Una poltrona per due – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una poltrona per uno https://www.carmillaonline.com/2023/12/25/una-poltrona-per-uno/ Sun, 24 Dec 2023 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80531 di Alessandro Villari

24 dicembre

«Voglio sapere chi ha ucciso mio marito, Billy Ray Valentine.» La donna seduta di fronte alla mia scrivania era un rompicapo. Alta, snella, abbronzata: sprizzava salute da tutti i pori, e solo qualche ruga quasi impercettibile sul volto dai lineamenti marcati tradiva l’età non più giovanissima. Contando che tra abiti e accessori aveva addosso qualche migliaio di dollari, si sarebbe mimetizzata perfettamente tra la migliore borghesia alla prima dell’Opera di Philadelphia. Eppure dalla maniera irrequieta di muoversi sulla sedia, dall’intensità dello sguardo così diretto, dal modo in cui non faceva nulla per nascondere una scollatura che non [...]]]> di Alessandro Villari

24 dicembre

«Voglio sapere chi ha ucciso mio marito, Billy Ray Valentine.»
La donna seduta di fronte alla mia scrivania era un rompicapo. Alta, snella, abbronzata: sprizzava salute da tutti i pori, e solo qualche ruga quasi impercettibile sul volto dai lineamenti marcati tradiva l’età non più giovanissima. Contando che tra abiti e accessori aveva addosso qualche migliaio di dollari, si sarebbe mimetizzata perfettamente tra la migliore borghesia alla prima dell’Opera di Philadelphia.
Eppure dalla maniera irrequieta di muoversi sulla sedia, dall’intensità dello sguardo così diretto, dal modo in cui non faceva nulla per nascondere una scollatura che non passava certo inosservata – per non parlare dalla gomma che non aveva smesso un secondo di masticare – si intuiva che Ophelia non era nata col culo al caldo. Un contrasto conturbante.
«Dunque non crede alla versione della polizia, che si sia trattato di un suicidio, o di un’overdose accidentale. Mi dica come mai.»
«Billy Ray era una persona solare, l’ultimo al mondo che si sarebbe tolto la vita. E non si faceva, mai.»
«E la bustina di coca trovata vicino al luogo del decesso?»
«È una montatura. Ed è anche un messaggio da parte dell’assassino: una citazione, se vogliamo. Come il bicchiere di succo d’arancia. È come tutto è cominciato, quindici anni fa: e anche allora, sia la coca che il succo d’arancia erano un inganno.»
«Che cosa intende?»
«Il detective è lei. E per duecento dollari al giorno un po’ di ricerca la potrà anche fare.»
E pronunciate queste parole, senza altro commiato, il mio rompicapo di nome Ophelia si alzò, raccolse la sua borsa di coccodrillo e infilò la porta.

*

Erano le 18 in punto della vigilia di Natale: decisamente ora di chiudere la baracca. Fuori era buio e nevicava – o forse era soltanto l’effetto delle finestre che Carmen non aveva pulito neppure questa volta. Come darle torto, visto che non la pagavo da un mese. Quei duecento bigliettoni al giorno erano davvero il regalo che serviva.
Nevicava davvero. Sulla via di casa feci una tappa da Joe il pescivendolo, per investire una parte del cospicuo anticipo della mia cliente in un trancio di salmone di prima qualità: sarebbe stato il piatto forte del mio banchetto natalizio.
Un’ora dopo contemplavo la mia tavola imbandita, non senza disappunto.
La tavola era in realtà il tavolino porta-riviste davanti al divano. Come tovaglia, avevo adattato uno strofinaccio della cucina che un tempo era stato rosso, o almeno arancione. Lasciava scoperte le estremità del tavolino, ma se non altro nascondeva le riviste sottostanti: quasi tutte pornografiche, devo ammettere.
Al centro, un unico piatto sbreccato su cui era adagiato il salmone così come era uscito dal foglio di giornale in cui era stato avvolto. Forse avrei dovuto pensare a un contorno. Non avevo neppure del vino per accompagnarlo: poco male, ero più uno da whisky.
Buon Natale a me.
Sarà stata la solitudine, il pesce scondito o il whisky, ma terminato in pochi minuti il mio discutibile pasto mi scese una certa malinconia. Mi ritrovai a pensare alla mia cliente: rimasta vedova alla vigilia di Natale, sola come me. Povera donna.
Quasi meccanicamente, sfilai una rivista da sotto il tavolino e mi masturbai.

*

25 dicembre

Mi risvegliai la mattina dopo sul divano, mezzo vestito, la bocca impastata dall’alcool. Nel tentativo di redimermi dallo schifo della sera precedente, feci una lunga doccia bollente e mi misi di buona lena a pulire e riordinare il mio monolocale.
Fu nel bel mezzo di questa attività catartica che, proprio mentre lo stavo gettando nella spazzatura, mi cadde l’occhio sul foglio di giornale che aveva avvolto il pesce: era dell’Inquirer del giorno prima, e c’era una foto di Ophelia.
Stesi la pagina stropicciata e me la portai sul divano, incurante del suo fetore. La foto accompagnava un lungo necrologio di Billy Ray Valentine e risaliva a una quindicina d’anni prima: il morto sorrideva a trentadue denti di fianco alla mia cliente – ancora più in forma di adesso – che se ne stava abbracciata a un altro uomo, secondo la didascalia un certo Louis Winthorpe III.
Dimenticai le pulizie e mi misi a leggere. Valentine e Winthorpe si erano messi in società all’inizio degli Anni Ottanta e avevano ricavato un enorme profitto dalla compravendita di titoli sul succo d’arancia – che modo stronzo di fare i soldi. Disse quello che i soldi non li avrebbe fatti mai. Con quel denaro avevano creato un vero impero finanziario, fino alla separazione, apparentemente per dissidi personali – che c’entrassero con Ophelia, prima abbracciata all’uno e poi sposata con l’altro?
L’articolo continuava nella pagina successiva: per leggerlo tutto avrei dovuto comprare anche le capesante, come mi aveva suggerito Joe. Al quale si doveva comunque dare atto che almeno l’involucro del pesce era fresco di giornata.
In ogni caso, avevo il primo nome sulla mia lista: Louis Winthorpe III.
Col pretesto degli auguri contattai in giornata un ex collega di polizia che mi doveva qualche favore.

*

26 dicembre

Il giorno successivo, in una centrale semideserta, mi misi a setacciare gli archivi in cerca di indizi. Il nome di Valentine ricorreva spesso nei verbali tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta: disturbo alla quiete pubblica, piccoli furti, un paio di truffe di poco conto, qualche notte in cella. Era il classico tipo che viveva di espedienti. Un mistero come avesse fatto nel giro di nulla a diventare milionario.
Il mistero si infittiva con Winthorpe. Nulla su di lui fino alla fine del 1983, poi in una sola settimana un arresto per possesso e spaccio di cocaina e una denuncia per aggressione, la sera di Natale. La cosa interessante era che la denuncia, poi ritirata, era stata fatta da… Billy Ray Valentine. Ed era pochissimo tempo prima che i due diventassero soci!
Chiaramente c’era sotto qualcosa di losco.
Rilessi il verbale della denuncia per spaccio. L’arresto era avvenuto in flagranza. Tra i testimoni era citato un certo Clarence Beeks: ecco un altro nome da rintracciare. Ma su di lui non c’era nulla negli archivi della polizia.
Annotai l’indirizzo di residenza di Winthorpe – gli avrei fatto visita nel pomeriggio, sperando non fosse in qualche lussuoso chalet di montagna a trascorrere le feste – e uscii. Dopo un pranzo frugale, ma comunque migliore della mia cena di Natale – un hot-dog divorato in quattro bocconi in auto – guidai per le strade deserte verso una delle più sofisticate zone residenziali di Philadelphia, in centro e a due passi dal fiume.

