Tripolitania – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Dec 2025 21:04:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaginario coloniale italiano https://www.carmillaonline.com/2019/01/05/immaginario-coloniale-italiano/ Fri, 04 Jan 2019 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50505 di Armando Lancellotti

Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 278, € 24.00

Che cos’è l’immaginario coloniale? Quali fattori intervengono ed interagiscono nella sua elaborazione? Come cambia nel corso del tempo o conseguentemente al mutare di altre condizioni? Quali motivazioni lo sottendono e ne richiedono la formulazione? Quali fini persegue e quali effetti, immediati e temporanei o successivi e permanenti, produce? In che modo l’immagine modifica la realtà e come da quest’ultima è condizionata?

Sono queste alcune delle domande a cui risponde il volume scritto da Gabriele Bassi – dottore di [...]]]> di Armando Lancellotti

Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 278, € 24.00

Che cos’è l’immaginario coloniale? Quali fattori intervengono ed interagiscono nella sua elaborazione? Come cambia nel corso del tempo o conseguentemente al mutare di altre condizioni? Quali motivazioni lo sottendono e ne richiedono la formulazione? Quali fini persegue e quali effetti, immediati e temporanei o successivi e permanenti, produce? In che modo l’immagine modifica la realtà e come da quest’ultima è condizionata?

Sono queste alcune delle domande a cui risponde il volume scritto da Gabriele Bassi – dottore di ricerca, storico e studioso del colonialismo italiano – che delimita il campo della sua indagine alla Libia, colonia italiana dall’età giolittiana alla seconda guerra mondiale, dal 1911-’12 al 1943, e al punto di vista coloniale, cioè quello del conquistatore italiano, che elabora l’immagine del “suddito di Libia” del tutto indipendentemente dalla effettiva conoscenza della realtà e della popolazione libiche. Si costruisce aprioristicamente uno stereotipo, lo si applica alla realtà, dando luogo ad un pregiudizio che a sua volta conferma e corrobora lo stereotipo: è questo il circolo vizioso che – spiega Bassi – agisce da meccanismo di produzione di un immaginario coloniale.

L’immagine del suddito coloniale di Libia si forma grazie alla convergenza di almeno tre fattori: lo stereotipo con cui l’italiano conquistatore si accosta al libico da sottomettere; il contatto con la realtà libica e i libici dopo la conquista della colonia; le esigenze della propaganda politica. Inoltre il lavoro di Bassi mette in luce come la rappresentazione del suddito coloniale non sia qualcosa di statico, ma, tutto al contrario, sia un’immagine dinamica e variabile che, sulla base di un sostanziale – e questo sì invariabile – disprezzo razzista dell’altro, si trasforma per alcuni aspetti, anche importanti, a seconda delle particolari circostanze storico-politiche, interne ed internazionali, e delle conseguenti e contingenti esigenze politico-propagandistiche.

In generale, l’immagine del suddito coloniale si regge su una tanto essenziale quanto necessaria ignoranza dell’oggetto della rappresentazione e risponde a finalità e consegue obiettivi funzionali esclusivamente all’interesse del conquistatore. L’ignoranza del soggetto da rappresentare è il prerequisito della costruzione dell’immagine stereotipata del popolo da sottomettere; le finalità perseguite sono la spiegazione e la giustificazione dell’impresa coloniale, la legittimazione della conquista, la riconferma dell’opportunità e della convenienza della sottomissione del suddito al potere del colonizzatore. Si tratta di dinamiche e di fenomeni che non riguardano solo il colonialismo italiano o, ancor più nello specifico, il caso della Libia italiana, ma interessano l’intero macro evento storico dell’imperialismo occidentale tra ‘800 e ‘900 e pertanto, semplificando e sintetizzando al massimo le dettagliate analisi e le approfondite considerazioni di Bassi, si può dire che anche nel caso italiano la costruzione dell’immaginario coloniale declini il paradigma del “fardello dell’uomo bianco” e del diritto-dovere occidentali alla “conquista civilizzatrice”.

A fare da cornice e da punti di riferimento costanti del lavoro di Gabriele Bassi sono gli studi storiografici sul colonialismo italiano, che all’incirca dagli anni Settanta del secolo scorso, grazie ai contributi di Giorgio Rochat e Angelo Del Boca prima di altri, hanno sottratto l’argomento alla semplice memorialistica o all’oblio conseguente alla perdita delle colonie; a questi si aggiungono poi i lavori riconosciuti da Bassi come fondamentali di Claudio G. Segré, Federico Cresti e Nicola Labanca. Soprattutto quest’ultimo – sostiene l’autore – «è lo studioso che più sembra avvicinarsi all’utilizzo degli studi culturali, già diffuso all’estero, per comprendere la storia coloniale italiana» (p. 24). Ed è proprio al modello dei “cultural studies” che Gabriele Bassi si ispira per affiancare allo studio dei fatti economici, politici, militari anche quello dei molteplici e complessi fenomeni ed aspetti culturali, che – da Orientalism (1978) di Edward Said in poi – non possono più essere trascurati nello sforzo di comprensione complessiva del fenomeno del colonialismo. Scrive Bassi:

Il nostro studio sull’immagine del libico nella percezione comune degli italiani parte dalle premesse dello stesso Said, verificandone la piena applicabilità anche nell’esperienza coloniale in Libia. Si è cioè sviluppata una ricerca incentrata non solo su “cannoni e soldati – come sosteneva appunto Said – ma anche idee, forme, rappresentazioni, meccanismi dell’immaginario” (p. 26)

Come è noto l’Italia liberale muove i suoi primi incerti passi di politica coloniale, in un contesto di scarso interesse dell’opinione pubblica e di limitato coinvolgimento delle forze economiche del paese, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento e nel Corno d’Africa, dal momento che le mire italiane sul Nord Africa ed in particolare sulla Tunisia, prima ancora che sulle ottomane Tripolitania e Cirenaica, vengono frustrate dall’intervento francese del 1881 nel paese nordafricano. Nonostante ciò, già in quegli anni comincia a prendere forma un’immagine del libico, che Bassi evince soprattutto da resoconti o memorie di esploratori e viaggiatori, che risente di tutti gli stereotipi razzisti europei, propri della mentalità coloniale: i libici, ma più in generale i popoli africani, sono inevitabilmente rozzi, incivili, arretrati, violenti, insomma bisognosi dell’intervento civilizzatore e salvifico di un popolo europeo.

Intorno agli anni Dieci del Novecento poi, in un contesto decisamente più favorevole alla politica coloniale rispetto al precedente, la costruzione dell’immagine del libico, che è in procinto di diventare suddito coloniale, prosegue, per concludersi con una rappresentazione che insieme contiene aspetti sia negativi sia positivi: alle connaturate negligenza e pigrizia e all’arretratezza civile, dovuta anche agli effetti della dominazione ottomana, fanno da contraltare le potenzialità positive, come le capacità di apprendimento e di assimilazione che una guida adeguata – come quella italiana – potrà fare emergere e mettere a frutto. Insomma, la martellante propaganda filogovernativa, filocoloniale e nazionalista assegna alla “Grande Proletaria” una inderogabile missione di civilizzazione e di progresso. La guerra italo-turca inizia a settembre del 1911, ma la presunta “passeggiata militare”, che con la consueta nonché infondata supponenza, che già era costata cara a fine Ottocento in Abissinia, i vertici militari e politici avevano ipotizzato, si dimostra in realtà molto impegnativa e l’appoggio generale della popolazione libica alle truppe turche contribuisce ad una prima significativa variazione nella rappresentazione della propaganda coloniale: viene creata «l’icona del libico quale “bestia”, “traditore”, “barbaro”, e non curante dell’opportunità “civilizzatrice” che gli veniva offerta» (p. 33).

A guerra conclusa – prosegue l’attenta ed interessante analisi di Bassi – cambiano nuovamente le esigenze dalla propaganda, che ritorna ad alternare l’immagine negativa del libico che resiste e si oppone a quella delle grandi potenzialità di una popolazione che, quando avrà compreso le buone e positive intenzioni italiane, collaborerà alla propria emancipazione. Lo scoppio della Grande Guerra nell’estate del 1914 e la decisione italiana di intervenire nel 1915 cambiano drasticamente il quadro della situazione in Libia, perché di nuovo l’Italia è in guerra contro l’Impero ottomano ed è costretta quasi ad abbandonare il territorio, che fatica a controllare e contestualmente la resistenza libica si rianima. «Fu da tutto ciò che ebbe origine l’immagine del libico che caratterizzò il periodo dalla seconda metà del 1914 fino al termine della prima guerra mondiale. Si trattò nuovamente di una forte demonizzazione del “ribelle”» (p. 38). La riabilitazione del suddito libico subentra nel 1919, quando si pensa anche ad un possibile coinvolgimento di una parte della popolazione nell’amministrazione della colonia e alla collaborazione, seppur asimmetrica, tra italiani e libici. Ma la presa del potere del fascismo nel 1922 muta ancora una volta la situazione.

