USA – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 20:04:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 USA: dissenso pseudo-conservatore e mito dell’allegro possidente terriero https://www.carmillaonline.com/2024/12/08/usa-dissenso-pseudo-conservatore-e-mito-dellallegro-possidente-terriero/ Sun, 08 Dec 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85506 di Gioacchino Toni

A proposito della raccolta di saggi di Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi (Luiss University Press, 2024), di cui ci si è occupati relativamente alla diffusione della violenza e delle armi negli Stati Uniti su “Carmilla”, vale la pena soffermarsi anche sui testi più datati presenti nel volume. Per quanto le riflessioni espresse dallo storico americano contenute in La rivolta pseudo-conservatrice vadano contestualizzate al momento in cui le scrive, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, non mancano di essere di una qualche utilità ancora oggi [...]]]> di Gioacchino Toni

A proposito della raccolta di saggi di Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi (Luiss University Press, 2024), di cui ci si è occupati relativamente alla diffusione della violenza e delle armi negli Stati Uniti su “Carmilla”, vale la pena soffermarsi anche sui testi più datati presenti nel volume. Per quanto le riflessioni espresse dallo storico americano contenute in La rivolta pseudo-conservatrice vadano contestualizzate al momento in cui le scrive, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, non mancano di essere di una qualche utilità ancora oggi al fine di comprendere meglio le radici che hanno condotto ad un immaginario politico americano in cui l’universo liberal sembra aver totalmente perso la sua spinta al cambiamento.

Se negli anni Trenta «la forza dinamica della politica americana era il dissenso liberal», che si proponeva di «riformare le ingiustizie del nostro sistema sociale ed economico e cambiare il modo di fare le cose», negli anni Cinquanta «la vita politica non trae più il suo dinamismo dai liberal […] che hanno inconsapevolmente assunto la psicologia di chi li ha preceduti»; molti dei soggetti marginali a cui si rivolgeva il New Deal hanno nel frattempo trovato una collocazione stabile nella società tanto da indurli ad un certo “conservatorismo”. «I vecchi liberal», negli anni Cinquanta, scrive Hofstadter, «non auspicano certo qualche nuovo ambizioso programma, ma si limitano a difendere quanto possibile i traguardi già raggiunti e la libertà di espressione» (p. 62).

Secondo lo storico, le nuove forme di dissenso non solo non possono dirsi radicali, ma nemmeno del tutto conservatrici: a differenza del passato, queste presentano una richiesta continua di conformismo, tanto che si potrebbe parlare di «pseudo-conservatorismo». A palesarsi è infatti una forma di evidente «insoddisfazione per la vita americana, le sue tradizioni e le sue istituzioni»; sono lontane dal moderatismo incline al compromesso del conservatorismo classico esprimendo infatti «un odio profondo, seppure inconsapevole, per la nostra società e le sue dinamiche» (p. 63).

«Lo pseudo-conservatore», scrive Hofstadter, «crede di vivere in un mondo dove qualcuno lo spia, sta tramando contro di lui, lo sta tradendo e lo porterà alla rovina, crede che le sue libertà siano state invase in modo arbitrario e intollerabile. È contrario a quasi tutte le novità degli ultimi vent’anni di politica americana» (p. 65). Questa figura non sopporta la burocrazia così come la partecipazione del proprio Paese ad organismi sovranazionali, come l’Onu, detesta avere a che fare con altre nazioni e soprattutto rifiuta di doverle aiutare economicamente e militarmente, percepisce la debolezza degli Stati Uniti, che vede in balia di azioni eversive provenienti da ogni dove, ed imputa ogni fallimento internazionale ad un tradimento. «L’ostilità latente e diffusa verso le istituzioni americane prende la forma di una valanga di proposte per stravolgere i corpus delle nostre leggi fondamentali» (p. 66).

Secondo lo storico si è di fronte a qualcosa di profondamente diverso dal vecchio ultra-conservatorismo isolazionista; questo fenomeno di pseudo-conservatorismo deriverebbe direttamente dalla «vita americana, eterogenea e senza radici, e soprattutto [dal] modo caratteristico con il quale gli americani da sempre ambiscono a uno status e a un’identità stabile» (p. 71). Un universo, quello americano, che negli anni Sessanta fa sempre più fatica a rapportarsi con quel melting pot celebrato dallo storytelling ufficiale, che non vede più funzionare la mobilità sociale e occupazionale, ormai ridotte a ricordi del passato.

Oltre ad essere un’arena in cui si confrontano interessi materiali contrastanti dei diversi gruppi sociali, la politica è anche luogo in cui vengono proiettate «le aspirazioni e le frustrazioni relative allo status; luogo in cui si intersecano temi politici, di interessi, e problemi individuali, di status, in cui questi ultimi tendono ad avere la meglio. Se nei momenti di depressione e malcontento economico il dissenso tende ad incanalarsi in richieste di riforme concrete, nei momenti di maggior prosperità, quando sono le questioni di status ad avere il sopravvento, il dissenso assume la forma della lamentela priva di proposta concreta, di rivalsa, rancore e ricerca di capri espiatori. «Le preoccupazioni di status accomunano paradossalmente due tipi di persone che giungono da direzioni opposte. Il primo tipo è quello degli anglosassoni di antica tradizione, protestanti, il secondo quello delle famiglie d’immigrati, soprattutto di discendenza tedesca e irlandese, spesso cattoliche» (pp. 74-75). I primi guardano allo pseudo-conservatorismo nel momento in cui sentono di perdere privilegi di casta, i secondi quando li guadagnano. Se molti liberal tendono a vedere nel dissenso pseudo-conservatore una minaccia alle libertà in direzione totalitaria, Hofstadter si dice restio a bollarlo come puramente fascista o totalitario.

Con Pseudo-conservatorismo revisited. Un post-scriptum dei primi anni Sessanta, lo storico americano torna su quanto scritto a metà del decennio precedente soprattutto per apportare alcune modifiche a proposito del concetto di politica di status.

Alla metà degli anni Cinquanta appartiene lo scritto Il mito dell’allegro possidente dedicato alla trasformazione del piccolo agricoltore proprietario della terra che lavora in imprenditore. Hofstadter ricostruisce le discrepanze tra la figura del reale piccolo proprietario terriero al lavoro nei campi e la narrazione che di esso è stata a lungo fatta negli Stati Uniti, che ha continuato a presentarlo come esempio di lavoratore industrioso, indipendente, autosufficiente e dotato di spirito egalitario anche quando, ormai, questo si era trasformato in imprenditore commerciale. Paradossalmente, spiega lo studioso, più lo yeoman ai allontanava da un’attività incline all’autosufficienza in favore di un’agricoltura imprenditoriale, più cresceva una narrazione incline alla nostalgia per il passato rurale, probabilmente in ossequio alla presunta innocenza delle origini.

Lo yeoman, proprietario di una piccola fattoria conduzione famigliare, incarnava la «persona semplice, onesta, sana, indipendente e felice [che] viveva in comunione con una natura benevola» (p. 99), vera e propria base di una società virtuosa, figura secolare e al tempo stesso religiosa, in quanto espressione del lavoro della terra creata da Dio. Un mito, quello agreste, non nato in seno al popolo, bensì come concetto letterario ideato dalle classi più agiate che lo avevano derivato dalla cultura inglese dalla seconda metà del Settecento, che a partire dal secolo successivo si sarebbe diffuso nell’immaginario popolare statunitense. La Rivoluzione americana avrebbe poi contribuito a fare dello yeoman una sorta di simbolo della nuova nazione. Nel guardare alla città, questa figura vi scorgeva una sorta di alieno ed ostile «coacervo di strozzini, dandy, damerini e aristocratici pieni di idee europee» (p. 105) che lo trattava da bifolco.

Se nel corso del periodo coloniale, fino all’Ottocento inoltrato, ancora era ravvisabile una certa corrispondenza tra lo yeoman reale e la narrazione che di esso veniva fatta, con lo spostamento verso le praterie e la possibilità di introdurre macchinari nel lavoro nei campi, il contadino inizia ad abbandonare forme di autosufficienza per occuparsi della “coltura da reddito” modificando non solo la vita quotidiana ma anche l’immaginario.

Si sviluppò così una società agricola che a differenza di quella dello yeoman non si sentiva legata alla terra, ma al valore della terra. Il vero frutto della società rurale americana, sviluppatasi su praterie e pianure, non era lo yeoman o il tranquillo abitante del villaggio, ma uno stressato piccolo affarista di campagna che lavorava sodo, si trasferiva fin troppo spesso, giocava d’azzardo con la propria terra, e si faceva strada con le sue forze. […] Divenne un uomo d’affari molto prima di cominciare a considerarsi tale (p. 111).

Con la fine dell’Ottocento questa figura, per quanto ancora attiva direttamente sui suoi possedimenti terrieri, iniziò a guardare ai propri dipendenti, aumentati decisamente di numero, con il medesimo sospetto con cui guardava ai lavoratori di città, soprattutto se sindacalizzati, come un tempo guardava ai “damerini e aristocratici”. A spazzare definitivamente via il vecchio yeoman saranno però soprattutto i mezzi di comunicazione novecenteschi – dai trasporti ai mass media radiofonici, cinematografici e televisivi – con il loro affievolire sempre più le differenze tra il mondo rurale e quello cittadino.

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In rifle we trust. Individualismo, violenza ed armi nella storia statunitense https://www.carmillaonline.com/2024/12/01/in-rifle-we-trust-individualismo-violenza-ed-armi-nella-storia-statunitense/ Sun, 01 Dec 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85500 di Gioacchino Toni

Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi, Traduzione di Paolo Bassotti, Saggio introduttivo di Emanuele Bevilacqua, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 192, € 17,00

Per capire qualcosa di più degli Stati Uniti contemporanei, più che ai resoconti confezionati dai commentatori dei media nostrani, spesso derivati dai grandi network statunitensi con l’aggiunta di qualche nota di colore, ed alle analisi che anche a sinistra sembrano spesso più inclini a soddisfare desideri che non a confrontarsi con la realtà statunitense, potrebbe essere di qualche aiuto ricorrere a qualche vecchio scritto di Richard [...]]]> di Gioacchino Toni

Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi, Traduzione di Paolo Bassotti, Saggio introduttivo di Emanuele Bevilacqua, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 192, € 17,00

Per capire qualcosa di più degli Stati Uniti contemporanei, più che ai resoconti confezionati dai commentatori dei media nostrani, spesso derivati dai grandi network statunitensi con l’aggiunta di qualche nota di colore, ed alle analisi che anche a sinistra sembrano spesso più inclini a soddisfare desideri che non a confrontarsi con la realtà statunitense, potrebbe essere di qualche aiuto ricorrere a qualche vecchio scritto di Richard Hofstadter che, da storico che si confronta con le scienze sociali, ha incentrato i suoi studi sulla politica e sulla mentalità statunitensi, soprattutto sugli aspetti populisti, mettendo al centro del dibattito questioni fino ad allora trascurate. Per quanto si tratti di studi datati ed in parte superati da ricerche più recenti e per quanto siano nel frattempo cambiati l’universo sociale ed il panorama politico, risultano ancora di una certa utilità al fine di comprendere un po’ meglio un universo come quello statunitense che in Europa si conosce e comprende forse meno di quel che si pensa.

Dopo essersi occupato nel corso degli anni Quaranta degli aspetti ferocemente competitivi del capitalismo americano del periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo – Social Darwinism in American Thought, 1860-1915 (1944) e The American Political Tradition and the Men Who Made It (1948, tr. it. Il Mulino 1960) –, nei due decenni successivi Hofstadter ha concentrato la sua attenzione sul populismo che ha caratterizzano la storia politica americana sin dall’Ottocento – The Age of Reform (1955) – indagando in particolare gli aspetti “paranoici” che si ritrovano in essa, questione al centro di The Paranoid Style in American Politics (1964), testo recentemente pubblicato da Adelphi1.

L’insistito ricorso all’appello al popolo e le visioni paranoiche e complottiste che caratterizzano gli Stati Uniti di Trump hanno dunque una storia radicata in America a cui si ricollega anche la diffusa quanto viscerale ostilità nei confronti di tutto ciò che “odora di intellettuale” e che viene percepito come parte integrante di quella élite che imbriglia la vita dei “veri e genuini americani”, che Hofstadter indaga nel volume Anti-Intellectualism in American Life (1963; tr. it. Einaudi 1967), testo che sarà a breve riproposto da Luiss University Press2.

Venendo a La repubblica dei fucili, il volume raccoglie alcuni testi scritti da Hofstadter a metà degli anni Cinquanta – La rivolta pseudo-conservatrice (1955), sui cui torna all’inizio del decennio successivo con Pseudo-conservatorismo revisited. Un post-scriptum (1962), ed Il mito dell’allegro possidente (1956) – ed un paio di scritti del 1970, anno in cui scompare: L’America come cultura delle armi (1970) e Riflessioni sulla violenza negli Stati Uniti (1970). Ad introdurre il volume è un saggio di Emanuele Bevilacqua che proietta nell’attuale universo digitale alcune riflessioni di Hofstadter circa la violenza ed il culto delle armi negli Stati Uniti.

Secondo lo storico americano, la violenza negli Stati Uniti deriverebbe in maniera considerevole da alcune condizioni culturali specifiche che si sono evolute nel tempo: la cultura della frontiera ed il mito del pioniere armato; il diritto costituzionale a possedere armi, sancito dal Secondo emendamento, vissuto come baluardo della libertà individuale al fine di proteggersi da ogni forma di oppressione; la normalizzazione della violenza a cui avrebbero concorso gli strumenti di intrattenimento popolare come il cinema e la televisione.

Tutte le culture di massa hanno i loro eroi stereotipati, e nessuno è del tutto privo di violenza, ma niente è paragonabile all’insolita passione degli Stati Uniti per figure solitarie e individualiste come il detective, lo sceriffo o il cattivo della situazione. Nelle narrazioni drammatiche americane rispetto a quelle inglesi, per esempio, è molto più difficile che un conflitto venga risolto con l’intelligenza o secondo un ordine morale piuttosto che con un atto di violenza audace e improvviso (p. 50).

Per quanto il ruolo della frontiera sia stato importante nello strutturarsi della cultura delle armi tra gli americani, secondo lo studioso forse ancora di più ha influito la radicata avversione nei confronti dell’esercito organizzato, derivata dai Whig radicali inglesi, da cui è desunta l’idea della creazione di milizie di cittadini armati al fine di difendersi da eventuali forme di autoritarismo statale. Il possesso delle armi è al centro della

tradizione antimilitarista dei Whig radicali inglesi, ripresa e intensificata dall’America coloniale, soprattutto dalla generazione che precedette la Rivoluzione americana, per poi divenire parte integrante della tradizione politica americana. […] Gli americani si convinsero che l’unica soluzione possibile al perenne conflitto tra militarismo e libertà fosse la loro proposta alternativa: un popolo armato (pp. 52-53).

Tale preferenza per la milizia popolare ha esercitato un ruolo importante nella stesura del Secondo emendamento della Costituzione. «Il diritto di possedere armi era un diritto collettivo e non individuale, strettamente correlato all’esigenza civile (soprattutto in mancanza di un esercito nazionale adeguato) di una “ben organizzata milizia”; con esso, il Congresso si impegnava a non impedire agli Stati di fare il necessario per il mantenimento di milizie ben regolate» (p. 55).

Storicamente, l’idea del diritto ad essere armati non è un convincimento esclusivo dei fanatici cultori di pistole e fucili; per molti americani l’accesso diffuso alle armi è visto come contrappeso fondamentale e necessario ad una possibile tirannia. Tale convincimento è «sopravvissuto in tutta la sua gloria e la sua ingenuità anche nell’era tecnologica moderna, venendo ripreso, ad esempio dai giovani neri, soprattutto dalle Panthers, che hanno fatto incetta di armi in modo più letale per loro che per chiunque altro» (p. 57). Così scrive Hofstadter nel saggio L’America come cultura delle armi, pubblicato in apertura degli anni Settanta, palesando una presa di distanza dalle lotte afroamericane che non hanno disdegnato il ricorso ad armi da fuoco. Mentre in altre società la presenza di piccoli gruppi armati non autorizzati viene vista come un pericolo da eliminare a partire dal contrasto all’accesso alle armi, gli Stati Uniti, sostiene lo storico, preferiscono contrastare il pericolo di tali gruppi armandosi maggiormente a loro volta.

Facendo riferimento al periodo in cui scrive, Hofstadter motiva l’accentuata devozione alle armi del Sud e del Sud-Ovest degli Stati Uniti non solo con le radici rurali che contraddistinguono quelle zone, ma anche ricordando che le armi al Sud sono a lungo state prerogativa riservata ai bianchi per esercitare un maggior controllo sugli schiavi, dunque il possesso di armi è nel tempo divenuto un simbolo di status del maschio bianco per poi venir fatto proprio dagli stessi maschi afroamericani.

Per quanto gli Stati Uniti fossero urbanizzati e industrializzati, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento i parlamenti, tanto a livello locale che nazionale, erano composti in buona parte da uomini di una certa età provenienti dalla provincia rurale. È su tali basi che si sarebbe strutturata la convinzione della legittimità del ricorso alla violenza armata come modalità attraverso cui difendere i diritti individuali. Lo studioso sottolinea anche come tra gli americani sia riscontrabile una tendenza alla rimozione degli effetti negativi della violenza; un’amnesia che minimizza episodi e cause sistemiche e si rivela utile al mantenimento di un’immagine idealizzata della storia nazionale.

In Riflessioni sulla violenza negli Stati Uniti, altro scritto datato 1970, dopo aver sottolineato come gli storici americani abbiano sempre evitato di soffermarsi su quanto la violenza sia ricorrente nella storia del loro Paese e come, nonostante ciò, gli statunitensi tendano a pretendersi una nazione virtuosa come nessun’altra, Hofstadter evidenzia come, a differenza di ciò che accade in altri Paesi, la violenza negli Stati Uniti tenda a dispiegarsi più facilmente tra cittadini piuttosto che tra questi e lo Stato: in America «la violenza non nasce dal desiderio di sovvertire lo Stato, e per questo non danneggia mai la legittimità dell’autorità» (p. 127) e così è sempre stato, con la non irrilevante eccezione della Guerra civile, scrive lo studioso in questo testo del 1970.

Che una mole di violenza come quella che si è dispiegata negli Stati Uniti nel corso della sua storia non abbia preso le mosse dall’intenzione di sovvertire l’autorità statale, induce Hofstadter a passare in rassegna alcune tra le principali forme di violenza che hanno caratterizzato la vita del Paese ponendo l’accento su come in tutte queste sia in qualche modo presente la componente razziale.

Nella storia americana, in conflitto di classe è stato messo nettamente in secondo piano dal conflitto etnico-religioso e razziale. Gli scontri tra gruppi hanno sostituito la lotta di classe, o si sono posti come possibile alternativa. Gli episodi di lotta di classe effettivamente avvenuti raramente si sono svolti “in purezza”, scevri da antagonismi etnico-razziali e dalla nostra complessiva gerarchia d status fondata su caratteristiche religiose, etniche e razziali (p. 132).

Secondo Hofstadter, la violenza legata al mondo dell’industria ha avuto la sua fase più significativa ai tempi delle società segrete Molly Maguires nelle città ove si estraeva l’antracite, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento ed i primi del secolo successivo. L’imponente sciopero delle ferrovie del 1877 coinvolse una dozzina di città provocando scontri che condussero a quasi un centinaio di morti. «Per la prima volta, si paventò lo spettro di una forza rivoluzionaria nazionale impossibile da gestire (per quanto l’idea neanche sfiorasse gli scioperanti), cosa che portò al rafforzamento della Guardia nazionale e alla creazione di una catena di armerie nelle città più importanti» (p. 140). Lo stesso grande sciopero delle ferrovie del 1886 si rivelò particolarmente violento così come molti altri scoppiati in apertura di Novecento soprattutto ove erano radicati la Western Federation of Miners e l’Industrial Workers of the World (IWW).

Se la conflittualità di classe negli Stati Uniti, pur rifacendosi meno che in altri Paesi a motivazioni ideologiche, ha dato luogo ad esplosioni di violenza che non trovano forse paragoni altrove, secondo lo storico ciò è da ricercarsi più nell’ethos dei capitalisti americani che non in quello dei lavoratori.

Alcune considerazioni Hofstadter le dedica a come anche la sinistra americana si sia fatta affascinare dall’esercizio della violenza nel corso degli anni Sessanta. In tali riflessioni lo storico statunitense, che in età giovanile aveva per qualche tempo militato nel Partito comunista americano, salvo poi uscirsene in dissenso con la deriva stalinista dei paesi socialisti e dei partiti comunisti occidentali, manifesta più volte il suo distacco dalle frange più radicali delle proteste statunitensi sia del mondo del lavoro che dei movimenti studenteschi ed afroamericani.


Ai saggi stesi da Hofstadter negli anni Cinquanta e Sessanta, presenti in La repubblica dei fucili, sarà dedicato un nuovo scritto su “Carmilla online”.