*

Un maggiordomo compassato, dall’aria francamente antipatica, socchiuse il portone d’ingresso.
«Non siamo interessati a pubblicità e richieste di elemosine.»
Gli mostrai il tesserino.
«Sto cercando il signor Winthorpe: se è in casa e non è troppo disturbo avrei bisogno di parlargli.»
Mi squadrò da capo a piedi, sollevando un sopracciglio. Quindi mi tese un biglietto da visita.
«Il signor Winthorpe riceve solo su appuntamento, può telefonare alla sua segretaria lunedì.»
Non feci in tempo a protestare, che una voce dall’interno dell’abitazione s’intromise.
«Ernest, non essere scortese e prendi il soprabito del signor…»
«Simpson Day. La ringrazio signore, e mi scuso per l’intrusione per di più in periodo di festa. A dire la verità pensavo proprio che non l’avrei trovata in casa.»
Porsi il mio giaccone al maggiordomo, che sparì in uno stanzino laterale tenendolo con la punta delle dita, senza sforzarsi di nascondere un’espressione disgustata.
«Perdoni le maniere del mio maggiordomo. Un tempo ne avevo uno straordinario, si chiamava Coleman, era un amico. È morto qualche anno fa. Ernest non è degno di abbottonargli la giacca, ma mi devo accontentare.»
L’uomo che aveva parlato mi attendeva in fondo al corridoio, vidi che si reggeva sulle stampelle e aveva una gamba ingessata.
«E comunque nemmeno io pensavo che sarei stato qui il 26 dicembre: a quest’ora avrei dovuto essere in un lussuoso chalet di montagna. Mi segua, andiamo a sederci in un ambiente un po’ più confortevole. Posso offrirle del caffè? Ernest, per favore.»
Il padrone di casa saltellando mi condusse in un salottino quadrato che trasudava ricchezza dal parquet lucido, dai tappeti eleganti, dal caminetto acceso che occupava un’intera parete. Si lasciò cadere sul divano proprio di fronte al braciere e sollevò la gamba sul pouf. Io non avevo ancora poggiato le chiappe sulla poltrona di fianco al fuoco che entrò il maggiordomo reggendo un vassoio con due tazzine e una zuccheriera: lo appoggiò sul tavolino e uscì senza fiatare, e senza degnarmi di uno sguardo.
«Immagino sia venuto per farmi delle domande su Billy Ray», disse Winthorpe in tono neutro fissando il suo caffè. «Sospetta di me?» chiese guardandomi improvvisamente negli occhi.
«Non ancora», gli sorrisi. «Ma credo che lei possa aiutarmi a capire alcuni retroscena che potrebbero essere importanti.»
Non avevo motivo di mentirgli, perciò gli raccontai in breve delle mie ricerche mattutine e delle conclusioni – per la verità estremamente parziali – a cui ero giunto.
«E vorrebbe che unissi i puntini per lei?» mi chiese alla fine.
«Gliene sarei grato. E vorrei sapere anche dove posso trovare quel Clarence Beeks, sempre che davvero c’entri in questa faccenda.»
«C’entra, eccome. Ma temo di non poterla aiutare a trovarlo. Per il resto, invece, si metta comodo e lasci che le racconti una storia. Sa che cosa sono i contratti future
Scossi la testa. Winthorpe iniziò a spiegare e a raccontare. Rimasi ad ascoltarlo per quasi un’ora, a bocca aperta.
«È stato davvero illuminante», commentai alla fine. «Mi perdoni, ma non posso proprio fare a meno di chiederglielo: in che rapporti era con il signor Valentine? So che da qualche anno non eravate più soci, e poi…»
«… e poi aveva sposato Ophelia, la mia fidanzata. Ex fidanzata, vorrei sottolineare: l’avevo lasciata io. Capisco il suo scrupolo, ma la verità è che anche dopo aver sciolto la società, Billy Ray e io eravamo rimasti molto amici. Ed ero stato molto felice sia per lui che per Ophelia quando si erano innamorati: erano proprio fatti uno per l’altra.»
«Ma allora perché…»
«Perché avevamo preso strade separate? Vede, Billy Ray aveva un fiuto fantastico per gli investimenti ed era il socio ideale: affidabile, per nulla avido. Solo che negli ultimi anni aveva maturato una certa quantità di scrupoli morali che a mio avviso non erano accettabili per chi fa il nostro mestiere.»
«Può farmi un esempio?»
«Sì. Alcuni anni fa, ci contattò Mortimer Duke proponendoci una collaborazione. Da pari, questa volta.»
«Mortimer Duke? Ma non è uno dei due fratelli che avevate rovinato?»
«Oh, rovinato è una parola grossa. Sì, i Duke avevano perso un sacco di soldi. Ma non erano soldi loro dopotutto, almeno in gran parte. Certo, la loro reputazione ne era uscita a pezzi. Ma il mercato ha la memoria corta, nel giro di qualche tempo erano tornati in pista. Comunque, era una buona occasione, e in affari non c’è nulla di peggio che tenere il broncio.»
«Ma Valentine tenne il broncio.»
«Esatto. Cercai in ogni modo di convincerlo ma non ci fu verso. Allora mi resi conto – ci rendemmo conto entrambi a dire il vero – che non potevamo rimanere soci. Ma ci lasciammo in amicizia, come con Ophelia del resto. Onestamente non avevo alcun motivo per avercela con lui.»
«E i fratelli Duke? Loro un motivo ce l’avevano.»
«Certo. Ma, come le dicevo, erano comunque caduti in piedi e non erano tipi da nutrire rancore. Lo dimostra il fatto che ci chiesero loro di collaborare. E comunque credo proprio che abbiano entrambi un alibi inattaccabile.»
«E sarebbe?»
«Sono morti. Randolph una decina d’anni fa, Mortimer la scorsa estate. Aveva più di novant’anni.»
«Un’ultima cosa. Mi pare evidente che il succo d’arancia e la bustina di coca di fianco al cadavere non fossero lì per caso. Chi altri era a conoscenza della storia che mi ha raccontato, oltre a voi quattro, ai Duke e a Beeks?»
«Nessuno, che io sappia. E concordo che sia una messinscena. Ma potrebbe benissimo averla organizzata Billy Ray: aveva un gran senso dell’umorismo. E magari qualche senso di colpa.»
Ci stringemmo la mano sull’uscio, mentre Ernest mi restituiva il giaccone sempre con la stessa maschera di disgusto scolpita sul volto.

*

Fuori nel frattempo era buio. Mentre salivo in macchina, mi sembrò di notare con la coda nell’occhio un’ombra che si ritraeva nel vano di un portone vicino. Volsi lo sguardo in quella direzione ma non vidi nulla: probabilmente era solo un gatto.
La chiacchierata era stata utile, a prescindere da quanto potessi fidarmi di Winthorpe. Ma di fatto ero in un vicolo cieco. L’unica pista che avevo era Clarence Beeks, ma non avevo idea di dove e neppure come trovarlo. Le sue tracce, a quanto avevo appreso, si interrompevano alla stazione di Chicago, all’alba del primo gennaio 1984.
Per quanto fosse improbabile, al limite dell’assurdità, l’unica opzione che avevo era andare a Chicago.
Ero talmente immerso in questi pensieri che, entrando, non mi accorsi che la luce del mio ufficio era accesa.
«Buonasera, detective.»
Feci un salto. Ovviamente era Ophelia.
Non persi neppure tempo a chiederle come fosse entrata e la aggiornai sui miei magri progressi.
«Vengo con lei a Chicago», fu la sua reazione – assai migliore di quella che temevo. «Non si preoccupi, non la intralcerò. Ho degli affari da sbrigare lì e approfitterò per non fare il viaggio da sola. Ci vediamo in stazione domani a mezzogiorno, prendo io i biglietti.»
«Come, in stazione? Non vorrà andarci in treno, impiegheremo una vita…»
«Non volo. E sono io che pago: che le importa del tempo? Troveremo qualche modo per impiegarlo.»
Detto questo si alzò e uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta e lasciandomi a bocca aperta a interrogarmi sulle implicazioni di quell’ultima frase.
«A domani, detective», la sentii salutare dal pianerottolo.

*

27 dicembre

Mi addormentai a fatica quella notte, feci sogni agitati e mi svegliai tardi, più stanco di quando mi ero coricato.
Dedicai più tempo del solito alla toeletta. Docciato e ben rasato, infilai qualche straccio in un borsone – contavo di non fermarmi a Chicago più di un paio di giorni – e mezz’ora prima di mezzogiorno ero in stazione.
Mi feci dare allo sportello il numero del centralino della Union Station di Chicago e chiamai: se non altro, esisteva un ufficio doganale con un archivio. Con un po’ di fortuna sarei riuscito a trovare qualche traccia della spedizione di un gorilla avvenuta quindici anni prima.
La mia cliente mi venne incontro a mezzogiorno spaccato, fin troppo sorridente per una fresca vedova.
«Ho prenotato una carrozza con due posti letto: spero non le dispiaccia condividerla – ma non si faccia strane idee. Il treno parte tra mezz’ora, saremo a Chicago domani mattina.»
«Nessuna idea: ho una deontologia.»
Per confermare il concetto, mi addormentai pochi minuti dopo la partenza, il cappello calato sugli occhi.
Mi risvegliai che era già tramontato il sole. Una fioca luce rossastra illuminava una distesa di campi gelati a perdita d’occhio.
«Bentornato. Meno male che doveva farmi compagnia. Forse questa potrà interessarle: gliene avrei parlato appena saliti ma non me ne ha dato il tempo.» Mi porse un’agenda rilegata in pelle rossa.
«Che cos’è?», chiesi mentre la sfogliavo. Conteneva numeri di telefono, date, qualche nome.
«L’ha trovata stamattina la domestica, mentre riordinava lo studio di mio marito. A quanto pare era nascosta in uno scomparto della scrivania che si è aperto mentre la spostava per pulire. È diversa dall’agenda che Billy Ray usava normalmente.»
«L’ha già letta? Ha trovato informazioni o indizi che potrebbero essere utili?»
«L’ho sfogliata da cima a fondo mentre lei dormiva. C’è un numero di telefono che ricorre, ma non lo riconosco. Eccolo, guardi. Ho anche provato a chiamarlo, ma non ha risposto nessuno. Qua e là è associato a un nome: Martino. Non so a dire il vero se sia un nome o un cognome, a me non dice nulla.»
«Farò qualche ricerca quando saremo a Chicago.»
Trascorremmo le due ore successive in silenzio: io a consultare l’agenda, dalla prima all’ultima pagina; Ophelia leggeva un romanzo. Cenammo a Pittsburgh in uno dei bistrot della stazione, in attesa del cambio.
Al momento di risalire, vidi che tutt’a un tratto si era incupita, sembrava quasi che avesse gli occhi lucidi.
«Questo è esattamente il treno che prendemmo quindici anni fa, la notte di Capodanno del 1984, con Billy Ray, Louis e Coleman», disse quando fummo a bordo. Mi prese una mano. «Grazie per aver accettato di viaggiare insieme, non credo che sarei riuscita a prenderlo da sola.»
«Come se avessi scelta», sorrisi. «Che effetto le fa, adesso che è qui?»
«Tristezza, per Billy Ray ovviamente. Ma forse soprattutto nostalgia. Eravamo così giovani, fu una vera pazzia», mi sorrise a sua volta.
Si addormentò quasi subito. Mi senti uno sciocco per aver pensato… Mi addormentai pure io.
Mi svegliò a un’ora imprecisata, in piena notte, un movimento sotto la mia coperta. Era Ophelia che si era intrufolata. Immerse il volto nel mio petto, era umido. Mi abbracciò e dopo pochi istanti sentii il suo respiro rallentare e farsi più regolare.

*

28 dicembre

Quando mi destai, poco dopo l’alba, ero da solo nella mia cuccetta. Avevo sognato forse? Il sorriso della mia cliente mi rispose di no.
«Buongiorno, detective. Ecco l’indirizzo dell’albergo, è a due passi dalla stazione – stanze separate», aggiunse. «Abbiamo entrambi da fare, ma se vuoi raggiungermi prima di sera puoi contattarmi sul cellulare.»
Mi porse un biglietto dell’Holiday Inn, sul retro aveva scritto a penna un numero di telefono.
«Lo uso solo in viaggio», aggiunse a mo’ di spiegazione, «normalmente non mi piace l’idea di essere raggiungibile ovunque, mi sembra di essere sorvegliata.»
A proposito di sentirsi sorvegliati, appena scesi dal treno ebbi la sensazione di essere osservato. Mi guardai intorno ma non vidi nessuno, probabilmente era davvero la suggestione del telefono cellulare.
Salutai Ophelia nell’atrio – lei mi diede un leggero bacio sulla guancia – e cercai l’ufficio doganale.
L’esibizione del tesserino, e di una banconota da venti al suo interno, placò le proteste dell’impiegato, che mi condusse all’archivio: una stanza interamente occupata da schedari ordinati cronologicamente, con i documenti di trasporto di tutte le merci che erano passate dal più importante nodo ferroviario del mondo, giorno dopo giorno.
«È fortunato, l’archivio del 1984 è qui ancora per poco, dopo quindici anni mandiamo i documenti al macero. Può mettersi a quel tavolo.»
Conoscevo la data – 1° gennaio 1984 – e trovai quasi subito quello che stavo cercando. Eccolo, un gorilla dello zoo di Pittsburgh destinato a essere trasportato in Camerun. Il documento di trasporto era stato corretto a penna: a Chicago, i gorilla erano diventati due! Lo sconforto fu come un pugno nello stomaco.
Tornai dall’impiegato, sventolando il documento come una bandiera bianca. «Posso averne una copia?» e poi, a bassa voce a me stesso, «Quindi Beeks è finito in Africa… Maledizione!»
Il ragazzo alzò lo sguardo dalla fotocopiatrice: «Beeks, ha detto? Non Clarence Beeks, per caso?»
Spalancai gli occhi: «Lo conosce? Sa che fine ha fatto?»
«Be’, c’è un Clarence Beeks che lavora allo zoo giù a Lincoln Park. Con mio figlio che è fissato per i leoni ci andiamo così spesso che abbiamo finito per fare amicizia.»
Presi la mia fotocopia e lasciai sul bancone un altro biglietto da venti: l’uomo se l’era più che meritato. La giornata stava prendendo una direzione davvero inattesa.

