U2 – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 MUSICA STRANA – Intervista a Fabio Zuffanti https://www.carmillaonline.com/2016/12/20/musica-strana-intervista-fabio-zuffanti/ Tue, 20 Dec 2016 22:21:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35376 di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i [...]]]> di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i Pink Floyd, i Jethro Tull o i Deep Purple. Quella a cavallo tra anni Sessanta e Settanta fu una stagione creativa eccezionale (anche in Italia, a partire dai nostri Big Four: Area, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e Orme) ma col passare del tempo i canoni esecutivi e compositivi del genere cominciarono a cristallizzarsi, specie dopo la crisi di fine anni Settanta, con l’affermazione del punk e della New Wave. Adesso progressive significava troppo spesso tempi dispari, inserti classicheggianti ed esibizioni autoindulgenti di virtuosisimo senza una reale tensione creativa. I cultori del genere si offenderanno ma la musica “progressiva”, col tempo, è diventata per molti sinonimo di scelte reazionarie piegate alla riproposizione e all’inseguimento di una mitica età dell’oro, anticipando la nostalgica conservazione che oggi investe tutto il rock “classico”. Per fortuna ci sono le dovute eccezioni, grazie a chi continua a pensare alla musica come un organismo vivente, che cresce affrontando nuove esperienze e si arricchisce senza star ferma in un recinto. È successo a livello mondiale con Steven Wilson e, in Italia, è sicuramente il caso di Fabio Zuffanti: un quarantenne genovese che del prog nazionale è un po’ il guru nonché il più popolare interprete, anche all’estero, con una carriera iniziata negli anni Novanta e ora nella massima maturità. Prolifico e mai fermo, Zuffanti è responsabile di band come i Finisterre o La Maschera di Cera, di progetti sinfonici sui generis come gli Höstsonaten, di rock opera, di innumerevoli collaborazioni e ovviamente di una produzione a nome proprio che comincia a farsi sempre più corposa e che annovera titoli di altissimo valore come La foce del ladrone e La quarta vittima.
Fabio: qual è il percorso che porta un ragazzo, negli anni Ottanta a decidere di suonare musica prog?
Credo sia stata una spinta inconscia, una sorta di attrazione, un tentativo di andare oltre le solite cose e cercare di esplorare mondi musicali diversificati. Sono cresciuto con un fratello maggiore che aveva una cameretta colma di dischi e libri. Erano gli anni Settanta e io ero bambino, i suoni che uscivano dalle casse erano spesso quelli di King Crimson, Genesis, Gentle Giant e altri similari. Musiche (e copertine, fattore che scatenava ancora di più la fantasia) delle quali subivo la fascinazione, pur non capendo bene chi o cosa fossero. Ma non solo, il fratello era abbastanza onnivoro musicalmente e verso la fine del decennio prese ad ascoltare anche Talking Heads, Clash, Joe Jackson e altra New Wave assortita. Ecco quindi che mi ritrovo a 14 anni, 1982, ad avere già assorbito un bel po’ di mondi musicali. Io dal canto mio all’epoca scoprivo il Battiato “pop”, i cantautori, altra New Wave di stampo più elettronico (Ultravox su tutti). Scatta anche la voglia di imparare a suonare la chitarra; il solito fratello era stato bassista in alcune formazioni cittadine e lo strumento campeggiava nella sua camera assieme ad alcune chitarre e a una pianola elettrica. Insomma, tanti strumenti e da parte mia la voglia di scoprirli. Così mi metto di buona lena e riesco a cavarne qualcosa. Per me il metodo DIY era, e resta, il più funzionale quando voglio imparare qualcosa, non ho mai avuto un maestro di musica o cose del genere. Mi ci butto e fino a che non riesco a trovare un modo per esprimermi non ne esco. Così ho fatto con gli strumenti. Alla fine tra tutti quelli che armeggiavo ha vinto il basso che reputavo il più affascinante, ritmo e note allo stesso tempo, un qualcosa anche di molto sensuale se vuoi, con quelle frequenze che ti prendono allo stomaco. A metà anni Ottanta al liceo scoppia la U2-mania. Da lì a mettere su una band per eseguire cover degli irlandesi il passo è breve. Ma a quel punto io sono già imbevuto di tonnellate di ascolti diversificati e ogni volta che si tratta di comporre qualcosa di personale ecco che scatta la voglia