 


  1. Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, tr. it. di Francesco Pacifico, Adelphi, Milano 2021. Si veda a tal proposito Sandro Moiso, Il “grande complotto” nella tradizione politica americana (e altrove), in “Carmilla online”, 28 Giugno 2021. 

  2. Del meccanismo di eroicizzazione dell’individuo qualunque che, come un novello David, trova la forza ed il coraggio di opporsi al Sistema ed alla sua grande cospirazione, che caratterizza la cultura, soprattutto audiovisiva, americana si è recentemente occupato, tra gli altri, Tom Nichols (The Death of Expertise (2017); id., La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, tr. it. di Chiara Veltri, Luiss University Press, Roma 2023. 

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Mutualismo, autodifesa, lavoro sociale. Il caso delle Pantere Nere – ep.1 https://www.carmillaonline.com/2024/11/08/mutualismo-autodifesa-lavoro-sociale-il-caso-delle-pantere-nere-ep-1/ Thu, 07 Nov 2024 23:42:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85266 di Jack Orlando

Avvertenza: quella che segue è la traccia di un intervento, tenuto nell’aprile 2024 al DopoLavoro Ferroviario di Velletri, durante un’iniziativa sulla salute all’interno delle esperienze dello zapatismo e delle pantere nere. L’intento alla base dello scritto non è quello di fornire una breve panoramica su una storia ormai già raccontata, più e meglio di così, da testimoni, storici e protagonisti.

Piuttosto il tentativo è quello di far emergere le connessioni interne di una vicenda politica che ha lasciato suggestioni potenti dietro di sè, separando l’immaginario e la storia dall’essenzializzazione delle sue categorie. Termini quali mutualismo, comunità, autodifesa [...]]]> di Jack Orlando

Avvertenza: quella che segue è la traccia di un intervento, tenuto nell’aprile 2024 al DopoLavoro Ferroviario di Velletri, durante un’iniziativa sulla salute all’interno delle esperienze dello zapatismo e delle pantere nere. L’intento alla base dello scritto non è quello di fornire una breve panoramica su una storia ormai già raccontata, più e meglio di così, da testimoni, storici e protagonisti.

Piuttosto il tentativo è quello di far emergere le connessioni interne di una vicenda politica che ha lasciato suggestioni potenti dietro di sè, separando l’immaginario e la storia dall’essenzializzazione delle sue categorie. Termini quali mutualismo, comunità, autodifesa sono stati strumenti potenti nelle mani delle pantere, eppure il loro recupero dentro i movimenti sociali sfocia spesso in una pratica debole. Questo, a nostro avviso, è dovuto ad una visione della politica che tende a focalizzarsi sulle forme senza tenere conto del processo che le ha generate. Ragionare sull’esperienza del BPP in relazione a pratiche di recupero comune può diventare allora anche esercizio di metodo analitico in grado di potenziare la pratica.

Una storia (afro)americana.
Nella lunga storia del movimento afroamericano il Partito delle Pantere Nere Per l’Autodifesa segna un punto di svolta: zenit dello sviluppo teorico-pratico dei movimenti di lotta e nuova codificazione della politica.

Fondato a Oakland nell’autunno del ’66 raccoglie l’eredità radicalizzata del movimento per i diritti civili e delle due lunghe estati di riot spontanei nei ghetti (Watts ma anche Chicago, Detroit, Harlem) così come della predicazione di Malcolm X, che per primo aveva portato alla ribalta una diversa declinazione del processo di liberazione nera, intesa come processo di autodeterminazione autonoma ed indipendente tanto dalle istituzioni americane che della società WASP.
È inoltre il periodo della decolonizzazione: larghe aree di quello che chiamiamo Sud Globale arrivano per la prima volta ad avere il controllo sulle proprie istituzioni e risorse. Molto spesso a seguito di un aspro conflitto armato. È il momento dei Dannati della Terra, di Patrice Lumumba, dell’Angola, dei Vietcong, di Fidel Castro, dei Tupamaros, di Mao Tze Dong e del Nazionalismo anticoloniale.

Le Pantere, sulla scia di X, sono la prima formazione afroamericana a collocarsi esplicitamente come parte di questo processo globale di decolonizzazione: la comunità nera, sparsa nei ghetti delle metropoli e negli insediamenti della provincia americana è intesa come una Colonia interna; ovvero il popolo di zone dove il dominio statale esercita una pressione violenta su base razziale, la polizia agisce come una truppa d’occupazione mentre gli assistenti sociali entrano invadono nel privato della vita delle famiglie; lo Stato si limita al controllo pervasivo, tralasciando ogni prerogativa di welfare e quindi privando i territori di tutte le infrastrutture strategiche utili ad una autodeterminazione personale e collettiva: le scuole, gli ospedali, i lavori, le case. Tutto è poco, tutto è scadente, manchevole.
Agli occhi delle giovani pantere i ghetti, come le citè di Fanon, sono cittadelle fatiscenti ripiegate su sé stesse. Buone per sfornare manodopera a basso prezzo per i lavori peggiori, oppure criminali per alimentare l’enorme macchina dell’industria carceraria, sono popolate di una popolazione semianalfabeta, infantilizzata, brutalizzata ed umiliata: quando i bambini escono di casa le mamme raccomandano “stai attento alla polizia”.
Le comunità nere degli Stati Uniti sono insomma brandelli di una nazione dispersa e oppressa dal capitalismo imperialista bianco.

L’analogia con le colonie d’oltreoceano è però qualcosa di più che esercizio retorico, ed è quindi facile guardare più a queste che ai movimenti della new left, per lo più bianchi e piccolo borghesi.
Si diceva che i movimenti d’oltreoceano si sono imposti spesso attraverso un lungo conflitto violento, la guerra di guerriglia che è una pratica in quella fase in pieno vigore.
A dominarne il percorso c’è uno schema, una strategia di fondo che si ripete e che è stata messa nero su bianco dal maestro assoluto della guerra popolare, Mao Tze Dong.
La guerra di popolo si articola in tre fasi: la prima è una fase prerivoluzionaria, dove il partito si radica in una zona remota in cui può rafforzarsi e crescere, si arma e organizza la popolazione, la dota di personale politico e di ideologia.
La seconda è una effettiva fase di guerriglia, il partito sufficientemente forte può mandare piccole bande ad attaccare il territorio in mano al nemico per liberarlo ed estendere così il controllo su nuove “zone liberate” che inizieranno ad amministrare secondo principi comunisti e collettivisti.1 L’ultima fase, quella insurrezionale, prevede l’attacco finale al cuore del potere nemico dopo avergli sottratto sufficiente territorio e risorse da potersi dotare di un vero e proprio esercito, una dimensione di potenza contro potenza in uno scontro “simmetrico”.

Ovviamente è uno schema di massima e fa riferimento al contesto cinese, ovvero ad un paese dove gli spazi geografici, la demografia, i rapporti sociali si rivelano su scale enormi e quasi senza paragoni; non di meno fornisce la base su cui si svilupperanno tutte le successive esperienze di liberazione nazionale.
Le lezioni sulla guerriglia di Mao sono riassunte anche nel celebre Libretto Rosso, che ne corona la fortuna a livello planetario, e se possono sembrare una divagazione in realtà sono assai centrali perché saranno alla base della strategia delle Pantere Nere.

Il Black Panther Party For Self-defence ovvero le Pantere Nere.
Al momento della loro fondazione le Pantere sono costituite da due studenti: Bobby Seale e Huey P. Newton, autonominati rispettivamente Presidente e Ministro della Difesa, si sono dotate di un ambizioso programma in dieci punti. L’obbiettivo è non meno che l’emancipazione del popolo afroamericano nel segno di una rivoluzione socialista.
Il primo nucleo operativo è invece costituito da meno di una decina di persone, quasi tutte raccolte tra gli amici e i vicini. Una partenza che non lascia minimamente presagire gli enormi sviluppi che verranno.
vedondosi come movimento anticoloniale, i loro riferimenti teorici principali sono Malcolm X per l’analisi della situazione specifica del nero americano, Robert Williams2 per la necessità di una pratica di difesa attiva che superi la nonviolenza del movimento e il disordine dei riot, Franz Fanon per la teoria politica anticoloniale e Mao Tze Dong per la strategia del partito.

Così, dato che la militanza costa soldi, si inventano un escamotage tanto banale quanto geniale che tenga insieme finanziamento, formazione e propaganda. Sotto l’altisonante nome di Operazione “Books for Guns”, si presentano a un negozio cinese, comprano un grosso pacco di copie del Libretto Rosso di Mao e se ne vanno a venderle al campus universitario.

In realtà quei libretti non finanzieranno l’acquisto di armi ma di codici di legge, la stampa di poster e volantini e poi, dopo un po’, l’affitto di una piccola sede e la nascita del proprio giornale.
Frattanto lo sparuto partitino fa qualcosa che non aveva fatto nessuno: il patrolling.
Pattuglia le strade del ghetto per monitorare gli abusi di polizia: quando una volante ferma un nero, loro non impediscono le operazioni ma osservano a poca distanza, fotografano, gridano al malcapitato quali siano i suoi diritti e possibilità.
In sostanza non fanno nulla di particolarmente eclatante, esercitano semplicemente i propri diritti di cittadini americani, sotto gli occhi increduli e inviperiti degli agenti abituati a farsi ubbidire, appunto, come truppe occupanti in una colonia.
L’idea è quella di creare dei cortocircuiti tra diritto formale e diritto concreto sfruttando tutti i margini legali possibili per mostrare al popolo afroamericano che può sollevarsi dalla propria misera condizione.
E per rendere più chiaro il concetto lo si fa con una certa dose di stile: se ne vanno in giro con una divisa a metà tra il guerrigliero e il gangster, vestiti total black con giacche di pelle, occhiali da sole e baschi in testa, e soprattutto armati di pistole e fucili in bella vista.

Anche quello del porto d’armi, come si sa, è un diritto costituzionalmente riconosciuto negli Stati Uniti. Ma che lo facciano dei neri organizzati è al tempo qualcosa di dirompente, tanto da spingere l’allora governatore della California Ronald Reagan a discutere una legge che ne limiti la circolazione. Un braccio di ferro che porterà alla celeberrima invasione del Capitol di Sacramento del 2 maggio del ’67.
Pur mantenendosi strettamente nell’ambito della legalità (Newton è un pedissequo studente di giurisprudenza), l’assertività nelle pratiche e ancor di più nella prosa, truce e colorita, spinge gli apparati federali ad una pressione sempre più stringente sulle pantere e sul loro tentativo esplicitamente rivoluzionario.

Qui sta un primo punto focale: essi si intendono come partito armato (pur non praticando la lotta armata per come l’abbiamo conosciuta in Europa) per una rivoluzione socialista e anticoloniale. Seguendo le regole di Mao, su cui ogni militante studia quotidianamente, si trovano nella prima fase della guerra di popolo: il radicamento.
Ecco allora che devono guadagnare consenso nella propria base, rafforzarsi, tutelare il partito da perdite non strettamente necessarie e cominciare a tessere nel territorio i propri organismi di autogoverno coinvolgendo la popolazione stessa.
In altre parole, si tratta di preparare fin da subito dei programmi di sussistenza, per garantire la sopravvivenza della comunità e dei militanti in previsione dello scontro definitivo col potere.


  1. Quello dell’amministrazione delle zone liberate è in realtà un tema più antico e presente in molte storie di guerriglia, un esempio tra tutti è quello delle Repubbliche Partigiane in nord Italia durante la Resistenza del ’43-’45. Cfr.  M. Siena, Guerriglia e Autogoverno, Guanda Editore, Milano 1970 

  2. Ex membro della NAACP della North Carolina, primo ad organizzare un servizio armato di autodifesa contro i raid del KKK in contrasto con la dirigenza dell’organizzazione. All’inizio dei ’60, a causa della pressione giudiziaria, è costretto a fuggire latitante riparando prima a Cuba e poi in Cina. Il suo libro Negroes Whit Guns e la sua trasmissione radiofonica (trasmessa dall’estero) Radio Dixie, avranno un impatto potente sui giovani afroamericani in via di radicalizzazione. 

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Sparse riflessione ferragostane https://www.carmillaonline.com/2024/10/10/sparse-riflessione-ferragostane/ Thu, 10 Oct 2024 20:40:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84730 di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della [...]]]> di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della storia, ma semplicemente  provo a mettere a fuoco fatti e tendenze difficilmente oppugnabili. Fatti e tendenze che mi paiono vistosamente assenti in quel poco di dibattito pubblico che possiamo riscontrare nel nostro Paese.

Il pessimismo della ragione

“Sentinella, a che punto è la notte?” Una domanda oggi più che mai angosciante,  tra il “vecchio” in affanno, ma che non muore,  ed il “nuovo” (un’alternativa di sistema) che tarda a profilarsi.

Del resto, in quanto a transizioni sistemiche, abbiamo alle spalle una pesante eredità di fallimenti o, meglio, di regressioni a forme, diverse, di capitalismo di Stato o di capitalismo tout court: persino laddove le condizioni soggettive erano più favorevoli  (la Cina di Mao carica  delle pulsioni egualitarie derivanti dalla “rivoluzione culturale”) si è registrata la sconfitta della “sinistra”.

Salvo pensare, come fanno non pochi illusi, che un’economia pianificata, meglio se gestita da un partito  comunista al potere,  sia sinonimo di socialismo.

En passant, come è stato che la classe operaia pretesa al potere, nell’ultima Unione Sovietica, si sia lasciata depredare fabbriche ed aziende senza colpo ferire?

Di fatto, la rottura storica dell’Ottobre ’17 ha realizzato una duplice eterogenesi dei fini: da una parte lo sviluppo economico (industria pesante) è stato provvidenziale, risolutivo nella guerra contro l’aggressione nazista, dall’altro, e su una più lunga lunghezza d’onda, è stato ispiratore delle lotte di liberazioni anticoloniali in tutto il mondo: su questo aspetto è stato  lungimirante il genio di Vladimir Lenin.

Anche a seguito del naufragio del “socialismo reale”, oggi l’umanità sembra avviarsi senza freno alcuno verso l’autodistruzione  vuoi per un ecatombe nucleare vuoi per un’inarrestabile, progressiva catastrofe climatica. Il movimento pacifista, vent’anni fa protagonista su scala mondiale, è annichilito, colpito ingiustamente, tra l’altro, dall’accusa di filoputinismo.

Quel che poteva convenzionalmente essere creduto come diritto internazionale, per quanto precario, è a pezzi; il potere regolatore dell’ONU annullato, sostituito artatamente dalla potenza, aggressiva in ogni continente, della NATO; l’Unione Europea sopravvive in quanto autolesionisticamente “sdraiata” sugli USA. L’assenza di un vero ordine internazionale è tale  che Israele può impunemente continuare nei suoi sistematici massacri del popolo palestinese, al limite del genocidio.

Tuttavia, a livello globale si manifesta la tendenza, contrastata dall’Occidente (in opposizione al “resto del mondo”),   verso il multipolarismo, agìto in particolare dai Paesi BRICS, che attuano nei loro scambi commerciali un processo di de-dollarizzazione, cioè di concreta contestazione  di una incontrastata egemonia non solo economica. Ovviamente un’alternativa di società è altra cosa.

La logica ineluttabile dell’accumulazione capitalistica confligge con la realtà di un “mondo finito”, della limitatezza di risorse naturali, non riproducibili: iato acuito  dall’accresciuta produttività assicurata dall’automazione  e dall’intelligenza artificiale. E’ come dire che la contraddizione capitale – lavoro, pur permanendo ed allargandosi, trascenda producendosi nella forma di una non più ricomponibile crisi ambientale, nel disastro.

Nel contempo un equilibrio quasi secolare connotato dall’egemonia USA (Bretton Woods) si è rotto, l’unipolarismo  imperiale è incrinato dall’emergere prepotente di nuovi centri ed economie-mondo: un passaggio lungo e tormentato quanto inevitabile che solo una guerra generalizzata può bloccare,  a spese dell’intero pianeta e a costo della sua rovina. Poiché la Cina è l’obiettivo vero e finale dell’offensiva occidentale, chi si augura una sconfitta della Russia in Ucraina  non si rende conto che essa può indurre quel Paese asiatico ad anticipare le mosse dell’avversario entrando direttamente in guerra a fianco della Federazione Russa.

La globalizzazione, oggi in crisi per ragioni geopolitiche di cui sopra, ha visto imporsi  a livello mondiale il modello neoliberista, onnipervasivo e tendenzialmente totalitario,  modello che ha ridefinito in senso fortemente individualistico il profilo dell’homo oeconomicus (la concorrenza purchessia come paradigma, variante  economico/politica del conflitto armato: vincitori e vinti, vivi e morti): da qui la privatizzazione dei beni comuni ed il venir meno dell’welfare. Di più il predominio della finanziarizzazione,  se da un lato espone il sistema mondiale a ricorrenti crisi speculative, dall’altro oscura, rende anonima l’identità, il volto del padrone di turno (fondi di investimento) rendendolo sfuggente ad un potenziale scontro di classe.

Sul piano delle forze politiche le vecchie discriminanti, come quelle in Occidente tra europeisti e sovranisti, sono ormai un ricordo del passato; nell’affermarsi delle democrature e della “società del controllo” la vecchia discriminante antifascista post-seconda guerra non può che cadere, l’estrema destra rientra dunque pienamente nel gioco politico, anche se con una postura di alternativa neo-reazionaria. Quando il declino di una società incombe, come è ora il caso degli Stati Uniti d’America, la collaudata alternanza di potere assicurata dal bipartitismo perfetto entra irrimediabilmente in crisi, tanto che l’auspicata vittoria presidenziale della democratica Kamala Harris non è pensabile possa avvenire senza gravi sconvolgimenti, al limite della guerra civile.

L’alternativa “socialismo o barbarie” sembra sciogliersi in maniera inequivocabile.

Nel tentativo di governare la spinta neoliberista e di addomesticarla in una “terza via” (Tony Blair), i due poli in cui classicamente si era diviso il movimento operaio, stalinismo e socialdemocrazia, entrambi inchiodati su un paradigma sviluppista, si sono degradati in social-liberalismo:  è il caso di dire, come in effetti è accaduto, simul stabunt vel simul cadent.

L’imperialismo persiste nella forma di economie di rapina nei confronti del Terzo e del Quarto Mondo (quasi una seconda accumulazione originaria?), anche se prosegue la tendenziale unificazione capitalistica del pianeta (l’Africa?) nel segno di un’altissima socializzazione del lavoro, segnata da una diffusiva economia della conoscenza e da una crescente produttività garantita dalle tecnologie, specialmente da quelle derivanti dalla rivoluzione informatica e robotica.

Nel contempo il lavoro precedentemente concentrato in grandi agglomerati di manodopera risulta ora spazialmente frantumato  e governato da algoritmi unilateralmente imposti e dunque di difficile controllo e contestazione; mentre riemergono forme di lavoro schiavistico, permane il lavoro gratuito di cura, specialmente ad opera delle donne. A queste asimmetrie corrisponde un’inaudita concentrazione verso l’alto delle ricchezze ed uno sventagliamento delle diseguaglianze  che non si era storicamente mai verificato.

In passato era il conflitto, agito dai sindacati e non solo, a frenare tali tendenze e a garantire tramite il fisco una certa  redistribuzione verso il basso: oggi, anche laddove la sinistra ha assunto connotati liberali regna l’atomizzazione sociale:  essa in qualche modo subisce l’ideologia americana del  “siamo tutti (e ciascuno in maniera diversa) proprietari, tutti imprenditori di se stessi”,  ciò che rende impossibile la ri-formazione di una coscienza di classe. La  contraddizione capitale – lavoro viene oscurata anche laddove, sotto regimi ferocemente autoritari (tipicamente in Estremo Oriente), lo sviluppo delle forze produttive e della manifattura è decisamente più intenso, manifestandosi sotto forme fabbrichistiche.

Se parliamo dell’Occidente, in particolare dell’Italia la contraddizione capitale – lavoro evoca il movimento operaio, una soggettività antagonista, comunista, ma oggi del tutto latente: nel breve/medio periodo non si intravedono le condizioni della rinascita di una coscienza di classe, per le ragioni già enunciate. Forse quando diventasse egemone la consapevolezza per via ecologica dell’intollerabilità del sistema, nuove ragioni antagonistiche potrebbero arricchire e fare riemergere la contraddizione capitale – lavoro.

