei rami.
In quel momento mi sembrava che nemmeno la propria abitazione fosse un posto sicuro dove stare e quando ho iniziato a fare ipotesi sull’utilizzo che quell’anziano poteva fare di tutto quel legname mi è sembrato che la mia ipotesi nascondesse molto del momento in cui tutti stavamo vivendo.
Non so se questo racconto abbia un ruolo particolare nel mio percorso di scrittura, so che è stato molto liberatorio scriverlo e che alla fine, una volta messo il punto finale, mi sono sentito come se non ci potesse essere una conclusione diversa.

(continua)

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Un uomo fortunato: intervista a Morando Morandini https://www.carmillaonline.com/2014/07/17/uomo-fortunato-intervista-morando-morandini/ Thu, 17 Jul 2014 21:10:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15601 di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film? Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: [...]]]> di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film?
Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: possiamo chiamarlo “critico”? Meravigliavo le signore, amiche di mia madre, snocciolando i nomi di attori e attrici, e a poco a poco cominciai a distinguere un regista dall’altro. Da molti anni ho un sogno che non realizzerò mai: un saggio sulla critica italiana di cinema, suddivisa in generazioni. Sono convinto che in ciascun critico conti la sua infanzia cinematografica, cioè i film con cui “è nato al cinema”, quelli che cominciato a vedere in un certo modo. Parlo di film, ma il discorso si potrebbe estendere ad altri settori: libri, quadri, musica. C’è anzitutto una generazione, ormai quasi scomparsa, che nacque al cinema negli ultimi anni del muto, a cavallo tra gli anni ‘20 e ‘30. Venne poi quella degli anni ’30 sonori, quando, poiché il cinema italiano contava poco, si nutriva di film americani e francesi. Clair, Carné, Duvivier e un po’ meno Renoir che per ragioni politiche era poco importato. Seguirono la generazione del neorealismo, che scoprì il cinema a partire dal ’45 con Rossellini, De Sica, Visconti e quella della Nouvelle Vague a cavallo tra i ’50 e i ’60. In termini anagrafici dovrei appartenere a questa generazione, ma, essendo stato un precoce (ride), faccio parte della precedente. Venne poi la squadra degli anni ’70, quella che rivalutò Matarazzo, Mattoli, Totò e gli altri, insomma quel cinema commerciale, artigianale, non d’autore che le generazioni precedenti avevano ignorato, snobbato, spregiato. L’ultima generazione è quella che ha tettato il cinema sul televisore, ha l’inconscio colonizzato dai film hollywoodiani e scrive saggi pensosi e interminabili sul trash e sul gore. Ma per dirla secca, sono nato al cinema con i film francesi degli ultimi anni ’30. I miei idoli erano Jean Gabin, Arletty, Michèle Morgan. E Gary Cooper tra gli attori americani. Tra le attrici la Davis, la Hepburn, Carole Lombard. E Dorothy Lamour di cui mi innamorai col tramite di John Ford in Uragano (1937). Ford e Hawks erano i miei director preferiti, ma ricordo che mi lasciai incantare da Winterset (Sotto i ponti di New York, 1936) di Al Santell e rimasi sconvolto da Delitto senza passione (1934) di Ben Hecht. Riuscivo già ad andare fuori dai sentieri battuti. A dodici anni, come ho già detto, leggevo Filippo Sacchi, poi passai al settimanale “Film” di Doletti (era un lenzuolo, come il primo “Espresso”) e, infine, al liceo approdai alla rivista “Cinema” e a qualche numero di “Bianco e nero”.