Le differenze tra la politica coloniale dell’Italia liberale e di quella fascista sono più di grado che di sostanza, in quanto aree di interesse ed obiettivi rimangono gli stessi, mentre mutano i mezzi per conseguirli e conservarli; di certo aumentano sia la violenza della politica italiana in Africa sia il coinvolgimento della propaganda che la deve sostenere e giustificare. Pertanto, l’immagine del suddito libico si configura secondo differenti e mutati aspetti e sfaccettature, che risentono di una nuova fase della politica italiana in Libia, quella della “riconquista” della colonia, più semplice e veloce in Tripolitania, decisamente più complicata e difficile in Cirenaica.

Si fece […] una cesura, netta, tra due principali figure. Il libico “lungimirante” e “sottomesso”, che aveva compreso i buoni propositi dell’Italia, e che quindi più o meno attivamente aveva deciso di collaborare […] ed il libico “cieco”, ostinato a combattere una guerra dal risultato ormai scritto in suo sfavore» (pp. 44-45). Una seconda distinzione «avvenne in ambito geografico, ma fra tripolitani e cirenaici. Mentre i primi, per tutti gli anni Venti, si ritennero avviati in un percorso di “redenzione”, i secondi rimasero per l’intero decennio sotto il controllo della Senussia, considerati pertanto quasi indistintamente tutti “ribelli” (p. 45).

La cosiddetta “pacificazione” della Cirenaica, in realtà una guerra cruenta combattuta contro la resistenza locale guidata da Omar al-Muctar, prosegue dal 1929 al 1932 e per avere la meglio dei nemici Badoglio e Graziani adottano i metodi e gli strumenti più spietati: la deportazione della popolazione civile, l’apertura di campi di concentramento, la costruzione di una reticolato invalicabile di filo spinato lungo 270 km, che trasforma una parte della Cirenaica in uno sterminato campo di prigionia. Lo sforzo della propaganda del regime diventa quello di presentare questi provvedimenti, innanzi tutto agli italiani e secondariamente ai libici stessi, non solo come necessari, ma anche come salutari strumenti di realizzazione di un progresso benefico anche per coloro che si ostinano ad opporvisi. L’obiettivo viene raggiunto, rappresentando i sudditi cirenaici come “banditi”, ingrati “traditori”, “barbari” e “violenti”.

L’immagine della realizzazione dei campi di concentramento della Cirenaica offerta dalla stampa coloniale e nazionale fornì un’ultima conferma della definitiva e radicale demonizzazione del ribelle […]. I campi, da mezzo di repressione estremo e disastroso per l’economia e la società libiche, giunsero persino a rappresentare una sorta di vetrina dell’operato del fascismo in colonia. […] Il Regime ebbe piuttosto la necessità di magnificare l’opera del colonialismo fascista e quindi la propaganda non tardò molto ad aggiustare il tiro iniziando a fare leva sulla funzione educativa dei campi. Non si parlò più di semplici strutture detentive, bensì di luoghi in cui l’Italia di Mussolini realizzava la sua missione civilizzatrice (p. 50).

A “pacificazione” avvenuta, ancora una volta la rappresentazione del libico si trasforma, per diventare quella di un suddito, almeno potenzialmente, disposto alla collaborazione e che finalmente e progressivamente va acquisendo coscienza delle opportunità di civilizzazione e progresso a lui generosamente offerte dalla conquista e dal governo italiani. Di nuovo riprendono a circolare ipotesi circa un possibile coinvolgimento dei sudditi nell’amministrazione della colonia, o almeno di una ristretta élite e in mansioni secondarie, ma di certo non viene meno l’atteggiamento paternalistico che percepisce i libici come un popolo inferiore ed arretrato che abbisogna, come un bambino, della guida sicura di un popolo adulto e civile. Si tratta di un paternalismo che ben presto assume i tratti dell’esplicito razzismo, quando, nella seconda metà degli anni Trenta, il regime decide la svolta in tal senso e in concomitanza non casuale con un’altra impresa coloniale, quella “imperiale”, cioè quella abissina. Non si può infatti trascurare il fatto che il fascismo consideri il colonialismo anche alla stregua di un’officina nella quale forgiare il prototipo dell’”uomo nuovo”, dell’italiano fascista consapevole ed orgoglioso della propria superiorità di razza e civiltà e conscio del proprio destino imperiale.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale produce l’ennesima trasformazione della rappresentazione dei libici: da un lato, a seguito delle sollevazioni popolari che tentano di sfruttare le difficoltà belliche italiane, ritorna in auge l’immagine del “suddito ingrato e traditore”, dall’altro si tenta di presentare l’immagine del “libico fedele” che si duole dell’arrivo degli inglesi, al fine di «presentare l’invasione inglese e l’eventuale perdita della Cirenaica come un sopruso che non avrebbe goduto dell’appoggio libico. […] L’intenzione era quella di mettere in rilievo la soddisfazione dei libici rispetto all’amministrazione di Roma nascondendo il loro malcontento e le loro aspirazioni all’autonomia legate alla prospettiva di un cambiamento di governo. Era un ultimo tentativo ci creare un’immagine artefatta, adatta alle esigenze coloniali del momento» (p. 65).

Altre approfondite analisi, analoghe a quelle sopra riassunte per sommi capi e sulla base di un ricchissimo apparato di fonti e di riferimenti bibliografici, Gabriele Bassi le produce anche su ulteriori aspetti del processo di costruzione dell’immaginario coloniale libico. Prendendo le mosse dalla definizione di Bruno Mazzara, secondo la quale «lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio: una serie di informazioni su una categoria di oggetti o di persone che consente la riproduzione e la trasmissione sociale inalterata del pregiudizio» (p. 104), Bassi individua e passa in rassegna i diversi elementi stereotipici che concorrono alla elaborazione del pregiudizio coloniale italiano del “suddito libico” e questi sono: la violenza, il fanatismo, la sporcizia, la pigrizia, la disonestà. È fin troppo evidente come questi stereotipi permangano tutt’oggi nei pregiudizi in circolazione ed in crescente aumento nella società italiana nei confronti di immigrati, stranieri, islamici e rom.

Interessanti sono anche le considerazioni sull’immagine costruita dalla propaganda italiana, tanto liberale quanto fascista, del “libico collaboratore”, cioè, in altri termini, del “buon suddito” sottomesso e disponibile a partecipare al lavoro di civilizzazione italiana della colonia. Si tratta di una rappresentazione del tutto artificiale, in quanto – come dimostra Bassi – una politica di vera integrazione tra metropolitani e libici, salvo qualche sterile tentativo, non viene intrapresa dai governi italiani e a maggior ragione nel periodo fascista, quando si procede, secondo una direzione diametralmente opposta, alla realizzazione della netta separazione tra italiani e libici, anche attraverso lo strumento dell’istruzione e della scuola.

Bassi si sofferma anche su quest’ultimo aspetto di grande interesse, perché le autorità di occupazione italiane, sin dal periodo liberale, vedono nell’insegnamento della lingua italiana, nell’organizzazione della scuola e dell’istruzione gli strumenti più efficaci per avvicinare la popolazione locale ai conquistatori, per coinvolgere i libici nell’amministrazione italiana del territorio, per imporre e consolidare il potere italiano nella colonia. Ancora maggiore si dimostra successivamente l’attenzione riservata a questi aspetti della politica di amministrazione della Libia dal regime fascista e per numerose ragioni: i bambini e i giovani si prestano più facilmente ad essere educati, cioè plasmati, secondo le esigenze italiane rispetto agli adulti e ai vecchi, legati alle loro tradizioni, sospettosi nei confronti degli occupanti e sostanzialmente non disposti alla collaborazione con i conquistatori. Inoltre, esattamente come in patria, il regime assegna alla scuola il compito a lungo termine di modellare in modo fascista le generazioni a venire e nella fattispecie i sudditi sottomessi, ubbidienti e collaborativi del futuro. In terzo luogo, predisponendo un sistema scolastico ed impartendo un’istruzione “italiana” ai libici, si può conseguire il duplice fine di formare le figure professionali che si ritengono necessarie per lo sfruttamento economico del territorio e dimostrare, tanto agli italiani quanto ai libici stessi, che l’Italia realizza pienamente il proprio dovere, la propria missione di civilizzazione.

