transumanesimo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 17 Sep 2025 20:24:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Umano, troppo umano https://www.carmillaonline.com/2024/09/21/umano-troppo-umano/ Sat, 21 Sep 2024 05:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84495 di Domenico Gallo

“Glory and life to the new flesh” David Cronenberg

Il numero 361 della prestigiosa rivista italiana di filosofia aut aut è stato intitolato “La condizione postumana”[1]. Uscita nel gennaio- marzo del 2014, la monografia curata da Giovanni Leghissa iniziava la sua profonda riflessione con due domande: “Siamo sicuri di sapere cosa sia l’umano? Disponiamo di definizioni condivise dell’umano?”  Interrogativi che sfacciatamente richiamano a un lavoro interdisciplinare e a camminare lungo i confini degli specialismi che si intersecano e che sfumano, confini che si deve percorrere se, analogamente, qualcuno chiedesse “cosa è la vita”, oggi che [...]]]> di Domenico Gallo

“Glory and life to the new flesh”
David Cronenberg

Il numero 361 della prestigiosa rivista italiana di filosofia aut aut è stato intitolato “La condizione postumana”[1]. Uscita nel gennaio- marzo del 2014, la monografia curata da Giovanni Leghissa iniziava la sua profonda riflessione con due domande: “Siamo sicuri di sapere cosa sia l’umano? Disponiamo di definizioni condivise dell’umano?”  Interrogativi che sfacciatamente richiamano a un lavoro interdisciplinare e a camminare lungo i confini degli specialismi che si intersecano e che sfumano, confini che si deve percorrere se, analogamente, qualcuno chiedesse “cosa è la vita”, oggi che creazioni/esseri artificiali si affacciano nelle nostre società? È possibile che la potente tradizione umanistica, intesa nel complesso di tutte le sue correnti, compresa quella marxista, sia partita da un postulato di unicità della specie umana e lo abbia mantenuto, seppure modificato, fino a oggi, affrontando prima i paradigmi darwiniani e, nel contemporaneo, la prospettiva trans-umana. Luigi Luca Cavalli Sforza spiega nel suo saggio L’evoluzione della cultura come la “cultura” sia “l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi nel nostro gruppo sociale”[2]. Si è trattato di uno straordinario risultato dipeso da una capacità di comunicazione fra individui, anche di generazioni diverse, resa possibile dal linguaggio. L’evoluzione biologica degli umani e la trasmissione della cultura da una generazione alla successiva sono state caratterizzate, seppure espresse in periodi diversi, da similari meccanismi di mutazione e selezione. Analogamente le scienze si sono trovate di fronte sia a variazioni di caratteristiche biologiche, pur nell’ambito di homo sapiens, sia alla scoperta di variazioni culturali che, con la globalizzazione sono condannate a scomparire. È dunque impensabile pensare all’umano senza tenere conto che, oltre alle sue caratteristiche genetiche, le nuove generazioni ereditano una serie di elementi filosofici, scientifici, tecnici, linguistici e artistici sempre maggiore che costituisco un patrimonio ereditario che, a oggi, ha reso unico l’umano. “Il dispositivo corporeo è da sempre la più palpabile garanzia d’identità per l’essere umano, e il suo legame più immediato con la natura. È ben vero, infatti, che esso è sede di fenomeni tipicamente umani, di pratiche simboliche, di ritualità e relazioni; ma è altrettanto vero che partecipa della sostanza e della qualità del mondo all’uomo. […] Il corpo è essenzialmente un costrutto culturale, che viene vissuto dall’uomo secondo modalità immaginarie: esso patisce sempre, quindi, una determinazione sociale e tecnologica, e perciò, in ultima analisi, storica”[3]. Nel 1997, assieme ad Antonio Caronia, avevamo iniziato un’analisi di come la fantascienza contemporanea, il filone autoproclamatosi cyberpunk, fosse il linguaggio più efficace per descrivere le radicali trasformazioni che stavano travolgendo l’umano a seguito di una immersione radicale in un ambiente digitale ad alta interazione, con tecnologie protesiche associate a un sistema di memorizzazione e distribuzione dell’informazione estremamente evoluto e globale. Il saggio che ne era seguito, intitolato Houdini & Faust, a una lettura di oggi soffre di una serie di imprecisioni terminologiche proprio riguardo a termini quali uomo, umano, natura, artificiale. Erano parole che stavano mutando, prendendo atto che “tutta la storia dell’uomo si lascia descrivere come la storia della progressiva artificializzazione del suo corpo”[4], anzi eravamo convinti che l’umano fosse simbolicamente nato nel momento stesso in era avvenuto il transito tra l’assolutamente naturale e il primo artificiale. Non sappiamo se è stato l’uso di una pietra per offendere o difendersi da un aggressore, l’osso usato come clava immaginato nel film 2001: Odissea dello spazio di Stanley Kubrick o un’altra “riprogrammazione” di un oggetto casualmente a disposizione, ma la nascita dell’umano non può che essere coincisa con un’azione protesica, con l’uso di un oggetto come estensione e potenziamento del pugno o altro di simile. Questo utilizzo di oggetti per aumentare e migliorare la sopravvivenza di un individuo e del suo gruppo è stato probabilmente copiato e tramandato, estinto e riscoperto molte volte, fino a quando il meccanismo di eredità culturale descritto da Cavalli Sforza ha preso il sopravvento per diventare un’informazione ereditabile, e quindi permanente, nell’esistenza pratica degli umani. Se rileggiamo Marshall McLuhan relativamente all’invasione digitale e protesica, due aspetti dell’evoluzione tecnologica che non sono separabili ma intimamente connessi, constatiamo come ogni tecnologia disponibile non sia altro che un potenziamento e una specificazione di un’attività umana, e nulla delle tecnologie sviluppate e diffuse in ogni epoca può essere considerata come non umana o a-umana. “Tutti i media, dall’alfabeto fonetico al computer, sono estensioni dell’uomo che gli causano cambiamenti profondi e duraturi e trasformano il suo ambiente. L’estensione è un’intensificazione, un’amplificazione di un organo, un senso o una funzione, e dovunque essa abbia luogo il sistema nervoso centrale sembra originare un torpore auto-protettivo dell’area affetta, isolandola e anestetizzandola così dalla consapevolezza cosciente di ciò che le sta accadendo”[5]. Il progresso scientifico e i dispositivi diffusi a livello di massa hanno ha prodotto un progressivo avvicinamento tra l’umano e le tecnologie da lui prodotte, fino a portarlo in quella condizione che McLuhan descriveva come “un organismo che indossa il cervello furi dal cranio e i nervi fuori dalla pelle”[6]. Era il 1964, e quella che potremmo definire una visione originale della sociologia e dell’antropologia già preannunciava un mondo in un cui il concetto stesso di umano sarebbe stato posto in discussione, quasi provocatoriamente ad affermare che, a partire dalla sua origine nella valle del fiume Omo in Etiopia, fosse la prima volta che collettivamente e interdisciplinarmente si dovesse ragionare su cosa veramente volesse dire essere umani. Un’urgenza che era dettata dall’accelerazione folle con cui le tecnologie avevano iniziato a entrare nel corpo, rendendolo più forte e resistente, più longevo, più performante, più aggressivo, quindi potenziando l’aspetto fisico dell’umano, la sua durata, nell’idea che l’umano fosse una macchina bio-meccanica, ma, contemporaneamente, ampliando la sua sensorialità attraverso la disponibilità istantanea dei contenuti di banche dati globali, diffondendosi nelle reti, interagendo a distanza, comunicando istantaneamente in ogni punto del pianeta, ma anche manipolando, flettendo e falsificando la realtà come mai era riuscito a fare.