*

Mi chiamo Clarence Beeks, e sono la dimostrazione di quanto la vita possa riservare sorprese.
Ho trascorso i primi trent’anni da adulto al servizio degli interessi dei ricchi, nutrendomi delle briciole che mi elargivano dal loro tavolo. Ero ambizioso e privo di scrupoli, e ho fatto cose di cui non vado fiero, sempre muovendomi nell’ombra: minacce, estorsioni, calunnie – tutto ciò che i miei facoltosi clienti mi chiedevano di fare. Ero piuttosto bravo.
Finché non successe qualcosa di inaspettato.
All’epoca ero l’uomo di mano della Duke & Duke, una finanziaria specializzata nella compravendita di titoli di beni di consumo. Mi avevano incaricato di corrompere un funzionario del ministero dell’agricoltura per ottenere in anticipo delle informazioni riservate sull’andamento del raccolto delle arance, e investire di conseguenza.
Ma un gruppo di squinternati, sul treno notturno per Chicago, mi sottrassero il rapporto, mi infilarono un costume da gorilla e mi chiusero in una gabbia occupata da un altro primate, in procinto di essere spedito in Africa. Fu soltanto quando sbarcammo in Camerun che si accorsero dell’errore.
Nel frattempo però, nelle lunghe ore trascorse in gabbia, avevo familiarizzato con il gorilla, imparando a comunicare con lui e perfino ad affezionarmici.
A cinquant’anni, avevo scoperto un lato di me stesso che non conoscevo – l’amore per gli animali selvatici – e che mi piacque moltissimo. Rimasi in Camerun per tre anni e, anche se non avevo nessuna competenza, potei collaborare al monitoraggio del programma di reinserimento degli animali nati in cattività nel loro habitat naturale.
Furono gli anni più belli della mia vita. Imparai moltissimo, con lo studio e con la pratica sul campo. Finché non ricevetti una proposta di lavoro dallo zoo di Chicago, uno dei più importanti d’America, che collaborava da tempo con i programmi di ripopolamento: avrei continuato a occuparmene seguendo gli esemplari più giovani e “preparandoli” alla loro nuova vita.
Mi parve un segno del destino. Chicago era il luogo in cui anche la mia vita era cambiata. Ora sono qui da dieci anni e sono un uomo felice. Soltanto una cosa mi turba: il pensiero delle tante azioni turpi che ho commesso nella mia vita precedente. Farei qualsiasi cosa per rimediare almeno in parte al male che ho fatto.

*

Ho preso tante cantonate nella mia carriera di investigatore privato, ma ero assolutamente certo di non sbagliarmi stavolta: Clarence Beeks non aveva niente a che fare con la morte di Billy Ray Valentine.
La lunga chiacchierata con quell’uomo bizzarro comunque non era stata del tutto inutile. Decisi però che l’avrei tenuta per me, almeno per il momento.
Raggiunsi l’albergo mentre i primi fiocchi di neve imbiancavano i marciapiedi, nascondendo almeno per qualche minuto il lerciume che li ricopriva.
Trascorsi il pomeriggio compulsando nuovamente l’agenda segreta del defunto. Il numero di telefono che compariva a più riprese era senza prefisso, e quel nome… Martino: chi era? Mi feci prestare le guide telefoniche di una dozzina di città da una receptionist perplessa ma efficiente e cominciai a cercare, in ordine alfabetico.
Austin, Chicago, Dallas, Houston… Fu solo a San Jose, penultimo tentativo, che trovai il filo che cercavo. Mi attaccai al telefono e iniziai a tirarlo.
Ero sotto la doccia, nel tardo pomeriggio, quando sentii battere alla porta della mia stanza. Immaginai che fosse Ophelia: carino da parte sua bussare, una volta tanto, ghignai tra me. «Cinque minuti e arrivo!»
Aperta la porta del bagno mi si gelò il sorriso in faccia. Il mio borsone era aperto sul pavimento, i quattro indumenti che conteneva sparsi in giro, tutti i cassetti aperti, le tasche del cappotto rivoltate… E l’agenda era sparita.
Ophelia! Uscii di corsa, seminudo. Nessuno sul corridoio, la sua porta era chiusa: la spalancai.
«Ma sei impazzito! Esci subito!», gridò lanciandomi addosso i pantaloni che si era appena tolta. Stava per lanciarmi qualcos’altro quando vide la mia espressione stravolta e si bloccò, improvvisamente preoccupata: «Che cosa è successo?»

*

La cena, nel ristorante dell’hotel, fu silenziosa: Ophelia era molto scossa, io cercavo di ricomporre i pezzi del puzzle. Soltanto davanti al dolce mi chiese delle indagini.
«Ho trovato Beeks, ma è un vicolo cieco.» Le raccontai dell’Africa e dello zoo, strappandole un sorriso.
«Ma abbiamo perso l’agenda», si rabbuiò subito.
«Non tutto è perduto. Intanto adesso sappiamo che l’agenda era la pista giusta. E credo di aver scoperto l’identità di Martino.»
«Davvero? E chi è?»
«Che cosa: è il nome di un’azienda in California, si occupa di computer.»
«Il numero di telefono era quello dell’azienda? Ma Billy Ray non ha mai fatto investimenti in quel settore, diceva di essere affezionato alla pancetta e al succo di frutta», sospirò.
«No, il numero non corrisponde, ma ho una pista e domani volerò a San Jose per seguirla. Perdonami, ma non c’è davvero tempo per il treno stavolta.»
«E mi lasci da sola…»
«Sei perfettamente al sicuro», mentii, più a me stesso che a lei. «Se qualcuno avesse voluto farti del male ne avrebbe già avuto molte occasioni, e comunque, chiunque sia, ha già preso quello che cercava.»
«Quando ci rivedremo?»
«Il 31 dicembre alle dieci di sera in punto sarò nel mio studio, e spero che per allora avrò trovato il bandolo di questa matassa.»

*

29 e 30 dicembre

Mi chiamo Galileo Vanvestieri, ho 35 anni e vivo a San Jose. Mio nonno – anche lui Galileo – emigrò dall’Italia negli anni venti e si stabilì in California.
Fu lui, dopo la guerra, a trovare a mio padre un lavoro nella Martino Instruments, una piccola ditta che produceva transistor e apparecchiature elettriche e che all’epoca era tra le poche ad assumere italiani.
Negli anni l’azienda crebbe e da poco più che impresa familiare divenne un importante produttore di macchinari industriali, con clienti in tutto il Paese e centinaia di dipendenti. Alla fine degli anni settanta mio padre era tra i progettisti più stimati, un uomo realizzato e orgoglioso del suo lavoro.
Poi arrivarono i computer, e sembravano la gallina dalle uova d’oro. Anche Martino avrebbe voluto gettarsi in quel mercato, ma riconvertire la produzione e formare il personale era estremamente costoso. Investì in borsa tutto il fondo pensione dei dipendenti, ma nel gennaio del 1984 fu coinvolto nel crack della Duke & Duke e perse tutti i soldi.
Erano i risparmi di una vita di centinaia di persone, tra cui mio padre. Che si buttò da un ponte alla fine di quell’anno – e non fu il solo. Fu nello stesso periodo che una figlia del vecchio Martino, aprì un’azienda nuova di zecca, la Martino Enterprises: pare che il denaro lo ottenne giocando in borsa. Una strana coincidenza, no?
Con tutti nuovi dipendenti, la “nuova” Martino si occupava di informatica e oggi è una delle cento imprese più importanti d’America.
Dopo la morte di mio padre, ho dedicato la mia vita a ricostruire come andarono realmente le cose, a scoprire la truffa che ha rovinato la mia e tante altre famiglie, a fare in modo che i colpevoli vengano puniti.
Finché circa un anno fa è saltato fuori il nome di Billy Ray Valentine.

