vampiri – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Sep 2025 22:01:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Visum et repertum 5 https://www.carmillaonline.com/2025/08/16/visum-et-repertum-5/ Sat, 16 Aug 2025 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89407 di Franco Pezzini

Cinque età per Dracula

In altra sede si osservava come a dettare periodizzazioni nell’immaginario del (neo)gotico, più che la letteratura siano stati gli schermi, e in particolare il tema-Dracula: riproposto tanto ossessivamente da assurgere a buon misuratore di un’evoluzione dell’immaginario, con cicli grosso modo trentennali, cioè con un arco che corrisponde più o meno a una generazione. Guardiamoci indietro e prendiamo in esame in termini panoramici questa evoluzione. L’età che dalle origini del cinema corre fino al 1930 – quella cioè del Drakula halála (1921), e del Nosferatu di Murnau (1922) – è in questo senso per [...]]]> di Franco Pezzini

Cinque età per Dracula

In altra sede si osservava come a dettare periodizzazioni nell’immaginario del (neo)gotico, più che la letteratura siano stati gli schermi, e in particolare il tema-Dracula: riproposto tanto ossessivamente da assurgere a buon misuratore di un’evoluzione dell’immaginario, con cicli grosso modo trentennali, cioè con un arco che corrisponde più o meno a una generazione. Guardiamoci indietro e prendiamo in esame in termini panoramici questa evoluzione.
L’età che dalle origini del cinema corre fino al 1930 – quella cioè del Drakula halála (1921), e del Nosferatu di Murnau (1922) – è in questo senso per forza di cose ancora poco strutturata: il cinema si sta organizzando, ma si è ben lungi dall’immaginare un target per i film del fantastico come poi troveremo. Per quanto nell’ambito dell’espressionismo tedesco si sviluppi infatti la prima “fabbrica dei mostri” – a preludere alle successive Universal e Hammer – il pubblico va a vedere Nosferatu e la settimana dopo una commedia rosa: e questa situazione si riproporrà all’inizio anche in America, dove a partire dagli anni Trenta le grandi platee iniziano ad accedere in modo organizzato alla celebrazione dei riti gotici su schermo.
Da allora si dipana approssimativamente una situazione di questo genere:

anni Trenta (dal 1931, Dracula di Browning, “età di Lugosi”): crescita del gotico;
– anni Quaranta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Cinquanta: contrazione/eclissi;
anni Sessanta (dal 1957, The Curse of Frankenstein di Fisher, “età di Lee”): nuova crescita del gotico;
– anni Settanta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Ottanta: contrazione/eclissi;
anni Novanta (dal 1992, Bram Stoker’s Dracula di Coppola, “età neogotica”): nuova crescita del gotico;
– anni Zero: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Dieci (dallo spegnersi del boom dei vampiri attorno al 2012): contrazione/eclissi.

Una serie di studi si sono attestati qui. Ma nel frattempo è accaduto dell’altro. Da un lato l’impatto, ma non la vera rivoluzione recata al tema-Dracula dalle serie televisive: né la pur brillantissima Penny Dreadful (2014-16), che pure ridisegna in modo originale il profilo del vampiro, né l’attesissima e senz’altro interessante serie Dracula BBC/Netflix di Mark Gatiss e Steven Moffat (2020) si sono imposte su un immaginario diffuso fino a costituire dei punti di riferimento per il tema-Dracula. Persino l’effettiva uscita di un film per tanto tempo favoleggiato quasi da appartenere unicamente ai sogni dei cultori, The Last Voyage of Demeter (Demeter – Il risveglio di Dracula, 2023) di André Øvredal, e alla fine rivelatosi una pellicola di tutto decoro, non ha cambiato le cose in termini di impatto sull’immaginario collettivo.
Tempo addietro (25 maggio 2017), si scriveva su questo sito:

Possiamo aspettarci una nuova fase “up” (indicativamente) negli anni Venti? Difficile dire se il trend trentennale troverà ulteriori conferme, e difficile anche immaginare i connotati di una rinnovata crescita del gotico – che per esempio dovrà fare i conti con l’effetto-Legione dei fantasmi dell’era di internet, indefinitamente frantumati in sciami di grumi psichici come già adesso nei romanzi di [Danilo] Arona. I nuovi dottori potranno fronteggiare sempre più frequentemente simili emergenze, con un piede in Matrix e l’altro in The Exorcist: ma di più al momento è difficile dire.

Oggi è probabilmente possibile confermare. In grazia di due eventi che sembrano aver recato elementi di novità. Nel primo caso una novità forzata, cioè la vicenda pandemica (2020-23) che per un certo numero di motivi ha proiettato all’orizzonte dei nostri pensieri fantasie di vampiri e zombie. Nel secondo caso, il successo persino inatteso del Nosferatu di Robert Eggers, 2024: inatteso a fronte di una storia non particolarmente originale benché gestita in modo brillante, ma tale da far moltiplicare tanto epidemicamente e compulsivamente le voci a commento (infiniti i post sui social, innumerevoli i video su YouTube) da costringere a chiedersi se non desse forma ad altro. Cioè probabilmente una crisi epocale fatta di covid, guerre, brutture politiche, sgomitare di sozzi tycoon e presa d’atto delle depressioni di un mondo: e insieme il nosferatu è riconosciuto come un grande incubo, un agglutinato di grumi psichici, un’ombra junghiana da esorcizzare e morirci.
Con ciò non si vuol affermare che questa nuova stagione sia l’“età di Skarsgård” come altre erano state l’età di Lugosi e di Lee: si tratta di epoche del cinema completamente diverse, e del resto la precedente non è stata l’“età di Oldman”, a dispetto della bravura dell’interprete del Conte (che da un lato non ne è stato mai assorbito, dall’altro non ha dettato all’immaginario collettivo una maschera tanto connotante come i due illustri predecessori – anche, va detto, per una certa distanza dal modello letterario). Del resto gli entusiasmi neogotici di quegli anni – chiusi dallo sbrilluccicare dei vampiri in salsa romanticismo sexy, con accento ora sul sostantivo, ora sull’aggettivo – sono ormai lontani, siamo in una fase successiva: anche di storia del mondo, ci ricorda il cinema di Dracula, che in qualche modo è un’ottima cartina al tornasole di crisi e desideri confessati e inconfessabili di singole epoche. Piuttosto, memori dei connotati del nosferatu di Eggers, potremmo chiamare la nuova età avviata come “età degli incubi”: e forse, a prescindere dal cinema, con qualche buon motivo.
L’annunciato arrivo di un altro Dracula, di Besson – c’era davvero bisogno di riproporlo in chiave di A Love Tale? andiamo… – e un fiorire di apocrifi come Dracula: Rise of the Vampire di Dean Meadows (di prossima apparizione), The Reincarnation of Dracula di Nicholas Malden (2024) o Abraham’s Boys: A Dracula Story di Natasha Kermani (2025), la minaccia stessa di un Dracula Untold 2 (fortunatamente non confermato, il primo deludeva terribilmente anche per il clamoroso miscasting che penalizzava un bravo interprete come Luke Evans) allo stato attuale non dicono molto di più d’un prevedibile interesse da parte del pubblico. Potremmo arrivare a ipotizzare uno sviluppo del genere per questa nuova età cinematografica?

anni Venti (dal 2024, Nosferatu di Eggers, “età degli incubi”): nuova crescita del gotico;
– anni Trenta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Quaranta: contrazione/eclissi.

Difficile dire: a differenza del Conte, che tra paletti e coltelli nel cuore, bagni fatali di sole, affogamenti nel fossato gelato del castello e altre amenità continua a emergere come un passato che non passa – dicendo così tanto del mondo in cui viviamo – noi siamo confitti nel tempo. Dunque, augurando a noi stessi lunga vita, saranno forse i nostri figli a confermare o meno la bontà del prospetto. Mentre per ora, benvenuti nell’età degli incubi.

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Visum et repertum 3 https://www.carmillaonline.com/2025/04/12/visum-et-repertum-3/ Sat, 12 Apr 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87718 di Franco Pezzini

Il litografo si sveglia a mezzanotte

Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Lidia Gallanti, Silvia Scaravaggi e Edoardo Fontana, prefaz. di Antonio Castronuovo, testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Roberto Lunelio, Elena Vismara, pp. 276, € 30, Museo Civico Crema, Crema 2024.

“In mostra è esposta la litografia Dracula tratta dalla serie Myths Suite (1981), ove il Conte è in buona compagnia insieme a Topolino, Santa Claus e Superman, tra gli altri”: ma è solo un assaggio di una raccolta iconografica [...]]]> di Franco Pezzini

Il litografo si sveglia a mezzanotte

Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Lidia Gallanti, Silvia Scaravaggi e Edoardo Fontana, prefaz. di Antonio Castronuovo, testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Roberto Lunelio, Elena Vismara, pp. 276, € 30, Museo Civico Crema, Crema 2024.

“In mostra è esposta la litografia Dracula tratta dalla serie Myths Suite (1981), ove il Conte è in buona compagnia insieme a Topolino, Santa Claus e Superman, tra gli altri”: ma è solo un assaggio di una raccolta iconografica ricchissima e di straordinaria godibilità. Al Museo Civico di Crema e del Cremasco, tra 19 ottobre 2024 e 12 gennaio 2025 si è tenuta infatti una splendida mostra dal titolo Vampiri. Illustrazione e letteratura tra culto del sangue e ritorno dalla morte, a cura di Edoardo Fontana, Lidia Gallanti e Silvia Scaravaggi. Il più fortunato mattatore dei miti notturni vi è indagato a partire dalle prime ambigue epifanie (la Lilītu mesopotamica, i morti ematofagi dell’Odissea) fino all’odierno orizzonte pop, attraverso più di trecento opere provenienti dal patrimonio di venti biblioteche pubbliche italiane e di collezionisti privati, tra testi letterari e poetici, incisioni, fogli sciolti, edizioni originali e materiale iconografico. Poliedrico, multiforme, incerto ed equivoco, il protagonista “è un essere fluido, privo di una connotazione sessuale precisa, a cavallo tra vita e morte, che subisce malvolentieri le leggi della natura e le sovverte, incarnandosi in corpi sempre differenti e contaminando i generi e le forme di arte e di letteratura”: e la sua cifra finisce con l’interpellare un più ampio pelago di fantasmi, incubi, ombre d’ossessione tra folklore e letteratura.

Realizzata in collaborazione con Aretè Associazione Culturale e Alla fine dei conti di Mantova, la mostra è stata accompagnata da questo grande, ricco ed elegantissimo catalogo edito dal Museo con prefazione di Antonio Castronuovo (Quotazione dei vampiri) e testi di Elena Alfonsi, Paolo Battistel, Carla Caccia, Domenico Cammarota, Marius-Mircea Crişan, Mario Finazzi, Edoardo Fontana, Lidia Gallanti, Roberto Lunelio, Silvia Scaravaggi, Elena Vismara.

A due bei contributi di inquadramento antropologico e artistico delle curatrici Gallanti (I vampiri sono tra noi: revenant nella storia, nella letteratura e nell’arte) e Scaravaggi (“Fra poco il mondo finisce”: consapevolezza e fuga tra Simbolismo e contemporaneità) seguono testi approfonditi su singoli temi. Elena Alfonsi tratta di Inchiostro, carta e scrittura nel tempo di un papa e una regina: fede, scienza e astuzia contro la superstizione: papa e regina identificabili per inciso in Benedetto XIV Lambertini – il progressista che non riusciva a liberarsi dal vampiro linguistico dell’intercalare cazzo, ma che ai non-morti non credeva affatto – e in Maria Teresa d’Asburgo che dietro consulenza del dotto archiatra illuminista van Swieten pose il divieto di profanare tombe in sacrileghe cacce antivampiro.

In L’ombra del vampiro, Paolo Battistel parte dalla Lenore di Gottfried Augustus Bürger per una serie di riflessioni sull’immagine – anche erotica – del vampiro e dei suoi simili nella letteratura; lo sguardo si sposta poi a est con il dotto excursus La presenza dei vampiri in alcune pagine di letteratura romena: da Eliade a Eminescu, un intreccio a ritroso di Carla Caccia, e la trattazione di Marius-Mircea Crişan sul tema Dal folklore romeno alla letteratura gotica. Il vampiro oltre Dracula. con opportuna citazione finale da Nina Auerbach, “Every age embraces the vampire it needs”.

Per avvicinarci a noi, Domenico Cammarota, un nome noto nella vampirologia italiana attraverso volumi pionieristici (e ormai datati, ma carichi di fascino per chi – hai visto mai – abbia la ventura di rivenirli nei mercatini), presenta Il vampiro nella letteratura italiana. Bibliografia commentata (1801-1940): a partire da uno pseudobiblion usualmente citato nei repertori, Il Vampiro di De Gasparini, presuntamente rappresentato “al Teatro delle Arti di Torino nel 1801”, ma di cui non esiste alcuna traccia coeva, e il simil-plagio di Cifra (probabile pseudonimo per Raffaele Carrieri) Il Vampiro, che sostanzialmente traduce appropriandosi di un racconto di Jan Nepomuk Neruda. I vampiri, insomma, flirtano da sempre disinvoltamente con il falso e il plagio editoriale: in fondo fin da quando Il vampiro di Polidori era stato attribuito a Byron per biechi interessi dell’editore – e non perché Polidori avesse in effetti ripreso un’idea del suo amatodiato (e ormai soprattutto odiato) ex-datore di lavoro.

Mario Finazzi torna a oriente con Traiettorie di nipponizzazione del vampiro occidentale: vampiri illustrati tra i due mondi, mentre Elena Vismara affronta Anne Rice: A Gothic Soul, un argomento a questo punto must delle biblioteche sul tema. Ai risvolti psicologici del vampirismo Roberto Lunelio dedica Il vampiro innocente con itinerari tra sospetto e paranoia (follia, sessualità femminile disinibita, colonialismo inverso, omosessualità). E il terzo curatore Edoardo Fontana chiude la sezione saggistica con Tardi verso l’alba, con una cavalcata attraverso un’ampia serie di ritratti di una galleria – in senso lato – vampiresca.

Segue il Catalogo delle 328 opere esposte in mostra con schede curate da Finazzi, Fontana, Gallanti e Scaravaggi, le tavole – acquaforti, litografie, volumi a stampa, fotografie, acquerelli, collage, fotogrammi di film, tavole di fumetti, eccetera, con scelte anche originalissime e illuminanti per il tema – e una curata serie di paratesti, con nota bibliografica a cura di Scaravaggi.

Il volume è bellissimo. Merita dunque (tanto più a mostra ormai chiusa) assolutamente una scoperta, con la sua sontuosa serie di contributi, l’iconografia spesso poco nota e ad ampio raggio – ma mai “facile”, neppure nelle estensioni a opere nere non tecnicamente vampiresche, qui comunque giustificate – e, il che rappresenta una marcia in più, l’evidente passione con cui è stato assemblato. Una panoramica molto ampia dove non possono mancare i fondamentali e tuttavia mai scontata, in grado di competere felicemente con monografie celebrate.

(Per le precedenti puntate di Visum et repertum, cfr. qui)

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Visum et repertum 2 https://www.carmillaonline.com/2025/03/01/visum-et-repertum-2/ Sat, 01 Mar 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87090 di Franco Pezzini

Solo i giocatori sopravvivono

Piero Melati, Lola&Vlad, pp. 496, € 20, Polidoro, Napoli 2024

Lo sappiamo, il vampiro è un Fregoli dell’immaginario, capace di assumere nel tempo mille e mille diverse facce: dall’impresentabile e putrescente orco tornato di successo con il Nosferatu di Robert Eggers, 2024, attraverso una lunghissima serie di metamorfosi (via teatro, cinema, tv, fumetti, giochi di ruolo, romanzi young adult, …) è diventato il belloccio sbrilluccicante di Twilight. Anzi la storia del gotico transmediale trova proprio nel vampiro – più che in ogni altra creatura dell’immaginario – la cartina al tornasole di una qualunque [...]]]> di Franco Pezzini

Solo i giocatori sopravvivono

Piero Melati, Lola&Vlad, pp. 496, € 20, Polidoro, Napoli 2024

Lo sappiamo, il vampiro è un Fregoli dell’immaginario, capace di assumere nel tempo mille e mille diverse facce: dall’impresentabile e putrescente orco tornato di successo con il Nosferatu di Robert Eggers, 2024, attraverso una lunghissima serie di metamorfosi (via teatro, cinema, tv, fumetti, giochi di ruolo, romanzi young adult, …) è diventato il belloccio sbrilluccicante di Twilight. Anzi la storia del gotico transmediale trova proprio nel vampiro – più che in ogni altra creatura dell’immaginario – la cartina al tornasole di una qualunque periodizzazione puntuale.

