Trieste – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 18 Sep 2025 07:38:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Diabolik – Ginko all’attacco!”: il corpo invisibile e sovversivo https://www.carmillaonline.com/2022/12/11/diabolik-ginko-allattacco-il-corpo-invisibile-e-sovversivo/ Sun, 11 Dec 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75146 di Paolo Lago

Diabolik – Ginko all’attacco! (2022) dei Manetti Bros, secondo capitolo della trilogia dedicata dai registi al personaggio di Diabolik, inizia con un’incursione del ‘sovvertitore’ protagonista nella sala del museo nazionale di Ghenf per rubare la preziosissima corona di Armen. Dopo aver messo fuori uso i sistemi di sicurezza della stanza blindata, Diabolik riesce a penetrare all’interno di essa per impadronirsi del gioiello. Il museo del film, che nella realtà è il santuario mariano di Trieste, appare come un geometrico blocco di cemento che si erge al di sopra della città, [...]]]> di Paolo Lago

Diabolik – Ginko all’attacco! (2022) dei Manetti Bros, secondo capitolo della trilogia dedicata dai registi al personaggio di Diabolik, inizia con un’incursione del ‘sovvertitore’ protagonista nella sala del museo nazionale di Ghenf per rubare la preziosissima corona di Armen. Dopo aver messo fuori uso i sistemi di sicurezza della stanza blindata, Diabolik riesce a penetrare all’interno di essa per impadronirsi del gioiello. Il museo del film, che nella realtà è il santuario mariano di Trieste, appare come un geometrico blocco di cemento che si erge al di sopra della città, emblema di un potere granitico ed opprimente. Ma Diabolik riesce a penetrare all’interno del suo “sancta sanctorum” (trattandosi, nella realtà, di un santuario, l’espressione può risultare appropriata). Una volta che il sistema d’allarme si è messo in funzione, i guardiani, accorsi, si trovano paradossalmente chiusi al di fuori della stanza in cui è custodita la corona. Padrone dello spazio più intimo e segreto del potere, laddove esso custodisce i suoi tesori più preziosi, è adesso Diabolik. In un rovesciamento di situazioni, i guardiani sono chiusi fuori e dovranno usare la dinamite per sfondare la stanza nella quale si trova il misterioso ladro. Ma quest’ultimo appartiene inesorabilmente al ‘fuori’ e, non appena le guardie riescono a penetrare nella stanza, Diabolik sta già volteggiando col suo deltaplano sulla città notturna, lontano dalle rigide geometrie del palazzo che, nelle inquadrature notturne dei Manetti Bros finisce per assomigliare quasi ai palazzi della Los Angeles del futuro di Blade Runner (1982) di Ridley Scott.

Al potere rigido e granitico, simboleggiato dal geometrico edificio, Diabolik (ben interpretato da Giacomo Gianniotti, che subentra a Luca Marinelli) oppone il proprio corpo leggero ed etereo, nero ed oscuro, divenuto quasi invisibile nella notte. Rispetto al precedente film dei due registi, adesso, è il corpo del fuorilegge ad assumere peculiari valenze sovversive e non lo spazio (cfr. quanto ho scritto in Diabolik, un’estetica dello spazio sovversiva, su “Carmilla”). In questo secondo capitolo della progettata trilogia, ispirato all’albo n. 16 dell’aprile 1964, sceneggiato da Angela e Luciana Giussani e disegnato da Enzo Facciolo, l’ispettore Ginko (sempre un bravissimo Valerio Mastandrea che, come il personaggio dei fumetti, fuma la pipa e si sposta in Citroën DS), grazie ad un trucco, riesce a violare gli spazi segreti di Diabolik sottoponendo alle dinamiche del controllo tutti gli oggetti in essi presenti. Così, la stessa auto del fuorilegge, la famosa Jaguar, che in precedenza era sempre stata il mezzo imprendibile e misterioso delle sue fughe, finisce, intrappolata e bloccata, sotto lo sguardo dell’ispettore e degli agenti (così come anche tutti i suoi strumenti e i suoi trucchi) mentre la refurtiva accumulata in anni di rapine viene sottoposta ad un’opera di controllo e di catalogazione. Il misterioso tunnel mimetizzato nella montagna e i suoi cunicoli serpentini sono adesso solcati dalle strutture poliziesche del potere che prendono possesso di tutti quei luoghi che prima erano stati il cuore pulsante della sovversione. Ginko e i suoi uomini riescono a penetrare perfino nel luogo dove il fuorilegge costruisce le sue maschere, una vecchia fabbrica abbandonata alla periferia di Clerville. Quest’ultima è uno spazio del ‘fuori’ che lambisce i rigidi spazi cittadini, incapsulati nella geometricità dello stesso ordine borghese che domina anche le fattezze del museo di Ghenf nelle sequenze iniziali. La misteriosa fucina delle mascherature di Diabolik non si trova in lontane periferie ma si materializza appena girato l’angolo di una razionale e ordinata strada cittadina. È al di là dell’ordine ma lo lambisce continuamente, lo sfiora, gli vive accanto di nascosto.

Se i luoghi della sovversione di Diabolik, adesso, vengono occupati e presidiati dal potere, al fuorilegge non rimane perciò che cercare un altro spazio sovversivo nel suo stesso corpo. È quest’ultimo a trasformarsi nell’estremo rifugio resistente da opporre a un potere che lo sta braccando. Non è un caso, infatti, che sulla copertina dell’albo n. 16 al quale si ispira questo nuovo film dei Manetti Bros compaia in primo piano il corpo di Diabolik che cerca di liberarsi dalle catene con le quali è legato, mentre dietro di lui vediamo Eva Kant che sembra quasi guardargli le spalle. Quando le “eterotopie” sovversive del fuorilegge vengono scoperte e catalogate, geometrizzate, imprigionate nelle canalizzazioni controllate dal potere poliziesco, è allora il corpo che si trasforma in luogo, che si trasforma in spazio perché esso, come osserva Michel Foucault, è “il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente faccio corpo”1. E se, apparentemente, il corpo, trasformatosi in luogo, potrebbe sembrare il contrario di un’utopia, esso, invece, è in tutto e per tutto “un corpo utopico”: “No, veramente non c’è bisogno né di magia né di fiaba, non c’è bisogno né di un’anima né di una morte perché io sia insieme opaco e trasparente, visibile, invisibile, vita e cosa: per essere utopia basta essere un corpo”2. Ed ecco che all’interno della finzione favolistica e fumettistica creata dai registi, il corpo di Diabolik diventa visibile e invisibile, contemporaneamente luogo e non luogo, utopia che si oppone al grigiore stanziale degli apparati di potere.

Privato dei suoi luoghi sovversivi, Diabolik percorre nella fuga spazi aperti nei boschi e sul ciglio di torrenti impetuosi, fra rocce e pietre: allora, il suo corpo utopico (l’utopia di chi mai vuole arrendersi al potere) sembra fondersi quasi con la natura ostile che lo circonda. Mentre lui ed Eva Kant (sempre interpretata dalla brava Miriam Leone) si muovono agili nelle impervie spazialità del ‘fuori’, l’ispettore Ginko e i suoi agenti sono irrigiditi e impediti. La stessa Eva Kant, per sfuggire alla cattura, si getta nel fiume impetuoso riuscendo quasi a fondersi invisibilmente con lo spazio naturale. I due fuorilegge, infatti, appartengono alla dimensione del ‘fuori’ opponendosi, in tal modo, alle strutture del potere che sopravvivono solamente nel ‘dentro’. Ginko e i suoi uomini – per utilizzare dei termini di Deleuze e Guattari – scovando e occupando i covi di Diabolik, hanno “riterritorializzato” gli spazi sovversivi. Come osserva David Lapoujade, infatti, i due studiosi, in Mille Piani, descrivono un processo secondo il quale “gli Stati imperiali si sedentarizzano su una Terra. Deterritorializzano i territori primitivi per formare l’unità di una terra”3. L’apparato di potere, come gli stati imperiali, si impadronisce del territorio nomadico trasformandolo in spazio sottoposto al controllo. Quest’ultimo, per utilizzare un’espressione dello stesso Lapoujade applicato alla società contemporanea, diviene “un mondo senza fuori4.

D’altra parte, il corpo di Diabolik è invisibile e sovversivo anche in virtù della sua abilissima capacità di mascherarsi, di assumere le più disparate identità. In questo secondo episodio della trilogia, il personaggio sembra prediligere il mascheramento da poliziotto che egli riesce ad attuare nonostante sia stato ‘occupato’ dalla stessa polizia il luogo segreto nel quale costruiva le sue maschere. La dimensione ‘fumettistica’ dell’irreale (e iperreale, si potrebbe aggiungere, nel suo ricalcare filologicamente l’Italia degli anni Settanta) mondo di Clerville crea un vero “paese di fiaba” “in cui si è visibili quando si vuole, invisibili quando lo si desidera”5. È assumendo le sembianze di un poliziotto che Diabolik riuscirà a sabotare il piano apparentemente perfetto dell’ispettore Ginko (ma sulla trama non vorremmo davvero rivelare di più). Il fuorilegge è perciò invisibile mentre è visibile il tutore di quella stessa legge, colui che ne è dentro quanto Diabolik ne è fuori. Come scrive Andrew Culp, uno studioso che rilegge ‘in nero’ il pensiero di Deleuze, citando una frase da Cinema 2. L’immagine tempo, “usciremo dalla logica produttivista dell’accumulazione solo quando si sarà giunti «infine alla scomparsa del corpo visibile».”6. Il “corpo visibile” del fuorilegge è scomparso; visibile è invece il corpo ‘fiabesco’ del tutore della legge, un simulacro che agisce contro quella stessa legge. Perché, in definitiva, sotto la mascheratura c’è sempre il corpo sovversivo di Diabolik che trama contro il potere per mandarlo in tilt, per sottrarre le sue ricchezze accumulate da una logica produttivista, basata su un lavoro incessante, e trasferirle nel suo covo, in uno spazio notturno dove quelle stesse ricchezze servono per soddisfare la logica dell’ozio e del piacere fine a sé stesso.

Il corpo invisibile di Diabolik era entrato in azione anche in precedenza, nella prima parte del film quando, sempre con una mascheratura da poliziotto, aveva attaccato l’elegante teatro, spazio dello spettacolo borghese per eccellenza. In esso, ad assistere al “Balletto smeraldo”, era riunita tutta la ‘società bene’, gli esponenti del potere, mummificati ed estasiati di fronte all’esposizione delle ricchezze accumulate da quello stesso potere che grava sulla ‘fiabesca’ Clerville come sulle grigie strutture dell’Italia degli anni Settanta (nonché di quella di oggi). Diabolik, invisibile e sovversivo, appare diretto verso il ‘fuori’, al di là della dimensione spettacolare, poliziesca, catalogante, geometrica ed inquadrata degli apparati di potere di una società basata sull’accumulo di merci. Al di là e contro qualsiasi inganno che quel potere può ordire contro di lui. Sfugge a controlli e catture, a trappole e inganni, perché il suo corpo possiede già in sé prima quelle stesse trappole e quegli stessi inganni; perché è un corpo invisibile e sovversivo.


  1. M. Foucault, Il corpo utopico, in Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 31. 

  2. Ivi, p. 38. 

  3. D. Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 224. 

  4. Ivi, p. 259 

  5. M. Foucault, Il corpo utopico, cit., p. 33. 

  6. A. Culp, Dark Deleuze, a cura di F. Di Maio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 83. 

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Treni d’estate https://www.carmillaonline.com/2022/08/01/treni-destate/ Mon, 01 Aug 2022 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73200 di Paolo Lago

Ho sempre amato i treni fermi nelle stazioni, d’estate. Soprattutto i treni a lunga percorrenza, quegli Intercity bianchi un po’ vecchi, col sole disegnato sopra. Ho sempre pensato che se ne andassero in luoghi caldi, più caldi ancora di dove stavo io, posti dove il sole picchiava come un forsennato. Verso sud, verso meridioni infuocati per andare a fermarsi in altre stazioncine di paese, magari in altre ere, e addormentarsi sotto pensiline di legno e intravedere scaglie di mare, tremule, vicine, troppo vicine alla via ferrata, lembi di mare che [...]]]> di Paolo Lago

Ho sempre amato i treni fermi nelle stazioni, d’estate. Soprattutto i treni a lunga percorrenza, quegli Intercity bianchi un po’ vecchi, col sole disegnato sopra. Ho sempre pensato che se ne andassero in luoghi caldi, più caldi ancora di dove stavo io, posti dove il sole picchiava come un forsennato. Verso sud, verso meridioni infuocati per andare a fermarsi in altre stazioncine di paese, magari in altre ere, e addormentarsi sotto pensiline di legno e intravedere scaglie di mare, tremule, vicine, troppo vicine alla via ferrata, lembi di mare che forse si possono quasi toccare dal finestrino. Poi quei treni, chissà, avrebbero continuato la loro corsa dentro ventri di traghetto, pance di balene di ferro che li avrebbero portati su isole antiche. E allora fra fumi di zone industriali, un caldo soffocante di motori e di macchine, si imbarcheranno per ritrovarsi in sponde di lievi sogni, fra templi di dei, e marinai scuri che bevono birre ghiacciate li lasceranno uscire da quelle pance di ferro. E viaggeranno ancora, fra cespugli e mirti divini, fra sterpaglie al sole, campagne dorate dove forse il gattopardesco don Fabrizio Salina passò con la sua carrozza impolverata. Il tetto di quei treni sarà allora mitragliato dal sole, quello stesso disegnato sulle loro fiancate, e si fermeranno di nuovo, in altri capolinea, in altre stazioni perdute, per essere guardati da altri vagabondi di sogni. E poi faranno ritorno nella stazione della mia città, e ancora li guarderò e mi racconteranno di queste terre lontane, d’olivi e d’olivastri, di vini dai forti sapori, di signori e di strenui lavoratori, di pomeriggi perduti forse nel dolore, di mari omerici dal colore di vino.

Ma i treni fermi nelle stazioni mi raccontano che se ne possono andare da tutte le parti, in tutte le direzioni, non solo in quel Sud evocato dal sole che è dipinto sulle loro bianche carrozze. Se ne possono andare a Est, verso lembi di territori magici e onirici. L’est, dove i nostri amori sognati da fanciulli si perdettero fra giochi di legno e pupazzi, fra automi gentili e foreste infinite e castelli e stagioni passate a contemplare autunni rossastri. Non potrò mai dimenticare l’Orient Express che vidi una volta fermo alla stazione di Venezia. Nero e funereo, elegante e terribile, un gentile mostro addormentato che avrebbe raggiunto orienti incantati. Chissà, forse verso Istanbul e mercati orientali, verso città incantate da canti al tramonto, da torri arabe, da mercanti in abiti lunghi che percorrono in sandali empori infiniti, sulle strade di porti, là dove si perde la terra dentro al mare fino in fondo al niente e poi ritorna terra e non è più Occidente. Ma se ne possono andare anche verso altri orienti, quelli di orrori e vampiri, verso transilvanie immaginarie piene di leggende e di mostri. E allora quei treni eleganti possono essere quelli che accolsero Jonathan Harker, il razionalista inglese che non sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Seduto in quella elegante carrozza, accarezzato da nuovi tramonti fra le montagne che correvano verso di lui come cavalli impazziti, annotava sul suo diario usi, costumi e tetre leggende di lande inesplorate, verso locande ignote ove osti con barbe fluenti lo avrebbero accolto, offrendo pietanze piccanti e invernali, e vini robusti perduti in inverni che non hanno più nome. E in quel treno forse Harker sognava il vampiro, un elegante signore intrappolato fra coltri e specchi e quadri silenti di volti mostruosi, di mostri eleganti, antenati iridescenti e spettrali nelle notti di sangue. E fra i velluti di quelle eleganti poltrone del treno che correva a est, forse lo stesso vampiro si era seduto, abbandonato al viaggio devastatore. Ma i treni che vanno a est mi evocano anche i venti di Trieste: uscire dal treno e ritrovarsi nella stazione solcata da bore incredibili, venti di tempesta che ti lambiscono mentre cerchi, afferrandoti, un caffè dove forse un letterato passò, fra poltrone eleganti e poesie che risuonano come voci afone in quei saloni.