L’immagine del “libico sul banco di scuola” risente – osserva Bassi – di tutti gli stereotipi negativi sopra ricordati. Il bambino libico viene descritto come indisciplinato, incostante, lento nell’apprendimento, sporco, dotato di inferiore intelligenza e per quantità e per qualità. Ne consegue che le autorità italiane concepiscano come adatta a questo (stereo)tipo di studente un’istruzione esclusivamente basilare, finalizzata al lavoro e all’impiego in una tipologia ben precisa di professioni, semplici ed umili. Di fatto, l’istruzione offerta dagli italiani ai giovani libici si limita a quella della scuola elementare, seppure in alcuni momenti dei quarant’anni di occupazione coloniale della Libia si pensi anche all’eventualità di concedere almeno alle élite locali l’accesso alla scuola secondaria. Ma se da un lato questo consentirebbe un più agevole coinvolgimento collaborativo di una parte della popolazione nell’amministrazione della colonia, dall’altro lato prevale nelle autorità italiane il timore che attraverso l’istruzione superiore possano diffondersi aspirazioni indipendentistiche e spinte in direzione dell’emancipazione nazionale, insomma idee ed ideologie anti-italiane. Pertanto, la scuola italiana in Libia, per tutta la durata del dominio coloniale, conserva una netta separazione di istituti, percorsi didattici, programmi e testi scolastici per i metropolitani – sostanzialmente identici a quelli in uso in patria – e per i sudditi libici, relegati quindi alla condizione di studenti di second’ordine e destinati ad una formazione scolastica strettamente funzionale agli interessi italiani.

Il denso, ricco ed approfondito libro di Gabriele Bassi è un lavoro di ricerca accurato e di grande interesse che attraverso le metodologie e l’approccio dei “cultural studies” contribuisce a fare avanzare gli studi su un argomento e su un periodo della storia italiana – il colonialismo – che ancora oggi è tra i meno conosciuti e divulgati e tra i più trascurati anche dall’editoria e dalla manualistica scolastiche, a conferma, anche in questo caso, di uno stereotipo solidissimo, quello che vuole l’Italia quasi sempre oggetto o vittima e quasi mai soggetto di violenze e soprusi.

]]>
Gli sbirri hanno sempre ragione https://www.carmillaonline.com/2016/04/16/gli-sbirri-sempre-ragione/ Sat, 16 Apr 2016 20:00:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29853 di Sandro Moiso

sbirri André Héléna (1919 – 1972) può essere considerato, con piena ragione, il vero padre del moderno noir. Eppure, soprattutto qui in Italia (nonostante la pubblicazione delle sue opere ad opera delle case editrici Aisara e Fanucci), non è conosciuto come altri autori quali Simenon, Malet o Le Breton. Forse il suo intenso scavare nella zona grigia della Francia occupata e collaborazionista; forse il suo schierarsi senza indugi dalla parte della canaille; forse, ancora, il suo scrivere così vicino a Céline lo ha rimosso per lungo tempo dalla [...]]]> di Sandro Moiso

sbirri André Héléna (1919 – 1972) può essere considerato, con piena ragione, il vero padre del moderno noir. Eppure, soprattutto qui in Italia (nonostante la pubblicazione delle sue opere ad opera delle case editrici Aisara e Fanucci), non è conosciuto come altri autori quali Simenon, Malet o Le Breton. Forse il suo intenso scavare nella zona grigia della Francia occupata e collaborazionista; forse il suo schierarsi senza indugi dalla parte della canaille; forse, ancora, il suo scrivere così vicino a Céline lo ha rimosso per lungo tempo dalla memoria dei lettori e della critica.

Scrittore scomodo come il già citato Céline, con cui ha condiviso stessa la colpa di aver ricordato la simpatia con cui una parte significativa della società francese guardò al nazismo (e all’antisemitismo). Scrittore ripreso oggi anche dallo statunitense Ellroy che, nel suo ultimo romanzo,1 sembra volergli rifare il verso parlando delle sofferenze e le deportazioni nei campi di concentramento inflitte ai cittadini americani di origine giapponese dopo l’attacco di Pearl Harbour e l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1941.

andre helena Con una differenza fondamentale però: Ellroy non può fare a meno di manifestare simpatia nei confronti degli agenti della Città degli Angeli corrotti, violenti e fascisti, mentre Héléna, fin dal titolo di un suo romanzo pubblicato in Francia nel 1949, 2 non può fare a meno di mostrare tutto il suo disprezzo per un organismo arrogante, cinico, persecutorio e ipocrita che esercita il proprio potere sui poveracci e non serve affatto a difendere gli interessi dei normali cittadini.

Oggi infatti non siamo qui per parlare di letteratura, ma, ancora una volta, proprio per sottolineare come, dopo l’assoluzione ottenuta ieri per gli agenti di polizia e i carabinieri imputati per la morte di Giuseppe Uva nel 2008, l’Italia sia il paese in cui gli sbirri hanno sempre ragione. Dove, dalla morte dell’anarchico Pinelli alla scuola Diaz e da Stefano Cucchi a tutti gli altri morti “in maniera misteriosa” a causa di maltrattamenti, colpi d’arma da fuoco partiti “accidentalmente” e torture psicologiche e non solo, una lunga striscia di sangue sottolinea da anni l’impunità delle forze del disordine.

Ora se tutto questo fosse relegato al solo territorio italiano sarebbe già sufficiente a far venire i brividi o a suscitare una enorme e sana incazzatura, ma, purtroppo, non è così. Non basta. Come non cogliere, ad esempio, nel colossale balletto di indagini, depistaggi e falsi “incidenti diplomatici” sviluppatosi intorno all’omicidio di Giulio Regeni, le conseguenze delle politiche di “tolleranza”, nei confronti delle violenze poliziesche, messe in atto nei tribunali e dai governi italiani?

sbirri 1 Come può uno Stato, con le mani lorde del sangue dei propri cittadini pretendere da un dittatore come Al Sisi, la verità pur mantenendo il silenzio di rigore sulle violenze nelle carceri, nelle caserme e nelle piazze d’Italia? Quale “verità per Giulio Regeni” se non si riesce nemmeno ad ottenere la verità sugli omicidi e sulle violenze della Polizia in casa nostra? Con quale autorità un Ministro degli Esteri screditato e colluso con gli interessi degli imprenditori italiani può minacciare ritorsioni economiche là dove , in questi giorni e solo per fare un esempio, Trenitalia pubblicizza sconti del 10% sui voli EgyptAir abbinando biglietti di treno ed aereo?

Forse minacciando di dissuadere i cittadini italiani dal recarsi in vacanza sul Mar Rosso, dove la grande imprenditoria italiana del turismo è la prima investitrice internazionale? A questo ci ha già pensato l’Isis, con ben più convincenti e coercitivi strumenti. Oppure come può un governo debole e malaticcio opporsi vigorosamente ad un regime che può esse l’unico garante del rientro sicuro delle compagnie petrolifere italiana in Tripolitania? Come può farlo un governo alleato di un Hollande e di una Francia che ,anche e proprio, sulla debolezza italiana e sull’incidente diplomatico con l’Egitto di Al Sisi, stanno andando a ricostruire una rete di protezione dei propri interessi (petroliferi e non solo) nel Nord Africa e in Libia? E cosa non sarebbero disposti a fare il nostro governo e Confindustria per un po’ di petrolio, così come prova l’indagine su Tempa Rossa giunta ormai a toccare il numero due del “sindacato” degli imprenditori italiani?

Forse a breve, in una sede istituzionale o su una piazza, come l’altro giorno presso la Corte di Assise di Varese dove si celebrava il processo Uva, si leverà il grido “Maledetti!” ad opera dei parenti e degli amici di Giulio, vittima sacrificale di intrighi ed interessi politico-economici e diplomatici, di cui il Presidente Mattarella ha gia scritto l’epitaffio: “Nessuno dimentichi Regeni”. “Nessuno dimentichi”? In un paese in cui l’amnesia politica e la perdita di ogni memoria storica e di classe è il programma principale dei governi della Massoneria, delle banche e delle compagnie petrolifere? In cui il Presidente del Consiglio si atteggia in pose mussoliniane senza avere nemmeno il coraggio di citare l’ispiratore ultimo del suo pensiero e del suo agire?