Riccardo Gramantieri offre con questo saggio un contributo al dibattito interdisciplinare che riesce a inquadrare l’arco temporale di un fenomeno culturale che spesso, e sbagliando, si è voluto collocare temporalmente negli ultimi decenni, quando l’accumularsi di tecnologie digitali e bio-meccaniche uscite dai laboratori e diffuse a livello di massa sono diventate elementi fondamentali della nuova quotidianità. La manifestazione in atto è il punto terminale di un complesso tragitto dell’immaginario che, a oggi, era ancora da definire completamente, anche se è stabilito che sia stata la fantascienza a costituirsi come laboratorio intellettuale in cui l’identità dell’umano ha sperimentato letterariamente la sua mobilità, l’accompagnarsi allo sviluppo della società in un legame imprescindibile. Gli anni Ottanta del Novecento sono stati caratterizzati da un lavoro collettivo sulla narrativa di fantascienza che cercava di comprendere il rapporto tra le produzioni dell’immaginario e le trasformazioni antropologiche provocate dal diffondersi di nuovi media, media da intendersi secondo la definizione di McLuhan, cioè il complesso delle tecnologie e non solo quelle della comunicazione, come invece è diventato patrimonio del linguaggio comune. Uno dei primi interventi è stato il breve saggio di Caronia intitolato Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale[7], uscito in prima edizione nel 1984 per l’editore Theoria, a cui sono seguiti altri due successivi ampliamenti con le edizioni Shake (2001, 2008). Caronia metteva in relazione la storia dei tentativi di sviluppare automi meccanici sempre più sofisticati con la fantascienza che prendeva origine dal Frankenstein di Mary Shelley, proseguiva nella narrativa popolare dei pulp statunitensi per poi evolversi nei modelli sempre più complessi di Philip K. Dick, Cordwainer Smith, Alice Sheldon e Samuel R. Delany. Uno degli elementi di novità dell’approccio usato ne Il cyborg da Caronia consisteva nel comprendere che la capacità elaborativa che produceva l’immaginario non era peculiarità esclusiva degli autori dotati di una maggiore qualità letteraria ma poteva essere presente anche nelle produzioni più semplici e immediate che potevano essere facilmente essere bollate di scarsa qualità letteraria. Non si trattava però dell’approccio sociologico introdotto da Umberto Eco in Apocalittici e integrati, che si rivolgeva ai prodotti di consumo o di evasione, ma che sembrava essere specifico della fantascienza e dei suoi meccanismi, e della sua specifica competenza di elaborazione attorno al rapporto tra l’umano e la macchina, tra l’umano e le strutture di potere che si avvalevano della tecnologia per reprimerlo, tra l’umano e i confini esterni e interni che gli si paravano davanti. Tra i molti interventi collettivi italiani che affrontano la fantascienza e il suo rapporto con le discipline della cultura, la Rivista di antropologia contemporanea ha dedicato un fascicolo monografico al rapporto tra antropologia e fantascienza; nell’intervento di apertura intitolato “Le meraviglie del possibile” viene introdotto il “desiderio di altrove”, tratto dall’intervista a Wu Ming come “nozione che ingloba un’idea di utopia e alterità possibile, in senso che è certamente politico ma va anche oltre, investendolo di dimensioni intellettuali ed esistenziali più ampie” [8], riconoscendo alla fantascienza quella peculiarità che James G. Ballard aveva sintetizzato definendola la letteratura del Ventesimo secolo.

