underground – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 20:04:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Blue bayou https://www.carmillaonline.com/2024/10/16/blue-bayou/ Wed, 16 Oct 2024 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84897 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.» (Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.»
(Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio quel superamento del limite dell’intimismo e della soggettività che tanto lo infastidiva nella maggior parte della produzione letteraria contemporanea. Soprattutto italiana.

Un soggettivismo e un intimismo che, troppo spesso, si cela anche all’interno di storie forzatamente drammatizzate, ma sostanzialmente prive di alcuno spessore epico, sociale e collettivo, che qui invece il lettore potrà trovare. Un’epica non basata su avvenimenti roboanti, portati in giro sotto le spoglie di comode etichette già da tempo cadute in disuso, ma sui fatti della vita quotidiana e della normalità esistenziale che si intrecciano con i movimenti della storia e della società nel suo caotico complesso. Una vicenda in cui, comunque, l’essere collettivo domina sull’essere individuale, irrevocabilmente destinato alla sconfitta.

Una storia di amicizia e, in qualche modo, di “tradimento” che ha fatto venire in mente a chi scrive queste righe, anche se non si tratta assolutamente di un noir, il romanzo forse più bello di Raymond Chandler: Il lungo addio. Metafore, entrambe le opere, dello scorrere inarrestabile del tempo e della vita, destinato come un grande fiume a portare via con sé amicizie, esperienze, vite e amori. Tutti espressione di momenti e di istanti irripetibili, che sembrano galleggiare disordinatamente sulla corrente, a tratti impetuosa e a tratti rallentate, della memoria collettiva o del singolo.

E’ certamente un luce crepuscolare quella che illumina le vicende, grandi e piccole, drammatiche o romantiche, che costellano la narrazione. Attenzione però, una luce crepuscolare che non corrisponde alla sempre banale e distorta nostalgia del ricordo a sé stante. Isolato dal contesto specifico e ridotto a semplice testimonianza dell’esperienza del singolo.

La storia del legame di amicizia, fratturato e contorto, tra Rhys Campbell, l’io narrante che come afferma lo stesso ha «scavalcato i sessanta da qualche anno», e Sal Smolinski, «di due anni più giovane», si snoda attraverso la storia sociale, politica ed economica degli Stati Uniti del secondo Novecento e degli inizi del secolo attuale. Anche se non mancano, attraverso altre presenze e personaggi, riferimenti ai tempi della schiavitù o delle lotte sindacali del periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale.

Una narrazione pacata e allo stesso tempo radicale, che ci accompagna in un viaggio ambientato per due terzi in Louisiana lungo le sponde del Mississippi, a New Orleans e nel bayou che caratterizza la regione1, ma che non manca di rinviare alla descrizione di altre città come New York, Chicago, Kansas City e Los Angeles, di cui vengono forniti ritratti sintetici ma efficaci, per poi concludersi a Londra, sulle rive di un altro fiume, il Tamigi.

La scelta della città in cui si ambienta la maggior parte della vicenda, New Orleans, con le vicine De Allemands e Venice, non è certo casuale poiché attraverso le memorie custodite tra le vie e le piazze di questa città è possibile ricostruire lo sviluppo della società americana e dell sue culture. Dalla tratta degli schiavi in Congo Square alla nascita del jazz fino all’uragano Katrina del 2005, anticipazione drammatica di tutti gli uragani a venire, fino a quelli che hanno recentemente colpito la Florida e altri stati del Sud degli Stati Uniti, e che sembra aver malignamente portato via con sé i ricordi di una storia secolare insieme ai quartieri più poveri della stessa città.

Una città di musica che è presente quasi in ogni pagina del romanzo: musica cajun dei francesi immigrati lì fin dal Settecento dopo la loro espulsione dai territori canadesi da parte dell’impero britannico, all’epoca ancora in piena espansione; lo zydeco derivato dall’incrociarsi di questa con quella degli schiavi africani portatori dei ritmi caribici; il blues e il jazz delle origini insieme al rock’n’roll e alle ballate folk del recentemente scomparso Kris Kristofferson, l’indimenticabile interprete del Billy the Kid portato sugli schermi da Sam Peckinpah. Ma tutte queste forme di espressione musicale, che compaiono in vari momenti della narrazione, non costituiscono però mere note di colore, marcandone piuttosto il ritmo: ora triste, ora allegro, ora solenne e talvolta caotico.

Si diceva all’inizio del paragone possibile con Il lungo addio di Chandler, ma qui non ci sono delitti o crimini evidenti. Il “tradimento” di Sal, in fin dei conti, non è soltanto nei confronti dell’amicizia con Rhys o dell’amore, mai del tutto compiuto, per la figlia Belle, è un tradimento “generazionale”. La fuga verso il successo individuale contro il sogno comunitario e ribelle di una generazione, o più generazioni, che hanno cercato e cercano di superare i limiti dell’esistente attraverso, sì, il disincanto (rappresentato nel romanzo dal personaggio di Marc, il “marxista” del gruppo), ma anche per il tramite della condivisione degli affetti e delle esperienze, delle storie vicine e lontane, per quanto drammatiche queste possano essere.

Tutto scorre, come nel celebre romanzo di Vasilij Semënovič Grossman. Scorrono i fiumi, il tempo, le vite, le rivolte, gli amori, le amicizie e i modi di produzione e riproduzione della vita stessa. Senza sosta, senza nostalgie, senza i sempre inutili rimpianti. Ciò che è stato è stato e non è possibile comunque tornare indietro, sembra suggerire l’autore. Che, con quest’opera, fa viaggiare il lettore avanti e indietro anche nel suo stesso percorso di scrittura, ricerca, vita e impegno: dai testi sul Mississippi e il Tamigi oppure su città come New York e Londra, a quelli sulla cultura e letteratura degli Stati Uniti (di cui è stato per anni docenti presso l’Università Statale di Milano); dalla vicinanza politica alla Sinistra Comunista fino ai testi, pubblicati già all’inizio degli anni Settanta sulle culture dell’Underground, la musica rock e popolare americana e la rappresentazione letteraria e politica della storia della lotta di classe in America (qui ).


  1. Il bayou (dalla lingua dei nativi Choctaw bayouk, che significa “tortuosità”) è un ecosistema, caratterizzato da acquitrini, fitte foreste e case su palafitte tipico del delta del Mississippi, in Louisiana. E’ costituito da distese paludose che si sviluppano tra i diversi bracci dello stesso fiume, mentre i corsi d’acqua formano una rete navigabile che la popolazione locale ha usato per secoli per spostarsi, pescare ed eventualmente sottrarsi al braccio del potere, come, ad esempio, ben narrano i romanzi noir di James Lee Burke.  

]]>
Estetiche inquiete. A volte (ri)emergono dal sottosuolo. Esperienze figurative underground dagli anni ’50 ad oggi https://www.carmillaonline.com/2022/09/09/estetiche-inquiete-a-volte-riemergono-dal-sottosuolo-esperienze-figurative-underground-dagli-anni-50-ad-oggi/ Fri, 09 Sep 2022 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73447 di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug [...]]]> di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug che ne possono compromettere il funzionamento.

Sull’onda delle celebri Vite vasariane, anche La guerra dei segni traccia il suo racconto dell’arte, in questo caso esclusivamente figurativa e realtivamente al solo suo underground side, a partire dalle vite dei singoli protagonisti. Se il volume cinquecentesco attorno alle biografie degli artisti sviluppava un’analisi delle modalità espressive succedutesi nell’arco di circa due secoli e mezzo, il libro di Teatro ricorre alle vite dei protagonisti tanto per verificarne ed esplicitarne l’appartenenza all’universo underground, quanto per individuarne i reciproci collegamenti nel tempo e nello spazio.

Ad essere ricostruito è l’ondivago percorso che nel corso del tempo e delle specifiche storie individuali ha visto questi protagonisti dell’universo underground oscillare tra il sistema dell’arte ufficiale e il rifiuto od il disinteresse di farne parte e tra le lusinghe, i respingimenti e le benevolenze ritardate del sistema stesso nei loro confronti.

Quello proposto da Teatro è un percorso reticolare in cui individualità o piccoli gruppi si sviluppano a macchia di leopardo salvo poi intrecciarsi con altre esperienze originatesi altrove per contaminazione o in maniera relativamente autonoma.

Il volume si apre nei garage californiani degli anni Cinquanta, tra decoratori e customizzatori di automobili e motociclette come Von Dutch (Kenneth Robert Howard) e Ed “Big Daddy” Roth che influenzano con le loro estetiche ambiti che vanno ben al di là di quelli motoristici, in un epoca segnata dalla guerra fredda che non manca di investire l’ambito artistico in quanto ingranaggio importante della macchina di costruzione dell’immaginario.

Uno snodo importante è rappresentato dalla scena controculturale e dall’universo psichedelico californiani da cui derivano grafiche innovative. Ad essere presi in esame sono illustratori come Wes Wilson, Stanley George Miller (Stanley Mouse), Alton Kelly, Rick Griffin, Victor Moscoso, Lee Conklin e Jim Franklin. Dal medesimo panorama culturale si sviluppa un’editoria underground, prende il via l’autoproduzione delle prime fanzine che contribuiscono a far circolare grafiche e fumetti di autori come Basil Wolverton, Robert Crumb, Gilbert Shelton, Ron Cobb, Spain Rodriguez, Trina Robbins, Steve Clay Wilson, Greg Irons, Robert Armstrong, Rory Hayes e Richard Corben.

Per quanto riguarda l’underground europeo il volume si sofferma su autori quali Hans Rudolf Giger, Martin Sharp e Alan Aldridge. Lo svizzero Giger, padre dei biomeccanoidi, ha prestato il suo estroso immaginario alla saga cinematografica Alien, oltre che ad aver contribuito, con un suo celebre inserto, a far mettere all’indice negli USA e in UK l’album Frankenchrist (1985) dei Dead Kenedys. Sharp è invece l’illustratore di origine australiana, poi trasferitosi a Londra, artefice dell’avventura inglese di «OZ» e di importanti collaborazioni con il mondo musicale dell’epoca, così come farà Aldridge.

In ambito italiano le origini dell’underground vengono fatte risalire nel volume verso la metà degli agli anni Sessanta attorno a «Mondo Beat», con i lavori di Matteo Guarnaccia, fondatore nel 1970 della rivista psichedelica «Insekten Skete» e del grafico Max Capa (Nino Armando Ceretti), autore nel corso degli anni Settanta di riviste come «Puzz», «Provocazione», «Apocalisse» e «Flashback».

Un rapido cenno è dedicato all’esperienza underground in Unione Sovietica portata avanti da autori come Aleksandr Melamind e Vitalij Komar alle prese con un controllo repressivo difficilmente eludibile.

Il libro passa poi ad indagare una serie di esperienze tra Stati Uniti ed Europa. Primo tra tutti il disegnatore Vanughn Bodé, che non manca di schierare i suoi ramarri contro l’intervento militare statunitense in Vietnam per poi evolvere la sua produzione verso una contaminazione tra fumetto underground e writing. Dunque è la volta di Eric Orr, realizzatore di grafiche per la scena hip hop da cui deriva negli anni Ottanta una fortunata serie di fumetti.

Una sezione importante è poi dedicata alla grafica e all’estetica punk con relativi manifesti, locandine, cover di dischi e punkzine. Tra gli autori trattati nel volume vi sono Jamie Reid, autore delle celebri cover dell’album Never Mind the Bollocks (1977) e del singolo God Save the Queen (1977) dei Sex Pistols, Raymond Pettibon, adottato dall’universo punk tanto da essere impiegato nelle cover dei dischi Six Pack (1981) e Police Story (1981) dei Black Flak, Winston Smith, creatore del logo dei Dead Kennedys e della copertina del loro album In God We Trust (1981), oltre che di Insomniac (1995) dei Green Days. Non poteva mancare uno spazio dedicato a Gee Vaucher a cui si devono le grafiche dei radicali e coerenti Crass. Con John Holmstrom e i fratelli Hernandez si giunge poi all’incontro del fumetto con il punk.

Il volume si occupa anche dell’arrivo (ritardato) in Italia delle grafiche e dei fumetti underground statunitensi. Ed a proposito del panorama italiano viene riservato spazio a una serie di autori – Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scòzzari, Massimo Mattioli ed Andrea Pazienza – che si intrecciano, a vario titolo, con la vita di riviste come «Combinazioni», «Cannibale», «Re Nudo», «Il Male» e «Frigidare».

Dunque è la volta dell’ambito sudamericano di fumettisti e illustratori, come Héctor Germán Oesterheld, Alberto Breccia e José Muñoz e di autori americani o europei che non disdegnano di operare ricorrendo al détournement di matrice situazionista o, ancora, personalità come Joe Coleman, Keith Haring, Carlos Rodriguez (Mare 139), Jean-Michel Basquiat, A-One (Anthony Clark) e Professor Bad Trip.

Un poderoso capitolo è riservato all’Arte di strada, dal writing alla scoperta dei graffiti da parte del mercato artistico. Per la scena americana vengono approfonditi Cornbread, Phase 2, Super Kool 223, T-KID, Chaz Bojorquez e Twist (Barry McGee), mentre per quella europea si approfondiscono le produzioni di Ateier Populaire, Don Leicht, John Fekner, Futura 2000, Blek le Rat, Speedy Graphito, Miss Tic, Jef Aérosol, LOKISS, Mode 2, Les Nuklé-Art, Banlieu-BanlieuThierry Noir, oltre a quelle proposte dalla scene di Amsterdam e del muro berlinese. Per quanto riguarda il contesto italiano vengono indagati gli ambiti della stencil art, dei serigraffiti, dell’Open Art Studio con Atomo, Swarz, Shah, e, ancora, Giacomo Spazio, Francesco Garbelli, Pao, DeeMO, CK8 e Pea Brain.