di metterci il cambio di tempo, l’assolo più lungo del previsto, la stranezza. Ma facevo ciò in maniera del tutto inconscia, solo non reggevo di fare quattro/cinque/sei pezzi sempre uguali e con la stessa struttura strofa/ritornello. Dovevo sempre mischiare un poco le carte in tavola, ma non per volere fare prog a tutti i costi, ma perché non amo le cose che sono sempre e solo uguali a loro stesse, ho bisogno di variazioni, di sorprese, di contaminazioni impreviste. Dopo il gruppo del liceo, ad inizio Novanta entro in una band chiamata Calce & compasso, di stampo blues/cantautorale. E anche lì, appena presa un po’ di confidenza, ecco scattare i miei input per allungare i pezzi, per mettere nella stessa canzone più elementi. Il gruppo nel 1993 cambia nome in Finisterre e a quel punto la metamorfosi è completa. Complice anche l’ingresso di Boris Valle, un tastierista imbevuto di classicismo, minimalismo e studio della contemporanea (Berio, Nono, etc.) i Finisterre diventano una band prog. Ma l’idea di base non è mai stata quella di rifare i Genesis, semmai quella di scardinare le strutture e inserirci dentro più elementi possibile. Non siamo  mai stati dei nerd del prog per cui o c’è il sinfonismo alla Genesis, Yes e EL&P o niente: ho troppe cose in testa, troppi ascolti e influenze variegate, per fermarmi a un solo aspetto del meraviglioso mondo progressive.
Perché il prog è stato considerato un genere “di destra”? Tu hai mai sofferto questa identificazione?
Assolutamente no; a Genova nei primi Novanta suonavamo spesso coi Finisterre in eventi organizzati dalla FGCI e nessuno di noi aveva idee destrorse, anzi, e mai nessuno ha osato tirarmi fuori discorsi sul prog di destra e cose del genere. Mi sarei arrabbiato molto. Il tutto nasce dal fatto che negli anni Settanta questa musica aveva una patina un poco ambigua, da una parte era seguitissima e molto apprezzata da tutti i giovani del Movimento, dall’altra raramente prendeva posizioni politiche. Spesso i testi erano favolistici, metaforici, psicologici. In realtà invece tutto ciò nascondeva grandi riflessioni nei confronti dell’esistenza, ma era un qualcosa che bisognava sforzarsi di andare a cercare, non era subito messo in evidenza. Da questo punto di vista vinceva chi mostrava in pieno la sua militanza, vedi gli Area. Avevano vita dura invece formazioni tipo il Museo Rosenbach: misero in copertina un collage nel quale spicca un busto di Mussolini. Il gruppo venne bollato come destrorso e la loro carriera ne risentì molto. Chiaramente sono aberrazioni, il Museo Rosenbach non intendeva certo fare l’apologia del duce, trattando però un concept sullo Zarathustra nietzschiano c’era di mezzo anche tutto un discorso sul potere, da qui il riferimento. Sono cose un po’ più sottili, alle quali accostarsi con un’adeguata apertura mentale.
Il prog come lo intendi tu è una musica effettivamente “progressiva”, secondo il significato originale del termine, senza barriere. Io oggi questa libertà però la vedo soprattutto in certo jazz e in tutte le esperienze musicali indefinibili, che fuggono programmaticamente un genere.
Il prog per me è una palestra che in primis mette in gioco me stesso e la mia apertura verso altri mondi, musicali e non. E la libertà che esprime è impagabile. Come dici tu, oggi come ieri, è il jazz che cerca sempre la contaminazione ma non credo che il prog abbia perso la sua voglia di abbattere steccati. Mi spiego: ascolto tanti demo e cd di gruppi giovani ed è vero che in molti casi questi cercano sempre di scimmiottare gruppi importanti, ma ci sono anche ragazzi che si trovano in sala e non si accontentano di fare la canzone da tre minuti e stop. Certo volte esagerano coi virtuosismi, con le seghe mentali e con strutture troppo complesse ma l’approccio è quello giusto: non fermarsi, andare oltre! Quindi è comunque un esercizio che fa bene, alle mani e alla testa. Poi c’è sempre tempo per affinare la proposta, cercare l’originalità e comporre musiche che arrivino veramente.