Gramantieri dimostra quali radici profonde siano innervate nell’immaginario della modernità, per successivamente maturare negli elementi costituenti dell’immaginario della postmodernità, percorrendo un itinerario a ritroso su come un intero dizionario scientifico si sia progressivamente ibridato con la letteratura, seguendo in autonomia proprie strade che dai laboratori d’avanguardia dei primi dell’Ottocento sono transitate nei circoli intellettuali progressisti e conservatori per approdare, infine, alle rutilanti invenzioni immaginarie dell’epoca dei pulp statunitensi. È in questa esperienza editoriale che, assieme alla divulgazione scientifica, la narrativa poliziesca, l’esotico e il sovrannaturale, il romanzo d’avventure, l’epopea dello sviluppo industriale e civile statunitense, la fantascienza si sviluppa fino a diventare uno degli elementi portanti della cultura di massa del mondo occidentale. È una cultura che si associa a una profonda evoluzione del lavoro, sempre più a contatto con la macchina, sia per gli aspetti di produzione nelle assembly line, sia nell’evoluzione delle competenze artigianali in conoscenze tecniche specializzate necessarie nella ricerca e sviluppo come nella sempre maggiore richiesta di manutenzione degli impianti industriali. È un rapporto ambiguo e contraddittorio che vede la nascita di un proletariato industriale metropolitano, con un suo progetto di rivendicazioni salariali e sociali, che raccoglie paure, tensioni e speranze, un magma che la nuova classe dei tecnici, dei progettisti e degli studenti introietta, forse fraintende, ma che inizia a diventare egemone nell’immaginario dell’intero Novecento. Già nel 1931, un autore pulp di discreto successo, iniziava a raccontare la storia del professor Jameson, l’ultimo sopravvissuto della razza umana che, grazie a un intervento alieno che gli inserisce il cervello in un involucro metallico, lo rende immortale e in grado di viaggiare nel cosmo[9]. Così iniziava una serie articolata di racconti firmata da Neil R. Jones, nota come la serie degli Zoromi, e pubblicata sulla rivista Amazing Stories che, assieme ad altri esempi, contribuisce a diffondere verso milioni di lettori l’idea del cyborg e di un possibile futuro di interfacce e protesi. È una sensazione che molti stavano probabilmente provando all’interno delle nuove produzioni a base tecnologica in rapida diffusione, sperimentando con la lettura, una attività non più elitaria ma di massa, un rafforzamento delle emozioni che riguardavano la riduzione della distanza tra macchine e umani. La lunga vita dell’idea postumana, la complessa rete di scritture immaginarie scovate, classificate e correlate da questo lavoro di Gramantieri, che offre testi e connessioni inediti nel dibattito sul postumano, nell’idea condivisa di una condizione connaturata nella stessa evoluzione di homo sapiens, offre materiali e provocazioni per quell’aspetto che è chiamato trans-umanesimo, ovvero la possibilità di una rideterminazione dei rapporti di dominio che gli umani hanno costituito nei confronti dell’intero mondo, degli animali, delle pianti e degli oggetti. Secondo Ballard, in ogni epoca, la fantascienza è “l’unica forma letteraria che guardi in avanti. Tutte le altre forme in cui si esprime la letteratura sono rivolte al passato. Il loro carattere contraddistintivo è la visione retrospettiva, mentre la fantascienza utilizza il futuro per interpretare il presente piuttosto che attraverso il passato. Il vocabolario usato dalla fantascienza è quasi totalmente composto da elementi orientati al futuro, come le scienze, le tecnologie, lo sviluppo della politica, dei problemi sociali, della pubblicità e così via”[10]. Non deve quindi stupirci se nella fantascienza, all’interno del suo lavorio con cui affronta l’estrema mutabilità e le potenzialità del presente, ci offra visioni apparentemente contraddittorie che vanno a popolare un immaginario complesso in cui si intrecciano tensioni, speranze, disillusioni e paura, utopia e distopia, oppressione e rivolta, frustrazione e riscatto. È l’emergere nel quotidiano di prospettive radicali e di alterità in grado di modificare le esistenze rapidamente e senza controllo che porta a immaginare narrazioni devianti rispetto allo stato di cose presenti. Per questo motivo il diffondersi della “nuova carne” stimola prospettive di super umanità, di immortalità, di potenziamento fisico e psichico, di dominio del cosmo attraverso biologia radicale, trapianti e protesi, ma anche di una modifica del paradigma dell’umanesimo, visto che gli stessi progetti di potenziamento possono essere applicati ad animali, piante e oggetti. Una serie di creazioni artificiali ha travagliato l’immaginario, come automi, robot, replicanti, androidi, simulacri, intelligenze artificiali, ognuno di loro riproduceva, specializzava e potenziava una caratteristica umana, aiutando e sostituendo gli umani in disciplinate attività di produzione e guerra, ma anche indisciplinandosi, fino a darsi progetti propri e autonomi e, a volte, opporsi e combattere l’umano. La visione di Philip K. Dick è nota e descrive un mondo in cui macchine ed esseri artificiali assumono un aspetto umano e “sono animate da qualche sinistro proposito”[11], mentre gli umani, snaturati da un subdolo sistema dittatoriale e consumista, sono alienati fino a sminuire la propria vitalità e perdere la loro più preziosa caratteristica, l’anima. Per Dick, un mondo in cui esseri artificiali si evolvono fino a simulare una grottesca umanità e gli umani sono confusi e hanno perduto quella loro eccezionalità che gli proviene dalla volontà divina è un mondo orribile, è una distopia, ma la sua visione umanistica e conservatrice, per quanto eccezionalmente coniugata nei più importanti romanzi della fantascienza, si è incrinata di fronte alla critica “ironica ed empia” del pensiero femminista di Donna Haraway. Haraway prende molto seriamente il contributo della fantascienza all’interno del dibattito politico, proprio perché intende contestare radicalmente “le tradizioni religioso-secolari ed evangeliche della politica statunitense, non escluso il femminismo socialista”[12], scegliendo un punto di vista empio, blasfemo, verso quelle che sono considerate origini culturali incontestabili di un’integrità dell’umano, o dell’uomo, termine con cui la cultura del patriarcato intende comprendere umani maschi e femmine. Un’integrità dell’umano che evoca inevitabilmente una creazione originale e un’immutabilità da preservare. Allora una visione culturalmente empia consente di mettere il cyborg al centro di una realtà che non deve garantire un’ortodossia alle passate origini ma di una progettualità futura che sia ibrida, sporca, empia, ironica, creativa, capace di tenere insieme aspetti incompatibili. Dichiarando che “il confine tra fantascienza e realtà sociale è un’illusione ottica”[13], Haraway sembra suggerirci che discutere di politica, di filosofia e di antropologia attraverso la fantascienza può condurre a soluzioni innovative e capaci di superare “la tradizione del capitalismo razzista e fallocentrico”[14], un’idea che poneva l’umano (e in generale l’uomo) nella posizione privilegiata di appropriarsi della natura, dominare e sfruttare gli esseri e gli oggetti che ne fanno parte, mentre una figura come il cyborg (quello che noi stiamo, volenti o nolenti, diventando) è un individuo eterodosso di un mondo post-genere che non deve ubbidire a nessuna delle categorie della tradizione, ma creare da sé il proprio progetto individuale e collettivo. La condizione trans-umana può consistere nella riflessione su un mondo in cui oggetti e componenti vegetali e animali entrano nell’organicità dell’umano, al di là delle consuete esperienze dell’alimentazione, della respirazione e delle ulteriori interazioni classiche, modificandone singolarmente le funzionalità, l’aspetto, le percezioni, l’emotività, il pensiero, mentre oggetti, animali e piante assumono caratteristiche umane come un’intelligenza che può funzionare sul modello umano come secondo altri modelli. Leghissa propone di considerare questo processo come un’evoluzione possibile verso una serie di scelte etiche orientate a creare un rapporto da pari tra le diverse specie che “dovrebbe spingere l’uomo a intrattenere un diverso rapporto con l’animale”[15] (e con gli altri abitanti vegetali e minerali del pianeta). Una modifica, in analogia a quanto prefigurato nel Manifesto cyborg di Haraway, destinata a scardinare un ordine economico, politico ed etico che oggi identifichiamo nel patriarcato e nella sua applicazione delle gerarchie come metodo. Autrici come Ursula Le Guin e Alice Sheldon sono state le più efficaci critiche sia del determinismo biologico sia della scontatezza dei ruoli che caratterizzano il mondo globalizzato dal progetto occidentale, proponendo tra le più vivaci e impressionanti visioni altre, defamiliarizzando la realtà quotidiana in cerca di quei “vizi di forma” così significativi per Primo Levi e che sono stati alla base della sua straordinaria fantascienza.