E se ne possono andare anche a Nord. E allora quei treni fermi nel caldo della mia stazione, piano piano, si trasformano, mutano aspetto, diventano qualcos’altro. Valicano pianure e attraversano montagne e magari si ritrovano in una Germania piovosa, che si vede scorrere dal finestrino bagnato e percorrono luoghi dal passato mostruoso e alla mente, forse, ritorna quel treno d’orrore diretto verso Cassandra Crossing. Ma anche altri orrori più nostri, più italici, treni sventrati da bombe, e persone uccise da bombe nelle stazioni fra i Settanta e gli Ottanta e, prima ancora, devastati dalla guerra, come in quell’estate violenta del ’43 narrata da Valerio Zurlini, in cui Jean-Louis Trintignant e Eleonora Rossi Drago si salvarono a stento da un treno bombardato nella pianura padana devastata dai nazisti. Solcano quindi territori dalla lingua grinzosa e geometrica, con parole che si intravedono stanche da cuccette nel buio, mentre altissimi inservienti si aggirano come ombre nel corridoio portando tazze di un caffè lunghissimo e imbevibile. A nord, là dove le nuvole coprono il sole e ti lasciano incantato fra aurati frammenti d’oricalchi, là dove i tetti delle case sono fatte di stucchi d’oro, rosa e blu, in città fra canali lambiti da tetri porti. Là ove vagabondi marini intrappolati in dolori se ne vanno vagando, silenti nelle brume delle loro città, fra porti sconosciuti e grigi cantieri. E di nuovo, forse, anche là a nord i treni entrano in traghetti più grandi, con chiglie forse rompighiaccio per i mesi invernali e navigano verso città turrite e colorate, fra i loro canali, fra i loro fantasmi. E se scendi da quei treni senti aria di spettri, un’aria fredda che ti sbalza in un’altra dimensione, molto, molto diversa dalla tua stazioncina immersa nel caldo soffocante. E il treno si è trasformato in un mostro gentile: da solare trabiccolo dipinto di bianco è diventato un convoglio bluastro, con le carrozze dipinte di scuri colori e con le scritte in lingue sconosciute. Un tetro treno scuro e grigio, sui cui vetri appoggiare una stupefatta mano, imbambolata di fronte a paesaggi stranieri e ordigni di morte, come nel Silenzio di Bergman. E fra cieli blu ti ritrovi, ad attraversare vicoli stretti fra muri dipinti, fra lampade antiche, fra fantasmi di pianto innamorati di crudeli vampire del Nord. E una lacrima, forse, riesci a catturarla anche tu, mentre silente cammini su cinquecenteschi tappeti di pietra.

E poi c’è l’Ovest, ah, verso quegli aperti venti oceanici, verso quei malinconici canti di emigranti perduti. Forse quel treno fermo, allora, si potrebbe trasformare in un treno di notte per Lisbona, un treno che attraversa notturni Pirenei, covi di banditi e di arcane bestie inani, per arrivare a una Spagna solare, a una “concha” sul mare e da lì proseguire in una notte infinita, verso l’Oceano, valicando le sierre e le piane roventi, fra occhi di lupi stanchi che rincorrono un treno estivo mutatosi in stella, macchina abnorme dal cervello d’aria condizionata. E allora ti ritrovi a Oporto, dopo una notte passata a sedere vicino a un ragazzo silenzioso, che mai disse parola, con un orologio dei colori della squadra della sua città, Oporto appunto. E il primo incontro con quel magico Portogallo di poeti è lui, il ragazzo silente con l’orologio della sua squadra del cuore. Ah, e poi l’Oceano, i ponti, le cantine, il vino che sale misterioso dai canali, i sentori di città vecchia, di malandrini alle finestre che ti guardano bieco, di donne di malaffare dalle pelli sudate, scosciate sui balconcini mentre uomini dagli sguardi aguzzi maneggiano arditi pugnali agli angoli dei vicoli. Ah, e poi Lisbona e il canto di Pessoa, quel desiderio di essere tutti e tutto, di essere strada che piega verso il golfo silente, verso il Douro delle anime perse. Lo stesso viaggio che percorse quel Felix Krull inventato da Thomas Mann, diretto verso sognanti piroscafi inesistenti, mai presi, mai partiti alla volta di nuovi mondi azzurri come gli occhi di un amore appena intravisto.

Così tante storie mi ha raccontato quel treno fermo nella calura estiva, nella stazione della mia città! Fermo, come morto, su un binario morto ma presto vivo, pronto a nuove metamorfosi, a audaci trasformazioni verso i quattro angoli di mondo. Quante storie mi ha raccontato! Mi ha salvato mentre camminavo silente, mi ha aiutato a riprendermi quei sogni lasciati sul marciapiede. E quanti sogni mi racconterai, treno fermo d’estate, quando nella notte ti ascolterò correre in un suono smorzato e lontano, meraviglioso e indistinto come il dormiveglia. Ma poi il tuo fischio divoratore di terre mi racconterà un’altra storia e, treno notturno, scenderemo nei gorghi della memoria.

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“Diabolik”, un’estetica dello spazio sovversiva https://www.carmillaonline.com/2021/12/27/diabolik-unestetica-dello-spazio-sovversiva/ Mon, 27 Dec 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69800 di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione [...]]]> di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione cinematografica tratta dal fumetto di Angela e Luciana Giussani, diretta da Mario Bava (1968), iniziava con l’inquadratura di due palazzoni cubici che rappresentavano una banca. L’estetica e la rappresentazione dello spazio, nel film dei Manetti Bros., appare sapientemente giocata su un contrasto ed un’alternanza di spazi stretti, angusti e ‘tunnellizzati’ e di spazi caratterizzati invece da ariosità ed aperture. Se l’eroe, già nelle tavole dei fumetti delle sorelle Giussani, si muoveva in luoghi angusti, stretti e cunicolari, il film sembra giocare su questa opposizione in modo nuovo ed inedito.

Lo sfondo dell’immaginaria città di Clerville si trasforma nella greve rappresentazione iconica e monumentale dell’oppressione di un potere rigido e geometrico. L’auto di Diabolik, nelle prime sequenze, percorre uno spazio cunicolare e ‘tunnellizzato’, serrato da case grigie e tetre che sembrano quasi appartenere ad una distopica società del futuro gravata da una pervasiva e crudele dittatura. Possono venire in mente certe sequenze de I cannibali (1970) di Liliana Cavani, in cui vediamo le strade di una grigia Milano del futuro ricoperte di cadaveri, silenziose e allucinate. La Clerville di Diabolik è ricostruita fra Bologna e Milano (nella fattispecie, le immagini dell’inseguimento iniziale sono state girate a Bologna, fra gruppi di palazzoni anni Cinquanta e Sessanta1) e, soprattutto nei momenti in cui assistiamo agli inseguimenti notturni, appare come una città abbandonata, segnata quasi da una catastrofe post-apocalittica. E allora si potrebbe pensare anche agli sfondi urbani romani ‘svuotati’ e catatonici (soprattutto un raggelato Eur) che incorniciano gli spostamenti dell’unico sopravvissuto a una terribile epidemia che ha trasformato tutti gli altri esseri umani in vampiri, in L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona.

L’estetica dello spazio che sta alla base del film dei Manetti Bros. inquadra i palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta (secondo una didascalia che compare all’inizio del film ci troviamo a Clerville, alla fine degli anni Sessanta) come se fossero dei vuoti monumenti alla solitudine e alla desolazione, come in certi momenti di L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Se in quest’ultimo film i palazzoni del boom economico italiano rappresentavano l’emblema di un potere che, in nome dell’edilizia selvaggia, cominciava a devastare gli spazi verdi delle città, nel film dei Manetti Bros. i palazzi e l’architettura rappresentano i monumentali fasti di un grigio e oscuro potere, incarnato dal viceministro Giorgio Caron, ricattatore e corrotto. D’altra parte, bisogna anche notare che gli sfondi della Clerville anni Sessanta (che allude chiaramente a spazi urbani italiani dell’epoca) sono stati ricostruiti in modo pressoché perfetto, così da essere paradossalmente quasi più ‘credibili’ di quelli del precedente Diabolik, girato proprio negli anni Sessanta.

I palazzi del potere, come anche l’albergo di lusso nel quale alloggia Eva Kant, sono tante scatole nelle quali si riproduce l’oscuro e vuoto discorso del potere, dove gli stessi rappresentanti di quel potere  si muovono discutendo di futilità mondane, come nei film dell’ultimo Buñuel. Dopo l’inseguimento iniziale la scena si sposta proprio negli ambienti dell’alta borghesia e della nobiltà di Clerville, in una sontuosa località montana ricostruita a Courmayeur: gli interni sono quelli in cui si ripete inesausta la parola contemporaneamente lugubre e canzonatoria della classe sociale che detiene il potere. Nei discorsi che i principali esponenti di questa classe rivolgono a Eva Kant, appena arrivata col suo prezioso diamante rosa, la figura di Diabolik appare come un personaggio che si situa al di fuori della società, il pericoloso bandito e criminale sovvertitore dell’ordine costituito. Egli è un vero e proprio personaggio “del fuori”, che si situa al di là del potere che cataloga e che divide, che crea le griglie urbane della moralità e della legge. Il criminale mascherato, in quanto simbolo del lato oscuro della società, del lato che sta in ombra, sembra appartenere a quella «esperienza del fuori» messa in luce da Michel Foucault, quando il pensiero «diviene pensiero del limite, della soggettività spezzata, della trasgressione; con Klossowski, e l’esperienza del doppio, dell’esteriorità dei simulacri, della moltiplicazione teatrale e demente dell’io»2. Diabolik è l’alfiere della soggettività spezzata, facitore dell’esteriorità dei simulacri, creatore di inquietanti maschere di gomma che riproducono fedelmente i volti di quegli stessi personaggi del potere, a cominciare dal suo acerrimo nemico, l’ispettore Ginko. Diabolik giunge dal ‘fuori’ di quegli interni borghesi, dediti al potere e ai suoi fasti, trama e agisce nella notte e nell’oscurità, da un limite oscuro difficilmente raggiungibile se non si è trasgressori totali. Egli si muove in quello spazio ‘tunnellizzato’, inscatolato, segnato dalla greve materia architettonica del potere solamente per distruggerlo ed annientarlo. Non è un caso, infatti, che Diabolik riesca a sfuggire all’inseguimento iniziale di Ginko uscendo dallo spazio-tunnel fra i palazzi, imboccando una strada periferica piena di curve. Alla linea geometrica e rigida della strada cittadina, egli oppone la linea ondulata e serpentina della strada periferica aperta, dietro la quale si staglia un panorama notturno e nella quale, letteralmente, ‘sparisce’. Infatti, per rifarsi alle teorie sullo spazio di Bertrand Westphal, si può affermare che «la trasgressione interviene quando si disegna un’alternativa alla linea diritta del tempo, alle figure troppo geometriche dello spazio civilizzato»3.

Diabolik è abitatore del ‘fuori’ anche nel senso che appartiene alla terra, sbuca misteriosamente da cunicoli nel giardino dell’elegante villa che usa come copertura. Con la sua Jaguar nera si insinua in reconditi cunicoli scavati nella roccia, lungo un’anonima strada di periferia, per mezzo di marchingegni che mirano ad inceppare l’onnipresente, lugubre marchingegno del potere. Egli appartiene al sottosuolo, non allo spazio elegante e luminoso della villa che, col falso nome di Walter Dorian, abita insieme alla fidanzata. Il film gioca abilmente anche sul contrasto tra Diabolik mascherato e Diabolik senza maschera, come se l’uno fosse il doppio speculare dell’altro. Se il primo appare soprattutto di notte ed è legato ad ambienti cunicolari e ‘inscatolanti’, il secondo appartiene alla luce del giorno e ad ambienti aperti e luminosi. La figura di Walter Dorian, senza maschera, si staglia sulla grande vetrata della propria villa mentre parla con la fidanzata Elisabeth oppure quando, a Ghenf, prepara il suo piano insieme a Eva, avendo alle spalle una vetrata che si apre sulla libera spazialità del mare. Diabolik mascherato, invece, è l’abitatore della notte e del buio, dei suoi misteriosi rifugi o dei cunicoli sotterranei della città di Ghenf, del caveau blindato della banca la cui rappresentazione spaziale appare sullo schermo sotto forma di ricostruzione grafica.

Ed è alla luce del sole, in uno di quegli interni sfarzosi del potere – il lussuosissimo albergo – che il personaggio subisce il fascino perverso della bellissima Eva Kant, che porta «un nome che è un omaggio al grande filosofo amato da Angela Giussani»4. Il film si ispira infatti, per la maggior parte, all’episodio L’arresto di Diabolik, in cui Eva Kant compare per la prima volta come una donna dal passato misterioso, vedova di un Lord Anthony Kant ucciso da una pantera. Come nel fumetto, anche nel film fra Diabolik e Eva Kant «si stabilisce una storia d’amore basata sulla simmetria totale e sulla condivisione piena di ogni esperienza»5. Essi si configurano come una coppia eroicizzata al negativo e «il loro combattere la legge proviene da una forza arcaica, brutale e animalesca, del tutto antisociale e distruttiva»6. Di fronte alla bellissima Eva, Diabolik non esita a togliersi la maschera del malcapitato cameriere del quale aveva assunto l’identità e che, nell’albergo, avrebbe dovuto servire esclusivamente la ricchissima donna. Nello spazio luminoso della stanza d’albergo il personaggio appare perciò senza maschera e, invece della sua tuta nera, indossa un completo bianco da cameriere.

Gli spazi del potere, nel film, sono quelli del denaro e della politica. Le banche e il ministero sono i luoghi che Diabolik cerca di sabotare per mezzo delle sue potenzialità arcaiche e distruttive, legate al campo semantico della notte. La banca è lo spazio eterotopico perfetto da sabotare, da distruggere, da mandare in tilt secondo precisi calcoli millimetrici. Tutti gli strumenti che la società, guidata da quell’oscuro potere, utilizza per catalogare, separare, discriminare le ricchezze delle classi sociali benestanti devono essere mandati in frantumi. La banca di Ghenf è il vuoto involucro di quel potere, lo spazio-scatola che deve essere scardinato e devastato. Nello stesso modo, devono essere sabotati gli spazi della politica: gli interni del ministero, austeri e monumentali, nascondono un ufficio in cui si accumulano le scartoffie burocratiche di un potere che si tiene in piedi solamente grazie all’inganno e alla corruzione. Ma c’è un altro spazio che deve cadere sotto la distruttiva e notturna vendetta di Diabolik, ed è quello della prigione, del carcere, di una spazialità imprigionante fra le cui oscure mura si eleva la lama del supplizio della ghigliottina. Per combattere le dinamiche imprigionanti del «sorvegliare e punire», il personaggio non utilizzerà la sua versatile abilità fisica ma una forma di catatonia che manderà in tilt la logica del potere. ‘Zombificato’ e quasi ‘mummificato’ in un macabro doppio, Diabolik riuscirà ad evadere dal carcere assestando un duro colpo a quel geometrico e corrotto potere. Le rigide geometrie della prigione e i suoi cunicoli, infatti, assomigliano troppo alla rigidità dei fastosi palazzi della politica e alla cubica perfezione del caveau della banca: prigione, ministero e banca, infatti, non rappresentano altro che le escrescenze materiche di un potere che grava sulla quotidianità dell’immaginaria Clerville ma anche su quella di molti altri luoghi reali.

Dopo spazi imprigionanti e cunicolari, la fine del film sembra offrire nuove aperture: nel simmetrico faccia a faccia fra Ginko e Diabolik (interpretati, rispettivamente, da due bravi Valerio Mastandrea e Luca Marinelli) con lo sfondo ‘aperto’ del golfo notturno e illuminato di Ghenf (ricostruita a Trieste) ma soprattutto nelle sequenze finali sulla barca che vede Diabolik e Eva (interpretata da Miriam Leone) in viaggio verso nuove avventure, avvolti dalla libera spazialità del mare. La luminosità del sole offre di nuovo un Diabolik senza maschera, emerso da un’infernale lotta con un potere meschino e corrotto. Al suo fianco, adesso, c’è Eva Kant e quello spostamento nomadico nella vastità del mare verso nuovi orizzonti probabilmente sta a indicare che la loro lotta trasgressiva e demonica non avrà mai fine.