Un capitolo è dedicato all’arte di fine millennio con l’underground che conquista le gallerie (e viceversa), esempi di giornalismo illustrato, individualità artistiche e festival organizzati come HIU (dal 1993) nell’ambito dei Centri sociali milanesi e Crack! del Forte Prenestino romano.

Il volume si chiude con una sezione dedicata alla Street Art a partire dalle sue origini, passando per la scena di Bristol, dunque a quella internazionale fino all’Urban art con il nuovo muralismo e la propensione al gigantismo. In questi casi la rassegna avviene a “vernice ancora fresca”, nel pieno di un dibattito ancora acceso. [Su Carmilla:  1  2  3  4]

In conclusione, la grandezza e la forza dell’underground pare oscillare tra due miti estremi: da un lato il suo ostinato perpetuarsi tale in contrapposizione o in sottrazione al mainstream e dall’altro il volersi mantenere alternativa ad esso soltanto a tempo determinato mirando ad anticipare ed incidere sul mainstream e con esso su un ambito sociale e culturale più allargato.

Sospeso tra la volontà di essere un mezzo e quella di essere un fine, di certo l’universo underground, con tutte le sue contraddizioni, nasce da una oggettiva necessità espressiva, una necessità che ha attraversato il secondo Novecento ed è giunta fino ai nostri giorni che ha trovato nel do it yourself – ben da prima che il punk lo esprimesse con consapevolezza – la sua parola d’ordine che ovviamente non risolve, non potendo farlo, le contraddizioni di un sistema da cui non sembra possibile emanciparsi per sottrazione.

È forse nel dare a necessità immediate un soddisfacimento altrettanto immediato che va individuata la portata politica eversiva dell’underground e La guerra dei segni, nel suo tratteggiare un’altra storia dell’arte – non a caso a partire dalle vite dei suoi protagonisti – ne offre una panoramica preziosa.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

]]>
Ed.912 e dintorni – Editoria e controcultura italiana tra anni ’60 e ’70 https://www.carmillaonline.com/2022/03/16/ed-912-e-dintorni-editoria-e-controcultura-italiana-tra-anni-60-e-70/ Wed, 16 Mar 2022 21:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70942 di Gioacchino Toni

Nell’ambito delle iniziative e delle pubblicazioni dedicate all’intrecciarsi di vicende artistiche e impegno politico in Italia a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, vale la pensa segnalare l’uscita del saggio di Federica Boragina, Editoria e controcultura: la storia dell’Ed.912, (posmedia books, 2021), dedicato all’importante esperienza editoriale milanese che ha preso il via negli anni Sessanta.

Fondata nel 1966 da Gianni-Emilio Simonetti, Gianni Sassi e Sergio Albergoni, a cui si aggiungeranno poi Tommaso Trini, Germano Celant, Mario Diacono e Maria Volpi, la casa editrice Ed.912 prende vita all’interno di una scena [...]]]> di Gioacchino Toni

Nell’ambito delle iniziative e delle pubblicazioni dedicate all’intrecciarsi di vicende artistiche e impegno politico in Italia a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, vale la pensa segnalare l’uscita del saggio di Federica Boragina, Editoria e controcultura: la storia dell’Ed.912, (posmedia books, 2021), dedicato all’importante esperienza editoriale milanese che ha preso il via negli anni Sessanta.

Fondata nel 1966 da Gianni-Emilio Simonetti, Gianni Sassi e Sergio Albergoni, a cui si aggiungeranno poi Tommaso Trini, Germano Celant, Mario Diacono e Maria Volpi, la casa editrice Ed.912 prende vita all’interno di una scena artistica del capoluogo lombardo particolarmente effervescente a cavallo tra i due decenni, una scena che non manca di intrecciarsi con i nascenti ambienti controculturali e politici. Sul finire degli anni Sessanta l’avventura di Ed.912 si allontana dall’iniziale ambito strettamente artistico per abbracciare la montante cultura alternativa della “città dei capelloni”.

Il volume di Boragina si apre ricostruendo l’ambiente artistico-culturale milanese che farà da premessa all’esperienza della casa editrice Ed.912 a partire dalla mostra organizzata da Daniela Palazzoli e Gianni-Emilio Simonetti nel 1964 Gesto e Segno presso la galleria Blu di Milano – incipit dell’avventura Fluxus italiana – e dall’esperienza della East 128 di Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass dei primi anni Sessanta – a cavallo tra Palo Alto in California e la città meneghina –, passando poi dalla breve stagione della rivista Pianeta Fresco e poi di Mondo Beat, che non mancò di scagliarsi apertamente contro Pivano e Feltrinelli accusati, nel loro agire all’interno dell’industria culturale, di banalizzare, quando non di commercializzare, la protesta giovanile.

L’attività di Ed.912 prende il via con la realizzazione del numero zero della rivista da-a/u delà intitolato Ready-Game-Bum che nella sua forma oggettuale si propone come una scatola, su cui campeggia l’inquietante scritta “Attention (handle with care) contains explosive”, contenente una radio a galena e un provocatorio messaggio dattiloscritto che invita a innescare un’esplosione. Oltre a giochi linguistici dal sapore non-sense, evidenti sin dal nome della testata, occorre sottolineare il ricorso a caratteri a stampa minuscoli e maiuscoli ed a trattini di punteggiatura che richiamano i giochi grafici di George Maciunas.

Le prime proposte di Ed.912 tendono a porre l’attenzione non tanto sulla tipologia dei prodotti editoriali, quanto piuttosto «sul carattere corale delle attività di sostegno, diffusione e sperimentazione. L’ambizione è avere un orizzonte internazionale, facendo da collettore e diffusore della cosiddetta “nuova nuova avanguardia”» (p. 57).

Se sin dagli esordi Ed.912 non manca di esporsi politicamente, dichiarandosi disponibile ad inviare gratuitamente le sue pubblicazioni ai reclusi nei campi profughi e nelle carceri civili e militari, allo stesso tempo non disdegna di dialogare con l’industria culturale accettando la distribuzione delle proprie realizzazioni nelle librerie Feltrinelli e di ricorrere ad annunci pubblicitari.

Tra le realizzazioni più importanti della casa editrice, oltre alla rivista bit, in doppia lingua italiano-inglese, di cui vengono pubblicati dieci numeri usciti in maniera irregolare dal marzo 1967 al giugno 1968, si possono ricordare le tre serie di manifesti d’artista (“dEDsign”, “Situazione” e “No”) realizzati in 500 esemplari numerati con l’obiettivo di condurre l’arte ad invadere l’ambito della comunicazione pubblicitaria e della propaganda politica.

Nonostante l’esplicito riferimento a temi politici, nazionali e internazionali, nonché l’esplicita vicinanza al clima della contestazione, nel corso del 1967 l’Ed.912, attraverso la produzione di manifesti, da un lato ha evidenziato la vicinanza dei linguaggi artistici all’espressività extra-artistica dei movimenti giovanili, dall’altro orientando la stessa operatività artistica verso una dimensione plurale, seriale, capace di veicolare una “rivoluzione culturale” dall’interno del sistema dell’arte (p. 105).

Il quinto numero di bit ha fatto parlare di sé per la celebre grafica di copertina realizzata da Pietro Gallina recante la sagoma di una donna, con una copia della rivista in tasca, che dirige il getto di una bomboletta spray verso il volto di un poliziotto in uniforme inglese. La rivista suggerisce di acquistare una bomboletta messa in vendita dall’editore con un invito perentorio: “Dipingi di giallo il tuo poliziotto”.

Sul finire del 1967 il clima nel capoluogo lombardo si surriscalda e la rivista stessa passa velocemente dalla critica culturale ironica a dare spazio alle molteplici iniziative di lotta e contestazione che attraversano la società dalle università alle fabbriche fino alle mostre e alle iniziative artistiche e culturali. Tale scelta è accompagnata anche da una nuova produzione di manifesti che continua a ricorrere al succinto e diretto linguaggio della pubblicità. Tra il 1968 ed il 1969 la casa editrice dà alle stampe un volume dedicato al Maggio francese e due relativi all’Internazionale Situazionista (L’estremismo coerente dei situazionisti e Capitalismo moderno e rivoluzione).

L’ultima parte del volume di Federica Boragina si sofferma invece sulle travagliate vicende editoriali del libro …ma l’amor mio non muore. Origini documenti strategie della «cultura alternativa» e dell’«underground» in Italia, uscito originariamente per la casa editrice Arcana nel 1971, riuscendo a scampare al sequestro delle copie stampate soltanto perché queste furono vendute prima.

Ristampato recentemente da DeriveApprodi, il volume si presenta come una sorta di sguaiata antologia di rivolta esistenziale, prima ancora che politica, contenente consigli pratici relativi al difendersi dai gas lacrimogeni, alla fabbricazione di bottiglie incendiarie, sostanze stupefacenti, ripetitori radio pirata, oltre che volantini, stralci di giornali, illustrazioni e fumetti insieme a commenti situazionisti, beat ecc. “Una critica ironica, divertita, colta, cattiva allo stato presente delle cose” curata, oltre che da Gianni-Emilio Simonetti, da Riccardo Sgarbi, Guido Vivi e altri.

]]>
Estetiche inquiete. Il nero, il punk, il teschio… Processi di estetizzazione del malessere https://www.carmillaonline.com/2020/08/19/estetiche-inquiete-il-nero-il-punk-il-teschio-processi-di-estetizzazione-del-malessere/ Wed, 19 Aug 2020 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61486 di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico [...]]]> di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico si sarebbe nutrito il mondo della moda e del lusso per decadi a venire senza quasi dover muovere un dito per rinnovarsi.» Claudia Attimonelli

Teschi, vampiri, zombie, junkie ed estetica black da tempo sono parte integrante dell’iconografia occidentale. Visto che le scene urbane e mediatiche contemporanee celebrano l’immaginario dell’anomia e del disagio, viene da domandarsi perché male e malessere hanno proliferato nel corso dei secoli al punto da essere oggi percepiti come del tutto ordinari aspetti del quotidiano.

Attraverso gli studi visuali, la mediologia e la sociosemiotica, Claudia Attimonelli, nel suo Estetica del malessere (2020), uscito per la collana Anomalie Urbane, recentemente inaugurata da DeriveApprodi, indaga l’iconografia di tale fenomeno nel solco della schiavitù dei neri (tragica origine), passando in rassegna una serie di produzioni visuali, musicali, vestimentarie e artistiche coinvolte in questo processo di “estetizzazione del malessere” che integra il male nel quotidiano rendendolo innocuo e banale.

In tale scenario nero – segnato da teschi, macchie, sudiciume, malessere, disagio, anomia e morte –, il male, da pericolosamente banale (H. Arendt), per mezzo di un processo di estetizzazione «attraverso subdoli e lusinghieri travestimenti, continua il suo incedere tardo novecentesco, a tratti indolente, altrimenti risoluto, che con determinazione lo fa capillarmente accomodare tra le pieghe confortevoli del malessere comune del nuovo Millennio». (p. 84)

Nei contesti urbani il disagio è da tempo al centro di forme vestimentarie e cosmetiche derivate dall’intrecciarsi di “sprezzatura del lusso” ed elementi “dell’underground”. L’estetica mainstream ha ampiamente saccheggiato la vita disagiata di strada (dalle culture giovanili metropolitane agli homeless), dando luogo a linguaggi che, pur mantenendo traccia del malessere esistenziale, incarnano forme di coolness o di chic. Il mondo della moda ha attinto a piene mani dall’abbigliamento dei clochard – capi oversize, lacerati, macchiati, indossati stratificati uno sull’altro –, dalle fogge militari già détournate dagli street stile, dal nomadismo urbano giovanile e pendolare: ecco allora i vari “clochard couture”, “military chic” e “treveller style”, in un “contagio delle lontananze” in cui si intrecciano esteticamente hipster e pariah.

Il processo di estetizzazione di anomia e margini, oltre che la moda ha investito l’ambito mediale in un imperversare di estetiche postapocalittiche, paesaggi corrotti e scenari estremi: basti pensare al dilagante fenomeno zombie che, soprattutto a partire dal nuovo Millennio, si inserisce all’interno di una più vasta ascesa di un immaginario survivalista. Secondo Attimonelli il ricorso a

stilemi capaci di esaltare i tratti più vistosamente molli e decadenti quali l’usura dell’abito e le macchie, i buchi, i tagli negli indumenti, i bordi dell’abito che terminano in liminari contorni cenciosi, non vanno intesi come un nuovo decadentismo, né tanto meno come tracce che rinviano all’appartenenza a comunità marginali o vicine al piccolo crimine, bensì, in quanto manifestazioni di un afflato mondano esse incarnano la tragicità del quotidiano détournata in una sorta di disagio agiato. (p. 92)

La studiosa si sofferma anche sull’insistenza con cui viene fatto ricorso nella contemporaneità alla rappresentazione del cuore e del teschio. L’immagine del Sacro Cuore di Gesù – abitualmente posto al centro di una raggiera dorata con tanto di croce, corona alla sommità e intrecci di spine – viene introdotta in epoca barocca ma una volta disgiunta dalla tradizionale collocazione al centro del petto di Cristo, il Sacro Cuore diviene un feticcio a sé.