Consoliamoci però, anche il colosso tedesco deve chinare il capo di fronte ad un altro alleato altrettanto sbirresco e dittatoriale come Erdogan. Che in cambio del mantenimento della calma sulla rotta balcanica dei profughi ha potuto richiedere ed ottenere la testa del comico tedesco Jan Bohemermann, autore di una canzone satirica nei confronti del nuovo sultano di Ankara.
Così le “democrazie occidentali” potranno ancora fingere di non avere le mani sporche del sangue dei siriani, dei curdi, dei profughi o, un tempo, del popolo armeno, mantenendo sul loro trono di sangue dittatori in divisa come Al Sisi o in doppiopetto come Erdogan.

sbirri 2 Non vi basta? Volete ancora altro su cui meditare a proposito delle impunità per gli uomini in divisa? Allora pensate alle parole dell’avvocato difensore del Capo di Stato Maggiore della Marina Militare italiana, Giuseppe De Giorgi, precipitato a capo fitto nell’inchiesta sul petrolio e sulle spese pazze della marina: “Siamo soddisfatti, i pubblici ministeri di Potenza hanno ascoltato con attenzione le dichiarazioni spontanee dell’ammiraglio”. E ci mancava che non lo facessero, noblesse oblige.

sbirri 3Siete abbastanza incazzati? Bene! Ora alzate il culo dalla sedia su cui siete seduti e, se non l’avete ancora fatto per pigrizia, delusione o indecisione, precipitatevi al vostro seggio elettorale per dare retta, almeno una volta nella vita, al consiglio del Presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, e fare il vostro dovere di cittadini. Potrebbe sembrarvi non un gran che come risposta, ma potrebbe sempre costituire una bella sassata tirata in faccia ad un premier ed un governo già scaduti. Come il petrolio e i suoi maledetti guardiani.


  1. James Ellroy, Perfidia, Einaudi 2015  

  2. André Héléna, Les flics ont toujours raison, pubblicato in Italia da Aisara nel 2002 con il titolo Gli sbirri hanno sempre ragione  

]]>
Le tre sepolture di Giulio Regeni https://www.carmillaonline.com/2016/03/01/le-tre-sepolture-di-giulio-regeni/ Mon, 29 Feb 2016 23:01:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28772 di Sandro Moiso

sepoltura 1 Se, pur nel dramma rappresentato dalla sua morte, Giulio Regeni avesse avuto come unica sepoltura quella avvenuta a Fiumicello sarebbe stato, per così dire, fortunato. Accompagnato dall’affetto dei suoi cari e dei numerosi amici o anche soltanto di coloro che hanno avuto modo di conoscerlo di persona o di apprezzare il suo lavoro di ricerca, avrebbe avuto una sola, ma dignitosissima e commovente cerimonia funebre.

Purtroppo altre due orrende, macabre e tutt’altro che dignitose, per coloro che le hanno messe in atto, sepolture sono seguite al suo tragico decesso. La prima è stata rappresentata dai servizi [...]]]> di Sandro Moiso

sepoltura 1 Se, pur nel dramma rappresentato dalla sua morte, Giulio Regeni avesse avuto come unica sepoltura quella avvenuta a Fiumicello sarebbe stato, per così dire, fortunato. Accompagnato dall’affetto dei suoi cari e dei numerosi amici o anche soltanto di coloro che hanno avuto modo di conoscerlo di persona o di apprezzare il suo lavoro di ricerca, avrebbe avuto una sola, ma dignitosissima e commovente cerimonia funebre.

Purtroppo altre due orrende, macabre e tutt’altro che dignitose, per coloro che le hanno messe in atto, sepolture sono seguite al suo tragico decesso.
La prima è stata rappresentata dai servizi egiziani fin dal primo momento della sua scomparsa e delle prime ricerche messe in atto per ritrovarlo. Secondo quanto riferito in un’intervista rilasciata al quotidiano filo governativo egiziano AlYoum7, il titolare delle indagini, il generale Khaled Shalabi, ha parlato di un incidente stradale sostenendo che la polizia avrebbe ritrovato il cadavere dopo la segnalazione di un passante.

Ma sul luogo dove la polizia aveva sostenuto di aver ritrovato il cadavere di Giulio Regeni nove giorni dopo la sua sparizione, sulla parte superiore di un cavalcavia dell’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria d’Egitto, non ci sono mai state tracce “né di brusche frenate, né di vetri, né di sangue, né di ripulitura nello spesso strato di polvere mista a rifiuti che ricopre tutto”.1 In compenso come altri hanno già riportato vi sono significative tracce di pratica di torture messe in atto dal generale Khaled Shalabi, che “venne condannato nel 2003 per aver falsificato rapporti di polizia e per aver torturato – fino a ucciderlo – un uomo, insieme ad altri due poliziotti”,2 anche se la sentenza fu poi sospesa.

La terza ed ultima sepoltura però, ed anche la più blasfema, è quella messa in atto dalle autorità governative e da vari media italiani che, pur fingendo di voler ottenere giustizia e pur facendo, come al solito e così come piace al nostro Presidente del Consiglio, la voce grossa, in realtà tardano a denunciare con certezza e sicurezza che gli autori del barbaro assassinio potranno essere soltanto individuati tra gli agenti dei servizi, nemmeno tanto segreti, del sanguinario regime di Al Sisi.

Così si sta letteralmente prendendo e perdendo tempo, in attesa che lo scorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi finisca con il fare levigare la memoria dell’omicidio politico dalle sabbie millenarie del deserto egiziano. Fino a farne scomparire ogni traccia, quasi si trattasse del naso della Sfinge o di qualche altra decorazione delle antiche piramidi ormai erose dal vento e svuotate più dai tombaroli secolari che non dagli archeologi.

Un autentico sepolcro di menzogne e depistaggi, dalla diffusione di notizie riguardanti una presunta collaborazione di Giulio con agenzie di intelligence oppure un rapimento dovuto ai Fratelli Mussulmani3 fino all’ipotesi di una vendetta personale avvallata negli ultimi giorni dalle autorità egiziane,4 viene ormai quotidianamente costruito al fine di ostruire ogni possibile accesso alla più semplice delle verità. Anzi la sponda che l’informazione nazionale presta, in gran parte, alle notizie rilanciate dai giornali filo-governativi egiziani, come il sopracitato AlYoum7 oppure Al Ahram, permette al regime di Al Sisi di presentarsi come vittima di un possibile complotto.

Così, mentre il macellaio si traveste da agnello, le indagini brancolano in un buio, più che voluto, desiderato. Soprattutto dalle stesse autorità italiane che, denunciando la scarsa collaborazione di quelle egiziane, sembrano non veder l’ora di poter archiviare il tutto come delitto irrisolto. Che volete che sia, in fondo, un ricercatore scomparso, magari di sinistra, ai margini di un deserto immenso in cui sono scomparse culture millenarie, faraoni, templi e armate?

Contro le illazioni su una sua possibile collaborazione con qualche forma di intelligence Oxford Analytica, il think tank britannico col quale aveva collaborato Giulio Regeni, ha fatto sapere “di non voler parlare in questo momento coi media italiani sulla vicenda del ricercatore ucciso in Egitto. Fonti in contatto col centro studi hanno riferito che si respira un’aria di irritazione fra i responsabili dell’organizzazione, che negano di essere legati a qualunque agenzia di intelligence e lamentano inesattezze sulle ricostruzioni della loro attività”.5 Mentre “invece, al Department of Politics and International Studies (Polis), l’istituto che Regeni frequentava nel campus di Sidwick Site, trapela un misto di dolore e irritazione. Glen Rangwala, un docente esperto di questioni mediorientali, si limita a dire di non voler fare commenti dopo “le inesattezze” – deplora – comparse su alcuni media italiani”.6

Un balletto così vergognoso quello inscenato tra Mukhabarat (la centrale dei servizi segreti egiziani7 ), governo e media italiani da spingere il mondo accademico inglese a formulare un appello “affinché il Parlamento britannico chieda e ottenga sulla morte di Regeni ‘un’indagine indipendente e imparziale’. Quale evidentemente non è ritenuta quella italo-egiziana”.8

Ma cosa spinge ad un comportamento tanto vile il nostro governo e buona parte dei nostri media? Soltanto gli interessi economici oppure anche qualcosa d’altro? “Non fosse altro perché sul tavolo delle relazioni tra i due Paesi, oltre al cruciale ruolo strategico svolto dal Cairo in chiave antiterrorismo, ci sono commesse per 10 miliardi di dollari (7 soltanto dell’Eni per lo sfruttamento del giacimento di gas Zohr, il più grande mai scoperto nel Mediterraneo9 ). Può il destino di un ventottenne “comunista” valere di più di quel fiume di denaro?10 E già soltanto su questo il regime di Al Sisi potrebbe ampiamente scommettere che l’Italia non vorrà fare di questo assassinio una questione capitale.