*

31 dicembre

Dieci meno un quarto. Avevo viaggiato di più negli ultimi tre giorni che negli ultimi anni, ed ero esausto. Ancora un piccolo sforzo.
A quest’ora, chi poteva se ne stava da qualche parte a godersi il veglione di fine anno. Io non potevo invece, ma se non altro avrei avuto presto compagnia.
Attendevo il mio destino sorseggiando un whisky migliore del solito, per celebrare l’occasione.
Dieci meno cinque. Con qualche minuto di anticipo, Ophelia si materializzò nel mio studio: impeccabile come sempre nell’abbigliamento e nel trucco, la sua espressione e la sua postura tradivano un’ansia febbrile. Rimase interdetta scoprendo di non essere l’unica invitata alla festa.
«Grazie per essere venuta», le sorrisi. «Ti presento il signor Galileo Vanvestieri. Signor Vanvestieri, la signora Ophelia… Valentine.»
L’interpellato, un uomo sulla quarantina molto alto e dinoccolato, capelli corvini e occhiaie profonde, si alzò in piedi e porse nervosamente la mano, che la donna strinse con evidente disagio.
«Dobbiamo rimediare a una certa asimmetria informativa: questo signore sa già tutto quel che deve sapere sul tuo conto, ho avuto circa tremila miglia di tempo da San Jose per ragguagliarlo. Ti metto subito in pari.»
Ophelia si sedette sull’unica sedia libera davanti alla scrivania. Io mi alzai e mi misi a passeggiare per la stanza, mentre parlavo.
«Quando sono partito per la California brancolavo nel buio. Se mai avessi nutrito ancora dubbi, il furto dell’agenda mi aveva convinto definitivamente che il signor Valentine era stato ucciso. L’assassino doveva essere qualcuno che lo conosceva, e che conosceva la storia dello “scambio” tra lui e Louis Winthorpe e dello scherzetto milionario ai danni della Duke & Duke. Questo riduceva il numero dei possibili sospetti, ma la cerchia era ancora piuttosto ampia. C’eri anche tu del resto.»
«Io?! Come osi anche solo pensarlo!»
Scrollai le spalle. «Dove ci sono montagne di soldi, può nascondersi ogni tipo di motivazione. E quella tua improvvisa necessità di seguirmi a Chicago per occuparti di chissà che “affari”, non aiutava certo a depennarti dalla lista.»
Chinò il capo e si appoggiò allo schienale, come se avesse perso tutta in un colpo la sua indignazione. «Era una necessità, sì, ma non era improvvisa», disse a bassa voce. «Con Billy Ray facevamo quel viaggio ogni anno, tra Natale e Capodanno, per ricordare di quella prima traversata in treno di tanti anni fa. Prendevamo una stanza in quello stesso albergo in cui avevamo dormito nel 1984 e giravamo per la città ricordando e ridendo. Avevo bisogno di tornarci ancora anche se lui non c’è più, ma non ce la facevo ad andare da sola…»
«Lo so. Ti ho fatto seguire.»
«Tu…»
«È il lavoro per cui mi stai pagando. Se può consolarti, ti credo. Comunque, avevo individuato “Martino” e scoperto a chi apparteneva il numero di telefono – al signor Vanvestieri, come immagino avrai intuito. Ma ancora non avevo idea di quale fosse il collegamento: come dicesti, il signor Valentine non investiva nel settore dell’informatica. Fu soltanto a San Jose che la nebbia cominciò a diradarsi.»
Le raccontai tutta la storia. «Ed ecco qualcun altro che aveva qualche ragione per nutrire rancore nei confronti di Billy Ray Valentine», conclusi.
Ophelia spalancò gli occhi e portò entrambe le mani davanti alla bocca. «Ma Billy Ray non ne sapeva nulla!»
«Lui no. Ma Winthorpe sì: gestiva lui da anni i clienti della Duke & Duke e conosceva personalmente Martino. Ma il fatto interessante è che, a quanto pare, anche Martino sapeva che cosa sarebbe successo: ed ecco come saltarono fuori i soldi per aprire la nuova impresa, dopo aver convenientemente chiuso quella vecchia senza il fastidio di dover liquidare i dipendenti.»
«Dunque sei stato tu a ucciderlo?», scattò in piedi indicando Vanvestieri.
L’uomo rimase seduto e scosse la testa. «Ammetto che il nostro primo incontro fu alquanto burrascoso. Ma fu chiaro subito che lui era all’oscuro di tutto, pur essendo responsabile ovviamente. È grazie al signor Valentine che abbiamo scoperto che Martino e Winthorpe erano d’accordo, e gli ultimi tasselli del puzzle sono andati al loro posto. Credo che volesse sinceramente aiutarci per rimediare almeno in parte al male che avevamo subito.»
«Così Winthorpe lo venne a sapere», commentai. «Se Valentine avesse reso pubblica la cosa, non solo avrebbero dovuto rifondere tutti i danneggiati, ma avrebbero rischiato la galera: l’insider trading è reato federale.»
«Louis…», sospirò Ophelia, gli occhi ormai invasi dalle lacrime.
«Lasciamo che a raccontare la conclusione sia l’ultimo personaggio di questa tragedia. Entri pure, signor Coleman.»

*

Chiamatemi Coleman.
Ero poco più che un ragazzo quando entrai al servizio di Louis Winthorpe e ho servito fedelmente, da maggiordomo e uomo di fiducia, prima suo figlio e poi suo nipote.
La mia vita fu distrutta un giorno di quindici anni fa, quando il mio padrone prima perse tutto e poi mi rese ricco.
Per la prima volta non avevo più nessuno da servire. All’inizio era una bella sensazione, inebriante. Ma ben presto mi resi conto che non ero capace di vivere quel tipo di vita. Dilapidai in pochi anni tutti soldi che avevo guadagnato in donne e alcool, finché non mi rimase nulla. Meditai il suicidio.
Fu Louis Winthorpe III, il mio benefattore, a salvarmi ancora una volta.
Mi propose di tornare al suo servizio, ma non più come maggiordomo. Aveva bisogno di qualcuno di assolutamente fidato che si muovesse nell’ombra e curasse i suoi affari più importanti. Perciò inscenammo la mia morte, in modo che io fossi a tutti gli effetti un fantasma. D’altra parte ero morto nel 1984.
Circa un anno fa mi mandò a Chicago per contattare Clarence Beeks: quel Beeks, nientemeno! Lo aveva rintracciato tramite Mortimer Duke. Voleva affidargli un incarico delicato: l’assassinio di Billy Ray Valentine.
Quando Beeks rifiutò, mi venne naturale offrirmi per quel lavoro. Io non lo avevo mai sopportato Valentine, odiavo soprattutto la spudoratezza con cui aveva preteso di mischiarsi ai veri ricchi, vivere come loro invece di stare al suo posto e che servirli come gli sarebbe spettato. E poi, minacciava di rovinare il mio padrone.
L’ho ucciso io. Ma non sono stato capace di non farmi scoprire da quel maledetto detective. Avrei dovuto toglierlo di mezzo, l’ho seguito per giorni, ma è stato lui a beccare me.
Sono troppo vecchio e stanco per fuggire ancora. Perciò ho accettato di confessare. Tanto ormai non c’era più niente che potesse rimanere nascosto. Mi spiace soltanto per il signor Winthorpe, e più di tutto per averlo deluso.

*

«Coleman!» Ophelia non tentava nemmeno più di trattenere il pianto. «Sono stata al tuo funerale! Come hai potuto…»
All’improvviso prese un fermacarte dalla scrivania e si scaglio contro il vecchio. La fermai appena in tempo. Si abbandonò nella mia stretta.
«Non così, no. Ascolta.»
Prima quasi indistinguibile, poi sempre più rumoroso, si avvicinava il suono di sirene. Dalla finestra lurida le loro luci sembravano solo altre luminarie natalizie.
Il vecchio maggiordomo si consegnò ai poliziotti senza opporre resistenza e senza guardarsi intorno. Nell’istante in cui li vedemmo uscire dalla porta, il cielo si colorò di fuochi artificiali.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 78 https://www.carmillaonline.com/2017/12/14/divine-divane-visioni-cinema-porno-78/ Thu, 14 Dec 2017 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42128 di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007 Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un [...]]]> di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007
Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un momento ho pensato a una conclusione con evidente money shot. Del resto questo è un film pornografico. Viceversa i persiani sono guidati dall’equivoco omaccione Serse, inanellato come una cotta di maglia e zeppo di piercing. Nelle file del suo esercito anche dei ninja che sembrano mutanti post nucleari (gli immortali) e l’omunculo traditore Efialte, uno che pare uscito dallo sgabuzzino di Pulp Fiction. Traditi da questo gobbo di Notre Dame (sgorbio = cattivo), i trecento burini spartani andranno incontro alla bella morte. E sapete che vi dico? CAZZI LORO: tenevo troppo per i persiani, io. 300 è un classico film da polemica davanti a una birra. Per cui stappatevene una e vi dico la mia: io l’ho trovato semplicemente non divertente come mi sarei aspettato e abbastanza fascista come invece previsto. Non così divertente perché noiosetto, senza gran ritmo e perché mi aspettavo più botte e azione, qualcosa che almeno appagasse il mio lato pagano. E fascista invece perché è una lagna continua su onore, rispetto, libertà, “non mi arrendo”, “puntate qui al cuore”, “bello morire così” e via via littoriamente declamando, mancando giusto un rauco “Roma ladrona”. Durante la visione ero così distaccato che in testa resuscitavano nomi che non sentivo dalle scuole medie, tipo Milziade. Ma chi cazzo era Milziade? Era lui che aveva corso fino a Maratona? Ma no, dai, con la milza che scoppia non può essere lui… e Filottete, chi era costui? E poi, scusate: ma i persiani dovevano passare esattamente da lì, da quel cunicolo stretto stretto delle Termopili? Con le migliaia di chilometri di costa della Grecia è quello l’unico punto da cui imbucarsi? Maddai! 300 è un fumettone (Frank Miller, infatti) secondo la peggiore accezione del termine, graficamente elegante (e questo lo apprezzo, ma finisce lì, dopo 10 minuti), completamente irreale, fotografato in toni rossobruni virati appena al seppia e sessualmente ambiguo, cosa che di per sé potrebbe anche essere una qualità. Se non fosse che l’omosessualità latente degli spartani sfugge gaiamente di mano alla regia e palesa il tentativo di nasconderla sotto una virilità tutta proclamata, tipica del fascismo. E invece quella degli avversari è esplicitata, sommandola agli altri buoni motivi per difendersi – in questo scontro di civiltà – da chi viene da Est. In 300 non c’è solo il terrore e l’odio per l’invasore diverso (e storicamente potrebbe anche starci) ma anche il fastidio mal celato per ogni devianza: l’omosessualità non meno dell’invasione culturale, l’imbastardimento dei costumi, il drammatico perdere la limpieza de sangre. E tutto mentre nel mondo reale la stessa cultura che ha prodotto questo film riusciva a distruggere manufatti storici che avevano resistito 3000 anni. Un film come questo, per innovazione tecnica, storia raccontata e battage pubblicitario pervasivo entra nell’immaginario, nel repertorio culturale, specialmente di chi è debole neuronalmente. Eroismo, fratellanza, sacrificio e purezza contro lascivia, malvagità, ricchionaggine, mollezza e infingardia (o come si dirà). È tutto narrato per exempla icastici, esasperati, leggibili immediatamente, com’è nella miglior tradizione epica, ma di 30 secoli fa. E per questo 300 è un film pericoloso. Perché diverte (cioè distoglie, o almeno ci prova e dagli incassi direi che ci riesce) ed è (apparentemente) bello da vedersi. Ora: la vicenda la conosciamo tutti e non avremmo certo potuto sperare in una versione politically correct. Non mi scandalizzano certe deformazioni storiche (che leggo esserci state e in gran copia) anche perché è da quando ho sette anni che so delle Termopili e non me l’hanno mai raccontata in maniera molto diversa. Però qui i persiani diventano addirittura creature bestiali. Nel loro esercito (di schiavi, che in realtà i persiani non avevano mentre a Sparta esistevano eccome) militano anche mostri degni de L’armata delle tenebre. La corte di Serse (conciato come una Priscilla in scala 1 e ½ a 1 e con la voce di Amanda Lear) è popolata di debosciati e suicide girls dalla sensualità putrida in un delirio di intolleranza ripugnante, questa sì. È tutto talmente pacchiano che quando Leonida perde la pazienza – cioè quando ha la forza e la velocità di sferrare il colpo di giavellotto che potrebbe chiudere la vicenda – riesce soltanto a sfregiare l’orrido Serse e a strappargli un piercing sulla guancia, una fallibilità umana che agli occhi della regia ingigantisce ancora di più l’eroismo del personaggio di fronte alla natura bestiale dell’avversario.
Ecco: è grave un film così? Bisogna guardarselo senza menate e sentendosi echeggiare nella testa il memento dell’amico un po’ ciula che ti dice “e fattela ‘na risata”? No: vedo che qualunque mentecatto fascistello, su Facebook e nella vita, trova in questo Better dead than red dei tempi classici una fonte ispirazionale. E vi posso dire? Questa non è Sparta, questa è una pericolosa cazzata. (Dvd; 21/1/12)