Morandini 1E quand’è che questa passione diventa un mestiere?
C’è un intervallo bellico, diciamo il biennio 1944-45, in cui ho visto pochissimi film. Un buco nero. A guerra finita mi trovai iscritto al quarto anno di Lettere alla Statale di Milano senza aver dato nemmeno un esame. Qui comincio a fare il giornalista in un quotidiano cattolico di Como. Si chiamava “L’Ordine”. Sono un milanese che ha passato vent’anni, tra i 5 e i 25, sulle rive del Lario, dunque in provincia, il sale d’Italia. Il I° luglio del ’47 ero già giornalista professionista. Nella primavera di quest’anno una medaglietta dell’ordine per i 50 anni di professionismo, e ti assicuro che tra gli altri colleghi medagliati e cinquantenari ero tra i più arzilli. Non capitava spesso nemmeno allora di entrare in giornalismo a ventun anni. All’“Ordine” eravamo in quattro, e facevo un po’ di tutto, ovviamente, soprattutto cronaca nera e bianca. Anche un po’ di recensioni di film, ogni tanto. Recensì Paisà, parlandone bene (ride). Succede che nel ’49 mi licenziano. Passo nove mesi da disoccupato o, meglio, senza stipendio poiché collaboravo all’altro quotidiano comasco, “La Provincia”: teatro, cinema, libri, mostre d’arte, qualche articolo di cronaca locale. Nel ’50 trovo un posto a Milano, in un altro quotidiano cattolico: “L’Italia”, dove lavoro per due anni come redattore alle pagine provinciali. Raramente, approfittando delle vacanze o delle distrazioni del titolare della critica cinematografica, riesco a fare anche qualche recensione: Cronaca di un amore (1950) dell’esordiente Antonioni, per esempio. Finché alla fine del ’52 esce un nuovo quotidiano del pomeriggio, “La Notte”: fui promosso sul campo, sin dal primo giorno, critico del teatro di rivista. Si giocava a tutto campo, allora. A fare il successo della “Notte” contribuirono molto la pagina degli spettacoli e quella complementare del “Dove andiamo stasera?” dove per la prima volta su un quotidiano apparvero le famigerate “stellette” della critica, presto accompagnate dai “pallini” del successo di pubblico. Per nove mesi feci anche il vice di Biagi (e così mi firmavo) per il cinema. Recensivo più film io come vice che lui come titolare, ma in quel momento Enzo Biagi aveva il suo daffare come redattore capo del settimanale “Epoca”, appena uscito. Al festival di Venezia 1953 andai io, e da quel momento divenni titolare. Da ragazzo avevo due passioni: la letteratura e il cinema. Se mi guardo indietro, posso dire di essere un uomo fortunato: ho fatto coincidere presto uno di quei due amori col lavoro.

Morandini 2Il piacere della visione: doversi porre davanti a un film con un atteggiamento critico l’ha mai privata di qualcosa?
Sono cresciuto in provincia, a Como, città che non è mai stata culturalmente vivace come Bergamo, Pavia, Parma. Nel ’49 a Como fondai un Circolo del cinema. C’erano molte ragioni per farlo, non ultima quella che volevo vedere i film del passato. Il piacere della visione… è un discorso complesso. Parto da un esempio. Negli anni ’50 a Milano ci si incontrava spesso, tra colleghi, alla prima proiezione pomeridiana dei film nuovi. Incontravo Ugo Casiraghi dell’“Unità”, amico carissimo con cui poi lavorai nella supervisione del primo cinema d’essai italiano. Mi capitava di vedere con lui un film di Jerry Lewis o con Jerry Lewis (il suo primo film di regia è del 1960). A certe gag Ugo rideva come un matto, mentre io rimanevo in silenzio. Non che non mi divertissi anch’io, ma è una questione fisiologica: posso divertirmi moltissimo, ma non rido. Mi capita raramente. Poi, però, leggevo la sua recensione del film con Jerry Lewis, e non si capiva che s’era divertito. È soltanto un esempio, s’intende, ma fin d’allora mi ero posto il problema: come superare i filtri ideologici? Fino a che punto un critico ha il dovere di controllare la propria soggettività? È giusto rimuovere il piacere della visione? D’accordo: Casiraghi era comunista, un marxista di quelli veri, mentre io non lo ero. Di sinistra, è vero, ma di difficile collocazione. Qualche volta penso di essere un liberalsocialista un po’ anarchico: oggi, che si sposta tutto a destra, faccio figura di estremista perché non mi sono mosso! Ebbene, come critico, almeno nella misura in cui ne ero consapevole, mi sono sempre posto il problemi dei filtri ideologici. Facciamo un altro esempio: Samuel Fuller. Da quando alla mostra di Venezia del ’53 arrivò Mano pericolosa, Fuller era stato presentato come un regista di destra, reazionario, muscolare e un po’ fascista. Nel 1961 lascio “La Notte” per “Stasera”, altro quotidiano del pomeriggio, ma di sinistra, pendant del romano “Paese Sera”. Esce a Milano quel che per me ancor oggi rimane uno dei film migliori di Fuller: L’urlo della battaglia (1962). Lo recensisco in modo molto, molto positivo. E su “Cinema nuovo” di Aristarco, baluardo della critica marxista, si scandalizzarono. Già non avevano probabilmente digerito il fatto che su un quotidiano di sinistra avessero preso me, critico di “La Notte”. Per giunta elogiavo apertamente un film di Fuller. Uno scandalo. Mi bacchettarono con un corsivo anonimo al quale risposi con una letterina troppo ironica perché potessero capirla. L’umorismo non era il loro forte.