abu omarMa anche un’altra risposta è arrivata in questi giorni proprio da Strasburgo. La Corte europea dei diritti umani ha infatti condannato l’Italia per il rapimento e la detenzione illegale dell’ex imam Abu Omar, avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003 con la decisiva collaborazione del Sismi, servizio segreto militare. Collaborazione, guarda caso con la CIA e i servizi segreti egiziani. “Tenuto conto delle prove, la Corte ha stabilito che le autorità italiane erano a conoscenza che Abu Omar era stato vittima di un’operazione di ‘extraordinary rendition’ cominciata con il suo rapimento in Italia e continuata con il suo trasferimento all’estero“, afferma la Corte di Strasburgo e prosegue: “L’Italia ha applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio e tale da assicurare che i responsabili per il rapimento, la detenzione illegale e i maltrattamenti ad Abu Omar non dovessero rispondere delle loro azioni”. Concludendo poi che: “nonostante gli sforzi degli inquirenti e giudici italiani, che hanno identificato le persone responsabili e assicurato la loro condanna, questa è rimasta lettera morta a causa del comportamento dell’esecutivo”.11

Ci sono segreti, e la storia d’Italia almeno da piazza Fontana in avanti lo dimostra tristemente, che non possono essere rivelati. A qualsiasi costo. Perché ne nascondono altri. Asservimenti che non possono essere rifiutati, come le rivelazioni degli ultimi giorni, a proposito dei controlli esercitati dai servizi di sicurezza americani sui governi “amici” e anche su quello italiano, ben dimostrano. Al massimo possono produrre un abbaiare di cani, come quando di notte siamo risvegliati da un breve latrato che, una volta interrotto, ci lascia tornare ai nostri sogni.

Le proteste di alcuni membri del governo e le indagini di questi giorni sembrano infatti ricordare l’abbaiar dei cani, spesso inutile e soltanto molesto. Perché mentre la guerra si delinea sempre più come unico orizzonte possibile, gli alleati possono chiedere ed ottenere dal governo italiano tutto ciò che vogliono. E falsificare la verità di un delitto non sarà certo la sola richiesta o la peggiore.

sepoltura 2 Il governo del pifferaio magico ci aveva garantito, qualche giorno fa, che i droni americani della base di Sigonella sarebbero stati usati soltanto per azioni di risposta a pericoli immediati e che, in sé, non avrebbero rappresentato un preludio ad una escalation militare. Peccato che, successivamente, sia stato riunito il Consiglio supremo di Difesa che “ha valutato ‘la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del governo di accordo nazionale sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto’“.12 Mentre è stata rivelata, ad esempio dal quotidiano Le Monde, la presenza di truppe francesi in Libia, così come quella di corpi speciali americani e britannici.

Così sebbene lo si neghi, si è discusso del fatto che “Gli specialisti del Cosubin e del Col Moschin ma anche i parà della Folgore potranno agire grazie alle stesse garanzie funzionali degli 007 che la legge ha concesso loro con il provvedimento varato larga maggioranza proprio in previsione di un possibile intervento in Libia“. Potrebbero essere circa 3000 i soldati italiani “impiegati a protezione dei siti sensibili come gli impianti energetici, i giacimenti, gli oleodotti13 che ancora forniscono l’ENI, mentre “la macchina dei raid è già in azione. C’è una ricognizione aerea continua, condotta dai droni americani e italiani che decollano da Sigonella; da quelli francesi che perlustrano l’area desertica del Fezzan e da quelli britannici che partono da Cipro. Altri velivoli spia, inclusi i nostri Amx schierati a Trapani, scattano foto e monitorano le comunicazioni radio grazie ad apparati a lungo raggio, che gli permettono di restare fuori dallo spazio aereo libico. Una sorveglianza che avrebbe permesso di selezionare circa duecento potenziali bersagli […] Ma nessuno si illude: una manciata di bombardamenti e colpi di mano isolati non riuscirà a fermare la crescita del Califfato. Per sconfiggerlo servono truppe di terra: soldati libici con un sostegno occidentale. E bisogna trovare un governo riconosciuto che legittimi questo “sostegno” […] l’ipotesi che sta rapidamente prendendo piede tra Roma e Washington è quella di abbandonare il parlamento di Tobruk e l’armata del generale Haftar – che stanno soffocando anche il secondo tentativo dell’Onu – per puntare sull’altra compagine, quella di Tripoli. Al momento è una sorta di “ultima minaccia”, per cercare di sbloccare le resistenze di Tobruk, ma potrebbe trasformarsi in fretta in un’opzione concreta. Con un ribaltamento di fronti: mentre a Tripoli il potere è in mano a formazioni islamiche più o meno moderate, il governo rivale aveva ispirazione laica e supporto occidentale. E con la prospettiva di dividere il paese in tre entità principali, che ricalcano l’antica organizzazione amministrativa ottomana: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Una soluzione che potrebbe placare anche le potenze regionali, come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati14.

Un balzo indietro di oltre cento anni senza consultare, nemmeno per conoscenza, i libri di storia […] un “piano B” per la Libia che troppo assomiglia a vecchi progetti coloniali europei”.15 Confermato dallo odierne dichiarazioni del Segretario alla Difesa statunitense Ash Carter che ha dichiarato: “L’Italia, essendo così vicina, ha offerto di prendere la guida in Libia. E noi abbiamo già promesso che li appoggeremo con forza16

Piano, ormai tutt’altro che “segreto”, che va in direzione totalmente contraria al comunicato congiunto pubblicato dopo la riunione ministeriale per la Libia del 13 dicembre 2015 in cui veniva affermato “il nostro pieno appoggio al popolo libico per il mantenimento dell’unità della Libia e delle sue istituzioni che operano per il bene del paese“.

Menzogne, nient’altro che menzogne: la guerra al terrorismo, la difesa della democrazia, la fedeltà e l’affidabilità degli alleati, l’azione umanitaria a favore dei profughi, la collaborazione tra stati e polizie per stabilire la verità sul caso Regeni. Vittima, come noi tutti, i vivi e i morti, di una macchina di oppressione, violenza, sfruttamento e falsificazione che solo la lotta per la liberazione dell’umano che è ancora in noi potrà un giorno ribaltare e distruggere.
migranti


  1. http://www.corriere.it/video-articoli/2016/02/07/egitto-luogo-dove-stato-trovato-corpo-giulio-regeni/5049aef8-cdaa-11e5-9bb8-c57cba20e8ac.shtml?refresh_ce-cp  

  2. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/10/news/regeni_informativa_da_egitto_nessun_elemento_riconduce_a_rapina_-133135353/  

  3. http://www.panorama.it/news/esteri/morte-di-giulio-regeni-legitto-rifiuta-le-accuse/  

  4. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/24/news/regeni_egitto_non_escludiamo_nessuna_pista_-134137778/?ref=HREA-1  

  5. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/16/news/regeni_famiglia_non_era_uomo_dei_servizi_segreti_-133551437/?ref=HREC1-8  

  6. ancora http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/16/news/regeni_famiglia_non_era_uomo_dei_servizi_segreti_-133551437/?ref=HREC1-8  

  7. che si dividono rispettivamente in Gihāz al-Mukhābarāt al-ʿĀmma (Apparato d’informazioni generali), Idārat al-Mukhābarāt al-Harbiyya wa al-Istiṭlāʿ (Direzione dei servizi militari e d’indagine) e Gihāz Mabāḥith Amn al-Dawla (Apparato d’informazioni per la sicurezza dello Stato)  

  8. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/15/news/giulio_tradito_dai_suoi_report_sui_gruppi_di_opposizione_intercettati_dagli_apparati_-133450148/?ref=HREA-1  

  9. con riserve stimate in 850 miliardi di metri cubi di metano  

  10. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/12/news/giulio_i_giorni_della_paura_e_la_verita_del_testimone_preso_da_agenti_in_borghese_proprio_davanti_alla_metro_-133248679/  

  11. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/12/news/giulio_i_giorni_della_paura_e_la_verita_del_testimone_preso_da_agenti_in_borghese_proprio_davanti_alla_metro_-133248679/  

  12. http://www.huffingtonpost.it/2016/02/25/libia-_n_9318500.html?1456431239&utm_hp_ref=italy  