a4183923227_10Il mio essere onnivoro a volte ha fatto sì che avessi il desiderio di fare magari un passo indietro rispetto alle strutture “aperte” del prog e mi venisse voglia di fare il percorso opposto, ovvero provare a vedere cose succedeva se deliberatamente mi richiudevo entro le strutture della canzone tout court. È un modo come un altro da parte mia di abbattere uno steccato, solo che invece di combatterlo mi ci rinchiudo cercando di capire come posso cambiarlo da dentro. Con i Finisterre abbiamo sperimentato più volte con la forma-canzone e io in particolare le ho dedicato un intero album (La foce del ladrone, del 2011). Il disco è andato benissimo ma il responso da parte della frangia più oltranzista dei miei fan è stato disastroso. Non ci sono state nemmeno critiche negative, ma proprio disinteresse. Fortunatamente una parte del pubblico che mi segue è curioso, altri tirano su la testa solo quando leggono i nomi Höstsonaten, la Maschera di Cera, Finisterre, ovvero nomi sicuri e dalle quali non ci si vuole attendere sorprese. Mi dicevi di avere trovato in Autumnsymphony di Höstsonaten diversi elementi jazz che potrebbero non dispiacere a un ascoltatore di quel genere: quell’album è stato uno dei meno capiti di Höstsonaten. Detto ciò io comunque faccio la mia strada e se mi venisse voglia di fare un disco rap lo farei.
Tu sei molto attivo: pubblichi, produci, scrivi. Sei un punto di riferimento nel genere che suoni. Perché non si riesce ad aggregare tutte le energie che ci sono in giro? È un problema storico attuale o più una peculiarità negativa dell’Italia?
La tua domanda è il quesito del secolo per me. Ciò che posso dirti è che conduco da anni una lotta per l’abbattimento di molti steccati. Posso essere anche d’accordo con chi preferisce “schierarsi” a favore di un genere piuttosto che un altro e sposarne filosofia e peculiarità; il metallaro, il jazzofilo, l’indie rocker, il classicista, il dark e via dicendo. Ma ci deve essere anche una strada che inglobi tutte le direzioni, anzitutto perché di curiosi come me ce ne sono molti più di quanto si pensi e poi perché mischiare le carte fa sempre bene all’elasticità mentale. Invece è tutto molto chiuso e settoriale, lo vedo col progressive: ad ogni evento ci sono solo gruppi prog che si portano dietro il (selezionatissimo) pubblico prog e quindi non se ne esce. Invece sogno concerti dove ci siano artisti diversi a condividere lo stesso spazio in modo che sia chi sta sopra il palco sia chi sta sotto possano arricchirsi, a livello di conoscenze ed emozioni. Purtroppo prevalgono i compartimenti stagni, le piccole nicchie che non comunicano tra loro. Io cerco di rendermi più trasversale che posso, specie nella frequentazione e collaborazione con musicisti diversi che possano aprirmi a nuove esperienze. Non me ne frega nulla di chiamare Steve Hackett a farmi un assolo su un disco, è la cosa più banale e poco “progressiva” che potrei fare. La sfida è chiamare, chessò, Manuel Agnelli a cantare una suite da venti minuti. Vedere cosa ne ricavo io e cosa ne ricava lui, da questa unione. Solo mettendo assieme esperienze diverse, senza paura e con la giusta forma mentis si potrà creare qualcosa di grosso e uscire per una buona volta da questa impasse infinita. Ogni anno organizzo il mio Z-Fest e cerco di proporre proprio questo; trasversalità! È dura ma con il giusto impegno i risultati non mancano.
In Italia si riesce a vivere di musica, al di là dei generi?
Non posso parlare dei colleghi perché ognuno ha la sua storia, le sue esperienze, le sue esigenze e le sue fortune o sfortune. Personalmente, dopo anni di sacrifici, sono arrivato al punto di riuscire a pagare l’affitto, le bollette e quel poco che mi serve per vivere. Certo, propongo cose non proprio popolari, quindi un po’ questa fatica me la sono anche cercata ma questo è quello che il mio cuore mi dice di fare e questo faccio. Sopravvivo grazie alle vendite dei dischi, ai diritti d’autore, alle produzioni per altri artisti, ai libri e a tanti lavori in campo musicale. Più difficile, invece, vivere di solo live.
fabio-zuffanti-zband-20Chi è che racconta l’Italia di oggi, adesso, secondo te? Sono veramente i rapper?