  1. Cfr. E. Giampaoli, Attenti, c’è Diabolik in via Marconi, su “bologna.repubblica.it”, 8 ottobre 2019. 

  2. M. Foucault, Il pensiero del fuori, trad. it. SE, Milano, 1998, p. 20. 

  3. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando, Roma, 2009, p. 65. 

  4. M. Fusillo, Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Il Mulino, Bologna, 2021, p. 44. 

  5. Ibid. 

  6. Ivi, p. 48. 

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Dare a Cesare quel che è di Cesare (e ai sindacati confederali quel che spetta loro) https://www.carmillaonline.com/2021/10/21/dare-a-cesare-quel-che-e-di-cesare-e-ai-sindacati-confederali-cio-che-spetta-loro/ Thu, 21 Oct 2021 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68768 di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, [...]]]> di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.

Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.

Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con le sue “opportunità”, o spacciate come tali ai giovani e alle donne soprattutto, appare come una sorta di novello Piano Marshall, cui è stato paragonato più volte. Un’occasione da non perdere sia per gli imprenditori che per i lavoratori e le lavoratrici e i disoccupati. Discorso che, basandosi sulla promessa della crescita del PIL, dovrebbe annullare qualsiasi altra reazione alle sue reali e differenti conseguenze per i primi e per i secondi.

Come ha scritto l’economista, saggista ed editorialista di Limes, Geminello Alvi: «La percezione del mondo in forma di Pil serve non alla conoscenza, ma alla retorica degli stati. […] Il Pil e i suoi abusi sono il più perfetto esempio […] di omologare chiunque, equalizzandolo alle proprie manie di benessere e di potenza […] Il Pil è un indice della potenza statale, e di una qualche vera efficienza solo in tempo di guerra.»1

Per questo motivo l’idea di reddito netto, che era nata nel Seicento proprio per misurare ed accrescere tale potenza, «evolvette a prodotto o reddito nazionale moderno durante la seconda guerra mondiale, per opera di mediocri burocrati ai quali neppure Keynes credeva[…] E cosa si propone oggi nel tanto dissertare sul Pil? Di renderlo ancora più comprensivo, della felicità e di indici ecologici alla moda. Quando si dovrebbe invece lavorare per restringerlo, indi per limitare l’economicizzazione omologante.»2

Il riferimento a Keynes non è casuale poiché proprio il teorico dell’intervento dello Stato nell’economia finì con l’essere il vero, anche se spesso indiretto, ispiratore delle politiche che finirono col caratterizzare le scelte delle maggiori economie uscite devastate dagli effetti della Grande Crisi o Grande Depressione.
Nella competizione allora in corso per uscire da quegli effetti e per la ridistribuzione di quote importanti del mercato e della ricchezza mondiale, sempre secondo Alvi, sulla base degli studi di Costantino Bresciani Turroni3:

il keynesismo hitleriano funzionò pure meglio del New Deal. Nel 1938 gli Stati Uniti producevano un reddito nazionale del 23% inferiore a quello del 1929, e la Germania hitleriana già nel 1938 aveva raggiunto un reddito superiore del 5% a quello del 1929. La svolta tedesca era certo dipesa dal riarmo che provocò inflazione ma anche da spese pubbliche non troppo diverse da quelle dei borgomastri che negli anni venti indebitarono la Germania: autostrade e stadi. Per non dire degli aumenti salariali4.

Il fatto che la ripresa definitiva dalla Grande Depressione fosse poi giunta soltanto con la guerra (mondiale) non può costituire altro che un corollario delle scelte basate su un incremento gigantesco delle spese statali destinate a “grandi opere” (tra le quali occorre inserire il “riarmo” delle maggiori potenze dell’epoca), maggiori consumi (e quindi maggior produzione di merci) e controllo e uso indiscriminato di risorse umane, naturali ed energetiche.

Lo spesso declamato, ancor oggi da certa sinistra, keynesismo necessita di governi autoritari, oppure per usare un eufemismo “fortemente centralizzati”, spesso imposti attraverso la forza, il ricatto o l’inganno (e spesso da tutti e tre questi elementi insieme), in un contesto in cui: «Fare della statistica il criterio della verità è l’ipocrisia indispensabile di qualunque democrazia, la quale favorisce l’omologazione capitalistica.»5
E se qualcuno si stupisse del sentire parlare di democrazia in un contesto in cui si è parlato anche di nazismo, è sempre utile ricordare il fatto che Hitler andò al potere come cancelliere, nel gennaio del 1933, dopo aver vinto le elezioni del 6 novembre 1932 con il 33,1% dei voti (pur perdendo circa il 4% dei voti rispetto a quelli ottenuti nel luglio dello stesso anno) ed essersi alleato in parlamento col Partito Popolare Nazionale Tedesco (8,5% dei voti e 52 seggi).

In democrazia vincono i numeri delle maggioranze, vere o artefatte che siano, e da lì sembra derivare anche l’alto valore assegnato alle scienze statistiche come strumenti di “verità assolute” (Pil, numero dei vaccinati sulla popolazione, etc. solo per fare degli esempi). Pertanto oggi, anche se spesso il tema è rimosso ed ignorato, a farla ancora da padrone è lo schema keynesiano dell’intervento pubblico in economia, che si tratti di TAV, ponti sullo stretto, riarmo dell’esercito, dell’aviazione o della marina militare, reddito di cittadinanza a 5 (o meno) stelle o altro ancora.

Subissati di cifre e da una girandola di informazioni sulla ripresa o meno dei consumi, sull’aumento o diminuzione dei posti di lavoro, tutte basate su dati spuri e nudi che non tengono conto della qualità dei beni necessari ed effettivamente consumati o dei lavori riproposti a salario ribassato e orario inalterato, precipitiamo in un mondo indifferenziato di cittadini consumatori e utenti di servizi (sempre più spesso privati, ma finanziati col pubblico denaro come accade soprattutto per la sanità) in cui il problema delle “tasse” sembra sopravanzare quelli della “classe”6.

La democrazia rappresentativa, ovvero quella che ci ostiniamo a chiamare “borghese”, si nutre innanzitutto di cifre e se i numeri non ci sono, all’occorrenza, come nel caso dell’attuale governo o di quello Monti, si trovano. Gli utili idioti dei partiti, di ogni cifra e colore, disposti a tutto pur di restare a galla sugli scranni parlamentari, nonostante la presenza di quasi un 60% di cittadini non votanti, delusi, scazzati e arrabbiati, si troveranno sempre.
Talmente idioti da non rendersi conto di come questa ripetuta, ormai, tradizione di presidenti del consiglio non eletti, ma nominati, tutto sommato risalente in Italia fino al primo governo Mussolini, non contribuisce ad altro che a privarli ulteriormente di qualsiasi autorità e funzione reale.

Così, mentre si urla al lupo fascista e si convocano grandi manifestazioni di pensionati antifascisti (Che è…sarà mica che poi vengono quelli e ce decurtano la pensione e i diritti acquisiti. Daje, non pensamoce, cantamo n’altra volta “Bella ciao”…), il settore sindacale che conta ormai il più alto numero di iscritti ma di peso specifico politico ed economico pari a zero, l’autoritarismo si rafforza all’ombra della vulgata democratica e delle coperture finanziarie europee o straniere. Perché, lo si dica con chiarezza almeno per una volta, Draghi sembra ripetere i fasti di un altro “grande statista italiano”: Alcide De Gasperi.

Quello eletto con l’appoggio del Vaticano e del Piano Marshall, cui guarda caso oggi spesso si paragona il Recovery Fund europeo, l’attuale con alle spalle i voti delle burocrazie finanziarie europee e i fondi da distribuire con il PNRR. Entrambi autorizzati ad esercitare la loro autorità e portare a termine un disegno politico in nome di interessi altri da quelli della maggioranza dei lavoratori e dei cittadini meno abbienti. Evviva la ricostruzione! Evviva tutte le ricostruzioni post-belliche e post-pandemiche, sempre a vantaggio di pochi ma ripagate dal sudore, dal sangue (che diciamo a proposito del vertiginoso e vergognoso aumento dei morti sul lavoro?) e dai sacrifici di tutti gli altri, soprattutto se proletari, giovani disoccupati e donne.

Pil docet et impera. Tanto che anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, appena celebrato dai media nazionali con lo stesso clamore riservato ai vincitori di medaglie d’oro nelle competizioni olimpiche o paralimpiche, è stato bruscamente messo da parte e dimenticato appena ha osato affermare, criticando in parlamento questa misura delle prestazioni economiche di un paese, che incremento del Pil e lotta contro le cause del cambiamento climatico non possono essere compatibili7. Evidentemente per i soloni della politica e dell’informazione un fisico non può vantare competenze nel campo di scienze economiche sempre più attente al paranormale finanziario che alla quotidianità della vita della specie.

Il sindacato invece può farlo, eccome: basta che dica sempre sì e sia più realista del re nel promuovere la partecipazione dei lavoratori agli interessi dell’incremento del Pil e del capitale privato (spacciato per “nazionale”). Soprattutto se nel farlo invoca, come a Trieste ed ovunque vi sia anche soltanto il fantasma di una lotta, l’intervento delle forze dell’ordine contro i facinorosi, quasi sempre dipinti a prescindere come violenti e fascisti.

Per quanto riguarda la generazione cui appartiene chi scrive, si può tranquillamente affermare che diede una sonora ed inequivocabile risposta a tale scelta, sia a Roma in occasione della cacciata di Luciano Lama, gran promotore delle politiche dei sacrifici e della pace sociale insieme al suo sindacato, dall’Università che sulle scale delle Facoltà umanistiche di Torino, pochi giorni dopo i fatti romani. Era il 1977 e tanto basti per restare dell’idea che proprio ciò è quanto compete ai sindacati confederali, adusi a sedersi al tavolo delle trattative ancor prima di dichiarare scioperi o manifestazioni, per definire in partenza con i funzionari del capitale e dello Stato ciò che sia lecito richiedere ed attendersi.

Atteggiamento sindacal-confederale che, insieme all’opportunismo e alla vaghezza delle proposte politiche della sinistra istituzionale e limitrofa, ha finito col determinare la sconfitta del movimento operaio italiano. Nella riclassificazione del Pil italiano in profitti, rendite e salari, tentata da Geminello Alvi, lo stesso ha scritto:

Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito nazionale netto; nel 1972 era il 62,9%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del ’51. dell’Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia del dettaglio, non troppo distante da quel 46,6% che era la povera quota del 1881. Siamo regrediti, e intanto però mi arresterei dal dire altro. Perché so che al nostro lettore verrebbe da eccepire: “ Bella forza, ma di quanto nel 2004bpartite Iva e indipendenti sono più numerosi di trentacinque anni fa? “. Lecita obiezione, che ha tuttavia pronta replica statistica: nel 1971 c’erano 2,13 lavoratori dipendenti per ogni indipendente, nel 2004 sono 2,15. Il che significa che i dipendenti sono addirittura cresciuti in proporzione rispetto a ventiquattro anni prima. Si può dire: la quota dei lavoratori dipendenti è regredita alle cifre di un’Italia della memoria, quella prima del boom8.

Dall’epoca dei dati appena ora citati molta acqua sporca e alluvionale è corsa sotto i ponti: crisi del 2008, ristrutturazioni aziendali, tagli alla spesa pubblica, riduzione dei lavoratori dipendenti o garantiti, trasferimento delle imprese all’estero o in mani straniere, crescita dei settori maggiormente caratterizzati dal lavoro precario e non garantito, automazione sempre più diffusa anche nel settore dei servizi, aumento della povertà assoluta, concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ristretto di mani. Eppure, come al solito, eppure…

Quei dati ci servono, forse ancora di più adesso, per mostrare come il taglio del personale nei settori produttivi, la riduzione dei salari e, per converso, una falsa redistribuzione delle ricchezze basata su “redditi di cittadinanza” ridicoli, se non offensivi per chi ne avesse realmente bisogno, fanno parte di quello stesso processo e stanno alla base delle attuali promesse di ripresa legate al PNRR.

Piano che, nonostante le sonore sberle pur affibbiate al ceto medio e ai lavoratori autonomi, continuerà a poggiare principalmente sull’incremento dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e/o a basso reddito. La legge dell’estrazione del plusvalore non è cambiata mai, nonostante tutti gli artifici messi in campo per negarla o giustificarla, in nome dell’interesse nazionale, agli occhi di chi la subisce quotidianamente.

Nonostante le fasulle promesse del segretario della UIL di portare a “zero” le morti sul lavoro e la solita, retorica, citazione delle stesse ad opera di Landini durante la manifestazione romana oppure del presidente Mattarella e del presidente del consiglio Draghi, è inevitabile che gli omicidi sul posti di lavoro siano destinati ad aumentare. Motivo per cui, lasciatelo dire per una volta a chi scrive, sia la richiesta del Green Pass per accedere al posto di lavoro che la “fiera” opposizione alla stessa, in termini di vite dei lavoratori e di qualità del lavoro, non cambieranno nulla. Assolutamente nulla, anche quando si parla della difesa di “posti di lavoro”, in un senso o nell’altro.
La lotta di classe per la liberazione della specie dal giogo capitalistico si giocherà su altri fronti e in altre forme, al di fuori delle logiche confederali, dell’antifascismo istituzionale e delle logiche liberali e individualistiche.
Speriamo, prima o poi, di ritrovarle e, soprattutto, di saperle riconoscere.

Dixi et salvavi animam meam.


  1. Geminello Alvi, Il capitalsimo. Verso l’ideale cinese, Marsilio Editori, Venezia 2011, pp. 31-32  

  2. G. Alvi, op. cit., pp. 32- 40  

  3. Costantino Bresciani Turroni, Osservazioni sulla teoria del moltiplicatore, «Rivista bancaria», 1939, 8, pp. 693-714  

  4. G. Alvi, op. cit., p. 93  

  5. Ivi, pp. 70-71  

  6. Si vedano qui un interessante articolo uscito su Codice Rosso, oltre all’intervento pubblicato su Carmilla sabato 16 ottobre da Jack Orlando  

  7. Si veda qui  

  8. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite, Mondadori, Milano 2006, p. 9  

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Sull’epidemia delle emergenze / 6: Crisi pandemica, neo-togliattismo e iniziativa di classe. Una questione aperta. https://www.carmillaonline.com/2020/05/14/sullepidemia-delle-emergenze-6-crisi-pandemica-neo-togliattismo-e-iniziativa-di-classe-una-questione-aperta/ Wed, 13 May 2020 22:01:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59959 di Maurice Chevalier, Sandro Moiso e Jack Orlando

“Se l’aquila ferita vola rasoterra non vuol dire che per questo sia diventata una gallina.” (Sergio Spazzali)

“Non basta lavarsi le mani e mettersi una mascherina, dobbiamo costruire altri mondi” (testo dal Chiapas ribelle)

Mentre nel secondo giorno della “fase 2” si sono contati 5 morti sul lavoro … Mentre già 37000 sono i contagiati sul posto di lavoro, di cui 9000 nelle ultime due settimane… Mentre i padroni chiedono di rilanciare la ripresa delle grandi opere e dei cantieri superando i vari ‘cavilli’ [...]]]> di Maurice Chevalier, Sandro Moiso e Jack Orlando

“Se l’aquila ferita vola rasoterra non vuol dire che per questo sia diventata una gallina.”
(Sergio Spazzali)

“Non basta lavarsi le mani e mettersi una mascherina, dobbiamo costruire altri mondi”
(testo dal Chiapas ribelle)

Mentre nel secondo giorno della “fase 2” si sono contati 5 morti sul lavoro …
Mentre già 37000 sono i contagiati sul posto di lavoro, di cui 9000 nelle ultime due settimane…
Mentre i padroni chiedono di rilanciare la ripresa delle grandi opere e dei cantieri superando i vari ‘cavilli’ riguardo alla sicurezza sul lavoro e i vincoli ambientali…

Mentre, col cinismo classico del capitalismo, Trump dichiara che non si può fermare l’estrazione di plusvalore e quindi bisogna ‘riaprire tutto’ anche se ciò comporta più vittime…
Mentre la pandemia continua ad estendersi nel mondo e il disastro sanitario continua con le stragi nelle Residenze Sanitarie per Anziani, in Italia come nei principali paesi europei…

Mentre la recessione galoppa e la crisi sociale si delinea come sempre più devastante1, come dimostrano già i 36 milioni di nuovi disoccupati nei soli Stati Uniti…
Mentre la guerra civile mondiale si sviluppa in conflitti tra forze reazionarie e forze rivoluzionarie, in conflitti interreligiosi, in conflitti tra gli Stati e all’interno degli Stati fra le differenti fazioni della borghesia…
Mentre l’ONU dichiara che in conseguenza del coronavirus si prospettano carestie di proporzioni bibliche…

Mentre i soldi promessi dal governo Conte per cassa integrazione, bonus ecc. lasciano milioni di persone in attesa e si allungano progressivamente le file davanti agli sportelli bancari, piuttosto restii a praticare i “prestiti” e le casse integrazione in deroga2, e ai banchi dei pegni…
Mentre nelle banlieues parigine continuano le mobilitazioni, il 1 maggio i lavoratori e le le loro organizzazioni sono scesi in piazza in molte parti del mondo, come anche diversi movimenti, a Francoforte, in Turchia, in Cile e in Grecia (con la grande manifestazione indetta dal sindacato PAME), e in Bolivia esplodono ‘petardi’ in tutto il paese…

Mentre accade tutto questo, cosa succede in Italia, nella casa dei movimenti?