Questo saggio è l’introduzione al volume di Riccardo Gramantieri, Presagi di Postumanesimo. Dal romanzo vittoriano all’epoca dei Pulp, Mimesis, pp. 568, euro 38,00 stampa.

[1] G. Leghissa (a cura di), La condizione postumana, aut aut 361, gennaio-marzo 2014, il Saggiatore, Milano 2014

[2] L.C. Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni, Torino 2004 – 2016 p. 1

[3] A. Caronia e D. Gallo, Houdini e Faust: Breve storia del cyberpunk, Baldini&Castoldi, Milano 1997, p. 98

[4] A. Caronia e D. Gallo, op. cit., p. 98

[5] M. McLuhan, Intervista a Playboy, Franco Angeli, Milano 2013

[6] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 2002, p. 68. Nell’edizione citata troviamo: “la tecnologia elettromagnetica richiede dall’uomo una docilità profonda e la quiete della meditazione, come s’addice a un organismo che ha ora il cervello fuori del cranio e i nervi fuori della pelle.” Si è preferito proporre una differente traduzione del testo originale.

[7] A. Caronia, Il cyborg: saggio sull’uomo artificiale, Shake, Milano 2008. Da diverso tempo penso che, forse, oggi Caronia avrebbe accettato di modificare il sottotitolo in Saggio sull’artificializzazione dell’umano.

[8] F. Dei, F. Dimpflmeier e F. Vietti, “Le meraviglie del possibile: antropologia e fantascienza”, in Rivista di antropologia contemporanea vol. 1, gennaio-giugno 2023, il Mulino, Bologna 2023, p. 6

[9] N. Z. Jones, “Il satellite di Jameson”, in I. Asimov (a cura di), Alba del domani: La fantascienza prima degli ‘Anni d’oro, Nord, Milano 1976

[10] J. G. Ballard, “1968: Uncredit. Munich Round Up. Interview with J.G. Ballard”, in S. Sellars and D. O’Hara. Extreme Metaphors: Interviews with J.G. Ballard 1967-2008, Fourth Estate, London 2012, p. 11

[11] P.K. Dick, “L’androide e l’umano”, in L. Sutin (a cura di), Philip K. Dick. Mutazioni: Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano 1997, p. 225

[12] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, in Manifesto Cyborg: Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 39

[13] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, op. cit. p. 40

[14] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, op. cit. 41

[15] G. Leghissa, “Premessa”, in G. Leghissa (a cura di), La condizione postumana, aut aut 361, gennaio-marzo 2014, il Saggiatore, Milano 2014, p. 7

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L’anti-utopia realizzata https://www.carmillaonline.com/2024/06/28/lanti-utopia-realizzata/ Fri, 28 Jun 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83044 di Sandro Moiso

Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 278, 15,00 euro

“Un edificio grigio e pesante di soli trentaquattro piani. Sopra l’entrata principale le parole: “Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale” e in uno stemma il motto dello Stato mondiale: Comunità, Identità, Stabilità”. (A. Huxley – Brave New World, 1932)

Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. […] Si [...]]]> di Sandro Moiso

Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 278, 15,00 euro

“Un edificio grigio e pesante di soli trentaquattro piani. Sopra l’entrata principale le parole: “Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale” e in uno stemma il motto dello Stato mondiale: Comunità, Identità, Stabilità”. (A. Huxley – Brave New World, 1932)

Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. […] Si potrebbe dire che la fantascienza è morta proprio perché ha trionfato. Non è morta perché ha perso, è morta perché ha vinto. ( J. Ballard – intervista rilasciata a Sandro Moiso, giugno 1992)

E’ un allarme di tutto rispetto quello lanciato dal testo presentato in Italia da Malamente in coedizione con Istrixistrix e pubblicato per la prima volta in Francia dal collettivo Pièces et Main d’Oeuvre di Grenoble nel 2017. Un allarme che, al di là di alcune forzature interpretative, dovrebbe fare aprire gli occhi dei lettori sulle prospettive reali di tante promesse contenute nell’esaltazione del liberalismo e della sua potenza tecnico-scientifica. Promesse che, sebbene dirette formalmente, a tutti i cittadini del pianeta, o almeno della parte bianca e occidentale dello stesso, in realtà non sembrano voler far altro che eternizzare lo stato di cose presenti, peggiorandolo per i più pur di migliorare le condizioni di esistenza delle sua classi dirigenti ovvero dei suoi funzionari e profittatori più spudorati.