Mah, se il rapper sa raccontare bene e riesce a essere veramente lo specchio dei nostri giorni, come lo sono stati in diverse epoche molti altri autori, perché no? Ma il rapper deve essere tosto, io ad esempio amo molto Dargen D’Amico, uno che sperimenta con le parole e con la musica e quando rappa quello che dice colpisce: è intelligente, ha cultura e poesia. Oppure apprezzo certo rap militante (penso agli storici Assalti Frontali). Purtroppo il rap oggi è al 90% una cosa da ragazzini con storie da e per ragazzini. Anche quello è un modo di raccontare il mondo di oggi, quindi ci sta, però io non riesco ad ascoltarlo. Certo rap adolescenziale non lo ascoltavo a 16 anni, figurati ora. A parte poche eccezioni trovo i cantautori di oggi (specie quelli indie) molto deludenti, a volte dei poseur buoni solo per far breccia su un pubblico che si accontenta e segue la moda del momento. Bada: detto questo, non sono assolutamente oltranzista nei confronti dell’indie italiano. Anzi, è una realtà che mi incuriosisce assai perché nell’indie tutto sembra possibile, musiche “strane”, personaggi fuori dagli schemi, robe anti-classifica. È tutto più libero! Inoltre c’è un ottimo giro concertistico, bei locali, un pubblico folto, curioso, acculturato. Il rovescio della medaglia è che se non rispetti certe caratteristiche – anche proprio fisiche, di abbigliamento e atteggiamento – non puoi far parte di quel giro. Un giro fatto di etichette, siti e situazioni varie che rappresentano comunque una delle poche valide alternative al pop mainstream.
Gli artisti che apprezzo nel giro indie (e dei quali, in alcuni casi, sono amico e collaboratore) sono tanti. Te ne cito alcuni: Bachi Da Pietra, Beatrice Antolini, Alessandro Grazian, Colapesce, Fuzz Orchestra, Giardini Di Mirò, I Cani, Iosonouncane, Julie’s Haircut, Massimo Volume, Teatro Degli Orrori, Bologna Violenta, Mariposa… Tutta gente che come me ha un approccio che mette innanzi a tutto la voglia di esprimere qualcosa con qualsiasi mezzo e qualsiasi sforzo, prima della tecnica strumentistica. Loro sono un po’ dei figli evoluti del punk. E anche io mi sono sempre sentito facente parte di quella scuola. Però ho fatto prog che è un po’ un controsenso… ma io nei controsensi ci sguazzo: vuoi mettere la soddisfazione di quando riesci a fare qualcosa passando per la strada meno agevole?
C’è qualche esperienza prog italiana storica, tolti PFM, Banco, Orme e Area, che tu reputi straordinaria? Una chicca da consigliare ai nostri lettori?
Ne cito una per tutte, in quanto stella di prima grandezza: Ys del Balletto di Bronzo. Anno 1972, un album incredibile, tra sinfonismo novecentesco alla Bartok/Messiaen/Stravinskij, rock acido e delirante, atmosfere lugubri e opprimenti. Per me un must, uno dei dischi più rivoluzionari partoriti in terra italica.
Prima hai citato tuo fratello. E tuo padre come vedeva questa “tua” musica?
Anche lui suonava la chitarra e, ancora prima di mio fratello, mi ha insegnato i primi accordi. Era un grande appassionato d’opera ma non era chiuso ad esempio nei confronti del rock. Sapeva quali erano i suoi gusti e li coltivava, pur con le ristrettezze di mezzi della nostra famiglia, che lui sosteneva con il lavoro di operaio all’Italsider. Poi invecchiando forse non ha mai compreso bene quello che facevo, perché avessi compiuto scelte così impopolari a livello sociale (fare il musicista piuttosto che un altro lavoro più remunerativo) e soprattutto non capiva come mai, se facevo così tanti dischi e della gente mi stimava, non ero diventato ricco e famoso. Domande alle quali non sapevo rispondere, se non dicendo che faccio musica “strana”, particolare, per un pubblico di nicchia. Se ne è andato lasciandomi il rammarico di non avergli fatto capire a fondo a cosa hanno portato (nel bene e nel male, indipendentemente da fama e soldi) quei due accordi che mi ha insegnato quando avevo 13 anni.
Su cosa stai lavorando adesso?
In questo periodo sono molto concentrato sulla preparazione del mio nuovo album solista, previsto per l’autunno 2017. Con questo lavoro sto esplorando una via “rivoluzionaria” al concetto di prog ed è possibile seguirne lo sviluppo sulla mia pagina Facebook. Poi a gennaio uscirà un progetto a cui ho preso parte, promosso da Mox Cristadoro, nel quale, con altri amici musicisti, ci siamo divertiti a stravolgere e rendere prog, hard e psichedelici diversi pezzi di cantautori italiani storici. Inoltre ho in via di pubblicazione un album noise-metal con il progetto R.U.G.H.E., la registrazione di un reading assieme allo scrittore Antonio Moresco e un EP di canzoni “out” e a marzo sarò a Milano con la nuova edizione dello Z-Fest, il mio mini-festival, prima di partire per un tour in nord America. Non starò fermo, insomma!