È possibile giudicare serenamente un cinema ideologicizzato? O semplicemente distinguere destra da sinistra?
Forse per ragioni d’età, ma, nonostante la confusione che regna oggi, so ancora distinguere tra destra e sinistra, almeno in certi campi. Dipende dai livelli, però. Sopra un certo livello mi rifiuto di discutere in termini di destra e sinistra. Nel cinema hollywoodiano che conta, per esempio: che m’importa di stabilire se Ford o Hawks siano o no di destra? È di destra o di sinistra Kubrick? E Altman, Coppola, Abel Ferrara, Scorsese dove li mettiamo? Passiamo in Francia. Resnais è sempre stato un uomo di sinistra: Notte e nebbia (1956), Hiroshima mon amour (1959), La guerra è finita (1966). Ma ha diretto anche L’anno scorso a Marienbad (1961) e Smokin – No smoking (1993). Sono film di sinistra? Godard cominciò con film anarchici di destra (Le petit soldat, 1960, per esempio) e dieci anni dopo diventò maoista. Come la mettiamo con Truffaut? L’alternativa destra-sinistra si riferisce ai contenuti o anche alla forma? Comunque credo nella distanza critica, non ideologica.

Morandini 3Va al cinema con amici? Discute con loro dei film visti?
Al cinema vado solo o in coppia, quasi sempre con mia moglie, raramente in gruppo. Certo che discuto con gli amici, ma quasi sempre a botta fredda. Non ho mai fatto presse parlé, anche perché non sono tanto bravo a parlare. Anche ai festival raramente scambio opinioni con i miei colleghi all’uscita da un film. Non voglio farmi influenzare né influenzare gli altri, soprattutto quando si esce da un film che mi ha intrigato, colpito, sorpreso. In quei casi ho bisogno di una fase di riflessione, e voglio farla in solitudine prima di scrivere. Negli altri casi posso limitarmi a un sí o un no, mi piace o non mi piace. Per quel che ricordo, una volta sola sentii il bisogno di scambiare impressioni e idee, e trovai la persona adatta come interlocutore. Fu nel 1959 quando a Cannes si vide Hiroshima mon amour. E l’interlocutore era Casiraghi. Un critico di una generazione successiva non può immaginare l’impressione che a molti fece quel Resnais che, dieci anni dopo, rivedendolo per la terza o quarta volta, mi sembrò di una semplicità straordinaria. Non in quel giorno di maggio del ’59. Non fui sconvolto da À bout de souffle, ma da Hiroshima mon amour che mi sembrò un film libero come può esserlo un romanzo. Dieci anni dopo era un film trasparente, ma in mezzo c’erano stati gli incontri con i film nuovi degli anni ’60.

Guardando a ritroso, riconosce errori di valutazione su certi registi e sui loro film?
Secondo me sono più gravi le sottovalutazioni che le sopravvalutazioni. Ritengo più grave – nel mio mestiere ma anche nella vita di ogni giorno – sbagliare per difetto che per eccesso, per avarizia che per generosità. Ovviamente anch’io ho commesso errori di questo tipo. Qui bisognerebbe parlare dei rapporti tra espressione e comunicazione. Forse dipende dal fatto che, tirate le somme, sono un giornalista prima di essere un critico. Il primo dovere di un giornalista è saper comunicare, no? Se poi riesce a esprimersi, tanto meglio. In termini diversi, il problema si pone anche per l’artista. Il suo primo dovere è esprimersi, ma non può trascurare la comunicazione, ossia il rapporto col pubblico, con lo spettatore. Diffido dei film che sono “contro” il pubblico, per principio. O forse sono soltanto più esigente. Fossi costretto al gioco della torre, tra Truffaut e Godard, butterei giù Godard. Estremizzo, è chiaro, ma , secondo me, il problema critico dell’ultimo decennio è la svalutazione eccessiva dei film ben costruiti. So anch’io che è una vecchia storia, si ripete in letteratura da duecento anni: classici contro romantici. Se si va contro il pubblico, o si è a un livello molto alto – come Tarkovskij, per esempio – o è meglio lasciar perdere. So benissimo che Lo specchio (1974) è un film per pochi, e io faccio parte di quei felici pochi! Il mio compito di critico è di far aumentare il numero di quei pochi.