Avrete già sentito parlare del transumanesimo e dei transumanisti; di una misteriosa minaccia, un gruppo di fanatici, una società di scienziati e industriali, discreta e potente, la cui trama occulta e l’obiettivo dichiarato consistono nel liquidare la specie umana per sostituirla con una specie superiore, “aumentata”, di uomini-macchine. Una specie che sarà il risultato dell’eugenismo e della convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, neuro-tecnologie e degli immensi progressi della scienza.
Avrete già sentito parlare dell’ultimatum, cinico e provocatorio, di un ricercatore in cibernetica: «Ci saranno persone impiantate, ibridate, e queste domineranno il mondo. Le altre che non saranno come loro, non saranno tanto più utili delle nostre vacche tenute al pascolo»1.
O ancora: «Quelli che decideranno di restare umani e rifiuteranno di migliorarsi avranno dei seri handicap. Costituiranno una sotto-specie e saranno gli Scimpanzé del futuro»2.

Queste le parole con cui si apre l’Appello posto all’inizio del testo3. La denuncia di un progetto di superamento dei limiti della specie (transumanesimo) che porta con sé la differenziazione all’interno della stessa non solo più in termini di classe, potere d’acquisto, diritti politici e sociali e di appartenenza etnica e di genere, ma, soprattutto, a livello cognitivo e di innovazione tecnologica della stessa fisiologia con cui gli umani convivono e vivono da centinaia di migliaia di anni.

Il riferimento agli scimpanzé non è casuale: era questa la forma fisica della nuova “classe operaia” prodotta in laboratorio nel visionario testo di Aldous Huxley, Il mondo nuovo, pubblicato nel 1932. Scimmie obbedienti e limitate dal punto di vista cognitivo proprio per migliorarne il rendimento e impedire possibili rivolte di cui gli individui “normali” sarebbero stati ancora capaci. Anche in un regime dittatoriale.

Ma il mondo prefigurato dal testo curato dal collettivo di Grenoble, non è il mondo dei totalitarismi e delle dittature del ‘900. No, è quello della libera scelta, di individui che volontariamente scelgono di trasformarsi per avvicinare sempre più il corpo umano e quello sociale ad una macchina perfetta. In cui l’assenza di inserti nanotecnologici, modificazioni genetiche e la mancata scelta di una procreazione extra-uterina estremamente selettiva dei caratteri da trasmettere alle nuove generazioni, rivela la persistenza di un’alterità non più accettabile dal complesso produttivo e riproduttivo immaginato dai suoi ideatori e profeti.

Che, proprio attraverso la parole di uno dei loro rappresentanti, Nick Bostrom fondatore della World Transhumanist Association, hanno potuto affermare: «I geneticamente privilegiati potranno diventare senza età, sani, super-geni dalla bellezza fisica perfetta […] I non privilegiati rimarranno le persone che sono oggi, ma forse privi di un po’ della loro autostima e soffriranno occasionalmente di un tantino di invidia. La mobilità tra la classe inferiore e quella superiore potrebbe scomparire»4.

Tra i profeti dell’Uomo aumentato, occorre dirlo, andava enumerato anche il fratello dello scrittore inglese, Julian Huxley, biologo e futuro direttore dell’UNESCO, che già nel 1941 difendeva l’idea secondo cui «l’eugenetica diventerà inevitabilmente una parte integrante della religione del futuro»5.

Sì, perché in fin dei conti il miglioramento della specie, fin dalle sue prime formulazioni settecentesche, ha sempre portato con sé lo stigma dell’eugenetica, sia che si manifestasse sotto le forme dell’ammodernamento del credo religioso, come in Teilhard de Chardin (gesuita, filosofo e paleontologo francese), che nel 1934 affermava: «Credo che l’Universo sia un’Evoluzione. Credo che l’Evoluzione vada verso lo Spirito. Credo che lo Spirito si compia in qualcosa di Personale. Credo che il Personale supremo sia il Cristo-Universale». Affermazione in cui evoluzione, super-omismo e figura di Cristo coincidono. Sia, si badi bene, sotto le spoglie dell’Uomo nuovo socialista, idealizzato a partire dalla rivoluzione bolscevica, anche nelle parole di Leone Trotski: «Produrre una versione nuova, “riveduta e corretta” dell’uomo. Ecco il compito futuro del comunismo […] L’uomo deve guardare e vedere in sé una materia prima, nel migliore dei casi un semilavorato, e dire “Finalmente, caro il mio Homo Sapiens, ti lavorerò”»6.

Ma questi sono soltanto alcuni degli infiniti esempi di progetto di modifica e cambiamento dei caratteri umani della specie riportati nel testo. Che, a sua volta, diventa un altro esempio di fantascienza anti-utopistica, dedito com’è a smontare ogni residua illusione di progresso benevolo e uguale per tutti. Un testo a tratti esagerato, ma mai, assolutamente mai, del tutto assurdo e inconcepibile. Anzi, proprio sulle sue pagine sarebbe importante riflettere per comprendere a fondo come tanto progressismo di stampo socialista, anarchico o comunista, spesso si sia fatto irretire dalle chimere della scienza borghese e dei suoi apparati tecnologici e industriali.

Compresa l’esaltazione della cibernetica e di tutto ciò che ne è derivato in termini di controllo del sapere, della produzione, della società e della mente individuale e collettiva.
Un testo che nelle sue formulazioni più estreme andrebbe forse affiancato, nella lettura, al Trattato del ribelle di Ernst Jünger7 oppure a certe considerazioni di Amadeo Bordiga sulle fasulle promesse della scienza, della tecnica e, soprattutto, dell’economia di stampo capitalista. Un‘ottima lettura per l’estate e per una riflessione tutt’altro che oziosa sul nuovo mondo che ci aspetta (?).