L’avvio della fase 2 proposta dal Governo Conte, che estende l’obbligo al lavoro di fabbrica ma con divieto di fare assemblee nei luoghi di lavoro, riporta tutte e tutti al fronte con la quasi certezza di ulteriori morti e feriti3.
Confindustria e padronato, come hanno fatto durante tutto il periodo precedente alla fase 2 con la strage di lavoratori, soprattutto della sanità, in Lombardia, impongono la ‘riapertura totale’; da un lato battono cassa al governo, dall’altro richiedono di mettere in discussione le rimanenti conquiste dei lavoratori del secolo scorso. Bonomi, presidente neo-eletto di Confindustria, chiede infatti che : «Il Governo agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero giorni di lavoro settimanale e di settimane in questo 2020, da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali» chiedendo di fatto, che i contratti nazionali vengano sospesi e si proceda ad una rinegoziazione totale dei diritti su base aziendale.

I sindacati confederali, mentre vengono vietate le assemblee e le iniziative nei luoghi di lavoro, rilanciano ancora una volta la concertazione e per bocca di Maurizio Landini, dichiarano «come associazioni sindacali, non da soli ma assieme ad associazioni e governo, abbiamo fatto cose importanti» e ‘gongolano’ per aver ottenuto i tavoli di lavoro programmatici.
Governo, Confidustria e Sindacati Confederali rilanciano ancora una volta “l’unità nazionale – tutti uniti contro il covid”, poi, sconfitto il virus, si potrà tornare a manifestare ‘in modo democratico e consociativo’. Un autentico trionfo dei principi della Carta del Lavoro fascista e del suo collaborazionismo di fondo, coperto mediaticamente dal canto immarcescibile e interclassista di “Bella ciao”.

Sul fronte dei movimenti e dei gruppi antagonisti, invece, sta prevalendo una sorta di neo-togliattismo, una politica dei due tempi potremmo dire, ovvero: oggi ci occupiamo di assistere i settori più poveri ed emarginati, chi ha bisogno della spesa ecc., rischiando spesso di diventare gli scaricatori dei camion con gli aiuti alimentari della Caritas, di Emergency o di altre organizzazioni cattoliche, valdesi oppure laiche …. e domani, quando ci sarà permesso di uscire di casa, quando sarà tolto il divieto di assembramento, ripartiremo con le lotte e “allora sì che ci organizzeremo per fargliela pagare”.

Oggi sembra che si possa agire solo, o quasi, sul piano delle videoconferenze o scioperi e cortei virtuali. Questa posizione comprende varie sfumature, da chi fa circolare petizioni ai parlamentari, finanche al Papa, per i detenuti e i migranti, a chi richiede a Confindustria e più in generale ai padroni di garantire la sicurezza in fabbrica; da chi si stupisce della violenza di carabinieri, guardia di finanza e polizia a chi richiede redditi ‘di sostegno’ allo stato: tutte iniziative condivisibili, ma nulle politicamente per chi abbia individuato nell’attuale devastante e vampiresco modo di produzione l’origine di una ‘catastrofe’ la cui accelerazione non permette più di coltivare l’illusione riformistica.

Tralasciando le iniziative di denuncia sardinesche, che come la propaganda del regime del ventennio, non sanno far altro che ripetere ossessivamente: «tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»4, va subito annotato come troppo spesso compagni e compagne, i movimenti, pur nelle rispettive differenze temano di essere identificati come untori se si cerca di aggirare i divieti sugli assembramenti e l’uscire di casa. Temono che oggi accompagnare la giusta costituzione di brigate per l’aiuto ai soggetti più colpiti dalla crisi con un’esplicita denuncia del capitalismo come responsabile di questo virus possa far passare per avvoltoi… per chi strumentalizza la sofferenza del covid 19; finendo così col dare vita, per l’appunto, a strategie che ricordano quelle togliattiane del PCI del secolo scorso, quelle che promettevano: “oggi unità nazionale per ricostruire l’Italia del dopoguerra, domani, risanata l’Italia, si farà la Rivoluzione”. 
Ma questo, purtroppo, significa consegnarsi al Nemico, essere sconfitti senza lottare.
Anche perché è proprio la parola ‘Rivoluzione’ ad essere sospinta, forse ancora più di allora, fuori dal discorso.

Non può esserci sempre un prima e un dopo, poiché è proprio nella lotta che ci si organizza.
Non si può infatti stare solo ad aspettare gli aiuti statali, oltretutto fantasma e non si può partecipare alla distribuzione di cibo con le pettorine del Comune, di Emergency o della Caritas … tutto è immediato: fame, paura, sangue, merda … sono concreti adesso e non rispettano le fasi stabilite dalle discussioni, neanche quelle della critica radicale.

Le iniziative da un punto di vista individuale (anche apprezzabili) di sostegno e aiuto ai più colpiti dalla crisi che, però, non sanno tenere insieme questo con una pratica anticapitalista e la denuncia delle responsabilità per la diffusione del virus e della gestione della pandemia, che non costruiscono autorganizzazione, sono nulle sul piano collettivo, nulle nella costruzione della/delle comunità resistenti, necessarie per l’oggi e fondamentali per il domani.

Le iniziative che si sono invece tenute in varie città, in occasione del 1° maggio, come a Trieste, Torino (con una provocatoria ‘chiusura’ di Mirafiori) e in Valle di Susa a Bussoleno; lo sciopero dei riders e dei lavoratori della logistica, anche se non hanno portato in piazza grandi numeri, costituiscono esempi di altri percorsi possibili. Se le azioni mutualistiche permettono infatti di costruire rapporti nei territori, sono utili a patto che coltivino già da oggi il radicale rifiuto del modo di produzione vigente e delle sue regole.

Se le varie forme di assenteismo, i blocchi, le fermate, gli scioperi nei luoghi di lavoro, torneranno a esplodere come nel mese di marzo, finiranno col divenire un elemento cruciale dei conflitti scatenati dalla crisi. Mentre anche le lotte in carcere e dei migranti potranno trarre vantaggio dallo sviluppo e dalla diffusione di una forte mobilitazione intorno al tema centrale del conflitto tra capitale e lavoro. Come è già avvenuto in passato.

Soprattutto tornando a parlare dei migranti come proletari sfruttati e non come vittime di un generico razzismo atemporale cui contrapporre l’amore caritatevole e la generica solidarietà che tanto piacciono alla Chiesa e ai benpensanti di ‘sinistra’. Gli stessi che coltivano come una grande dimostrazione di civiltà la concessione di permessi di soggiorno temporanei per i braccianti agricoli, da rimettere al lavoro in pandemia e da riscaricare nel nero a emergenza finita. Una dimostrazione, più lampante che mai, di come il razzismo, quello di Stato da cui discendono tutti gli altri, sia quello nei confronti della ‘razza’ messa a produrre profitto5, e che si può combattere con i subalterni in quanto lavoratori, non in quanto vittime di una generica disuguaglianza.

Oggi, superare i divieti, aprire vertenze sui luoghi di lavoro, autorganizzarsi, praticare l’essere comunità e classe, con autodisciplina rivoluzionaria, applicando le necessarie misure sanitarie di autodifesa dal virus, è fondamentale per chi si dice antagonista del modo di produzione vigente. Così come in montagna e sui territori è importante che le comunità continuino a ritrovarsi, organizzarsi, fare il pane, coltivare le terre, lottare in modo collettivo.

Una comunità in salute si costruisce con intelligenza e consapevolezza volta al benessere collettivo e all’antagonismo irriducibile; si costruisce nella lotta, non con opere di assistenza, droni e decreti presidenziali finalizzati al profitto di pochi. Perché, in fin dei conti la gemeinwesen, la comunità umana di marxiana memoria, è ben altra cosa dalla comunità nazionale o da quella definita dalle strutture giuridiche e amministrative derivate dagli interessi del capitale.

Le limitazioni sull’assembramento, sul diritto di assemblea ecc. saranno durature e aspettare un ‘dopo’ basato su un vaccino miracoloso prodotto e distribuito da Big Pharma, delega allo Stato la questione della salute e ci costringe all’angolo, lasciando spazio soltanto alla mobilitazione reazionaria, che in Italia già è scesa in piazza con i bottegai, con i gruppi neofascisti che occupano case ‘solo per gli italiani’ o con manifestazioni fintamente spontanee, come quelle promosse dalle Mascherine Tricolore, nuovo cartello di CasaPound, oppure ancora, come negli Stati Uniti, con lavoratori e miliziani del Michigan che chiedono, armi alla mano, di riaprire tutte le attività lavorative6.

Se infatti, a parte pochi casi, i movimenti si sono astenuti dal mobilitarsi, ciò è stato comunque agito in forma spontanea e spesso disorganizzata con modalità e in situazioni diverse. Dei nuovi fronti si muovono e compongono nell’ombra, spesso esplicitamente alla ricerca di una chiave di lettura o di una direzione politica, e sono i rigagnoli di quelle forze sprigionate dalla crisi, che hanno iniziato a sgorgare dalle crepe nell’edificio della tenuta sociale, spesso sporchi e senza ideologia, ma potenzialmente fecondi e agguerriti7.
Come insegna la teoria dei piani inclinati, dove non avanza la rivoluzione allora avanza la reazione. Se questi rigagnoli reclameranno soviet o case del fascio è tutto ancora da scrivere. Intanto, però, l’affermazione del fascismo storico una cosa ci insegna ancora:

“Nella misura in cui, nella crisi della vita sociale italiana, il movimento socialista commetteva un errore dopo l’altro, il movimento opposto – il fascismo – cominciò a rafforzarsi, riuscendo in modo particolare a sfruttare la crisi che si profilava nella situazione economica, e la cui influenza cominciò a farsi sentire anche sulla organizzazione sindacale del proletariato […] Il proletariato era disorientato e demoralizzato. Il suo stato d’animo […] aveva subito una profonda trasformazione […] (e) quando la classe media constatò che il partito socialista non era in grado di organizzarsi in modo da ottenere il sopravvento, espresse la propria insoddisfazione, perse poco a poco la fiducia che aveva riposto nelle fortune del proletariato e si rivolse verso la parte opposta […]. È in questo momento che ebbe inizio l’offensiva capitalistica e borghese. Essa sfruttò essenzialmente lo stato d’animo in cui la classe media era venuta a trovarsi. Grazie alla sua composizione estremamente eterogenea, il fascismo rappresentava la soluzione del problema di mobilitare le classi medie ai fini dell’offensiva capitalistica […] Nell’industria l’offensiva capitalistica sfrutta direttamente la situazione economica. Comincia la crisi e si afferma la disoccupazione. […] La crisi industriale fornisce ai datori di lavoro il punto di partenza che permette loro di invocare la riduzione dei salari e la revisione delle concessioni disciplinari e morali che precedentemente erano stati costretti a fare agli operai” (A. Bordiga, Rapporto sul fascismo al IV congresso dell’Internazionale Comunista – 16 novembre 1922)

Cogliere l’occasione e afferrare il tempo del cambiamento e del rifiuto dell’esistente, quando si presentano, è dunque un’indicazione necessaria e tutt’altro che velleitaria, considerato che ai movimenti che intendono superare il modo di produzione dominante non sarà mai concesso, dai loro avversari, di procedere per fasi dilazionate nel tempo. A meno che non accettino di essere diluiti come uno sciroppo colorato nell’acqua.

“Come possono vincere, pensavo? Come può il nuovo mondo, pieno di confusione e di equivoci e di illusioni e abbacinato dal miraggio delle frasi idealistiche, vincere contro la ferrea combinazione di uomini abituati a governare, legati da una sola idea, quella di non mollare quanto posseggono?” ( Introduzione alla guerra civile: 1916-1937 – John Dos Passos).


  1. Il Financial Times continua ad annunciare la crisi più grave e profonda degli ultimi tre secoli: Bank of England warns UK set to enter worst recession for 300 years, F.T. 8 maggio 2020  

  2. V. Conte, Cassa in deroga solo a uno su cinque. In mezzo milione sono ancora senza, la Repubblica 9 maggio 2020  

  3. Si veda, già citato in apertura, C. Voltattorni, Covid-19, 37mila contagiati sul posto di lavoro: 9mila in più in due settimane, Corriere Economia, 8 maggio 2020  

  4. B. Mussolini, Opera omnia, vol. XXI, p.425; cit. in R.J.B. Bosworth, Mussolini. Un dittatore italiano, Arnoldo Mondadori Editore 2004, p.257  

  5. “Non era una straniera Paola Clemente, 49 anni e tre figli, morta di fatica nei campi di Andria mentre lavorava all’acinatura dell’uva per due euro l’ora. Non era straniero Paolo Fusco, 55 anni e tre figli pure lui, stroncato da un infarto mentre caricava cocomeri a temperature intollerabili, per 40 euro a giornata.” F. Perina, La scelta della civiltà, La Stampa 12 maggio 2020  

  6. A.Lombardi, America in piazza, dal Texas all’Illinois. Armati pur di riaprire, la Repubblica 13 maggio 2020  

  7. Secondo un recentissimo sondaggio di Euromedia Research, 7 italiani su 10 pensano che la crisi economica generata dalla pandemia possa far esplodere rivolte sociali, soprattutto al Nord, mentre soltanto più il 5% dichiara di aver fiducia nei politici; si veda A. Ghisleri, Il virus alimenta le paure degli italiani, La Stampa 12 maggio 2020  

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Il Generale, il Prefetto, il Serpente e la pulizia etnica della Jugoslavia https://www.carmillaonline.com/2017/11/13/generale-prefetto-serpente-la-pulizia-etnica-della-jugoslavia/ Mon, 13 Nov 2017 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41469 di Fiorenzo Angoscini

Giacomo Scotti, I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia. Introduzione di Giuseppe Ranieri, Red Star Press, Roma, giugno 2017, pag. 256, € 18,00

L’invasione militare e l’occupazione amministrativo-politica di alcuni territori della Jugoslavia del nord, da parte dell’Italia monarco-fascista, con velleità imperialiste e mire espansionistiche, tramite la cosiddetta ‘guerra d’aprile’ dell’anno 1941, ha provocato numerose vittime, distruzione di villaggi e città, decimazioni di nuclei famigliari, sofferenze, povertà e miseria per le popolazioni slave (s’ciavi, schiavi) che da sempre abitavano quelle terre. Accompagnate da manovre di snazionalizzazione, prevaricazioni, tentativi di cancellazione dell’identità culturale [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Giacomo Scotti, I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia. Introduzione di Giuseppe Ranieri, Red Star Press, Roma, giugno 2017, pag. 256, € 18,00

L’invasione militare e l’occupazione amministrativo-politica di alcuni territori della Jugoslavia del nord, da parte dell’Italia monarco-fascista, con velleità imperialiste e mire espansionistiche, tramite la cosiddetta ‘guerra d’aprile’ dell’anno 1941, ha provocato numerose vittime, distruzione di villaggi e città, decimazioni di nuclei famigliari, sofferenze, povertà e miseria per le popolazioni slave (s’ciavi, schiavi) che da sempre abitavano quelle terre. Accompagnate da manovre di snazionalizzazione, prevaricazioni, tentativi di cancellazione dell’identità culturale e linguistica. Un vero e proprio piano di sostituzione etnica.