Non stupisce dunque che, con un’operazione sottile, un giornalista navigato come Piero Melati, uso a confrontarsi con istanze di serio impatto dell’attualità (dalla nota bio, “ha seguito il Maxiprocesso e la guerra siciliana di mafia degli anni Ottanta. È stato vicecaporedattore alla cultura del Venerdì di Repubblica. Attualmente collabora all’inserto Robinson di Repubblica, alle pagine culturali del Venerdì”) riporti in scena i vampiri: ma quelli di un periodo molto preciso e puntualmente descritti in ritratti, allergie ed erotica, cioè i vampiri degli anni Novanta, del RPG Vampire: The Masquerade (prima edizione 1991), dell’immaginario di chat e nickname fantasiosi o prevedibili, dei siti vampirologici del primissimo web. Lo fa con ironia e sparando alto, con un profluvio di personaggi, molti – non tutti – giovani (almeno d’aspetto: con vampiri ultrasecolari non si può mai dire) e scontri tra Milano e la Sicilia che fanno pensare a fenomeni paralleli di infiltrazione malavitosa del territorio.

Dimentichiamo i castelli turriti del gotico e la catabasi nei sotterranei lugubri e surreali di Murnau (e magari Sätty), dimentichiamo le orripilazioni del classico Vampiri, sepoltura, morte di Paul Barber o del recente Vampyr di de Ceglia; dimentichiamo anche i vampiri paradigmatici di Universal e Hammer. Qui lo spazio non è meno immaginale perché anzitutto è quello di internet, magari di plaghe segrete del dark web, e in secondo luogo vira verso altre dimensioni onirico/virtuali (“zone morte”, “terre di nessuno”… dir di più sarebbe un peccato) a mappare il pianeta fin da viscere male abitate come per covi mafiosi. Il limite non è quello geografico di remote Transilvanie, ma quello di link blindati in qualche altro cartolario della realtà. Dimentichiamo anche le classiche forme associative riconosciute al vampiro nell’immaginario collettivo – famiglie incestuose, plagio di servi umani… – visto che qui in scena sono Camarille da giochi di ruolo o socialità da web. Connotate, queste ultime, dall’impossibilità di conoscere davvero interlocutori catafratti da nickname elusivi, magari multipli e dunque sostanzialmente invisibili, o da epiteti da battaglia di eroi metallari.

E proprio questo del contesto pare l’aspetto più affascinante di un romanzo godibile, colto (ammiccamenti e citazioni si sprecano, dalle divertenti “portaerei americane ‘John Wayne’ e ‘John Belushi’” ad altri più sottili, come l’identificazione del vero autore del Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis a Palermo o il richiamo ai locali Bosconero che potrebbe costituire un omaggio al romanzo L’eterna notte dei Bosconero di Flavio Santi, 2006), veloce nel ritmo e incalzante, con un finale scandito che può evocare certe eliminazioni seriali conclusive dei Padrini di Coppola: il richiamo alle fantasie di quegli anni di esordio di internet in cui euforie assortite per il nuovo mezzo e sue potenzialità aggregative ci appaiono oggi lontane quasi come lo steampunk vittorianeggiante. La percezione di uno spazio magico accessibile a tutti, di misteri e inconoscibilità non meno profondi di quelli declinati dal gotico classico, di schermaglie personali tutte nuove condotte sotto fitti velami trova connessioni e punti di sutura (termine che tornerà nel romanzo) con forme di aggregazione inedite nel segno della diffusione popolare dei pc – magari dietro saracinesche di covi di post-giovani o nell’ufficio di amici.

Di più, uno spazio magico dove un amore può sorgere tra sconosciuti – ma lo sono davvero più di tante persone incontratesi in carne e ossa? – e diventare così forte da spingere a un inseguimento avventuroso da antico romanzo alessandrino. Fino a un finale dove al lettore non è concesso di vedere i due assieme nella forma a noi più consueta… perché tutto è velato, travisato, ricondotto alla domanda fondamentale su quanto possiamo conoscerci e riconoscerci, e sull’asset del mistero in un gioco erotico che continuamente si rinnovella sui social a tanta distanza da quell’alba di internet. Perché sì, si può amare anche così.

Fino a un discorso più generale sul fantastico, all’inizio di quella che si è proposta di chiamare l’età neogotica – dagli anni Novanta agli anni Dieci del millennio successivo, con lo spegnersi della fase vampiresca del “romanticismo sexy” (e prima di singoli tentativi di ripensare il mito, dalla saga TV Penny Dreadful, 2014-16, al Dracula BBC/Netflix, 2020, fino, se vogliamo, allo stesso Eggers). In Lola&Vlad, storia (in sé delicata) d’amore & peculiarità ematiche, ci troviamo compiaciutamente nell’età neogotica: e il vampiro vi si conferma come una supermetafora del fantastico, un passepartout in grado di veicolare provocazioni sempre nuove delle società via via susseguitesi. Il che, ammettiamolo, per un vecchio babau come lui è davvero un risultato degno di nota.

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Visum et repertum 1 https://www.carmillaonline.com/2025/02/01/visum-et-repertum-1/ Sat, 01 Feb 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86624 di Franco Pezzini

Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN You cannot love.

ORLOK I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi [...]]]> di Franco Pezzini

Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN
You cannot love.

ORLOK
I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi per esempio attacca a muzzo il capolavoro di Herzog) esse pure in genere fotografano aspetti interessanti e meritevoli almeno di riflessione.

Il problema maggiore può emergere a fronte del continuo ritorno – in sé sensato e anzi inevitabile – della comparazione con i precedenti omonimi di Murnau e di Herzog e con il Dracula di Coppola (ma vorrei citare anche Shadow of the Vampire di E. Elias Merhige, 2000, film trattato spesso malissimo dalla critica). Sensato e inevitabile, perché si tratta di riferimenti lucidamente considerati da Eggers. Il problema sta però nel comparare senza distinguo un eccellente prodotto di genere (di un elegante specialista dell’horror) come questo, con opere d’arte – due nate con l’occhio al mainstream, la terza come scampagnata d’occasione (per molti critici il Dracula non fa parte della produzione “seria” di Coppola) – di registi che nel resto della produzione si sono occupati di tutt’altro. E i cui nomi tanto eminenti hanno attratto sulle loro letture vampiresche monumenta di riflessioni critiche sofisticate, una lunghissima storia interpretativa e una pluridecennale mitopoiesi nell’ambito dell’immaginario collettivo. Chiaro che il paragone resti inevitabilmente sbilanciato, e la sensazione di tedio lamentata da alcuni spettatori anche eccellenti al film di Eggers fa i conti con la scommessa, rischiosa in partenza ma legata a istanze personalissime (e dunque da difendersi), di riprendere una trama più o meno arcinota.

Il tentativo di parlare del film consisterà a questo punto nel cercare di evitare per quanto possibile il già detto, e provare (sulla base delle letture a monte ricche e varie di Eggers) a individuare altri percorsi: non alternativi, beninteso, ma di arricchimento del quadro d’analisi.

L’anno della storia è il 1838: un anno liminare, prescelto già da Murnau ed Herzog, che guarda insieme al primo ottocento delle visioni tedesche di Hoffmann (1776-1822) e di Caspar David Friedrich (1774-1840) ma già idealmente all’età vittoriana (è quello di incoronazione della regina Vittoria). Fin dall’inizio ci rendiamo conto che la povera Ellen (Lily-Rose Depp) è un elemento di alterità e disturbo nella Wisburg (Wisborg in Murnau) città degli affari: i suoi incubi, gli tsunami sciamanici della sua interiorità, il suo bisogno di cura – forse più che di cure –, emergeranno come potenziale ostacolo alla carriera del giovane marito Thomas Hutter (Nicholas Hoult) e come elemento perturbante a casa degli amici Harding. Ellen è troppo sensibile e spezzata per la borsa d’interessi di una città commerciale che punta alla roba, alla reificazione economicistica e all’efficacia sociale (persino più che il profilo del faustiano Knock di Simon McBurney, emblematico è qui quello di Friedrich Harding, amico di Thomas interpretato da Aaron Taylor-Johnson): una città che sembra richiamare la Corinto descritta da John Keats in Lamia (1819, pubbl. 1820), altro dramma vampiresco di inquietudini femminili e violenze interpretative. Impacchettare Ellen con tutte le brutalità di certe cure ottocentesche all’isteria è insomma una risposta che va oltre le soluzioni della medicina d’epoca, guarda all’urgenza di contenere la scomodità dell’outsider e insomma di “risolvere” pragmaticamente un problema. Al punto che la morte di Ellen verrà accolta sì con strazio ma insieme con rassegnazione persino dall’innamorato giovane marito: non è lui ad aver “ceduto” la compagna al Conte, come lei a un tratto gli rinfaccia – la firma di Thomas sull’atto in una lingua che non comprende è frutto di un inganno del vampiro – ma il giovane appare travolto dagli incubi di Ellen, che nessuno riesce a supportare/sopportare.

I nomi dicono qualcosa: se in Herzog l’eroina verrà chiamata Lucy (la vittima del romanzo, per l’inversione già nota a teatro con la versione teatrale Balderston e poi nel Dracula 1931 e seguiti, che vede in pratica invertire i ruoli di Mina e Lucy) la conservazione del nome Ellen di Murnau – tranne che nella versione della pellicola che le cambia nome in Nina – richiama il nome dell’eroina mitica che pone in pericolo l’intera città commerciale Wisburg/Troia per amore. Del resto in Eggers la venuta del mostro è causata non tanto da Thomas con il tema del fatale ritratto di lei, ma dalla stessa Ellen in grazia di un antico patto con un’entità umbratile del proprio profondo.

 

Come to me. Come to me: A guardian angel, a spirit of comfort – spirit of any celestial sphere – anything – hear my call.

 

In questa versione, persino più che nelle altre, il patto/contratto mostra tutta la sua diffusiva fatalità. Ciò in fondo spinge tutti i personaggi ad accettare con un relativo sollievo il sacrificio di Hellen: non solo Hutter e il medico Wilhelm Sievers (un bravissimo Ralph Ineson) ma persino il paracelsiano professor Albin Eberhart Von Franz (Willem Dafoe, già non-morto in Shadow of the Vampire) che pure ripudia i trattamenti coercitivi della medicina della città e con la ragazza solidarizza – non foss’altro per il fatto di essere un altro outsider. Come commenta, ascoltando le intenzioni di lei,

 

In heathen times you might have been a great priestess of Isis. Yet, in this
strange and modern world your purpose is of greater worth.

 

In un’epoca antica sarebbe stata una magnifica sacerdotessa di Iside, la dea che rimette insieme i pezzi dell’assassinato Osiride. A sua volta Ellen dovrà fare i conti con i pezzi di un altro frequentatore d’oltretomba dal corpo devastato, il putrescente Orlok…

Nei commenti web si è enfatizzata la dimensione erotica e sessuale nel film, molto più esplicita che in Murnau ed Herzog, come se il sesso fosse una chiave banalizzante o un tributo modaiolo: ma il tema va correttamente impostato. Per Ellen, Orlok non è soltanto un erogatore di sesso vivace, una risposta fallica freudiana: fin dall’inizio la ragazza troppo sola ha evocato qualcuno (come Laura in Le Fanu fa con Carmilla) che rispondesse al suo bisogno d’amore e di identità sessuale, al suo desiderio molto più intenso, selvaggio ed estatico di quanto il perbenino Hutter, privo di ombre ma forse anche di passione, riesca da solo a garantire. Non a caso, in un momento in cui presenta stigmi di possessione, Ellen gli rinfaccia “Non potresti mai soddisfarmi come ha fatto lui”.

È questo che Orlok ha fiutato, una specie di grido interiore di chi non vuole reprimere o nascondere i propri desideri sessuali di definizione identitaria e legati a bisogni profondi, nonostante le istanze di vergogna e di punizione di un certo contesto sociale: Eggers ha bene in mente la critica letteraria anni Ottanta sulle eroine create da autori maschi vittoriani che vengono punite e uccise per questo, ma insieme – possiamo oggi aggiungere – arrivano nella loro oscurità a comprendere profondità sconosciute. Perché quel che Ellen cerca non è banalmente sesso, ma amore realizzante, esistenzialmente ricco e pieno fino a scuotere il corpo: peccato che a fronte di Thomas che offre solo tenerezza – e lei dovrà estorcergli una performance di maggiore vivacità, per essere anche solo vagamente competitivo con quelle dell’incursore sovrannaturale – il vampiro, che si definisce “un appetito. Nulla di più” mostrerà voracità sessuale e pretese manipolatorie da incel nei confronti di Ellen (“incantatrice […] Tu sei la mia afflizione”) ma ovviamente non l’amore di cui ha bisogno lei. Che deciderà in proprio del suo corpo, fuori dal controllo di marito e medico curante (e con la solidarietà dell’illuminato Von Franz): si lascerà violare da Orlok e ne morirà, con qualche soddisfazione fisica e riuscendo a salvare la città – sia pure senza aver ottenuto ciò che nel profondo cercava, cioè semplicemente amore. Insomma una storia d’eros frustrato, senza neppure la tragedia romantica di Mina che nel film di Coppola è almeno vedova cosciente di un amore speciale da un’altra vita. A Ellen neanche ciò è concesso, e qui sta forse la sua vera tragedia – e il fallimento di una società virile di affari & predazione.

D’altronde quello che Eggers presenta non è il vampiro della letteratura romantica a cui Coppola guarda, ma è molto più simile ai suoi fratelli folklorici (che per inciso, come qui, mordono il petto e mirano al respiro-vita): una figura sfuggente, che apre da un lato all’incubus violentatore, dall’altro al demone possessore. Per dire, come le isteriche di Charcot e della Salpêtrière, ma anche come le possedute di secoli d’esorcismi, eccola inarcare il corpo, roteare gli occhi all’indietro, contorcersi e assumere pose impossibili… e non perché infettata da un fantomatico morbo vampiresco, ma per la reazione esplosiva tra un bisogno personale profondo e uno stalking feroce che tenta, preme e ossessiona. Il regista racconta di essersi voluto smarcare dai tropi filmici sul tema, cercando nelle fonti e meravigliandosi di trovare vampiri che “Non stanno nemmeno bevendo sangue, stanno solo strangolando le persone, o soffocando le persone, o fottendole a morte” (Antonia Blyth, Nosferatu: Writer-Director Robert Eggers, Lily-Rose Depp, Nicholas Hoult & Cast Reveal Their Vampire Dream, “Deadline”, 2 dicembre 2024).

 

I do not believe. I know. I have seen things in this world that would have made Isaac Newton crawl back into his mother’s womb. We have not become so much enlightened as we have been blinded by the gaseous light of science. I have wrestled with the Devil as Jacob wrestled the angel in Peniel and I tell you, if we are to tame darkness,we must first face that it exists. Meine Herren, we are here encountering the un-dead plague carrier… the Vampyr… Nosferatu!

 

Non siamo qui nelle dotte speculazioni del professor Van Helsing di Stoker, che coordina, riordina e armonizza intere biblioteche di creature vampiresche di ogni tempo e luogo in un canone sul vampiro poi ulteriormente irrigidito dalle produzioni pop: e il dotto Von Franz, più simile in questo al ben più inefficace Bulwer di Murnau, deve ammettere di sapere ben poco sulla creatura piombata in città. Una creatura che flirta con le oscurità dell’inconscio, dove i confini valgono quel che valgono: ed Ellen ha lanciato una chiamata in quell’abisso senza sapere cosa ne sarebbe emerso.