  1. Kevin Warwick, “Au fait”, mag. 2014  

  2. Id., “Libération”, 12 mag. 2002  

  3. Appello degli scimpanzé del futuro in Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 13-16.  

  4. Cit. p. 43.  

  5. Cit. in Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, p. 25.  

  6. L. Trotski, cit. in Manifesto degli scimpanzé del futuro, p. 24.  

  7. E. Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi Edizioni, Milano 1990 – prima edizione tedesca 1951.  

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WestWorld: la valle della disrupzione / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/03/westworld-la-valle-della-disrupzione-2/ Mon, 03 Apr 2023 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76559 di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade [...]]]> di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo.
Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade Runner” (1982). Neppure rappresenta una novità la capacità degli hosts di mostrare facoltà cognitive autonome.

Nel WestWorld di questo millennio, in effetti, il test di Alan Turing ci rimanda a un passato remoto, così come era percepito già nel secolo scorso nell’opera di Dick appena menzionata. Nell’impossibilità di distinguere morfologicamente un umano da un androide, e avendo anch’esso raggiunto delle capacità cognitive percepite come intelligenza, lo scrittore americano immaginò come ultima spiaggia dell’essere umano la capacità di sviluppare empatia per un altro essere vivente. Essendo questa una facoltà esclusiva degli umani, un semplice test capace di misurare tale capacità sarebbe anche capace di rivelare chi fosse androide, perché questo sarebbe ovviamente incapace di soffrire la sofferenza dell’altro (ma, anche, ovviamente di provare la gioia o la tristezza dell’altro). Questa problematica sollevata da Dick ci porta naturalmente a riflettere sulla capacità, o incapacità, di provare i sentimenti dell’altro, e su come questa esclusiva facoltà umana sia continuamente modificata dal diffondersi delle tecnologie.

In linea con l’ipotesi di una singolarità tecnologica, nella serie, le capacità cognitive degli androidi sembrano ormai superare quelle degli umani. Inoltre, l’esistenza degli hosts, inserita in percorsi narrativi ben definiti, è capace di abbracciare un ipotetico passato dove essi provano sentimenti che finiscono per dotarli – sempre apparentemente – di empatia. Emerge qui, a mio avviso, una differenza sostanziale rispetto alla precedente figura di androide. L’androide proposto dalla serie sembra non posizionarsi mai nella valle perturbante; e, dunque, esso non genera mai repulsione in quanto macchina con sembianze umane. Inoltre, esso manifesta non solo capacità intellettive, ma anche una solida identità plasmata attraverso ricordi traumatici, che sono condivisi e sofferti.

Possiamo notare come nel WestWorld attuale, gli androidi, grazie alle facoltà umane appena menzionate, siano diventati nodi dello spazio sociale, e, di conseguenza, siano entrati pienamente nel processo percettivo degli umani. Così come i soggetti fondano il processo percettivo attraverso gli oggetti1, attraverso gli host gli umani pensano, percepiscono ed esistono. Inoltre, si potrebbe affermare che in una sorta di processo speculare, la violenza scatenata sugli hosts non sia altro che la necessità dell’umano di percepire e di sentire il proprio corpo, ormai scomparso per via dei processi tecnologici digitali: qui, ormai abbiamo a che fare con un corpo non solo incapace di diventare luogo dell’esperienza sensibile che rende possibile l’incontro tra soggetto e oggetto, ma, soprattutto, di sentire il prossimo2.
Nel secondo episodio della seconda stagione questo fenomeno speculare emerge chiaramente in un dialogo tra William e Dolores, dove William, un umano, si rivolge all’androide con queste parole:

Sei davvero solo un oggetto. 
Non posso credere di essermi innamorato di te. 
Sai cosa mi ha salvato? 
Ho capito che non si trattava affatto di te. 
Non mi hai fatto interessare a te, mi hai fatto interessare a me. 
È venuto fuori che non sei nemmeno una cosa.
Sei un riflesso. 

Attraverso gli hosts, la serie sviluppa un’analisi del modo in cui certe tecnologie digitali cominceranno a far parte del processo percettivo degli umani, cioè, cominceranno a diventare nodi su cui si sviluppa lo spazio sociale. Inoltre, la serie fonda la figura dell’androide sulla natura flessibile degli oggetti digitali. Di conseguenza, l’androide del WestWorld di questo millennio non rappresenta più una semplice entità intelligente dotata di facoltà considerate esclusive agli umani, ma diventa luogo di conquista transumanista.

La figura dell’androide presente nella prima stagione della serie è sostanzialmente un luogo di migrazione dove teoricamente l’essere, ormai privo di un corpo integro, sarebbe in grado di ritrovare un corpo dove può avvenire nuovamente l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto. Questa nuova figura di androide ci riporta ad un dibattito che si considerava ormai (quasi) concluso con l’opera di Maurice Merleau-Ponty, che si pensava esaurito nel concetto di Dasein heidegeriano, e che aveva trovato conferma proprio nell’introduzione di questo concetto – quest’ultima portata avanti da Hubert Dreyfus – in seno alle riflessioni sullo sviluppo della intelligenza artificiale.

In effetti, come Dreyfus ha dimostrato nella sua fondamentale ricerca – fondata su un’analisi approfondita ed esaustiva della grande opera di Heidegger – sull’era dell’informatica, il dualismo cartesiano ha trovato dei meccanismi analoghi nell’ipotizzare che i supposti biologici e psichici si rispecchiavano rispettivamente nel hardware e nel software. Come dimostrato da Dreyfus, questa riformulazione cartesiana non solo presupponeva che la condotta umana fosse priva di contesto, ma anche, e soprattutto, che l’intelligenza, seguendo sempre questa logica, non fosse altro che un semplice compimento di regole formali che si esaurivano in una relazione biunivoca e catalogabile secondo un’analisi quantitativa. In altre parole, il concetto di intelligenza si esaurirebbe in un ruled-based algorithm. Ciononostante, questo approccio, criticato con veemenza da Dreyfus, e che cadeva con la semplice introduzione del Dasein heideggeriano nella discussione, portava di nuovo a galla la questione cartesiana che, in linea con il paradigma meccanicista, aveva in passato generato una serie di analogie tra l’uomo e la macchina. Da qui sono poi derivate discussioni attorno alla questione se il pensiero potesse essere diviso dal corpo; se la sensibilità, una chiara condizione della conoscenza, potesse fare astrazione del corpo.