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Se si va con un ladro… https://www.carmillaonline.com/2024/09/03/84298/ Tue, 03 Sep 2024 21:55:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84298 di Nico Maccentelli

… non ci si può poi stupire se non trovi più il portafoglio. L’intera operazione del Nouveau Front Populaire delle sinistre francesi alle scorse elezioni è stato un potente assist a Macron, che è il nemico principale per le classi subalterne poiché diretta espressione delle oligarchie imperialiste atlantiste. Questo argomento l’avevo già affrontato qui. Infatti, scrivevo riguardo:“… al Front Populaire costituitosi in Francia, è ben evidente che il cuore del progetto guerrafondaio della NATO resta tutto ed è quello che per il nemico di classe conta realmente, in mezzo alla fuffa che la guerra stessa [...]]]> di Nico Maccentelli

… non ci si può poi stupire se non trovi più il portafoglio. L’intera operazione del Nouveau Front Populaire delle sinistre francesi alle scorse elezioni è stato un potente assist a Macron, che è il nemico principale per le classi subalterne poiché diretta espressione delle oligarchie imperialiste atlantiste.
Questo argomento l’avevo già affrontato qui.
Infatti, scrivevo riguardo:“… al Front Populaire costituitosi in Francia, è ben evidente che il cuore del progetto guerrafondaio della NATO resta tutto ed è quello che per il nemico di classe conta realmente, in mezzo alla fuffa che la guerra stessa e la sua economia farà sparire come neve al sole. Questa è la tonnara di cui parlavo all’inizio. Una tonnara politica dove, spiace dirlo, gli attori finali sono degli utili idioti.”

A questo punto, sarebbe interessante sapere che ne pensa la base sociale che ha votato per il FP, i lavoratori, la gente delle banlieu, le componenti sociali scese in piazza contro Macron e le sue politiche, dagli aumenti del gasolio alle pensioni. Cosa ne pensa chi avrebbe vinto, riguardo la parte finale del copione macroniano: ossia del blocco anticostituzionale messo in atto contro il partito maggioritario della coalizione elettorale vincente? Questa base, composta da milioni di francesi, sarebbe stupita di questo?

In realtà tutto è andato secondo i piani dell’oligarchia imperialista espressa dal governo precedente, che poi è quello attuale degli”affari correnti”, e quindi nulla di cui stupirsi, come mostra di esserlo invece il Marrucci nel suo pippone su Ottolina tv. La scoperta dell’acqua calda. Pippone che tuttavia merita comunque di essere visto poiché fa una cronistoria puntale di tutta la vicenda francese del dopo elezioni europee e, per chi volesse saperne di più, rimando a questo contributo.

France Insoumise avrebbe dovuto correre da sola e non dare troppa importanza alla Le Pen, la cui vittoria, checchè ne dicano gli “antifascisti” di facciata, quelli che compaiono nei salotti solo nelle tornate elettorali, non sarebbe stato il male peggiore. Anzi, la linea francese sulla guerra in Ucraina con tutta probabilità avrebbe avuto un segno diverso dai desiderata imposti dal Washington consensus.

Una metodologia politica realmente marxista insegna che tra i nemici di classe esistono un nemico principale e uno secondario. E che ciò non ha nulla a che vedere con il sostrato ideologico, ma con i rapporti di dominio classista. Le oligarchie atlantiste ben espresse politicamente dalle sinistre dem e socialdemocratiche sono le frazioni di borghesia imperialista dominanti nell’Occidente collettivo, sono il nemico principale. Vedere l’orbace e il gagliardetto come grande pericolo per una democrazia che in Occidente non esiste, è un po’ come vedere il dito che indica la luna. È lo specchietto per allodole. In altre parole non è politica di classe e rivoluzionaria. È bene che qualuno lo ricordi ai vari Melenchon, così come alla nostra sinistra radicale che ripete un inciucio dietro l’altro senza sganciarsi dal treno dell’euroimperialismo di sinistra.

Se il metodo fosse stato questo, invece di scimmiottare il fronte popolare degli anni ’30, avremmo avuto il rafforzamento di un vero fronte di classe e non l’illusione di andare a governare con il vero nemico principale, o di esserne trombati come utili idioti. Ma soprattutto non si sarebbe servito lo scopo principale delle oligarchie imperialiste, ossia fare la guerra. Il che definisce anche lo scopo che dovrebbe avere qualsiasi forza realmente di classe e antimperialista: scongiurare la guerra, ostacolarla con ogni mezzo. Non ostacolare anche il peggiore dei fascisti se questi manda a carte e quarantotto il processo guerrafondaio USA-NATO. E che lo facesse pure per meri interessi meschini di volontà di potenza nel riprendere il gas russo. Senza radioattività e città devastate avremmo comunque la possibilità di rivolgerci contro questo nuovo nemico principale. Questo ci dice il leninismo (1). È con questo metro che va vista una certa destra trumpiana, orbaniana, lepenista. Utili nemici, non certo alleati, ma fermare la guerra nel nostro continente anche per interessi nazionali, serve anche la rivoluzione, servendo nel contempo le umane aspirazioni a non essere distrutti, a non far pagare il conto a noi europei per soddisfare i profitti di un’eventuale ma penso poco probabile ricostruzione da parte dei famelici speculatori di Wall Street.

E invece, se ci pensate bene, gli ultimi passaggi politici di certa sinistra nostrana che dicesi comunista, sono andati esattamente nella direzione opposta, andando a pestare i calli di chi da Putin per aprire un confronto ci è andato sul serio, prendendosi gli strali degli “antifascisti”(2) che governano a Bruxelles, quelli che danno armi e sostegno ai nazisti di Kiev, imponendo insieme a USA il grande macello guerrafondaio del popolo ucraino.

Dunque, se poi ci pensate ancor meglio, i risvolti della vicenda politica nazionale francese sono un messaggio anche per la nostra sinistra radicale, anche per i comunisti nostrani più incalliti, capaci solo di ripetere le eterne verità sul piano ideologico, senza però fare alcun passo politico che li porti fuori da una deriva che ormai dura da decenni.

Occorre sganciarsi da una sinistra ormai neoliberale, filo-imperialista, che oggi serve devastazione sociale e guerra servendosi del paravento antifascista, buono per i gonzi, e dei “diritti umani” che però se al governo calpesta costantemente con misure economiche draconiane, che non favoriscono certo le classi popolari e chi arriva con i barconi. Occorre scegliere da che parte stare, multipolarsimo e non europeismo, decolonizzazione anche del nostro paese e non suprematismo per censo, anglocentrismo camuffato da mistificazione woke e cancel culture.

Fortunatamente in Germania la situazione è già un po’ diversa e con il BSW di Sahra Wagenknecht ci sono maggiori possibilità di affermazione di un’opposizione popolare antimperialista e antimilitarista. Nelle elezioni regionali in Sassonia e Turingia BSW è arrivato terzo, superando la sinistra neoliberale della ztl, socialdemocratici e verdi. La sua politica paga sul piano di un consenso crescente proprio perché fuori e contro la sinistra zerbino del neoliberismo atlantista, proprio perché recepisce tutto il disagio sociale dei settori meno abbienti, senza infingimenti, senza la falsa ideologia del politically correct, perché si pone contro la guerra non a chiacchiere, mettendo tutti i borghesi, le loro frazioni sullo stesso piano, ma facendo appunto politica (ho ampliato il ragionamento qui).  Sarà interessante vedere le scelte politiche che BSW farà, se di coalizione, oppure di opposizione. Ma certamente la formula delle “sinistre unite” è poprio in Germania che si rivela inadeguata e controproducente.

C’è più leninismo (anche se elettoralistico) in una ex Die Linke come la Wagenknecht (3), che in un qualsiasi falcemartellaro dogmatico, con le iconcine di Marx, Stalin o Trotsky usate come i santini scacciamaligno. O in qualsiasi centrosocialaro dirittumanitarista che vota una Rackete che poi sposa la versione imperialista sul Venezuela bolivariano.

Quello che la sinistra “antagonista” nel suo complesso non comprende è proprio l’urgenza di andare oltre i giochi politici condotti dal mondo dem e dalle sue armi culturali di distrazione di micro-massa. Urgenza dettata da un ruolino di marcia che ci porta sempre di più dentro la guerra imperialista.
È inutile stupirsi come fa anche il pur acuto e bravo Marrucci del golpe di Macron. Il colpo di stato internazionale da parte dei signori di Davos è già in atto da anni: la fase del COVID, come annichilimento delle masse in un controllo distopico e biopolitico, ne è stato un passaggio che solo dei pesci in barile ostinati vogliono non vedere. E tutta la chiave di lettura di questa traiettoria si falsa.

La differenza sta nel fatto che Macron non deve più nemmeno fingere e costituzionalmente impedisce a una coalizione che ha vinto le elezioni di governare, pone dei veti illegali alla forza maggioritaria di questa coalizione, trombando France Insoumise nel nome di un presunto quanto inesistente antisemitismo. Una scusa vale al’altra, alla bisogna.
Ma già i parlamenti vengono bypassati in tutto l’Occidente atlantista, e i luoghi decisionali sono di fatto quelli tecnocratici del potere profondo, che hanno sede altrove, nei palazzi della finanza, e negli organismi che uniscono finanzieri e tycoon delle porte girevoli, economisti, politici, think tank, uomini d’apparato con tutti i massmediatici al seguito.

Forse l’operazione dovrebbe essere un’altra: denunciare questo passaggio francese del golpe permanente globale, dando un quadro complessivo della situazione, collegando tutti i puntini del disegno sovranazionale. Troppo per chi non ha ancora capito dove sia il nemico e cosa sia il suo piano o, per lo meno, nella migliore delle ipotesi, non ha inquadrato ancora bene la situazione.
Altro che fascismo: qui mancano solo le “leggi fascistissime” del 1925 in salsa francese. E domani è un altro giorno come se niente fosse, nella falsa realtà della comunicazione di massa drogata.

Questa traiettoria verso un bellicismo neoliberale che non ammette altri aggregati e contesti decisionali che non siano quelli voluti nelle stanze dei poteri più profondi, è proprio il passaggio odierno di questa guerra, che spiega l’accelerazione autoritaria decisa dai think tank imperialisti. La differenza con lo stillicidio del togliere spazi di democrazia e ambiti di decisionalità parlamentare un po’ per volta, sta nel fatto che proprio per il must guerrafondaio a tutti i costi, deciso dal Washington consensus e dai suoi satrapi, viene gestito in modo extra-costituzionale con le cannoniere dei media, che fabbricano nemici da criminalizzare e imbastiscono campagne basate su mezogne e sulla distorsione dei fatti. Un metaverso rovesciato, dove il genocidio del popolo palestinese è lotta al terrorismo, la guerra della NATO preparata in anni di espansionismo e aggressioni militariste contro la Russia è sostegno a una nazione invasa, i nazisti sono lettori di Kant, le vittime sono carnefici e viceversa, la guerra è pace… ricorda qualcosa?

Dov’è finito l’orbace di Orban? Se si uscisse solo per qualche istante da questa narrazione drogata che influenza persino le menti presuntuosamente più antagoniste al potere borghese, forse si inizierebbe a capire l’eurolager dell’indottrinamento di massa, la propaganda ossessiva che ci trasformerà in carne da macello.

E qui veniamo alla pars construens. Quello che i miopi non hanno compreso dalle loro torri d’avorio dell’avaguardismo politicante invisibile alla massa della popolazione italiana, è l’insegnamento che si deve trarre dal grande se pur breve movimento di popolo che si è avuto nei tre anni e passa di restrizioni biopolitiche e dall’uso delle tecnologie sioniste del controllo già sperimentate sui palestinesi (4), nei tre anni di cui sopra (5).
In presenza di un’avanguardia vera, le cose sarebbero andate diversamente, perché se la controparte ha capito che fino a che punto puoi restringere gli spazi di vita e socialità della popolazione, lo dovrebbe aver capito anche questa avanguardia. E una massa così vasta, se organizzata anche solo in parte, avrebbe dato dei bei problemi al nemico imperialista e colonizzatore del nostro territorio, delle nostre attività sociali ed economiche, della nostra cultura e della nostra mente.

Organizzazione, linea politica, programma, obbiettivi e un’egemonia da conquistare nel movimento stesso. Cosa c’è di tanto diverso da un impianto leniniano? Nulla, se si considera finalmente la situazione concreta. Con un’avvertenza che ci dà lo stesso Lenin. Non lo cito, ma il succo è questo: non esiste la rivoluzione che vorremmo nei nostri pii desideri, ma i movimenti sono quello che sono storicamente e il nostro compito è quello di organizzarli e orientarli verso obiettivi realistici. La politica è l’arte del possibile e non una lista della spesa delle migliori utopie. E se i ceti medi d’Occidente vengono devastati dalle tecnocrazie degli oligopoli finanziari e multinazionali, occorre capire che senza questi ceti in via di proletarizzazione e precarizzazione, defraudati di lavoro, risparmi, immobili e censo, non si andrà da nessuna parte. E che il problema semmai è lavorare per costruire un’egemonia che sappia affrontare una lunga fase che insieme al multipolarismo porrà nella lotta di classe questioni che oggi neppure possiamo immaginarci.

E ora passiamo alla guerra imperialista che stanno preparando nel continente, conducendoci dentro questa a passi da gigante. Una popolazione che vive uno stato di guerra da sempre ha più attitudine ad accettarlo. Ma provate a pensare a popolazioni che non l’hanno vissuta, dove da ottant’anni e passa vivono non come le generazioni che l’hanno subita, come la prenderebbero?
Come l’ha presa la situazione distopica delle limitazioni da covid gran parte della popolazione? Cominciate a capire? Comprendete a cosa è servito quel passaggio sociale, antropologico, non certo determinato da un pangolino amoroso? (6)

Per questo occorre prepararsi per la futura situazione in cui ci sarà il ripristino di una leva obbligatoria, di giovani e meno giovani a crepare nelle pianure ucraine, leggi d’emergenza, addirittura la realtà di un territorio messo a ferro e fuoco: tutto ciò che concerne una situazione di guerra. Ecco il nostro compito. Il loro problema è abituare le masse a tutto questo. Il nostro è quello di organizzare rivolte sociali nella massa critica che si formerà in opposizione a tutto questo, di fronte al dato di fatto che la democrazia liberale è morta, che un Macron qualsiasi, uomo dell’entourage di Rothschild, del simulacro della democrazia, ossia di ciò che resta, ne fa spazzatura.
Rendere ingovernabile il loro sistema e il loro ruolino di marcia, inceppare i loro dispositivi di comando in ogni ambito sociale, politico, mediatico, vertenziale e sindacale.

Non siamo di fronte a un attacco alla scala mobile o all’art. 18. In questi ultimi anni i mutamenti che stanno avvenendo sulla vita di milioni di persone, che sia l’economia di guerra, della quale abbiamo già iniziato a provarne i morsi, o uno stato di guerra vera e propria, non saranno così semplici da farli ingoiare a questo tipo di popolazione, agli abitanti dei paesi a capitalismo avanzato. La battaglia sociale va preparata in modo adeguato, poiché di questo si tratterà, quando le masse popolari si troveranno ancora di più in questa sorta di distopia antropologica. Anche se oggi ancora non se ne rende ancora bene conto, questa massa farà in fretta a divenire critica quando verranno superati certi limiti. La censura di regime, che ci parla di un popolo ucraino solidale e resistente, quando invece c’è una situazione di diserzione di massa e i civili scappano per non diventare carne da cannone per nazisti e angloamericani, è una censura che serve anche a occultare la traiettoria della guerra imperialista nell’Occidente europeo. Quello che ci aspetta.

Questa è la questione. E prima lo capiremo utilizzando ogni arma disponibile e opportuna, ogni possibile interlocutore pur di ostacolare il loro progetto criminale, di veri criminali di guerra, e meglio sarà.

 

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NOTE:

1) Per approfondire questa questione di tattica leninista si legga:

di Mao Tse Tung: “Il ruolo del Partito Comunista Cinese nella guerra nazionale”, otttobre 1938, Opere di Mao Tse Tung, volume 7

e l’intervista a Lev Trotsky fatta da Mateo Fossa il 23 settembre 1938 farà tremare le vene ai polsi di chi definisce fascisti, intrisi di pensiero borghese e reazionari coloro dei quali non sanno dare una collocazione politica (tanto meno sociale) secondo l’analisi concreta della situazione concreta e dei movimenti di massa:
In Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese potrebbe condurre al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!

I vari “ismi” dottrinari di oggi, caricature del comunismo e vere e proprie tifoserie demagogiche, hanno in comune tra loro l’inconsistenza politica, quanto i padri della Terza e Quarta Internazionale hanno avuto invece come denominatore comune i fondamentali della strategia politica leniniana. Le divisioni e i conflitti interni al movimento comunsta non erano certo su delle stronzate come oggi.

 

2) Esilarante, se non ci fosse da piangere lacrime di sangue, il Borrell a Ventotene, che celebra Spinelli, lui che ha definito “giardino” l’Europa e “giungla” il resto del mondo, quello delle “autocrazie”

 

3) Giusto per capire la “rossobruna” Sahra, rimando al suo saggio: “Contro la sinistra neoliberale” Fazi Editore, e citando un post di Vallepiano, evidenzio una breve biografia e alcune prese di posizione nel tempo che ci fanno capire che solo dei dementi o in mala fede possona tacciarla di rossobrunismo. La Wagenknecht uno dei massimi quadri politici della sinistra tedesca, definita da sempre da lavoratori, disoccupati e semischiavi del sistema Hartz “Die Rote Sahra”. Cresciuta nella DDR, fu dirigente giovanile del Partito Socialista Unificato, Il suo idolo era Walter Ulbricht, leader della Repubblica Democratica Tedesca e fiduciario di Stalin, che nel 1953 sedò una rivolta fomentata dagli USA armando le milizie operaie e con l’aiuto dei carri armati sovietici. Ecco alcune sue frasi più che eloquenti:

Per lei la caduta del Muro di Berlino fu:”Il momento più difficile che avesse mai affrontato”.

Nel suoprimo discorso al Bundestag disse della DDR: “Cinque anni fa è morto un Paese in cui c’era almeno un tentativo di costruire una società non guidata dal profitto. Oggi vediamo di nuovo il dominio del capitalismo. Per me questo è un chiaro passo indietro. La DDR è stata la Germania più pacifica, più sociale, più umana in ogni fase del suo sviluppo, a dispetto delle critiche specifiche che si possono muovere nei suoi confronti

Nel 2004 ha pubblicato il saggio: “Al Presidente: Hugo Chávez e il futuro del Venezuela” dove tratta la rivoluzione bolivariana come modello rivoluzionario per il Socialismo, definendo Chavez come “Un grande Presidente che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per la giustizia e la dignità”

Di Fidel Castro ha detto: “Si è battuto per un mondo migliore, è un democratico in tutto e per tutto. Ha amato il suo popolo e il suo popolo ama lui”

Su posizioni filo-palestinesi, viene espulsa per “antisemitismo” dalla Die Linke, ossia la sinistra liberale delle ztl. Contro la guerra della NATO e per un Europa fatta di stati nazionali e sovrani, quando  Zelensky è fu invitato a parlare al Bundestag, Sahra lasciò l’aula e organizzò una contestazione.

 

4) Utile è la lettura di “Laboratorio Palestina, come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto i mondo”, di Antony Loewenstein, Fazi Editore, che oggi è certamente tecnologia dello sterminio

 

5) Per un’analisi di classe su quelli che non sono movimenti prettamente e soltanto proletari, ma trasversali a una società, a settori sociali che si ribellano alla dittatura biopolitica, alla guerra sociale dall’altro contro il basso e come probabilemnte sarà all’epoca di guerra che ci aspetta, di ceti sociali devastati dalla distruzione creativa draghiana, dalla amazonizzazione delle filiere produttive e del terziario, rimando al mio contributo su Carmillaonline qui e qui.

6) A tal proposito riprendo l’analisi di R.M. un compagno dell’Assemblea Militante, che definisce piuttosto bene il passaggio epocale che stiamo vivendo:

Dal Covid in poi continuando con Nord Stream 2, guerre ed elezioni varie nella sfera occidentale è diventato lapalissiano che il patto sociale su cui si fondavano gli stati borghesi,comprese le istituzioni consociative tipo EU, FMI, NATO, ONU, multinazionali monetarie, nati dopo la rivoluzione francese e le due guerre mondiali è definitivamente saltato. Si è aperta una fase di conflitto civile e sociale prodromo di una imminente guerra. La società è a brandelli e c’è chi ne approfitta economicamente e politicamente per imporre un nuovo fascismo e militarizzare le nostre società.

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Lotta di classe western https://www.carmillaonline.com/2024/02/27/lotta-di-classe-western/ Mon, 26 Feb 2024 23:01:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81502 di Luca Cangianti

Louis Adamic, Dynamite! Storie di violenza di classe in America, Alegre, 2023, traduzione e cura di Andrea Olivieri, pp. 576, € 24,00 stampa, 14,99 ebook.

«Ho l’impressione che ci aspettino grandi cambiamenti in questo paese, e quando arriveranno probabilmente ci renderemo conto… che nessun cranio è stato rotto invano dal manganello di un poliziotto durante questa depressione, né una sola goccia di sangue è stata sparsa senza senso.» Così scriveva una conoscente a Louis Adamic, operaio emigrato negli Stati Uniti dalla Slovenia austroungarica, autodidatta e poi scrittore di discreta fama. In effetti il suo libro Dynamite! – uscito per [...]]]> di Luca Cangianti

Louis Adamic, Dynamite! Storie di violenza di classe in America, Alegre, 2023, traduzione e cura di Andrea Olivieri, pp. 576, € 24,00 stampa, 14,99 ebook.