Certo, il volto di Orlok non è quello da Urlo di Munch delle prima versione (1893 – l’anno in cui potrebbe ambientarsi il Dracula di Stoker), e richiama piuttosto Vlad III l’Impalatore; mentre accantonata la polverosa redingote stile Biedermeier impostagli da Murnau, il vampiro appare qui vestito dalla costumista Linda Muir con richiami all’abbigliamento dell’esercito transilvano 1560-1650. Interessante è poi la dimensione linguistica del film, dove il conte parla una forma ricostruita della lingua dacia, in mezzo a conterranei che si esprimono (in modo corretto, e senza sbavature americane) in rumeno e romanì. Ma la definizione della creatura resta a lungo sfuggente, e solo nel raggelante finale il corpo cereo prende definizione.

Il vampiro si collega comunque qui alla tradizione dei Solomonari, gli stregoni cavalcadraghi della Solomonărie o Şolomanţă, la “scuola di Salomone” in Transilvania germanizzata da Stoker in Scolomanza (Scholomance): come viene sintetizzato dalle monache che soccorrono Thomas fuggito dal castello,

 

A black enchanter he [Orlok] was in life. Şolomanari. The Devil preserved his soul that his corpse may walk again in blaspheme.

 

E anche il suo castello conosce le sbavature e le incertezze dei sogni.

Qualcosa merita di dire sul professore svizzero Albin Eberhart Von Franz, metafisico e studioso dell’occulto: dove il primo nome richiama Albin Grau (1884-1971), produttore, scenografo e progettista di produzione del film di Murnau, nonché occultista e membro della Fraternitas Saturni, mentre il cognome richiama quello della brillante psicoterapeuta Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva di Jung studiosa di strutture archetipiche del mito, della fiaba e di testi alchemici. In merito trovo su FB un commento interessante di una spettatrice intelligente, Apollonie Sabatier, che pur avendo amato molto questo film ravvisa un limite. Con il suo permesso, riproduco uno stralcio della sua riflessione (scritta ovviamente con il linguaggio dei social, non era un saggio – si può condividere o meno nello specifico, ma resta una provocazione acuta su cui meditare).

 

A distanza di due settimane ho identificato con soggettiva certezza ciò che non mi è piaciuto del Nosferatu di Eggers. La cosa che ho sempre adorato del genere horror e del racconto gotico è la presenza di simboli capaci di parlare di cose scomode per la mente umana. […] Non a caso il personaggio di Von Franz (cognome di una delle più grandi allieve e collaboratrici di Jung), a mio parere, è palesemente Jung. Lo psicoanalista che svela i significati. Il film riprende letteralmente sue citazioni, come: “Io non credo, io so”. Il ruolo del personaggio è quello di spiegare agli spaventati borghesi cosa sia il male e la passione, come interpretarli e sconfiggerli. Da fan di Jung avrei potuto esserne felice. Invece il personaggio mi ha convinto poco. Mi è sembrato che il suo ruolo fosse quello di rendere noto un simbolo il cui potere catartico richiede proprio che sia lo spettatore a scoprire la dinamica dentro il suo inconscio. Questa è per me materia da saggista, non da narratore. Mi sento sempre idiota quando uno sceneggiatore mi spiega le cose, e a me non piace essere trattata da idiota. Tra una figata e l’altra in questo film mi sono spesso ritrovata a pensare: “ma perché me lo dici?”.

Eggers, lascia che il perbenista borghese dentro di noi venga divorato dal vampiro della Transilvania, non toglierci da quella ambiguità che dovremmo risolverci da soli.

 

Qualcosa che beninteso non inficia la valutazione su un’alta qualità della prova – del resto sottolineata da Sabatier nel prosieguo della riflessione – e sulla forza anche visiva e l’estrema godibilità del film. Con buona pace di critici troppo severi, un’opera di questo tipo evidenzia tutta la ricchezza e le fertili potenzialità del retelling – un narrare vampiro che ci accompagna in fondo fin dai racconti nelle grotte della preistoria.

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Giochi di mano (Victoriana 48) https://www.carmillaonline.com/2024/01/02/giochi-di-mano-victoriana-48/ Tue, 02 Jan 2024 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80480 di Franco Pezzini

Uno dei più curiosi antenati del Van Helsing di Stoker è sicuramente il personaggio che emerge nel racconto The Mysterious Stranger, apparso anonimo su “Odds and Ends” nel 1860 come traduzione inglese di un fantomatico testo tedesco. Per anni si è pensato a una finzione, perché della novella (di cui si occupò anche il celebre studioso di teatro, demonologo e vampirologo Montague Summers, e da noi più di recente Fabio Giovannini curatore del pregevolissimo Prima di Dracula. Rare storie di vampiri dell’Ottocento, Stampa alternativa, 1999, a cui mi rifarò per le citazioni) non si trovava un originale e [...]]]> di Franco Pezzini

Uno dei più curiosi antenati del Van Helsing di Stoker è sicuramente il personaggio che emerge nel racconto The Mysterious Stranger, apparso anonimo su “Odds and Ends” nel 1860 come traduzione inglese di un fantomatico testo tedesco. Per anni si è pensato a una finzione, perché della novella (di cui si occupò anche il celebre studioso di teatro, demonologo e vampirologo Montague Summers, e da noi più di recente Fabio Giovannini curatore del pregevolissimo Prima di Dracula. Rare storie di vampiri dell’Ottocento, Stampa alternativa, 1999, a cui mi rifarò per le citazioni) non si trovava un originale e lo stile non sembrava tradire natura di traduzione: quindi il classico testo “alla tedesca” per dire gotico. A quanto invece di recente è emerso, il racconto, già circolante in inglese (cfr. “Chambers Repository of Instructive and Amusing Tracts”, vol. 8, n. 62, 1854), è davvero una traduzione, come spesso accadeva non autorizzata: più precisamente dall’originale Der Fremde (Lo straniero, Lo sconosciuto), apparso nella raccolta Erzählungen und Novellen (1844), del prussiano slesiano Karl von Wachsmann (1787-1862), un autore legato ai circoli romantici, per anni militare – il che spiega il profilo del suo eroe – e collaboratore di giornali. Wachsmann può attingere in particolare a Geschichte der Moldau und Walachey dello storico austriaco Johann Christian von Engel (Halle, 1804) fitte di oscurità goticissime. Sul gotico tedesco, in particolare quello minore, occorrerà davvero lavorare ancora.

Ambientata agli inizi del XVII secolo, la vicenda vede l’arrivo di un gentiluomo austriaco, il cavaliere di Fahnenberg, in un’estesa proprietà appena ereditata tra i Carpazi; lo accompagnano, con alcuni servitori, la figlia Franziska, la nipote Bertha e il giovane barone Franz von Kronstein – invaghito di Franziska ma da lei sbeffeggiato per l’indole gentile che poco attrae l’inquieta ragazza. Durante il lungo viaggio tra i boschi funestato dalla bufera, al calar della luce il gruppo è attaccato dai lupi: questi però vengono messi in fuga da un misterioso personaggio, apparso nei pressi di certe rovine, e i viaggiatori possono raggiungere incolumi la propria destinazione. Come apprenderanno tempo dopo, le rovine rappresentano ciò che resta dell’antico castello Klatka, abbandonato da più di un secolo ma di cattiva fama per le gesta dell’ultimo proprietario: l’uomo infatti, accusato di traffici con le orde serbo-turche e della sparizione di giovani donne, era stato ucciso dai vicini e il suo spettro rimarrebbe a infestare quei luoghi. Affascinata da tali storie, Franziska propone di andare a visitare le rovine; e la gita sta ormai volgendo al termine quando il gruppo incontra, al sorgere della luna, proprio l’enigmatico personaggio che li aveva salvati dai lupi. Benché sgradevole per aspetto e modi, l’uomo – che si presenta come Azzo von Klatka, e spiega di condurre vita soltanto notturna – viene invitato dal cavaliere riconoscente a recarsi a trovarli una sera. Anzi, nonostante gli ammonimenti di Azzo sulla serietà dell’invito a “una persona che raramente vuole imporsi, ma che è difficile scrollarsi di dosso”, Franziska mostra d’insistere, attratta dal magnetismo di lui – una fascinazione romantica e un po’ malsana che Bertha e l’ingelosito Franz non possono condividere, e che invece si rafforza nella giovane quando Azzo giungerà davvero a visitarli. Ma il mattino dopo quella prima visita (e l’acceso confronto seguito tra Franziska e Franz) la ragazza si sveglia stranamente spossata, mostra un curioso segno sul collo e racconta un incubo in cui lo stesso von Klatka la insidiava sorgendo dalla nebbia.

È solo l’inizio di un progressivo declino della salute di Franziska, che costringe il gruppo a protrarre la permanenza tra i Carpazi e permette ad Azzo di continuare a visitarli (sempre all’alzarsi della luna e senza toccar cibo, benché l’aspetto di lui paia curiosamente più florido) – e si ripetono gli incubi della giovane dama. L’arroganza dell’invitato sembra sostanziarsi in un freddo odio per tutta l’umanità, con la sola eccezione di Franziska: e una sera, presente un altro ospite – il Cavaliere di Woislaw, castellano di Glogau e futuro sposo di Bertha, reduce dal fronte ungherese – la ingiurie di Azzo provocano a duello l’esasperato Franz.

A salvarlo, in realtà, è solo il pronto intervento di Woislaw, il cui formidabile braccio metallico (sostitutivo dell’arto mozzatogli in guerra) strappa letteralmente l’amico dalle mani di von Klatka: ma la reazione di quest’ultimo è strana, perché all’improvviso appella Woislaw come “fratello” e si allontana. A quel punto Woislaw, che già si era fatto narrare dettagliatamente il caso di Franziska e sembrava sospettare qualcosa, prende in pugno la situazione: e si fa promettere dall’ammalata una completa collaborazione, ammonendo a fidarsi di lui senza porre domande. Sarà dunque Franziska, sulla base delle istruzioni del più maturo alleato, a inchiodare letteralmente Azzo (cioè il vecchio Ezzelin von Klatka, malefico e non-morto ultimo signore del maniero in rovina) nella bara in cui giace, con tre lunghi chiodi di ferro, mentre Woislaw proclama il Credo; e l’infezione della ragazza sarà sconfitta col ricorso al sangue colato dalla bara. La scena di qualcosa che si dibatte nel chiuso del legno cercando di uscire, mentre Franziska pianta progressivamente i chiodi nel coperchio e il tempo passa inesorabile (deve aver terminato prima che la preghiera venga conclusa) rappresenta il momento più conturbante del racconto: e quando, rinvenendo dall’inevitabile svenimento, la ragazza si trova sporca di sangue, non è chiaro se il frizionamento rituale sia stato gestito proprio da lei o dall’amico giunto in soccorso. (Nota per il lettore: Ma in questo caso funzionerebbe? Probabilmente sì, una volta che la ragazza abbia espletato in prima persona l’operazione coi chiodi. Tre come quelli della crocifissione, di cui riecheggia in termini magici la potenza liberatoria – anche se evidentemente il simbolismo è più antico e addirittura preistorico, col morto inchiodato per impedirgli di nuocere ai vivi.)

Il lieto fine – l’annuncio di nozze di Bertha con Woislaw e di Franziska, risanata e addolcita, con Franz – è preceduto dal racconto di come Woislaw avesse già incontrato un vampiro, durante una campagna in Ungheria: e come già quel mostro avesse equivocato (come poi farà anche Azzo) scambiando il cavaliere per un fratello di specie proprio a causa della forza straordinaria della mano – caratteristica “tipica” del vampiro.

Come rilevato dalla critica, parecchi elementi suggeriscono che The Mysterious Stranger possa aver influenzato direttamente il più celebre testo stokeriano. Come Dracula, Azzo è un nobile che alberga in un antico castello (sia pure in rovina) tra i Carpazi; è alto e pallido ma il suo viso acquista colorito e freschezza via via che si nutre; si muove di notte e ammette di alimentarsi di soli liquidi, ma rifiuta il vino offertogli; si rapporta col tema folklorico dell’invito necessario al vampiro per invadere lo spazio dei vivi; appare dalla nebbia e attacca (nel privato della stanza da letto) le vittime al collo – e non al costato o in altre parti del corpo, come suggeriscono tradizioni di minore fortuna letteraria. Ci sono anche, all’orizzonte, i rapporti coi Turchi (per Azzo di iniqua familiarità, per Woislaw di guerra) in seguito richiamati nell’epos di Dracula; e naturalmente il viaggio tra i boschi, con la carrozza e l’attacco dei lupi poi domati dal vampiro, prelude a quello stokeriano di Jonathan Harker. Anche le due ragazze – la seducente Franziska, inquieta e sventata, e Bertha, assennata e dolce – già propongono in qualche modo la polarità stokeriana di Lucy e Mina; la malattia di Franziska prefigura l’agonia di Lucy, e la spedizione alle rovine di Woislaw e dell’ammalata, preceduta dalla ricognizione di lui, non può che richiamare quella di Van Helsing e Mina verso il castello transilvano, con l’ingresso del professore a scoperchiare sepolcri. Troppe somiglianze per poter pensare al casuale assemblaggio di motivi analoghi.

 

Il cavaliere Woislaw era davvero un soldato modello, indurito e reso più forte dalla guerra con gli uomini e con gli elementi. Il suo viso non si sarebbe detto brutto, se una sciabola turca non gli avesse lasciato un segno rosso che correva dall’occhio destro alla guancia sinistra, e che si evidenziava sulla pelle bruciata dal sole. La corporatura del castellano di Glogau poteva quasi definirsi colossale. Pochi avrebbero potuto portare la sua armatura, e ancor meno avrebbero potuto muoversi sotto quel peso con la sua stessa facilità e agilità. Lui stesso non sottovalutava la sua armatura, perché era un regalo del conte palatino d’Ungheria quando aveva lasciato l’accampamento. L’azzurro acciaio intarsiato era coperto di fregi in oro. E lui l’aveva indossata in onore della sua promessa sposa, insieme alla meravigliosa mano d’oro, dono del duca.

 

E in precedenza si era detto:

 

[Il cavaliere Woislaw] Riteneva di essere tenuto in sì alta considerazione dal suo duca in virtù dei suoi validi servigi, che in futuro le sue incombenze sarebbero state ancor più importanti ed estese. Ma prima di occuparsene sarebbe venuto per reclamare la promessa di Bertha di diventare sua moglie. Si era arricchito grazie al suo padrone, così come al bottino preso ai Turchi. Avendo perso in passato la mano destra al servizio del duca, aveva cercato di combattere con la sinistra. Ma non ci riusciva abbastanza bene, e così se ne fece fare una di ferro da un bravissimo artista. Questa mano espletava molte delle funzioni di una mano naturale, ma lasciava ancora a desiderare. Ora, però, il suo padrone gliene aveva regalata una d’oro, una straordinaria opera d’arte, creata da un celebre meccanico italiano. Il cavaliere la descriveva come qualcosa di meraviglioso, specialmente per la forza sovrumana con la quale gli consentiva di usare la spada e la lancia.

 

Ci troviamo insomma davanti a un personaggio che riunisce vari aspetti degli eroi arcaici – la forza di un Eracle, le armi meravigliose, alcuni segni (cicatrice e mutilazione) di carattere iniziatico e la “compensazione” derivata (una protesi preziosa e fiabesca), l’eredità meccanica degli automi settecenteschi, il contatto esperienziale coi mostri e una prudenza odissaica che valorizza anche l’equivoco – in una maturità che già prelude a quella del professore stokeriano. Un quadro peraltro dove il richiamo all’arcaico trova singolari consonanze con l’immaginario postmoderno, particolarmente nel cinema: basti pensare alla peculiarità simbolico-anatomica (il mirabolante braccio d’oro) che prefigura le mutilazioni mitiche di Star Wars e gli X-men (o X-monsters) multiaccessoriati di pellicole meglio ascrivibili al cinema d’azione che all’horror.

Come i predecessori – a partire dall’Apollonio di Filostrato e Keats col suo sguardo penetrante – il simil-cyborg Woislaw è capace di notare le condizioni di Franziska e anzi la sottopone a un minuzioso interrogatorio sui sintomi che prelude alle indagini medico-psichiche dei dottori successivi, in particolare Van Helsing. Se quest’ultimo, d’altro canto, si presenterà ai giovani compagni come un padre di elezione, il Buon Vecchio contrapposto al Vecchio Cattivo Dracula, per gli amici Woislaw è senz’altro il fratello maggiore: e come Van Helsing, studioso dei misteri della mente e del cuore, vive un dramma nell’unica carne, la moglie affetta da demenza (con tutti gli echi in tema di follia e spossessamento psichico nel contesto del Dracula) oltre che quello della perdita d’un figlio, Woislaw reca nel corpo le stigmate dell’iniziazione all’età adulta. Come Van Helsing, ancora – quello del romanzo, non del cinema – Woislaw si tiene in secondo piano lasciando che a distruggere Azzo sia la “giovane” Franziska: anche se in questo caso, a differenza che in Stoker, l’operatrice è stata anche vittima diretta del vampiro.