Possiamo dunque notare come la serie costruisca la figura dello host su un processo di riduzione dell’essere nella formulazione tradizionale oggetto-soggetto. Ma questa riduzione non si effettua attraverso la natura tradizionale dell’androide, cioè, attraverso apparenti facoltà cognitive autonome sviluppatesi al di fuori del corpo, con piena esclusione dell’esperienza vissuta. La figura dello host ci riporta alla riduzione oggetto-soggetto attraverso la componente transumanista, la quale esclude il corpo come luogo in cui avviene l’esperienza e finisce così per escludere la sensibilità della conoscenza, poiché ipotizza che l’esperienza possa essere ridotta a sua volta in computi ricombinati e traducibili. Seguendo questa logica, si ipotizza che l’esperienza possa essere trasmessa, o meglio, scaricata (downloaded) in altro supporto o device tecnologico; questo, a sua volta, può essere un altro corpo o un semplice hardware.

È qui che lo scopo dell’androide costruito dal WestWorld di questo millennio emerge più chiaramente. Gli hosts diventerebbero in una prima fase ricettori d’informazione, codificatori dei comportamenti umani, e in una seconda fase, semplici ospiti (hosts) che accolgono l’essere codificato in bits. In particolare, seguendo l’ipotesi transumanista, la figura dell’androide proposta dalla serie inciampa nell’errore di non distinguere l’Erlebnis (esperienza come fatto, avvenimento) dall’Erfahrung (esperienza come familiarità) e, di conseguenza, la serie finisce per ipotizzare con leggerezza la possibilità tecnologica di immagazzinare, riprodurre ed installare l’esperienza umana in un altro ‘dispositivo’.

Con il dipanarsi di una narrazione strutturata e vissuta quotidianamente dagli hosts, la serie ipotizza che attraverso l’analisi e la registrazione della differenza introdotta da variabili rappresentate dai comportamenti umani si potrebbe compiere pienamente l’opera di codificazione, e rielaborazione, dell’esperienza umana. Questo non solo permetterebbe di migliorare sostanzialmente la tecnologia che avrebbe portato in vita gli hosts ma, soprattutto, finirebbe per permettere a noi umani di trovare un luogo dove migrare; un corpo non deperibile dove trovare la vita eterna. Vediamo come la figura del host proposta da questa serie ignori dunque la lezione fenomenologica laddove teorizza che è il corpo a creare le cose, a trasformare gli oggetti in cose e, dunque, che è proprio nel corpo che converge quello che chiamiamo vita, conoscenza e intelligenza. Infatti, è nel corpo che avviene l’esperienza, intraducibile (non-codificabile) conoscenza. E sebbene l’esperienza si trasformi in continuazione, e sia determinata dal contesto tecnologico, il corpo rimane il territorio in cui essa viene vissuta. Il corpo è dunque il luogo dove il presente si declina, perché è proprio lì dove la realtà si manifesta3.

Nonostante ciò, forse sotto l’effetto dell’ebrezza dell’utopia distopica del transumanesimo, la serie, benché denunci la nostra condizione attuale di soggetti incapaci ad afferrare l’oggetto con un copro dilaniato dall’invasione tecnologica, per ben due stagioni ipotizza una possibile migrazione in un luogo in cui poter sviluppare l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto; un luogo, cioè, dove poter essere (Dasein), ed essendoci, dove poter sperimentare un presente, dove poter esperimentare il regno del reale.

Non è tanto sorprendente che la figura dell’androide di questo millennio possa diventare quel luogo così ingenuamente ricercato, ma la cui ricerca è così terrificante. Ed è terrificante proprio per la sua condizione di entità facente parte del processo percettivo umano, condizione che gli androidi acquisiscono progressivamente. Lo si nota chiaramente con il procedere della serie verso la terza stagione, quando l’androide trova i suoi limiti come luogo di migrazione dell’esperienza e rimane nodo portante del processo comunicativo degli umani. L’uso dell’androide è limitato all’osservazione e registrazione di comportamenti umani, ricordando, in un certo modo, i meccanismi della interveglianza (interveillance) che si sono sviluppati con la diffusione dei social media e dell’interazione quotidiana tra umani e oggetti digitali in rete. Allora, l’impressione che se ne ricava è che, alla fine, l’androide disegnato dalla serie non riesce a diventare luogo d’immigrazione transumanista, ma rimane e si perfeziona nella registrazione e nell’interveglianza dei comportamenti umani. In altre parole, la serie si arrende all’evidenza della complessità e intraducibilità dell’esperienza umana mostrando l’impossibilità della metamorfosi dell’androide in un ricettacolo dell’essere; l’androide rimane un oggetto in più del dispositivo di profilazione e interveglianza.

(2continua)


  1. Si veda Esposito R., (2014), Le persone e le cose, Einaudi, Torino.  

  2. Zoja L., (2009), La morte del prossimo, Einaudi, Torino.  

  3. Bachelard G., (1931) L’intuition de l’instant, Stock, Paris, p. 14.  

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Tutti invitati al Festival dell’estasi https://www.carmillaonline.com/2022/08/14/tutti-invitati-al-festival-dellestasi/ Sun, 14 Aug 2022 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73385 di Franco Pezzini

Jules Evans, Estasi: istruzioni per l’uso, ovvero L’arte di perdere il controllo, ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Cristiano Peddis, Carbonio, Milano 2018.

 

Non soltanto Platone e Aristotele, ma anche

le menadi. […] Noi ci siamo limitati a staccare

una pagina dall’antico libro greco.

(Aldous Huxley, L’isola)

 

Usciti mai totalmente da una crisi che ha fatto trovare ogni scusa ai furbetti del quartierino in politica ed economia per sottrarre diritti e spazi di libertà; usciti non ancora da una pandemia [...]]]> di Franco Pezzini

Jules Evans, Estasi: istruzioni per l’uso, ovvero L’arte di perdere il controllo, ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Cristiano Peddis, Carbonio, Milano 2018.

 

Non soltanto Platone e Aristotele, ma anche

le menadi. […] Noi ci siamo limitati a staccare

una pagina dall’antico libro greco.