«Ho l’impressione che ci aspettino grandi cambiamenti in questo paese, e quando arriveranno probabilmente ci renderemo conto… che nessun cranio è stato rotto invano dal manganello di un poliziotto durante questa depressione, né una sola goccia di sangue è stata sparsa senza senso.» Così scriveva una conoscente a Louis Adamic, operaio emigrato negli Stati Uniti dalla Slovenia austroungarica, autodidatta e poi scrittore di discreta fama. In effetti il suo libro Dynamite! – uscito per la prima volta nel 1931 – è prevalentemente una sequela di lotte sconfitte, ma, come ci ha insegnato Valerio Evangelisti, non inutili, «perché già la battaglia è liberazione».

Si parte dalla metà dell’ottocento con i Molly Maguires, una società segreta di minatori che non vedeva contraddizione alcuna tra l’assassinio di padroni e crumiri, e l’ossequio più sincero al cattolicesimo irlandese. Si prosegue con le orde anarchiche, radicali e socialiste provenienti dalle rivoluzioni europee represse nel sangue, tra bombe, bandiere rosse e nere, la Marsigliese gridata nelle rivolte di piazza e i primi goffi tentativi di organizzazione sindacale ancora imbevuti di esoterismo e di spirito didattico-moraleggiante. Si pensi ai Knights of Labor che cercavano di rendere gli operai gentiluomini inducendoli a smettere di bere. Nascono le prime agenzie specializzate in spionaggio e attività antisindacali, cui i lavoratori rispondono con la stessa moneta: i cecchini operai puntano le canne dei fucili sui sicari delle aziende, fanno esplodere le loro proprietà e negoziano facendo girare il tamburo delle proprie colt. Nel frattempo i cerimoniali dei Knights of Labor vengono soppiantati dal sindacalismo di mestiere «puro e semplice» dell’American Federation of Labor. «L’attitudine della Afl nei confronti della società», racconta Adamic «era, per molti aspetti, non dissimile da quella dei capitalisti. I dirigenti dei sindacati di categoria erano inclini a conquistare per sé stessi e per i loro membri tutto il possibile date le condizioni, ogni volta fosse possibile, attraverso ogni mezzo – inclusa la dinamite – che non implicasse gravi rischi per sé stessi e per i destini dell’organizzazione.» Un pugno «imbullonato» sulla faccia di un crumiro da parte di un «gorilla» costa cinquanta dollari, a New York e a Chicago dilaga la moda degli abiti concepiti per nascondere pistole e fucili, la criminalità organizzata viene ingaggiata per far avanzare le «negoziazioni». D’altra parte l’Afl non si fa scrupolo di aggredire sindacati concorrenti come gli Industrial Workers of the World – un’organizzazione operaia rivoluzionaria, strutturata lungo linee industriali, anziché di mestiere, che pratica l’azione diretta. «Nell’autunno del 1909 le autorità a Spokane incarcerarono tutti i relatori wobbly che tentarono di tenere comizi nelle strade. I sindacati degli Iww fecero resistenza e inviarono uomini e donne per tenere altri comizi, finchè più di cinquecento wobbly intasarono la prigione cittadina.» Un’altra volta, per fare approvare un provvedimento di emergenza che predisponesse alloggi e pasti gratuiti per gli indigenti, centinaia di wobblies (così venivano chiamati gli appartenenti a questo strano sindacato) si riversano su St. Louis mangiano e bevono a crepapelle nei vari ristoranti locali sostenendo che il conto vada spedito al sindaco. Nel frattempo passano gli anni, scoppia la rivoluzione in Russia, e i comunisti compaiono perfino negli Stati Uniti, ma quelli descritti da Adamic assomigliano poco allo stereotipo leninista e molto di più a un lavapiatti di sua conoscenza che per affermare i propri diritti versa taniche di kerosene nei barili di zucchero e piscia nei contenitori del caffè e del tè.

Nella nuova edizione critica di Andrea Olivieri – di cui si segnala anche Una cosa oscura, senza pregioDynamite! si è guadagnato due copertine e l’appartenenza incrociata sia alla collana Quinto tipo diretta da Wu Ming 1 che a quella Working Class diretta da Alberto Prunetti. Il motivo di questa scelta sta probabilmente nella pluralità dei volti esibiti dall’opera: reportage, inchiesta sociologica, ricostruzione storica, new journalism, pamphlet di denuncia, ma anche letteratura working class, hard boiled, memoir travisato in cui si mischiano fiction e non fiction. Adamic, senza dichiaralo, racconta in presa diretta eventi in cui non era presente; rompe il patto di fiducia con il lettore, ma il risultato non è un falso, ancorché il prodotto sia inaccurato. La narrazione, infatti, proprio grazie al suo carattere ibrido (o «colorito» come definì Evangelisti1) ne beneficia in profondità. Si prendano ad esempio alcune suggestive descrizioni di personaggi. Iniziamo con Eugene V. Debs, candidato socialista alle elezioni presidenziali nel 1900 e nel 1904: «alto, magro, un fanatico dalla voce gentile, di grande potere persuasivo, un messia infiammato da sentimenti per gli umili e gli oppressi». E ancora Big Bill Haywood, leader degli Iww: «una forza della natura, con la prestanza fisica di un bue, una testa enorme e una mascella tremenda. Duro, diretto, di resistenza immensa, insofferente davanti agli ostacoli, privo di prudenza, violento, pronto a battersi colpo su colpo, gran bevitore». E infine i sindacalisti dell’Afl: «Per lo più sono uomini di mezza età o anziani benestanti, conformisti, ben vestiti, ben rasati, dalle guance floride, dal doppio o triplo mento, con pance ampie solcate da catenelle d’orologio in oro e spillette sulla cravatta. Guidano belle macchine o viaggiano in taxi tra gli hotel, i migliori della città, e le sale dei congressi. Hanno mani soffici e grassocce, desiderose di stringere altre mani. Sono tipi spigliati, dai modi amichevoli e professionali.»

Quella che emerge da Dynamite! è una storia di conflitti di classe così violenti da non permettere più la partizione semplicistica tra buoni e cattivi. Se una differenza ancora c’è – e questo emerge chiaramente nel racconto di Adamic – è che la violenza dei proletari (piaccia o meno) è solo legittima, disperata ed estrema, difesa.


  1. Lo scrittore bolognese ha dedicato alla lotta di classe negli Stati Uniti i tre romanzi del Ciclo americano: Antracite, Mondadori, 2003; Noi saremo tutto, Mondadori, 2004, One big union, Mondadori, 2011. 

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In attesa di un altro mondo: tre film sulla fine del sogno americano https://www.carmillaonline.com/2024/01/17/in-attesa-di-un-altro-mondo-tre-film-sulla-fine-del-sogno-americano/ Wed, 17 Jan 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80746 di Sandro Moiso

Ha avuto inizio a Venezia, il 9 gennaio di quest’anno, una rassegna cinematografica “itinerante” di tre film e documentari di tre registi italiani under 40 che hanno vissuto parte della propria vita negli Stati Uniti e che hanno deciso di raccontarne aspetti sociali, ambientali e politici molto al di fuori dell’immagine che troppo spesso viene proiettata dai media di ciò che un tempo era definito come American Way of Life.

La rassegna, che proseguirà in altre città italiane (Bassano del Grappa, Brescia, Roma e Genova) fino al 15 marzo 2024, comprende: Stonebreakers (Italia 2022, 70 minuti) di [...]]]> di Sandro Moiso

Ha avuto inizio a Venezia, il 9 gennaio di quest’anno, una rassegna cinematografica “itinerante” di tre film e documentari di tre registi italiani under 40 che hanno vissuto parte della propria vita negli Stati Uniti e che hanno deciso di raccontarne aspetti sociali, ambientali e politici molto al di fuori dell’immagine che troppo spesso viene proiettata dai media di ciò che un tempo era definito come American Way of Life.

La rassegna, che proseguirà in altre città italiane (Bassano del Grappa, Brescia, Roma e Genova) fino al 15 marzo 2024, comprende: Stonebreakers (Italia 2022, 70 minuti) di Valerio Ciriaci, West of Babylonia (Italia – USA 2020, 82 minuti) di Emanuele Mengotti e Last Stop Before Chocolate Mountain ( Italia 2022, 90 minuti) di Susanna Della Sala.

Il titolo della medesima rassegna è già per sé indicativo del contenuto dei tre pregevoli film presentati: Rovine d’America. E, in effetti, anche se si occupano di soggetti, località, problematiche e, dunque, storie spesso molto diverse tra di loro ciò che li accomuna è proprio il discorso su una civiltà giunta al suo tramonto. Una società che è stata modello e guida per il mondo occidentale almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale e che oggi vede i suoi miti, i suoi presupposti politico-economici e l’immaginario che ne è derivato volgere rapidamente al tramonto.

Una sorta di Sunset Boulevard su cui si muovono emarginati, ribelli, sognatori, outsiders, attivisti, hippie, fuorilegge, irregolari, persone senza fissa dimora che, per mille ragioni diverse, rappresentano allo stesso tempo il futuro e il passato della decadenza di un mondo che un tempo si poneva al centro dell’economia, della politica, dell’immaginario e della cultura mondiale e che oggi cerca ancora di rinnovare i suoi fasti in un proseguio di guerre senza fine e senza speranza di uscita o di vittoria.

I tre film non parlano di guerra o guerre, ma almeno nel caso dei film di Emanuele Mengotti e Susanna Della Sala lo scenario bellico fa da contorno ai luoghi e alle vicende narrate, visto che in prossimità sia di Slab City che di Bombay Beach esistono ancora poligoni di tiro e di addestramento per l’esercito e l’aviazione degli Stati Uniti, mentre in quello di Valerio Ciriaci si fanno più che evidenti le linee di faglia di una guerra civile americana che, più che una proiezione dell’immaginario “politico” di Donald Trump e dei suoi sostenitori come vorrebbe la narrazione liberal europea, si profila come una concreta realtà possibile proprio a causa delle divisioni sempre più profonde e radicalizzate che attraversano la società di quella che un tempo, e soltanto in funzione mitopoietica, poteva essere rappresentata come Land of the Free.

Le tre opere cinematografiche, estremamente lucide e personali, mostrano un’America spezzata, alle prese con la crisi di un mito che ha affascinato milioni di persone in tutto il mondo, mentre contemporaneamente è in atto un conflitto culturale che coinvolge i suoi abitanti ed è oggetto di dibattito anche fuori dai suoi confini. La rassegna è nata dunque dall’esigenza di creare «un momento di discussione a proposito di una terra in trasformazione, dove dalle rovine di un passato spesso idealizzato sentiamo oggi levarsi un potente grido di liberazione, che ci dice che quel modello non è più tale. Fare i conti con il passato non significa congelarlo, ma affrontarlo e riaprire la discussione, per attualizzarlo», come affermano i tre registi, che in momenti diversi saranno presenti alle proiezioni proprio per confrontarsi con il pubblico, nei mesi in cui il dibattito intorno alle prossime elezioni presidenziali americane inizierà a farsi più intenso e acceso.

West of Babylonia (qui il trailer) è il primo film di una trilogia dedicata all’Ovest degli Stati Uniti. Un caleidoscopio di personaggi e storie che vivono ed abitano a Slab City, in California, dove si vive senza acqua corrente e senza elettricità. Le strade sono sterrate e la popolazione (gli “Slabber”) oscilla tra le 400 persone d’estate e le 4000 d’inverno. Gli Slabber sono giovani e anziani, hippy e neonazisti, fuorilegge, artisti. Tutti accomunati dalla voglia di essere liberi e di non dover rispondere alle regole della società americana. Tutto ciò che sta al di fuori di Slab City per loro è “Babylonia”.

Slab City nasce sul terreno di una base militare attiva durante la Seconda Guerra Mondiale. Nei primi anni cinquanta le persone iniziarono a dimorarvi, mentre negli anni ottanta si ebbe un vero e proprio boom di residenti, in un paesaggio che ricorda le ambientazioni dei film western e, allo stesso tempo, un mondo apocalittico simile a quello prospettato da Mad Max. Il deserto di Sonora, uno dei più aspri e inospitali del pianeta1, circonda con la sua stupefacente bellezza, la vita di coloro che rifuggendo il mondo hanno creato per sé un altro modo di esistere. Prossimo, però, più a quello che potremmo immaginare descritto nelle cronache di un dopo-bomba più che all’evoluzione in direzione di una società più giusta o utopica.
Il film, perfetto nelle immagini ma con qualche difetto per quanto riguarda i sottotitoli italiani2, è stato presentato in concorso ufficiale al Biografilm di Bologna nel 2020 e ha fatto parte della media library di Vision du Réel.

Last Stop Before Chocolate Mountain (qui il trailer) è nato da un’esperienza di vita personale e il suo percorso creativo è stato un lungo processo durato quattro anni. Come afferma la regista: « rappresenta per me un luogo universale e metaforico in cui ci mettiamo a confronto con noi stessi, risvegliando il nostro impulso creativo, nel miraggio di una liberazione individuale. Il film racchiude l’anelito collettivo, disperato e gioioso al tempo stesso, verso l’accettazione e il senso di appartenenza.»

Bombay Beach è un luogo a sud della California, 350 chilometri a sud-est di Los Angeles, conosciuto per il suo lago tossico, il Salton Sea. Meta turistica tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta di artisti quali Frank Sinatra e i Beach Boys, adesso città in gran parte abbandonata del declino ambientale ed economico.

Il lago Salton Sea è poco profondo, senza sbocco sul mare e altamente salino, situato all’estremità meridionale della California. Nel corso di milioni di anni, il fiume Colorado aveva creato in quel territorio un deposito alluvionato, creando fertili terreni agricoli e spostando costantemente il suo corso principale e il suo delta. Il fiume scorreva alternativamente nella valle o deviava intorno ad essa, creando rispettivamente un lago salato o un bacino desertico asciutto. Il livello del lago è dipeso quindi per secoli dai flussi del fiume e dall’equilibrio tra afflusso e perdita per evaporazione.

L’attuale lago si è formato da un afflusso di acqua dal fiume Colorado nel 1905. A partire dal 1900, infatti, un canale di irrigazione è stato scavato dal fiume Colorado al vecchio canale del fiume Alamo per fornire acqua alla Imperial Valley per l’agricoltura. Le paratoie e i canali hanno subito un accumulo di limo, motivo per cui furono effettuati una serie di tagli sulla riva del fiume Colorado per aumentare ulteriormente il flusso d’acqua. Però, l’acqua delle inondazioni primaverili ha superato gli argini del canale, deviando una parte del flusso del fiume nel bacino di Salton per due anni prima che le riparazioni fossero completate. L’acqua nel letto del lago precedentemente asciutto ha creato il lago moderno, che è di circa 24 per 56 km nel suo punto più largo e più lungo.

All’inizio del XX secolo il lago si sarebbe prosciugato, se non fosse stato che gli agricoltori usavano grandi quantità di acqua del fiume Colorado per l’irrigazione e lasciavano che l’eccesso fluisse nel lago. Negli anni ’50 e ’60, l’area divenne così una meta turistica, in cui crebbero hotel e case vacanza, di cui alcuni motivi di attrazione erano costituiti dal birdwatching e dalla pesca.

Negli anni ’70, a causa del cambiamento dei sistemi di irrigazione, gli scienziati lanciarono un allarme perché il lago avrebbe continuato a ridursi e diventare più inospitale per la fauna selvatica. Mentre, negli anni ’80, la contaminazione da deflusso agricolo ha favorito l’inquinamento e la diffusione di epidemie perniciose tra la fauna selvatica. Si sono così verificate massicce morie di uccelli, soprattutto dopo la scomparsa di diverse specie di pesci, da cui dipendevano, dovute all’enorme aumento della salinità dell’acqua. Cosa che spesso ha contribuito a rovinare il litorale del lago a causa dell’accumulo delle loro carcasse e a rovinare, riducendolo sempre di più, il turismo.

Susanna Della Sala documenta ed esplora le cause che hanno portato al tracollo di questa città fantasma, attraverso le voci di alcuni outsider del posto. Un’anziana e coraggiosa donna, Sonia, che manda avanti una delle poche attività di ristoro rimaste aperte; uno dei suoi figli, Adam, un rapinatore di banche in pensione, un artista in fuga da Los Angeles e il figlio squattrinato di un principe italiano.

In tal modo la regista scopre un universo dove tutto ciò che è “non allineato” diventa una forma di espressione di sé stessi, un mezzo per poter vivere insieme in un territorio privo di leggi. Così chi ha deciso di restare dando vita ad una piccola comunità dove l’arte, non solo guarisce gli animi, ma rende Bombay Beach un luogo magico, finisce con l’indicare una via per una rinascita. Individuale e collettiva.

La creazione, da parte di questa eccentrica comunità, di un festival artistico annuale, la Biennale di Bombay Beach, ha in tal modo iniziato ad attirare nuovamente dei visitatori, artisti, intellettuali, organizzatori di eventi e appassionati che vengono attirati dalla vitalità del posto.

Last Stop Before Chocolate Montain, un film dalla fotografia, sceneggiatura e colonna sonora praticamente perfette, vincitore di tre premi all’ultimo Festival dei Popoli di Firenze, non vuole essere una risposta alla crisi generale attuale, ma una dimostrazione che anche dalle rovine di ciò che si è stati si può ripartire.

Stonebreakers (qui il trailer) racconta, invece, cosa è accaduto negli Stati Uniti nel 2020, durante la rivolta Black Lives Matter a seguito dell’omicidio di George Floyd e le elezioni presidenziali, quando ha avuto inizio una vera e propria battaglia attorno ai monumenti storici. Un conflitto culturale e politico che ha iniziato a mettere in discussione il racconto della Storia d’America, insieme alla sua celebrazione attraverso le statue di Cristoforo Colombo, dei confederati e dei padri fondatori.

Il film ha partecipato a festival internazionali e nel 2022 ha ottenuto diversi premi: il Premio per la distribuzione Imperdibili, la menzione della Giuria e il Premio del pubblico Mymovies al Festival dei Popoli, il Premio per il Miglior montaggio e per la Migliore produzione di film documentario all’History Film Fest, infine il Premio Suono e Territori al Festival Mente Locale – Visioni sul Territorio.

Tra i tre è forse quello che maggiormente indica una strada collettiva per il superamento di una condizione sociale che non è soltanto quella degli afro-americani, dei nativi e dei latinos privati di risorse e diritti, ma anche di coloro che, pur sentendosi convintamente e intimamente “americani”, come ad esempio gli italo-americani così legati all’immagine di Cristoforo Colombo, dimenticano l’espropriazione della memoria operato a danno della loro comunità e di tutti coloro che in passato hanno contribuito allo sviluppo della nazione e dell’economia americane, senza però poterne cogliere i frutti più ricchi e importanti, sempre riservati alla classe dominante e agli imprenditori, banchieri e finanzieri, ieri come oggi autentici robber barons del capitalismo americano.

Mentre nei primi due film si assiste, lo si voglia o meno, al declino di una classe media bianca impoverita e marginalizzata, sostanzialmente con poche speranze di superare l’impasse in cui si è venuta a trovare, tra delusioni, sconfitte e crisi degli ultimi decenni, in quest’ultimo si assiste, attraverso le lotte diffusesi su tutto il territorio degli Stati Uniti, da Richmond a Minneapolis, dall’Arizona al South Dakota, passando per la Virginia, Washington, New York, Philadelphia, il Massachusetts e tanti altri luoghi ancora, ad una sorta di rinascita collettiva orbitante intorno a due fuochi precisi: quello delle lotte dei popoli espropriati di terre, diritti e identità reale, in nome di un melting pot mai realmente paritario, e quello per il superamento di una concezione degli Stati Uniti, del loro ruolo e del loro divenire, che deve fare i conti con una Storia che, sia da parte repubblicana che democratica, non ha mai smesso di presentare evidenti ingiustizie travestite da libertà e uguaglianza e una narrazione quasi del tutto “sbiancata” della formazione dello Stato e del potere.

Una storia in cui il militarismo svolge, come nelle parate del Giorno del ringraziamento, una funzione centrale, ma ormai indifendibile. Esattamente come la mostruosa presenza dei volti dei presidenti americani scolpiti principalmente, tra il 1927 e il 1941 durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, il presidente celebre per la collaborazione interclassista iniziatasi con il New Deal, sulla cima del Monte Rushmore, posto al centro delle Black Hills e dei territori sacri per le tribù native dell’Ovest.

Alte 18 metri ciascuna, quelle sculture rappresentano i presidenti George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826) Theodore Roosevelt (1858-1919) e Abraham Lincoln (1809-1865), scelti in quest’ordine perché rappresenterebbero rispettivamente la nascita, la crescita, lo sviluppo e la stabilità della nazione, espropriando completamente la memoria di coloro che erano un tempo i custodi di quel territorio, i Lakota Sioux, per i quali quel gruppo montuoso portava il nome di Tȟuŋkášila Šákpe ovvero Six Grandfathers (Sei Nonni).