Avrà delle antipatie…
Ne ho tante, e non le nascondo. Tinto Brass o Zeffirelli, tanto per fare dei nomi, per non scendere al livello dei Vanzina. Anche in questi casi, però, seguivo un criterio etico: mi astenevo. Dopo due o tre stroncature consecutive, lasciavo il compito di recensire il nuovo film al mio socio Silvio Danese. Insomma, evitavo quel che poteva sembrare un accanimento critico. E risparmiavo il mio tempo. Oltre alle antipatie esistono le ottusità. C’è un regista che ho amato subito, sin dall’inizio: Marco Ferreri. Eppure, di fronte al suo Diario di un vizio (1993), io, ferreriano della prima ora, sono rimasto chiuso. Non mi è piaciuto, non l’ho capito. Le chiamo ottusità provvisorie. Vai a vedere un film e per ragioni tue private (fisiologiche?), lo vedi “male”. Magari sei costretto a scriverne subito, non hai il tempo di rivederlo, ma sai che l’hai visto male. Il guaio è quando non lo sai.

Morandini 6Come si comporta con i film degli amici o dei registi che conosce?
Occorre fare una distinzione tra i critici romani (intesi come critici che abitano a Roma) e gli altri. Io sono un critico di frontiera, per esempio. Abito a 50 km. da Chiasso, (ride), dunque ho meno occasione di frequentare la gente del cinema: produttori, sceneggiatori, registi, attori ecc. Detto questo, considero l’ambiente del cinema italiano romanocentrico un cortile di merda. Puoi scriverlo: un cortile di merda, per intrallazzi, ruberie, omertà mafiosa, raccomandazioni di partito o di corrente, meschinità, gelosie, invidie, politica per bande. È di una corruzione almeno pari a quella di tutto il resto dell’Italia. Il guaio è che, pur vivendo a Milano, questa corruzione mi è più evidente. Sono pochi, pochissimi i registi che posso definire come amici: Bertolucci (tutti e due), Luigi Faccini, Nichetti a Milano, Olmi, Vincenzo Cerami tra gli sceneggiatori. Potrei aggiungere Valerio Zurlini e Gianni Amico, ma se ne sono andati. Per altri può esserci stima e una certa confidenza. Per Gianni Amelio, per esempio, ho una stima grandissima, anche a livello personale, come per De Seta, così come ho stima e confidenza con Marco Tullio Giordana, Emidio Greco, lo stesso Benigni, Bellocchio. Nel 1997 a Venezia diedero a Bertolucci il premio Pietro Bianchi. Poiché di Bianchi sono il successore sul “Giorno” e di Bernardo sono amico, il Sindacato Giornalisti Cinematografici mi chiese di fare un discorsino prima della consegna del premio. Parlai anche del problema che si pone al critico quando deve giudicare il film di un autore amico. Può capitare che si scrivano sul film riserve, qualche dissenso. I casi sono due: se i due sono veramente amici, continuano a esserlo, magari dopo un periodo di silenzio da parte del ferito; se rompono i rapporti, non erano veri amici. Nel primo caso, però, può rimanere un’ombra, paragonabile a quella di un tradimento tra marito e moglie. Appartiene al passato, può essere stata metabolizzato, il tradimento, ma l’ombra resta. Non è un gran problema, comunque. Se ho riserve da fare sul lavoro di un amico, cerco di scriverle in maniera più gentile. Tutto qui. C’è un altro rischio, invece. Se si conosce bene un regista, e gli si vuol bene, il rischio, per il critico è di scambiare le intenzioni per risultati.