Dal punto di vista semiologico il trasferimento segnico-simbolico che ha visto il cuore nel corso dei secoli, da organo del corpo umano divenire rappresentazione di un sentimento potente quale l’amore (sia divino che terreno), ha avuto luogo a partire da un “residuo segnico non tradotto” […] un sovrappiù di significato, una sorta di pleonasma semiosico, […] un’eccedenza extra-anatomica, qualcosa che supera il mero organo vitale per espandersi placidamente insieme alla stessa estetica barocca. Ivi, infatti, troviamo un trionfo della significanza (la passione) sul significato (la vita viva) veicolato dal significante (il muscolo cardiaco). Una tale ridondanza semiosica si esprime attraverso la forma semplice e universalmente riconosciuta del cuore, laddove il colore rosso vivo e la collocazione al centro del petto coincidono con l’umanità e, per estensione, anche con i sentimenti connessi con la Vita. Seguendo questo filo rosso ritroviamo la rappresentazione cardiaca nella postmodernità. È il cuore fiammeggiante che gronda sangue, dai riflessi cromati e potenzialmente ammalato di carcinoma quello che oggi abita nelle ampollose ed enfatiche complex emoticon della rete e non più il simbolo scarno degli anni Ottanta né quello noto nelle scritte minimali delle t-shirt I love NY. Non è raro, infatti, rinvenire su schiene, braccia, nuca e polpacci, colorati tatuaggi che riportano il cuore trafitto dalla cui ferita sgorgano gocce lacrimose di sangue; talvolta il taglio della ferita cristiano – una breve linea rossa – diviene un occhio allorché alla misericordia del cuore palpitante di Cristo si associa l’illuminazione del Buddha. (p. 97)

Passando dalle danze macabre medievali, alle orrorifiche immagini barocche e alla sua versione più stilizzata novecentesca, il teschio è giunto sino ai nostri giorni e proprio grazie a questa sua evoluzione minimale, con il suo immaginario mortifero, è stato assorbito dall’industria della moda.

Il quotidiano si è connotato sempre di più di uno spettro immaginifico potente. Il subdolo addomesticamento del memento mori di hamletiana memoria si è insediato viralmente con la sua espressione di vacuità postumana e con la sua macabra onnipresenza ovunque, dalle t-shirt alle custodie per smartphone, soppiantando l’emanazione del terrore maligno che non riusciva più a esprimere la propria vocazione intimidatoria. […] Per la post-umanità del nuovo Millennio l’ordinario è l’anomico che può distinguersi, resistere. Dopo una pandemia che ha allontanato ogni essere umano dall’altro, mentre una marea di corpi si riversa in strada e lancia nelle acque torbide dei fiumi le statue del colonialismo americano, si avverte l’approssimarsi di un futuro che non deve costruirsi sul valore della sola cultura bianca occidentale: black lives matter. Il punk, il dandy, l’afrodark, sono le estetiche radicali del disagio ad alta implicazione segnica e sociale per quanto riguarda il genere, le relazioni interrazziali, i diritti. (pp. 104 e 112)

]]>
The American Dreamer, di Lawrence Schiller https://www.carmillaonline.com/2019/09/16/the-american-dreamer-di-lawrence-schiller/ Mon, 16 Sep 2019 21:29:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54684 di Mauro Baldrati

Se esistesse un museo dell’underground questo film sarebbe uno dei pezzi forti. Lo stile, la fotografia, i personaggi, i luoghi, sono tutti elementi conformi. La vocazione c’è. E’ un prodotto underground che potremmo definire perfetto. E’ del 1971, e fu girato contestualmente a Fuga da Hollywood, la risposta (fallita?) a Easy Rider (1969). Ovvero l’opera seconda di Dennis Hopper come regista. Questa eredità, va detto, era particolarmente pesante, essendo la sua opera prima un capolavoro. Fuga da Hollywood restò nelle sale americane una manciata di giorni, poi fu tolto e [...]]]> di Mauro Baldrati

Se esistesse un museo dell’underground questo film sarebbe uno dei pezzi forti. Lo stile, la fotografia, i personaggi, i luoghi, sono tutti elementi conformi. La vocazione c’è. E’ un prodotto underground che potremmo definire perfetto. E’ del 1971, e fu girato contestualmente a Fuga da Hollywood, la risposta (fallita?) a Easy Rider (1969). Ovvero l’opera seconda di Dennis Hopper come regista. Questa eredità, va detto, era particolarmente pesante, essendo la sua opera prima un capolavoro. Fuga da Hollywood restò nelle sale americane una manciata di giorni, poi fu tolto e seppellito per sempre in qualche oscuro magazzino.

Mentre Hopper, con parte della troupe, si trovava nella sua casa-laboratorio nel deserto del New Mexico per il montaggio, fu girato questa specie di documentario. In realtà è una sorta di biopic in tempo reale, con lui al centro di una comunità variegata di giovani, qualcuno che suona la chitarra, un drappello di ragazze hippy che ridono in continuazione (attrici?), tecnici del montaggio; e lui che parla, parla, strafumato di marijuana, coi suoi occhi velati di tristezza e/o di spavento, con quei gesti bruschi, quel toccarsi di continuo la barba, quell’accendersi nevroticamente una sigaretta dopo l’altra.

La macchina da presa è nervosa, ballerina. Lo riprende nel deserto mentre spara con un revolver o con un fucile da guerra, oppure mentre riflette… su cosa? La vita? La filosofia? Difficile dirlo. I suoi soliloqui sembrano usciti da un misterioso disordine mentale comprensibile solo a lui stesso. Evocano certi contorcimenti verbali, come i dialoghi di alcuni film di quegli anni (uno per tutti il dialogo tra i due taxisti in Taxi Driver). Un parlare, pensare (e talvolta agire) a vuoto che per taluni volevano rappresentare una forma di follia americana, per altri erano la follia americana, ripresa dalla materia viva.

Poi lo troviamo in casa, tra gente di passaggio, le ragazze, sempre invocate da lui che le aspetta, le sogna: “modelle” oppure “conigliette di Playboy”, che sembrano impersonare il suo unico modello di ragazza. Proprio con una, che pare di capire sia una coniglietta, avviene un dialogo “all’americana”, folle, sconclusionato: Dennis Hopper continua a ripetere che preferisce “leccarla” che “scopare”, per cui si/le chiede: “Allora sono una lesbica? Dici che sono una lesbica?” E quella, seria, con aplomb britannico risponde… ma cosa risponde? Cosa può rispondere?

L’ambiente è surreale, straniante, depresso, proprio come in certi lungometraggi warholiani, uno stile che lui conosceva bene, avendo recitato, nella sua lunga carriera di attore, in due film nel 1964.

Ma Warhol si trovava al centro esatto della storia, nel cuore degli anni ’60, l’underground cool e disperato che seguiva l’onda dei beat, mentre Hopper col suo lavoro artistico è già entrato nella deriva del decennio successivo. Una sconfitta annunciata nel suo capolavoro Easy Rider, soprattutto nel finale. E non solo. Anche nei due personaggi, lui e Peter Fonda, nel loro essere pusher di cocaina, per cui si chiede: che differenza c’è tra loro e i due del pick up che gli sparano?

Non è un giudizio critico ovviamente, ma uno dei tanti tasselli di un flusso delirante che viaggia nelle immagini, nella fotografia scadente (voluta?), sgranata, slavata; l’antitesi del patinato. Un pendant perfetto con l’atmosfera povera e depressiva che avvolge tutto il film.

E quel drappello di ragazze che non fanno altro che ridere non infonde nessuna allegria, ma un senso di vuoto e di solitudine. I corpi, anche negli inserti di nudo, con lui che fa un’orgia con due ragazze (conigliette anche loro?) in una vasca da bagno, sembrano desolati in quella luce cruda.

Insomma, per citare un famoso enunciato critico, The american dreamer è “Una cagata pazzesca”?

Sì. Ma anche no. E’ utile come reperto storico. In questo è perfetto. Per i giovani può essere un formidabile documentario archeologico su un tempo lontanissimo, perduto, che si estinguerà per sempre dopo la dipartita degli ultimi sopravvissuti. Una favola interpretata dai padri, o addirittura dai nonni.

Per i più anziani può essere una madeleine un po’ avvelenata che permette di giudicare/rivivere il passato senza mitizzarlo come coazione a ripetere, né rimuoverlo o negarlo. Una cura efficace per liberarsi, finalmente, dal giogo di una eterna, tirannica adolescenza.

]]>
It’s the art of graphic novel, baby! https://www.carmillaonline.com/2018/01/10/its-the-art-of-graphic-novel-baby/ Wed, 10 Jan 2018 22:32:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42556 di Sandro Moiso

Per l’ennesima volta, negli ultimi cinquant’anni di storia editoriale italiana, stiamo assistendo ad un autentico assalto alla diligenza del mercato del fumetto e dei comic book. Editori grandi e piccoli, conosciutissimi e assolutamente sconosciuti, o quasi, inondano infatti fumetterie, edicole e librerie di una massa impressionante di libri, quasi sempre graphic novel, ed albi a fumetti rischiando di impattare, probabilmente a breve, in una delle tante crisi editoriali che, nel periodo sopra citato, hanno portato alla scomparsa di tante case editrici specializzate nel settore.

Tali, prevedibilissime crisi non sempre [...]]]> di Sandro Moiso

Per l’ennesima volta, negli ultimi cinquant’anni di storia editoriale italiana, stiamo assistendo ad un autentico assalto alla diligenza del mercato del fumetto e dei comic book. Editori grandi e piccoli, conosciutissimi e assolutamente sconosciuti, o quasi, inondano infatti fumetterie, edicole e librerie di una massa impressionante di libri, quasi sempre graphic novel, ed albi a fumetti rischiando di impattare, probabilmente a breve, in una delle tante crisi editoriali che, nel periodo sopra citato, hanno portato alla scomparsa di tante case editrici specializzate nel settore.

Tali, prevedibilissime crisi non sempre sono dipese soltanto dai meccanismi più scontati della sovrapproduzione e del sottoconsumo insiti nella società mercantile, ma anche da un’abbondanza di proposte che, per mantenersi tale, spesso ha abbandonato la qualità a favore della quantità.
La necessità di rubare spazio nelle edicole o sui banchi delle librerie alla concorrenza ha portato, ciclicamente, a vanificare lo sforzo propositivo iniziale a favore della novità e della qualità, sia che si trattasse, nel corso del tempo, della diffusione dei fumetti popolari thriller-horror-avventurosi ad alto contenuto erotico e della scoperta dei super-eroi della Marvel alla metà degli anni sessanta oppure della scoperta del fumetto francese e d’autore negli anni settanta-ottanta o, ancora, quella dei manga giapponesi nel corso degli anni ottanta e novanta e in seguito della rilettura del fumetto d’azione o superomistico in chiave complessificata tra gli anni novanta e i duemila.

Tali periodi di espansione e crisi hanno sicuramente portato ad una selezione “naturale” di case editrici e modelli narrativi e stilistici particolarmente severa, ma tale severità, spesso di ordine economico, non sempre ha giovato al miglioramento generale della comic art e dei gusti del pubblico anche se in alcuni casi, si veda l’esempio di una delle massime case editrici di fumetti popolari come la Bonelli, ha portato ad un equilibrio prima sconosciuto tra fumetto di massa e opera d’autore, sia nella grafica che nelle sceneggiature.

Tra alcuni giganti dell’editoria scesi in pista negli ultimi tempi, come la Mondadori con la nuova collana Oscar Ink e la Rizzoli con l’acquisizione del marchio Lizard, e alcuni piccoli editori, come la Salda press affermatasi con le collane dedicate ai morti viventi, al fantastico e alla fantascienza, vale qui la pena di sottolineare l’autentica e interessante azione culturale portata avanti, ormai da qualche anno, dalla Eris di Torino che con la sua collana Kina ha proposto e propone metodicamente alcune delle opere più interessanti del settore, scelte nel panorama internazionale e nazionale.

Tale qualità è sempre legata ad una cura editoriale che nel formato dei volumi, nella scelta della carta, nella riproduzione dei colori e delle grafiche oltre che nella traduzione e del lettering è veramente encomiabile. Mentre allo stesso tempo la scelta editoriale non confonde mai l’interessante con ciò che annoia, come purtroppo spesso accade con ricostruzioni di fatti storici o biografie attraverso l’uso didascalico e para-didattico del fumetto, al contrario, probabilmente, di quanto vanno facendo altri big dell’editoria (da Newton Compton a Feltrinelli oltre a quelli già citati).

Un settore editoriale in cui si stanno buttando tutti perché si dice che sia tra quelli che tirano di più adesso e che ha fatto dire a qualche esperto che “tra poco anche la Crai avrà la sua collana di fumetti”.
Mentre tutto questo potrebbe già creare entro il 2018 una incredibile bolla destinata ad esplodere: troppi libri per troppi pochi lettori.
Lasciandosi dietro una moria di autori giovani, vanitosi, sedotti e abbandonati, se non bruciati, che preferiscono essere lusingati dai big anziché coltivare un proprio percorso artistico. Insomma, storie già viste.