Già dai tempi dell’occupazione, attraversando il dopo guerra post resistenziale, gli anni cinquanta: quelli delle parole d’ordine nazional-fasciste-scioviniste di ‘Trento, Trieste, Istria italiane’,1 mescolando un irredentismo casereccio a rivendicazioni annessionistiche, nonché la ‘proprietà’ geografia della mitteleuropea città alabardata, l’onda lunga della menzogna è giunta sino ai giorni nostri con l’istituzione (2004), per decreto, del 10 febbraio come ‘Giorno del ricordo’ dedicato alla “memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

In quella data, ogni anno, vengono consegnate ‘medagliette’ dorate (non sono d’oro, bensì in acciaio brunito e smaltato e recano la scritta “la Repubblica Italiana ricorda”) ai parenti degli ‘infoibati’ ma, tra i riconosciuti come vittime delle doline carsiche, ci sono anche caduti in combattimento (quindi non ‘infoibati’), ex-repubblichini2 e criminali di guerra3 . Un vero e proprio medaglificio fascista.4

Si parla, spesso gonfiandoli e falsificandoli, degli effetti, dimenticando e rimuovendo completamente quali sono state le cause: un’occupazione violenta e sanguinaria, crimini e misfatti, odiose forme di razzismo e repressione. Mescolando foibe e ‘profughi’ (come venivano chiamati dagli ‘italiani’ residenti i rientrati in Italia dalle zone jugoslave), bugie storiche e primati di insediamenti e radici mai avuti. Ribaltando la realtà dei fatti, applicando quello che molti storici definiscono ‘rovescismo’. Cercando di accreditare, cioè, l’esatto contrario di ciò che è avvenuto.

Per comprendere come le mire di annessione, l’odio ‘anti-slavo’ e le violenze fasciste abbiano radici lontane ma costanti, ricordiamo due avvenimenti tragici e criminali, collegati tra loro, nonostante la distanza temporale, dallo stesso e solito ‘filo nero’ squadrista. Il primo è l’attacco al Narodni Dom (Casa del popolo o Casa nazionale) di Trieste, sede delle organizzazioni degli sloveni triestini, un edificio polifunzionale nel centro di Trieste, nel quale si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo (Hotel Balkan).5 Incendiato dai fascisti il 13 luglio 1920, nel corso di quello che, persino Renzo De Felice definisce “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”. L’altro, relativamente recente, significativamente avvenuto il 4 ottobre 1969 (due mesi prima della strage di Piazza Fontana alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano e riconducibile agli stessi ambienti responsabili, con identiche modalità, della strage) è il fallito attentato (per cause meteorologiche, non per volontà dei potenziali assassini) compiuto presso la Scuola elementare di lingua slovena a Trieste.

Quel lunedì mattina, il custode, trova sul davanzale di una finestra una cassetta portamunizioni militare con scritte in inglese avvolta da filo zincato. Quando i Carabinieri intervenuti sollevano il coperchio, trovano sei candelotti (kg 5,7 di esplosivo) di gelignite spezzati a metà, avvolti in carta paraffinata rossa, e un congegno ad orologeria formato da una pila, due detonatori e un orologio da polso con una vite inserita nel quadrante e collegata ai fili elettrici a loro volta collegati ai detonatori. Ai piedi dell’edificio vengono inoltre rinvenuti otto foglietti di carta con scritte in stampatello di carattere xenofobo quali “No al viaggio di Saragat in Jugoslavia”, “No alle foibe”, firmati FRONTE ANTI SLAVO.

Contro queste tendenze e demagogiche, deboli culturalmente ma forti mediaticamente, scuole di pensiero, in una difficile, logorante e solitaria, ‘battaglia per la verità’ si sono da molto tempo distinti alcuni storici, ricercatori, scrittori, giornalisti e militanti politici, in una sorta di ‘Resistenza storica’ per l’affermazione della realtà. Tra questi Giacomo Scotti, napoletano di origini e italiano di nascita che ha deciso di trasferirsi a vivere, in una sorta di controesodo, in Jugoslavia già nel 1947, autore di numerose inchieste e pubblicazioni,6 Claudia Cernigoi,7 Alessandra Kersevan,8 Alessandro Sandi Volk9 e, recentemente, affiancati anche dal collettivo di ricerca storica, filiazione della Fondazione Wu Ming, denominato ‘Nicoletta Bourbaky’10 che ha smascherato la montatura storico-politica della cosiddetta ‘foiba volante’ (appariva qui e là) che già dall’attribuzione finale si può intuire che era una cosa inesistente, non c’era materialmente.

L’invenzione mediatica ha visto come attori protagonisti reazionari veri, ‘democratici’ camuffati (un senatore Pd) e militanti ‘piddini’ dialoganti con Casa Pound.11 Anche Claudia Cernigoi, su questa strana foiba (foibe?), ha offerto un interessante contributo.12 Una bella compagnia di giro-armata Brancaleone, puntualmente sbugiardata13 . Mentre Scotti, Cernigoi, Volk, Kersevan, ‘Nicoletta Bourbaky’ ed altri, spesso accusati di negazionismo, combattono culturalmente il revisionismo storico vero, supporto e battistrada del revisionismo costituzionale.

Con questo nuovo contributo, Giacomo Scotti, utilizzando fonti articolate e diverse, dati e documenti alla mano, delinea le efferatezze, gli assassini e crudeltà perpretrate nel nord della Jugoslavia dagli occupanti italo-fascisti nella primavera-estate del 1942.
La ricostruzione storica parte dalla devastazione (12 luglio 1942) di un villaggio, Podhum, distante circa dieci chilometri da Fiume. Secondo il Prefetto Testa,14 ricordato dalla “popolazione come il boia del Fiumano e dei territori della Kupa”, il motivo-pretesto dell’eccidio è stato offerto, e compiuto, per vendicare “16 soldati uccisi dai ribelli”, mentre il ‘Federale’ fascista di Fiume, Genunzio Servitori, fa risalire le ragioni della rappresaglia alla morte di due maestri elementari, i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, emissari del “regime fascista nelle terre occupate e annesse per italianizzare i ‘barbari slavi’”. Ma Scotti puntualizza: “Il ‘caso’ di Podhum si inserisce, in verità, in un disegno generale di sterminio delle popolazioni slave sui Territori annessi della Slovenia e della Croazia nel quadro, cioè, di un’operazione preparata accuratamente.
Il risultato sarà la totale o parziale distruzione col fuoco di circa cinquanta villaggi…con fucilazioni di centinaia di ostaggi e la deportazione di alcune migliaia di persone”.

Descrive come la popolazione veniva vessata e perseguitata perché aveva parenti che erano ‘andati nel bosco’ , cioè con i Partigiani, oppure di arrestati che venivano condannati a morte da un tribunale di guerra ma solo dopo essere già stati fucilati mentre i lori cadaveri marcivano in una fossa sconosciuta.
Puntualizza come la famigerata circolare 3-C emanata, il 1° marzo 1942, dal comandante della II Armata operante in quei territori, Mario Roatta,15 fosse “un documento-programma (riassunto in un opuscolo di circa 200 pagine e distribuito a tutti gli ufficiali dell’esercito) grazie al quale nel solo mese di luglio 1942 furono deportati 10mila civili dai territori coinvolti in una cosiddetta ‘Operazione Primavera’” . Il cui obiettivo era “lo spopolamento tramite la deportazione dei civili e il massacro dei ‘ribelli’…contenente tra l’altro la formula ‘non dente per dente ma testa per dente’…che rappresentò una normativa repressiva di tipo coloniale nei confronti delle popolazioni dei Territori annessi destinati alla bonifica etnica…facendo terra bruciata, in vista di una imminente colonizzazione italiana”.

Prima delle distruzione di luglio, anche la primavera era stata insanguinata, con decine di villaggi rasi al suolo, comunità distrutte e disperse, giovani e giovanissimi ammazzati perché appartenenti ad una ‘razza’ inferiore. Questa repressione, senza pietà, aveva come principale protagonista il Prefetto Temistocle Testa che, spesso, firmava di proprio pugno gli ordini che sancivano vere e proprie stragi di civili.

Scotti elenca, con precisione certosina, il numero e, a volte, anche i nomi dei fucilati, dei deportati, degli internati nei campi di concentramento, e spesso anche il nome dei fucilatori. Racconta delle lusinghe, dei premi, vere e proprie taglie poste sulla testa dei ‘ricercati’. Della costituzione di squadroni della morte (Milizia Volontaria Anticomunista) e per la caccia (Bela Garda, Camicie Bianche) alle ‘bande Comuniste’, ma che andavano sempre più ingrossandosi con l’aumentare della repressione.
L’autore documenta come non ci sia alcuna differenza tra fascisti della prima ora, neo-fascisti o post-fascisti: gli squadristi del manganello, della somministrazione dell’olio di ricino, degli agguati, dello sfoggio di camicie nere, e delle stragi (da Marzabotto a Piazza Fontana) sono sempre gli stessi, identici storicamente e ‘culturalmente’, siano essi ‘manovali’ oppure ‘intellettuali’.

Uno degli esempi è rappresentato dalla falsificazione relativa alla volontà, e ‘contentezza’, degli abitanti alcune frazioni di Castua, nell’essere internati nei ‘campi’ fascisti. In una comunicazione riservata (giugno 1942) al questore di Fiume, gli artefici della rappresaglia si esprimono così: “Gran parte della popolazione del Castuano che assisteva all’operazione stessa ha manifestato il desiderio di essere internata nel Regno […] Il numero degli internati è di N. 500”.
Sfrontataggine fascista. Contrabbandando per desiderio una deportazione che conduce gli abitanti a sopportare nuove sofferenze e perfino la morte nei ‘campi del Duce’. “Parecchi di loro infatti, finirono nel campo di sterminio di Kampor sull’isola di Arbe dove tra il giugno 1942 e l’inizio di settembre 1943, su 12mila deportati ne morirono di stenti, di fame e di malattia circa 3mila, per la gran parte bambini e vecchi”.

In loro soccorso, a distanza di quasi 70 anni, si prodiga un quotidiano ‘indipendente’, “Il Secolo d’Italia”, già organo ufficiale del ricostituito partito fascista Movimento Sociale Italiano.
Il 23 novembre 2011, a proposito di quel ‘campo di lavoro’, il giornale scrive: “Non era né un campo di concentramento, né un campo di sterminio, e le vittime furono ‘in maggioranza’ comunisti croati e sloveni”. Bolscevichi di pochi anni, oppure ultrasettantenni e donne di ogni età. Con buona pace di quegli ‘ambigui’ che parlano di pacificazione e di equiparare i Partigiani agli assassini (fascisti e Repubblichini).

Un altro esempio di manipolazione della verità e falsificazione degli avvenimenti, riguarda l’epilogo della meschina vita di Vincenzo Cuiuli,16 comandante del ‘campo della morte’17 di Kampor, sull’isola di Arbe, in Dalmazia settentrionale, allestito all’ inizio dell’estate del 1942, il cui padre fondatore (come si autodefinì) è stato il Prefetto Temistocle Testa.
“Il tenente colonello Cuiuli portava sempre con sé un frustino per incutere terrore ai deportati da lui disprezzati come fossero bestie”. Anche per questo motivo era stato soprannominato Zmija, ‘il Serpente’.

Già dal gennaio ’43, nel ‘campo’ si era costituita una cellula clandestina del Fronte di Liberazione e, in luglio, una virtuale Brigata Partigiana (Rabska Brigada) che “si assunse il compito di creare migliori condizioni di vita nel campo e preparare gli internati alla lotta armata”. L’ 8 settembre 1943 la ‘brigata di campo’ prese il controllo della struttura senza compiere alcuna violenza sugli ex ‘controllori’, che non opposero resistenza. Solo “il Cuiuli minacciò i ribelli di farli fucilare, ma venne prontamente immobilizzato dagli internati, senza che gli altri ufficiali e soldati reagissero. Il ‘Serpente’ poté tornare negli uffici del Comando dove trascorse la notte”.
Successivamente tutto il personale militare venne ‘liberato’, furono trattenuti in stato di arresto solo il comandante, carabiniere Cuiuli, e una spia di nome Mohar, successivamente processati e condannati a morte per crimini di guerra.

E qui inizia la girandola di menzogne e ricostruzioni non veritiere.
Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski, nel volume “Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1942)” collocano la morte del ‘regio’ carabiniere, ad Arbe, il 13 settembre 1943 (oltre la data della loro ricostruzione) “ucciso durante la rivolta degli internati”.
Non è vero, documenta Scotti, che Cuiuli fu ucciso ad Arbe il 13 settembre.
“Le cose andarono diversamente”.
L’ex comandante viene trasferito sulla terraferma nella notte tra il16 e 17 settembre e rinchiuso, sotto sorveglianza, in una cella del carcere di Crikvenica. Il mattino dopo viene rinvenuto moribondo nella sua cella: si era suicidato tagliandosi il collo.18

Ma questa soluzione non può essere accettata da parte di chi vuole screditare comunisti, partiginai, slavi ed internati in campi fascisti. Così, in un libro19 pubblicato a Trieste, l’autore, Luigi Papo20 sostiene che Cuiuli è stato una vittima dei Partigiani di Tito: “Gli slavi lo hanno impiccato ad Arbe tra il 10 e il 12 settembre davanti al campo di internamento, in cui era rinchiuso, e lo hanno seppellito in mezzo alla strada assieme al suo cane”.

Ma Scotti, precisa e demistifica: “In tre righe una montagna di falsità”.
Riprendendo le testimonianze raccolte da Anton Vratusa “che smentiscono sia l’impiccagione, l’esistenza del cane dell’ ‘impiccato’ e tutto il resto”, così come confermato anche dallo storico Ivo Baric’ nella voluminosa storia della sua isola, “Rapska bastina” (Il patrimonio di Arbe).
“Il comandante del più malfamato lager per civili creato dalle truppe italiane nella seconda guerra mondiale-suicidatosi forse per rimorso-venne sepolto accanto alle sue vittime”.

L’italiano di Croazia per scelta, Giacomo Scotti, ribadisce: “Bisognerebbe farla finita con il silenzio sui crimini del fascismo italiano, soprattutto le stragi compiute non soltanto dai battaglioni speciali fascisti ma dalle truppe italiane che aggredirono e occuparono la Jugoslavia, annettendosi intere regioni della Slovenia, del retroterra della Provincia di Fiume, della Dalmazia e l’intero Montenegro”.

Rendendo omaggio a tutti i fucilati di quelle terre: oltre 400mila civili, di cui più di 100mila rinchiusi nei campi di concentramento di Molat, Arbe, Gonars e molti altri.
Ciò, in risposta ad un comunicato del 25 aprile 2017, a firma di Donatella Schurzel, vice presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, contro le persecuzioni subite dagli ebrei per opera nazista e dalla “comunità giuliano-dalmata vittima di persecuzioni, deportazioni, stragi e violenze nel corso della seconda guerra mondiale a opera dei nazionalcomunisti di Tito”.
Oplà! Con una giravolta la realtà è capovolta.