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The Frontman. Bono (Nel nome del potere) https://www.carmillaonline.com/2014/03/28/frontman-bono-nel-nome-del-potere/ Thu, 27 Mar 2014 23:01:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13554 di Luca Casarotti

the-frontman-alegre

Harry Browne, The Frontman. Bono (Nel nome del potere), Alegre, Roma 2014, pp. 288, € 15

Paul David Hewson, in arte Bono Vox, è una delle rockstar più note degli ultimi trent’anni. Paul David Hewson, in arte Bono Vox, ha fama di rockstar “impegnata”. Essendo una notissima rockstar, e per di più “impegnata”, Paul David Hewson, in arte Bono Vox, non deve essere criticato. Sì, certo, c’è quella storiaccia dell’evasione fiscale milionaria, ma il suo impegno nel processo di pacificazione irlandese e a favore dei paesi africani no, quello [...]]]> di Luca Casarotti

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Harry Browne, The Frontman. Bono (Nel nome del potere), Alegre, Roma 2014, pp. 288, € 15

Paul David Hewson, in arte Bono Vox, è una delle rockstar più note degli ultimi trent’anni.
Paul David Hewson, in arte Bono Vox, ha fama di rockstar “impegnata”.
Essendo una notissima rockstar, e per di più “impegnata”, Paul David Hewson, in arte Bono Vox, non deve essere criticato. Sì, certo, c’è quella storiaccia dell’evasione fiscale milionaria, ma il suo impegno nel processo di pacificazione irlandese e a favore dei paesi africani no, quello non si discute.

Il libro di Harry Browne The Frontman. Bono (nel nome del potere) (edizione italiana a cura di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti) si propone di smontare proprio questo paralogismo. Lo stesso che lo ha reso indigesto a parte della stampa, a giudicare da alcune delle recensioni uscite finora. Va detto che non sono solo (parte de) i media nostrani ad aver reagito scompostamente alla pubblicazione di The Frontman: nella sua prima intervista italiana, Browne descrive il clima suscitato in Irlanda e in particolare a Dublino dal pamphlet. Anche chi lo ha apprezzato non lo può scrivere apertamente, perché si esporrebbe a sua volta ad ogni sorta di critiche. È appena il caso di notare che, fatto un passo fuori dalle redazioni di tv e giornali, l’atmosfera cambia, come testimoniano i muri dublinesi, zeppi di scritte poco riverenti verso il leader degli U2, il suo ego ipertrofico e il suo rapporto disinvolto con il fisco.

In questo articolo proverò a fare una panoramica delle strategie argomentative che Harry Browne mette in campo per smontare il discorso (auto)celebrativo di/su Bono e la sua fama di immacolato benefattore, per poi spendere qualche parola sul modo in cui The Frontman è stato recepito in Italia.