Di quanto fino ad ora detto, invece, a proposito della qualità e dell’originalità, ne sono prova tre volumi pubblicati da Eris nella parte finale dell’ormai trascorso 2017:

Danijel Zezeli, BABILON, Eris novembre 2017, pp.116, € 17,00

Liz Suburbia, Sacred Heart, Eris settembre 20117, pp.310, € 19,00

Professor Bad Trip (Gianluca Lerici), PSYCHO, Eris ottobre 2017, pp.106, € 16,00

Il primo è l’opera di un autore croato che, lasciata Zagabria nei primi anni ’90, lavora attualmente come fumettista, pittore, animatore e illustratore , vivendo tra Zagabria e Brooklyn. Tipico ed importante esponente del genere definito come wordless novel, Zezeli ha collaborato numerose serie vincitrici di premi come DMZ, Northhlanders, Scalped, Hellblazer, Loveless e El Diablo con editori come DC Comics e Marvel.

Il suo è un tratto sanguigno, che buca la pagina e, soprattutto nelle opere in bianco e nero come la presente, non ha bisogno di parole. In questo caso, una storia di corruzione,di speculazione e di degrado urbano assume una dimensione onirica che si pone a metà strada tra la storia fantastica e la disgressione di carattere sociale senza che il lettore abbia bisogno di ulteriori aiuti o per comprendere da che parte, e perché, stanno i “buoni” e i “cattivi”. Un autentico realismo magico di cui l’autore croato, che con l’opera Luna Park nel 2010 ha ottenuto una nomination all’Eisner Award nella categoria Miglior Disegnatore, è un autentico maestro; rinviando per certi versi, e soltanto per fare un esempio ed un confronto con un altro grande autore, a quell’UT di Corrado Roi pubblicato in sei albi da Bonelli nel corso del 2016.

Il secondo volume qui presentato è quello che maggiormente corrisponde alle caratteristiche della graphic novel. Una vicenda che vede come protagonisti i teen ager di una cittadina americana dove, per qualche oscuro motivo, gli adulti sembrano essersi eclissati e scomparsi. Una storia in cui i sogni d’amore e d’amicizia dell’adolescenza si incrociano furiosamente con una sessualità che si deve manifestare nelle infinite forme dell’erotismo, dalla gioia all’incubo alla perversione, e con una graduale sparizione degli adolescenti stessi ad opera di un misterioso assassino.

Liz Suburbia, una delle nuove e più promettenti voci della scena del fumetto indipendente degli States, entra nel catalogo Eris e tra il pubblico italiano con un’opera sicuramente originale dal punto di vista della sceneggiatura e dal segno grafico apparentemente semplice ma niente affatto scontato, che ben si attaglia alla ricerca continua di nuove narrazioni, eterodosse, capaci di ibridare diversi generi portata avanti nella collana Kina.

Sacred Heart si concentra sulla vita di Ben, un’adolescente arrabbiata e solitaria, che fa tatuaggi, va a concerti punk e s’infastidisce per il sessismo delle canzoni della band locale. Ma questa è un’opera corale e gli adolescenti di Liz Suburbia cercano di essere forti, indipendenti, ma non possono che vivere i propri traumi in solitudine.
L’archetipo narrativo non è quello del teen drama, ma un Signore delle mosche moderno, dove lo scenario non è costituito da un’isola deserta, ma dalla provincia americana, dove regna sovrana l’impossibilità di conoscere il futuro e fare piani che vadano più in là della serata.

L’opera è già stata paragonata dalla critica statunitense a fumetti come Love and Rockets e Black Hole, in cui i temi della sessualità e della tenerezza si incrociano con temi metafisici che sembrano rappresentare l’orrore dell’entrata nell’età adulta in cui ogni diversità sembra preludere a drammi e processi di esclusione (economici o di genere) che caratterizzano una società tutto sommato ignobile e tutt’altro che desiderabile dal punto di vista giovanile. E in cui la religione, più che svolgere una funzione consolatoria, non può essere altra che quella cristiano-giudaico della punizione, dell’espiazione e del giudizio universale.

Last but not least viene Psycho, primo volume di una serie destinata alla ripubblicazione dell’opera integrale di Gianluca Lerici, meglio conosciuto come Professor Bad Trip, uno dei più importanti e significativi disegnatori, anche se considerata la vastità del suo impegno (nel campo del fumetto, dell’illustrazione, della pittura, della scultura, del design, della musica, del collage e di molto altro ancora) sarebbe forse meglio dire artista tout court, a livello internazionale degli ultimi trent’anni.

Nato nel 1963 a La Spezia e scomparso prematuramente nel 2006 per un infarto, il Professore (titolo che si era dato quando era ancora studente di Belle Arti, in opposizione ad un paese di professori incartapecoriti e in particolare di quelli svogliati e conservatori che lo avevano accompagnato nel suo tortuoso percorso di studi) ha segnato indelebilmente il fumetto, la grafica e l’estetica underground fin dai suoi esordi.

L’attuale volume edito da Eris contiene una delle storie, se così si possono definire, più celebri tra quelle ideate dall’artista spezzino, ispirata tanto al noir quanto alle atmosfere dei romanzi di Philip Dick e di William Burroughs. Il tutto però rielaborato in una chiave visionaria ed anticipatrice che le rende, anche se Psycho fu pubblicato per la prima volta nel 1996, estremamente attuali. Alla storia principale nel volume si accompagna Khatodic Karma, una storia breve pubblicata per la prima volta nel 1994 a Spoleto all’interno dell’antologia Talking Heads.

Radicale nel segno e nel contenuto, Lerici non ha mai nascosto le sua aperte simpatie anarchiche e libertarie fin dagli inizi, quando diede grande impulso all’ambiente delle autoproduzioni indipendenti, con le sue iniziative sia musicali che grafiche.
Per scoprirne l’importanza e la rilevanza culturale, ma anche politica si rivelano utilissimi i due saggi curati da Vittore Baroni e Marco Cirillo Pedri oltre che la dettagliata biografia curata dalla compagna del Professore, Jenamarie Filaccio, e Stefano Dazzi Dvořák oltre che dallo stesso Baroni.

Un’opera, quella della ristampa dei lavori di Professor Bad Trip, che rivela ancora una volta la serietà e l’attenzione con cui l’Associazione culturale Eris propone o, come in questo caso, ripropone creazioni grafiche e a fumetti destinate a rivelare come una delle manifestazioni più diffuse e, inizialmente, più umili della cultura di massa abbia finito col rivelarsi come uno dei settori artistici e letterari più creativi e innovativi degli ultimi decenni. Nonostante i ripetuti tentativi di soffocarla tra i meccanismi del mero profitto e della, conseguente, sovrapproduzione.
Buona lettura!

]]>
Buy or Die! Il rock’n’roll non disponibile dei Residents https://www.carmillaonline.com/2017/11/22/buy-or-die-rocknroll-non-disponibile-dei-residents/ Wed, 22 Nov 2017 22:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41570 di Sandro Moiso

Matteo Torcinovich, The Residents. Ralph Records Artworks 1972-2015, GOODFELLAS 2017, Collana Spittle, pp.400, € 39,00

La rivoluzione sarà anonima e tremenda (A.Bordiga)

Uno strano destino sembra collegare, almeno qui in Italia, la ricostruzione delle vicende della lotta armata degli anni settanta e ottanta a quella della cultura underground: in entrambi i casi, troppo spesso, ad occuparsene sono coloro che meno ne hanno avuto esperienza e, soprattutto, conoscenza reale. Così può capitare che la prima sia trattata, anche e soprattutto, in ambienti apparentemente alternativi con gli stessi strumenti e gli stessi parametri, la condanna tout court e il [...]]]> di Sandro Moiso

Matteo Torcinovich, The Residents. Ralph Records Artworks 1972-2015, GOODFELLAS 2017, Collana Spittle, pp.400, € 39,00

La rivoluzione sarà anonima e tremenda (A.Bordiga)

Uno strano destino sembra collegare, almeno qui in Italia, la ricostruzione delle vicende della lotta armata degli anni settanta e ottanta a quella della cultura underground: in entrambi i casi, troppo spesso, ad occuparsene sono coloro che meno ne hanno avuto esperienza e, soprattutto, conoscenza reale.
Così può capitare che la prima sia trattata, anche e soprattutto, in ambienti apparentemente alternativi con gli stessi strumenti e gli stessi parametri, la condanna tout court e il ripudio, che hanno caratterizzato il perbenismo borghese e “democratico” fin dai suoi primi vagiti. Mentre la seconda può essere ridotta, soprattutto da chi si vanta inopinatamente di averla frequentata, a una sorta di giovanilistica nostalgia della cannabis, oppure di qualche altra più perniciosa sostanza, consumata indossando pantaloni a zampa d’elefante in qualche piazzetta dei centri storici del Midwest italiano. Indicativamente tra i navigli e la via Emilia, .

Qualche responsabilità, nei confronti di questa provinciale e riduttiva lettura di un fenomeno culturale complesso, certamente l’ha avuta fin dagli inizi la propaganda fatta nei confronti dell’Underground, da un punto di vista puramente consumistico e commerciale, l’industria culturale o, meglio ancora, l’industria discografica.
Come non ricordare, infatti, il lancio in gran spolvero che la CBS italiana fece, proprio nel 1970 della musica classificata come “underground”. Appiccicando tale etichetta a una serie di dischi che, pur rivestendo una certa importanza nello sviluppo della musica rock successiva e del suo pubblico, di “sotterraneo” avevano ben poco: “Cheap Thrills” dei Big Brother and the Holding Company (alias Janis Joplin con il suo primo gruppo), il primo lp dei Santana (non ancora solo Carlos Santana), “The Family That Plays Together” dei californiani Spirit oppure la clamorosa bufala dei Masked Marauders (gruppuscolo secondario di cui si favoleggiava però, tra i componenti, di una non dichiarata presenza del menestrello di Duluth) e, forse, l’unico disco apertamente underground del gruppo: “The Belle of Avenue A”, quarto long playing dei Fugs. E questo solo per citare alcuni della dozzina di dischi pubblicati tutti insieme all’epoca (anche se appartenenti ad annate diverse e precedenti quella della pubblicazione italiana). Grazie a un concorso collegato a tale iniziativa riuscii nello stesso anno a pubblicare la mia prima recensione discografica su una rivista, tutt’altro che underground, come Ciao 2001 (riguardava proprio gli Spirit mentre io avevo all’epoca 17 anni), ma questa è un’altra e ancora men che secondaria storia.

A proiettare i musicofili e aspiranti poeti armati della mia generazione nell’Underground musicale ci pensò in realtà un libro di un autore tedesco, Rolf-Ulrich Kaiser. Il titolo italiano era banalissimo, come sempre nell’italietta di ieri, di oggi e dell’altro ieri: Guida alla musica Pop. In tedesco il titolo non era molto diverso, Das Buch der neuen Pop-Musik, ma introduceva significativamente, era il 1971, un elemento di significativa differenza: non il libro della musica pop, ma della “nuova” musica pop.

Dopo aver tratteggiato una sintetica storia della rock music dai primi vagiti negli anni ’50 ai Beach Boys passando per i Beatles, il testo di Kaiser scoperchiava realmente il vaso di Pandora di tutti quei gruppi e musicisti che, di qua e di là dell’Atlantico, stavano sotterraneamente minando l’establishment culturale e musicale, ma anche politico dell’epoca. Frank Zappa e le sue benemerite Mothers of Invention, i Fugs con la loro capacità di unire l’esperienza musicale alla poesia dei Beat e alla lotta politica radicale,1 la voce straziata e straziante di Tim Buckley negli album Lorca e Starsailor oppure, ancora i tedeschi e devastanti Floho de Cologne, l’anarchico e spensierato (ma solo apparentemente) David Peel del Lower East Side newyorkese (la sua Have A Marjuana? non fu comunque mai trasmessa da nessuna radio italiana e, tanto meno, The Pope Smokes Dope) e i sognanti e mentalmente dispersi Incredible String Band. Solo per citarne alcuni.

Di quelle autentiche giovani talpe già si favoleggiava precedentemente in Italia, grazie anche ai pochi “eroici” negozianti che avevano iniziato ad importarne i dischi direttamente dall’America o dal resto del mondo, ma Kaiser inquadrava il fenomeno in un contesto di radicalità in cui lotta politica (non obbligatoriamente dichiarata e ossequiata) e cambiamento culturale andavano a braccetto.
Era ancora di là da venire la canzone degli Hawkwind dedicata alla Baader Meinhof e alcuni musicisti dell’Underground giapponesi dovevano ancora o stavano per fare il salto nella lotta armata internazionale aderendo all’Armata Rossa Giapponese che avrebbe agito a fianco dei Palestinesi in alcune occasioni,2 ma finalmente si infrangeva la vulgata commerciale della musica giovanile e contemporaneamente di destrutturava l’immagine di un movimento hippy esclusivamente pacifista e dedito al flower power. 3 Portavoce di tale opposizione culturale e politica si sarebbe poi fatta in Italia, e non senza contraddizioni interne, la rivista Re Nudo, soprattutto a partire dal 1972, poiché l’ancora recente ’68 non aveva contribuito, almeno qui in Italia, a sdoganare del tutto tale inevitabile incontro tra lotta politica e nuova proposta musicale.