Un ultimo appunto prima di finire: l’attualità dell’ultimo film è data anche dai drammatici eventi che si stanno svolgendo in Medio Oriente e, in particolare, a Gaza e nei territori palestinesi. E’ infatti impossibile, sentendo le storie di espropriazione territoriale, culturale e sociale narrate nel film di Valerio Ciriaci, non riandare immediatamente con il pensiero alla situazione palestinese, anch’essa non unica ma comunque estremamente paradigmatica di tutto ciò che si intende per imperialismo, colonialismo e genocidio.

Tre film, tre crisi convergenti (socio-economica, ambientale e politica), un unico grande quadro di disfatta del mito americano e dell’Occidente, così come si è voluto narrare fino ad ora.
Tutti e tre disponibili anche in streaming su Zalab View, la piattaforma on line creata da ZaLab, una delle più importanti realtà produttive e distributive nell’ambito del cinema del reale. Mentre per chi volesse organizzare altre proiezioni pubbliche è necessario scrivere un’email all’indirizzo: rovinedamerica@gmail.com


  1. Si veda W. Atkins, Tre grandi fuochi. Il deserto di Sonora, USA, in W. Atkins, Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 261- 302.  

  2. Perché, ad esempio, doggy è stato tradotto con doge, là dove invece significa, senza ombra di dubbio, cagnolino o cucciolo?  

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Egemonia e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2023/08/17/egemonia-e-rivoluzione/ Thu, 17 Aug 2023 21:55:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78626 di Nico Maccentelli

Introduzione Questo intervento non vuole dare certo un quadro esaustivo dell’attuale fase politica italiana e internazionale, ma articolare alcuni aspetti politici, che sino a oggi non mi risulta siano stati sviscerati con compiuta contezza. L’eredità analitica della Terza Internazionale, ci diceva che i processi rivoluzionari hanno delle proprie peculiarità in base alle composizioni sociali e ai rapporti tra classi sociali tra loro, seguendo uno schema interno alle diverse formazioni economico-sociali: rivoluzioni democratico-borghesi nei paesi in via sviluppo (o sottosviluppati) con diverse gradazioni in base al livello raggiunto [...]]]> di Nico Maccentelli

Introduzione
Questo intervento non vuole dare certo un quadro esaustivo dell’attuale fase politica italiana e internazionale, ma articolare alcuni aspetti politici, che sino a oggi non mi risulta siano stati sviscerati con compiuta contezza.
L’eredità analitica della Terza Internazionale, ci diceva che i processi rivoluzionari hanno delle proprie peculiarità in base alle composizioni sociali e ai rapporti tra classi sociali tra loro, seguendo uno schema interno alle diverse formazioni economico-sociali: rivoluzioni democratico-borghesi nei paesi in via sviluppo (o sottosviluppati) con diverse gradazioni in base al livello raggiunto dalle forze produttive e alla crescita dei mezzi di produzione del capitale nella formazione delle classi operaie, fino alle rivoluzioni proletarie socialiste a guida proletaria nei paesi a capitalismo avanzato. Ora nel sistema mondo, per essendoci ancora le diverse gradazioni di sviluppo e la diversità delle composizioni sociali, non si può non aver capito come la questione nazionale sia in realtà questione dirimente anche nelle società complesse, di fronte a un dominio imperialista fortemente gerarchizzato che ridisegna le colonie e neocolonie anche dentro la catena dei paesi imperialisti stessi.

Le lotte per l’emancipazione di settori sociali e di classe, per la liberazione della donna, per l’indipendenza nazionale, sono tutte parti di un mosaico che che definisce nella sua generalità la lotta di classe nel sistema capitalista. Dentro questo sistema vigente vi sono forme di egemonia e di oppressione differenziate che vanno a comporre un mosaico assai frammentato. Le lotte non seguono un percorso e non hanno un posizionamento definito, ma sono frammentate e spesso anche in conflitto tra loro.
Tuttavia, le particolarità rischiano di fuorviare la direzione rivoluzionaria giusta nei conflitti sociali e ogni particolare rischia di assumente una sua centralità. È il limite contraddittorio delle istanze sociali spesso giuste e sacrosante, ma che non colgono più il cuore del problema dell’oppressione generale da parte dell’imperialismo sui soggetti, sicché ciò favorisce quel lavoro controrivoluzionario che stiamo vedendo nelle “rivoluzioni” e nei movimenti colorati.
Un primo passo per comprendere se delle istanze di liberazione siano manipolate e usate contro la rivoluzione socialista stessa e quindi siano antimperialiste o siano nella direzione giusta è appunto la direzione stessa che prendono nel conflitto, la scelta di campo.
L’egemonia sociale, ma soprattutto politica (in dialettica tra loro) definiscono il carattere rivoluzionario o quanto meno progressivo di un processo. Per meglio intenderci vanno fatti esempi concreti.
Un esempio tipico riguarda il Rojava da una parte e l’Ucraina dall’altro.
Due contesti che rivelano come i nostri fan della rivoluzione curda abbiano reso un abbaglio, riportando meccanicamente la Resistenza del popolo curdo, il municipalismo comunitario dell’autogestione popolare democratica dei popoli in quella zona, in una frase: l’autodeterminazione dei popoli in un contesto in cui questa no c’è: l’Ucraina: la direzione politica e le forme di gestione del potere sono addirittura naziste banderiste, non vige certo alcuna resistenza di popolo ma una direzione dall’alto della NATO nella guerra contro la Russia, dopo anni di aggressione sanguinaria alle popolazioni russofone del Donbass. Semmai è nel Donbass, tra la popolazione russofona che si è ripresentata questa questione, dopo il golpe di Euromaidan e una vera e propria pulizia etnica da parte dei nazi banderisti. Semmai è la miriade di azioni di Resistenza alla repressione della SBU (servizi segreti, la Gestapo ucraina), atti di diserzione, tentativi di espatrio e di darsi alla macchia per non divenire carme da cannone a rappresentare l’autodeterminazione del popolo.
Il primo processo di guerra rivoluzionaria contro poteri esterni (la Turchia), ossia quello curdo nel Rojava è a direzione popolare dal basso, esattamente come lo zapatismo o le guerriglie come quella filippina. E poco importa, in questo caso, se tatticamente può avere avuto un sostegno militare degli USA, nel fornire loro appoggio contro il Daesh. Qui siamo davvero su un terreno della tattica come fu per il CLN e in particolare i comunisti nella guerra al nazifascismo del 1943-45, dove l’apporto militare degli alleati (paesi imperialisti) fu addirittura decisivo per la Liberazione.
Il secondo è il mero esercizio sotto il giogo anglo-euroimperialista di un regime nazista che ha soppresso in Ucraina le più elementari libertà democratiche, perseguito le opposizioni, adottato assassinii e torture come prassi dominanti, in un quadro politico nei rapporti tra potere e opposizioni del tutto inesistenti. Un paese terrorista che nel perseguire le politiche di potenza e di aggressione dell’unipolarismo, non ha nulla a vantaggio delle masse popolari di quel paese.
Dunque fa specie che personaggi della sinistra radicale, “libertari” che hanno vissuto l’esperienza del Rojava, o sindacalisti di base, o ancora realtà che si dicono autonome, municipaliste o anarchiche finiscano con il sostenere i nazi-banderisti del governo di Kiev e in ultima analisi la NATO.

 

1. Cosa ha significato la lotta politica di massa in questo periodo di pandemia da coronavirus Covid19: indipendenza e classe

Molti soggetti e piccole organizzazioni si sono battute in questi tre anni contro le restrizioni che sono state adottate dai sistemi politici dominanti e contro l’imposizione dei sieri genici alla popolazione. C’è chi si è limitato a vedere la questione come un attacco alle libertà civili che definisco borghesi, ossia nate dai cambiamenti messi in atto dalle borghesie liberali negli ultimi duecento anni, considerandoli come libertà assolute ed esaustive, ma senza inquadrare il problema dentro gli scopi fondamentali dei ristretti ceti dirigenti che sono essenzialmente quelli del capitalismo dominante.
Questo insieme di vertenze avevano il denominatore comune i principi costituzionali che sono inscritti nella nostra Carta, nella visione di una loro applicazione che non è mai stata realmente applicata e quindi della conquista finalmente di una sovranità nazionale, del popolo per il popolo.
La comprensione di un passaggio autoritario di portata epocale, ossia che ha chiuso e aperto un’epoca nuova per le democrazie liberali nel divenire democrature: democrazie borghesi senza nemmeno una soglia minima di rappresentatività, non ha corrisposto a una piena comprensione di questo passaggio, poiché la fase precedente è stata letta da una pletora di apprendisti dell’antagonismo interclassista come un periodo ideale, democratico, non viziato (in realtà) dalle politiche di regime delle classi dominanti del capitale e quindi priva di un’analisi marxista rivoluzionaria che ci porti dalla fase precedente a quella attuale con una lettura politica coerente.
Infatti, dopo il ciclo espansivo del capitalismo nel secondo dopoguerra del secolo scorso, alla crisi strutturale e di sistema si accompagna da circa quattro decenni una risposta neoliberista di distruzione dello stato sociale e della politica di sistema keynesiana con l’inizio del tatcherismo e reaganismo e a una progressiva separazione tra democrazia rappresentativa e politica coercitiva dominante di tali ceti basata sul TINA: there is not alternative. Questo passaggio politico autoritario è il prodotto storico ed epocale di questo processo di dominio di classe e di sistema a livello planetario, con il quale procede l’imperialismo, ossia la catena di paesi imperialisti a dominanza USA.

Considerata questa traiettoria politica di sistema, il passaggio pandemico coincide con l’avvento di un totalitarismo dei grandi gruppi oligopolistici multinazionali e finanziari sul resto dei settori sociali, compreso il piccolo capitalismo e le attività territoriali di prossimità.
Dunque, le restrizioni delle più elementari libertà, per un approccio marxista al problema, rappresentano una vera e propria svolta autoritaria, biopolitica, tecnologica di controllo e irrigimentazione dei rapporti sociali e di produzione e circolazione del capitale, che oppongono le oligarchie transnazionali del capitale al resto della società che vive e produce in un dato territorio.
Per questo, le lotte dei sabati contro il greenpass e l’obbligo vaccinale, contro il lockdown e le norme che di sanitario non avevano nulla, sono elemento fondamentale sia sul terreno della questione nazionale, dell’indipendenza dall’oligarchia sovranazionale del capitalismo, sia su quello della lotta di classe tra basso contro l’alto, tra classi popolari che vanno dal proletariato più o meno precario ai ceti medi colpiti da tale irrigimentazione, contro i ceti politici di regime e gli apparati che dentro lo stato capitalista conducono per campagne emergenziali, in modo bipartisan, destra o sinistra che sia, gli interessi del TINA, dalla pandemia alla guerra. Occorre pertanto comprendere che la politica di questo sistema di potere del grande capitale degli oligopoli multinazionali e finanziari ha due fronti:

a) un fronte esterno di riaffermazione manu militari dell’egemonia atlantista messa in discussione dalle tendenze economiche e geopolitiche al multipolarismo di popoli e paesi sul piano internazionale, ben rappresentata dal suo epicentro bellico (su cui non mi soffermo per ragioni di spazio) della guerra in Ucraina, gravida di un’escalation autodistruttiva in una guerra su vasta scala, dove l’obiettivo è separare la Russia dall’Europa e sottomettere quest’ultima al disegno suprematista dell’anglosfera a dominanza USA;

b) un fronte interno, in cui il grande capitale finanziario e multinazionale riconduce le filiere, i flussi di capitale, i rapporti commerciali e di committenza, le modalità consumistiche, l’accesso alle risorse, i sistemi di relazioni sociali e di welfare, la catena del valore sotto il proprio diretto controllo, configurando questo totalitarismo politico, tutt’altro che transitorio. In questo si spiega il superamento della democrazia borghese liberale e non certo il suo trionfo. Per questo anche se spontaneamente e istintivamente sono scese in campo componenti di borghesia colpita da questa irrigimentazione.
Questa duplicità delle questioni pone una duplicità nella lotta per l’egemonia. Ma questo lo vedremo in seguito, sul finire di questo saggio.

 

2. Lo scenario internazionale

Nello scenario internazionale vediamo due tendenze scontrarsi:
- quella egemonica dell’imperialismo atlantista a dominanza USA e i suoi vassalli, i paesi imperialisti come UE Canada, Giappone e Australia
- e dall’altra potenze mondiali e regionali capitaliste come Cina e Russia, India ossia i BRICS, ma anche paesi che procedono in processi di transizione al socialismo, da Cuba al Vietnam, dalle esperienze sudamericane di ALBA e il bolivarismo.
Questa seconda tendenza rappresenta nel complesso quella parte maggioritaria di mondo che non costituisce un blocco omogeneo come quello atlantico. Sono paesi spesso in frizione tra loro, ma che rappresentano la spinta alla decolonizzazione, ossia a rompere i vincoli coloniali e neocoloniali della supremazia dell’Occidente che fino ad oggi si è espressa con lo sfruttamento delle risorse, il monopolio commerciale e finanziario: dall’egemonia del dollaro a quella del franco africano.
È uno scenario diverso dalla tripartizione di mezzo secolo fa tra capitalismo, socialismo e paesi non allineati, ma è comunque l’espressione che assume oggi la contraddizione globale tra imperialismo e popoli emergenti, per la quale un sincero schierarsi verso questi ultimi, al di là dei singoli sistemi politici in campo, costituisce una scelta di campo strategica antimperialista e internazionalista.
Questo schierarsi con il multipolarismo e la decolonizzazione, con tutte le loro contraddizioni sociali e culturali, non significa ripudiare lotte sacrosante come la laicità dello stato contro le teocrazie, l’emancipazione della donna o la stessa lotta proletaria contro gli specifici capitalismi, ma comprendere che l’emancipazione globale dal lavoro salariato, la democrazia socialista dei consigli e della socializzazione dei mezzi di produzione passa strategicamente dall’individuazione del nemico principale su scala planetaria, che è unipolare e suprematista sul piano economico, dalla sua sconfitta e dall’affermazione di un sistema mondiale multipolare che aprirà a nuovi cicli di lotte popolari in ogni specificità, ma sopratutto ci farà uscire dallo spettro sempre più imminente di un conflitto atomico. E dalla polvere radioattiva non nasce nessuna società democratica, né tanto meno socialista. Così come, nella migliore delle ipotesi, non nasce certo da un’imposizione bio-tecno-fascista di modelli di sfruttamento e consumo basati su un sempre più goebbelsiano sistema mediatico di consenso valoriale. Non nasce nulla di buono da un società della sorveglianza discriminatoria e selettiva sui comportamenti compatibili e acquiescenti, aderenti alle varie emergenze imposte e alle campagne del terrore allarmistico di cui il capitalismo unipolare si nutre e domina.
Occorre dunque riappropriarci di una politica del cambiamento radicale dei rapporti sociali e di forza tra classi, a partire dalla composizione sociale, dai settori sociali che nel nostro paese ci troviamo ad avere, per quello che essi sono, senza rievocare rivoluzioni del passato nelle modalità in cui sono avvenute e costruirci mentalmente proletariati granitici e coesi, che esistono solo nei giornaletti e nei proclami di una sinistra comunista ormai in confusione e priva di una visione realistica della fase e del contesto socioeconomico e culturale che ha davanti a sé.
Occorre comprendere le contraddizioni economiche e sociali, e quindi politiche, della nostra contemporaneità, che muovo dialetticamente bidirezionalmente dal generale al particolare e dal globale al locale, riconoscendo in questa dialettica le tre contraddizioni fondamentali dell’epoca attuale.

 

3. Le tre contraddizioni


Partendo dal generale e arrivando al particolare, dal mondiale al locale, ci troviamo davanti a tre contraddizioni entro le quali operare, senza distorsioni meccanicistiche e nostalgie del passato che fu:

1. La contraddizione tra imperialismo e popoli/paesi (già trattata nel punto precedente), dentro la quale in chiave capitalistica o welfariana-statalista, pur burocratica ci stanno varie forme di capitalismo regionale o nazionale. Ma anche esperienze di carattere socialista, come il bolivarismo. In sintesi: la contraddizione tra unipolarismo e multipolarismo. Da una parte abbiamo un blocco coeso di paesi imperialisti che riproducono, o intendono farlo, le dinamiche di accumulazione capitalistica di sempre, di stampo predatorio coloniale e neocoloniale, di supremazia negli scambi basati sul dollaro, di controllo dei flussi economici sulle materie prime, sulle filiere, sulla ripartizione dei mercati e sulle politiche di sfruttamento intensivo della forza-lavoro. Dall’altra il resto del mondo, piuttosto diversificato per realtà economico-sociali e culturali.
A questa politica di supremazia, quindi, non corrisponde un blocco contrapposto omogeneo, se non un’alleanza tra due potenze: Cina e Russia. Il resto è una rete di partenariati a livello mondiale, coordinati da alleanze economiche come i BRICS o l’alternativa alla Banca Mondiale: NDB (New Development Bank), che sta attraendo sempre di più paesi. Più che di “interimperialismo” (con buona pace delle tesi neutraliste e manichee nel loro essere dottrinarie quanto eurocentriche) si tratta di uno scontro tra il dominio colonialista e predatorio ultrasecolare del sistema imperialistico occidentale e il processo di decolonizzazione e sganciamento della parte di mondo fatta di questi paesi e popoli in via di sviluppo.

2. La contraddizione dentro le nazioni stesse tra le diverse frazioni di capitale e di borghesia, che corrisponde del resto a quelle frazioni capitaliste che rispondono alle politiche di potenza del capitalismo unipolare e delle sue cancellerie occidentali e dall’altra quel piccolo capitale che pone i suoi interessi economici e le sue attività sul territorio di riferimento.
In definitiva è la contraddizione interna agli stati nazione tra classi capitaliste locali, nazionali e imperialismo atlantista unipolare. E anche in questo caso vive la lotta di classe tra diverse frazioni borghesi: capitale sovranazionale delle oligarchie dell’alta finanza e delle multinazionali e piccolo capitale, borghesia nel vero senso della parola, ossia che ha i suoi interessi prevalenti nel borgo, mentre questo viene devastato dalle grandi filiere della produzione multinazionale, della logistica che impone nuove modalità di accesso alle merci e al consumo, l’amazonizzazione della circolazione del capitale. A farne le spese, dunque, è anche l’economia di prossimità. E anche in questo caso dentro i settori sociali legati al territorio abbiamo la composizione di classe proletaria, spesso non facilmente distinguibile se non dal fatto che il TINA delle politiche neoliberiste imposte dal grande capitale oligopolistico ha imposto il blocco dell’ascensore sociale e la pauperizzazione o proletarizzazione di vasti settori di piccola e media borghesia. Sicché ci si chiede se una famiglia composta da un piccolo commerciante ortofrutticolo con moglie operaia in cassa integrazione è proletaria o piccolo borghese. O ci si chiede per esempio se un impiegato licenziato che si mette a fare il fontaniere con partita IVA è collocabile sempre nella medesima categoria del lavoro subordinato o cosa un operaio o cosa. Una visione schematica dell’esercito industriale di riserva, dopo decenni in cui si è passati dall’operaio massa all’operaio sociale, e in cui abbiamo avuto forti cambiamenti tecnologici nei processi di produzione, non solo non aiuta ma è fuorviante e occorre agire nell’ambito di una composizione sociale subordinata estremamente (questo sì) fluida e mobile dentro i recinti dello sfruttamento capitalistico nelle sue varie modalità di lavoro subordinato.

3. È precisamente questo il terzo punto: il proletariato con la sua contraddizione capitale/ lavoro esiste, è il cuore epocale e apicale del problema, la contraddizione di ultima istanza, che non va trascurata, ma fatta vivere dentro le altre contraddizioni. Chi la mette al centro tatticamente e meccanicisticamente agendo su vecchi schemi politici e modelli di classe anacronistici, elidendo, ossia, cassando le altre due contraddizioni è destinato a fare la fine che sta facendo: essere esterno e marginale allo scontro tra unipolarismo e multipolarismo, tra popoli ed élite, nel conflitto intercapitalistico e interborghese in atto, come se la questione non riguardasse il proletariato stesso. Significa costruirsi un recinto politico avulso dal resto della società e della classe stessa, dalla composizione sociale di classe, restringere il campo dei referenti sociali e condannarsi alla marginalità politica. E nel nostro paese la forza politica di un soggetto di classe non esiste proprio per questo,. Si approda, per esempio, a un mutualismo missionaristico, che surroga la funzione del pubblico di welfare invece di rivendicarlo come sottrazione/riappropriazione di ricchezza sociale, pianificazione e centralità dei bisogni sociali delle classi popolari, ripensando a un ruolo socialista dello stato anche dentro un’economia di mercato (che diverrebbe così di transizione), con una forte presenza di settori sociali di piccola e media impresa che non possono certo essere kolkovizzati tutti d’un colpo.
In definitiva è questa la scommessa non solo dei comunisti, ma di tutte le forze realmente democratiche che intendono liberare il paese dalla dominazione di un imperialismo che ha la sua testa a Davos e non certo a Roma. Con buona pace di chi chiacchiera ancora di polo imperialista europeo: un consesso di paesi vassalli senza una politica economica che non sia interna ai processi di capitale continentali (dove la Germania la fa da padrona, ma solo dentro il perimetro del dominio USA), senza una politica estera di potenza (se eccettuiamo la Francia in Africa, anche in questo caso subordinata agli USA) che china la testa e accetta una guerra che va contro i suoi stessi interessi, contro scelte commerciali e di partner imposte da Washington dentro una catena imperialista strutturata dagli USA attraverso il G7 e la NATO e organismi di compensazione intercapitalistica come la Trilateral, il Bildelberg, l’Aspen.