Il tema merita una digressione: la distruzione del mostro ad opera della stessa vittima grazie a un comportamento attivo – come in questo caso – o invece più o meno passivo (come nella distruzione del Nosferatu di Murnau) configura evidentemente una variante rispetto ai classici modelli di teratomachia gestita da un eroe giovane, virile, o invece da un anziano demonologo. Una variante che per quanto minore (non cioè frequentemente portata in scena) acquista certo un peso significativo a partire dal romanticismo e delle sue eroine (ancora tanto lontane da Buffy l’ammazzavampiri), ma può vantare un retroterra ben più antico: e proprio il motivo folklorico della liberazione della vittima grazie a un atto (magico-terapeutico) personale è valorizzato in termini simbolici nella dinamica di questo racconto. Franziska riprende il controllo della propria vita, supera la “prova” di maturità: ma può farlo soltanto grazie all’Eroe Mutilato, l’iniziatore che permette ai fratelli minori il passaggio oltre la soglia custodita dal vampiro – figura liminare per eccellenza – e conduce all’armonizzazione finale delle caratteristiche di ciascuno (protezione per Bertha, equilibrio emotivo per Franziska, valorizzazione virile di Franz).

Dove il rilevo ai “giovani” (come in Dracula, appunto) non impedisce che nell’economia del testo la figura di Woislaw presenti un rilievo non inferiore – e anzi strutturalmente analogo e contrapposto – a quella del mostro motore. Basti pensare al continuo strapparsi la scena tra i due antagonisti, prima sullo sfondo e a livello di voci (grevi di ambiguità su Azzo, limpide di ammirazione per Woislaw) e poi in confronto diretto: il vampiro appare irriconosciuto (quando caccia i lupi), poi è annunciato dai balbettii sul “demonio di Klatka” e solo in seguito si presenta (peraltro con identità alterata, per essere smascherato soltanto alla fine); mentre la figura di Woislaw, prima delineata indirettamente (a cenni nel dialogo iniziale tra le ragazze in carrozza, quindi con più dettagli in occasione della lettera a Bertha – subito dopo l’invito al vampiro e subito prima della visita di lui) apparirà in scena solo quando la situazione sta precipitando. L’autore sembra anzi sottolineare la contrapposizione continua tra vampiro e sua nemesi, quasi si trattasse di figure speculari: nel fisico (Azzo è magro e alto, Woislaw “colossale”) e nei poteri (il primo attinge a forze oscure, il secondo non disdegna i prodigi della meccanica), ma anche in carattere e categorie. Si pensi al concetto di esperienza, per Woislaw valore di maturità utile alla vita, che Azzo invece confina alla sfera del piacere (come si evince dal dialogo con Franziska durante la prima visita); all’uso del silenzio, finalizzato per Azzo a tutelare il suo equivoco segreto, per Woislaw a condurre gradualmente Franziska a libertà e verità; al rapporto con l’interiorità degli interlocutori (il vampiro viola la mente, il suo avversario intuisce per esperienza del cuore); all’orizzonte del mondo “nemico” (i Turchi coi quali Azzo/Ezzelin intratteneva in vita sordidi traffici, sono combattuti da Woislaw a viso aperto). Un simile rapporto di doppio tra i due personaggi “forti” – attorno ai quali muove più lenta la danza degli altri – tornerà con frequenza nelle cacce al mostro letterarie e verrà enfatizzato dal cinema.

Ma proprio l’epopea dei doppi dovrebbe far rammentare che The Mysterious Stranger, oltre che Stoker (di cui comunque resta una fonte minore, tra le mille da lui repertoriate), può aver influenzato Verne per Il castello dei Carpazi (1892) e forse lo stesso Le Fanu per Carmilla, come suggerito da echi in apparenza non casuali e quasi altrettanto numerosi. A partire dalla condizione straniera della narratrice anglofona Laura in un’esotica Stiria che richiama il rapporto tra i viaggiatori austriaci e i remoti Carpazi; ci sono poi suggestioni onomastiche (il nome del giovane barone von Kronstein sembra preludere a quello dei cattivi conti Karnstein di Carmilla, dove peraltro la pupilla del generale Spielsdorf si chiama Bertha come la cugina di Franziska); anche in Carmilla compaiono due castelli, uno abitato dalla famiglia della protagonista e l’altro in rovina, dove i personaggi si recano per una specie di gita; anche in Carmilla la famiglia della ragazza è incompleta (c’è un padre ma non una madre, e non ci sono fratelli); anche in Carmilla (e lì con enfasi e significato particolare) vediamo le ragazze manifestare un trasporto a base di abbracci.

A parte poi la citata tematica di doppi e duplicazioni, fitti in Carmilla in modo ossessivo, ci sono i motivi ricorrenti, folklorico-letterari, legati all’attacco vampirico: la spossatezza di Laura che precipita in oscuro male, come già Franziska; il rilievo attribuito alla forza della mano quale segno qualificante di vampirismo; il rapporto con la luna, presente in The Mysterious Stranger ed elegantemente riproposto da Le Fanu. Ma ad avvicinare i racconti sono anche più specifiche componenti del quadro metafisico inscenato. Si pensi al gioco onomastico con cui il vampiro si presenta e insieme si cela (Azzo come equivalente di Ezzelin – probabile eco del tiranno medioevale italiano Ezzelino da Romano, di emblematica ferocia; Carmilla – alias Millarca, ecc. – come anagramma dell’originaria Mircalla Karnstein): un sotterfugio che in Le Fanu sembra assurgere a vincolo metafisico, ma in entrambi i testi permette al vampiro di nascondere l’identità senza affermare una vera menzogna (anagrammato o ridotto, il nome mantiene la sua verità), quasi a dover concedere alle vittime virtuali una chance grazie un’appropriata attenzione onomastica. Ciò che permetterebbe in fondo di riconoscere proprio nel cacciatore di mostri l’indagatore onomastico per eccellenza, colui che ragiona sulle parole e sul loro potenziale di mostruosità, sugli spazi dove il compito di Adamo di dar nome alle cose appare male adempiuto o in crisi: in un quadro insomma dove antichi motivi simbolici, folklorici e demonologici (si pensi al demone che porta scompiglio con un uso distorto di affermazioni in sé vere, donde il silenzio che l’esorcista gli impone) si aprono a modernissime provocazioni. Sta a noi smascherare i mostri cifrati sotto il pelo della comunicazione.

Ma a parte lo spazio del nome e dell’identità, una certa ambiguità (in a glass darkly, sottolineerà Le Fanu nel titolo della raccolta in cui Carmilla è incastonato) lambisce in entrambi i testi anche il rapporto col dato religioso: ben lungi infatti dall’uso meccanico ed esasperato di ostie, croci e simboli sacri di Stoker, The Mysterious Stranger sembra già prefigurare a cenni la lettura problematica e sottilmente provocatoria che Le Fanu articolerà. Come in Carmilla, infatti, l’arma della preghiera devota (di Woislaw, sia pure sullo sfondo di un rito non esattamente ortodosso con chiodi e sangue) si sposa alla constatazione che neppure la struttura religiosa sia in sé sufficiente a fermare il male. Se in Le Fanu la carrozza delle vampire pare rovesciarsi davanti alla croce ma in realtà lo stratagemma dell’incidente è preordinato (per permettere il “ricovero” di Carmilla a casa di Laura), in The Mysterious Stranger suona almeno maliziosa la notizia che il castello maledetto si fosse salvato dalla distruzione perché la zona era “sotto il controllo della chiesa”. Dove insomma ciò che rileva è anzitutto la disposizione d’animo del singolo e un’attenzione al rapporto col vampiro interiore, più che la confidenza in simboli sacri, strutture o loro rappresentanti. Il cacciatore di vampiri, cyborg o meno, pretende ormai dall’esorcista consacrato un passaggio di testimone.

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Dion Fortune e il furbetto vampiro (Victoriana 42) https://www.carmillaonline.com/2023/09/16/dion-fortune-e-il-furbetto-vampiro-victoriana-42/ Sat, 16 Sep 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78874 di Franco Pezzini

Glastonbury, agosto. Sotto un cielo grigetto – ma oggi non è prevista pioggia – ci regaliamo la passeggiata sul Tor, la collina sacra sopra la capitale magica dell’Inghilterra, dalla cui vetta si gode più prosaicamente una vista meravigliosa su tre contee diverse. La salita è agevole, col sentiero a gradini; per i cultori che abbiano tempo e voglia, c’è anche la possibilità di salire a spirale tramite i resti degli antichi sette terrazzamenti (di origine non chiara) che renderebbero il Tor una sorta di labirinto tridimensionale, qualunque valore uno intenda [...]]]> di Franco Pezzini

Glastonbury, agosto. Sotto un cielo grigetto – ma oggi non è prevista pioggia – ci regaliamo la passeggiata sul Tor, la collina sacra sopra la capitale magica dell’Inghilterra, dalla cui vetta si gode più prosaicamente una vista meravigliosa su tre contee diverse. La salita è agevole, col sentiero a gradini; per i cultori che abbiano tempo e voglia, c’è anche la possibilità di salire a spirale tramite i resti degli antichi sette terrazzamenti (di origine non chiara) che renderebbero il Tor una sorta di labirinto tridimensionale, qualunque valore uno intenda dargli.

Come noi sono altri a salire, famiglie, coppie anziane, giovanissimi: e dopo un’adeguata contemplazione – e una piccola sosta nell’antica torre campanaria sopravvissuta a una chiesa crollata sulla vetta – abbiamo preso ormai la discesa quando alle nostre spalle inizia a sollevarsi un canto. Non ci stupiamo, un’altra volta nella torre avevamo trovato un gruppo che celebrava riti entusiasti con campane tibetane: tutto normale, questa è Glastonbury. Con la High Street punteggiata di negozi di tuniche e corone per cerimonie wicca, statuette etniche, minerali e aromi per rituali, librerie dell’arcano, esposizioni di arte esoterica – il tutto in un mix delizioso tra il sapienziale e il kitsch, tra pellegrinaggio dell’inquietudine spirituale e consumismo della mistica, e allora non vuoi stare al gioco?; con le vie battute da tutti i possibili pellegrini dell’Altrove, sacerdotesse della Dea con corone di fiori, famiglie in vacanza con bambini piccoli, fricchettoni estinti in tutto il resto del globo dai lontani anni Settanta; con i suoi luoghi sacri alle spiritualità più varie (nel 2012 in un villaggio tanto piccolo erano rappresentate una settantina di fedi, per parlar solo di quelle organizzate). Dal sincretismo imperante in cappelle e segnacoli per tutte le fedi nello splendido giardino del Chalice Well (vi passeremo al ritorno) alle due fonti lì accanto, Bianca e Rossa, quest’ultima dal sapore acceso di sangue per la quantità di ferro nell’acqua; dai resti meravigliosi – con tanto di tomba vuota di Artù – della grande abbazia vittima della brutale Dissolution of the Monasteries sotto Enrico VIII, al sacro biancospino di Giuseppe d’Arimatea (sulla collina è stato vandalizzato, c’è ancora un alberello vicino all’Abbey)… a tutto il resto.

Compreso, ai piedi del Tor, il frutteto dove Dion Fortune, occultista e scrittrice, stabilì nel 1924 una sede di vita e di studio (il famoso Chalice Orchard) col suo gruppo di confratelli. Vi passiamo davanti, e nella borsa, come lettura di viaggio, ho proprio un romanzo dell’autrice: per la precisione il suo secondo testo di fiction, il thriller occulto The Demon Lover, del 1927 –  in Italia Il demone amante (pp. 304, Roma 2011) per i tipi delle edizioni Venexia che stanno portando avanti un interessante recupero dell’opera di Fortune. Le librerie di Glastonbury sono piene di opere di lei e su di lei.

Nei fatti, il suo primo romanzo, perché l’hanno preceduto dei racconti, The Secrets of Dr. Taverner, editi nel 1922 e raccolti in volume nel 1926. Storie sui casi di un dottore dell’occulto come quelli di moda all’epoca, ma ispirato al mentore che l’ha salvata da una terribile crisi, il dottor Moriarty; e dove comunque l’autrice si è ormai resa conto di poter veicolare le proprie idee in forma narrativa, che prende dunque ad alternare alla produzione di saggi. Non parliamo di esiti di vertiginoso valore letterario, ma di una produzione comunque di onesto livello, godibile alla lettura e di notevole interesse antropologico (nonché magico, per i cultori).

Di Dion Fortune, all’anagrafe Violet Mary Firth (1890-1946), celta gallese, psicanalista e poi occultista, capace attraverso un percorso abbastanza libero di conciliare scuole diverse nell’esaltazione del principio femminile, si è già parlato in altra sede; ha senso qui soffermarsi su questo singolarissimo romanzo. Scritto già nel periodo di Glastonbury ma qui non ambientato (l’autrice dedicherà alla cittadina e ai suoi miti un delizioso Avalon of the Heart, 1934 – in Italia, Avalon. La via segreta al sogno arturiano, Tre Editori, 2004), Il demone amante già presenta il motivo-chiave poi di tutta la sua produzione: la storia di una giovane protagonista che riesce a salvare un uomo – in genere quello amato – da se stesso o comunque gli permette un’autorealizzazione prima impensata, attraverso una crescita spirituale anche propria. In questo senso il romanzo (attenzione, seguiranno spoiler) funge da battistrada per un’intera produzione dipanata negli anni.

La storia presenta Veronica Mainwaring, una ragazza in apparenza molto disarmata e fragile, che viene assunta come segretaria dal fascinoso ed equivoco Justin Lucas adepto ribelle di un ordine magico. Senza che i due sappiano di essere già profondamente legati da vite precedenti in cui lei aveva scelto la Luce e lui l’oscurità: la verità emerge via via, con sconcerto di lui e l’emergere – ça va sans dire – di sentimenti inattesi. Veronica lo vede ora giustiziato per tradimento dagli alti gradi della loggia (Justin ha usato l’inconsapevole segretaria per spedirla in astrale a spiare segreti dell’Ordine, ma, quando i confratelli vogliono colpirla, lui si assume ogni responsabilità) solo per trovarsi avvicinata dal suo ingombrante ritorno come vampiro: e occorrerà l’intervento di alcuni superiori buoni e illuminati per imprimere alla vicenda una svolta positiva inattesa quanto improbabile. Alla base del tutto, dunque, una storia d’amore – come poi in genere i romanzi successivi – e anzi romantica (l’amato maledetto, eccetera) che però si sviluppa nel quadro più complesso di un magistero magico: denso di informazioni, ma a portata di lettori comuni – quindi di valore “formativo” – visto che al di là di singole allusioni un po’ tra le righe nessuna eccessiva oscurità esoterica ammanta il tutto. Una serie di scene gotiche di felice inventiva rende godibile l’insieme.

Merita notare che questo primo romanzo di Fortune costituisce un efficace trait d’union tra l’immaginario dell’occulto vittoriano e la successiva produzione dell’autrice. Anzitutto troviamo un vampiro che strappa una citazione di Dracula, sia pure in un’originalissima interpretazione occulta del vampirismo quale semi-vita in trance: non dimentichiamo d’altra parte che Nosferatu è del 1922, solo cinque anni prima. Ma anche l’assetto di un gruppo magico con tre figure principali ricorda non poco la triade –  William Robert Woodman, William Wynn Westcott e Samuel Liddell MacGregor Mathers – al vertice della vittorianissima Golden Dawn (è forse Mathers – mai conosciuto personalmente da Fortune, che però avrà un pessimo rapporto con la sua vedova – il livoroso Fordice del romanzo?). Resta il fatto che alla Golden Dawn sicuramente si ispiri il gruppo descritto, al di là del suo carattere fantasioso (nella prefazione all’edizione Weiser del romanzo, 2010, Diana L. Paxson mostra di dubitare qualunque riferimento a vicende reali).