Ma non occorre qui dilungarsi in un discorso ancora più ampio e complesso, basti piuttosto qui segnalare che la sempre meritoria Goodfellas ha pubblicato, nel corso degli ultimi mesi, un autentico capolavoro dedicato ai veri principi dell’anonimato e dell’Underground culturale e musicale americano: i Residents.
Perché attribuire ai Residents un tale titolo? Perché sono stati gli unici musicisti a conservare nel corso degli oltre quarantacinque anni di attività un anonimato totale, rifiutando di rivelare i loro nomi, di farsi fotografare o vedere senza le maschere monoculari spesso indossate durante i concerti e senza mai concedere interviste; se non attraverso le dichiarazioni di un loro portavoce, Hardy Fox, che stava al gruppo, visto che ha recentemente lasciato la Cryptic Corporation, come i vari portavoce del Mullah Omar stavano ai Talebani.

D’altra parte il collettivo musicale, non mi sentirei di definirlo diversamente visto che di solito suonano in quattro ma spesso sono aumentati da altri musicisti, cantanti e ballerini (soprattutto durante le esibizioni dal vivo), si è sempre e soltanto espresso attraverso i suoni e le proprie canzoni oppure attraverso i testi pubblicati sulle o all’interno delle copertine e, soprattutto, la grafica, meravigliosamente provocatoria ed inquietante, delle stesse.

Proprio per questo la scelta operata dall’autore di presentare la raccolta integrale, o quasi, delle opere grafiche realizzate tra il 1972 e il 2015 per la Ralph Records, la casa discografica che da sempre distribuisce e produce le opere dei Residents e di alcuni altri convitti del loro apparente manicomio sonoro, finisce col costituire anche il modo migliore per narrare la storia e le vicende di un gruppo disperso che storia non ha. Intendendo quest’ultima come storia ufficiale, quella che piace tanto ai cultori del rock e ai giornalisti delle riviste e dei siti musicali specializzati.

Assenza che se da un lato costringe i maniaci dell’ingegneria della ricostruzione biografica ad affidarsi a fonti che affidabili non sono, dall’altra ha preservato il gruppo dal diventare un mero prodotto di consumo. Destino che nel tempo ha accomunato tutti gli altri, ancor da vivi oppure da morti, eroi dell’Underground di cui prima si parlava.

In realtà negli ultimi anni è comparsa un’antologia, dal titolo Before They Were The Residents, They were the Delta nudes, che in maniera molto ambigua, è curata dal misterioso N.Senada, oscuro compositore bavarese autore di “Theory of Obscurity” e “Theory of Phonetic Organization”, il cui nome potrebbe significare “in sè nulla” (en se nada), scomparso nel 1986 e molto probabilmente frutto di un’invenzione degli stessi Residents, traccia un fittizio collegamento tra disordinati suoni registrati alla fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta dal suddetto complesso, Delta Nudes (i cui membri in copertina fanno generosa esposizione dei propri genitali), e i successivi Residents. Quel Delta sta forse a indicare che alcuni membri del gruppo sono, probabilmente, originari della Louisiana, ma ogni altra informazione sembra perdersi in un labirinto simile a quello dei canali del delta del Mississippi.

D’altra parte quel Buy or Die! Che compare nell’immagine di copertina riassume il principio ispiratore dell’aggressione dei Residents alla cultura e alla morale degli ultimi cinquant’anni: una critica spietata e feroce dell’assunto principe della società dei consumi.
Vivi per consumare oppure muori, anche solo socialmente, se non sei in grado di acquistare ogni nuovo prodotto, sia esso materiale o immateriale.

Le vite si consumano infatti, sembrano suggerire i Residents, attraverso il desiderio di sussumere in se stesse le merci siano esse auto, telefonini, sesso a buon mercato praticato da altri sugli schermi, “nuove idee” politiche nate morte e ammuffite già al loro primo apparire, etiche buoniste che nascondono i baratri della miseria reale e delle contraddizioni che si muovono nel sottobosco delle lotte di classe mai apertamente dichiarate. Idee falsamente laiche che si ispirano alla peggiore carità cristiana, un’etica immorale che si traveste di moralismo, una riscoperta delle società altre in chiave new age e perbenistica e idoli ristilizzati che salgono sui palchi già vecchi e consunti e che nascondono il ghigno del loro teschio consumato sotto uno strato di cerone, gossip e sex appeal degno di uno zombie.

Tutto questo i Residents non ce lo trasmettono soltanto attraverso i suoni ma anche, e forse soprattutto, attraverso le immagini delle loro copertine: inquietanti, spesso sgradevoli, oscene e provocatorie. Cover che risultano esse spesso armi più pericolose di quelle vere che talvolta possono essere impugnate da mani incerte e tremanti. La mano dei grafici che hanno costruito nel tempo l’unica immagina reale dei Residents sembra invece non tremare mai. Il colpo, che sia sparato da voci distorte, chitarre elettriche o tastiere elettroniche, arriva sempre a segno.

Sia che si tratti di dare a Hitler il volto di un noto presentatore televisivo americano e di trasformare il vero Hitler in una figurina degna di un fumetto casalingo sullo stile di Blondie e Dagoberto o litigioso come Andy Capp o di sottolineare il folle sogghigno di chi si accinge ad accoltellare una indifesa papera di gomma oppure, ancora, di mettere in bella vista corpi nudi e deformi, le copertine prodotte dal collettivo di grafici che di volta in volta si è definito come Porno/graphics, Pore No Graphics, Poor Know Graphix, Poor No Graphics e con infinite altre declinazioni del tema ha sempre mantenuto alto, oppure se si vuole molo basso nel senso della morale perbenista, lo spirito iconoclasta che lo ha animato.

Tutto ha inizio a San Francisco, in un edificio in Sycamore Street dove agli inizi degli anni settanta avrà sede la Ralph Records e, a partire dal 1976, anche la Cryptic Corporation porrà la propria sede.
Come afferma l’autore:

Il laboratori Ralph va ben oltre la mera e semplice pubblicazione di vinili. Infatti, pubblicare un disco, è un espediente pe poter creare azioni mediatiche, teatrali artistiche, legate e ispirate ad un prodotto discografico. Nei primi dieci anni di vita l’etichetta oltre i dischi dei Residents pubblica anche vari musicisti americani e inglesi (Snakefinger, Art Bears, Yello, Tuxedomoon, MX-80 Sound, Chrome, Renaldo and The Loaf), ma solo con The Residents la Ralph Records sfrutterà al meglio tutte le risorse e le idee creative di Sycamore Street.4

L’edificio comprendeva infatti, oltre agli uffici dell’etichetta e uno studio di registrazione, un’enorme sala insonorizzata per realizzare film e video, una camera oscura e lo studio grafico in cui verranno prodotti molti dei lavori grafici di cui si è già parlato. Oltre ai video e, in anni più recenti, alla grafica digitalizzata che sempre più spesso accompagna la musica degli invisibili avanguardisti della provocazione.

Ispirati dalle avanguardie novecentesche, dal Dadaismo al Situazionismo, i nostri eroi sotterranei produrranno dischi dai titoli espliciti e allo stesso tempo detournanti: Commercial Album (40 brani in 40 minuti), Not Available, Third Reich Rock’n’Roll, Eskimo (con una fasulla e allo stesso tempo apparentemente veritiera descrizione di strumenti, tradizioni e proverbi eschimesi) e molti altri ancora che il lettore, nello sfogliare le 400 pagine del libro, avrà modo di scoprire, se non conosce, oppure di riscoprire.

Il primo disco nel 1974, Meet The Residents, rivelava, fin dalla copertina l’intento terroristico del quartetto con un devastante e infantile sfregio alla copertina del primo album dei Beatles pubblicato negli Stati Uniti dalla Capitol Records: Meet The Beatles. Motivo per cui la potente major americana fece causa ai Residents e alla Ralph Records, costringendoli a modificare la copertina (altrettanto irriverente con i quattro di Liverpool trasformati in scampi e “stelle” marine). Lo stesso sarebbe accaduto qualche anno più tardi in Germania, dove il solito bigottismo tedesco, che già tanto aveva fatto infuriare il Moro di Treviri, condannò la copertina di Third Reich Rock’n’Roll, facendolo ritirare dal pur ristretto mercato. La risposta dei porno/grafici? La stessa copertina con i volti di Hitler e le svastiche coperte dalla scritta censored.

Copertine e dischi, grafica e suoni ci chiariscono comunque subito lo spirito autentico e le caratteristiche irrinunciabili dell’Underground inteso come arma di distruzione della cultura e delle coscienze massificate: l’invisibilità di chi opera, il perturbante del contenuto, il terrorismo nei confronti di ciò che è dato per scontato e del famigerato comune buon senso .
Per riassumere in breve: Signori, ecco a voi The Residents!

Il primo quarantacinque giri a nome loro fu pubblicato dalla Ralph nel 1972 e si intitolava Santa Dog. Proseguirono poi straziando Satisfaction e saccheggiando in nome del caos e del detournement l’American Songbook di Elvis, James Brown, Hank Williams e Duke Ellimgton. Si arresero soltanto davanti a Sun Ra che si era già straziato da solo, insieme al jazz di quegli anni.
Hanno sempre colpito al cuore, non si sono mai pentiti, non hanno mai deposto le armi, non si sono mai scissi sulla linea di condotta, non hanno mai litigato sulla proprietà del logo e non hanno mai rivelato l’identità di alcun complice. Scusate se è poco.


  1. Per averne un assaggio si legga il testo scritto da uno dei fondatori del collettivo: Ed Sanders, Racconti di gloria beatnick, Shake 2013  

  2. Per la prima si tratta di Urban Guerilla del 1972, seguita nel 1976 da Hassan I Sahba scritta, sempre da Robert Calvert, nel 1976 e dedicata al terrorismo mediorientale, mentre per i secondi si consulti Julian Cope, Japrocksampler. Come i giapponesi del dopoguerra uscirono di testa per il rock’n’roll, Arcana 2008  

  3. Così, tanto per schiarire le idee ai nostri moderati nostalgici, va ricordato che numerosi gruppi americani radicali (MC5, Up e altri) non mancarono in quegli anni di comparire sulle copertine dei loro dischi armati di tutto punto e di rivendicare il loro impegno rivoluzionario mentre il mitico Ron “Pigpen” McKernan, voce e tastierista dei primi Grateful Dead, si faceva spesso fotografare con la sua fedele Colt al fianco.  

  4. pp.10-11  

]]>
Dalle viscere dell’underground italiano https://www.carmillaonline.com/2015/09/09/dalle-viscere-dell-underground-italiano/ Wed, 09 Sep 2015 21:30:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24514 di Gioacchino Toni

black-holeTuri Messineo, Black Hole. Uno sguardo sull’underground italiano, Eris, Torino, 2015, 496 pagine, € 20,00 [DVD €12,00 / Libro+DVD € 30,00)

Eravamo gli sfigati, gli emarginati / in questo contesto ogni attimo può sempre, con follia, contribuire alla costruzione di un progetto di vita / no capi, no leader, no autorità, l’assemblea decide, sei al forte! / underground per me è un po’ tutto quello che racchiude il non comune, lo star fuori dalle regole dettate dal mercato / case occupate / nabat / attitudine, passione, memoria / sono [...]]]> di Gioacchino Toni

black-holeTuri Messineo, Black Hole. Uno sguardo sull’underground italiano, Eris, Torino, 2015, 496 pagine, € 20,00 [DVD €12,00 / Libro+DVD € 30,00)