  1. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2015/07/1953-GLI-SCONTRI-PER-TRIESTE-ITALIANA..pdf  

  2. http://www.corriere.it/cronache/15_marzo_19/foibe-criminali-guerra-fascisti-300-combattenti-rsi-medaglie-ricevute-il-giorno-ricordo-49b164a6-ce59-11e4-b573-56a67cdde4d3.shtml  

  3. http://www.diecifebbraio.info/2012/03/i-riconoscimenti-per-gli-infoibati-ai-criminali-di-guerra-italiani/  

  4. https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/04/il-giornodelricordo-dieci-anni-di-medaglificio-fascista-un-bilancio-agghiacciante/  

  5. http://www.anpi.it/media/uploads/patria/2011/29-34_PAHOR.pdf  

  6. con Luciano Giuricin, Rossa una stella. Storia del battaglione italiano Pino Budicin e degli Italiani dell’Istria e di Fiume nell’esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume, Rovigno, 1975; Ustascia tra il fascio e la svastica, storia e crimini del movimento ustascia, Incontri Editore, Udine, 1976; Bono Taliano. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), La Pietra, Milano, 1977, ristampato per Odradek Edizioni nel 2012; Juris, juris! All’attacco! La guerriglia partigiana ai confini orientali d’Italia 1943-1945, Mursia, Milano, 1984; con Luciano Viazzi, Le aquile delle Montagne nere: storia dell’occupazione e della guerra italiana in Montenegro (1941-1943), Mursia, Milano, 1987; Dossier foibe, Manni, San Cesario di Lecce, 2005; Il bosco dopo il mare. Partigiani italiani in Jugoslavia, 1943-1945, Infinito Edizioni, Formigine (Mo), 2009; ed altri lavori  

  7. direttrice di “La Nuova Alabarda e la coda del diavolo”, notiziario di informazione culturale, politica e sociale; autrice di interessanti ‘dossier’ monografici: tra cui “L’ombra di Gladio. Le foibe tra mito ed eversione”; “La ‘foiba’ di Basovizza”; “Il caso Norma Cossetto”; “Operazione Foibe: tra storia e mito, Kappa Vu edizioni, Udine, 2005”; La «banda Collotti». Storia di un corpo di repressione al confine orientale d’Italia, Kappa Vu, Udine, 2013  

  8. animatrice della casa editrice Kappa Vu ed autrice di: “Un campo di concentramento fascista. Gonars (1942-1943)”, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2010; “Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, Nutrimenti Editore, Roma, 2008  

  9. Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2010; Truffe, fuffe e fascisti… I “premiati” del Giorno del Ricordo. Un bilancio provvisorio, www.diecifebbraio.info, 17 gennaio 2017  

  10. Nome usato da un gruppo di inchiesta sul revisionismo storiografico e le false notizie storiche in rete, con particolare riferimento alle manipolazioni su Wikipedia, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo ha voluto rendere omaggio a Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983  

  11. http://www.casapoundlombardia.org/index.php/en/112-archivio-brescia/164-cpi-brescia-linea-rossa-su-sfondo-nero  

  12. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2016/05/intrigo-nazionale-a-roccabernarda-1-1.pdf e http://www.diecifebbraio.info/2016/03/udine-2332016-la-verita-documentale-sulla-foiba-mobile-di-rosazzo/  

  13. https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/12/la-foiba-volante-non-esiste/  

  14. Temistocle Testa, criminale di guerra, Prefetto di Fiume e del Carnaro dal 1938 fino al gennaio 1943. “…tipico Prefetto fascista interprete della guerra di conquista contro la Jugoslavia(…)e della peggiore tradizione sciovinista e anti-slava del fascismo giuliano”, Marco Coslovich, storico triestino.  

  15. Mario Roatta, due volte capo di stato maggiore, generale dell’esercito (monarchico-fascista-repubblichino) regista dell’assassinio dei fratelli Rosselli, autore della famigerata circolare 3-C, che pianificava l’estirpazione degli ‘slavi’ dalle loro terre per insediare gli occupanti italo-fascisti.  

  16. Vincenzo Cuiuli, colonnello dei Carabinieri, kapò del campo di concentramento fascista di Kampor ad Arbe/Rab, soprannominato dalle popolazioni internate, per la sua ferocia, bestialità e viscidità, il Serpente.  

  17. E’ stato calcolato che la percentuale di morti di Kampor è stata proporzionalmente maggiore di quella di Buckenwald  

  18. Testimonianza di Dusan Prasnikar, raccolta da Anton Vratusa in “Dalle catene alla libertà. La «Rabska brigada», una brigata partigiana nata in un campo di concentramento fascista”, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2011  

  19. Luigi Papo de Montona, Albo d’oro: la Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale, Unione degli Istriani, Trieste, 1989  

  20. Nell’ ottobre 1943, passato al servizio dei nazisti, fonda il Partito fascista repubblicano e prende il comando di un battaglione della Milizia Difesa Territoriale e della Guardia repubblicana fascista, nata sulle orme della LX Legione Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale di stanza a Pola e operante in Istria, con i tedeschi, fino alla fine di aprile del 1945  

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Guerra imperialista, conversioni e tradimenti https://www.carmillaonline.com/2015/05/27/guerra-imperialista-conversioni-e-tradimenti/ Wed, 27 May 2015 21:50:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22829 di Sandro Moiso

convertirsi-alla-guerra Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918, Donzelli Editore 2015, pp. 282, € 20,00

Nella pletora di pubblicazioni e ripubblicazioni immesse sul mercato in occasione delle funeste celebrazioni del centenario del “maggio radioso”, il testo di Mario Isnenghi si distingue per la chiarezza interpretativa oltre che per l’eleganza, l’erudizione e, talvolta, l’ironia con cui è trattato l’argomento della conversione alla scelta bellicista e al capovolgimento di schieramento militare che avvenne in Italia nel corso degli undici mesi che intercorsero tra lo scoppio del primo grande macello imperialista e [...]]]> di Sandro Moiso

convertirsi-alla-guerra Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918, Donzelli Editore 2015, pp. 282, € 20,00

Nella pletora di pubblicazioni e ripubblicazioni immesse sul mercato in occasione delle funeste celebrazioni del centenario del “maggio radioso”, il testo di Mario Isnenghi si distingue per la chiarezza interpretativa oltre che per l’eleganza, l’erudizione e, talvolta, l’ironia con cui è trattato l’argomento della conversione alla scelta bellicista e al capovolgimento di schieramento militare che avvenne in Italia nel corso degli undici mesi che intercorsero tra lo scoppio del primo grande macello imperialista e l’intervento nello stesso.

Lo studio di Isnenghi, i cui ambiti di ricerca hanno sempre spaziato dalle implicazioni culturali e socio-politiche del Primo Conflitto Mondiale1 al fascismo e al discorso “pubblico” sulle guerre italiane dal Risorgimento al 1945, si rivela utilissimo in tempi oscuri come quelli attuali, in cui lo scivolamento verso conflitti sempre più allargati è accompagnato da discorsi spesso soltanto imbecilli, ma ancora più spesso da motivazioni etico-politiche che nascondono, ancora una volta, i reali interessi in gioco.

Se, come afferma l’autore, negli anni che precedono e accompagnano la prima guerra mondiale “si consuma in Italia un passaggio storico d’ordine generale: dalla società dei notabili alla società di massa”, è altresì vero che la necessità di convertire alle impossibili ragioni della guerra la mentalità collettiva non è mai venuta meno. Di qualsiasi guerra si tratti, poiché per le classi dirigenti ed imprenditoriali l’importante, al contrario di quanto vanno retoricamente affermando, non è importante il con chi e perché ma, appunto, che si faccia. Comunque.

Da questo punto di vista il testo è particolarmente attento all’autentico balletto che si svolse a livello governativo tra forze politiche favorevoli alla Triplice Alleanza (in cui l’Italia era formalmente inserita) e forze opportunisticamente già schierate con l’Intesa. Sarà proprio il generale Cadorna a rivelare nei suoi diari (pubblicati nel 1925) come il 27 luglio 1914, giorno della sua nomina a capo di Stato maggiore, fosse ancora in auge il progetto per l’invio di un’armata italiana in Alsazia: “Perciò, fino al 1° agosto, io avevo il dovere di considerare l’eventualità che l’Italia dovesse entrare in guerra contro la Francia a fianco delle potenze centrali” a causa di una “convenzione militare con la Germania, che ci obbligava in caso di guerra che impegnasse la triplice alleanza, ad inviare sul Reno un’Armata di 5 corpi d’armata e due divisioni di cavalleria” (pag. 6). Mentre la dichiarazione di neutralità dell’Italia diventava ufficiale il 2 agosto.

Il paradosso a livello politico consisteva nel fatto che la monarchia, per prima, e gran parte dell’esecutivo erano decisamente favorevoli al mantenimento dell’alleanza con la Triplice e degli impegni connessi mentre soltanto un pugno di repubblicani ed eredi degli ideali risorgimentali, tra cui l’antico comunardo Amilcare Cipriani e due nipoti di Garibaldi destinati a morire sul fronte francese, accorse ad arruolarsi volontariamente delle file dell’esercito francese. Cosa vista in ogni caso come di cattivo auspicio dalle alte sfere dell’esercito e del governo.

Saranno i mesi successivi a vedere in atto una straordinaria, non per numero ma per qualità e diversità dei personaggi coinvolti, mobilitazione di forze volta a trasbordare l’Italia da uno schieramento all’altro e, soprattutto, dalla neutralità all’intervento attivo. Come è facile immaginare lo scontro più evidente e meno sospetto avviene proprio sulle pagine dei giornali dell’epoca che, come rivelano le pagine del diario del ministro delle Colonie Martini (pubblicate soltanto nel 1966), sono però supportati da tutt’altro che la fede patriottica o ideologica.

Le voci diffuse sui soldi che girano per comprare la stampa e indirizzare i lettori acquistano qui puntigliosamente nome e cognome, ma sono solo fondi straordinari che si aggiungono o si sostituiscono agli usuali fondi governativi: i tedeschi comprano i servizi della «Nazione» di Firenze e del «Mattino» di Napoli, che perciò si vede togliere «il consueto viatico governativo», e ci provano persino con testate al di fuori del campo conservatore, come il radical-progressista «Secolo»; il grintoso triplicismo del «Popolo Romano» viene oliato dall’Austria; la scrittrice-giornalista Matilde Serao i premura di mandare un telegramma di auguri al Kaiser per l suo compleanno […] Martini, parlando anche da membro della categoria, assicura che «questo è il giornalismo italiano». E non se la prende solo con le manovre di una parte, perché l’ambasciatore Barrère e la Francia aiutano la nascita del «Popolo d’Italia» di Mussolini e il direttore del «Resto del Carlino», il faccendiere Filippo Naldi, viene il 20 dicembre a dirgli che bisogna assolutamente dare un sussidio governativo di almeno 25.000 lire a quel nuovo quotidiano che ha il merito di «raccoglie(re) intorno a sé e dirige(re) a un intento patriottico tutta la teppa dell’Italia settentrionale» (pp. 99-100)

Si notino bene le parole del faccendiere: la guerra, per l’Italia, non è ancora dichiarata e ancor meno si sa su quale fronte le truppe si schiereranno, ma l’intento patriottico è quello di far schierare la teppa del Nord (operai, contadini, disoccupati, giovani). A prescindere.
Ma quello di Mussolini non sarà l’unico significativo voltafaccia nell’ambito della discussione sulla partecipazione o meno al conflitto. Sicuramente nell’ambito del movimento operaio e socialista sarà il più eclatante, ma non il solo.

Anche la Chiesa non verrà meno al suo compito di salvezza delle anime, ma non dei corpi. Due sono i religiosi presi in esame da Isnenghi per il loro fervore militarista: Giovanni Semeria e Agostino Gemelli. “Tutti e due i religiosi che vanno e vengono bene accolti al Comando supremo sono uomini d’azione e di potere – interpreti di un volontariato cattolico dai larghi orizzonti e imprenditori di lungo corso del sacro – e vanno per le spicce: con spiriti e direzioni di marcia non sovrapponibili, tuttavia, visto che il bonomelliano Semeria aspira a coniugare i cristiani con la modernità, mentre Gemelli – altrettanto moderno nei metodi – guarda culturalmente all’indietro e aspira a indirizzare la «riconquista cristiana» del mondo verso ciò che non teme di chiamare Medioevo” (pp. 40-41)

Il primo tutto teso a fiutare nella sua terra d’origine, la Romagna “il cambiamento in corso negli orientamenti dei giovani, che comincia ad allontanarli dall’egemonia socialista […]in particolare rispetto ai grandi temi della nazione, in pace e in guerra” (pag. 42)
Il secondo, di formazione laica e radical-socialista prima di un’autentica conversione che lo farà paragonare a Paolo di Tarso sulle pagine dell’«Osservatore Cattolico», sarà ancora fervente triplicista filotedesco sulle pagine della «Rassegna italiana di cultura» nell’aprile del 1915, ma “di quelle spoglie contingenti ci si può subito liberare, se la guerra viene sentita «provvidenziale» per un ritorno in se stessa dell’umanità, come «volontà di Dio», «flagello misericordioso e divino»” (pag. 48)

Cosa che lo avvicina a quel “Giovanni Papini, rotto a tutte le esperienze e a tutte le disperazioni, che la guerra trova intento a lanciare urla belluine sulla rivista «Lacerba» a favore della «rossa svinatura», del «caldo bagno di sangue malthusiano», e immediatamente dopo – interventista non intervenuto – […] testimonial della metanoia cristiana, grazie alla catastrofe ammonitrice” (pp. 48-49)

Ma, è chiaro, il lavoro sporco toccherà ai socialisti e agli anarchici convertiti che, in forme e con argomentazioni soltanto apparentemente diverse, dovranno cercare di tramutare il naturale anti-militarismo del proletariato agricolo ed industriale in neo-bellicismo nazionalista.
Come si è detto prima, non sarà solo l’ex-direttore dell’«Avanti!» in questa operazione. Lo affiancheranno l’anarchica Maria Rygier che paragonerà le stragi delle popolazioni libiche all’ingresso delle truppe tedesche nella città belga di Lovanio.

Macché coerenza, macché fedeltà ai principi, la realtà incalza ed è la realtà che detta i comportamenti dei vivi” (pag. 20), sulle orme di Alceste De Ambris che ha pubblicato, il 22 agosto 1914, sull’«Internazionale» un discorso pro-Belgio e Francia la Rygier si associa alla canea guerrafondaia. Mentre al socialista Cesare Battisti, “tragica figura di irredento territoriale e redento politico” toccherà il ruolo di martire della patria dopo aver percorso in lungo e in largo la penisola per spronare il proletariato a lottare per il completamento dell’opera iniziata con il Risorgimento, anche arruolandosi nel Regio Esercito, ed essere finito sul patibolo per mano austriaca nel 1916. Cosa di cui la borghesia italiana lo ripagherà pubblicamente con grandi encomi e alti lai, ma con ironia e crudele cinismo nel privato, come testimonia ancora il diario del ministro Martini.2

Per altro Leonida Bissolati cinquantottenne,già espulso dal Partito Socialista nel 1912 per la sua mancata opposizione alla guerra italo-turca, correrà ad arruolarsi negli alpini e dopo Caporetto giungerà, dai banchi del governo, a minacciare di fucilazione gli ex-compagni di partito e i proletari che avessero agito in senso contrario a quello della salvezza della Patria e dell’interesse nazionale.
Sollevando soltanto qualche perplessità in Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Claudio Treves, che forti, per tutto il periodo del conflitto, del loro vile «né aderire, né sabotare», torneranno ad abbracciarlo amichevolmente verso la fine del conflitto.

Solo, a difendere, tra i riformisti, la linea della «guerra alla guerra» rimarrà Giacomo Matteotti, che per questo sarà arruolato a forza e spedito in Sicilia, tra gli «imboscati» e che forse, anche per questa sua intransigente posizione anti-militarista pagherà poi con la morte il suo antifascismo.

A regnare saranno alla fine soltanto gli interessi nazionali ed imperiali del capitalismo italiano, il cui vero obiettivo è Trieste (e non Trento), per giungere a dominare per intero l’Adriatico e i suoi traffici. Come ben capiranno Salandra e Sonnino, rispettivamente capo del governo e ministro degli esteri, unici veri artefici finali dell’entrata in guerra, loro triplicisti d’antica data, a fianco delle forze dell’Intesa: Francia e Gran Bretagna.

Un libro che tutti, soprattutto a sinistra, dovrebbero leggere per meditare sulle vie infinite e contraddittorie che conducono alla guerra e alla catastrofe. La strada per l’inferno, infatti, è sempre lastricata di buone intenzioni. Anche quando si è convinti di sventolare il tricolore francese in chiave anti-Isis. Magari su una piazza di Parigi, con i compagni di un tempo. Perché tutti coloro che non sanno prendere e mantenere le distanze dal militarismo e dal nazionalismo saranno immancabilmente destinati ad essere usati oppure semplicemente stritolati e triturati dall’implacabile ingranaggio imperialista.