  13. Fiorenzo Sarzanini, Intervento in Libia. Ok a missioni segrete dei nostri corpi speciali, Corriere della sera, Venerdì 26 febbraio 2016  

  14. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/24/news/l_allarme_la_casa_bianca_agiremo_ogni_volta_che_verra_individuata_una_minaccia_diretta_renzi_roma_fara_la_sua_parte_-134100071/  

  15. libia-divisione-in-tre-sconfitta_n_9306502.html  

  16. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/29/news/libia_usa_appoggeremo_con_forza_ruolo_guida_dell_italia_in_intervento_militare_-134513426/?ref=HRER1-1  

]]>
Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica https://www.carmillaonline.com/2015/09/23/chi-ricorda-debra-libanos-come-un-falso-mito-cancella-la-memoria-storica/ Wed, 23 Sep 2015 21:30:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25059 di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità [...]]]> di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità dell’accaduto, prendevano una decisione di fatto non più differibile, visti i cospicui risultati raccolti nel frattempo dalla ricerca storica nonostante i numerosi ostacoli incontrati e, spesso, da quelle stesse istituzioni frapposti, e abbandonavano, quindi, quell’imbarazzante atteggiamento omertoso che aveva contribuito in modo decisivo a censurare e ad allontanare dall’orizzonte della memoria collettiva italiana i crimini coloniali ed in particolare quelli commessi in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Ben tre interpellanze parlamentari e il lungo ed aspro, nonché noto, confronto polemico, consumatosi a mezzo stampa, tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli avevano finalmente acceso e puntato i riflettori di una parte almeno dell’opinione pubblica sul passato coloniale italiano, su pagine di “storia patria” in buona sostanza sconosciute o quasi a molti italiani. Il successore alla Difesa di Domenico Corcione, cioè Beniamino Andreatta, ministro del primo governo Prodi, si trovò ad affrontare nel 1997 lo scandalo dei crimini commessi dai soldati italiani in Somalia durante la missione ONU nota come Restore Hope, a cui l’Italia partecipò con un impiego di uomini, denominato Missione Ibis, inferiore solo a quello statunitense e con cui non si lasciò sfuggire l’occasione né di rimettere piede in una sua ex colonia del Corno d’Africa, né di macchiarsi di violenze e crimini contro civili, come già accaduto in epoca fascista.

2Si potrebbe pertanto supporre che a partire da queste vicende della metà dagli anni ’90, ricostruite ed analizzate nel dettaglio anche da Simone Belladonna nel suo libro, sia andato via via aumentando l’interesse per l’imperialismo italiano e soprattutto per gli aspetti peggiori e criminali di esso (o “più criminali”, si potrebbe dire, essendo un’aggressione coloniale già in quanto tale definibile, oggi, come un crimine contro l’umanità, se si applica l’art.7 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998) e che all’infaticabile e meritorio lavoro di ricerca storica di Angelo Del Boca innanzi tutto, che già a metà degli anni ’60 faceva uscire il suo primo libro sulla guerra d’Abissinia, e di Giorgio Rochat in secondo luogo, si siano aggiunti gli sforzi di altri storici e ricercatori. Ed in parte è quanto è accaduto, poiché al maggior africanista italiano e all’esperto studioso di storia militare sopra citati si sono affiancati, sia prima sia dopo le ammissioni governative del 1996, altri storici che con i loro lavori hanno di molto ampliato ed arricchito, per quantità e qualità, la conoscenza sia della guerra d’Etiopia e dell’uso di gas e armi chimiche in particolare, sia, più in generale, di altre pagine cupe della nostra storia recente: l’imperialismo italiano nel suo complesso e i crimini dalle nostre truppe commessi non solo in Abissinia, ma anche in Libia, oppure nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale; i campi di internamento per civili su suolo italiano o nelle zone di occupazione militare, ecc. Per citarne alcuni, con la consapevolezza di, involontariamente, dimenticarne altri, si possono ricordare i lavori di: A. Aruffo, L. Borgomaneri, D. Bidussa, A. Burgio, I. Campbell, S. Capogreco, M. Dominioni, F. Focardi, N. Labanca, G. Oliva, D. Rodogno, E. Salerno ed anche S. Belladonna, il cui libro da poco dato alle stampe costituisce l’occasione per la stesura di queste riflessioni.

3Ma se dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori, degli storici e dei lettori interessati al passato coloniale italiano otto-novecentesco ci spostiamo in direzione dell’opinione pubblica, da intendersi in questo caso come consapevolezza e conoscenza diffuse dell’imperialismo italiano, delle sue guerre e delle sue politiche di repressione e occupazione, allora lo scenario cambia bruscamente e si delinea un quadro di sostanziale ignoranza, formatasi nel corso degli ultimi settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla perdita dell’impero; insipienza che va addirittura oltre l’amnesia o il ricordo sfocato e impreciso di un passato che inevitabilmente si allontana sempre più, perché consiste in una sostanziale non conoscenza di quel passato, cioè di un pezzo della nostra storia lungo una sessantina d’anni, quelli che separano l’Italia di Depretis da quella di Mussolini e del secondo conflitto mondiale, in quanto fu a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla guerra d’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero del 1935/’36 che l’Italia interpretò a più riprese una politica imperialistica di conquista coloniale dell’agognato “posto al sole” in terra d’Africa.
E non si trattò, come la vulgata più diffusa vorrebbe, di un colonialismo minore, più proclamato che praticato, ovvero, addirittura, bonario e benevolo, nonché – come ogni colonialismo occidentale ha sempre preteso di essere – civilizzatore. Per ambizioni e finalità, non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere “tardivo” fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale, un po’ come accadde all’imperialismo tedesco, bismarckiano prima e guglielmino poi. Prese le mosse, la conquista italiana di un “posto al sole”, negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12 e, quindi, nella sua fase “liberale” e non ancora fascista, si sviluppò negli stessi decenni in cui, per fare qualche esempio, la Francia si impossessò di Tunisia, Indocina, Marocco e l’Inghilterra prese il controllo di Suez e dell’Egitto, tasselli essenziali e strategici dei rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di ben minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto a rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo tra le potenze del tempo, l’Italia intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali: si tratta della già citata guerra di Libia e, ovviamente, di quella d’Etiopia. Ma il numero delle guerre potrebbe raddoppiare se si considera che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia – già fascista – fu impegnata nella riconquista di Tripolitania e Cirenaica e che quella del 1935/’36 fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896, che costò più vittime di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La mussoliniana aggressione dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra africana o coloniale, tanto che, come ricorda Belladonna (S. Belladonna, cit, p.19) sulla scorta delle analisi di G. Rochat, si deve parlare di una guerra “nazionale”, non solo coloniale. «Guerra coloniale voleva dire un corpo di spedizione piccolo con molte truppe africane, obiettivi limitati e tempi lunghi, poca pubblicità e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica (come la riconquista della Libia). Mandare centinaia di migliaia di soldati invece voleva dire toccare direttamente tutti gli ambienti: ogni rione, ogni parrocchia, ogni villaggio avrebbe avuto i suoi “ragazzi di leva”. Voleva dire mobilitare la grande macchina propagandistica del regime, tutti i giornali, le scuole, i parroci, le industrie. Appunto una guerra “nazionale” […]» (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp.25-26).

E pertanto non solo per aspirazioni ed obiettivi politici o per mezzi ed uomini impiegati quello italiano non fu un colonialismo “minore”, ma anche per coinvolgimento, via propagandistica, dell’opinione pubblica e dell’intero paese. Se il caso etiope, sopra ricordato da Rochat, è il più evidente, poiché architettato e messo in opera dalla macchina della propaganda di un regime totalitario, per sua natura avvezzo al modellamento coercitivo del pensare collettivo e pubblico, non meno importante fu il caso della sbornia nazional-colonialistica degli anni attorno alla guerra di Libia, che forgiò i capisaldi dell’ideologia nazionalistica che poi traslò nell’interventismo del 1914/’15, e di seguito nel fascismo e che ripropose, sostanzialmente immutate, le sue parole d’ordine anche nel 1935/’36.