Eravamo gli sfigati, gli emarginati / in questo contesto ogni attimo può sempre, con follia, contribuire alla costruzione di un progetto di vita / no capi, no leader, no autorità, l’assemblea decide, sei al forte! / underground per me è un po’ tutto quello che racchiude il non comune, lo star fuori dalle regole dettate dal mercato / case occupate / nabat / attitudine, passione, memoria / sono cresciuto con l’oi! / derozer / le posse / mi sono accostato all’underground perché non mi sentivo uguale agli altri / una parte fondamentale di questo posto è la socialità / vuoto a perdere / underground per me è la musica fondamentalmente / metal / bisognava a ogni modo ribellarsi / via niccolò da tolentino / negazione / in un posto del genere puoi solo drogarti, suicidarti o suonare provando a girare il più possibile facendo la tua musica / le radio indipendenti / radiation records / l’individuo si impadronisce ancora una volta del quartiere / virus / se vai a suonare in un locale è diverso / la pantera / mondo beat / il centro sociale ha dato modo alla cultura underground di fiorire e di crescere / sono quei posti e quelle persone che certamente non ti spingono a frequentare la facoltà di ingegneria aereospaziale / resistenza all’ordine sociale vigente / mi domando a volte se a parte questo aspetto simbolico mediatico è veramente così importante avere quello spazio, con quel nome e in quel luogo a quell’indirizzo / arma a doppio taglio chiamata “internet”/ do it yourself / el paso / nerorgasmo / underground è un’arte rivoluzionaria che diversificandosi e ramificandosi si è sin dall’inizio scontrata frontalmente e in modo coinvolgente col tempo / cox 18 / l’underground è cambiato / l’università occupata / il centro sociale è un luogo alternativo di ritrovo, dove non conta quello che sei e quello che dici, nessuno ti giudica e dove te non giudichi nessuno / punk / radio alice / soprattutto tra noi che viviamo quotidianamente la realtà dei centri sociali, ci si chiede oggi se effettivamente quel tipo di attività servano come prima / leoncavallo / gli anarchici / identità è il modo in cui l’individuo considera e costruisce se stesso come membro di determinati gruppi sociali, nazione, classe, livello culturale, etnia, genere, professione e così via / hardcore / il 32 / l’utilizzo del fax / invece che direttamente con la musica, io ho cominciato con la politica / underground, la parola stessa dice che è ciò che è ciò che sta sotto la superfice / gabrio / flyer / onda rossa posse / arresto cardiaco / un’avventura dentro un mondo sotterraneo, oscuro, ma alla luce del sole / kattiveria posse / chiodi, borchie e creste colorate / via dei volsci / le prime cerchie punk si formavano attorno ai circoli del proletariato giovanile / underground fondamentalmente è un modo di viversi le cose, il far parte di una controcultura, ognuno magari lo vive a seconda del suo periodo storico / a/traverso / casino royale / non esiste una differenza sostanziale in questo mondo tra chi suona e chi guarda / raf punk / ampio insieme di pratiche e identità accomunate dall’intento di porsi in antitesi e/o in alternativa alla cultura ufficiale della società di massa / cinema diana occupato / piazzetta san giuseppe / helterskelter / il punk è strategicamente didascalico / anna falkss / murazzi / è una reazione a catena, comincia la contaminazione, si espande un nuovo linguaggio / costretti a sanguinare /4th’n’goal / col tempo ho visto molti centri sociali diventare solo dei “concertifici” / lion horse posse / the break / c’è questo grande errore che viene fatto dagli adulti tante volte di pensare che un teenager sia soltanto un coglione / clitoristrix / nullafacenti / poi vengono i tatuaggi, le creste colorate e tutto il resto, ma qui prima di tutto stiamo parlando di musica / troppo spesso il drogarsi e l’ubriacarsi sono visti come metodi di “ribellione e libertà” / se una cosa non la faccio non la voglio di’ / era molto meglio, non c’era internet / e alla nostra età invece noi suoniamo punk / il divertimento era troppo legato al bere / crepe del sistema / ridicolo quando tutte quelle band dicono cose tipo “fuck the sistem” ma poi non lo fanno / erano tutte stronzate? / l’hardcore non è musica è uno stile di vita e uno schema mentale che va fuori da uno stile musicale perché cambia sempre / adrenalina, ritmo, potenza / ho visto questo paese affondare sempre di più / colonna infame / il rapporto che ho sempre avuto con i centri sociali è sempre stato quello di fruitore di musica, non ho mai fatto attività politica o comunque sociale / con l’hardcore io ho capito che il concerto era fatto sì dalla gente che suonava ma anche e soprattutto dal pubblico / centri sociali / il concetto di underground, almeno per quanto mi riguarda, è molto legato a un discorso contro culturale / paranoia, rabbia, eccesso servono a combattere i propri antagonisti sociali / next emerson / underground è un veicolo di “costruzione identitaria” / si creano situazioni di vita, fai parte di collettivi, suoni, ritrovi i tuoi amici / la comune dei crass a londra / la scintilla / brancaleone / via marconi / ex karcere / teste vuote ossa rotte / sangue misto / mamma dammi la benza / se il mondo fa schifo, io voglio fare più schifo del mondo / t28 / gli autonomi / vatican posse / via correggio 18 / non capite un cazzo: questa è avanguardia, pubblico di merda / il diy nasce fondamentalmente dalla necessità perché le cose non le trovavi / isabella occupata / squat / via conchetta / adesso è molto più facile trovare un posto da occupare / la libreria calusca / san lorenzo / i ragazzi del mucchio / via dei transiti / isola posse alla star / radio onda rossa / si vive ogni momento al massimo delle aspettative e con tutte le forze possibili senza pensarci troppo / no future / cccp fedeli alla linea / la banda cavallero / straight edge / schiavi nella città più libera del mondo / villa ada posse / la politica mi faceva sentire vivo ed era ovunque / pedro / radio blackout / storie di assalti frontali / mi ritrovai così, sin dal primo giorno di scuola ad avere un compagno di banco abbastanza stravagante / csoa cartella / la solidarietà è un’arma! / 99 posse / nullaosta / grotta rossa / andai a londra in autostop / noi avevamo come punto di riferimento i crass / carlos dunga / banda bassotti / raw power / rivolta dell’odio / forte prenestino / in questa ribellione vi è l’affermazione confusa di una libertà totale / la parola underground proviene dagli schiavi neri ai tempi della segregazione negli stati uniti che non potevano cantare, dopo aver fatto venti ore di lavoro al giorno non avevano nemmeno il diritto di cantare ed avevano scavato così dei cunicoli e lì sotto potevano cantare / frammenti / bellicosi / antagonismogay / corto circuito / rappresaglia / pedago party / la rabbia giovanile, i primi posti occupati, il virus, i viaggi a londra, gli angoli in cui ci si incontrava, i dialoghi al cardioplama / l’underground ti garantisce di essere libero / wretched / gaznevada / lumi di punk / underground è rimanere fin da ragazzino, fuori da quello che è imposto, anche dal divertimento imposto / cyberpunk / laboratorio crash! / attak punk records / storie che rappresentano il ragazzo o la ragazza con una storia molto sensibile, tormentata che sente il bisogno di esprimersi / anche l’underground vive di soldi e non ce la stiamo a menare / per me adesso l’underground è ancora più underground / senza mai creare distanza tra loro stessi e il pubblico / equality / ero pischello, ero arrabbiato / non sono un nostalgico degli anni 80 / spacci morte, miseria e povertà, non avremo nessuna pietà / paolino paperino band / scelta vegan / la musica mi ha fatto vedere il mondo / eravamo molto più brutti, sporchi e cattivi di adesso / pearcing miscelati a dreadlock, abiti neri e toppe ovunque, riff punk mischiati a toni death metal, accordature basse, bassissime, velocità che a volte arrivano ad assimilarsi al power violence / grazie all’hardcore io ho conosciuto la madre di mia figlia / open season / noi della mia generazione di skater eravamo tutta gente che bene o male era collusa, connessa con quello che era l’hardcore / libera / ban x this / uscire dagli schemi / per quanto naif e banale possa sembrare l’hardcore ha modellato la mia vita / quando qualcuno mi chiedeva chi ero, da che parte stavo, rispondevo: sicuramente non dalla tua / vegan justice / ritieniti fortemente coinvolto / ero incazzato senza sapere nemmeno perché / per me la musica è sempre stata una valvola di sfogo tremenda / stalag 17 / ti butti nell’underground e lì sei libero di dire qualsiasi cosa / indigesti / atlantide / ho sempre cercato di incanalare tutto lo stress e la rabbia suonando / i testi, la rabbia, la disperazione / radio specchio rosso / riciclavamo le etichette dei vecchi dischi, le facevamo incollare a rovescio per risparmiare, poi scrivevamo i titoli da soli col pennarello / naja de merda / da una parte sono moto contento che esista internet, che ci sia un bacino di possibilità di download e di informazioni, ma uno deve avere anche la capacità di “scremare” e non sempre è facile / non era solo musica, era forza e debolezza, storia di amicizie, un’avventura nella quale i protagonisti condividevano tutto / ossa rotte tapes / disforia tapes / fanzine / do it your fest! / arturo / siamo bombardati da informazioni, musica, a volte non riesci a capire dove stanno le cose che più ti interessano / peggio punx / si suonava molto più spesso in squat, almeno per l’hardcore / autoproduzione / biglietti falsi ed autostop / volevi suonare perché ti piaceva far casino / c’era stato un enorme giro di eroina che aveva rovinato un sacco di relazioni / negazione / impact / aldilà di ciò che è stato l’underground, per chi come noi c’è immerso oggi c’è la necessità di raccontare qualcosa di nuovo, aprire una nuova pagina / declino / più stretti è meglio! / il fare tutto da noi / punkaminazione / ci stanno uccidendo al suono della nostra musica / underground ormai è un termine in disuso per chi come noi ne fa parte veramente e con noi intendo quelli che ancora si autoproducono i dischi, si sbattono per organizzare serate non a scopo di lucro o si fanno mille chilometri per andare a suonare in un buco sperduto davanti a 20 persone / così ho conosciuto un sacco di gente / upset noise / ci si faceva largo urlando oi! / non è questa la mia vita, tutto questo non fa per me / ci sono tanti spazi in qualche modo in cui ciascuno si è poi alla fine coltivato il suo “orticello” più o meno in rete con gli altri, o anche con scazzi con gli altri / the boycottage and the sabotage / peggio records / eravamo “troppo diversi” rispetto a questa “uniforme punk” / bloody riot / è la volontà di fare che crea la differenza / granducato hardcore / ci vediamo all’inferno / oggi i posti che esistono hanno un plusvalore politico molto forte, ma molto poco sociale / non c’era una scena locale ma la scena di chi seguiva quel tipo di musica / quando sono riuscito a inserirmi nella band per me è stato il raggiungimento di una cosa importante / fassbinder / to kill / ho sempre frequentato gente e luoghi cosiddetti underground o usando una parola di merda, che non significa più un cazzo, alternativi / l’oi! è la voce della strada / smartz records / contro lo stato / l’autogestirci tutto quanto assieme / andavamo ai concerti perché volevamo far parte di un qualcosa / senza sterzo / spesso si vive di miti, le cose succedevano sicuramente, poi con gli anni però sono state sempre più “mitizzate” / refuse it! / l’onda vegan straight edge vissuta con militanza / i centri sociali oggi a volte fanno magari un concerto hardcore ma senza capirci un cazzo e non gliene fotte un cazzo, visto che poi magari la serata dopo fanno reggae / volevi occupare un posto perché magari ci volevi suonare dentro, stare con i tuoi amici e farti i cazzi tuoi / si canta insieme, ci si scontra, si urla, si sale sopra i palchi e si corre per lanciarsi / blu bus dischi / esse e appartenere ad una scena underground voleva essere semplicemente un modo per esternare il mio dissenso e la mia voglia di non appartenere alla “massa” / il periodo delle posse / nuova scena skin e punk unita / io ti faccio un concerto e tu me lo rifai, io ti compro il disco e tu mi compri il mio / uno deve fare poi vada come vada / underground non è un vero e proprio movimento ma un “modus operandi” / una parte importante della mia vita è legata anche allo skate / la mia fanzine è nata in modo spontaneo, andavo ai concerti, conoscevo i gruppi, avevo voglia di intervistarli / please kill me / siamo o non siamo un po’ tutti figli dei ramones? / il termine underground al giorno d’oggi è sulla bocca di troppe persone le quali si sono appropriate oltre che del significato del termine anche di immagini, loghi e personaggi / zona dopa / crass not clash / officina 99 / anomalia / tutti i movimenti sono stati sempre riassorbiti dall’industria della moda e svuotati di significato / growing concern / isola nel kantiere / auro / confino / holocaust / io sono abbastanza vecchio no? Per cui l’underground era una cosa che non c’era quando io ero ragazzino / underground per quel che mi riguarda è stato ed è tutto quello che non sono riuscito e non riuscivo a trovare a livello ufficiale / no submission / nuova fahrenheit / il dissenso di coloro che ci vedevano come alieni mi faceva sentire un diverso, cosa che a me piaceva tantissimo / sensazioni che il quotidiano mortifica qui nel mondo dei media dove l’uomo non comunica / secondo noi l’hip hop è molto più vicino a persone che vivono il quotidiano vero, nostro / contro la vivisezione / djing / l’azione diretta come strumento di lotta / il punk ti dava quello che il metal non poteva darti e cioè protesta, rabbia, ribellione, senso di libertà e anche bella musica! / musica della classe operaia suonata dalla classe operaia per giovani della classe operaia / paguro / il primo punk è stato una rivoluzione sonora e di attitudine forse impensabile sino alla fine degli anni 70 / may day / fare delle cose senza un reale motivo se non quello della soddisfazione personale / semprefreski / stato di polizia / ognuno creava il suo underground e si creavano varie realtà / l’underground per come lo vedo io rappresenta un po’ anche se può sembrare una banalità, la fonte, la sorgente della creatività che poi si sviluppa su vari sentieri / rumori molesti / punkabbestia / underground è quello spazio tempo, quel limbo, che ti permette di fare e costruire te stesso capendo cosa fare con le cose che stai creando / lo stato ha bisogno di te? bene, fottilo / stazione suicida / klasse kriminale /non si hanno le spie per il ritorno sul palco? non importa / è un amore, una passione forte che ti lega a quei posti, senza ricercare valore economico ma più che altro culturale / secoli di immondizia non ci hanno ancora cancellato / sobbalzo / il writer che trasforma il suo nome in un simbolo, lo mette in giro, è come gridare al mondo io sono qui! esisto! / internet è una cosa positiva, è alla portata di tutti / recrod sucker / non hai niente, hai soltanto la noia quindi puoi scegliere poche cose se sei un ragazzo / l’underground è comunque una scena di nicchia / stay punk! / la tematica animalista” è stata sempre molto presente nella scena hardcore / se sai cosa vuoi non sere sognare ma darsi da fare / vivere la musica in maniera attiva, non è importante il tipo di musica che è / inzirli / credo che l’hardcore possa fare benissimo a men dello straight edge / ci sono un sacco di club che hanno sviluppato e fatto business costruendolo sulla musica underground / la fotografia è l’unico modo che conosco per comunicare quello che penso / le nostre rime sono proiettili a tutti gli effetti / in questo buco nero non è sempre così facile capire qual è il confine, dove finisce l’underground e inizia il manistream / ma serve fuggire da qui? / b-boying / il tatuaggio rientra nella mia esperienza underground come un po’ anche l’alimentazione, il vegeterianesimo / ovunque vado sento dei rappers che sono bravissimi e nessuno li conosce e questo è l’underground / breakdance / il rap è diventato una forma di mainstream / balla e difendi / senza chiedere permessi e autorizzazioni hai preso una bombola spray e hai lasciato sul muro qualcosa che è tuo / anticonsumismo / skinhead / adesso è tutto diverso, si sta troppo davanti al computer / strange fear / ormai la “scena” è più moda che attitudine / todiefor / underground per me è una sorta di “rifugio” da tutto ciò che c’è al di sopra / crust punk / è nero inferno sulle dita e non lo levi più / un cancro è cresciuto nelle nostre strade, droga e spacciatori di tutte le borgate / ho iniziato con lo skate, con i graffiti / xm24 / come tutte le cose che riguardano l’hardcore italiano è tutto quanto molto mitizzato / non si aveva una band di riferimento era un movimento di riferimento / quello che vedo oggi è molto più basato sull’estetica / l’organizzazione della cultura in questa città è sempre stata in mano a chi governa / l’underground una volta era molto più di nicchia era una cosa per pochi intimi dove c’era grande solidarietà e rispetto l’uno dell’altro / montevergini / ska core / essere veg / abbiamo avuto il piombo, il fango ed ogni giorno la dose quotidiana di merda che ci cade attorno / animalista / il writing poteva darmi gli strumenti per poter esprimere questa arte / contro, semplicemente contro / l’underground è tutt’ora uno stile di vita / non serve essere dei gran virtuosi per suonare uno strumento e trovare il modo di esprimersi attraverso di esso…