Nei tre anni di lotte sociali contro il greenpass e l’obbligo vaccinale, soggetti e piccole forze come l’Assemblea Antifascista cGP di Bologna, più o meno consapevolmente hanno agito come piccoli nuclei di avanguardia, avendo come comune denominatore ideologico tra comunisti e libertari, l’anticapitalismo dentro un movimento ideologicamente borghese, incentrato sulle libertà civili e su una concezione generica di democrazia, ma a composizione sociale eterogenea tra ceti medi settori di proletariato precario ancora più precario sotto questo attacco. Con l’Assemblea Militante abbiamo avuto il primo esperimento di ingegneria tattica casualmente leninista, poiché uscito dall’ambito autoreferenziale per agire nell’insieme di un vasto movimento sottovalutato dai dogmatici abitudinari, divenuti addirittura ascari del regime nella sua torsione autoritaria biopolitica e tecnologica. Come i riformisti di sempre, attori al servizio del capitale nel nome di uno scientismo demenziale, con una concezione neutrale e non di classe (di critica sul piano euristico) della scienza borghese, improntata sul controllo sociale, dei soggetti e sulla massimizzazione del profitto di big pharma e, in ultima istanza di Black Rock, Vanguard e State Street. Esponiamo la questione con riferimenti politici precisi riguardo gli artefici della debacle di gran parte della sinistra di classe organizzata in questi tre anni: gran parte del sindacalismo di base, eccettuate componenti interne alla CUB e ad altre, ma anche gli svarioni di svariati centri sociali e, soprattutto, quella sinistra che si autodefinisce antagonista e che ha partecipato a diverse elezioni in questi ultimi anni.
La strada intrapresa invece dai nuclei d’avanguardia prima menzionati si è rivelata corretta: è stato il primo tentativo serio di operare una sortita fuori dalle “riserve indiane”, dai recinti politici e mentali, per relazionarsi con uno dei più vasti movimenti di massa degli ultimi decenni. Propositiva è stata la sua la presenza nel movimento di massa anti-GP, anche se non ha saputo sedimentare organizzazione di massa e politica d’avanguardia. Nei momenti di riflusso, come ora, deve però prevalere il lavoro di organizzazione, nell’ipotesi di costruzione di un fronte ampio dei soggetti e delle forze rimaste e di lavoro culturale per realizzare un processo di crescita egemonica dentro le lotte e i momenti aggregativi che ci sono e che ci saranno.

 

4. Per cosa e come lottiamo

Un cambiamento politico (rapporti tra forze politiche) e sociale (rapporti classe) può avvenire in tre modalità:

1. Hai dietro le masse come avanguardia e vai allo scontro sociale (opzione ideologizzata, vedi parole d‘ordine come “governo operaio”, ecc.), riducendo la lotta di classe alla sola questione “operaia”.

2. C’è una crisi di potere, data dalle contraddizioni tra forze di regime, nella quale irrompe l’incognita di quali di queste monopolizzerà un movimento sociale o partirà dalle posizioni di potere interna alle istituzioni, in chiave populista, ed effettuerà per esempio un colpo di mano istituzionale verso una fase elettorale o costituente plebiscitaria, anche attraverso la forzatura di un conflitto sociale. Ma tale fase è solitamente favorevole alle destre fasciste per quella visione centrata di Gramsci sul concetto di egemonia, dove la cultura nazionale rispecchia l’emergere di un sentiment popolare che in questo caso non prederebbe una strada rivoluzionaria ma servirebbe una sostituzione del blocco al potere con conseguente “orbanizzazione” del nuovo governo.

3. Un blocco popolare d’opposizione, populista, anti-sistema, che rappresenti l’interesse nazionale di più settori (maggioritari) della società: piccola borghesia produttiva, mondo precario e salariato, classi subalterne, che si uniscono in chiave anti-oligopoli finanziari e multinazionali in un patto politico patriottico di fuori uscita dalla NATO e dalla UE per liberare l’Italia dal nodo scorsoio di queste élite atlantiste e unipolari. In pratica un terzo polo antagonista e alternativo agli altri due: da una parte le sinistre euroimperialiste e i loro lacchè più o meno consapevoli, con un PD centrale che rappresenta da anni il capitalismo delle multinazionali e della finanza da una parte, e dall’altra le destre che da Renzi-Calenda fino a Lega e Fratelli d’Italia rappresentano il tentativo di unire gli interessi del piccolo capitale con quelli oligopolistici del grande capitalismo sovranazionale.

Un’opera di Jorit

A. Il primo è totalmente irrealistico e, va da sé, non c’è bisogno di spiegare che non avremo le masse proletarie dalla nostra né oggi, né domani, a causa di due fattori: a) la composizione di classe scomposta (gioco di parole e ossimoro che ben spiega lo stato della produzione e riproduzione sociale e dei soggetti “fluidi” sul piano del posto che occupano dentro questo contesto), tipico della configurazione economico-sociale del nostro paese; b) l’egemonia (sul piano gramsciano) e la “rivoluzione passiva” che la borghesia dominante, imperialista e oligopolista esercita su tutta la società e che può tutt’al più lasciare spazi di manovra alla…

B. … seconda modalità: l’emergere politico degli interessi dei ceti medi e del piccolo capitale che dirigono lo scontro sociale per un semplice ricambio al vertice, che va oltre il melonismo filo-atlantista per andare a contrattare seriamente il riposizionamento del nostro paese nei rapporti internazionali e con un programma populista di stampo “peronista” che va incontro demagogicamente ad alcune delle istanze popolari in chiave nazionalistica.
Di fatto da qui possono prendere piede forze che rappresentano in embrione questa opzione, mescolando la critica alla guerra e alla NATO e il filo-multipolarismo putiniano a una sorta di resistenza ultracattolica e trumpiana all’avvento della società fluida che attacca le identità individuali e collettive. Il che dimostra come da tendenze reazionarie possono nascere controtendenze altrettanto reazionarie. E che quindi il punto non è tenersene alla larga, ma impegnare una battaglia politica e culturale dentro un campo anti-atlantista e anti-autoritario che inevitabilmente oggi si manifesta come espressione di settori di borghesia di stampo nazionalista e ultra-cristiana, occupando uno spazio politico fino a contenderne l’egemonia. Questione spinosa, forse vissuta come forche caudine di una sinistra di classe e rivoluzionaria allo sfascio, ma in realtà opportunità da cogliere di fronte a quella parte di popolazione che non crede più nei partiti di regime ed è stata abbagliata prima da pentastellati e da Salvini e poi dalla Meloni, tutti pifferai di Hamelin nella stessa partitocrazia che si batte semplicemente per rappresentare gli interessi dei poteri forti. Davanti all’egemonia di una destra reazionaria che contratta gli interessi medio-borghesi e piccolo-capitalistici dentro il perimetro atlantista, ossia, davanti alle prossime e imminenti ondate populiste, occorre agire come opzione politica più avanzata sul piano progettuale e dell’azione militante, essere come i montoneros (1) nel movimento peronista, con o senza caudillo di turno, che potrebbe sempre esserci e affermarsi se non si contende l’egemonia alle forze della borghesia che agiscono e aggregano dentro le stesse contraddizioni tra ceti medi colpiti dall’attacco del grande capitale che rispolverano un nostalgico nazionalismo da una parte e appunto oligarchie capitaliste dominanti, transnazionali e atlantiste dall’altra. Un teatrino dei pupi, l’ennesimo che andrebbe spezzato con la lotta e l’affermazione del terzo punto di vista, quello dei settori sociali depauperizzati, proletari e proletarizzati, in una battaglia sociale per l’egemonia e di prospettiva per una reale alternativa costituente di sistema.

C. Ed è qui che entra in ballo la terza modalità: quella che si innesta in questo scontro sociale, e si relazione alla seconda per le questioni poste al punto 3., senza vaneggiare di rivoluzioni proletarie in marcia al socialismo, ma riconoscendo che occorrono una o più tappe intermedie, la prima di queste basata sull’indipendenza del paese riguardo finanza e multinazionali, sull’uscita dallo schieramento atlantista per il multipolarismo, avviando la politica economica del paese al welfare pubblico, al controllo della finanza privata, alla moneta sovrana, al rilancio della produzione interna, alla pianificazione economica e alla nazionalizzazione degli asset portanti, governando sugli interessi di parte che sono espressione delle diverse componenti produttive e sociali del paese.
Siamo in ritardo perché la quasi totalità della sinistra di classe non ha compreso le tre contraddizioni nel loro divenire, le forze in campo e la dura realtà che ci dice gramscianamente come siamo distanti da una qualsivoglia egemonia proletaria o popolare di classe in chiave socialista. Siamo fuori e marginali dallo scontro sociale, perché il cuore di questo scontro vede opporsi tra loro le diverse frazioni borghesi con una massa di manovra popolar-proletaria che funge da massa di sostegno di volta in volta a rappresentazioni populistiche interne o esterne al regime, ma tutte egemonizzate dalla borghesia.

Se vogliamo irrompere sulla scena politica e costruire una testa di ponte rossa e proletaria in uno scontro che è dominato dalle borghesie, occorre riconoscere questa realtà in quanto tale e agire conseguentemente sul piano delle alleanze senza essere ideologicamente schizzinosi. Occorre essere leniniani.
Puntare a uno scontro che delimiti il perimetro del soggetto sociale e storico di classe in una visione retrò e anacronistica di proletariato porta a romperci le corna amaramente. La lotta di classe deve continuare ovviamente, ma intervenendo nelle contraddizioni del campo avverso, portando su un terreno anti-UE e anti- NATO e di indipendenza nazionale reale quei settori di piccola borghesia pauperizzata e vessata dalle politiche del grande capitale, favorendo un fronte ampio che apra a una prima tappa del processo rivoluzionario al socialismo. Obiettivo che oggi appare assai arduo: l’egemonia interna al fronte.

L’obiettivo è costruire l’egemonia a partire dalle lotte per quelle che esse sono, senza “selezionarle” o peggio ripudiarle sul piano di un ideologismo schizzinoso ed élitario (tipico di un atteggiamento questo sì borghese anche se insieme alla birretta degli aperitivi “autogestiti” ci metti pane e salame…) e spingendole in avanti per contenuti e progettualità, a partire dai soggetti sociali che oggi si muovono, quando e come si muovono. Prepararsi per i futuri cicli di lotte contro gli oligopoli imperialisti, rappresentando gli interessi di classe e gli elementi di programma minimo, dentro un crogiolo variegato di manifestazioni ed espressioni sociali, ponendo le questioni di un welfare pubblico, di una politica economica pianificata e di un processo costituente che, facendo leva sugli elementi progressivi della nostra Costituzione, punti a scalzare i poteri forti dalla loro funzione totalitaria decisionale, ridando senso al pubblico, ai bisogni sociali della popolazione e ai suoi diritti contro le logiche di smantellamento dello stato sociale e della privatizzazione, contro la messa a profitto di servizi, beni comuni e risorse.
Ogni forma di lotta che si apre nello scenario politico non va scartata, anche quella elettorale, portando per esempio più antagonisti e rivoluzionari dentro le istituzioni borghesi. Sul piano sociale, ogni spazio conquistato è una casamatta da cui ripartire e attaccare politicamente e culturalmente il nemico, per creare confronto tra soggetti, organizzazione e iniziativa di lotta.

 

5. La questione nazionale

Ma a questo punto intendo affrontare la seconda questione spinosa: la questione nazionale. Per chi è internazionalista può sembrare un boccone indigesto perché oggi nel nostro paese gran parte della sinistra la associa al nazionalismo di stampo fascista, campanilista, etnocentrico, al razzismo. In realtà la lotta per l’indipendenza nazionale è largamente patrimonio delle forze progressiste e socialiste in oltre cento anni di lotta di classe e antimperialista. Le lotte latinoamericane da Cuba al sandinismo, passando per le sinistre rivoluzionarie cilene, uruguayane, argentine, fino alle questioni irlandese, basca, catalana, corsa, sarda, ma anche alla rivoluzione cinese, algerina e vietnamita, pur nei diversi contesti e processi la liberazione patriottica non ha certo fatto a cazzotti con una visione più ampia di liberazione antimperialista e internazionalista delle masse proletarie e contadine di transizione al socialismo.
Qualcuno dirà: sì, ma si parla sempre di terzo mondo. Fanon e Nguy Giap funzionano lì.
Ma è proprio questo il punto: non c’entra il grado di sviluppo delle forze produttive di un paese, o la composizione sociale di classe, quanta classe operaia c’è o no, bensì la questione nazionale pertiene le diverse tipologie di lotta per l’indipendenza dei paesi e l’autodeterminazione dei popoli.
Ovviamente la questione nazionale italiana non è quella coloniale di un paese africano nella rapina imperialista di risorse. Non è neppure associabile alle lotte anti-neocoloniale basca, irlandese o catalana, che ha radici sulla specificità culturale di questi popoli e nel loro assoggettamento e sfruttamento salariato da parte di classi dominanti che hanno costituito nazioni su confini del tutto arbitrari e non consensuali. Anche se l’aspetto culturale, del dominio valoriale, hollywoodiano, mitopoietico del “sogno americano” attraversi di fatto e globalmente tutti i popoli (ma è un aspetto che merita una trattazione diversa e a parte), da quasi ottant’anni.
Tuttavia, questioni nazionali dove l’oppressione neocoloniale si basa non tanto sulla rapina di risorse ma sullo sfruttamento della forza-lavoro e sul controllo dei processi produttivi, come sui mercati interni, si avvicinano alla questione nazionale italiana Da 77 anni siamo una portaerei degli USA attraverso la NATO, non abbiamo nemmeno più quella politica estera con margini di autonomia che aveva la Prima Repubblica. Economicamente siamo assoggettati alle euroburocrazie che con il pareggio di bilancio e le astruse regole imposte da Bruxelles (ma non rispettate dalla Germania) e oggi con il MES che sta arrivando, una moneta non stampata ma comprata a strozzo, siamo diventati un terminale delle economie più forti, delle multinazionali dominanti e dei movimenti di capitale dell’alta finanza che ci mettono in costante ricatto. Siamo commissariati, siamo un vero e proprio batustan dell’anglosfera e delle euroburocrazie attraverso organismi come NATO e UE.
 Per questo la questione nazionale nella sua originalità che nulla ha a che vedere con Ulster, Euskadi e Catalunya, ha connotati più direttamente di classe, che comprendono più classi interessate a sciogliere i legami di dominazione.
Come giustamente osserva Carlo Formenti, la contraddizione è tra un capitalismo dei flussi di capitali e di merci sul piano transnazionale e chi vive e lavora nel territorio, che sia autoctono o di provenienza da altrove.
Riporto integralmente la sua riflessione ne “La variante populista”, Comunità concrete, ed. DeriveApprodi:

“… la lotta di classe tende a presentarsi come conflitto fra flussi globali di segni di valore, informazioni, merci e manager da un lato, territori e comunità locali che si oppongono alla colonizzazione da parte dei flussi dall’altro.
Accettare la sfida del populismo a partire da questi due eventi significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare, la quale, a sua volta, comporta la riconquista della sovranità nazionale. Se a egemonizzare la lotta sarà il populismo di destra, assisteremo al trionfo di razzismo e xenofobia, se sarà invece quello di sinistra, potremmo assistere alla nascita di un’idea «post-nazionalista» di nazione, intesa cioè come comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio.” (2)

E questo aspetto: 
a) distingue il patriottismo progressista dal nazionalismo sciovinista da piccola potenza e di esclusione e divisione delle masse popolari alla Salvini e Meloni; b) contende questo terreno proprio a loro e a quelle forze interne al sostegno anti-bellico al multipolarismo che ripropongono divisioni interne ed esclusione.
Dunque è un patriottismo partigiano come quello della Resistenza, che ha lottato contro il nazifascismo unendo tutto il popolo di fronte a oggettivi interessi nazionali: finire la guerra, scacciare l’invasore e avviare una democrazia rappresentativa di tutto il popolo e le sue forze di Liberazione. L’accostamento è solo valoriale, non certo di analogia storico-politica. Ma indipendenza, antifascismo e liberazione da forze straniere, sono la conditio sine qua non possa avvenire la liberazione dall’oppressione salariata di un capitalismo che va battuto sia che sia estero che interno.

Formenti arriva quindi alla logica conseguenza di questo impianto politico:

“… accettare questo punto di vista implica assumere un atteggiamento totalmente controcorrente rispetto a quello delle sinistre europeiste: difendere questa Europa oligarchica, ordoliberista e irriformabile significa scambiare il cosmopolitismo borghese per internazionalismo proletario. La lotta anticapitalista, nel nostro continente, passa inevitabilmente dalla lotta contro l’Europa.” (3)

E oggi è ancora più vero (l’opera qui citata fu pubblicata nel 2016), considerando che questa guerra in Ucraina ci ha consegnato e rivelato un’Europa completamente supina alla politica militarista statunitense attraverso la NATO e a quella sanzionatoria e finanziaria del dollaro, di più: acriticamente aderente al Washington consensus, con gruppi dirigenti e cancellerie che da Berlino a Parigi ci stanno portando verso la catastrofe di una guerra imperialista nel continente e nella migliore delle ipotesi a perdere nell’economia di una guerra ibrida permanente alle forze multipolari, quel posizionamento autonomo che, se da sempre privo di una politica estera ed economica che non fosse nell’ambito delle gerarchie NATO e ordoliberale sui salari e sullo svendita ai privati del welfare pubblico, oggi si riduce a essere una mera protesi della potenza statunitense.
A maggior ragione l’impostazione data da Formenti alla questione della sovranità popolare è una via obbligata per qualsiasi forza antimperialista, progressista e comunista.
Nulla di nuovo del resto: è la dialettica che intercorre tra liberazione nazionale e internazionale, perché la nostra liberazione pone le basi per la liberazione di altri popoli e paesi. E viceversa.

 

6. In definitiva…

Il posizionamento politico di un terzo polo nella società italiana, di fronte antagonista al sistema di potere dominante tiene conto delle contraddizioni prima esposte e si schiera contro l’atlantismo unipolare e con le entità nazionali e i movimenti che nel mondo si battono per la liberazione dal giogo imperialista degli USA e dei suoi vassalli, quindi a favore di tutte le tendenze e politiche che favoriscono l’avvento di un mondo multipolare.
Nel nostro continente l’opposizione alla guerra imperialista della NATO deve diventare la spranga negli ingranaggi della macchina bellica e del sistema imperialista stesso, a trazione USA e della sua subordinata UE, per l’indipendenza nazionale del nostro paese.

Sul fronte sociale il lavoro è più complesso, poiché tocca istanze oppositive al capitalismo finanziario e delle multinazionali, che sono sempre in contraddizione tra loro, risultato di interessi anche contrapposti. Il che spiega che nei tempi lunghi di maturazione politica di massa è la classe operaia anche nella sua composizione sociale in divenire che può e deve ricoprire un ruolo egemone e dirigente nello scontro di classe, poiché i settori intermedi sono da sempre una palude, sono ondivaghi e basta una vittoria parziale, un contentino (una volta si diceva un piatto di lenticchie) o la stessa macchina repressiva nell’innalzamento dei livelli di scontro, per renderli inerti o far loro cambiare campo. Ovviamente quando parlo di classe operaia, o più estensivamente classe lavoratrice, ho in mente quanto affermato in precedenza sulla composizione sociale: certo le linee di demarcazione non sono ben definibili, ma è piuttosto chiaro oggi che il lavoro salariato, subordinato, seppur frammentato include quel mondo sociale precario che definisce una forza-lavoro che non riesce a entrare in pianta stabile nel mondo del lavoro, per lo più giovanile, migranti sottopagati e ricattati, forza-lavoro a “fine vita”, totalmente priva di coperture previdenziali e servizi, frutto delle politiche criminali dei governi di destra come di sinistra all’insegna de privato è bello, del più mercato meno stato.