Sulla scorta di queste, seppur sbrigative, considerazioni, verrebbe da chiedersi perché allora quello italiano sia dagli italiani stessi considerato un colonialismo di rango inferiore e magari un po’ “straccione” o perché, peggio ancora, esso sia così poco ricordato e conosciuto.
Se poi si apre il capitolo dei crimini coloniali italiani le cose peggiorano ulteriormente e una spessa coltre di nubi sopraggiunge ed avvolgendoli nasconde i fatti più incresciosi e i comportamenti più violenti e criminali di cui si sono rese responsabili le forze armate italiane nelle colonie. E’ come se un fitto ed impenetrabile muro di nebbia impedisse alla coscienza collettiva degli italiani di vedere il proprio passato e le permettesse di vivere pacificata nella serena ignoranza della propria storia rimossa. A tal proposito basta gettare uno sguardo all’editoria scolastica, per rendersi conto come dei crimini di guerra italiani, dei gas in Etiopia, e prima ancora dei campi di concentramento libici in cui fu deportato il 50% della popolazione della Cirenaica, della brutale repressione contro la resistenza prima libica poi abissina, dei campi di internamento nei Balcani aggrediti e occupati insieme all’alleato nazista, ecc quasi non ci sia traccia. Pochi i manuali di storia che dedicano più di qualche riga o paragrafo a questi argomenti e quasi mai entrando nelle questioni con sufficiente profondità di prospettiva e accuratezza di analisi.

4E le cose non migliorano se passiamo dalla manualistica scolastica ad altri mezzi e prodotti culturali e di informazione: giornali, televisione, produzione documentaristica e cinematografica.
E allora gli studenti e gli italiani in generale conoscono qualcosa – sempre troppo poco, certo, ma comunque qualcosa – di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, ma ignorano per lo più la strage di Debrà Libanòs, in cui la furia di fascisti e soldati italiani si scatenò in una rappresaglia che fu una vera e propria mattanza, per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il generale Graziani, viceré di Etiopia dopo il rientro di Badoglio a Roma a guerra conclusa: prima venne la popolazione civile di Addis Abeba, che subì un pogrom squadrista che durò tre giorni; poi i notabili dell’etnia amhara, fucilati o deportati nei campi di concentramento, in particolare a Nocra in Eritrea e a Danane in Somalia; poi i cantastorie e gli indovini, accusati di propagare notizie anti italiane di villaggio in villaggio, che vennero arrestati e uccisi ed infine i monaci, i docenti di teologia, gli studenti del convento copto di Debrà Libanòs, considerato il centro nevralgico della resistenza abissina ed anche il luogo in cui gli attentatori fuggiaschi avrebbero trovato rifugio ed aiuto. [Per i fatti di Debrà Libanòs si veda, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005]

Se ci limitiamo anche solo all’episodio culminante del monastero, il numero delle vittime va da un minimo di 1400 circa a un massimo di 2000 circa, eliminate secondo modalità e logiche che non presentano sostanziali differenze da quelle delle cosiddette “eliminazioni caotiche” degli Einsatzkommandos nazisti sul fronte orientale e contro gli ebrei sovietici, o da quelle delle rappresaglie stragiste dagli stessi tedeschi utilizzate per reprimere la resistenza partigiana nell’Europa occupata ed anche in Italia. Questa la sequenza delle fasi principali dello sterminio: controllo militare del luogo, rastrellamento e concentramento delle vittime, trasporto con camion delle stesse in un luogo prescelto per l’esecuzione di massa, la piana di Laga Wolde non lontana dal monastero, uccisione tramite fucilazione e ammassamento dei cadaveri in fosse comuni. E non solo il modus operandi, ma anche la logica e le finalità che mossero i fascisti e i soldati italiani in Etiopia non differivano da quelle che avrebbero mosso i nazisti qualche anno dopo: repressione vendicativa della popolazione civile rea di collaborazione con i resistenti, rottura dei collegamenti tra partigiani e civili, governo e controllo del territorio tramite il terrore, dimostrazione di forza brutale.
E ancora, risulta difficile rilevare essenziali differenze tra gli ordini impartiti, tra gli altri, dal colonnello Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine e le decisioni prese dal governatore del Regno del Montenegro, generale Alessandro Pirzio Biroli, che nel giugno del 1943, come rappresaglia per l’uccisione presso Podgorica da parte dei partigiani di 9 italiani del 383° reggimento di fanteria, fece fucilare 180 ostaggi, secondo una proporzione di 1 a 20, il doppio di quella applicata a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo1944. Ma di queste “Fosse Ardeatine jugoslave”, che ci vedono coinvolti in qualità di carnefici e non di vittime, non c’è memoria. [Per la repressione italiana della resistenza partigiana in Jugoslavia si vedano, tra gli altri: A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003]

E, per aggiungere un altro ed ultimo esempio tra i tanti possibili di questa sperequazione della memoria storica, è grosso modo noto a tutti gli italiani, anche grazie alla ricca ed ottima produzione cinematografica americana, l’uso massiccio da parte statunitense di defoglianti durante la guerra del Vietnam, ma pochi in Italia sanno che una trentina di anni prima il Regio Esercito italiano avvelenò la popolazione, gli animali e la vegetazione dell’Etiopia con tonnellate di ordigni caricati con iprite o arsina.

5Ma quali sono allora le cause e i motivi di questa sperequazione della memoria, come poco sopra è stata definita, che porta la coscienza collettiva di un popolo, quello italiano, a conoscere e commemorare, come è doveroso e fondamentale, i crimini di guerra subiti, ma ad allontanare dal piano del proprio orizzonte visivo quelli compiuti?
Che cosa, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, ha impedito e continua ad impedirci di impostare un rapporto con il nostro passato recente che sulla base di una verità storica seriamente ricostruita permetta di fare di quel passato stesso, per quanto scomodo o spiacevole possa essere, un tassello, un mattone per costruire un’identità storica collettiva consapevole e critica?
La ricerca storica procede nel suo lavoro di scavo e di ricostruzione, di indagine, di spiegazione e comprensione, ma non riesce a fare breccia nella coscienza collettiva, non è capace di sedimentarsi in essa perché si scontra con l’ostruzionismo pervicace di un mito collettivo, di una leggenda a cui, consciamente o inconsciamente, teniamo più che ad ogni altra immagine di noi stessi: la leggenda del “buon italiano”, degli “italiani, brava gente”. [Si vedano a tal riguardo, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit.; S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004]

Si tratta di una rappresentazione collettiva ampiamente auto assolutoria e rassicurante secondo la quale l’italiano – per indole, carattere o storia – non sarebbe capace di atti efferati, di crudeltà e crimini e, pertanto, anche in tempo di guerra, sarebbe mite, bonario e tollerante, sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, se non addirittura sentimentale e comunque sempre umano. Uno stereotipo in piena regola, costruito su misura come un abito sartoriale, tagliato e cucito da mani esperte per le migliori occasioni e per le foto in posa.
Un’autorappresentazione fantasiosa, tanto deformata quanto a sua volta deformante – di cui in seguito verranno indicate per sommi capi genesi e ragioni – che dal dopoguerra è andata progressivamente radicandosi, innervandosi per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.
Da simili premesse, quali conseguenze? Numerose e tutte venefiche, in quanto travisano la realtà e producono, nell’ordine, falsità, oblio ed ignoranza. E pertanto il colonialismo italiano sarebbe stato un “colonialismo umanitario”, che costruiva ponti, pozzi e strade, quasi più missionario che conquistatore, che esportava – non violava – civiltà. Proprio come vuole il più inattaccabile degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice, del “fardello dell’uomo bianco”, che nelle sue varianti ha resistito, e resiste, ben oltre l’età storica del colonialismo. Sullo sfondo di una visione così edulcorata della presenza italiana in Africa non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. E il paradigma di pensiero si sposta facilmente dall’Africa all’Europa, ai Balcani o al fronte russo, dove, ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o addirittura – è il caso dell’ARMIR – responsabilità e ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da “invasori” diventano “vittime”. [Si veda a tal proposito Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009]

Storture e travisamenti diventano riduzionismo e sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, l’indole italiana, senza che di questa edulcorata lettura del fenomeno si possano trovare riscontri, dati e fatti comprovanti e a fronte, invece, delle Leggi razziali e antisemite del ’38 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936 e 1937, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma anche dimostrano, scavalcando e confutando facilmente le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che immancabilmente lo vorrebbero spiegare come diretta emanazione e imposizione di Berlino su Roma, che esso conobbe invece una genesi e sviluppi propri e complessivamente autonomi dall’antisemitismo tedesco e collocabili per l’appunto in terra africana. [Si consulti E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003]