…e tanto altro, nelle quattrocentonovantasei pagine di Black Hole. Nessun asettico saggio sociologico potrà mai restituire l’odore ed il sudore raccolti dalle viscere dell’underground italiano da Turi Messineo in questo mattone di carta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

]]>
The live adventures of Jimi Hendrix and Dennis Hopper – Il rito (2) https://www.carmillaonline.com/2013/07/18/the-live-adventures-of-jimi-hendrix-and-dennis-hopper-il-rito-2/ Wed, 17 Jul 2013 22:03:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7221 di Mauro Baldrati

Amsterdam3[Riassunto della puntata precedente (qui): Jimi Hendrix e Dennis Hopper dopo un lungo viaggio in autostop sono arrivati nella “terra promessa”, Amsterdam, Piazza Dam , una delle capitali mondiali dell’underground. E’ il luglio 1970. Ma ciò che trovano li lascia senza parole: la piazza è deserta, occupata solo da spacciatori di eroina. Depressi e delusi, per fortuna vengono “salvati” da un pusher italiano, Gino, che li porta dove c’è “la gente”, il Vondel Park. E qui scoprono che Gino è attirato, ma anche spaventato, dal “rito”.]

Nuvole in viaggio

Jimi scrutò il cielo. Nuvole scure, minacciose. Nuvole [...]]]> di Mauro Baldrati

Amsterdam3[Riassunto della puntata precedente (qui): Jimi Hendrix e Dennis Hopper dopo un lungo viaggio in autostop sono arrivati nella “terra promessa”, Amsterdam, Piazza Dam , una delle capitali mondiali dell’underground. E’ il luglio 1970. Ma ciò che trovano li lascia senza parole: la piazza è deserta, occupata solo da spacciatori di eroina. Depressi e delusi, per fortuna vengono “salvati” da un pusher italiano, Gino, che li porta dove c’è “la gente”, il Vondel Park. E qui scoprono che Gino è attirato, ma anche spaventato, dal “rito”.]

Nuvole in viaggio

Jimi scrutò il cielo. Nuvole scure, minacciose. Nuvole in viaggio. In caso di temporale dovevano correre al ponte, per trovare un posto sotto l’arcata. Oppure dovevano procurarsi dei grandi fogli di plastica, come tutti. Intanto le parole di Gino gli ronzavano in testa.
“Gino, il rito. Non capisco. Quale rito?”
D’un tratto Gino balzò in piedi e iniziò a correre sul posto, furiosamente, gridando. Si fermò quando non aveva più fiato. Crollò di nuovo seduto, ansimando.
“Devo farcela! Voglio farcela! Perché sono così vigliacco? Voglio marciare verso il futuro. Voglio trovare la mia strada. Tutti dobbiamo trovarla.”

Trovare la strada? Jimi non era convinto. Lui voleva essere come una piuma, volare nel vento, poi trasformarsi in aquila, per controllarlo, il vento. Ma Gino sembrava travolto dal suo progetto. E questo era interessante.
Pura intensità.
Solo questo contava.

“Ma in cosa consiste il rito? A che serve? Dove ti porterà?”
“Non posso spiegartelo. Non capiresti. Però posso dirti dove mi porterà. E’ una iniziazione. Porta all’innocenza. La suprema innocenza. E quindi alla pace. Alla poesia pura.”
“Io non ho capito un cazzo” disse Dennis.
Una perfetta battuta degna di Dennis Hopper.
“Lo so” disse Gino. “E’ normale. Bisogna esserci. Bisogna vedere gli iniziati, parlare con loro. Sentire la loro pace. Condividere la loro felicità. Stasera c’è una iniziazione. Io sono invitato. Stanno valutando se sono pronto per il corso di preparazione. Io voglio essere pronto. Voglio andare.”
“Stasera?” disse Jimi. “Beh, Gino, saremo felici di accompagnarti.”

I Prankster-bus, la città della colpa

Jimi Hendrix, Dennis Hopper e Gino camminavano spediti per le strade che fiancheggiavano i canali. Le biciclette sfrecciavano, le auto procedevano lente. Rispetto alle altre città che avevano attraversato, Zurigo, Basilea, dove erano rimasti bloccati cinque giorni e quattro notti prima di trovare un passaggio, il traffico era modesto. Musiche di ogni tipo uscivano dalle finestre, dalle porte. Musiche amplificate debordavano dai pub e dai coffee-shop. Jimi riconobbe più volte White Rabbit, With a little help from my friends, Purple Haze, Willie the Pimp, Almost Cut My Hair, On The Road Again, Dear Mr Fantasy, White Room, altri pezzi che non conosceva. Più volte socchiusero delle porte e si affacciarono su stanze gremite, con gente che fumava, rideva, ballava. In una entrarono, si servirono di joint già preparati in una cassetta da frutta, li accesero tra i sorrisi di ragazze che li invitarono a restare.

In pochi minuti il tempo era cambiato. Ora splendeva un sole discretamente caldo. Jimi si sentiva euforico, pieno di energie e di aspettative. Finalmente si era lasciato alle spalle Mezzaluna. Non avrebbe passato il resto della sua vita in quel deserto. Poteva accadere di tutto, sarebbe finito in strada, nella miseria, piuttosto che sprofondare in quella palude. Non sapeva quali prospettive lo aspettavano. Non sapeva di quali risorse disponeva. Ma non importava. Avrebbe abbattuto i muri a calci. Lui era una happy rock, come il suo scrittore preferito, Henry Miller.
All’inferno, all’inferno.
Voglio essere scatenato, scatenato.
Così aveva scritto Anaïs Nin a Henry.

Amsterdam_busArrivarono a Leidse Plein. Si fermarono in contemplazione di due vecchi, grandi autobus completamente ricoperti di ghirigori sgargianti. Intorno ai due automezzi si affaccendavano ragazze e ragazzi con grandi borse e zaini. Molti ridevano, altri sembravano in attesa, taciturni e assorti.
“Questi sono gli autobus per Kathmandu” disse Gino.
Jimi e Dennis li guardarono strabiliati. Quei vecchi scassoni fino a Kathmandu? Ma quanto tempo impiegavano?
“Una settimana, circa, di viaggio ininterrotto. Con tre autisti che si alternano. Guardateli: molti di loro, secondo me quasi tutti, vanno a morire di eroina. Vanno a Kathmandu per questo. Oppure si illudono di andare per un altro motivo. Invece è la città della fine. E’ la città della colpa.”

Jimi e Dennis guardavano impietriti i ragazzi coi capelli lunghissimi, le barbe, le ragazze coi sandali, le gonne lunghe a fiori e stelline. Quella ragazza bionda, con la pelle nivea, bellissima: sarebbe morta nella antica città decrepita e lurida?

“Io non ci andrò mai. Io voglio spazzare via la colpa” disse Gino. “Io voglio ritrovare la bellezza. Voglio ritrovare la fiducia. Voglio ritrovare l’amore.” Un gesto brusco, definitivo. “Ma andiamo ora. Si sta facendo tardi.”

Il barcone sul canale

Arrivarono a un grande barcone ormeggiato sul canale Keizer. Sul ponte sventolava una bandiera bianca con un simbolo che a Jimi sembrò una fontana zampillante. Di fianco alla passerella un ragazzo con un completo di foggia orientale, di cotone bianco, controllava le persone che chiedevano di entrare. Sulla testa portava un voluminoso turbante bianco. Alcuni, che erano vestiti in maniera identica, venivano fatti passare senza controlli, gli altri esibivano un cartoncino, oppure passavano perché riconosciuti a vista. Regnava un’atmosfera rilassata, sulle facce erano stampati larghi sorrisi, gli sguardi sembravano ispirati. I ragazzi col turbante, che a Jimi pareva una grande pentola rovesciata, facevano inchini giungendo le mani. Erano soprattutto maschi, ma non mancava qualche ragazza. Sotto ai turbanti si intuivano le teste rapate a zero.

Quando toccò a loro Gino scambiò alcune battute in olandese. Il ragazzo sorrise, guardò Jimi e Dennis, annuì, poi stese un braccio invitandoli a passare.
Entrarono in una sala insolitamente vasta. Sulle sedie allineate erano sedute varie persone, in prima fila c’erano i ragazzi coi turbanti. Di fronte alle sedie era posizionato un piccolo palcoscenico con una robusta sedia al centro, vuota.

Presero posto nella terzultima fila, che era ancora libera. Jimi osservava i presenti. Era interessato soprattutto ai ragazzi col turbante. Sedevano ordinati, con la schiena eretta, e si muovevano con grande lentezza, con solennità. Anche se si alzavano in piedi non flettevano mai la schiena, non facevano gesti bruschi. Se dovevano guardare di lato, o alle spalle, torcevano il busto, non il collo. Le loro facce erano sempre sorridenti, anche quando stavano in silenzio, immobili. Anche Gino sorrideva, sembrava pervaso dalla stessa ispirazione che coinvolgeva tutti.

Dopo una breve attesa sul palco salì un ragazzo col turbante, che salutò e diede il benvenuto ai presenti, augurando a tutti “luce e pace”. Poi, dopo un breve mantra recitato in gruppo, che consisteva in tre sillabe: ah in crescendo, seguita da oh in calando e di nuovo ah in crescendo, presentò il Maestro.

Il Maestro irato

Entrò un orientale di età indefinibile, forse sui 50-60, di corporatura robusta, vestito con lo stesso completo bianco di cotone, ma senza turbante. La testa era rapata a zero. Prese posto su una sedia massiccia, coi braccioli, posizionata di fianco al palco. Il viso era privo di una espressione definita. Non rideva, ma non era neanche serio. Sembrava immerso in riflessioni lontane, su tematiche remote, in un altro tempo e in un altro spazio. Restò in silenzio per un paio di minuti, al centro di tutti gli sguardi, poi iniziò a parlare. Con una cadenza lenta, sommessa. In una lingua incomprensibile.

Jimi e Dennis ascoltavano, sembrava cinese, o tailandese. Nessuno traduceva. Tutti ascoltavano immobili, rapiti. Ma chi capiva?
“Gino, ma cosa dice?” chiese Jimi, sottovoce.
“Non lo so” rispose Gino, in un sussurro. “E’ tibetano.”
“Ma?! Nessuno traduce?”
“Non serve”.
“Come non serve?”
Una pausa. “Non è necessario. Basta ascoltare la voce. La sua modulazione. Senti la calma che infonde? La pace? L’amore?”
Jimi provò a sentire. A capire. Ma continuava a udire soprattutto una lingua incomprensibile.
Il discorso andò avanti per una ventina di minuti, nel silenzio più assoluto. Poi il Maestro tacque, e il ragazzo tornò sul palco.

“Ora il Maestro entrerà in uno stato di particolare concentrazione: Il Maestro irato!”

Tutti gli sguardi si concentrarono di nuovo sul Maestro. Che sedeva immobile, con lo sguardo fisso su un punto lontano. Poi, d’un tratto, avvenne un fenomeno straordinario: iniziò a rimbalzare sulla sedia. Mentre i ragazzi col turbante intonavano il mantra ah-oh-ah.

Jimi, incredulo, guardava quel corpo massiccio che sobbalzava. Si abbassò, per cercare di capire se sotto le natiche aveva delle molle. Come faceva a sollevarsi in quel modo? Non usava le gambe. Non saltava. A un certo punto spalancò la bocca e continuò a rimbalzare così, con la bocca spalancata. La faccia era una maschera furiosa.