Per tanti versi Dion Fortune è un personaggio che ispira simpatia. Per contro troviamo documentate in The Demon Lover posizioni bislacche francamente spiacevoli, come la convinzione che in fondo gli inquisitori non avessero tutti i torti nel perseguire col rogo i maghi neri: un’idea che in chiave saggistica troveremo sostenuta dall’arcigno Montague Summers (1880-1948), preteso reverendo grande cultore di materie livide in quella stessa Inghilterra. Ma ambiguità ristagnano nella stessa dinamica relazionale sottostante la vicenda, e non basta allegare il diverso rapporto tra i sessi di un’altra epoca. Certo, Justin si salverà pentendosi delle proprie malefatte e anzi scontandole in modo drammatico: come ben sintetizza la citata Paxson, “This is a drama of reincarnation and destiny transcending conventional concepts of Justice”. Le posizioni nella coppia si sono di fatto capovolte: alla fine quello fragile è lui, mentre Veronica recupera un ruolo di potente iniziata. Ma la sensazione del lettore è che il pentimento riguardi anzitutto le scelte metafisiche di Justin, le sue frequentazioni dell’Ombra e la turpe predazione da vampiro di vite umane (in particolare di bambini): resta la normalità di un suo plagio pesante ai danni di Veronica, su cui non emerge mai una critica puntuale, e attutita solo parzialmente dalla storia del loro profondo legame pregresso. Se lui non si macchiasse di colpe ben più gravi finendo bloccato, continuerebbe a manipolare: anche perché a un certo punto si aprono le cataratte delle “giustificazioni”.

Non sappiamo se Dion Fortune abbia mai vissuto personalmente l’attrazione per il modello “cattivo soggetto”: si può comprendere che Justin risulti più fascinoso del mamozzo senza fantasia che a un certo punto corteggia Veronica per finire malissimo (senza grossi turbamenti – va detto – né di lei né dei lettori); ma l’autrice resta fin troppo benevola nei confronti di Justin, che invece il lettore avverte come un furbetto piuttosto ripugnante. In sostanza il modello del belloccio manipolatore – perché poverino, con le sue drammatiche esperienze… e poi comunque è coraggioso… –, al netto di un finale “redentivo” lascia in fondo intoccati i più beceri modelli sessisti: lui usa Veronica spregiudicatamente, gioca al bello & maledetto, si compiace di sé. Leggere il romanzo in questa Italia, dopo un’estate di violenze e femminicidi perpetrati da ometti lamentosi e autocompiaciuti, lascia un gusto amaro che l’autrice non aveva certamente previsto e su cui forse, acquisendo via via maturità narrativa, avrebbe speso qualche riflessione in più. Va detto che Il demone amante, divertente e originale, è anche più veloce e scorrevole – per esempio – del più ampio, ponderato e complesso The Goat-Foot God, 1936 (Il dio dal piede caprino, Venexia, 2001), che dell’autrice dice parecchio di più, in modo abbastanza esplicito, o dell’anche migliore The Sea Priestess, 1938 (La sacerdotessa del mare, Venexia, 2002).

In genere il primo testo di fiction di un autore sedimenta riflessioni e sogni covati anni, nonché molto di una storia personale: si sarebbe dunque tentati di riconoscere almeno qualche aspetto del seduttore Justin in persone incontrate dall’autrice – per esempio il bruno medico Thomas Penry Evans da lei sposato proprio nel 1927 e coinvolto come partner nei rituali. Del tutto implausibile, Evans è un gentiluomo, anche se una decina di anni dopo i due finiranno col separarsi (divorziando solo nel 1945, sei mesi prima della morte di lei). Le dinamiche in scena rendono insomma difficile pensare a un nesso biografico, e l’opera si avvicina piuttosto al mondo dei casi di Taverner. A leggere Il demone amante si ha semmai la sensazione di un gioco su modelli letterari, l’amante maledetto di matrice romantica eccetera, riletti in chiave tecnico-occultista per avvicinare a un più generale magistero magico. E insieme a una grande riflessione, di cui l’autrice sente l’urgenza nel mondo moderno, sul salvare le potenzialità dei rapporti di coppia in una rafforzata percezione della dignità della donna. Che non passa attraverso un’impostazione femminista in senso proprio (pur preludendo di fatto a un successivo femminismo neopagano, Dion Fortune ha vedute di tipo conservatore all’inglese) ma per le vie sottili di una riscoperta interiore nel segno del magico.

Al netto insomma di ogni lontananza ideologica, legittimo guardarla con simpatia, ma – per favore – togliamoci i Justin Lucas dai piedi.

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Parigi 1804: congiure, scalpi & vampirismo del potere (Nightmare Abbey 19) https://www.carmillaonline.com/2021/09/18/parigi-1804-congiure-scalpi-vampirismo-del-potere-nightmare-abbey-19/ Sat, 18 Sep 2021 20:34:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68295 di Franco Pezzini

Nella lunga storia della letteratura vampiresca, un titolo immeritatamente poco noto è La vampira di Paul Féval. Immeritatamente per almeno due motivi. Anzitutto si tratta di un romanzo di enorme suggestione: non un capolavoro della letteratura, ma un testo ottocentesco che mette a frutto il meglio dell’evoluzione coeva del feuilleton nel precipitare il lettore in una storia onirica, tragica e grottesca. E poi il racconto trattiene echi genuinamente provocatori: lo scorcio sull’amministrazione napoleonica coi suoi maneggioni, i funzionari arrampicatori, presuntuosi e vanesî, e il rapporto con altri tipi di vampirismo [...]]]> di Franco Pezzini

Nella lunga storia della letteratura vampiresca, un titolo immeritatamente poco noto è La vampira di Paul Féval. Immeritatamente per almeno due motivi. Anzitutto si tratta di un romanzo di enorme suggestione: non un capolavoro della letteratura, ma un testo ottocentesco che mette a frutto il meglio dell’evoluzione coeva del feuilleton nel precipitare il lettore in una storia onirica, tragica e grottesca. E poi il racconto trattiene echi genuinamente provocatori: lo scorcio sull’amministrazione napoleonica coi suoi maneggioni, i funzionari arrampicatori, presuntuosi e vanesî, e il rapporto con altri tipi di vampirismo (sociale, politico) permettono alcuni sberleffi critici che adattiamo volentieri ai nostri giorni.

Diciamola tutta, l’autore è un personaggio un po’ particolare. Paul Henri Corentin Féval, cioè Féval padre (1816-1887) e suo figlio Paul Féval, cioè Féval figlio (1860-1933) con le loro opere mappano idealmente tutta l’epoca del feuilleton (alla grossa dagli anni trenta dell’Ottocento agli anni trenta del secolo successivo) e un po’ tutti i temi del medesimo, dal cappa-e-spada al poliziesco, dal gotico alla fantascienza, nelle declinazioni peculiari e folli che la produzione popolare francese contrappone a quella più canonicamente strutturata inglese. Ma se Féval figlio, apprezzabile e divertente, sta al padre come Dumas figlio al titanico genitore, è vero che in Italia conosciamo comunque assai meglio i due padri: il lettore comune non ha modo di apprezzare le specificità ad ampio raggio delle rispettive produzioni, e per esempio di Dumas figlio ricorda solo La signora delle camelie (e quasi soltanto per l’ispirazione a La traviata di Giuseppe Verdi). Scusandoci dunque con Féval figlio, lo mettiamo da parte e passiamo a suo padre, autore de La vampira e di un’altra settantina di romanzi.

Certamente non è un progressista: monarchico di famiglia, conservatore per convinzioni, celebratore continuo della Chouannerie, autore di Monsieur de Charette, nota anche come Prends ton fusil Grégoire (1853), destinata a divenire una delle più famose canzoni monarchiche francesi, Féval resta interessante per la sua scrittura, con uno stile obliquo particolarissimo speziato d’ironia, spesso ellittico, a tratti fortemente onirico. Non è male ricordare ai lettori nostrani, spesso plagiati da meccanismi di lottizzazione ideologica di piccolo cabotaggio, che uno scrittore è degno di attenzione anzitutto per le sue qualità letterarie – se ci sono – e che “Questo è nostro” è un atteggiamento imbecille, che squalifica chi lo proclama; che una critica sana cerca di capire cosa l’autore intenda e non si basa su cosa noi vogliamo fargli dire, magari a fini di arruolamento di utili idioti in conventicole altrimenti un po’ disertate per impresentabilità. E si può giustamente biasimare un certo politicamente corretto che banalizza le qualità letterarie di un autore ricordandone ambiguità sgradevolezze cadute personali (anche se è chiaro che la geremiade viene a volte elevata in modo peloso da piccoli fautori di ciò che resta il politicamente infame, o da chi sta giocando di sponda per trovare attenzione in quei giri). Certo, si ha a tratti la sensazione anche qui che gli eroi di Féval mantengano robuste ambiguità, ma La Vampire (serializzato 1855, pubblicato 1865) non è fastidiosamente ideologico e in qualche misura su quegli aspetti gioca con intelligenza.

Nella Parigi 1804 della scalata al potere di Napoleone, che si avvia alla corona, si verificano strane sparizioni di stranieri o gente della provincia, compaiono nella Senna cadaveri (a volte veri, a volte farlocchi) e si vocifera della presenza di una vampira responsabile delle nefandezze: questo strano romanzo è tutto giocato sul filo tra effettive realtà oscure e – potremmo dire – mito metropolitano nel grembo torbido di una città-labirinto, di fascino straniante. Una Parigi che l’autore conosce bene e dove ci muoviamo su pavimentazioni lucide d’acqua, tra sordide bettole e passaggi segreti, chiese per nulla tranquillizzanti e palazzotti dai mille misteri in un tessuto urbano sfuggente che sembra dilatarsi sotto i nostri piedi: uno sfondo dove prolifera socialmente una città più antica sopravvissuta alla rivoluzione e ai successivi cambi di potere. Di grande fascino, anche, l’affilata comparazione tra questa Parigi e una Londra terribile, losca e viziosa cui l’autore ha dedicato sotto lo pseudonimo di Francis Trolopp (a giocare sul nome della famosa scrittrice inglese Frances Milton Trollope, madre di Anthony Trollope) uno dei suoi primi romanzi, Les Mystères de Londres (1843-44): nonostante l’amicizia con Dickens (dal 1863), Féval non si crea certo problemi a parlar male dei vicini di Albione. Tanto più che un suo omologo inglese, George W. M. Reynolds, prolifico autore di quei penny-dreadful che del feuilleton francese costituiscono una sorta di controparte britannica, ha avuto l’ardire di varare a sua volta un’opera The Mysteries of London (1844-48). Féval lamenta un plagio, ed è possibile che Reynolds sappia del suo volume visto che spesso è in Francia ed è cittadino francese naturalizzato: ma in fondo sia Reynolds che Féval si rifanno al modello Les Mystères de Paris di Eugène Sue (1842-43), dunque anche Féval che protesta contro la pirateria inglese farebbe bene a ricordare che lui stesso riprende schemi altrui (e che a proposito di Londra pretenda di parlarne un inglese non è strano).

Che Stoker e soprattutto Le Fanu, amico di Dickens, possano aver letto o almeno conoscere i titoli e le storie vampiresche di Féval non è certo, ma sembra almeno ipotizzabile; e mi pare possibile che in Italia l’abbia letto Franco Mistrali, autore del pionieristico Il Vampiro. Storia Vera, 1869 (che – qui ammetto il mio amichevole disaccordo con il recensore Matteo Mancini in occasione della riproposta del testo per Arcoiris, 2020 – francamente fatico a immaginare letto da Stoker: mentre alcune scelte di Mistrali, legate a topoi di largo uso all’epoca, potrebbero spiegarsi in riferimento a questo romanzo di Féval).

Va detto che in parte il carattere sfuggente della vicenda è legato alle allusioni non sempre trasparenti a una puntata precedente, un altro romanzo di Féval dove già sono presenti alcuni dei personaggi, La Chambre des amours (1849), e insieme i due romanzi verranno presentati nel volume Les Drames de la mort (1866). Ma è chiaro che, con una certa obliquità, il Nostro va a nozze; e proprio l’inafferrabilità della vampira, fatta di voci incontrollabili, oniriche nella sghemba assurdità dei fatti a cui si appigliano, è uno degli aspetti più suggestivi e stranianti del romanzo. Dove troviamo le solite cospirazioni da feuilleton, in parte storiche – l’attentato a Napoleone della cosiddetta “macchina infernale”, esplosa la notte di Natale 1800, il ruolo del congiurato filoborbonico Georges Cadoudal… – e in parte fantastiche; bozzetti pittoreschi ed eccessivi, volutamente sopra le righe, dei membri della società segreta Fratelli della Virtù (l’italiano Andrea Ceracchi gemello del cospiratore Giuseppe, l’haitiano Taïeh detto le nègre devoto al defunto Toussaint Louverture, il gallese antibritannico Kaërnarvon, il mamelucco Osman che mira a vendicare la sconfitta delle Piramidi…), modellata sulla storica Tugendbund attiva in Prussia tra il 1808 e il 1810; nonché saltuarie occhiate di sguincio verso i Balcani e quell’Ungheria da dove giunge una certa contessa Marcian Gregoryi molto misteriosa e pericolosamente bella.

Già, l’Ungheria. Tra le fonti di Féval si possono in effetti ipotizzare la seminale Dissertazione di Dom Calmet che tanto spazio dedica alle remote Ungherie e un’opera che a Dom Calmet pure attinge, La Vampire, ou La Vierge de Hongrie di Etienne-Léon Lamothe-Langon (1825, a sua volta debitrice di Dom Calmet), la cui trama ambientata nel 1815 coinvolge anche Napoleone. Vi compare, undici anni prima della morta innamorata di Gautier, la prima vera vampira della letteratura francese: Alinska, una ragazza ungherese a cui durante le campagne napoleoniche il giovane ufficiale Edouard Delmont aveva promesso il matrimonio e che ora riappare nella vita del fedifrago sposato con un’altra, secondo un plot di solito declinato come storia di fantasmi. D’altra parte a ispirare La vampire di Féval potrebbe essere stata l’uscita di un dramma teatrale in cinque atti Le vampire di Dumas e Auguste Maquet (1851), sull’onda del successo del Ruthven polidoriano assurto a maschera archetipica del vampiro maschio come poi lo sarà Dracula: il succhiasangue Lord Ruthwen (sic, con la w, come in genere nei testi francesi) vi incontra una gula (ghoul-femmina) dai poteri magici che morirà da eroina romantica. Insomma, in Francia il tema del morto vivente sembra strettamente legato a quello di passioni divoranti o – appunto – vampiresche.

Protagonista della vicenda di Féval è l’anziano prevosto d’armi Jean-Pierre Sévérin detto Gâteloup, capo dei muratori del cantiere del Marchè-Neuf, nonché guardia giurata della Morgue, dall’aria del bravo borghese e in realtà abile come un agente segreto. Troviamo poi la coppietta destinata a una tragica divisione, la sua figliastra Angèle e il giovane René de Kervoz, nipote di quel Cadoudal che si fa conoscere come Morinière; c’è un improvvisato cacciavampiri piccoletto, lo studente di medicina Germain Patou devoto all’omeopatia di Samuel Hahnemann (sprofondato nella depressione, Féval stesso era stato curato omeopaticamente dal dottor Pénoyée, di cui aveva poi sposato la figlia); c’è il burocrate Berthellemot, segretario generale alla prefettura… e naturalmente c’è lei, la contessa Gregoryi, una e multipla nelle sue identità (Marcian, Lila, Addhéma…) e nei suoi doppi e tripli giochi, quasi a rifrangere in forma di Legione la pluralità di nomi, titoli e ruoli di altri personaggi, primi tra i quali Gâteloup, Cadoudal e lo stesso Napoleone. Corpi in possesso di molte identità o identità singole in possesso di molti corpi, che tendono a sperdere il lettore e rendono la lettura piuttosto complicata: ma il fantasismo è voluto, e, nel caso della contessa, questa molteplicità identitaria svela qualcosa di fantasiosamente disturbante, moltiplicando le ombre già disseminate da mille punti luce lividi, a denunciare come sfuggente la realtà stessa di un’epoca. In fondo proprio la società segreta, ha notato qualche lettore, è un’altra identità di Parigi, una controsocietà rispetto a quella borghese in corso di assestamento. Per chi sia interessato, oggi su Féval online non mancano testi di critica o persino tesi di laurea: anni fa avvicinare l’autore era molto più complicato, anche se talora restano nell’aria giudizi critici poco generosi. La vampire non è certamente letteratura “alta”, ma costituisce un romanzo gotico godibile, di buon mestiere e dalle atmosfere affascinanti. A pubblicare La vampira in Italia è Lupetti, Milano 2011, trad. dal francese di Clara Lovisetti, nella collana “i rimossi” (faccio riferimento a tale edizione).