909 – Requiem for a Dream di Darren Aronofski, USA 2000
Madre, figlio, ragazza e amico, finiscono tutti malino causa droghe assortite da cui si crede di poter uscire: drogati di tivù, di soldi, di zucchero, di carne rossa, di successo, di visibilità, di sesso, di soldi, di bellezza, di pillole, di coca, di eroina. Perché la droga è una sostanza che altera stato fisico e mentale con conseguenze sulla salute ed è riconosciuta come tale solo in base al contesto sociale, politico e legislativo in cui viene consumata, al di là della gravità degli effetti fisici che comporta. Può sembrare banale ma ce lo dimentichiamo spesso e il film, invece, va dritto al punto. È bellissimo da vedere ma un po’ angosciante da seguire: con pellicole così grafiche, così stilizzate, io ho un problema: non mi scatta la partecipazione. Requiem for A Dream non è compiaciuto ma è anche troppo tirato a lucido per sembrarmi compassionevole, troppo freddo e distaccato, a mio parere. Per cui non lo partecipo, lo subisco. Detto questo, qualche scintilla di vitalità l’ho provata di fronte a Jennifer Connelly, che – anche truccata da drogata marcia, imbruttita dall’abbrutimento – rimane la ragazza più bella di tutti i tempi. Lo era anche in Phenomena, in The Hot Spot, in C’era una volta in America e pure – paffuta nei suoi quindi anni – in quella fetecchia di Labyrinth. E sapete perché? Ma perché è la più bella ragazza di tutti i tempi, stupidi! Quante volte devo ripeterlo? E continuerà a esserlo anche quando avrà 70 anni. E non vi dico il perché, ci potete arrivare da soli. Ciao. (Dvd; 22/1/12)

910 – Una palla al cazzo che non t’immagini: Zathura di Jon Favreau, Usa 2005
Più che Zathura, spazZathura. Buio, noioso, ripetitivo, senza che i protagonisti abbiano un ruolo attivo, subendo invece le bizze di un gioco magico trovato da dei bambini in cantina. E ti chiedi tutto il tempo: “chissà quale sortilegio, chissà quale escamotage”. E invece, niente: il gioco ti proietta nello spazio e son cazzi tuoi. È una sorta di seguito di Jumanji, se non ho capito male, anche se ogni legame col film (e romanzo) è reciso. Anche qui, per salvarsi dal mondo in cui si è proiettati, bisogna giocare e vincere, ma se – per quel che mi riguarda – faceva schifo Jumanji, figuratevi questo. I bimbi protagonisti poi sono simpatici come un herpes e alla fine trovo motivo di soddisfazione solo nel volto scontroso di Kristen Stewart. Film brutterrimo che alle bimbe passa (ma un po’ Sofia si rende conto). Mediamente considerato dai critici (…) e rifiutato dal pubblico, non senza motivo, risultò un flop clamoroso al botteghino, incassando meno della metà del budget speso. Godo. (Dvd; 25/01/12)

911 – L’onesto Brubaker di Stuart Rosenberg, USA 1980
Ah, quel solido cinema anni Settanta, con belle storie, ritmo interno e grandi caratterizzazioni! Brubaker non lo vedevo da oltre vent’anni ed è un film carcerario democratico, non individualista come Fuga da Alcatraz, ed è qui che si misura tutta la distanza tra un Clint Eastwood e un Robert Redford, eh! (Vabbeh, la faccio facile. Ma ci siamo capiti). Il film è riformista come il direttore del carcere di Wakefield in Arkansas, uno che porta l’orologio sulla destra, che prova a cambiare le cose dall’interno, iniettando forzosamente un po’ di democrazia tra i detenuti. Gli concede le elezioni e un consiglio del carcere, li chiama a partecipare. Solo che non funziona, troppi nemici. E anche chi potrebbe essere liberato preferisce rimanere schiavo del sistema e chiamarsi fuori dall’assunzione di responsabilità. E alla fine, questo Brubaker, da che parte sta? È un film velleitario, come viene accusato di essere il suo protagonista, o è un film tragicamente realista, che dimostra l’impossibilità della riforma? Io – da menscevico parolaio, quale alla fin fine sono – mi fido della buona fede del regista e penso a un film sincero, che fa vedere quali siano i problemi. E la scena finale coi carcerieri che salutano l’ormai ex direttore è una commovente concessione alla retorica strazzacore, inverificabile nella realtà, che leggo come un augurio onirico: forse un dì ci arriveremo. Per fortuna da noi non è (ancora) in agenda rendere le carceri delle aziende con un profitto economico in attivo, a qualunque costo, con tutto quello che ne consegue quando è il guadagno la legge suprema (va anche detto che peggio di come son messe, certe nostre carceri, non so se si potrebbe… ma vabbeh). Ma in USA ci pensò quel cercopiteco di Reagan e gli effetti sono stati devastanti, con una popolazione carceraria altissima, a livelli dell’Unione Sovietica di Stalin, e non scherzo, tenuta in parte in detenzione proprio perché fonte di profitto (arresti facili per quisquilie, regime carcerario gestito autonomamente che prevede allungamenti di pena in base a regolamenti interni, condizioni di vita atroci per consentire il guadagno, lavoro sfruttato a pochi centesimi all’ora… Orwell fatto e finito). E il film è profetico nel parlarci anche delle dirigenze del PD con 30 anni di anticipo: riformatori e finti liberali che fanno qualche passetto a favore di telecamera, che incassano interviste e stampa e rendita elettorale e tutto rimane come prima. Robert Redford era all’apice della gloria prima della mummificazione e so solo che quando Brubaker affronta i suoi avversari, questi rispondono come i lettori del Giornale e di Libero. Ma di oggi, non nell’Arkansas degli anni Settanta. (Diretta Iris; 29/1/12)

912 – Più scomoda del previsto, Una poltrona per due di John Landis, USA 1983
Premetto che vedere questo film a febbraio è come festeggiare il Natale a marzo. E rivedendolo – ahi! – lo ritrovo meno scintillante di quanto ricordassi. Però dobbiamo mettere nel conto il mio precoce invecchiamento e le tantissime visioni passate, per cui, facendo la tara, credo che sia ancora il vecchio amato capolavoro, un’adorabile fiaba natalizia aggiornata agli anni Ottanta. C’è la sapienza chirurgica della costruzione e il crescendo inarrestabile, sono tante le situazioni comiche e in generale il ritmo è sostenuto. Stupisce, oggi che tutto è addomesticato, la mancanza di ogni correttezza politica (su neri, handicap, omosessuali) in un film che poi – fatto salvo l’affetto innegabile – ha invece una morale solo apparentemente eversiva, in anni di reaganomics rampante. Quella dei protagonisti (un cialtrone che si arrangia, un ragazzo “bene” ridotto in povertà e una prostituta dal cuore d’oro) è una rivincita contro gli straricchi e avidi Duke & Duke (con Reagan e Nixon in foto sulla scrivania) per arrivare allo stesso risultato: ricchi sfondati con barca ai tropici, sfruttando gli stessi meccanismi economici e senza metterli in discussione. Mah, consueta confusione ideologica yankee! Ma chi sono io per fare la morale? Sono i sensi di colpa televisivi che mi fanno vedere male i film, ecco cosa, mannaggia. Cast eccezionale (Dan Aykroyd, Eddie Murphy, Denholm Elliott, Don Ameche, Ralph Bellamy e – gulp! – Jamie Lee Curtis) e musica di Elmer Bernstein che saccheggia alcuni classici (riconosco Mozart ed Elgar). Nel mio personalissimo taccuino rilevo anche una marea di parolacce che rendono felici Elena e Sofia e poi una nota amara che rimanda al talento che fu di John Landis. Ma è comunque Natale, dài, SMETTILA. (Dvd; 5/2/12)