  1. Fondamentale in questo ambito il suo Il mito della Grande Guerra, Il Mulino 1989  

  2. Con lo stravolgimento delle parole di una lapide dedicata alla memoria dell’irredentista trentino: “A temporaneo ricordo di / CESARE BATTISTI / con dimenticabile opportunità / dannato alle forche / dalla ciò nondimeno veneranda canizie / di Francesco Giuseppe / temporaneamente nemico / Roma / superba del serbarsi fedele / alla sapienza popolare / che ammaestra / Il morto giace e il vivo si dà pace / presso la strada che dal nome del ribelle / temporaneamente s’intitola / questa nobile pietra / P.” (pag. 101)  

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Trieste libera https://www.carmillaonline.com/2013/09/30/trieste-libera/ Mon, 30 Sep 2013 21:55:25 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9638 di Claudia Cernigoi

fintadoganaMTLTrieste si è dimostrata una volta di più una città particolare: in Italia si vuole cacciare via la “casta”? noi di più, a Trieste c’è un movimento che vuole direttamente mandarla via, l’Italia. Si tratta del Movimento Trieste Libera (MTL), che domenica 15 settembre ha portato in piazza, in nome del ripristino del Territorio Libero di Trieste, così come sancito dal Trattato di pace del 1947, 5.000 persone (stima della scrivente, la Questura ne ha stimate 3.500, così riportate dal quotidiano locale “il Piccolo”, mentre gli organizzatori [...]]]> di Claudia Cernigoi

fintadoganaMTLTrieste si è dimostrata una volta di più una città particolare: in Italia si vuole cacciare via la “casta”? noi di più, a Trieste c’è un movimento che vuole direttamente mandarla via, l’Italia. Si tratta del Movimento Trieste Libera (MTL), che domenica 15 settembre ha portato in piazza, in nome del ripristino del Territorio Libero di Trieste, così come sancito dal Trattato di pace del 1947, 5.000 persone (stima della scrivente, la Questura ne ha stimate 3.500, così riportate dal quotidiano locale “il Piccolo”, mentre gli organizzatori hanno parlato di 6.000 ed anche 8.000, a mio parere non molto credibili), comprese delegazioni della Liga Veneta e dall’ex Zona B.

Considerando che la manifestazione per Trieste italiana del mattino (organizzata da un Comitato Trieste Pro Patria, supportato da destre di vario tipo, più o meno radicali e più o meno moderate, dalla Lega nazionale e dalle associazioni degli esuli giuliano-dalmati, più i redivivi PLI e PSI) ha mobilitato non più di 300 persone (sempre stima della scrivente, le stime ufficiali ne davano intorno ai 200), ciò dovrebbe quanto meno aprire delle perplessità sul sentimento patriottico della Trieste di oggi nei confronti dell’Italia.

Un movimento che si definisce “né di destra né di sinistra” e che comprende per lo più “gente della strada”, l’Uomo (e la Donna, ovvio) Qualunque sono stati resuscitati, merito dei guru dell’indipendentismo che hanno convinto i triestini che l’unica soluzione per ridare vita alla città sia staccarsi dall’Italia.

Con i dovuti distinguo, che approfondiremo poi, l’idea non è originale, anche la Lega Nord, la Liga Veneta, le Leghe meridionali, quanti altri erano e sono tuttora convinti che la panacea per il rilancio delle economie locali sia uscire dal controllo di “Roma ladrona”? sarà casuale che negli ultimi mesi una sessantina di comuni del Veneto abbiano chiesto un referendum per uscire dall’Italia? (referendum che, va precisato, non può svolgersi legalmente, dato che costituisce reato la propaganda per staccare parti d’Italia dal territorio nazionale).

Il caso del TLT è però diverso, perché il Territorio Libero di Trieste era stato costituito dal Trattato di pace del 1947, firmato anche dall’Italia, che quindi aveva accettato il distacco delle allora Zone A e B dal territorio italiano. In sintesi, il trattato di pace, oltre a delimitare i confini tra Italia e Jugoslavia, aveva creato un piccolo stato autonomo amministrato provvisoriamente (in attesa della nomina di un Governatore da parte delle Nazioni Unite) da governi militari Alleati; lo staterello comprendeva l’attuale provincia di Trieste (Zona A con amministrazione angloamericana) ed una parte dell’Istria, fino alla linea del fiume Quieto (Mirna, oggi in Croazia), amministrata dalla Jugoslavia (Zona B). In tutto un territorio di poco più di 700 kmq., con capitale Trieste.

Successivamente, con il Memorandum di Londra del 1954, i due territori erano stati affidati in amministrazione fiduciaria ad Italia e Jugoslavia, che poi con il Trattato di Osimo del 1975 avevano sancito il ritorno definitivo della sovranità italiana e jugoslava sulle due zone in amministrazione; e qui facciamo subito chiarezza anche su un’altra bufala che viene fatta girare (non solo dal MTL ma anche dalla destra irredentista che non ha mai accettato che l’ex Zona B sia passata alla Jugoslavia – oggi Slovenia e Croazia): non è vero che il Trattato di Osimo non è mai stato ratificato, la ratifica è avvenuta con la Legge n. 73/77 d.d. 14/3/77.

Ora, prima di prendere in mano i documenti per capirne di più, facciamo un breve excursus storico.

L’origine storica del progetto di un Territorio Libero intorno alla città di Trieste può essere fatto risalire alla primavera del 1944, quando, in preparazione di un convegno con i dirigenti dell’Osvobodilna Fronte (OF, il Fronte di Liberazione sloveno a Trieste), il Comitato di Liberazione Alta Italia (CLNAI) era intenzionato a chiedere, come da indicazioni britanniche, che Trieste fosse dichiarata “città libera” e non che ritornasse all’Italia, perché questo era l’unico modo per impedire che passasse alla Jugoslavia. Tale progetto (“Trieste città libera”) era stato concepito dopo colloqui tra il conte Carlo Sforza (ministro degli esteri nel governo Badoglio) e gli azionisti Leo Valiani e l’avvocato triestino Emanuele Flora. Nello stesso periodo un ambiguo personaggio triestino, Giorgio Bacolis, massone e sedicente pastore metodista (della Chiesa wesleyana, collegata alla massoneria) aveva dato alle stampe un pamphlet intitolato “Libera Trieste” e cercato contatti con il CLNAI proprio su queste basi, ma si rivelò poi essere un informatore dell’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia, pagato dal commissario Gaetano Collotti per fare arrestare diversi esponenti del CLN giuliano e di un “Comitato Trieste città libera”, del quale troviamo notizie proprio tra i documenti conservati da Collotti nella sua fuga da Trieste e sequestrati dai partigiani di Treviso che lo arrestarono (e fucilarono) negli ultimi giorni di guerra. Copia di questi documenti si trova ora presso l’Archivio dell’ANPI di Trieste (Busta 10) ed in essi leggiamo che il “Comitato Trieste città libera” era stato costituito in città da elementi azionisti italiani e da antifascisti sloveni che intendevano “mettersi sotto la protezione degli angloamericani, che li aiuterebbero affinché Trieste diventi porto franco”, non avevano preclusioni a collaborare con l’OF, ed avevano contatti con il CLNAI e gli angloamericani a Milano, che nel novembre 1944 li finanziarono con ben 25 milioni di lire per la loro attività.

corteo15settembreTrieste Tra gennaio e febbraio 1945 Collotti operò diversi arresti e nel corso delle sue indagini venne a scoprire che in città esisteva un (citiamo dai suoi rapporti) “gruppo austriacante che sotto gli alti auspici del Gauleiter Rainer – traditore del Reich – tendevano ad una Trieste rientrata in seno all’impero Austriaco risorto sullo sfacelo del Reich”. In pratica le autorità naziste (di nazionalità austriaca e non germanica), in collaborazione col prefetto (di nomina nazista) Bruno Coceani avrebbero avuto il progetto (del quale facevano parte anche industriali triestini come gli armatori Cosulich) per salvare il salvabile contattando gli angloamericani al momento della caduta del Reich, progettando per Trieste una sorta di protettorato austriaco con il beneplacito degli Alleati occidentali.

Tale progetto, come visto, non si è mai realizzato, ma negli anni è sempre esistito a Trieste un Movimento indipendentista, dal vecchio Movimento TLT fondato da Giovanni Marchesich (più volte eletto al Consiglio comunale), alle variazioni sul tema del figlio Giorgio Marchesich, che dopo avere tenuto in piedi il movimento per alcuni anni aderì prima alla Lista per Trieste e poi alla Lega Nord; successivamente rifondò il movimento indipendentista come Nord Libero e poi come Fronte Giuliano; negli ultimi anni si è dedicato alla formazione dei Volontari Verdi del Triveneto (presidente, nel 2009, Mario Borghezio) “ovvero la componente indipendentista della Lega Nord” (qui).

Interessante connection nel 1997 quella che vide come portavoce del Fronte Giuliano l’attuale direttore del periodico neoirredentista L’Arena di Pola nonché asserito “segretario” di un sedicente Libero Comune di Pola in esilio, il giornalista radicale (in passato radicale antiproibizionista, poi radicale trasversale) Paolo Radivo, quando tra Fronte Giuliano e vari esponenti dell’associazionismo degli esuli istriani vi fu un’unità di intenti sulla proposta di ricreare il Territorio Libero, come testa di ponte per (si legge in un loro volantino dell’epoca) il “resto dell’Istria, a Fiume e alla Dalmazia, se diventassero delle Repubbliche indipendenti, gli esuli potrebbero tranquillamente farvi ritorno assumendone anche la rispettiva cittadinanza, finalmente liberi dal giogo colonialista zagabrese”.

Nella memoria e nell’immaginario triestino il mito del TLT è rimasto vivo e presente, considerando anche il fatto che da quando l’Italia è ritornata a Trieste ha fatto di tutto per affossare l’economia locale, relegando una città che era stata il porto della Mitteleuropa, industriosa e commerciale, ad una città costretta a vivere di commercio al minuto e di assistenzialismo, con le fabbriche che chiudevano una dopo l’altra, la dismissione dei cantieri e l’abbandono della portualità, che provocarono l’emigrazione di migliaia di triestini negli anni ’50, diretti in America e soprattutto in Australia (si parla tanto dell’esodo istriano dai territori ceduti alla Jugoslavia, ma nessuno parla dell’esodo dei triestini costretti ad emigrare per il ritorno dell’Italia – “la madre ritorna, i figli partono”, si diceva a quei tempi).

È sempre esistito quindi uno zoccolo duro di filo indipendentisti, in ricordo del periodo tutto sommato positivo del Governo Militare Alleato, alimentato dal sogno di una Trieste come Montecarlo o come Singapore (!), ma il Movimento Trieste Libera stavolta sembra essere riuscito ad andare oltre a tutto quanto si è visto nel passato. Un fenomeno curioso, da analizzare.

Dopo alcune iniziative di carattere ambientalista organizzate dal movimento Greenaction Transnational di cui Roberto Giurastante era il portavoce, il gruppo iniziò a parlare di non sovranità italiana sul TLT e pertanto della non legittimità delle scelte in materia ambientale dello Stato italiano. Nel 2011 il Comitato per il Porto Libero di Trieste (Free Port Trieste) diede vita ad una serie di iniziative pubbliche per contestare la sovranità italiana sul TLT soprattutto in riferimento all’uso del Porto vecchio, e successivamente si costituì il Movimento Trieste Libera, che vide il sostegno stampa del settimanale La Voce di Trieste diretto dal giornalista Paolo G. Parovel.

Un paio di anni fa si svolse la prima festa di “Trieste Libera”, con un’interessante mostra sul periodo del Governo Militare Alleato, ed un buon successo di pubblico, che faceva la fila per farsi rilasciare le carte d’identità del Territorio Libero.

I nomi degli attuali organismi dirigenti non si trovano nel sito Trieste Libera, ma si trovano in un articolo pubblicato l’estate scorsa: presidente Stefano Ferluga (già nella Lega Nord ma uscito perché “deluso”), vicepresidente Sandro Gombač (con un passato in 5 Stelle, e con una candidatura con la lista dei comitati di quartiere  La Tua Trieste), segretario Vito Potenza “e poi ci sono Arlon Stok, Adriano Ciacchi, Roberto Giurastante” (qui).

L’exploit però si è visto da circa un anno in qua, dopo una manifestazione contro il previsto insediamento di un rigassificatore nel Golfo di Trieste (problema che sussiste tuttora, sia detto per inciso) che ha visto un migliaio di persone marciare una domenica mattina del novembre scorso, e (sarà casuale?) dopo l’inizio della campagna contro il pagamento dei tributi (imposte e tasse) all’Italia, in quanto la stessa non avrebbe sovranità sul TLT.

A questo punto prendiamo in mano i documenti.

Nello Statuto del TLT (D.L. del C.P.S. 28/11/47, pubblicato in Supplemento alla Gazzetta Ufficiale n. 295 d.d. 24/12/47) leggiamo che dall’art 21 del Trattato di pace “la sovranità italiana sulla zona costituente il Territorio Libero di Trieste (…) cesserà con l’entrata in vigore del presente trattato” (va precisato che in Italia è entrato in vigore appena il 25/11/52) e che “dal momento in cui la sovranità italiana (…) avrà cessato di esistere il TLT sarà governato in conformità di uno Strumento per il regime provvisorio redatto dal Consiglio dei ministri degli esteri e approvato dal Consiglio di Sicurezza (…) resterà in vigore fino alla data che il Consiglio di sicurezza determinerà per l’entrata in vigore dello Statuto permanente”.

Nel frattempo “fino all’assunzione dei poteri da parte del Governatore” (Governatore che avrebbe dovuto essere nominato “dal Consiglio di sicurezza dell’Onu”), il TLT “continuerà ad essere amministrato dai Comandi militari alleati, entro le rispettive aree di competenza” (cioè gli Angloamericani nella Zona A e gli Jugoslavi nella Zona B).

In pratica è successo questo. Cessata la sovranità italiana sul TLT (comprendente sia Zona A sia Zona B), l’amministrazione è passata ai Comandi alleati in attesa che l’ONU nominasse il Governatore, nomina che non è mai avvenuta, finché, con la firma del Memorandum del 1954 l’amministrazione della Zona A è passata all’Italia (la Zona B è rimasta amministrata dalla Jugoslavia, con amministrazione civile) e poi con il Trattato di Osimo sono state ripristinate la sovranità italiana e jugoslava sui territori amministrati. Che tale situazione assomigli ad una appropriazione indebita aggravata (non sembra molto corretto che l’amministratore si pappi i beni che amministra) è un dato di fatto, ma sta di fatto anche che se il TLT non è mai stato realizzato, perché mai è stato nominato il Governatore, la responsabilità è esclusivamente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la tanto conclamata ONU che dovrebbe tutelare i diritti degli indipendentisti triestini. E considerando che uno Stato non può rimanere amministrato fiduciariamente all’infinito, per uscire dalla situazione di impasse che era stata creata per la mancata nomina del Governatore e di tutto il resto che avrebbe dovuto dare vita al TLT (l’Assemblea costituente che doveva redigere la Costituzione del TLT), non ci si può neppure scandalizzare troppo se a trent’anni dalla fine della guerra le Zone A e B siano state inglobate definitivamente dagli Stati che le amministravano, per dare una certezza giuridica al tutto.

Un altro problema sollevato dagli indipendentisti è che se l’Italia non ha la sovranità sul TLT non ha neppure diritto di riscuotere i tributi in questo territorio. Di norma, però, quando uno Stato amministra un territorio, deve poter avere delle entrate per fornire i servizi di cui il territorio ha bisogno, dalle scuole alla sanità, dal personale amministrativo alle forze di sicurezza, alla manutenzione delle strade eccetera. Ciò non è mai stato messo in discussione da nessuna normativa, e pure lo Statuto che abbiamo citato prima prevede che fino al momento in cui il TLT non sarebbe stato in grado di battere moneta propria, la moneta corrente sarebbe stata la lira italiana.

Ma se oggi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu nominasse finalmente il Governatore (in altre occasioni il diritto di veto esercitato da alcune potenze ha impedito la discussione in materia), il TLT potrebbe essere realizzato? In questi giorni si parla molto di uno scambio di mail con gli uffici dell’Onu (che però non sembrano essere risoluzioni ufficiali), dalle quali risulterebbe che l’ONU avrebbe riconosciuto la sovranità italiana su Trieste, circostanza smentita dai portavoce del MLT.