L’ambiguità è poi rafforzata dal fatto che i vampiri di Féval – presenti qui e in altri due romanzi, Le Chevalier Tènèbre (1860) e La Ville-Vampire (scritto intorno al 1867, edito 1875, riproposto di recente da Iperwriters, 2021), cui si può aggiungere Une histoire de revenants (1881) – non corrispondono tout court al canone che si sta modellando oltremanica, e che riceverà il suo sigillo con Stoker: sia perché le non poche opere sul tema edite in Francia finivano con l’accostare il vampiro ad altre figure spettrali, sia perché Féval si diverte a immaginare creature dai connotati peculiarmente equivoci (qui si cita anche un Faust vampiro), onirici, orridi e a tratti grotteschi. A un primo livello la vampira è la stessa ligue de la vertu, la società segreta; ma c’è un secondo livello molto più strano e fiabesco il cui esito si apprezzerà solo nel finale. Poi va anche detto che l’autore sviluppa il romanzo poco per volta e potrebbe lui stesso non immaginare dove si andrà a parare alla fine.

Il primo vampiro del romanzo, sembra del resto dire Féval, pur non esplicitando mai la suggestione, è quel Napoleone che ha seminato morti a grandi numeri sulle strade del Vecchio Mondo: e il secondo vampiro è la stessa Parigi, vera e propria Ville-Vampire, con i suoi laidi bassifondi, i cadaveri che appaiono o spariscono come navigati fantasisti, la corruzione e i delitti.

I vampiri di Feval non succhiano sangue: al contrario sono (per vari motivi) molto interessati alla ricchezza, sangue di una società; e per spacciarli non basta il solito paletto. Hanno un motto, che la dice lunga anche se zoppica un po’ nel latino, In vita mors, in mors vita. In più Addhéma – la “vampira di Uszel, che la popolazione rivierasca della Save chiamava ‘la bella da capelli cangianti’, perché a volte appariva bruna, a volte bionda, alla gente ammaliata dal suo fascino”, e la cui “tomba, grande quanto una chiesa, fu trovata piena di crani di fanciulle e giovani donne”, in vita nobile bulgara complice in crimini e dissolutezze con il principe di Szandor, ha un altro e particolarissimo tipo di vincolo, “una legge rigorosa la cui infrazione costa al mostro abominevoli torture”. Infatti è in sua facoltà

 

rinascere bella come l’Amore ogni volta che riusciva a porre sull’odiosa nudità del suo cranio uno scalpo vivo, intendo strappato dalla testa di una persona viva. Ecco perché la sua tomba era piena di crani di giovani donne e bambine. Simile ai selvaggi del Nord America che scorticano i nemici vinti e portano i loro capelli come trofeo, Addhéma sceglieva nei dintorni della sua sepoltura le fronti più belle e più felici per strappare quella preda che le rendeva qualche ora di giovinezza.

Perché la sua bellezza durava solo pochi giorni. Tanti quanti gli anni della vita della sua vittima. Finito quel periodo, bisognava fare un nuovo patto e trovare un’altra vittima.

[…] Ogni volta che Addhéma, la vampira di Uszel, riusciva a scaldare le fredde ossa del suo cranio con l’aiuto di una capigliatura strappata a una persona viva, otteneva qualche giorno, persino settimane, ma a volte solo poche ore, di una nuova vita: una settimana per sette anni, un mese per dieci lustri.  Era come un gioco terribile la cui vincita poteva essere grande o piccola; Addhéma non lo sapeva mai in anticipo; ma che cosa importava, dopo tutto? Le ore conquistate, tante o poche che fossero, erano almeno tre di giovinezza, di bellezza e di piacere perché Addhéma ritornava ogni volta la splendida cortigiana di un tempo, con la sua passione di fuoco e un fascino irresistibile.

 

Ma c’è una seconda condizione fatale,

 

che non poteva infrangere pena la sofferenza di mille morti.  Addhéma non poteva darsi a un amante prima di avergli raccontato la sua storia. Nel bel mezzo di un incontro amoroso doveva raccontare quello che ora vi sto dicendo, parlando delle giovani fanciulle morte, delle capigliature strappate e riportare con esattezza la bizzarra situazione della sua morte che era una vita e della sua vita che era una morte…

 

Premesso che questo tipo di condizioni ricorda la schiavitù dell’anagramma cui è assoggettata la Mircalla di Le Fanu (che diventa Carmilla, Millarca eccetera) e ci si può chiedere se l’irlandese avesse letto il romanzo in oggetto, varie potenti suggestioni fantastiche sono consegnate al lettore. Chiariamo subito che il nesso coi “selvaggi del Nord America” non porta nessun riferimento agli Apaches di Parigi, le bande criminali della Belle Époque: il termine verrà adottato solo nel 1902. Il richiamo pesca piuttosto in una simbolica dei capelli che al tempo sta conducendo a curiosi sviluppi.

Anzitutto attraverso figure mitiche: quei capelli offrono energie, come le chiome sottratte da un’altra vamp leggendaria, la Dalila del libro biblico di Sansone, oltretutto figura archetipica della donna cospiratrice; di più, quei capelli sono vivi, come quelli di un altro mostro-Femmina che nella Parigi rivoluzionaria ha conosciuto un nuovo statuto simbolico, la Gorgone Medusa, attraverso le teste mozzate e tremende (quella sacre del re e della regina, con quanto di tabù violato quel tipo di regicidio evocasse). In generale le seduttive vamp mitiche della letteratura romantica e decadente vantano lunghe chiome nella loro strategia predatrice. D’altra parte, tornando a Napoleone, si è suggerito un richiamo al dipinto di Jacques-Louis David L’incoronazione di Napoleone (Sacre de l’empereur Napoléon Ier et couronnement de l’impératrice Joséphine dans la cathédrale Notre-Dame de Paris, le 2 décembre 1804): la corona sul capo, scalpo ideale dei Borboni decollati, rinnova simbolicamente proprio nel 1804 del romanzo la forza e la gloria della Francia, a prezzo di infinite vite sul campo: e questa dimensione virtualmente vampiresca si rifrange ai tempi dello scrittore, attraverso l’epigono del grande vampiro, il più modesto Napoleone III.

Ma c’è dell’altro, che può emergere da questo tipo di fantasie e dilaga nella società come una sorta d’infezione. Féval ricorda certamente il successo di massa – fin sulle stoviglie e nelle forme dei gioielli – dell’immagine della ghigliottina: ma, vuoi per paradosso, vuoi come forma di reazione a uno shock sociale, l’impatto toccava anche altre dimensioni della quotidianità. La cosiddetta gioventù dorata non teme di indossare abiti che richiamino le esecuzioni, come quello “à la romaine” delle giovani donne che ricorda evidentemente la camicia delle suppliziate; oppure, sotto il consolato, tagli di capelli corti o – se lunghi – con riporto avanti a liberare il collo, “à la victime”, proprio in memoria del taglio di capelli dei condannati. Medusa stessa è un’immagine di decapitata: se gli scalpi che Addhéma preda sono vivi, lo sono fino a un certo punto perché appartengono a vittime fatte morire; e qualcosa del genere vale per il capo di Medusa, ancora in grado di pietrificare ma appartenente a un mostro morto. C’è un portarsi addosso la vita che è insomma anche un indossare la morte, secondo suggestioni di moda in Francia a ridosso della rivoluzione. Se la Francia dell’Ottocento è la patria di una varietà di acconciature – con connotazioni sessuali più o meno accentuate, come in quelle che vedono capelli lunghi – tali da conoscere nel tempo adattamenti e trasformazioni, questa di Addhéma ne costituisce la lettura macabra e necrofila.

Tanto più che i capelli umani sono oggetto di un ampio mercato: ancor oggi, emerge dal web, ma certo con abbondanza in passato. Nel primo Ottocento, in Francia, le parrucche vanno in desuetudine, essendo legate soprattutto – ma non solo – alla classe aristocratica falcidiata dalla rivoluzione, e Addhéma si presenta come aristocratica. Ma i capelli possono essere anche predati: e alla fine dell’Ottocento il feticismo dei capelli fa il suoi ingresso trionfale nei trattati psichiatrici. A volte attraverso grottesche aggressioni da strada per tagliar alle passanti ciuffi di capelli: anche se l’aggressione non è necessaria, come mostra questo caso dalla Psychopathia Sexualis di Richard von Krafft-Ebing.

 

Caso 147. – Una certa signora X. mi raccontò che la prima e la seconda notte di matrimonio suo marito si era accontentato di baciarla, di affondare le mani nella capigliatura di lei, veramente non abbondante, dopo di che si metteva a dormire. La terza notte, il marito portò a casa una parrucca fittissima di capelli lunghi, e pregò la moglie di mettersela in testa. Tosto ch’essa lo fece, il marito compensò largamente la propria mancanza ai doveri coniugali.

La mattina dopo ricominciò ad essere tenero con la moglie, accarezzando, per incominciare, la parrucca. Appena la signora X. si toglieva la parrucca, che le dava fastidio, perdeva immediatamente ogni attrattiva pel marito. La signora, persuasa che si trattasse di un capriccio, si prestò ai desideri del marito, al quale voleva bene, e la cui concupiscenza e potenza sessuale dipendevano dalla parrucca. Ciascuna parrucca rimaneva efficace solo per 15 o 20 giorni. Doveva essere abbondante; il colore non aveva importanza. L’attivo, del bilancio coniugale era dato, dopo cinque anni, da due bambini e da una collezione di settantadue parrucche.

 

Dove sembra di estremo interesse il tema della durata di efficacia della parrucca, che fa pensare alla durata diversa di vitalità di quelle usate da Addhéma.

La serialità di morti servili – in funzione banalmente dello scalpo – e l’uso di un sangue che ringiovanisca ha fatto pensare a qualche commentatore che Féval conoscesse la figura di Erzsébet Báthory: in realtà pare implausibile, perché la prima citazione di una certa notorietà del profilo della contessa sanguinaria è quella, come “Elizabeth …”, in The Book of Were-Wolves del sacerdote e mitografo Sabine Baring-Gould, del 1865, dunque troppo tardiva. Féval avrebbe al massimo potuto conoscerla da qualche fonte derivata dall’opera dell’erudito gesuita László Turóczi Tragica historia, 1729 (ma sembra francamente difficile).

Si è posta comunque in risalto l’estrema, inusuale sensualità del tema qui evocato: Addhéma cerca oro per comprare un bacio – il termine, si è detto, potrebbe in realtà evocare qualcosa di sessualmente molto più vivace – dal suo amante vampiro maschio, Szandor: a presentare l’eros vampirico come sostanzialmente mercenario (ricordiamo che anche la Clarimonde di Gautier viene presentata come una cortigiana). Con tutti gli altri amanti vale però un altro “pagamento”, il tabù di dover narrare la sua storia: e Addhéma lo aggira fingendosi un’altra. Anche se ciò non esclude che a smascherarla possa essere una rivelazione onirica, come qui accade a un certo punto.

Ma, come si è detto, vampiro è qui anzitutto Napoleone. Féval non lo sbeffeggia direttamente e nonostante tutto sembra averne un relativo rispetto; ma ne critica il carrozzone di seguaci, la politica come grande meretricio che porta morti a legioni (oggi non più in campagne militari su territorio europeo) e comunque uccide dentro, il potere suppurante in una città labirintica vampira essa stessa. E se, a una lettura odierna del romanzo, di Napoleoni in giro proprio non ne vediamo, il carrozzone è comunque ben saldo e i cortigiani (solo di altro genere) restano al governo. In vita mors, in mors [sic] vita.

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Augusta Wampyrorum https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/augusta-wampyrorum/ Sat, 19 Jun 2021 21:23:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66804 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di un successivo volume dei curatori al momento in preparazione. In questo, tra storie di lupi e fantasie su Lovecraft in Italia, etruscologia metapsichica e teatri della morte, anime pezzentelle, bambole sinistre, sopravvivenze sciamaniche, massoni a Trieste e tanti diavoli, è apparso anche un contributo di chi scrive sulla genesi di un fortunato mito pop da giornali della sera emerso nella Torino degli anni Settanta e ormai assurto a brand: The Wicker Town. Torino magica & orrore popolare. Se ne riporta uno stralcio.

 

[…] Nella galleria di Haining & Parker [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, I colibrì Mondadori 1972, a poca distanza dall’originale inglese Witchcraft and Black Magic, 1971, con un meraviglioso corpus d’illustrazioni di Jan Parker – cfr. qui] non manca uno spazio sui vampiri: e la bellissima raffigurazione di un volto inquietante con occhi azzurri, capelli rossi e labbro leporino, la consistenza incorporea venata però da una circolazione malsana, che emerge in un cimitero con aria maligna e assetata, è accompagnata da una spiegazione (un po’ banalizzante, ma tant’è) deliziosamente vintage.

 

Recentemente fantasiosi romanzi e films (specialmente quelli su Dracula, personaggio creato da Bram Stoker) hanno reso molto popolari questi “mostri” che molto probabilmente erano solo persone che soffrivano di disturbi mentali, bandite a causa della loro brama morbosa per il sangue [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, cit., p. 93]

 

Tra le concause del revival magico si può senz’altro identificare – si è detto – il decennio di successo capitalizzato dai film gotici Hammer, a partire dai primi a fine anni Cinquanta con i quattro moschettieri Cushing, Lee, Fisher, Sangster (due attori, un regista, uno sceneggiatore) a innesco di una straordinaria operazione di mitopoiesi: e Haining pensa proprio a quelli. Non è questa la sede per un’analisi del fenomeno, dove la riappropriazione di un’eredità gotica inglese già sfruttata e buttata oltre oceano, ristrutturata film dopo film in chiave di sistema mitologico, si accompagna alla vera e propria liturgizzazione di misteri pagani: e tutto ciò attraverso storie che sempre più innervano i classici del fantastico di concessioni a una cultura del magico (riti, culti, sette…) covata nelle Isole Britanniche fin dall’Ottocento, poi rinverdita dai fasti popolari delle tesi negli anni Venti/Trenta di Margaret Murray sul presunto “dio delle streghe” e dal successo popolare dei romanzi di Dennis Wheatley. La provocatoria saldatura tra tutto questo e una Swinging London per una breve stagione tornata centro del mondo offre una nuova marcia all’horror popolare saldando nostalgie e nuove provocazioni. E incentivando lo sviluppo di filoni dall’origine autonoma come la (grande) stagione del gotico italiano su schermo.

Certo il pantheon (o pandemonium) Hammer comprende un’estrema varietà teratologica: ma altrettanto certamente i vampiri vi vantano un ruolo e un fascino particolare. Sia quelli della vecchia generazione – in particolare Dracula/Lee, vero mattatore dell’epoca nonostante le continue frenate dell’interprete che teme di restare confinato nella parte – sia le sempre più disinibite nipotine del ciclo Karnstein, Carmilla & Co. In rapporto da un lato, del resto, con un boom vampiresco nel segno della trasgressione, a cavalcare un’euforia sessuale d’epoca che vede ammorbidirsi drasticamente le maglie della censura: si pensi alle belle succhiatrici di Jean Rollin e Jess Franco, a La novia ensangrentada di Vicente Aranda, 1972, allo stesso recupero filmico di una figura amata dai surrealisti fin dagli anni sessanta, la Contessa sanguinaria Erzsébet Báthory, da cui la definizione per i primi anni del nuovo decennio come “the Golden Age of the Lesbian Vampires”. E dall’altro con l’entusiastica divulgazione da parte di Raymond T. McNally e Radu Florescu dell’esistenza di un Dracula storico, Vlad III Țepeș, argomento presto amato dalle riviste anche italiane [cfr. qui].