913 – I nuovi mostri di Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola, Italia 1977
Questo l’ho visto la prima volta in un alberghetto in Francia nell’autunno del 1994, in una serata in cui avevo beccato anche un film a episodi giapponese che non mi son segnato e che non saprò mai più quale titolo avesse: c’era un tizio in coda in macchina, ingorgato in non so quale tangenziale nipponica, che metteva fine alle sue sofferenze pisciando in una lattina. Se magari qualcuno l’ha visto e mi dice cos’è, mi fa cosa grata, perché vorrei completare il file con tutti i film della mia vita e questo mi manca. Esiste il file, giuro. Vabbeh. Dunque, de I nuovi mostri questa è l’edizione televisiva, più corta di quella per le sale. Ed è un film che non mi era piaciuto granché allora e non mi fa impazzire neanche stasera: lo trovo – come tanto cinema italiano di quegli anni – di un cinismo un po’ ipocrita, che si appoggia a moduli satirici e grotteschi prevedibili e che tenta degli agganci alla realtà quotidiana per sentirsi gggiovani. Ma se avete la pazienza di leggere fino in fondo troverete anche un parziale pentimento tardivo. Scola ha la parte del leone e firma quattro episodi. L’uccellino della Val Padana vede Ugo Tognazzi sfruttare le qualità canore della moglie Orietta Berti, storia ambientata al Picchio Rosso di Formigine dove, di lì a pochi anni, avrebbe cambiato il corso della storia Vasco Rossi. Ma non c’entra niente (però ho il bootleg). Hostaria è una epocale ed esilarante litigata in cucina tra un cuoco (Tognazzi) e un cameriere (Vittorio Gassman), gay e amanti, tutto mentre la clientela radical chic apprezza un cibo di dubbia fattura. In Come una regina Alberto Sordi abbandona la madre in una tremenda casa di riposo privata. L’elogio funebre è probabilmente l’episodio più famoso del lotto, con Albertone senza freni nel ricordare un collega attore, elogio che culmina nel famoso “stocazzo!” che Blob dedicava spesso al giornalista Onofrio Pirrotta, appena morto mentre scrivo e che, invano, aveva tentato di bloccare l’ingiuria più volte riproposta (che ovviamente tutti hanno carognescamente ricordato anche nei coccodrilli dedicatigli). Dino Risi ha la regia di tre episodi. Tantum Ergo è feroce, ma gli yankee lo definirebbero half baked, perché parte bene e poi rimane sospeso, un po’ lì, con un alto prelato che seda con belle e fatue parole la plebe di una parrocchia di periferia aizzata da un giovane e combattivo prete. Con i saluti degli amici è poco più di un’orrenda barzelletta sui siciliani omertosi anche in punto di morte. Senza parole narra un amore fulminante e falso, con sorpresina finale. E mentre lo vedevo continuavo a chiedermi chi fosse il partner mediterraneo della bella hostess Ornella Muti. Ma dove l’ho visto, questo? E quel nome, Yorgo Voyagis… Lo butto su Google e, patapam!, è Giuseppe nel Gesù di Zeffirelli, ecco chi! Però l’episodio… mah. Infine c’è Monicelli che firma solo due storie. La prima è Autostop con di nuovo la Muti, bella e intelligente (e abbastanza cagna, in termini recitativi), uccisa dal maschilista Eros Pagni (orco qualunquista e reazionario che, pur ritenendosi “femminista”, sfrutta il lavoro nero e non esita a sparare non appena si senta in pericolo). Boh: mi sembra poco sincero nella sua schematicità, come a voler accalappiare facilmente un po’ di pubblico giovane. L’altro episodio è Pronto soccorso, che parte da un’idea bellissima: il ritratto di un nobilastro dissoluto, volgarissimo e legato alle gerarchie ecclesiastiche romane, che dovendo soccorrere un morto di fame mostra il suo vero volto: indifferente più che ipocrita, in definitiva letale. Però è tutto talmente grottesco e spinto in avanti che la macchietta dopo un po’ mi risulta insopportabile e l’episodio dura 14 minuti interminabili. Questo Sordi sembra che ci parli dell’Italia del 2012, dove tutto, e il suo contrario, è confluito nel berlusconismo che lecca il culo al Vaticano e fa contemporaneamente partouzes con le ragazzine raccattate da amici equivoci: Giovan Maria Catalan Belmonte è un ricettacolo di confusione lessicale (linguaggio magniloquente e improvvise impennate volgarissime), culturale (il monumento a Mazzini che diventa dedicato a Mussolini) e religiosa (osservante lefevriano senza pietà alcuna). Però l’amara chiusa finale è un anti climax che mi pare non valga lo sviluppo (eterno). Penso tutto questo e poi la collega Alez che vede lontano, certamente più lontano del mio sguardo appannato, mi fa notare come la chiusura a cerchio abbia un preciso e spietato significato. E in effetti ci sta eccome e quello che forse scambio per pigrizia registica e cinismo è una trovata notevole. Ma che faccio ora, riscrivo tutto? No. Continua a non piacermi la forma, ma sul significato (e quindi sul valore ultimo dell’episodio) credo abbia ragione lei. (Dvd; 10/2/12)

914 – Fate la storia senza di me di Mirko Capozzoli, Italia 2011
Fate la storia senza di me è un documentario intenso e a tratti dolente, molto, che racconta la vita e la morte di Alberto Bonvicini, ragazzo torinese che con la sua vicenda attraversa paradigmaticamente gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Però è come se la regia rimanesse a distanza. Perché la materia è densa ed entrare in un’altra vita è difficile e la vita di Bonvicini era difficile assai, da esplorare e soprattutto da vivere. Il rischio era di fare un bignamino sulle tensioni degli anni della contestazione, okay, perché il protagonista ha vissuto sia il dramma dei manicomi – arrivandoci per burocrazia da un orfanotrofio – che quello delle carceri, ha frequentato attivamente il movimentismo giovanile, sfiorato il terrorismo (rifiutato recisamente) e infine è stato vittima della droga e poi dell’Aids. Il Bignami viene evitato, e ha un senso perché si racconta la Vita e non la Storia. Però, qui, sembra che si faccia sempre un passo indietro anche di fronte all’esistenza del protagonista suo malgrado, dedicando un approfondimento solo al famigerato dottor Coda, l’“elettricista”, che seviziava i suoi pazienti a colpi di elettrochoc. È come se la telecamera si ritraesse di fronte al dolore, allo sgomento e anche alla commozione della famiglia adottiva e intellettuale della Torino borghese, che rimane sconvolta da questo ciclone, un ragazzino che a 14 anni ruba una macchina e finisce in carcere minorile, che rimane coinvolto (e poi assolto) nella vicenda agghiacciante dell’Angelo azzurro, che si dissocia da chi stava abbracciando la lotta armata con la fatidica frase “Fate la storia senza di me”, che finisce in carcere con una marea di addebiti poi rivelatisi fasulli e che, lì dentro, diventa eroinomane. Sono belle e interessanti le testimonianze di compagni di strada, in prigionia e nella politica, sfrondate di ogni retorica e molto umane: Albertino cercava solo un po’ di tranquillità. E la troverà finalmente lavorando prima al quotidiano Reporter con Enrico Deaglio e poi in tivù, con Giuliano Ferrara, morendo infine di Aids. Ma la storia di questo ragazzo – che ha lasciato un segno indelebile in tutti quelli che gli son stati amici – è solo sfiorata, delicatamente, narrando in modo ellittico e lasciando la voglia allo spettatore, secondo me troppa. Ma credo sia colpa mia, ché vorrei sempre un film definitivo che non si potrà mai realizzare. (Dvd; 18/2/12)

915 – Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis, USA 1988
Ullalà! Nei miei primi anni di vita assieme a Barbara, Roger Rabbit era un film visto e stravisto. Lei possedeva il videoregistratore e questo film era uno dei pochi posseduti in Vhs, un regalo natalizio, immagino. Siccome a casa di Barbara le registrazioni erano sempre qualcosa di stocastico (cassette da 90 minuti per film da due ore, programmazioni sballate, nastri smagnetizzati, titoli messi alla cazzo, film scomparsi nel magma della videocassetta da 4 ore) alla fine ricordo di averlo visto più volte, nonostante le proteste di Barbara che se un film lo vede una volta sola, le basta per sempre (mentre io continuerei a rivedere sempre lo stesso film, possibilmente Novecento). Comunque, per farla breve, lo conosco bene, questo Zemeckis, e lo incontro di nuovo a oltre vent’anni dall’ultima volta. Lo regalo a Sofia che si sente adulta pur non capendo una mazza di questo intrigo molti anni Quaranta, con la cantante sciantosa, l’investigatore privato alcolizzato e questioni di testamenti ed eredità. Ma la commistione tra animazione e attori in carne ed ossa, tra Disney e Spielberg e tra atmosfere noir e commedia, funziona anche per lei, che si diverte, perché non c’è niente da fare: pupe, pistole e cascatoni fan divertire chiunque, e gli americani lo sanno bene. Rivisto, il film è simpatico e denso, più per grandi con le loro memorie da bambini che per bambini stessi. Bravissimi gli attori (su tutti lo straordinario Bob Hoskins), oleografica e convincente la ricostruzione degli USA di metà secolo scorso, straordinarie (per l’epoca, ma ancora validissime) le invenzioni e gli effetti speciali. Il gioco metacinematografico è intelligente (tutto il mondo dei cartoni è utilizzato e affettuosamente parodizzato), i rimandi ironici alla modernità azzeccati (la critica alla civiltà delle autostrade) e il ritmo è indiavolato, come certi cartoni insegnano. In effetti, nel suo campo, trattasi di un piccolo capolavoro. (Dvd; 19/2/12)

916 – Los Cronocrímenes di Nacho Vigalondo, Spagna 2007
Sono solo a casa, temporaneamente abbandonato da tutte le mie donne che provano l’ebbrezza delle nevi. Ho un carico di lavoro pesantissimo e modero il malumore con un film consigliato dall’amico Mauro, sempre raffinato suggeritore, dalla musica brasiliana al cinema con un quid. La tagline di questo film distribuito nel mondo come Timecrimes potrebbe essere pochi soldi, tante idee. E aggiungo: quattro attori, quattro ambientazioni e mille idee di scrittura. Il classico piccolissimo film tutto fosforo dove la mancanza di milioni di euro, di attori di fama e di chissà quali invenzioni tecnologiche non si sente minimamente. La vicenda narra di viaggi nel tempo e detta così sembra che ci sia pure il dottor Enigm. Invece il contesto è il più borghese e innocuo che si possa pensare. Hector (un Toni Servillo iberico e dinamico) è nella sua nuova casa di campagna assieme alla moglie. Guarda al di là del recinto con un binocolo e nota una ragazza che si spoglia. Va a vedere da vicino e un uomo tutto bendato lo ferisce a un braccio. Hector scappa e arriva in un misterioso centro studi, dove l’antitesi visiva dello scienziato pazzo (ma non meno pericoloso) sta facendo degli esperimenti sui viaggi nel tempo. E da lì si rimane prigionieri di un loop temporale ben gestito. Vi dico solo che Hector sarà uno e trino e la vicenda non perde colpi, anzi: alza sempre più la posta in gioco e regge fino alla fine. Bellissimo, nella sua astrusa semplicità: non vi ricordo cosa succede non perché voglia evitarvi spoiler ma proprio perché io, a riassumere trame fantascientifiche con diversi piani della realtà, vado in fusione cerebrale. Comunque: film da vedere, sul serio. (Dvd; 20/2/12)

917 – Chitarromani! It Might Get Loud di Davis Guggenheim, USA 2009
Mi godo l’ultimo giorno di libertà familiare, dedicando un po’ di tempo alla mia passione preferita, la pornografia, e scelgo un film dedicato alla chitarra, quel It Might Get Loud che sembrerebbe il Graal per gli amanti della 6 corde. Ma la chitarra è un paravento neanche troppo occulto, perché qui si parla di creatività, di musica, di rock e di come uno strumento sia esattamente tale, per esprimere ed eventualmente portare al pubblico delle idee. A confronto tre generazioni e tre modi di diversi di essere musicisti. Ci sono: Jimmy Page, la divinità suprema del rock degli anni Settanta; The Edge (chitarrista degli U2), che cresce nella contestazione punk a quel mondo; Jack White, l’ultimo ribelle e inventore, che negli anni Zero ha riportato quelle sonorità nel mainstream, soprattutto grazie all’usurato ma geniale riffone di Seven Nation Army (il po-poppopo-poopoo cantato negli stadi). Si parla di rapporto con la tecnologia, di chitarra come oggetto del desiderio, di tecnica come mezzo e non come fine (non c’è un assolo in tutto il film, uno che sia uno, e non se ne sente minimamente il bisogno): diverse chitarre, diversi modi e diverse capigliature, perché si può essere rockettari anche con un sacco di effetti, un computer e un berrettino sulla pelata, come The Edge. Non c’è un vero sviluppo narrativo, purtroppo, e il film ha un aplomb in palese contraddizione con l’idea di rock che la chitarra suggerisce, ma detto ciò il film si fa vedere: qualche idea è carina (il Jack White adulto che insegna a sé stesso giovane cos’ha imparato crescendo) o lo stesso White che costruisce uno strumento a corda in qualcosa come 5 minuti secchi. Alla fine, però, rimane la sensazione di un elegantissimo lavoro un po’ inerte. (Dvd; 25/2/12)