Se l’interesse dei populismi di destra è quello di ritagliare uno spazio per la borghesia e il piccolo capitale nel quadro internazionale, che non tocchi i rapporti di sfruttamento sul piano nazionale, usando una retorica nazionalista da potenza stracciona, il patriottismo antimperialista passa attraverso l’affermazione dei diritti proletari e dei mutamenti dei rapporti di forza interni alle classi sociali, in una sorta di contropotere o potere costituente.
Nell’immediato, con tutta la consapevolezza che non esiste un movimento contro la guerra e un pacifismo organizzato, l’attività delle forze democratiche e popolari patriottiche devono avere come obiettivo di fondo lo:

SPEZZARE LA MACCHINA IMPERIALISTA MILITARE CON LE MOBILITAZIONI DI MASSA
Oggi al centro dell’agire, che sia di movimento o di avanguardie organizzate, c’è la lotta contro la guerra della NATO, nelle più diverse forme possibili della disobbedienza, del boicottaggio, del sabotaggio e della diserzione anche simbolica da parte dei civili. Dove c’è presenza politica, culturale, anche istituzionale, dichiarare ogni contesto zona demilitarizzata, che ripudia la guerra e diffonde una cultura di pace, inclusiva, contro le campagne denigratorie e criminalizzanti nei confronti di chi critica la politica guerrafondaia di regime e dei suoi lacchè, di chi si oppone al razzismo sciovinista antirusso e al filonazismo nelle sue varie forme fluide e sinistresi, centrosocialare come istituzionali. Man mano che la guerra con le sue logiche e narrazioni, con la sua neolingua avanza, occorre diffondere l’opposizione organizzata a tutto questo.

COSTITUIRE LE BASI PATRIOTTICHE ANTIMPERIALISTE COME TESTE DI PONTE PROGRESSIVE IN UNO SCHIERAMENTO LARGO

È ciò che occorre per scatenare questa opposizione di massa, intransigente, irriducibile, collegando i temi sociali e delle costrizioni biopolitiche delle libertà e dei diritti sociali (quelli veri, non i desideri di qualcuno…), le condizioni di vita e di lavoro al militarismo guerrafondaio dominante.

Gli sforzi che vanno fatti a più livelli e in più ambiti è quello di:

COSTRUIRE IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE E PATRIOTTICO, PER L’USCITA DELL’ITALIA DALLA NATO E DALL’UE


Non sappiamo come sarà questo fronte, ma certamente non sarà quello compromissorio di una sinistra sinistrata e decotta, che si dichiara ancora “di classe”, che si va unendo tra pentastellati e cespugli del PD nell’ennesimo inciucio che taglia fuori le reali opposizioni organizzate contro la NATO, quelle dei tre referendum che costituiscono un patrimonio politico e di esperienza sociale nelle masse preziosa. Il lavoro svolto dalle componenti politiche nei referendum contro l’invio di armi e per la sanità pubblica ha avuto il pregio e il merito di avvicinarsi molto al metodo maoista dell’inchiesta popolare. Chi pensa a un’alleanza con i pentastellati guarda caso è lo stesso che sui tre referendum non ha mosso un dito per non mischiarsi con i “novax” e i “terrapiattisti”. Tutte scuse di chi non ha capito che dalle forze di regime non può nascere nulla.
Un terzo polo non può nascere dai partiti che, destra o sinistra che siano, rappresentano o si candidano a farlo le élite atlantiste, le oligarchie capitaliste dell’Occidente a dominanza USA, o le euroburocrazie di Bruxelles. Destra e sinistra sono politicamente morte, sono del tutto interne a un bipolarismo di regime, al teatrino dei pupi.

 

Appendice

Mentre chiudo questo intervento, giunge dall’Africa la notizia di un putsch dell’esercito in Niger: deposto il presidente Bazoum, la folla solidarizza con i militari e assalta l’ambasciata francese sventolando le bandiere della nazione e della Russia. La Francia e il fronte di paesi africani dell’Ecowas minaccia un intervento, ma Burkina Faso e Mali si schierano con gli insorti nigerini minacciando a loro volta di intervenire, mentre il parlamento della Nigeria vota contro l’intervento e truppe della Wagner arrivano nella capitale Nigerina Niamey per difenderla.
Mi pare piuttosto chiaro che la funzione della Russia, paese innegabilmente retto da una classe capitalista, abbia comunque in questo frangente una funzione storica antimperialista.
Mi pare altrettanto chiaro che per l’Occidente atlantista si ripeta lo stesso copione ucraino con la democrazia da una parte e la dittatura dall’altra, quando la peggiore dittatura totalitaria e antidemocratica in secoli di colonialismo è proprio quella dell’attuale neoliberalismo occidentale.
Lo scontro tra unipolarismo imperialista e multipolarismo dei popoli e dei paesi che si affrancano dal dominio imperialista mi sembra ormai piuttosto evidente e foriero di implicazioni in Occidente: un Europa ridotta a batustan degli USA che rischia la distruzione di una guerra allargata nel continente, e paesi imperialisti che si ritrovano senza uranio a buon prezzo mentre sul campo mondiale i flussi delle risorse si capovolgono a vantaggio di Cina e Russia.
Ciò comporta l’acuirsi delle contraddizioni economiche e sociali nei centri metropolitani dell’imperialismo a partire dall’Europa stessa.
Pertanto va da sé, che al netto di tutte le posizioni ideologiche e diritto-umanitarie colorate, è urgente inserirsi in questo conflitto mondiale per volgerlo anche nei nostri paesi occidentali a favore dei processi di liberazione popolare, che siano frutto di insurrezioni, elezioni o golpe. La democrazia borghese è andata ormai a farsi friggere e a questa storiella ci credono ormai solo i vari Mentana.
Il fascismo biopolitico e ipertecnologico delle democrature è quello che parla di democrazia a vanvera, mentre il patriottismo autentico e non quello nazionalista delle destre classiche, è internazionalista poiché non sostiene volontà di potenza contro i popoli, la predazione ultrasecolare, ma appoggia questi processi di liberazione. E questo (Cuba docet) è autentico internazionalismo.
Concludo ponendo come fondamentale, secondo quanto Gramsci definì come decisiva per un cambio rivoluzionario, la questione dell’egemonia, che oggi è duplice:
– affermare nella società italiana l’interesse vitale all’indipendenza nazionale del paese dalle gabbie imposte con organismi e dispositivi di potere sovranazionale: UE con i suoi trattati, Eurozona con la moneta unica, l’euro, la NATO
– affermare in questo processo costituente, di liberazione e costruzione che ha basi costituzionali l’egemonia delle classi popolari e lavoratrici in una visione di transizione al socialismo, a partire dai bisogni delle classi popolari che corrispondono alla centralità dello stato sociale, di un’economia pianificata, di un processo di socializzazione dei mezzi della riproduzione sociale e di una partecipazione popolare sul piano decisionale.
Se non comprendiamo questo passaggio storico e politico di questa epoca è come se non avessimo compreso nulla dei movimenti di liberazione e anticoloniali del Ventesimo secolo, come se dei comunisti non avessero capito nulla di Cuba socialista, di Sandino, del bolivarismo, del Cile di Allende, Corvalan e del MIR, del Vietnam di Ho Chi Min e Nguy Giap, proseguendo con una politica fessa e spanata, poiché dottrinaria e autoreferenziale.

 

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Note

1. I Montoneros furono un’organizzazione peronista argentina operante tra gli anni ’60 e ’70 per combattere  l’ascesa del fascismo, culminato nel golpe dei generali nel 1976, e che di fatto rappresentava l’ala sinistra del peronismo. Sul peronismo suggerisco la lettura dell’opea di Alfredo Helman Il peronismo, Edizioni Clandestine, 2005 Saggistica

2. Carlo Formenti “La variante populista”, Comunità concrete, ed. DeriveApprodi, pag. 9

3. Ibidem, pag. 9

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Quale Resistenza? https://www.carmillaonline.com/2023/04/24/quale-resistenza/ Mon, 24 Apr 2023 21:55:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76973 di Nico Maccentelli

Oggi è il 25 aprile e la Resistenza narrata dal regime, con le sue liturgie e le icone del passato tanto comode per le baruffe della partitocrazia, avrà anche troppo spazio. Per questo voglio fare qui una “contro-liturgia” (mo basta con le sacralizzazioni che depotenziano i reali contenuti!) e parlare di altre Resistenze: quelle di oggi, quelle che vengono occultate e censurate, attaccate e derise dal sistema mediatico.

Partiamo con la prima Resistenza, tutta Ucraina. Ma non quella della propaganda atlantista dei vari programmi su La7, la RAI, Mediaset, della [...]]]> di Nico Maccentelli

Oggi è il 25 aprile e la Resistenza narrata dal regime, con le sue liturgie e le icone del passato tanto comode per le baruffe della partitocrazia, avrà anche troppo spazio. Per questo voglio fare qui una “contro-liturgia” (mo basta con le sacralizzazioni che depotenziano i reali contenuti!) e parlare di altre Resistenze: quelle di oggi, quelle che vengono occultate e censurate, attaccate e derise dal sistema mediatico.

Partiamo con la prima Resistenza, tutta Ucraina. Ma non quella della propaganda atlantista dei vari programmi su La7, la RAI, Mediaset, della carta stampata come i bugiardoni di regime: La Repubblica, La Stampa e il Corriere, bensì quella di chi in quel vero e proprio mattatoio che è l’Ucraina, la guerra proprio non la vuole: non vuole combatterla e non vuole viverla. E rifiuta la narrazione drogata di un regime nato da un golpe targato CIA nel 2014, che ha non solo represso l’opposizione interna russofona e ortodossa d’osservanza moscovita, ma ha chiuso radio e giornali, messo al bando i partiti d’opposizione compreso il PC d’Ucraina, perseguitato giornalisti e chiunque cerchi di informarsi su canali alternativi e di esprimere il proprio dissenso. Un regime che con un sito, Myrotvorets (1), segnala i “nemici” da colpire e cancella come “eliminati” quelli assassinati dalle sue bande naziste, come accaduto al fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e alla giornalista Dughina. In una guerra iniziata con questo golpe e con l’aggressione alle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, nate per difendere la popolazione russofona dalla repressione nazi-banderista (2).

In questo contributo video di Nicolai Lilin si scopre che una rete di ragazzi ucraini, per fuggire dalla guerra, ha aiutato a scappare dal paese almeno (stima la Gestapo, pardòn, i servizi ucraini) 1500 retinenti alla carneficina bellica. A fuggire da un paese il cui governo ha persino proibito per legge l’eventualità di intavolare trattative con il nemico. Anche psicologicamente una gabbia sociale che non lascia alcuno scampo.
Due di questi attivisti si sono già presi sette anni. Il perno centrale di questo gruppo (non ne conosciamo il nome) stava in Moldova e fortunatamente è riuscito a scappare, evitando così i 9 anni che il regime banderista di Kiev voleva comminarli.

Questo dunque è un episodio della Resistenza vera in Ucraina, non quella del battaglione Azov spacciato dai nostri falsificatori a mezzo busto per un circolo di lettori di Kant. E neppure quella degli “anarchici” armati fino ai denti e a pieno servizio della strategia unipolare atlantista, organici all’esercito nazi-banderista, strani soggetti ai quali certa compagneria dà spazio associandola a Resistenze antifasciste e antimperialiste vere e proprie come in Rojava o nel Chiapas.

La vera Resistenza dunque, in Ucraina come altrove, è resistere alla guerra, battersi contro il fascismo di cui si tinge ogni regime che la guerra la vuole imporre sempre per gli interessi delle classi dominanti. Ciò significa disertare, rifiutare, sabotare e nelle condizioni che lo consentono, combattere l’unica guerra che valga la pena di essere combattuta: quella degli sfruttati contro gli sfruttatori, la guerra popolare e proletaria realmente antimperialista e di classe, nelle fasi politiche in cui questo passaggio si rende necessario e inevitabile.

Pertanto, è possibile sfilare il 25 aprile con le Schlein dall’elmetto rosa? No, proprio non è possibile. Non lo è in linea di principio perché come la Meloni e il resto della partitocrazia il PD è più che supino ai desiderata imposti dagli USA attraverso la NATO nell’invio di armi a Zelensky, in spregio e violazione ancora una volta dell’art. 11 della Costituzione. È soprattutto la forza politica maggiormente accreditata a Washington e non da oggi.

Non è possibile nemmeno riguardo il sentiment del nostro popolo, che non vuole questa guerra e non vuole mandare armi a uno dei due contendenti. Per cui, quale Resistenza abbiamo in comune con il PD e compagnia cantante? Nessuna, quando c’è chi sostiene un governo nazi-banderista e destra o sinistra che siano, obbediscono al padrone d’Oltreoceano andando persino contro gli interessi del proprio paese.

Ma questo sentiment nostrano, ben espresso da fior di sondaggi, si lega bene a un’altra Resistenza, che è andata oltre una visione del fascismo piuttosto retrodatata, fatta di orbace e fez, di nostalgici a Predappio e di gruppi manovrati dagli apparati dello Stato alla bisogna.

È una Resistenza diversa, che in questi tre anni è cresciuta in una vasta opposizione sociale alle restrizioni pandemiche che, la si pensi come si vuole, di fatto hanno rappresentato un laboratorio politico di controllo sociale che molti, purtroppo, nella sinistra di classe hanno sottovalutato. Una Resistenza popolare che ha attraversato numerosi paesi, dal nostro all’Australia, al Canada e a numerosi altri (3). Una Resistenza che ha saputo collegare questo passaggio autoritario di superamento persino dei diritti fondamentali “borghesi”, quello delle restrizioni “sanitarie” alla successiva fase di guerra che stiamo vivendo oggi.

Cos’è allora il fascismo e come si presenta oggi? In questo spunto di Andrea Zhok, c’è una sintesi che ben lo definisce:

«Dopo l’uscita giovialmente fascista di La Russa sui partigiani, eccoci ricaduti stancamente per la miliardesima volta nel giochino politico più stantio della storia italiana.
A destra ogni tanto si sveglia qualcuno, estraendo l’orbace dall’armadio tarlato del nonno, e per darsi un tono tira fuori qualche trombonata da Cinegiornale dell’Istituto Luce. Sorge naturale il sospetto che gente come il ridente Presidente del Senato siano a libro paga del PD, perché cosa farebbe il comitato di affari multinazionali che risponde a quel nome senza le sue cicliche rimpatriate “antifasciste”?
Se non ci fosse ogni tanto qualche anziano reduce che se ne esce con un bel “Quando c’era LVI!” una buona parte del PD (e dell’odierno arco costituzionale) non sarebbe distinguibile dal reparto pubbliche relazioni di una Corporation multinazionale.
Ma grazie al cielo ogni tanto, come i pugili suonati che menano pugni all’aria al suonare del gong, di quando in quando si riesce ancora a riesumare qualche scampolo di “minaccia fascista” d’antan e a “sinistra” per qualche giorno si può respirare:
“Fiuuu! Abbiamo ancora una ragione di esistere”.
Ora, il punto davvero grave, quello imperdonabile e che se ignorato oramai deve essere inteso come dolo, è non capire DOVE sta il potere oggi e qual è l’orizzonte odierno di pericolo rappresentato da QUESTO potere.
Perché, sia ben chiaro, è sacrosanto tener ferma la condanna del fascismo storico.
E’ sacrosanto perché è giusto lottare contro un Potere impermeabile alla volontà popolare, contro un Potere che monopolizza la comunicazione mediatica, contro un Potere che censura le voci politicamente sgradite, un Potere dove politica, “padroni del vapore” e magistratura si allineano nello schiacciare ogni contestazione, un Potere guerrafondaio e affetto da un patologico senso di superiorità.
E’ giustissimo combattere tutto questo.
Solo che oggi tutto questo non lo si trova sotto il nome “fascismo”.
Il Potere reale, il Potere apparentemente illimitato, arrogante e pericoloso oggi è nelle mani di un blocco politico tecnocratico e neoliberale, trasversale a destra e sinistra, un blocco il cui baricentro è il “medio-progressismo” (cit. Fantozzi) rappresentato al meglio da forze come il PD.
E’ così negli USA, è così nell’UE ed è così in Italia.
E riciclare oggi il “pericolo fascista” non è più un errore di analisi: è una colpa politica grave, è complicità con il potere nella sua forma più pericolosa.»

(Andrea Zhok)

Io semplicemente mi limito a definire il fascismo come quella forma di dominio repressivo e classista che il capitale assume in determinate fasi di crisi economica, politica e sociale nei confronti delle classi popolari subalterne. Quando il suo potere viene messo in discussione, ma anche quando il conflitto sociale è a dei livelli così bassi da consentire spazi di manovra sul corpo sociale tali da abbassare l’asticella dei diritti, dei salari, delle forme di democrazia che lo stato liberale aveva dapprima concesso nel corso delle lotte sociali.

Il primo caso, in Italia, trovò le sue massime espressioni con modalità diverse a seguito delle lotte operaie e contadine degli anni ’20 con l’ascea di Mussolini e nell’Italia del secondo dopoguerra attraverso la strategia della tensione e lo stragismo di stato voluto e diretto dagli USA negli anni della Prima Repubblica.

Mentre il secondo è proprio di oggi, dopo la sconfitta storica delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e di classe e della forza del movimento operaio nei mutamenti di composizione di classe e di avvento del tatcher-reaganismo neoliberista nei primi anni ’80 del secolo scorso. Se facciamo un paragone con la situazione francese, lo scarto di conflittualità sociale balza subito agli occhi.

La discesa in piazza di un movimento anti-pandemico, certo eterogeneo, con molta confusione, certe ambiguità, espressione dei più diversi settori sociali colpiti dalle restrizioni che toccavano anzitutto il mondo del lavoro: lavoratrici/tori, piccole attività, avrebbe dovuto comunque svegliare lo spirito tattico leninista in certi ambiti dei comunisti italiani. Ma si è lasciato il campo a forze di altra natura, spesso apprendisti stregoni che oggi nell’inevitabile riflusso del ciclo di lotte si contendono le spoglie di questo movimento con goffi quanto autoreferenziali tentativi di aggiudicarsi l’egemonia, di cosa poi…

Ma comunue questo vasto ciclo di lotte trasversali nel corpo sociale, il cosiddetto 99%, ha saputo collegare nel post-covid il legame di continuità tra la “dittatura sanitaria” e la guerra attuale. “Guerra e pandemia, unica strategia” è lo slogan che sintetizza questa consapevolezza in un antifascismo che  spesso è più nei fatti che nelle intenzioni, poiché il fascismo oggi si ripresenta come strumento autoritario della guerra imperialista, ma anche come laboratorio di controllo sociale e in specifico del capitale sul lavoro, come guerra sociale dall’alto, che non ammette emendamenti alla sua traiettoria bellicista e di rapina sociale.

Chi nell’ambito dell’antagonismo di classe ha paragonato il greenpass al tesserino sanitario, addirittura alla patente ha fatto e tutt’ora sta facendo del buon antifascismo? In realtà il compito di questo antagonismo doveva essere quello di andare in quelle piazze che hanno risposto con la mobilitazione al ricatto del greenpass, a un regime che ha sospeso migliaia di lavoratrici e lavoratori. Ma questa miopia gli ha impedito qualsiasi iniziativa in questo senso, lasciando nell’ignavia il miglior patrimonio politico della lotta di classe italiana. La risposta dunque è no, non fa un buon antifascismo.

L’intervento politico è venuto invece da quelle componenti di questo patrimonio che all’inizio in ordine sparso, poi via via con livelli minimi di organizzazione di base è stata interna a questo movimento e oggi spinge per sviluppare la consapevolezza che la guerra conclamata ha una stretta correlazione con la guerra biologica creata e sviluppata nei biolaboratori in tutto il mondo e di cui Wuhan rappresenta la struttura più nota ed emblematica. Così come la correlazione è anche tra guerra imperialista esterna e quella antiproletaria interna, con l’autoritarismo biotecnologico che piega il lavoro salariato agli standard di sfruttamento necessario al capitale per estrarre pluvalore relativo e assoluto dai corpi precarizzati, individualizzati, ossia privi di anche solo un’intenzione aggregativa di classe.

È su queste coordinate politiche che parte della sinistra rivoluzionaria sarà presente alla grande manifestazione del prossimo 1° maggio a Pesaro, contro la costruzione di un biolab di terzo livello in Italia e in una zona del tutto inadatta: vicino a numerose abitazioni e su terreno alluvionale (4).