Il problema in ogni caso non è solo italiano, il TLT dovrebbe comprendere anche territori oggi compresi nella Slovenia e nella Croazia: e ci domandiamo se Italia, Slovenia, Croazia rinuncerebbero così facilmente ad un pezzo consistente del loro territorio nazionale (soprattutto la Slovenia, che dovrebbe rinunciare al suo sbocco sul mare, Koper), oppure se manderebbero le truppe (se l’Italia lo fa in Val Susa non si vede perché non potrebbe farlo a Trieste), e ci troveremmo in una situazione kosovara, con la necessità di fare intervenire i caschi blu (ammesso che questi siano disposti ad intervenire).

O, se per ipotesi i tre Stati dovessero accettare serenamente questa scelta, come pensa il MTL di gestire questo territorio? Che fine farebbero le centinaia di impiegati pubblici, dagli insegnanti agli ospedalieri, agli amministrativi, che non sarebbero più dipendenti italiani? E le poche industrie rimaste, spesso foraggiate dallo Stato, che fine farebbero? Per non parlare del fatto che “cittadini originari” del TLT (stando allo Statuto sopra menzionato) sarebbero soltanto coloro che erano domiciliati il 10 giugno 1940 nell’area compresa nei confini del Territorio Libero, e i loro figli nati dopo questa data”; e dopo avere acquisito la cittadinanza del Territorio Libero “perderanno la loro cittadinanza italiana”. E tutti gli altri? Se non opteranno per la cittadinanza italiana (e di conseguenza dovranno andare via dal territorio), potranno diventare cittadini del TLT solo in seguito a richiesta specifica, dove le condizioni per ottenere la cittadinanza potranno essere determinate dall’Assemblea Costituente del Territorio Libero ed inserite nella Costituzione, cioè con criteri ancora tutti da decidere, dato che prima della nomina del Governatore non può essere costituita alcuna Assemblea. In pratica, considerando l’attuale composizione della popolazione triestina, ci troveremmo davanti o ad uno spopolamento del territorio, oppure alla situazione grottesca di una maggioranza di persone che non avrebbero diritti civili nella zona in cui vivono da decenni. E ci domandiamo se le migliaia di sostenitori del MTL sono tutti “cittadini originari”, dovee nel contesto non è del tutto peregrino quanto sostiene il Prefetto di Trieste, che se i cittadini del TLT non riconoscono la sovranità italiana in materia fiscale non dovrebbero neppure incassare stipendi e pensioni pagati dallo Stato italiano…

Infine, per quanto concerne la supposta rinascita economica, siamo sicuri che ci sarebbe immediatamente qualcuno che verrebbe qui ad investire in chissà che cosa, dato che il Porto necessita comunque di modifiche sostanziali di adeguamento ai canoni moderni?

manifestazione_MTL_a_ViennaTorniamo a parlare dei militanti del MTL che sono peculiari anche per altri motivi. Colpisce infatti che a fronte di una perfetta organizzazione di “eventi” (feste, manifestazioni, cortei), che richiede una regia di esperti in materia, il Movimento non abbia dei leader politici veri e propri (non ce ne voglia Giurastante, che stimiamo per le sue battaglie ambientaliste e di legalità, ma non ce la facciamo a definirlo un leader, né pensiamo che lui ci tenga ad una definizione del genere); non presenta (almeno pubblicamente) delle persone che delineano una linea politica ed economica che vada oltre alla dichiarazione di indipendenza, dicendo che al resto si penserà dopo.

Ciononostante il 15 settembre in piazza sono scese 5.000 persone che hanno marciato per due ore, inneggiando all’indipendenza e al mandare via l’Italia, una massa eterogenea di persone di tutte le età, moltissimi giovani, famiglie coi bambini, con i cani, anziani in carrozzina, quasi tutti nelle loro magliette “d’ordinanza”, pronti a gridare gli slogan al momento giusto (variazioni sul tema di “Trieste! Libera!”, “Libertà, libertà”, “TLT! TLT!”, con un attacco, abbastanza comprensibile, per il Piccolo, i cui articoli invece di informare, magari criticamente, i lettori sull’attività del MTL, sono piuttosto basati sullo sfottò gratuito), diretti da persone che sembravano responsabili della coreografia dei vari settori del corteo, con una banda ed un gruppo di percussioni a ritmare il passo; con un sistema organizzativo impressionante, i moltissimi striscioni tutti perfetti, serigrafati su plastica (del tutto diversi da quelli di stoffa dipinti a mano cui siamo abituati noi residuati della vecchia sinistra), un vero e proprio shopcenter tra bandiere, magliette e gadget di vario tipo, dagli adesivi ai megafonini personalizzati; ed infine il servizio d’ordine, dotato di radiotelefoni e perfettamente in grado di controllare una tale moltitudine di gente (e diciamo che visto il fisico dei personaggi che chiudevano il corteo, tutti in rigorosa maglietta nera, non ci piacerebbe incontrarli in un momento in cui non sono di buon umore), che ci dicono sia stato fornito dal promoter di arti marziali Alessandro Gotti, con un passato in autonomia operaia ed oggi (dopo una breve parentesi legata a questioni di cocaina) convinto sostenitore dell’indipendenza di Trieste.

Tutto questo richiede una regia: infatti una delle domande che si sentono in città è “ma chi gli sta dietro?”. “Nessuno”, rispondono loro, “siamo noi e basta, ci autofinanziamo”. Sì, per l’autofinanziamento ci possiamo forse anche stare, considerando (oltre agli introiti delle feste e la vendita dell’oggettistica) la proposta che troviamo nel loro sito (forse unica proposta di un certo spessore): Il Movimento Trieste Libera ha ritenuto opportuno creare al proprio interno un ramo dedicato appositamente all’imprenditoria, denominato Trieste Libera Impresa, allo scopo di consentire agli imprenditori associati di poter far valere i propri diritti di Imprenditori del Territorio Libero di Trieste, in virtù del diritto internazionale vigente. (…) Anche attraverso il tuo contributo economico, di idee, proposte ed operatività, è possibile fin d’ora garantire a te ed a quanti come te operino imprenditorialmente nella Zona A del Territorio Libero di Trieste il superamento di quell’illegittimità che perdura da quasi sessant’anni (…).

Quindi, se gli “imprenditori” triestini hanno ritenuto di aderire anche con il loro “contributo economico”, si può capire come il MTL si possa autofinanziare.

È rispetto alla regia tecnica di tutto l’apparato invece che ci domandiamo chi ci stia dietro: dove e come hanno imparato ad organizzare gli “eventi” in questo modo così raffinato, i sei “dirigenti” di cui abbiamo letto i nomi sopra? Oppure si sono rivolti a qualche organizzazione specializzata, così come hanno noleggiato un aereo per le riprese dall’alto del corteo?

Tornando alle persone che hanno aderito a questo movimento, ci si domanda se questa è un’evoluzione locale del grillismo, dove il “se ne vadano” non è riferito solo alla classe dirigente ma a tutto uno Stato, con i suoi amministratori ed esponenti politici, quindi una rampa in più sul livello dello scontro rispetto alle cose che accadono in Italia; e queste persone, che oggi scendono in piazza in massa, dov’erano finora, per chi hanno votato in precedenza, o forse non hanno votato proprio, e, soprattutto: per chi voterebbero domani?

Perché il MTL non ha ancora chiarito se ha intenzione di presentarsi alle elezioni o no (visto che non riconoscono le elezioni indette dall’Italia), ma nel caso in cui si presentassero per il Comune, ottenendo il governo della città, quali persone ci troveremmo come amministratori, considerando che, come si diceva prima, non hanno esponenti di spessore politico, culturale, amministrativo, ma sono (più che non i seguaci di Grillo) la gente della strada, che non si è mai interessata di politica e finora o ha delegato tutto oppure non è neppure andata a votare?

O forse al momento di andare al voto e di compilare le liste verrebbero finalmente fuori i nomi di chi sta organizzando tutto questo?

Ma c’è un altro punto strano in tutta questa vicenda, e riguarda l’avvocato che il MTL ha nominato come difensore nelle proprie cause contro la sovranità italiana sul TLT: Edoardo Longo di Pordenone, classe 1958, in attività dal 1984. La sua biografia (reperibile in rete oltre che nel suo sito personale  anche in formato pdf qui) è oltremodo interessante, per cui ne stralciamo alcuni brani (gli errori di sintassi ed ortografia sono della fonte).

Difensore senza attenuazioni opportunistiche nei processi politici contro il dissidenti antimondialisti di destra, ha riversato la sua esperienza in materia in alcuni libri e in moltissimi articoli contro le aberrazioni del sistema giudiziario al servizio delle lobbies plutocratiche internazionali. (…) Dalla metà degli anni ‘8O svolge una intensa attività di ricerca culturale e pubblicistica, dapprima in ambito culturale tradizionale (con nette influenze del pensiero di Julius Evola e Domenico Rudatis di cui era amico personale), poi in ambito più marcatamente politico. (…)

Anche la sua attività pubblicistica, molto vasta, merita di essere conosciuta. Ne citiamo le opere più significative.

Nel 1996 per il tipi de il Ventaglio di Roma ha pubblicato Il Fuoco e le Vette. Lungo i sentieri dell’arcaica Tradizione Ariana, un’antologia che raccoglie quasi tutti gli scritti di Edoardo Longo sulla metafisica delle vette (ora esaurita).

librodilongoEd ancora:

Nel 1989 ha scritto un lungo saggio (ora ristampato ne Il Coltello di Shylock) sui rapporti fra Giudaismo e Massoneria in appendice al volume edito da Ar di Malynski, La Guerra Occulta.

Il “giudaismo” sembra essere un chiodo fisso delle problematiche longhiane:

Il Coltello di Shylock. Storie di ordinaria repressione giudaica, edito nel 2002 dalla editrice triestina la Rocca d’Europa è l’ultimo (al momento) testo pubblicato.

E di questo “saggio” (?) ecco la squisita presentazione fatta da Avanguardia (rivista siciliana appartenente alla categoria dei cosiddetti rossobruni) nel n. 198 (luglio 2002):

Una rasoiata in faccia all’ebraismo internazionale, una testa di porco lanciata in sinagoga, ottantotto punti di sutura sulla piaga sionista: questo è il coltello di Shylock.

Proseguendo nella biografia autorizzata del Nostro leggiamo anche:

Molte note sulle vicende politico-giudiziarie dell’avv. Longo possono essere lette nelle note e commenti al libro Contra Judaeos di Telesio Interlandi che Edoardo Longo ha reso pubblico per la prima volta dal dopoguerra.

Interlandi, per chi non lo sapesse, era uno dei teorici della Difesa della razza, e così Longo ha spiegato (molto aulicamente, va detto) il motivo della sua riscoperta di questo fascista razzista:

Quando lessi un anno fa, per caso, che il libro di Telesio Interlandi contra Judaeos dopo la guerra era stato gettato al macero e mai più ristampato perché giudicato il testo più biecamente antisemita pubblicato in Italia durante il ‘bieco ventennio fascista’, decisi che ne avrei trovato una copia superstite e lo avrei fatto ristampare. A costo di farlo a mie spese, vista la penuria di editori coraggiosi esistenti in Italia.
Ecco, ai lettori del web, il libro.
Ho mantenuto la promessa.
Il testo che segue è stato reperito fortunosamente in una sperduta biblioteca di provincia, mentre ammuffiva in uno scantinato. Grazie a un determinato e valido camerata, l’amico Giampaolo Speranza che qui ringrazio, lo abbiamo fotocopiato e digitato nella presente versione elettronica, affinché giri libero e veloce sulle imprendibili rotte del web, lontano dall’Occhio Malefico della giudaica Polizia del Pensiero che sorveglia le case editrice.
Vola, piccolo libretto mordace, vola libero come un vascello pirata, lungo le sterminate rotte della comunicazione del futuro, ancora non imbrigliata dalle catene della ‘democrazia’…

Per non tediarvi ulteriormente, vi segnaliamo ancora solo un’ultima collaborazione:

Nel 1999 ha pubblicato una lunga introduzione dal titolo La Runa del Lupo al volume La rivoluzione è come il vento di Marcello de Angelis, Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi (ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1999).

I tre autori hanno un comune passato in Terza Posizione: de Angelis, oggi giornalista di Area, è stato il cantante del gruppo non conforme “270 bis” (che è l’articolo del Codice Penale sull’associazione sovversiva), di cui rammentiamo la canzone Cuore nero con un testo da apologia di reato (E io ho il cuore nero/e tanta gente/mi vorrebbe al cimitero./Ma io ho il cuore nero/e me ne frego e sputo/in faccia al mondo intero…/Il braccio che si stende calando giù la sbarra/lo schianto delle ossa, lo stridere dei denti/lo sguardo inorridito di mille benpensanti:/ci vuole così poco per essere contenti); Fiore, dopo avere latitato per anni in Gran Bretagna finché non è andata in prescrizione la sua condanna per associazione sovversiva è oggi leader carismatico di Forza Nuova; Adinolfi, dopo le sue vicissitudini legali (nella biografia del suo sito si legge che fu “condannato per reati associativi sia nell’ambito di Terza Posizione che in quello dei Nar – a causa della sua latitanza operativa in Italia, dove è rientrato clandestinamente nel 1982”) collabora oggi con CasaPound e con varie testate comunitariste (i rossobruni) ed ha fondato il Centro Studi Polaris che si occupa di mondialismo e di problemi economici.

Il motivo per cui un movimento, che si dichiara “né di destra né di sinistra” si sia scelto un avvocato dalle chiare posizioni filo nazifasciste e razziste, si può spiegare (forse) solo valutando il fatto che le pur vaghe teorie economiche di Trieste Libera (ma più che di essa, dell’altra associazione indipendentista, il Comitato Porto Libero, che ha negli anni passati organizzato alcune iniziative su questi argomenti) sono simili a quelle esposte da un filone di pensatori della destra antimondialista, Giacinto Auriti in primis (l’ex missino che collaborò con Beppe Grillo nella stesura di Apocalisse morbida nell’ormai lontano 1998), il teorico del signoraggio e della local money, temi purtroppo oggi condivisi in parte anche da chi non fa diretto riferimento alla nuova (per modo di dire…) destra, ma appunto dichiara di voler superare la dicotomia “destra-sinistra” in funzione anticapitalista.

Proprio sulla questione del “signoraggio” e delle “potenzialità del sistema monetario del Territorio Libero di Trieste” il Comitato Porto Libero ha organizzato una conferenza dal titolo “Il Territorio Libero avrà un proprio sistema monetario”, il 2/12/11 con relatore il dottor (è un dentista, in effetti) Antonio Miclavec che ha scritto, assieme a Marco della Luna il libro €SCHIAVI, pubblicato da una casa editrice rosso bruna, l’Arianna editrice; e che si è presentato come candidato sindaco di Udine alle ultime elezioni amministrative, nella lista di Forza Nuova.

Tornando al ruolo dell’avvocato Longo, se può sembrare oscuro che un legale di così chiara fede patriottica difenda il diritto di alcuni cittadini italiani a voler staccare un pezzo di territorio dallo Stato italiano, proviamo a fare mente locale sul fatto che il nazismo, a differenza del fascismo, non aveva alcun interesse a che Trieste rimanesse italiana, anzi l’aveva accorpata a sé dopo l’8 settembre 1943, ed il progetto dei gerarchi locali (austriaci, si badi bene) per la città, una volta convintisi dell’ineluttabilità della sconfitta del Terzo Reich, era la costituzione di una sorta di protettorato austriaco sul territorio triestino, con l’accordo degli Angloamericani, in modo da riacquisire il controllo del porto perduto dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale.

In conclusione un ultimo interrogativo. Abbiamo visto 5.000 persone marciare convinte che l’indipendenza del Territorio Libero di Trieste è una cosa che verrà realizzata a breve. Ma se ciò non dovesse accadere (come probabile che sia), come reagiranno queste persone, di fronte alla prospettiva che le tasse che non hanno pagato verranno loro riscosse coattivamente, che dovranno rifondere le spese di giudizio, o, semplicemente, per coloro che si sono limitati ad aderire al Movimento senza fare disobbedienza civile, che il progetto in cui si sono sentiti coinvolti ed in cui hanno riposto fiducia si è rivelato una bolla di sapone? Perché non è facile, dopo avere convinto migliaia di persone che un cambiamento radicale di questo tipo era cosa fatta, dover ammettere di avere sbagliato tutto e ritornare nei ranghi.

A tutte queste domande probabilmente troveremo delle risposte “solo vivendo”, come cantava Battisti, sperando però che nel frattempo nessuno si faccia male.

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