Inevitabile che il successo della creatura liminare per definizione – tra vita e morte, materiale e spettrale, umano e bestiale, ripugnante e seducente – influisca anche sui miti di una città liminare quale Torino. Dove fantasie vampiresche sono attestate in realtà da parecchio tempo, sia pure in forme liberissime: si pensi all’opera lirica Il vampiro di A. De Gasparini rappresentata per la prima volta proprio in città nel 1801; alla commedia satirica in cinque atti Il vampiro del torinese Angelo Brofferio, 1827; allo sfarfallare vampiresco attorno a due veronesi eccellenti insediati a Torino, cioè Emilio Salgari (che ben prima della truce saga uruguayana Il Vampiro della foresta, 1902, aveva messo in scena un Sandokan “che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi” in La Tigre della Malesia, 1883-1884, protoversione a forti tinte del poi rielaborato Le tigri di Mompracem, 1900) e Cesare Lombroso (che definisce il serial killer Vincenzo Verzeni “Sadico sessuale, vampiro e divoratore di carne umana” e viene omaggiato da Luigi Capuana della sua novella Il vampiro, 1904). Anche non in presenza di un nesso diretto, la pratica (barocca, ma perpetuata a lungo) di conservare nelle chiese corpi santi sotto cera che riempiva d’orrore me bambino traghetta a quella dimensione di cadaveri inquietantemente conservati che trova qualche eco anche nella mitologia vampiresca.

Un discorso a parte andrebbe poi condotto sulle pratiche di assunzione di sangue per via orale: a volte per mantenere un aspetto giovanile (come nel caso della “vampira di Torino” Agnese Draghetti, originaria di Serralunga d’Alba e morta novantottenne nel 1785 a Villadeati, nell’Alessandrino, ma vissuta a lungo nella Contrada degli Angeli, poi chiamata Contrada della Dogana, attuale via Carlo Alberto, al n. 2, che girava i sobborghi pagando giovani donatrici di piccole quantità ematiche); a volte a fini di cura dell’anemia, anche se in quel caso si ricorreva normalmente al sangue animale dei macelli, e la pratica è attestata diffusamente nell’Italia dell’Ottocento.

È una fiaba scherzosa la storia dell’uomo vampiro catturato nel 1863 in città: riportata sul sito del C.A.U.S. – Centro Arti Umoristiche e Satiriche, racconta di questo tipo enorme tenuto agli arresti domiciliari in uno spazio annesso alla caserma di San Salvario onde svolgere con più efficacia il compito di salassare secondo prescrizioni mediche (al tempo normalmente gestito con sanguisughe). Alla sua morte, così vien detto, la municipalità lo ricorderebbe favorendo l’inserimento sulle case di San Salvario di immagini vampiresche (ovviamente i mascheroni sulle facciate degli edifici torinesi presentano spesso fattezze più o meno richiamabili a tali tipologie). Vera e propria leggenda metropolitana è invece quella del vampiro di San Mauro Torinese che nell’autunno 1947 semina il panico soprattutto in due frazioni confinanti con Torino, Cascina del Molino e Barca, guadagnandosi gli onori della cronaca. Occhi fosforescenti, vestito di nero, cappa e cappello da montanaro, morderebbe il collo a donne sole e soprattutto giovani; ma presto emerge che la voce è stata messa in giro per frenare un po’ le figliole in un momento in cui, terminata la guerra, sembra più difficile trattenerle da fughe serali. E tuttavia un’aggressione vera e in apparenza analoga – almeno secondo la vittima, che però non ha il tempo di perdere sangue – si verificherebbe poco dopo in corso Matteotti, pieno centro di Torino. Impossibile ormai stabilire la consistenza dei fatti.

Ma coi nuovi tempi il richiamo assume un altro peso. È difficile non cogliere un nesso in chiave di sogghigno colto tra le pellicole vampiresche Hammer e un’opera-chiave del fantastico torinese, L’ultima notte di Furio Jesi (1941-1980), eminente studioso del rapporto tra miti e storia: un romanzo di vertiginosa erudizione e scintillante, divertita intelligenza composto tra il 1962 e il 1970 – in due versioni piuttosto diverse – e pubblicato solo postuma da Marietti nel 1987 (riedizione per Nino Aragno, 2015). Jesi, autore anche della voce “Vampiri” nel Grande Dizionario Enciclopedico Utet e della fiaba vampirica La casa incantata (Vallardi, 1982, poi Mondadori 2000), mette in scena nel romanzo il tentativo di rivincita dei vampiri, stirpe altra un tempo dominatrice della Terra: Dio concede loro, stanco dei guasti prodotti dagli uomini, di riprendersi quanto hanno perduto. Conquisteranno quasi tutto il pianeta, ridando spazio alla natura che gli uomini hanno violato in tutti i modi – torniamo insomma al fiato apocalittico di un’epoca – e proprio a Torino, dove i vampiri hanno installato il quartier generale nella Torre littoria sovrastante Piazza Castello, avverrà lo scontro definitivo. Tra scontri in piazza, piccoli eroi e profittatori, affannati conciliaboli coi santi e giochi anche di piccolo cabotaggio tra Cielo e mondo umano, il risultato lascerà intravedere la fine della Terra…

Con lo sguardo pure alle nuove provocazioni e insieme a una Torino-osservatorio è il film fantastico, visionario e ironico di Corrado Farina Hanno cambiato faccia, 1971, dove il dipendente di una grande azienda torinese dell’auto, Alberto Valle, viene invitato – novello Jonathan Harker – nella villa di campagna del presidente, l’ingegner Giovanni Nosferatu interpretato da Adolfo Celi. Nel parco si aggirano come lupi delle Fiat (pardon, Auto Avio Motor) 500, e il povero Valle dovrà constatare la natura vampiresca dell’industriale e del suo potere sui mezzi di produzione e di comunicazione.

Negli anni che seguono, l’icona del vampiro è molto presente nell’immaginario, veicolata a Torino attraverso pubblicazioni popolari, giornali, proiezioni del Movie Club – piccolo ma importante, sul tesserino figurava l’immagine di Dracula/Lee – e programmazioni sulle prime minuscole televisioni private locali: dove con molta fortuna, in assenza di segnalazioni dei palinsesti, ci si poteva imbattere in quei film horror ancora banditi dalla tv di Stato (la mia prima visione di Dracula il vampiro, incontrato al tempo su una di queste reti, parte in effetti da metà film). La ribellione magica dei Settanta trova nel vampiro eversore di ogni punto fisso di natura e cultura un’icona eminente, e nelle fantasie dei miei anni di liceo (conclusi nel 1980) si tratta di uno degli archetipi fantastici più amati; anche se sul tema non compaiono al tempo e per qualche decennio altri romanzi o produzioni di rilievo torinesi. Negli anni Ottanta, con l’inabissarsi dell’icona vampirica al cinema, si sviluppa però in Italia una vera e propria critica in tema di fantastico, iniziano a moltiplicarsi edizioni di autori introvabili (come Le Fanu, per esempio la bella edizione Sellerio di Carmilla, 1980, o la proposta di altri suoi testi per Serra e Riva e soprattutto per Theoria); e con il revival gotico dei Novanta e nuovi mezzi come i VHS anche la cinematografia sul tema inizia a essere più avvicinabile.

 

Vampiri di passaggio

Un discorso a parte può poi valere per alcuni dei citati (presunti) visitatori a Torino abbinati a storie vampiresche. Si parte naturalmente dall’esorcista di protovampire Apollonio, antenato virtuale di Van Helsing & Co.; mentre il vampiro Nostradamus interpretato da Germán Robles in alcune pellicole messicane (1960-62) sarebbe un solo ipotetico figlio del veggente. Quanto all’immortale Saint-Germain capace a sua volta – secondo alcuni racconti – di cacciare parassiti sovrannaturali, lo troviamo assurgere a vampiro buono nei romanzi di Chelsea Quinn Yarbro: a partire da quell’Hôtel Transylvania, 1978, proposto in Italia agli esordi (2005) della breve gloriosa stagione gotica della Gargoyle di Paolo De Crescenzo, a sua volta grande fucina editoriale di storie di vampiri.  

 

Una svolta si ha a Torino con il nuovo millennio, che vede uscire a breve distanza il film Io sono un vampiro di Max Ferro, 2002 – dove il non-morto attraversa i secoli dall’assedio del 1706 alla nuovissima movida – e il romanzo erotico/ironico L’ultima ceretta di Anna Berra per Garzanti, 2003: quest’ultimo avrebbe anzi dovuto intitolarsi Bevimi, a saldare suggestioni da Alice in Wonderland con le suzioni di una setta (umana) praticante il vampirismo in una villa di zona Crocetta. Qualche suggestione vampiresca emerge anche nella sua bella raccolta Piume di sangue. 69 racconti noir, Enrico Casaccia/Co.RE Editrice, 2009 [per un suo lavoro più recente in tema vampiri, cfr. qui]. In Quarto di luna per i tipi SBC, 2008, il musicista Marco Gallesi inscena invece l’arrivo a Torino di un vero vampiro, il soldato tedesco Rutger Haussman, trasformato durante la battaglia di Stalingrado; e vampiri vi porta Carla Oddoero/Blake B (Blink), che nel 2010 inizia a raccontare la saga di Zora von Malice, ventisettenne non-morta svegliatasi all’improvviso in una villa decadente della collina, edita in due volumi per i tipi Golem, La curiosità uccide il gatto e Il silenzio è dorato (l’autrice è purtroppo mancata prematuramente nel dicembre 2017). Più avanti nella città inizia e termina – anche se gran parte è ambientata a Budapest – il romanzo Tutto quel buio di Cristiana Astori per Elliot, 2018, nuova avventura della cacciatrice di film perduti Susanna Marino: la ricerca della prima pellicola su Dracula di attestata produzione, Drakula halála di Károly Lajthay, 1921, conduce a confrontarsi con le dimensioni vampiresche dell’uomo e della Storia. E ancora è chiaramente Torino la città non identificata della storia fantasiosissima e lugubre, e soprattutto vampiresca, narrata da Ade Zeno in L’incanto del pesce luna per Bollati Boringhieri, 2020.

Ma ormai e sempre più i vampiri sono raggiungibili via internet, mentre fioriscono iniziative aperte al tema come il TOHorror Film Fest, fondato nel 1999 e in progressiva crescita, alcuni eventi sgranati negli anni (per esempio la mostra Diversamente vivi al Museo Nazionale del Cinema, tra settembre 2010 e febbraio 2011) e spazi nell’ambito di realtà museali come il MUFANT – MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza. Non stupisce peraltro che proprio a Torino, tra Centro, Borgo Medievale e Valentino vengano girate scene della seconda stagione di A Discovery of Witches (Il manoscritto delle streghe), produzione televisiva britannica – 2018-in produzione  – ispirata alla Trilogia delle anime di Deborah Harkness, fitta di fattucchiere e appunto vampiri.

Certo, le storie di non-morti come normalmente presentate non sono ascrivibili a un contesto di Folk Horror o Urban Wyrd. E tuttavia attraverso il tessuto della Torino magica si può parlare di una sorta di obliquo genius loci. Che non movimenta ovviamente i Dracula Tour; ma in una città dagli scorci barocchi come le capitali mitteleuropee delle grandi epidemie vampiriche, e dove i non pochi richiami letterari e cinematografici al tema mantengono sottotono un’elusività tutta piemontese, un intero itinerario nel segno del vampiro potrebbe essere agevolmente disegnato sulla mappa urbana. Una Torino/Karlstadt, a dirla con la Hammer, tra gli uffici di grandi aziende e le chiese con corpi stranamente conservati, le palazzine di sette vampiresche e quel certo negozio (ormai chiuso) di San Salvario dove si trovavano un po’ sottobanco i film sulle vampire di Franco e Rollin; tra il pop dei Seventies, dalla vertiginosa saldatura di miti, e quello di oggi, coi real vampires che rilasciano interviste e la stessa domanda che mi è capitato di sentirmi porre (con serietà, e senza citare Emilio de’ Rossignoli) se credo nei vampiri. A un livello più sottile, per capire la natura di Augusta Wampyrorum occorre considerare come detto la circolazione negli anni Settanta dei primi testi di cinema horror, le apparizioni dei film di vampiri sfarfallanti e sgranate sulle prime tv locali, le fantasie di adolescenti che nell’icona dell’arconte dell’indecidibile – anni luce prima del mieloso Twilight – ritrovavano qualcosa delle loro inquietudini. Ma poi, e sempre più mentre crescevamo, emergeva la percezione di un vampirismo come sopravvivenza di dimensioni non-morte nella storia e nella società italiana, che hanno soltanto cambiato faccia: qualcosa certo non esaurito in Torino, ma che sul set della città di passaggio (già prima capitale, già capitale industriale, già città olimpica, eccetera eccetera) trova un teatro eccellente, a suo modo emblematico. […]

 

P.s. Seguendo i consigli di un’amica specializzata in Lingua e letteratura romena, adotto in questo pezzo la lezione  Augusta Wampyrorum invece che Augusta Vampyrorum come nel contributo al volume o in altre precedenti occasioni.

 

 

 

 

 

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Estetiche inquiete. Il nero, il punk, il teschio… Processi di estetizzazione del malessere https://www.carmillaonline.com/2020/08/19/estetiche-inquiete-il-nero-il-punk-il-teschio-processi-di-estetizzazione-del-malessere/ Wed, 19 Aug 2020 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61486 di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico [...]]]> di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico si sarebbe nutrito il mondo della moda e del lusso per decadi a venire senza quasi dover muovere un dito per rinnovarsi.» Claudia Attimonelli

Teschi, vampiri, zombie, junkie ed estetica black da tempo sono parte integrante dell’iconografia occidentale. Visto che le scene urbane e mediatiche contemporanee celebrano l’immaginario dell’anomia e del disagio, viene da domandarsi perché male e malessere hanno proliferato nel corso dei secoli al punto da essere oggi percepiti come del tutto ordinari aspetti del quotidiano.

Attraverso gli studi visuali, la mediologia e la sociosemiotica, Claudia Attimonelli, nel suo Estetica del malessere (2020), uscito per la collana Anomalie Urbane, recentemente inaugurata da DeriveApprodi, indaga l’iconografia di tale fenomeno nel solco della schiavitù dei neri (tragica origine), passando in rassegna una serie di produzioni visuali, musicali, vestimentarie e artistiche coinvolte in questo processo di “estetizzazione del malessere” che integra il male nel quotidiano rendendolo innocuo e banale.

In tale scenario nero – segnato da teschi, macchie, sudiciume, malessere, disagio, anomia e morte –, il male, da pericolosamente banale (H. Arendt), per mezzo di un processo di estetizzazione «attraverso subdoli e lusinghieri travestimenti, continua il suo incedere tardo novecentesco, a tratti indolente, altrimenti risoluto, che con determinazione lo fa capillarmente accomodare tra le pieghe confortevoli del malessere comune del nuovo Millennio». (p. 84)

Nei contesti urbani il disagio è da tempo al centro di forme vestimentarie e cosmetiche derivate dall’intrecciarsi di “sprezzatura del lusso” ed elementi “dell’underground”. L’estetica mainstream ha ampiamente saccheggiato la vita disagiata di strada (dalle culture giovanili metropolitane agli homeless), dando luogo a linguaggi che, pur mantenendo traccia del malessere esistenziale, incarnano forme di coolness o di chic. Il mondo della moda ha attinto a piene mani dall’abbigliamento dei clochard – capi oversize, lacerati, macchiati, indossati stratificati uno sull’altro –, dalle fogge militari già détournate dagli street stile, dal nomadismo urbano giovanile e pendolare: ecco allora i vari “clochard couture”, “military chic” e “treveller style”, in un “contagio delle lontananze” in cui si intrecciano esteticamente hipster e pariah.