E allora anche il ricorso ai campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di esercitare il potere, reprimere e combattere i nemici, nonostante la costruzione di campi, per condizioni di internamento terribili, in Libia prima ancora che sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione in Jugoslavia. Il lager diventa quindi una esclusiva dei nazisti, che, per bilanciamento complementare del mito del “buon italiano”, assurgono a mito negativo, quello del “tedesco malvagio”, per indole o per tratto etnico-nazionale. [Si consultino, tra gli altri, E. Collotti, L. Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra, Ediesse, Roma, 1996; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari, 2013]

6-1Di fronte ad un così ben articolato armamentario di distorsioni e banalizzazioni storiche, i tentativi non tanto di fare luce sui crimini coloniali italiani, da questo punto di vista un cospicuo lavoro è già stato e continua ad essere svolto, ma piuttosto quelli di divulgare i risultati della ricerca, affinché possano divenire parte essenziale di una autocoscienza storica nazionale consapevole e critica, sembrano quasi sempre destinati alla sconfitta. Tale è la resistenza opposta dal meccanismo di rimozione censoria del “buon italiano”. Ovviamente quello italiano non è l’unico caso di memoria storica collettiva di problematica incubazione e di distorta e gravemente parziale formazione: ne sono un esempio le memorie conflittuali che in Spagna si confrontano davanti al passato franchista e ai crimini dai nazionalisti compiuti, e poi negati, durante la guerra civile ed immediatamente dopo, in un paese in cui la fine del regime si è associata alla continuità istituzionale per mezzo della monarchia. Ma il confronto più significativo va fatto con la Germania, che, pur avendo dovuto fare i conti subito dopo la fine della guerra con il macigno dell’allora recente passato nazista e dei suoi crimini contro l’umanità, aveva mantenuto e coltivato per decenni un proprio mito, anch’esso auto assolutorio e rassicurante, quello del “blasone immacolato” della Wehrmacht. A partire dall’immediato dopoguerra era stata ripetutamente proposta la teoria secondo cui l’esercito si sarebbe comportato onorevolmente e sarebbe uscito “pulito” dal secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dal nazismo. Esso non avrebbe fatto altro che adempiere al proprio dovere e non si sarebbe sostanzialmente macchiato di crimini o di atrocità, che, pertanto, sarebbero stati compiuti solo da SS e Waffen-SS, dalla Gestapo e dal partito. In questo modo un’istituzione forte dello stato – l’esercito – e il grosso della popolazione tedesca coscritta e inviata sui fronti a combattere erano privi di colpe particolari e venivano sottratti al sospetto di aver commesso atti efferati, mentre l’esclusiva dell’orrore veniva attribuita al regime, al partito e ai corpi di polizia da esso dipendenti. [Tra gli altri, si consultino F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli editore, Roma, 1997]

Fu una mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dal Hamburger Institut für Sozialforschung tra il 1995 e il 1999 (Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944 – Guerra di sterminio. Crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944) e poi dal 2001 al 2004 (Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941–1944 – I crimini della Wehrmacht. Le dimensioni della guerra di sterminio 1941-1944) a creare scompiglio e a mettere in discussione l’assunto di fondo della leggenda del “buon soldato tedesco”. La prima mostra attraversò 33 città in Germania ed Austria per un totale di 800.000 visitatori e la seconda fu portata in 11 città tedesche, a Vienna e in Lussemburgo e raccolse 420.000 visitatori. [Sito ufficiale della mostra]
Le dimensioni e il successo di pubblico della Wehrmachtsausstellung e il dibattito e le polemiche che ne scaturirono evidenziano come fosse difficile per molti tedeschi misurarsi con un’immagine di sé diversa da quella fino a quel momento coltivata, come fosse impegnativo dover rinunciare all’idea di un esercito complessivamente estraneo alle inumane pratiche del regime e del partito e dover ampliare considerevolmente l’area del coinvolgimento attivo nei crimini del nazionalsocialismo fino a farvi rientrare, appunto, l’esercito nel suo complesso. Coinvolgimento generalizzato del popolo, dello stato, dell’intera società, degli apparati economici nella costruzione e realizzazione del regime e nelle sue imprese, dalla guerra alla Shoah, che la ricerca storica aveva già ampiamente appurato e dimostrato, sempre più abbandonando letture “hitleriste” e, dagli anni Settanta in poi, virando verso approcci di tipo strutturalista, ma nell’opinione pubblica il mito della “Wehrmacht pulita” aveva resistito ben più a lungo.

Anche in Italia, il mito degli “italiani, brava gente” trovò terreno fertile in cui attecchire nell’immediato dopoguerra, perché lo vollero un po’ tutti. Agli ex fascisti, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, risultava utile far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dal regime negli anni precedenti su argomenti quali, per esempio, i gas in Etiopia di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed auto assolutorio. Tutto questo però, si badi bene, al costo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’Uomo Nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi” – secondo la definizione che ne avevano dato i libici – non certo l’immagine auto denigratoria e derisoria confezionata ad hoc di un soldato italiano forse un po’ bislacco e pasticcione, magari non efficiente come altri nel combattere, ma che compensa tali deficienze marziali con cameratismo, umanità e compassione anche verso il nemico.
Ma interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che si proponeva di conseguire il fine della riconciliazione popolare, della armonizzazione nazionale, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura ed evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione “vittimistica”, quindi assolutoria, di un popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo, corpo estraneo o parentesi malata, per dirla con Croce, nella storia del paese.
Ma anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda. Attraverso di essa era possibile sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre antifasciste l’aveva combattuta, il Pci appunto, contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce. Si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare alla necessaria epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime. Il tutto culminò, come è noto, nell’amnistia da Togliatti stesso voluta per il conseguimento – per dirla con le parole del segretario del Pci – “della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”.
E diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la “cortina di ferro” e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito, con i quali aveva scatenato e combattuto la seconda guerra mondiale e così non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia, dalla Grecia o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati e le pene inflitte da tribunali italiani furono poche, lievi e incommensurabilmente inadeguate ai crimini perpetrati.

Ma se tutto questo spiega il passato, perché ancora oggi, quando ci separano dalla guerra di Etiopia ottant’anni esatti, quando le ragioni del dopoguerra sono ormai soltanto analisi storica, parlare dei gas in Abissinia e di altre atrocità continua a suscitare come automatica reazione la riproposizione della formula magica del “buon italiano”?
Possibile che quelle motivazioni, così strettamente legate al periodo fascista e coloniale, alla sua fine e alla problematica costruzione di una nuova identità nazionale, in un paese prima aggressore e poi aggredito, prima nemico degli Alleati poi in parte cobelligerante, spaccato in due territorialmente e politicamente, attraversato dalla lotta partigiana e dalla guerra civile, tessera fondamentale nel nuovo mosaico europeo della guerra fredda, ecc, possibile – ci si chiedeva – che ancora oggi mantengano un senso?
O dobbiamo forse, più semplicemente, rassegnarci ad ammettere che, al di là di tutte le considerazioni di ordine storico e politico sopra abbozzate ed indipendentemente da esse, a noi italiani piacciono questi panni? Ci sentiamo bene in essi? Ci rassicura l’immagine un po’ da commedia e un po’ da tragedia di un italiano sempre succube degli eventi della Grande Storia che lo sovrastano, ma capace anche di ricostruirsi un proprio piccolo mondo privato, nella famiglia, nel borgo o quartiere, con gli amici o i commilitoni, dove è in grado di conservare e coltivare quel lato umano che lo caratterizzerebbe comunque e sempre e che gli consente, quando poi dalla Grande Storia è chiamato alla guerra, di combattere con onore, ma mai con brutalità e talvolta di fraternizzare pure col nemico e di fare all’amore con le donne dei paesi invasi, mai, ovviamente, di violentarle?
Qualunque sia la spiegazione, è certo che tale falsa e sciocca, menzognera e meschina autorappresentazione collettiva è così radicata in noi che riemerge ad ogni occasione buona e contribuisce, oggi come in passato, a mantenere umido e pronto il terreno per la semina dei più nefasti revisionismi e giustificazionismi, atti a riabilitare un passato vergognoso attraverso il potente fertilizzante dell’ignoranza della storia.
_________________________________________________

Immagini, in ordine dall’alto al basso:
– manifesto della R.S.I, Vogliamo essere comandati dai negri? Giammai! Italia, 1944
– copertina di A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-41, Feltrinelli, Milano, I edizione, 1965.
– copertina di S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015
Gruppo di militari italiani intorno a una bomba C.500.T caricata a iprite
– cartolina coloniale, Armamenti, 1935-‘36
La raccolta dei cadaveri della rappresaglia fascista, Addis Abeba, febbraio 1937

]]>