Anzitutto, alla base del libro sta una precisa scelta metodologica e retorica. Al contrario di quanto sovente fanno alcuni dei critici di Bono più accaniti, Browne usa di rado l’ironia e l’invettiva: riesce invece a mettere in fila e raccontare una serie di fatti logicamente concatenati, di modo che l’argomentazione risulti difficile da confutare anche per chi muova da posizioni antitetiche alle sue. Bono in primis, che si guarda dall’attaccare e anche solo dal nominare direttamente The Frontman, ben sapendo che se lo facesse, si troverebbe a dover giustificare una cospicua mole di dati che Browne ha minuziosamente verificato. Ammesso che qualcuno gliene chieda conto, ciò che tarderà ad accadere, specie in patria. Inveire o ironizzare sull’ego e sulla spocchia del cantante, in fin dei conti, è la strategia più semplice. Ma è anche quella che fa il suo gioco. Con l’immensa visibilità e la tendenziale compiacenza di cui gode, gli è  facilissimo neutralizzare le critiche ironiche facendole passare per rancore nei suoi confronti, o invidia per il suo successo.

Consapevole di ciò, Browne sceglie di utilizzare a un tempo tecniche giornalistiche e narrative, nella tradizione del pamphlet sei e settecentesco [vedi l’intervista linkata sopra]. In retorica si direbbe che alla “istanza patetica” di Bono, l’autore contrappone una “istanza logica”.
Sul versante giornalistico, svolge un lavoro certosino di analisi delle fonti: atti costitutivi e bilanci delle società di Hewson e dei suoi familiari, articoli e pubblicazioni accademiche di diversi paesi. Su quello narrativo, non esita a raccontare lo stesso fatto anche più di una volta, quando è necessario inquadrarlo da angolature differenti. Il saggio è diviso in tre parti, dedicate rispettivamente alle attività di Bono in Irlanda, in Africa e nel mondo. Alcuni degli episodi della sua biografia compaiono in tutti e tre i capitoli, narrati ogni volta da una diversa prospettiva.

Se infatti Hewson ha costruito tutto il suo attivismo su un discorso che punta a suscitare compassione, o meglio sarebbe dire “compatimento” verso l’oggetto delle sue campagne, Browne ne considera i risultati: ragiona in termini di benefici realmente prodotti, di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni interessate. Ho usato il termine “oggetto” non alla leggera: in tutta la sua attività filantropica, Bono non ha mai dato voce all’Africa, si è sempre fatto portatore di una prospettiva occidente-centrica, al punto da arrivare, in un’occasione, a zittire letteralmente uno studioso che aveva osato criticare la politica degli aiuti all’Africa. Ponendo il problema in termini fattivi, e non solamente emozionali, Browne può mostrare le aporie del “filantro-capitalismo”, parola molto esplicativa su cui torniamo tra poco.

La decostruzione del “discorso di Bono” non si ferma qui. The Frontman analizza anche le tecniche che il cantante ha usato e usa per erigere la sua reputazione di attivista. Il racconto che fa di se stesso è un misto di più o meno genuina autocritica, vittimismo ed egocentrismo (ognuno può fare facili confronti con i comunicatori presunti-brillanti di casa nostra). In questo modo intende suscitare simpatia in chi lo ascolta, per via della sua ingenuità (ecco allora l’autocommiserazione posticcia), ma soprattutto apparire sempre al centro della scena, accreditarsi come il motore dell’azione, l’eroe del racconto. Se c’è pure modo di definirsi allievo di un grande mentore, tutto di guadagnato. Come nel caso dell’incontro con Keith Richards: nel libro U2 by U2, Hewson spiega di aver ignorato totalmente il blues fino a quando il chitarrista degli Stones non gli ha aperto le orecchie e la mente, facendogli ascoltare John Lee Hooker e Robert Johnson. L’aneddoto gli serve evidentemente per legittimarsi quale apprendista del blues, mettendosi sotto l’ala protettiva di un maestro (bianco) del genere come Richards.

Ma l’esempio più clamoroso e sconcertante della sua autonarrazione lo ha dato attribuendosi un ruolo salvifico nella campagna referendaria a favore della ratifica dell’accordo del Venerdì Santo. La vittoria dei sì non fu mai messa in discussione da nessuno, eppure il leader degli U2 continua tutt’ora a descriversi come ago della bilancia. Il suo intervento fu talmente dirimente che i due uomini politici che chiama eroi della pacificazione e a cui stringe la mano in una photo opportunity – voluta soprattutto da lui – furono rapidamente relegati all’irrilevanza, al pari dei partiti di cui erano a capo.