Il processo di estetizzazione di anomia e margini, oltre che la moda ha investito l’ambito mediale in un imperversare di estetiche postapocalittiche, paesaggi corrotti e scenari estremi: basti pensare al dilagante fenomeno zombie che, soprattutto a partire dal nuovo Millennio, si inserisce all’interno di una più vasta ascesa di un immaginario survivalista. Secondo Attimonelli il ricorso a

stilemi capaci di esaltare i tratti più vistosamente molli e decadenti quali l’usura dell’abito e le macchie, i buchi, i tagli negli indumenti, i bordi dell’abito che terminano in liminari contorni cenciosi, non vanno intesi come un nuovo decadentismo, né tanto meno come tracce che rinviano all’appartenenza a comunità marginali o vicine al piccolo crimine, bensì, in quanto manifestazioni di un afflato mondano esse incarnano la tragicità del quotidiano détournata in una sorta di disagio agiato. (p. 92)

La studiosa si sofferma anche sull’insistenza con cui viene fatto ricorso nella contemporaneità alla rappresentazione del cuore e del teschio. L’immagine del Sacro Cuore di Gesù – abitualmente posto al centro di una raggiera dorata con tanto di croce, corona alla sommità e intrecci di spine – viene introdotta in epoca barocca ma una volta disgiunta dalla tradizionale collocazione al centro del petto di Cristo, il Sacro Cuore diviene un feticcio a sé.

Dal punto di vista semiologico il trasferimento segnico-simbolico che ha visto il cuore nel corso dei secoli, da organo del corpo umano divenire rappresentazione di un sentimento potente quale l’amore (sia divino che terreno), ha avuto luogo a partire da un “residuo segnico non tradotto” […] un sovrappiù di significato, una sorta di pleonasma semiosico, […] un’eccedenza extra-anatomica, qualcosa che supera il mero organo vitale per espandersi placidamente insieme alla stessa estetica barocca. Ivi, infatti, troviamo un trionfo della significanza (la passione) sul significato (la vita viva) veicolato dal significante (il muscolo cardiaco). Una tale ridondanza semiosica si esprime attraverso la forma semplice e universalmente riconosciuta del cuore, laddove il colore rosso vivo e la collocazione al centro del petto coincidono con l’umanità e, per estensione, anche con i sentimenti connessi con la Vita. Seguendo questo filo rosso ritroviamo la rappresentazione cardiaca nella postmodernità. È il cuore fiammeggiante che gronda sangue, dai riflessi cromati e potenzialmente ammalato di carcinoma quello che oggi abita nelle ampollose ed enfatiche complex emoticon della rete e non più il simbolo scarno degli anni Ottanta né quello noto nelle scritte minimali delle t-shirt I love NY. Non è raro, infatti, rinvenire su schiene, braccia, nuca e polpacci, colorati tatuaggi che riportano il cuore trafitto dalla cui ferita sgorgano gocce lacrimose di sangue; talvolta il taglio della ferita cristiano – una breve linea rossa – diviene un occhio allorché alla misericordia del cuore palpitante di Cristo si associa l’illuminazione del Buddha. (p. 97)

Passando dalle danze macabre medievali, alle orrorifiche immagini barocche e alla sua versione più stilizzata novecentesca, il teschio è giunto sino ai nostri giorni e proprio grazie a questa sua evoluzione minimale, con il suo immaginario mortifero, è stato assorbito dall’industria della moda.

Il quotidiano si è connotato sempre di più di uno spettro immaginifico potente. Il subdolo addomesticamento del memento mori di hamletiana memoria si è insediato viralmente con la sua espressione di vacuità postumana e con la sua macabra onnipresenza ovunque, dalle t-shirt alle custodie per smartphone, soppiantando l’emanazione del terrore maligno che non riusciva più a esprimere la propria vocazione intimidatoria. […] Per la post-umanità del nuovo Millennio l’ordinario è l’anomico che può distinguersi, resistere. Dopo una pandemia che ha allontanato ogni essere umano dall’altro, mentre una marea di corpi si riversa in strada e lancia nelle acque torbide dei fiumi le statue del colonialismo americano, si avverte l’approssimarsi di un futuro che non deve costruirsi sul valore della sola cultura bianca occidentale: black lives matter. Il punk, il dandy, l’afrodark, sono le estetiche radicali del disagio ad alta implicazione segnica e sociale per quanto riguarda il genere, le relazioni interrazziali, i diritti. (pp. 104 e 112)

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Vita da reclusi desideranti: cinque serie dinamiche https://www.carmillaonline.com/2020/05/04/vita-da-reclusi-desideranti-cinque-serie-dinamiche/ Mon, 04 May 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59722 di Mauro Baldrati

Le serie – alcune serie – danno assuefazione. La scansione della macchina seriale è una ragnatela, attira lo spettatore e lo cattura, inserendolo in un mondo parallelo fantasmagorico in cui calarsi. Forse perché siamo abituati? Perché questa dinamica ormai fa parte del nostro immaginario?

Infatti la “narrazione” dei media, soprattutto il Network per eccellenza, onnipresente nelle case, la TV nazionale, è a sua volta una serie interminabile. Ora è il momento del Coronavirus, ma la stagione passata, quella della “crisi”, presentava modalità identiche. Partono con atmosfere [...]]]> di Mauro Baldrati

Le serie – alcune serie – danno assuefazione. La scansione della macchina seriale è una ragnatela, attira lo spettatore e lo cattura, inserendolo in un mondo parallelo fantasmagorico in cui calarsi. Forse perché siamo abituati? Perché questa dinamica ormai fa parte del nostro immaginario?

Infatti la “narrazione” dei media, soprattutto il Network per eccellenza, onnipresente nelle case, la TV nazionale, è a sua volta una serie interminabile. Ora è il momento del Coronavirus, ma la stagione passata, quella della “crisi”, presentava modalità identiche. Partono con atmosfere minacciose, uso intensivo di termini violenti, “drammatico”, “grave”, con riprese di malati in terapia intensiva circondati da infermieri con scafandri fantascientifici; poi avviene un passaggio graduale verso il “tutto bene”: i contagi calano, le interviste sono ottimiste, i servizi sono amministrati bene, sembra che tutti facciano i tamponi (in realtà sono insufficienti, si fanno soprattutto in televisione). Con la “crisi” fu uguale. Dopo il dramma e la minaccia di default, che vide la discesa in campo di Monti, la crisi si ammorbidì, finché si iniziò a definirla “in discesa” e “alle spalle”. Tutto finito. Tutti ricchi. Fiction, ovviamente. Infatti ogni tanto erano costretti a riferire i numeri, implacabili, degli istituti di ricerca che affermavano l’esatto contrario. Nessun problema. I giornalisti embedded, gli attori della fiction, li riportavano con voce grave e espressioni deluse, ma era questione di mezza giornata. Poiché nel polveroso bailamme non c’è memoria, il mattino dopo ripartivano col “va tutto bene”.

Tutte le serie che presentiamo sembrano accomunate da un aspetto: è come se avessero recepito uno degli insegnamenti fondamentali di Vladimir Nabokov, espresso circa ottant’anni fa quando insegnava nei campus americani, e pubblicato nelle Lezioni di letteratura: “Il buon lettore sa benissimo che, quando si parla di romanzi, aspettarsi di trovarvi vita vera, persone vere e così via è una pretesa senza senso. In un romanzo la realtà di una persona, di un oggetto o di una circostanza attiene esclusivamente al mondo di quella particolare opera. L’autore originale inventa sempre un mondo originale e, se un personaggio o un comportamento si inserisce armoniosamente nella struttura di quel mondo, ci sarà dato di godere la forte emozione della verità artistica, per quanto inverosimile la persona o la cosa sembrerebbe se trasferita in quella che i recensori letterari, poveri scribacchini, chiamano vita reale. Per uno scrittore di genio non esiste la vita reale. Egli stesso deve crearla, e creare poi ciò che ne consegue.”

Questo enunciato ovviamente sarebbe da aggiornare, perché riflette la concezione di Nabokov del predominio dell’arte rispetto alla cosiddetta realtà, la quale non può essere oggetto di critica in quanto illusione. Una teoria che il professor Nabokov non ha applicato alla sua stessa opera, visto che in Humbert Humbert ha proiettato nientemeno che se stesso. Però afferma una delle verità incontestabili (e rivoluzionarie) in letteratura: la costruzione di una realtà nuova, minore e anarchica, che non si interessa dei riscontri con quella esistente maggiore.

Cinque favole, libere e creative, perché non si preoccupano di sedurre il lettore (ovvero lo spettatore), di blandirlo con codici che richiamino la prosopopea dominate. Un ottimo antidoto alla favola monotona e autoritaria raccontata dai media mainstream.

Buona lettura dunque (eh, volevamo dire buona visione!).

FAUDA

La n.1, anche qualitativamente. Israeliana, la sua estetica, il suo stile fanno sperare che finalmente ci siamo liberati da tutti quei fotomodelli vestiti Armani che popolano le serie hollywoodiane. I protagonisti infatti sono sudati, scaruffati, poco atletici, piegati dal caldo e dalla fatica. Nessun trionfalismo, né superomismo degli agenti segreti del nucleo speciale antiterrorismo. É di parte israeliana, nessun dubbio, ma resta una spy story coi controfiocchi, dura e coinvolgente. Nella prima stagione c’è la caccia a un famoso terrorista di Hamas, nella seconda si passa all’Isis. É appena uscita la terza. Nessun compiacimento sionista, i “buoni” sono a loro modo sporchi, eroi semi negativi che non esitano a usare il ricatto e la violenza illegale per ottenere i loro scopi. Tutto è permesso in guerra. E così i terroristi sono certamente dei fanatici assassini, ma mai delle macchiette votate alla barbarie. Proprio come Tacito in Vita di Agricola, quando riporta il discorso del capo barbaro prima della battaglia, e lo usa come pretesto per denunciare tutta la corruzione e l’imperialismo romano, così i nemici di Israele ne denunciano la politica guerrafondaia e aggressiva, con motivazioni credibili, portando lo spettatore cosciente anche dalla loro parte.

TOP BOY SUMMERHOUISE – TOP BOY

Britannica, le prime due stagioni sono Summerhouse, la terza prosegue come Top Boy (ovvero sembrano due serie distinte ma si tratta della stessa opera). Le prime due sono senza doppiaggio, ma conviene seguire in originale anche la terza, perché il duro argot di strada, crivellato di Yo! e Fuck! strascicato e offensivo, fa parte della bellezza di questa vicenda all black (a parte i boss della malavita, che sono bianchi bastardi inglesi). La storia è dedicata a una banda dei bassifondi di Londra (nel quartiere immaginario di Summerhouse, che evoca i palazzoni di Gomorra). E’ un contesto mutato dove la vita e la speranza non hanno senso. Sono estinte, dimenticate. O forse mai esistite. Solo durezza, e mancanza di pietà. Anche i “buoni” non esistono in questa sorta di noir ellroyano al cubo. La sola figura vagamente compassionevole è Dushane, il capobanda, che gestisce lo spaccio minorile, bambini che vivono in famiglie degradate (il più sbandato di tutti ha i genitori tossici). L’unica realtà possibile è il crimine, e la guerra per il dominio del territorio. Una guerra dove la vittoria e la sconfitta sono relative. Perché, come dice il braccio destro di Dushane, Sully, nella terza stagione Top Boy: “Solo perché non abbiamo perso non significa che abbiamo vinto.” Charles Dickens si è risvegliato, e ha scoperto i nuovi slum, la nuova miseria. La colonna sonora le conferisce ulteriore intensità, con la sezione rap gestita da Andrew Meechan, e una ambient qua e là cupa e ossessiva, composta da un sempre grande Brian Eno.

VAMPIRI

Altre immagini e personaggi all’insegna dell’anti-patina in questa serie francese. Niente ragazzini middle class, ma creature che “sono qui, in mezzo a noi. Vivono nascoste in clandestinità”. Niente fascinosi canini che sfiorano sensuali gole bianche di ragazze attraenti, prima di affondarli con un brivido erotico nell’arteria. I vampiri di Parigi combattono con problemi molto pratici, i soldi, e soprattutto i documenti, che devono falsificare spesso, poiché invecchiano anagraficamente ma i corpi rimangono giovani. Si nutrono di sangue, come tutti i vampiri, di ogni tipo, animale, o sacche da trasfusione che comprano al mercato nero. Non sempre riescono a rifornirsi, per cui attraversano periodi di fame spaventosa. Se uccidono, tagliano la gola alla vittima e si gettano scomposti, brutti e osceni, sul corpo agonizzante per bere. La vicenda narra le avventure di una famiglia fuoriuscita dalla “comunità”, ovvero una sorta di mini stato della specie che ha il controllo su ogni appartenente, soprattutto per garantirne l’anonimato, indispensabile per sopravvivere. Una madre, vampira, fa di tutto per tenere i due figli fuori dal giro, anche somministrando loro certi farmaci creati dal marito (morto?), che ne ha studiato la genetica. La loro specie deriva da un’antica epidemia, che ha modificato le cellule, fermandone l’invecchiamento e rendendole ipersensibili alla luce solare. I farmaci permettono loro di essere semi-umani, possono nutrirsi di alimenti normali ed esporsi al sole, ma… può non esistere un ma?

UNORTHODOX

Finalmente una miniserie, che termina in 4 puntate. Infatti un aspetto particolarmente impegnativo del genere seriale è la dilatazione delle storie e dei personaggi. Tanto che, quando esce una nuova stagione, siamo costretti a tornare indietro per ripassare gli eventi. Tedesca, è ambientata in una comunità ebraica chassidica di Brooklyn. Tratta dalle memorie di una donna fuoriuscita dalla comunità, Deborah Feldman, è iperrealista sulle regole, rigidissime, che dominano le vite e le menti dei membri. Le donne non possono leggere la Torah, né cantare, né studiare musica. Il loro unico destino è sposarsi, con un matrimonio combinato, e produrre figli in continuazione, per risarcire il Popolo Eletto dai milioni di morti per l’Olocausto. Una ragazza, interpretata da una straordinaria attrice israeliana, Shira Haas, un viso espressivo nel corpo di una bambina di 10-12 anni, dopo il matrimonio decide di fuggire, e vola a Berlino in cerca di libertà e di una nuova vita. Non conosce nessuno, vaga alla cieca, finché si aggrega a un gruppo di musicisti classici che la introducono nel mondo creativo della città. A questo punto diventa una specie di thriller, col marito Yanki e il cugino che si mettono sulle sue tracce per riportarla a casa. La ricostruzione degli ambienti, dei riti, dei costumi è meticolosa e certamente inquietante (l’evento del matrimonio è epico e strabiliante), ma non vi è alcun giudizio. É una parte di mondo, con le sue regole e la sua follia. E lo racconta senza documentarismi, né moralismi.

IL CALIFFATO

Un altro segmento di mondo dove regnano la pazzia e la sopraffazione, questa volta con l’aggravante della violenza. Svedese, siamo a Raqqa, in Siria, dove vige lo stato islamico Daesh. Anche qui una donna, sola e coraggiosa, cerca di trovare una via d’uscita alla sua situazione. Sposata con un “combattente”, come le altre “sorelle” può muoversi solo per fare la spesa (ci ricorda qualcosa?), intabarrata nel burka, coi guanti, perché non un solo centimetro di pelle deve essere visibile. Riesce a procurasi un cellulare, rischiando grosso (la fustigazione, solo gli uomini possono possedere un telefono) e a mettersi in contatto con una poliziotta a Stoccolma. C’è in ballo un attentato dell’ISIS, e tra le due donne inizia una comunicazione clandestina molto pericolosa (se scoperta qui rischierebbe la decapitazione). La poliziotta però pretende dati, informazioni, in cambio di un aiuto per fuggire dall’inferno in cui si trova. Parte una spy story ansiogena, sempre sul filo del rasoio, in bilico tra la sopravvivenza e il disastro. E come nella precedente Unorthodox il racconto viaggia tra i due ambienti, Raqqa e Stoccolma. Sembra di essere in una puntata di Eymerich, quando ciò che accade in uno si riverbera nell’altro, producendo conseguenze. É un thriller teso, anti patinato come le precedenti, senza quelle pause forzate (per esempio dialoghi intimisti inutili), che nelle serie servono per guadagnare un po’ di tempo ma che appesantiscono il flusso narrativo. Un’utile palestra mentale di resistenza alla staticità del TSO al quale ci hanno costretto.

Tutte le serie sono visibili su Netflix. Qualcuno potrebbe osservare: ma che è? Siete pagati da Netflix? Assolutamente no. Ma se i due canali RAI dedicati alla fiction, per i quali paghiamo un canone obbligatorio, sono barili di cui è stato raschiato anche il metallo, e i film se non hanno almeno dieci anni non vengono presi in considerazione, che colpa abbiamo noi?

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