(Continua – 78)

E’ in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la preazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band)

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Hard Rock Cafone #3 https://www.carmillaonline.com/2015/11/26/hard-rock-cafone-3/ Thu, 26 Nov 2015 21:31:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26581 di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta [...]]]> di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop
Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta disintegrato un piccione con la violenza del suo muro di amplificatori. Gli ZZ Top, da buoni bifolchi texani, si son portati il bestiame sul palco, in un classico corral, mentre Alice Cooper ha giochicchiato alla noia con un boa meno fortunato di quello strapazzato da Cicciolina (morto comunque male). Più facile approfittare di animali finti: Justin Hawkins dei cafonissimi Darkness ha recentemente sorvolato il pubblico a cavalcioni di una tigre siberiana di peluche. Decisamente più gore è invece risultato Blackie Lawless, dei poco ortodossi W.A.S.P., che ai bei tempi squartava un maiale di gomma inondando di sangue finto il pubblico festante (beh, simulava anche la violenza su delle suore, il gentleman). Ma la migliore spetta a Iggy Pop, anche se per una volta come vittima, non come perpetratore. Siamo nel dicembre 1973 e l’Iguana ha già abituato il suo pubblico a uno stage-act sconvolgente: autolesionismo con cocci di vetro, sodomia con microfoni assortiti (poi uno dice “cantare col culo”) e frequenti esibizione del pendaglio (routine che, per la cronaca, continua tuttora). Ma la sua carriera autodistruttiva è in declino e il non ancora parrucchinato Elton John, per lanciare la sua nuova etichetta Rocket Records, pensa a lui. Detto fatto: va ad ascoltarlo ad Atlanta a un concerto dei decotti Stooges. Il futuro sir ha del genio ed estroso come sempre si presenta allo spettacolo con un costume da gorilla, tipo Dan Aykroyd in Una poltrona per due. L’Iggy annata ’73 è scimmiato forte e quando, annebbiato e carico di PCP, speed e coca, si vede un gorilla festante venirgli incontro per abbracciarlo, non pensa che sia per offrirgli un Crodino: panico! L’Iguana fugge terrorizzato dal palco, con Elton John che lo insegue per spiegarsi, ingenerando ulteriori misunderstanding. Pubblico attonito, Stooges increduli e concerto completamente in vacca. Di Iggy Pop si avranno notizie due anni dopo grazie a Bowie, ma sicuramente non ha mai più suonato con Elton John. Bestiale.

hrc302Derek & the Dominos e altre canzoni d’amore assortite
Se avevate sette anni negli anni Settanta, un cavallo bianco in tivù, che galoppa felice sulla spiaggia al suono di un riffone per chitarra, per voi significa subito Layla, il capolavoro di Eric Clapton. Ma per arrivare al Doccia Schiuma, quel cavallo ne aveva fatta di strada. Provo a farla semplice e voi – vi assicuro – finirete con 4 o 5 album splendidi da procurarvi subito. Dunque: lui, Clapton, fino a 9 anni ha creduto che i suoi nonni fossero i genitori. Per cui ha e suona il blues, talmente bene che sui muri di Londra lo hanno definito God. È una rockstar riluttante, stufo di supergruppi come Cream e Blind Faith e per decomprimere va in tour nell’inverno ‘69 con Delaney & Bonnie, coppia canterina dixie che si accompagna a una band che urla gioiosamente soul, gospel, blues e rock sudista. Con la stessa compagnia e Leon Russell, Eric incide anche il suo primo album (omonimo, bellissimo). Poi Russell porta la band in tour con Joe Cocker (altro che il pelatone spompo che duettava con Zucchero; qui, live capolavoro: Mad Dogs and Englishmen). Invece Clapton torna a casa a piangere sul suo amore impossibile per la moglie dell’amico George Harrison, Pattie Boyd. Alcuni reduci di Cocker lo raggiungono e sono Bobby Whitlock (organo), Jim Gordon (batteria) e Carl Radle (basso): c’è da accompagnare Harrison nel suo All Things Must Pass (opera d’arte; il migliore e più venduto album di un ex Beatle). A questo punto, però, la ricetta è cotta a puntino: il quartetto si battezza Derek & the Dominos – come un gruppo doo wop anni Cinquanta – e va a Miami per incidere. Tra agosto e settembre 1970 Eric e amici s’imbottiscono di droghe e cazzeggiano in studio, sinché si unisce alla cumpa anche il chitarrista eccelso Duane Allman (diversi capolavori da procurare con la formidabile Allman Brothers Band, cari: troppi per elencarli, ma se non avete mai ascoltato At Fillmore East avete avuto una vita miserevole), che agisce da catalizzatore biologico dell’opera: nasce Layla and Other Assorted Love Songs, il miglior disco mai pubblicato da Clapton e un’enciclopedia del rock: ballate e sfuriate, tra riff e improvvisazioni. Seguirà poi un live micidiale e la fine prematura del gruppo, col leader che ci metterà un po’ prima di tornare in pista, tra alcol, amorazzi, canzoni pop da classifica e la consueta trafila di belinate tipiche delle rockstar. Ma così vitale, inventivo e selvaggio come su Layla non lo avreste ascoltato mai più. Raccontarlo in 2500 battute e rotti è stato come compilare un codice fiscale, lo so, ma adesso avete tutti gli elementi per capire come nasce un capolavoro, riedito anche in edizione super deluxe: doppio vinile, 4 cd, dvd, pop-up e memorabilia assolutamente inutili e perciò irrinunciabili. Pensateci. (Luglio 2011)

hrc303Prigioniero di Black Widow
In via del Campo a Genova non ci sta solo una puttana, ma anche Black Widow, un negozietto che può dare altrettanti orgasmi a ripetizione. Altro che Palermo New York Marsiglia: il triangolo della droga discografica passa da Genova e lo gestiscono Massimo, Giuseppe e Alberto, che conciliano la passione con il mercato. Qui i bluff dei gruppettini alla moda non hanno cittadinanza, ma tutto ciò che è hard, metal, psych, fuzz, acid, grunge, doom, punk e le altre pecore nere della famiglia del rock, beh, c’è. Per dire: trovate i dischi di gruppi clamorosi come i Black Merda (da Detroit, con inconsapevole infortunio nominale per il mercato italiano). Così come i magnifici specchi con l’effigie dei vostri idoli, una cafonata unica per il bagno di casa. I dischi si ascoltano e si commentano come al bar e quando si tratta di pagare c’è sempre uno sconto, parola che è oltraggioso riscoprire a Genova. E poi siccome a chi ha più di quarant’anni il panorama rock appare desolante, quelli di Black Widow pubblicano anche, e con successo: buona musica e confezioni eleganti, ovviamente nei limiti estetici di generi come il rock sepolcrale o la psichedelia da tavolette di acido come un Toblerone. L’apice s’è raggiunto con Not of This Earth, cofanetto di quattro CD in cui artisti hard rock and heavy hanno dato la loro lettura musicale del cinema storico di fantascienza. Nel catalogo della vitalissima etichetta, oltre a gruppi storici come High Tide, Hawkwind, Black Widow e Pentagram, anche nuove proposte, come l’ottimo Witchflower dei Wicked Minds. Un esuberante mix di prog e hard, con echi di Deep Purple e Pink Floyd. Praticamente l’album che andavate cercando da anni e che le vostre band preferite non hanno saputo licenziare allora. E il disco non esce dalla macchina del tempo, ma arriva da Piacenza (con annesso dvd e pacioccone video lesbo degno di una tivù privata, ma albanese). Se passate di qui, insomma, Black Widow merita una vista. Però attenti a non lasciarci la carta di credito. (Novembre 2006)

DCIM101MEDIAIl pantheon induista dei R.E.M.
Campane a morto per i R.E.M. e riposi in pace il loro soft rock studentesco venato di psichedelia e talvolta mandolini, okay. Però, senza malizia, vi consiglio di risentirvi il loro miglior esito che è una nota a margine in discografia: l’omonimo album sfornato a fine 1990 dagli Hindu Love Gods, cioè i R.E.M. senza Michael Stipe ma con Warren Zevon. Nulla contro la voce di Everybody Hurts, figuriamoci (semmai qualcosa contro i fighetti che conoscevano solo Shiny Happy People o Losing My Religion) ma in quest’album politeista di cover gli altri ¾ della band si divertono con chitarra, batteria, basso, coglioni e la voce catarrosa di un amico che ha avuto meno successo di loro. Funzionava così: i compagnoni si vedevano in coda a session dei loro progetti principali e lasciavano libero sfogo alla creatività, reinventandosi – buona la prima – i classici del blues in versioni elettriche senza fronzoli, urlate in yo’ face. E se c’era qualche sbavatura, dava solo muscoli, sangue e sudore. Vita, insomma, che poi è l’essenza del rock che ci piace. Peter Mills non si accontentava del suo jingle jangle e sfoderava anche qualche pentatonica cattiva, mentre gli altri pestavano duro e Warren era sempre lì lì vicino a scaracchiare (gli senti proprio il bolo verdastro sull’epiglottide, giuro), ruggendo i testi sacri di padrini come Muddy Waters, Robert Johnson e Willie Dixon. E pure Prince (la magnifica Raspberry Beret)! Warren Zevon, cantautore rock sottovalutato e bravissimo, con una carriera piagata da armi, alcol ed epic fails clamorose, è stato poi portato via nel 2003 da un tumore veramente maligno, ma non prima di averci lasciato un altro album magnifico a suo nome, The Wind, e averci ricordato – ospite al Late Show di David Letterman (di cui era fraterno amico) – il segreto per vivere meglio: “Enjoy every sandwich!”. Bene, dategli retta e cercate Hindu Love Gods, fondamentale per qualunque band che oggi si chiuda in garage per affondare i denti nella carne del rock. Il Cd è impossibile da recuperare ma per rigorosi e leciti motivi di studio magari ve lo scaricate da un blog della Rete, anche se io non vi ho detto nulla, eh? Del resto siamo o no tutti studenti del rock, noi eterni Trofimov? (Novembre 2011)