[Continua. La terza e ultima puntata sarà pubblicata nella notte tra mercoledì 24 e giovedì 25 luglio]

]]>
The live adventures of Jimi Hendrix and Dennis Hopper – Il rito (1) https://www.carmillaonline.com/2013/07/11/the-live-adventures-of-jimi-hendrix-and-dennis-hopper/ Wed, 10 Jul 2013 22:09:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7106 di Mauro Baldrati

Amsterdam twiggy1ridAmsterdam_twiggy2ridAmsterdam twiggy3rid

Amsterdam, Vondel Park, luglio 1970

I due ragazzi erano seduti a gambe incrociate accanto a uno degli stagni di acqua scura popolati da grasse e pigre anatre. Mattina, era mattina. Circa le dieci. Si poteva dormire fino a tardi, era teoricamente possibile. Ma non esisteva il “tardi”, come non esisteva il “presto”. Per dire, la postazione delle percussioni, formata da un nucleo duro di bonghisti e da ragazze e ragazzi che si avvicendavano suonando strumenti vari, era attiva 24 ore [...]]]> di Mauro Baldrati

Amsterdam twiggy1ridAmsterdam_twiggy2ridAmsterdam twiggy3rid

Amsterdam, Vondel Park, luglio 1970

I due ragazzi erano seduti a gambe incrociate accanto a uno degli stagni di acqua scura popolati da grasse e pigre anatre. Mattina, era mattina. Circa le dieci. Si poteva dormire fino a tardi, era teoricamente possibile. Ma non esisteva il “tardi”, come non esisteva il “presto”. Per dire, la postazione delle percussioni, formata da un nucleo duro di bonghisti e da ragazze e ragazzi che si avvicendavano suonando strumenti vari, era attiva 24 ore su 24. Da quando Toni Rinaldi, 17 anni e un mese, detto Jimi Hendrix, e Dennis Locatelli, 17 anni e sette mesi, detto Dennis Hopper, erano arrivati da Mezzaluna, tre giorni prima, dopo un lungo viaggio in autostop, non si era mai fermata un secondo. Quando era “presto” e quando “tardi”?

Per esempio, quel sadhu immobile di fronte a loro: un ragazzo a torso nudo e in pantaloncini nonostante un venticello niente affatto temperato, seduto nella posizione del loto, con la barba che gli scendeva fino ai ginocchi: pensava che fosse “presto”? Chi lo stabiliva?
Pensare al tempo che scorreva per quel sadhu immobile come una scultura faceva letteralmente ribaltare dalle risate Jimi Hendrix. Fissava la barba nera, i capelli lunghi sulle spalle che svolazzavano sotto quella brezza insistente e rideva fino a svuotarsi i polmoni dell’ultimo centimetro cubo d’aria. Rideva fino a cadere di lato, dove continuava a ridere rivolto al cielo grigio, coperto di nuvole. Dennis Hopper rideva a sua volta, scrollando le spalle, con lunghi “sgrooff-sgroff”, come suo solito.

Jimi si alzò, si asciugò le lacrime col bordo del maglione. Guardò l’accampamento, che si stendeva per tutto il parco, centinaia, forse migliaia di ragazze e ragazzi provenienti da tutti i paesi europei, dall’America, dall’Australia, dal Canada. Molti erano seduti in cerchio, coi grandi chilum o i joint che giravano. Stava per precipitare di nuovo in un attacco di risa convulse, quando sentì un tocco sulla spalla. Si girò. Il faccione di Gino gli apparve come un pallone sgonfio, e subito attaccò a ridere. Si ribaltò all’indietro, giacque sulla schiena dove rimase per un tempo indeterminato.

“Ragazzi, avete fumato il mio marocchino, vero?” chiese Gino.
Il suo marocchino. Come si poteva resistere a una battuta del genere? Jimi dovette mettersi carponi, per riuscire a respirare.
Il suo marocchino.
Come dire il suo afgano.
O il suo libanese.

Gino era la loro guida, un amico e il loro pusher. Anche il loro salvatore, andava detto. Appena arrivati in città, dopo dodici giorni di autostop sotto il sole, sulle autostrade tedesche roventi, si erano subito diretti alla meta: Piazza Dam, uno dei centri mondiali del movimento underground, con Londra, San Francisco, Copenaghen. Era stata anche il ritrovo preferito dei Provos, il gruppo di riferimento di Dennis, che li aveva studiati come modello di provocazione creativa, di sberleffo al Potere. Si diceva che in Piazza Dam avessero suonato gratis i Jefferson Airplane, i Grateful Dead, Bob Dylan, seduto sulle gradinate con chitarra e armonica, e per una giornata intera era stata occupata dalla grande carovana comunitaria dei tedeschi Amon Düül. Lo scopo del viaggio era di entrare finalmente nel mondo. Nella storia.

Ma cosa avevano trovato?
Solo una piazza deserta, occupata da spacciatori di eroina, immobili e indifferenti intorno alla scultura bianca a forma di obelisco. Non credevano ai loro occhi. Ma dov’era finita la gente? Cosa era accaduto? Una guerra?

Mentre si aggiravano confusi, con una tristezza e una delusione cocente nel cuore, senza sapere che fare, né dove andare, erano stati avvicinati da un tipo che si era rivolto a loro direttamente in italiano. Lo avevano guardato sbalorditi: ma come aveva potuto riconoscere la loro nazionalità? Dennis sembrava davvero il grande attore e regista di Easy Rider, con quei baffi spioventi, e Jimi portava i capelli come il vero Jimi, sotto a un cappello nero col foulard colorato. Erano cotti dal sole, piegati sotto il peso dei grandi zaini militari. Eppure quel tipo non aveva avuto dubbi. “Volete del fumo buono?” aveva chiesto, affabile, accogliente. Certo che lo volevano! E quella voce amica era come una musica dopo il trauma. Aveva mostrato loro una pallina di nero, morbida, profumata. Si schiacciava con le dita. Stavano per pagare i 25 goulden quando un altro tipo si era avvicinato, iniziando subito una discussione animata in olandese con l’altro. Forse era volato qualche insulto, o minaccia, perché il primo si era allontanato scuro in viso, gesticolando col pugno chiuso.
“Quello era fuori zona” aveva detto il tipo, in un italiano perfetto. “Qui non si vende gomma”.

Gomma?

Sì, aveva detto, era un pusher di gomma, un “paccarolo”. Abbordava chi era appena arrivato e non sapeva nulla della città. Amsterdam ne era piena, occorreva fare molta attenzione. Poi aveva mostrato loro del “vero” fumo, marocchino sputnik e afgano di prima qualità. “Provatelo” aveva detto, “poi lo comprate se vi piace. L’altro vi avrebbe fatto venire un tremendo mal di testa.”
Avevano comprato il fumo, che si era rivelato davvero spaziale, e ne avevano approfittato per chiedere notizie. Ma dov’era la gente? Dov’era il mondo?
Gino, che era originario di Milano ma viveva ad Amsterdam da cinque anni, aveva spiegato che Piazza Dam era deserta dal 1968, dopo la “Death of Hippie”. Ora c’erano gli spacciatori neri e i turisti. La gente si era trasferita al Vondel Park.

E allora andiamo al Vondel Park perdio!

Niente sputnik stamattina?

“Allora? Niente sputnik stamattina? Sicuro?”
Nuove risate alla parola sputnik. Nuove cadute di Jimi sul prato. E Gino sempre calmo. “Allora avete preso un acido? Siete stati al porto dagli americani?” Jimi si immobilizzò per un attimo. E anche Dennis. L’LSD era nel progetto. Volevano, dovevano provarlo. Il ribaltamento della coscienza di Rimbaud, l’autore preferito di Dennis, come Jimi Hendrix lo era per Jimi. Nel deserto di Mezzaluna, il paese più infelice del mondo, era introvabile. Ad Amsterdam lo vendevano i marinai militari americani, tre gocce in una zolletta di zucchero. Si andava al porto, dove era alla fonda una portaerei, e i marinai arrivavano con le bottigliette. Venti goulden.
“Neanche l’acido?” disse Gino, fissandoli pensieroso. “Ma no. Impossibile. Qualcosa avete preso.”

Jimi guardava a turno il sadhu immobile, poi Gino, poi la faccia da grullo di Dennis Hopper, e si contorceva dalle risate. Si fermò solo quando passarono due poliziotti, che lo esaminarono con aria dubbiosa. Passavano un paio di volte al giorno, guardavano, si fermavano, ma non intervenivano mai, sia che fossero in atto fumerie di massa, sia che qualcuno in trip desse di matto, sia che qualche coppia facesse l’amore in pubblico. Intervenivano unicamente in caso di rissa violenta, oppure se qualcuno si azzardava a piantare una tenda. Le tende erano severamente vietate. Si rischiava il sequestro e, si diceva, il fermo.

Però quelle occhiate critiche dei due poliziotti fecero svanire ogni traccia di riso convulso in Jimi Hendrix. Si accasciò, esausto. Gino si guardò intorno, come se cercasse qualcosa, o qualcuno.

“Ho capito. Avete fatto colazione. Giusto?”
Jimi e Dennis, ora perfettamente seri, annuirono. Indicarono un banchetto dove si vendeva frutta, piatti di riso piccante, dolci, caffè.
“E avete mangiato una bella fetta di torta. Giusto?”
Jimi e Dennis, dopo un attimo di riflessione, annuirono di nuovo.
“Ok. Era uno space cake. E qui li fanno belli carichi”.

Space cake?

Amsterdam_spacecakeGino sospirò. “Sì, torta all’hashish, o alla ganja. La sostanza viene assorbita molto più intensamente rispetto alla combustione. Una bella colazione psichedelica, anch’io ogni tanto me la concedo. Fa partire la giornata col piede giusto. Voi però avete spallato. Avete scelto una fetta di grande formato. Una bomba.”
Jimi pensò alle fette di torta al cioccolato. Non ricordava le dimensioni. Però aveva ancora sulla lingua lo strano sapore ferroso. E ricordava la vibrazione che gli era salita in gola, poi lungo la schiena, per arrivare al cervello.
Space cake.
Fondamentale.

Intanto dalla postazione delle percussioni arrivavano dei suoni di fiati e di chitarre. Decisero di andare a curiosare. Si alzarono, girarono intorno allo stagno e raggiunsero lo spiazzo. Il gruppo era alquanto numeroso. C’erano cinque bonghisti, tutti neri, un suonatore di tabla, due chitarristi, un sax tenore, un baritono, un trombone, una tromba, tutti scatenati in una interminabile jam session.

Jimi Hendrix intanto sbirciava Gino. Si teneva la testa tra le mani. Aveva la schiena curva, sembrava oppresso, appesantito. Stava immobile come il sadhu. Ma un sadhu crollato. Un sadhu esangue. Un sadhu in agonia.
“E tu che hai fatto, Gino?” chiese Jimi. Nessuna risposta. Forse non aveva neanche sentito. Ripeté la domanda. Gino alzò il capo, mostrò una faccia scura, una faccia funebre. Lo space cake continuava a mandare scariche e ondate di calore, ma la faccia di Gino impediva qualunque scoppio di risa. “Non stai bene?”

C’era chiasso, i fiati pompavano note poderose, i bonghisti picchiavano duro, il tablista aveva dita come martelletti. La gente ballava, cantava. Mentre Gino era a terra. Jimi ebbe l’impressione che piangesse.
“Vieni, facciamo un giro” disse Jimi. Si alzò, lo prese per un braccio, l’obbligò ad alzarsi.

Tornarono al loro accampamento, dove avevano lasciato gli zaini e i sacchi a pelo, seguiti da Dennis, che si muoveva a scatti, guardandosi intorno frenetico, proprio come Dennis Hopper.
“Dai Gino, adesso tocca te. Stai male? Hai preso qualcosa?”
“No, è che… devo… decidermi.”
Jimi tacque, in attesa. Guardò davanti a sé e notò con un senso di allarme che il sadhu era sparito. Poi però si accorse che erano semplicemente girati al contrario. Ora si trovava alle loro spalle. Oppure si era spostato? Con la lievitazione?
“Sento il bisogno di decidermi” disse Gino, cupo. E’ come un richiamo al quale non posso resistere. Al quale non voglio resistere. Ma ho paura, lo confesso.”

Dennis lo guardava, accennava a un sorriso, poi diventava serio, scuoteva la testa. Si toccava la collana, ma da quando aveva una collana al collo? Aveva anche inforcato un paio di occhiali neri, uguali a quelli di Dennis Hopper.

“Paura? Di cosa?” chiese Dennis.
Sì, forse ora Gino stava piangendo. Si stropicciava gli occhi, respirava forte.
“Ho paura del… della storia. Ma la voglio. Voglio quella storia. Sento che mi chiama. Mi sta chiamando a gran voce. Mi sta dicendo che sono pronto. Eppure ne ho paura. Mi faccio rabbia da solo.”

Arrivò un joint, per mano di una ragazza bionda, coi capelli ricci, lunghissimi. Occhi azzurri, luminosi. Pelle chiarissima. Scandinava. Jimi accettò il joint ricambiando il sorriso. Era ottimo, un’altra botta che si combinava con lo space cake. Un altro attentato alla coscienza. Un altro sregolamento della mente. Jimi non voleva fermarsi. Mai. Voleva andare oltre.

“Perché hai paura Gino? E chi ti sta chiamando?”
Che domande buffe. Che questione buffa. Eppure la faccia di Gino non era buffa. Era spaventata, ma anche ispirata.
“Ho paura, Jimi Hendrix. Ho paura del… rito. Mi chiama. Io voglio essere nel rito. Voglio essere il rito. Ma. Ho paura. Di lui. Ho paura del rito.”

(Continua. La seconda puntata uscirà nella notte tra mercoledì 17 e giovedì 18 luglio, la terza e ultima nella notte tra mercoledì 24 e giovedì 25 luglio.)

]]>