P020206PM-0095.JPGSiamo alla tesi principale del saggio: con il suo debunking, Browne vuole mostrare che l’attivismo di Bono, ben lungi dall’essere apolitico, come lui si sforza di far credere, è profondamente, e ad ogni effetto, politico. Il suo discorso è tutto teso ad affermare un unico “effetto di verità”: The Frontman, allargando lo sguardo e dando voce agli “oggetti” delle campagne di Bono, ne scopre le diverse implicazioni, i lati in ombra, gli “effetti collaterali”, che collaterali non sono. Gli obiettivi di un’azione dipendono dalle persone, dalle forze politiche, dagli enti e dalle imprese che in quell’azione si decide di coinvolgere. Se lanci una campagna per contrastare  la diffusione dell’AIDS in Africa e ti prodighi perché tra i tuoi alleati ci sia la destra cristiana radicale, tutta la prassi e la retorica propagandistica punteranno sull’astinenza, a scapito dei contraccettivi: donne sposate e bambini (“gli innocenti”) verranno preferiti a soggetti ancora più esposti al contagio (omosessuali e prostitute), con buona pace del principio di eguaglianza.

Se lanci una campagna filantropica e vuoi che tra i tuoi alleati ci sia la fondazione Bill & Melinda Gates, devi accettare (e pare che Bono lo faccia di buon grado) che il “punto di vista del capitale” entri di prepotenza e influenzi la distribuzione degli aiuti. Di qui la definizione di “filantro-capitalismo” che ricorre più volte nel libro: essa descrive esattamente questo assetto di interessi.

Si dirà: e la musica? Hewson ha sempre dichiarato di concepirla come qualcosa di completamente separato dall’attivismo. The Frontman ci ricorda che i testi delle canzoni degli U2, con il loro vagheggiare di principi indefiniti, senza mai stringere il focus su un dettaglio o una vicenda in particolare, sono perfettamente funzionali al “discorso di Bono” di cui si è detto, apolitico solo all’apparenza. Nelle rare volte in cui la band si è occupata di un avvenimento specifico, non sono mancati gli errori storici, per non parlare dei rovesciamenti di senso intenzionali. Ad esempio, Martin Luther King viene assassinato alle sei di sera del 4 aprile ’68: non nel primo mattino, come Bono canta in Pride (In the Name of Love). La “Bloody Sunday” da cui prende il titolo uno degli anthem degli U2 è una strage di stato, ma il testo della canzone dice tutt’altro, specie nella prima e più esplicita stesura, poi accantonata proprio perché troppo esplicita e non abbastanza vaga, secondo i canoni del gruppo.

Venendo in fine al modo in cui l’inchiesta di Browne è stata accolta in italia, sembra si sia scatenata una corsa alla recensione sensazionalista. Segno da un lato che il libro tocca più di un nervo scoperto, e dall’altro che la smania di uscire con l’articolo polemico prevale su una certa correttezza, che imporrebbe, almeno, di leggerlo fino in fondo (leggerlo proprio, in qualche caso; imparare anche solo il nome dell’autore, in quelli più estremi). Servirebbe qualche tempo per ponderare una tale quantità di dati e materiale bibliografico. Invece di prenderselo, quel tempo, si preferisce straparlare di attacchi sconsiderati a Bono, mentre Browne si sforza di restituire la complessità e l’ambiguità del personaggio, non mancando di riconoscergli i suoi meriti, se e quando ne ha avuti. Di queste recensioni infastidisce, oltre al tono da lesa maestà con cui viene liquidato il pamphlet, un certo risolino di sufficienza che aleggia tra le righe: ma cosa vuole dimostrare ‘sto Browne?

Che The Frontman avrebbe fatto discutere ce lo si poteva attendere, e, tutto sommato, ce lo si augurava. Ci si poteva anche aspettare qualche accorata oratio pro Bono proveniente dall’establishment (mediatico, politico o dello spettacolo che sia): l’ambiente in cui Hewson si muove è quello, da decenni. Ma una recensione tutta schierata a favore del Frontman, pubblicata su un giornale diretto da Francesco Storace, beh, spiazza un tantino.

Non ho fatto una rassegna stampa estera prima di mettermi a scrivere, ma i camerati che difendono Bono, credo lo si possa dire con un certo margine di sicurezza, sono un primato tutto nostro.

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