La lotta dunque continua e non ho trovato parole più adatte per definire la nuova Resistenza a un capitalismo atlantista in declino e per questo ancor più pericoloso e feroce Sono queste parole di Davide, amico e compagno:

La Liberazione è cosa seria

E oggi più che mai necessaria: occorre liberarsi dal sistema della guerra permanente, dal sistema della paura, del terrorismo di stato che si sussegue ininterrotto di emergenza in emergenza per legittimare sempre nuove forme di comando e di sfruttamento.
Liberarsi dalla paura e dalla vigliaccheria che hanno portato a dare credito alla più grande operazione di militarizzazione integrale della società che hanno chiamato pandemia.
Quell’operazione NON È UNA PARENTESI INFELICE DELLA STORIA, bensì un’ accelerazione di processi già in atto da decenni e arrivati ora ad una svolta epocale, basata sul dominio totale dell’oligarchia capitalista in lotta per tenere a galla un sistema, il loro, malato terminale, che sta portando l’ umanità nel baratro.
Il primo passo del cambiamento necessario è avere chiara la visione dei processi in atto, cosa che per ora non si esprime minimamente a livello collettivo. Non a livello di massa.
Quindi non sorprende assistere allo spettacolo indegno di gente che scambia la guerra della Nato per Liberazione.
La maggior parte di quei signori sono gli stessi che parlavano di “responsabilità sociale” in appoggio alle inoculazioni forzate.
Di menzogna in menzogna, dalla guerra “sanitaria” a quella imperialista.
Due facce della stessa medaglia. Chi continua ad occultare una delle due, o applaudire ad entrambe, farebbe bene a lasciar perdere il 25 aprile, la liberazione ha bisogno di uomini e donne libere, non di servi addormentati.
Cominciare dal CORAGGIO, qualità primaria in via di estinzione: dal latino HABEO CORE, avere cuore.
Una vita senza coraggio è una vita senza cuore, da morti che camminano, il materiale umano necessario alle guerre del capitale.

DISERTARE RIFIUTARE SABOTARE.
Evviva la Libertà, evviva la liberazione.

Davide Milazzo, insegnante di arti marziali

 

Note:

1. Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Myrotvorets

2. Qui Valerio Evangelisti spiega molto bene il contesto in cui è nata questa aggressione, otto anni di bombardamenti sulla popolazione civile del Donbass. Aggiungerei una considerazione: la Resistenza in Italia ebbe l’apporto decisivo di forze imperialiste come quelle angloamericane contro il nazifascismo. Si facciano le dovute conclusioni e accostamenti a partire dalle ragioni di un popolo oppresso e a cui è stato vietato persino di parlare il russo. La questione è un po’ più complessa di come la pongono certi “compagni”.

3. si veda il laboratorio canadese nel mio intervento su Carmilla qui e a Radio Blackout il 23 febbraio 2022.

4. Qui il mio blog che dà spazio alle Lavoratrici e Lavoratori autorganizzati (Ravenna) e qui un sito dell’Assemblea Antifascita contro il Greenpass (Bologna). Entrambi articolano le mobilitazioni da un punto di vista di classe.

(Immagini tratte dalle opere di Bansky e il “Chef Guevara” da Tv Boy)

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Uno sguardo altro sulla Cina contemporanea e le sue contraddizioni di classe https://www.carmillaonline.com/2022/12/07/uno-sguardo-altro-sulla-cina-contemporanea-e-le-sue-contraddizioni-di-classe/ Wed, 07 Dec 2022 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74897 di Sandro Moiso

Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00

La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati [...]]]> di Sandro Moiso

Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00

La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati Uniti, il riferimento ai linguaggi e alle esperienze teoriche della Sinistra Internazionalista costituisce una solida base per l’analisi dei più importanti fenomeni sociali, politici ed economici e delle inevitabili contraddizioni di classe che hanno contraddistinto la Repubblica Popolare Cinese dalle sue origini fino a oggi.

Indagare sulle origini e le ragioni dell’attuale salda integrazione della Cina nella “comunità materiale del capitale” è il compito che si sono posti i membri del collettivo comunista internazionalista Chuaˇng, gruppo anonimo i cui membri si distribuiscono appunto fra la Cina e gli Stati Uniti. Il carattere Chuaˇng, da cui il collettivo prende il nome, in cinese è riassumibile nell’immagine di un cavallo che sfonda un cancello e riveste il significato simbolico di liberarsi, attaccare, caricare, sfondare, forzare l’entrata o l’uscita: agire con impeto.

Da alcuni anni le pubblicazioni sull’omonima rivista e la serie di articoli traduzioni e interviste ospitate sul blog chuangen.org, rappresentano una delle fonti di informazione e analisi più attente e pertinenti sulle dinamiche e le traiettorie delle trasformazioni sociali e del conflitto di classe nella Cina attuale. Il libro, appena tradotto in Italia ma già apparso nel 2016 sul primo numero della rivista, rappresenta la prima parte di un progetto in corso di pubblicazione sulla storia economica della Cina che, con taglio dichiaratamente “materialista”, vuole smarcarsi tanto da una letteratura “di sinistra” da anni sostanzialmente monopolizzata e caratterizzata dalle varie correnti ideologiche di origine “maoista” che, occorre qui ricordarlo, hanno spesso poco a che vedere con il marxismo inteso in senso stretto, quanto dallo specialismo di chiara marca accademica.
Come hanno sottolineato gli autori:

ripercorriamo lo sviluppo materiale della società cinese per evitare di rimanere invischiati nelle battaglie ideologiche del passato. Qua non si tratta di difendere una tradizione di sinistra contro un’altra. Anzi, a differenza della maggior parte delle ricostruzioni, la nostra serie storica de-enfatizza intenzionalmente i dibattiti ideologici e il ruolo dei leader, compresi quelli di Mao e Deng. Non siamo qui per riportare in vita i morti o per far rivivere le glorie del passato. Anche nel nostro lavoro di ricostruzione storica, il focus resta totalmente orientato al presente. Ripercorriamo gli sviluppi materiali della società cinese per tracciare le possibili aperture politiche del nostro tempo1.

Il sorgo e l’acciaio si concentra sul periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare fino agli anni della Rivoluzione culturale. A partire dalla ricostruzione del contesto economico e sociale in cui maturò il progetto rivoluzionario cinese (costantemente inteso nella sua dimensione collettiva di fenomeno di massa), ci guida nei meandri del processo di costruzione di quello che viene definito “regime sviluppista socialista”, vero assemblaggio in corso d’opera di pratiche, sistemi produttivi, metodi di inquadramento e disciplinamento della forza lavoro ed estrazione dl surplus agricolo, definito dal rapporto tra il Partito Comunista Cinese e la base sociale della rivoluzione.

E’ fra i meandri di questo processo che vediamo emergere tutti gli elementi che andranno a definire i contorni dell’attuale conflitto sociale in Cina: l’irrisolto divario tra città e campagna, la sovrapposizione fra strutture partitiche e apparati dello Stato, la graduale formazione di una classe dirigente di “ingegneri rossi” da un lato e di un semi-proletariato a cavallo fra mondo contadino e sfruttamento urbano, dall’altro. “Uno dei più importanti slanci verso lo sviluppo nella storia dell’umanità”: un sistema, come ci illustra Chuăng, crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni e del contesto storico internazionale in cui viene a maturare, ma che, nondimeno, sedimenta gli elementi strutturali che, a partire dalla successiva fase di “riforma ed apertura”, porteranno […] la Cina degli ultimi decenni a rappresentare non solo l’ancora di salvezza per un’economia globale scossa da una crisi ancora irrisolta, ma che ha costituito anche il teatro di una vivace, quanto in parte misconosciuta, conflittualità sociale e di classe, protagonista una giovane e massiva classe operaia cinese. Le sue lotte ricalcano in parte le caratteristiche e i limiti del ciclo di conflittualità globale dell’ultimo decennio, anche se, considerata la posizione strutturale del Paese, hanno, e non potranno che aver anche in futuro, un’eco e una portata mondiale2.

Per tutti questi motivi, si afferma ancora nella Prefazione:

Approcciarsi ad una comprensione della Cina contemporanea appare oggi compito non più procrastinabile. La rapida mutazione dello scenario internazionale, le linee di faglia che vanno ad approfondirsi, i tamburi di guerra totale sempre più incalzanti che fanno da sfondo a questa fase di transizione del capitalismo globalizzato, rendono ormai imprescindibile dotarsi di una cassetta degli attrezzi analitica e teorica “di parte”, che provi a sottrarre la “questione” della Cina tanto al tifo per un fantomatico “socialismo con caratteristiche cinesi”, che assumerebbe sempre più i tratti di faro alternativo per una parte consistente di periferia del mondo, quanto, soprattutto, alle sirene di una sinofobia occidentale sempre meno strisciante, substrato ideologico e narrativo dello scontro inter-imperialistico a venire3.

Attrezzarsi, dunque, non solo per capire la Cina e le sue contraddizioni, ma anche il conflitto interimperialistico allargato che verrà e che è già nell’aria e che, per forza di cose, vedrà coinvolte direttamente una potenza al suo tramonto e una già emersa da tempo. Non a caso due aree, quella dell’America settentrionale e quella sino-asiatica, da cui gli osservatori e i “tifosi” del conflitto di classe potrebbero e dovrebbero attendersi le sorprese maggiori.

Il presente volume costituisce, nell’intento degli autori, il primo volume di una serie di tre dedicati all’«emergere della Cina fuori dagli imperativi globali dell’accumulazione capitalista» e nello stesso si analizza

la fase esplicitamente non capitalista di questa storia, l’era socialista ed i suoi prodromi, durante la quale vide la luce la prima infrastruttura industriale moderna dell’Asia orientale. Il secondo volume coprirà la “Riforma e l’Apertura” avviate alla fine degli anni ’70, per giungere alla cosiddetta distruzione della “ciotola di riso di ferro” durante l’ondata di deindustrializzazione degli anni ’90. La sezione finale, che coprirà il terzo volume, illustrerà il periodo successivo a questa fase di deindustrializzazione ancora in corso, ivi inclusa la trasformazione capitalista dell’agricoltura e la creazione del proletariato cinese contemporaneo4.

Nell’analizzare l’evoluzione dei rapporti sociali e di classe all’interno del sistema politico-economico cinese i compagni di Chuăng utilizzano, come anticipato già dal sottotitolo dell’opera, la definizione di “socialismo sviluppista”, riferito in particolar modo al periodo compreso tra il 1949 e il 1969 ovvero tra l’affermazione della Repubblica Popolare e la fine della Rivoluzione culturale (1966-1969). Secondo gli autori, infatti:
Il sistema socialista, al quale qui facciamo riferimento come “regime sviluppista”, non fu né un modo di produzione né una “fase di transizione” tra capitalismo e comunismo, tantomeno tra modo di produzione tributario e capitalismo. Non costituendo un modo di produzione propriamente detto, esso non rappresentò nemmeno una forma di “capitalismo di Stato”, nel quale gli imperativi capitalisti potessero essere perseguiti sotto l’egida dello Stato, con una classe capitalista semplicemente sostituita nella forma, ma non nella funzione, da una gerarchia di burocrati governativi.
Il regime sviluppista socialista designò invece la rottura di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi astratti (siano essi tributari, filiali o di mercato) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo a trazione statale furono in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia dilagò perché non poté farlo la borghesia. Dato l’alto tasso di povertà e la posizione ricoperta dalla Cina lungo l’arco dell’espansione capitalistica, solo i programmi di industrializzazione “big push” di uno Stato forte, associati a resilienti configurazioni di potere locale, consentirono l’edificazione di un sistema industriale. Ma tale realizzazione non coincise con una transizione di successo ad un nuovo modo di produzione.
Questo sistema industriale non fu immediatamente o “naturalmente” capitalista. La storia è fondamentalmente contingente. Nell’era socialista non esistevano mercati, né in forma simile a quella assunta durante il precedente sistema imperiale, né con le modalità con cui si sarebbero sviluppati in futuro. Il denaro esisteva nominalmente, ma non era soggetto agli imperativi mercantili del modo di produzione tributario né agli imperativi del valore del sistema capitalista; rappresentava invece il mero riflesso meccanico della pianificazione statale, che non veniva calcolata in base ai prezzi ma in base alla pura quantità di prodotto industriale. Il denaro non poteva funzionare come equivalente universale. Nelle campagne la rendita veniva estratta sotto forma di grano, attraverso il sistema della “forbice dei prezzi”, ma questo prelievo non rispecchiava quello del sistema di tassazione imperiale, né si realizzava come espropriazione dei contadini e privatizzazione delle terre agricole. Fatto più importante, forse, mai in nessuna delle fasi precedenti della storia cinese la massa contadina era rimasta così ancorata alla terra. La divisione fra campagna e città che emerse in questi anni sarebbe diventata una caratteristica fondamentale del regime sviluppista. Sotto il socialismo non si verificò alcuna sostanziale urbanizzazione, a parte quella causata dall’immediata ricostruzione post-bellica o quella legata all’andamento naturale, e la transizione demografica (che vede la crescita dei lavoratori urbani impiegati nell’industria e nei servizi soppiantare la popolazione rurale) non ebbe luogo.
Allo stesso tempo, non v’era evidenza alcuna di una transizione verso il comunismo, che rimaneva un orizzonte puramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l’orario di lavoro tendeva ad aumentare, e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche ed atomizzate: una vita collettiva su piccola scala, lontana però dalla nuova società comunitaria promessa. La libertà di movimento diminuì con il proliferare delle crisi, presero forma due distinte classi di élite, il divario rurale-urbano si ampliò e, gli ultimi decenni del periodo videro l’emergere di una nuova classe di lavoratori diseredati. Ondate di scioperi ed altre forme di agitazione culminarono nella “breve” Rivoluzione culturale del 1966-1969 […] Nei primi anni del dopoguerra, il PCC fu in grado di mantenere l’egemonia sul progetto comunista grazie alle campagne ridistributive nelle aree rurali e la ricostruzione delle città. I fallimenti della fine degli anni ’50 (carestia nelle campagne e scioperi nelle città costiere), non solo misero in discussione il mandato popolare del partito, ma segnarono l’inizio del processo di ossificazione del progetto comunista stesso. Con l’evaporarsi della partecipazione popolare seguita a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si ritrovò ridotto ai suoi mezzi: il regime sviluppista. Questo stesso regime necessitava per il suo mantenimento dell’intervento sempre più esteso del partito, destinato così a fondersi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico de facto) e a recidere i legami con il progetto originale(( Ivi, pp.14-16 )).

Per questi motivi non solo i compagni del collettivo possono affermare che a differenza di molte sinistre, non devono nemmeno cercare di tracciare il “filo rosso” della storia, «per scoprire dove il progetto socialista “sarebbe andato storto” e cosa si sarebbe potuto fare per instaurare il comunismo in qualche universo parallelo», ma anche che

Ai comunisti di oggi, tra i quali ci collochiamo, la pratica, la strategia e la teoria del PCC (così come quella di altre formazioni all’interno di questa corrente storica) appaiono nel migliore dei casi estranee e, nel peggiore, aberranti. Nonostante i duri limiti materiali dell’epoca, possiamo affermare chiaramente come molte delle azioni introdotte dal PCC siano semplicemente ingiustificabili. Altre appaiono oscure o incomprensibilmente presuntuose. Ma questo genere di giudizi di valore ha scarsa utilità analitica. Esistono già numerosi resoconti che si prodigano a dipingere i fatti nei termini di un tradimento da parte di “falsi” comunisti, o semplicemente come prodotto dell’azione di una leadership avida e zelante. La storia qui esaminata non è una storia della morale. In accordo con il nostro approccio materialista, le questioni del tradimento o della rettitudine non costituiscono che fattori di minima rilevanza. Il progetto comunista cinese è stato fenomeno collettivo, frutto dello sforzo e del sostegno di milioni di persone. In questa sede tenteremo di scrivere una storia di tale progetto, e del suo fallimento5.

Resta, però, all’interno dell’analisi condotta nel testo un dubbio per il lettore più attento, riguardante la differenza che si vuole rimarcare tra esperienza cinese e esperienza russa.

Nostro obiettivo resta inoltre quello di analizzare l’era socialista cinese […]. Studi comparativi sui diversi progetti rivoluzionari sarebbero certamente utili, ma richiederebbero adeguati parametri di confronto. Oggi, la letteratura sulla Cina e su altri stati socialisti tende ad essere fortemente appiattita sull’esperienza russa. Una delle nostre tesi fondamentali è come semplicemente la Cina non fosse la Russia. Anche se influenzati dall’esperienza sovietica, i tentativi cinesi di emulazione non furono mai completi, comunque sempre applicati in un contesto fondamentalmente differente. Ancor più importante, il punto di riferimento risultava esso stesso in costante mutamento, ed i cinesi, nel progettare le proprie forme di gestione e pianificazione industriale, spesso attinsero da periodi divergenti della storia russa.
Al di là di questo, la geografia dell’influenza sovietica non fu uniforme. Al di fuori del cuore industriale del Nord-Est, la produzione cinese fu fortemente modellata su altri sistemi di gestione aziendale, pianificazione economica ed amministrazione statale. Assunta la Russia come modello, i cinesi attinsero anche dall’esperienza dell’epoca imperiale, del regime nazionalista del periodo repubblicano, dai giapponesi e dalle imprese occidentali nelle città costiere. Tutte queste influenze furono combinate nel tentativo consapevole di creare una nazione distintamente “cinese”, con una propria economia nazionale unitaria6.

Ciò non toglie però che l’economia cinese sia passata proprio nel periodo esaminato attraverso alcune tipiche contraddizioni di quello che era stato considerato il “socialismo in un solo paese” dell’URSS di età staliniana e successive. Per esempio la permanenza di un sistema salariale che, come si afferma ancora nel libro:

rispecchiasse le priorità strategiche d’investimento dello Stato centrale. In base a ciò, fra i lavoratori impiegati nell’industria pesante, gli addetti ai lavori manuali percepivano i salari più alti, con paghe per le maestranze di grado superiore quasi equivalenti a quelle dei quadri di medio livello (come i capi reparto), e fondamentalmente alla pari con le paghe dei docenti universitari e assistenti ingegneri. I lavoratori dell’industria pesante di grado inferiore, invece, ricevevano poco meno della media degli insegnanti di scuola elementare. Questo a sottolineare quanto le stratificazioni salariali progettate dal partito fossero destinate non solo a differenziare i diversi settori industriali urbani, ma anche i lavoratori stessi all’interno della fabbrica7

Mi perdonino gli autori, ma altro che “socialismo”, qui ci troviamo davanti agli stessi problemi sociali e organizzativi emersi durante l’industrializzazione forzata di staliniana memoria, con tutte le conseguenze politiche e di classe che ne derivarono. Motivo per cui, anche se non è il caso di riaprire qui il dibattito sulla permanenza o meno del capitalismo, seppur di Stato, in presenza del regime salariale di scambio ineguale tra lavoro e sua effettiva retribuzione, certo è difficile cogliere una significativa differenza tra il regime del lavoro vigente in URSS e quello cinese del periodo preso in esame. Questo paragone può valere poi ancora per la violenta, e drammatica, mutazione avvenuta in agricoltura che portò a momenti di carestia e fame diffusa.

Nella pratica le politiche del Grande Balzo finirono per minare le fondamenta stesse del regime sviluppista socialista arrestando la produzione e l’esportazione delle eccedenze di grano dalle campagne verso le cttà. Con una sottrazione di una significativa quota di forza lavoro dal settore agricolo e, allo stesso tempo, con la requisizione crescente di grano per il consumo industriale, la produzione totale del cereale rimase ben al di sotto del fabbisogno reale. L’agricoltura collettivizzata risultava in grado di fornire un surplus, ma senza riuscire a innescare quel tipo di rivoluzione della produttività che avrebbe resp veramente possibile un effettivo slittamento demografico. La produttività del lavoro agricolo non era progredita in modo sostanziale, specialmente se paragonata alle prototipiche rivoluzioni agricolebche avevano aperto la transizione capitalista delle nazioni europee. I risultati furono la carestia ed un devastante collasso economico8.

Ancora una volta lo stesso effetto ottenuto in Russia con l’industrializzazione forzata e la collettivizzazione agraria dall’alto degli anni Trenta. Occorrerebbe dunque evitare di negare la similitudine tra rivoluzione cinese e trasformazioni dell’URSS in chiave capitalistica, considerato che in entrambi i casi il termine socialismo è spesso servito per mascherare il salto verso lo Stato e l’economia di stampo capitalistico. Anche l’accentramento svolge questa funzione per un’economia arretrata o parzialmente tale oppure in crisi. Come accadde infatti anche nell’Occidente capitalistico con la Grande Crisi e l’intervento statale nell’economia ad opera del Fascismo, del Nazismo e del New Deal. Allora non è forse proprio lo sviluppismo a costituire il problema di fondo di transizioni che hanno avuto essenzialmente caratteri nazional-borghesi più ancora che socialisti?

Fatte però tutte le dovute considerazioni, non resta che sottolineare l’utilità del testo e il metodo applicato per arricchire un dibattito che ancora oggi, all’alba del terzo millennio e di un nuovo conflitto di portata mondiale e devastante, definire asfittico è ancora troppo poco.
Grazie dunque ai compagni di Chuăng e a quelli delle edizioni Porfido per l’impegno assunto nello stimolarlo con le loro ricerche e questa pubblicazione, motivo per cui non ci rimane che attender l’uscita degli altri due volumi previsti dell’opera.


  1. https://positionspolitics.org/dirty-work/  

  2. Prefazione all’edizione italiana di Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 6 -7  

  3. ivi, p.7  

  4. Chuăng, Introduzione op. cit., pp. 13-14  

  5. Ivi, p.17  

  6. Ivi, pp. 17-18  

  7. Ivi, p.89  

  8. Ivi, p. 133  

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