hrc305Glenn Hughes sta bene, anche troppo
“Dillo ai lettori di Rolling Stone! Glenn Hughes dovrebbe essere morto!”. L’ultima cosa che avrei pensato di sentire da un artista in giro da quarant’anni e che parla di sé in terza persona… Ma riavvolgiamo il nastro della memoria: già in cima al mondo nel 1973 come basso tuonante e cristallina seconda voce dei Deep Purple, il ventunenne Glenn imprime alla band una svolta nera molto funky. Del resto il suo idolo è Stevie Wonder che incontra casualmente nei cessi di uno studio di registrazione di L.A.: dopo la pisciata lo raggiunge e per Hughes “è il momento più alto della carriera!”. Ma arriva anche la mazzata: nel 1976 un’overdose si porta via il prodigioso chitarrista Tommy Bolin, spirito gemello subentrato nella band a Ritchie Blackmore. “Ero fattissimo di coca e avevo davanti Tommy, morto”, mi racconta. Riprendersi è dura e seguono anni di progetti interessanti, ma sfuocati, e Glenn indulge nelle polveri tanto che “dal 1977 al 1991 non ricordo niente, nebbia totale”. Finché non ci rimane quasi stecchito. Da lì riparte la sua carriera: blasonato dal titolo di Voice of Rock, Hughes compone, suona e canta una riga impressionante di dischi che diventano sempre migliori. L’amicizia fraterna col batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith è determinante e gli ultimi esiti – Soul Mover, Music for the Divine e F.U.N.K. (tutti con un’etichetta italiana, la Frontiers) – sono scariche di adrenalina che ormai il quartetto californiano si sogna, e dove Glenn ulula con un’estensione che sembra di sedici ottave. Oggi è in formissima, irsuto, loquace e felice. Introduce ogni risposta con un “Listen, Filippo from Rolling Stone!” e mi parla della sua vita spirituale: fa yoga, ascolta jazz, lavora come un matto e aborrisce droghe, alcol e nostalgia. Una reunion con i Deep Purple metterebbe a posto due generazioni di eredi (“Parliamo di milioni di euro, credimi”), ma non ne vede il senso. Ora vende bene e suona per un pubblico di tutte le età e di ambo i sessi, non è inscatolato in un genere per quarantenni panzuti, e in concerto a Milano dimostra un’energia che neanche un sedicenne sotto anfetamine. Ai nostalgici (pochi) regala solo due brani storici dei Deep Purple, per il resto fa ballare tutti con un repertorio funkyissimo, con vocalizzi, melismi e gorgheggi, passando dal borbottio grave fino al miagolio all’ultrasuono da incrinare il cristallo. A un certo punto annuncia che “Stasera Stevie Wonder non ce l’ha fatta!”, ma francamente Glenn se l’è cavata da dio anche da solo. (Maggio 2008)

hrc306Premiata Forneria Marconi: buon sangue…
Franz Di Cioccio ha due occhi chiarissimi, sinceri, vivi. Da oltre trent’anni è il batterista shaolin e il frontman della Premiata Forneria Marconi, per comodità PFM (acronimo che negli anni Settanta dei tour nordamericani veniva gabellato alle groupies credulone per Please Fuck Me…). Ma quest’uomo dal multiforme ingegno è stato ed è anche tante altre cose: scrittore, showman tivù, indimenticabile attore in Attila, Figlio di Bubba a Sanremo e pure autore assieme al bassista Patrick Djivas della sigla del Tg5. Un pomeriggio di quasi estate mi racconta cosa stanno preparando i ragazzacci della sua band, ancora inquieti dopo aver attraversato tutta la storia del rock che conta in Italia: Battisti, De André, Mina (“E anche Al Bano!”, aggiunge Franz). Hanno realizzato un sogno che risale a quando volevano far recitare Storia di un minuto – il loro primo splendido album – al Living Theatre di Julian Beck: finalmente hanno composto la loro “rock opera”, nella tradizione di Jesus Christ Superstar e Tommy. Il tema? Sanguigno: Dracula, da Bram Stoker ma con qualche sorpresa… Per ora esce un album (scusate, ma è bello chiamarli ancora così) con gli highlights interpretati dalla band; nella prossima primavera uscirà l’opera completa, cantata dal cast che la porterà in tournée nei teatri italiani. E opera rock mica tanto per dire: Franz mi fa ascoltare orgoglioso, sottolineando con l’air drumming il tripudio di pieni e vuoti orchestrali, i temi che si intersecano, le performance strumentali che volano alto sulla mediocrità pavida della musica d’oggi. La sfida, raggiunta, è di ottenere in studio il suono del live: questa è musica progressiva nel vero senso della parola, che si muove e che trova nel recupero di certe sonorità la sfida verso il futuro; in un mondo che divora immateriali mp3 e ha perso il valore del disco come oggetto, non rimane altro che “suonare suonare”. E mentre alcuni “autori” diventano nel frattempo Cavalieri della Repubblica (e in che compagnia!), alla PFM niente, perché il rock puzza di sudore e la signora Franca Ciampi non conosce Celebration. Del resto Franz mi rivela che quando un cantautore non fa niente, si tratta di una pausa di riflessione; se invece è un gruppo a star fermo per un po’, allora è una crisi creativa… Nel paese del melodramma, l’energia rock fa fatica a trovare un accreditamento culturale, ma piaccia o no, la PFM è il nostro marchio musicale più conosciuto all’estero, dagli States al Giappone, conquistati con concerti dirompenti. Ma per il sempre positivo Franz oggi è meglio che in passato: “Non abbiamo più il problema di dimostrare nulla”. E ci mancherebbe. (Ottobre 2005)

hrc307Megadeth: una band di carattere. Orrendo
Arrivano in questi giorni – il 4 marzo a Milano, il 5 a Pordenone – i Megadeth, gruppo che da più di vent’anni lascia il segno nella musica dura. E sempre nonostante il leader Dave Mustaine abbia fatto di tutto per rendersi la vita impossibile. Molti non sanno che nella formazione originale dei Metallica, alla chitarra c’era proprio lui, del resto co-autore di molti brani dei loro primi due album. Viene fatto fuori per abusi diversi – alcolici, chimici e verbali – e la ferita non sarà mai rimarginata, come dimostra il docu Some Kind of Monster dove Mustaine appare come un frignone (e Lars Ulrich come uno stronzo). Il desiderio di rivalsa è fortissimo e Dave nel 1984 mette su la sua band (possibilmente “più veloce e pesante dei Metallica”), caratterizzata da formazioni volatili come il suo caratteraccio. Resiste per più di vent’anni solo il bassista. Con gli altri si rapporta come fa con gli allenatori un Gaucci on speed: le cacciate sono sempre per i motivi soliti (divergenze e dipendenze varie) oppure francamente sorprendenti, tipo “capelli troppo corti”. Ma questo non impedisce a Mustaine di vendere milionate di dischi (siamo oltre la quindicina) e sfornare capolavori del thrash metal, genere che per l’ascoltatore non aduso è come una bocconata di cocci di vetro e ghiaia. So Far, So Good… So What! ebbe qualche effetto anche sulla prova di maturità del sottoscritto. Purtroppo. Ad ogni modo, intossicato e disintossicato più volte, passato indenne tra arresti e cause miliardarie e pure cacciato da un tour con gli Aerosmith (sul palco li sfotteva: “Matusa!”), Dave è metallaro dentro e la militia dei suoi fan gli crede ciecamente e lo tradisce solo quando lui tradisce loro, come con il molliccio Risk del 1999. Poi dopo il ritorno all’abituale durezza, nel 2002 l’annuncio che lascia tutti costernati: basta Megadeth, Dave non suonerà più la chitarra. Nel più fantozziano degli incidenti s’è lesionato un nervo del braccio sinistro dormendoci sopra in una posizione assurda. Ma il nostro è cocciuto: impara nuovamente a suonare e i Megadeth tornano in classifica più tosti che mai, mentre si vocifera di una (temuta) conversione a cristiano rinato: se non altro due anni fa Mustaine ha minacciato di annullare delle date in Grecia e Israele se avesse dovuto dividere il palco coi Rotting Christ (che dal nome…). L’ultimo United Abominations è andato bene anche da noi e ospite in duetto c’è la nostra bravissima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. Chissà che a Milano, tra qualche sera, non salga anche lei sul palco. Però occhio all’acconciatura. (Marzo 2008)

hrc308Tolo Marton: Italians do it better
La Blues House, ai confini di Milano, dove la metropoli si confonde in quel tumore urbanistico che arriva fino al confine svizzero, è un juke joint frequentato da appassionati agée e giovani già preda del virus delle dodici battute. Stasera le suona uno dei migliori: Tolo Marton, italiano e bluesman per modo di dire, perché questo trevigiano sorridente e timido non suona il consueto shuffle, blaterando in cattivo inglese. Per Tolo il blues è la grammatica principale, ma la sua musica spazia dal progressive delle Orme (dove esordì giovanissimo) al country, al rock senza confini. E il concerto è com’è lui: parte piano, con delicatezza. Poi la pennata si fa più decisa e l’ampli urla, con la band che lo asseconda. Tolo non è mai diventato una rockstar per scelta sua: oltre trent’anni di carriera alle spalle, tutta improntata all’onesta intellettuale e alla ricerca artistica, a dispetto di qualunque piano di successo. E infatti per diversi anni ha svernato ad Austin, Texas, più apprezzato là che da noi e non ci vuole il pasoliniano Orson Welles de La ricotta per ricordarci che l’Italia ha la borghesia più ignorante d’Europa. Sentire quali suoni tira fuori dalla sua Strato è umiliante per chi come me non ha rinunciato all’idea di diventare un guitar hero: Tolo arpeggia, gioca col volume, percuote le corde, fa fischiare le note, coglie armonici e dipinge straordinari affreschi chitarristici lontanissimi dall’onanismo di altri virtuosi. E non è un caso che la sua versatilità l’abbia portato a collaborare con Marco Paolini a teatro e Alessandro Baricco in radio: Tolo scrive pezzi che potrebbero accompagnare bertolucciane scene madri o leonini spaghetti western e la passione per il cinema viene fuori anche attraverso omaggi alla Pantera Rosa e ai Blues Brothers o con un incredibile medley morriconiano: “Io il mio Oscar gliel’ho dato nel 1971!”. E dopo averti stupito con l’Almanacco del giorno dopo, Tolo annienta il pubblico con una serie di rock blues dove fonde Jimi Hendrix, Rory Gallagher, Jeff Beck e Doors in una sintesi personalissima. Dopo, a cena, parliamo di Siae (“E’ un blues tristissimo!”), di cover band che uccidono la musica live e di tutti i suoi progetti. Ha appena licenziato il bellissimo Guitarland con altri 5 amici chitarristi, è pronto Giubbox con “le cover di quando eravamo piccoli” e intanto lavora a un nuovo album solo strumentale. Nell’attesa vi consiglio di recuperare i suoi primi tre album riuniti in un doppio, Reprints, ricco di bonus e live tracks: sarà amore, credetemi. (Dicembre 2008)

(Continua – 3)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace

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