Questi erano gli amici. E, invece, le polemiche con occasionali “nemici”?
Polemiche? Le ho avute più a voce che per iscritto, ma molte le ho dimenticate. Magari non so perdonare, ma dimentico spesso. Ebbi una polemica scritta con Alberto Bevilacqua, strascico di un duro attacco che gli feci da Venezia nel 1985 quando fu messo in concorso La donna delle meraviglie. Non replicò subito. Aspettò un’altra occasione per mandarmi una lettera oltraggiosa. Non aveva tutti i torti, però: la mia era stata un’invettiva. Ebbi una polemichetta in pubblico con Tinto Brass. A proposito di un suo film scrissi sul “Giorno” che mi aveva fatto venire la tentazione – come si ha voglia ogni tanto di fare con certi bambini – di mettere il regista nella condizione di non nuocere. Apriti cielo! Brass mandò una lettera al giornale accusandomi di voler limitare la sua libertà d’espressione e di avere auspicato la sua messa al bando. Gli risposi che avevo commesso uno sbaglio nel ricorrere all’ironia sebbene mi meravigliasse il fatto che non fosse stata capita da chi, come Brass, si dava tante arie di trasgressivo, ironico, caustico. Eppure conoscevo la regola: non usare mai l’ironia quando si scrive sui giornali perché c’è il rischio che un lettore su due prenda alla lettera quanto hai scritto. Se scrivessi per iperbole antifrastica e ironica, che Pieraccioni è più grande di Chaplin, sicuramente qualche lettore si scandalizzerebbe.

Morandini 4Ha scritto che le piace essere invaso dai film, non evadere grazie ai film… cosa rende buono un film?
Al più alto grado, come per certi libri, un film dovrebbe cambiare lo spettatore. Uno vede un film e ne esce cambiato nel senso che ha ricevuto tanto che non è più la stessa persona. È un po’ un paradosso letterario, ma ha un suo fondo di verità. Sai, mi tengo sempre sul paragone con la letteratura o con la poesia: i film per il 99% sono in prosa però ci sono anche quelli di poesia. Per cui un film ti può emozionare, ti può dar da pensare, porti delle domande, anche perché credo che l’arte in generale ponga delle domande, non dia delle risposte. Anzi, sono i film che danno delle risposte che sono discutibili. Significa che sono “a tesi”, in fondo in funzione di un programma, politico, civile… o un programma pornografico (ride). Insomma, film che subordinano la loro autonomia di prodotto artistico a qualche cosa d’altro.

Non ha mai provato la tentazione di passare dall’altra parte della barricata?
La questione va divisa in due parti, una autobiografica ed una più generale. Il primo libro di cinema che ho posseduto, mi fu regalato da mia madre quando avevo quattordici quindici anni e purtroppo è un libro che è andato perso negli anni di guerra. Un libro pubblicato da Bompiani, l’autore era Seton Margrave, ma non ricordo più il titolo. Fu un regalo di compleanno di mia madre e mi ricordo ancora la dedica: “a Morando che vuole diventare regista”. C’è stato anche un momento a guerra finita, credo nel ’47, in cui andai a sostenere un esame di iscrizione al Centro Sperimentale – facevo già il giornalista – e non fui ammesso. Ho avuto l’occasione di collaborare alla sceneggiatura di un altro, ma sono sfumate. Una volta è stato quando il mio amico Gianfranco Bettetini m’invitò ad andare ad Alba per conoscere Beppe Fenoglio perché c’era in ballo il progetto di un film su soggetto suo, tra l’altro non sulla guerra partigiana, ma ambientato nelle Langhe del dopoguerra. Andai due volte almeno ad Alba e conobbi Fenoglio. Passammo delle bellissime ore assieme. Si parlò pochissimo del film da fare (ride). Si parlò molto delle Langhe, del vino e poi sei mesi dopo Fenoglio s’ammalo.

E ci sono film che avrebbe comunque voluto fare?
Ogni tanto, una volta ogni due o tre anni, mi succede o di leggere un libro o di vedere un film che mi piace tanto e mi piace in un modo particolare che mi dico che questo è un film che avrei voluto fare io. Non chiedermi titoli perché non me li ricordo più! È un pensiero che hanno in molti, credo. Non è molto profondo!
(Milano, 24/7/98 e Levanto, 4/8/98)

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