(Aldous Huxley, L’isola)

 

Usciti mai totalmente da una crisi che ha fatto trovare ogni scusa ai furbetti del quartierino in politica ed economia per sottrarre diritti e spazi di libertà; usciti non ancora da una pandemia affrontata dai Grandi Manovratori con ogni tipo di abusi, e un sovrano disinteresse verso ogni ricaduta non asfitticamente economica di due anni di prigionia in casa; entrati nel delirio peloso di una guerra dove ogni straccio di dignità è perduta (oltretutto con aumenti dei prezzi da ribellione popolare in un paese che fosse meno psicologicamente depresso); incastrati nelle mille trovate ammannite da piccoli affaristi di lotta & di governo, tutti uniti in cordata (non di casta, ma di classe) fingendo antagonismi cosmici per giochini elettorali: insomma, in questo penoso purgatorio dove è sfibrante arrabattarsi, che ci si scopra inariditi e demotivati ad affrontare la quotidianità è il minimo. E realizziamo di aver bisogno di qualcosa che ci sollevi fisicamente e psicologicamente: le esortazioni virtuose servono a poco, tanto più che spesso arrivano da chi beneficia o almeno non è troppo danneggiato dal contesto. A volte avremmo – ma vorrei dire abbiamo – bisogno di poter uscire da noi stessi e da questo quadro per un tempo minimo necessario a respirare: non una fuga dalla realtà, al contrario, ma il tempo breve di un recupero di forze per affrontarla (in sostanza, una vacanza o una sbronza non sono sufficienti). Avremmo, abbiamo bisogno di un tipo di esperienza psicologicamente forte, esistenzialmente significativa a sostegno della stessa dimensione fisica: e riflettere seriamente sull’estasi, come propone questo bel libro, pare tutt’altro che una facile evasione.

Sarebbe sbagliato confondere Estasi: istruzioni per l’uso, di notevole interesse e intelligenza, con una delle tante pubblicazioni New Age o di filosofia all’acqua di rose sulla necessità di restare psicologicamente integri e di non mutilare dimensioni feconde della vita: ci arriviamo, grazie, mentre l’approccio qui resta saggiamente problematico. Anzitutto perché (la quarta di copertina mette le mani avanti),

 

L’estasi di Dioniso necessita di essere bilanciata dallo scetticismo razionale di Socrate. Senza Dioniso, la razionalità socratica è arida e priva di anima, ma senza la pratica e la riflessione socratica, l’estasi dionisiaca non è che una fiammata.

 

E poi perché una mappatura delle varie esperienze estatiche – come l’autore qui tenta, con il giochino dell’ipotetico Festival dell’estasi diviso in padiglioni, a definire il discorso in spazi corrispondenti ai capitoli e relative divisioni – può riservare sorprese. Premettiamo subito, l’approccio dell’autore, che dopo una lunga e radicata adesione ai principi stoici cerca di superarne i limiti e arricchirne la visione, non è di chi cerchi di barare: nessuna ambiguità di confessionismo nascosto nel constatare con Aldous Huxley il “bisogno, profondamente radicato [nell’uomo] di autotrascendenza”, con Abraham Maslow la necessità di “esperienze picco” che permettano di “superare il proprio Sé e […] sentirsi in connessione con qualcosa di più grande” e con Mihály Csíkszentmihályi la realtà di una diffusa ricerca del flow, “il flusso, termine con il quale lo studioso intende quei momenti in cui siamo così assorti in qualcosa che perdiamo la cognizione del tempo e ci dimentichiamo di noi stessi”, sorta di estasi sottotono. Il fatto è che la vita civile in Occidente ci obbliga a un continuo controllo di noi e delle nostre emozioni, all’inibizione degli impulsi: ma la nostra identità continuamente arginata, controllata, assoggettata a censure (su temi, spesso, non così indiscutibili) ha bisogno di un respiro più ampio, di un sollievo fisico-psicologico e di una comunione con il resto della realtà (e non della sua caricatura premasticata a colpi di inni nazionali dai balconi e messaggi “Andrà tutto bene” appesi come addobbi nazionalpopolari).

La necessità insomma di trovarci, in qualche misura, “al di fuori” di noi stessi, come evocato dal termine antico greco ékstasis. Un’esperienza che, a ben vedere, può non essere affatto uno spasso, recando uno sbatacchiamento dell’anima fino a un senso pieno e terribile del termine stupore. Poi certo, può esistere una trascendenza salutare e una nociva, al ribasso, che ci danneggia: per cui imparare a perdere il controllo in modo sano, intuisce il filosofo Evans, sembra un obiettivo degno di ricerca. Per far ciò incalza per anni la quest dell’estatico, attraverso esperienze dirette con una pletora di gruppi, sondaggi, dialoghi con specialisti di varie discipline e un attento esame di sé, e questo volume è il risultato della sua indagine.

A fronte dell’esame condotto nel 1971 dall’antropologa Erika Bourguignon su 488 società di diverse aree del mondo, è emerso che “nel 90 per cento dei casi esistevano rituali istituzionalizzati per raggiungere una condizione di perdita dei confini dell’Io”. Non nella società occidentale, come conseguenza dell’Illuminismo “e del passaggio da una visione del mondo incantata [in cui la psiche umana è “porosa”] a una di stampo materialista”, dove l’estasi è una semplice illusione della mente e i Sé sono schermati, separati dalle altre persone da una sorta di muro e dalla natura per opera della nostra autocoscienza razionale. “Il controllo razionale è alla base della moralità, e la perdita di questo controllo è qualcosa di cui vergognarsi”. In fase di introduzione, l’autore propone dunque una sintesi di come si sia arrivati a una demonizzazione dell’estasi, poi a un suo revival negli anni Sessanta e alle successive analisi del fenomeno come rilevante a quattro livelli (corpo, mente, cultura e spirito) e nei suoi portati positivi (l’estasi guarisce, motiva e agisce da collante sociale) ma anche negativi. Nel procedere idealmente da un padiglione all’altro della ricerca rileveranno – secondo la terminologia di Timothy Leary – il set (atteggiamento mentale del soggetto) e il setting (il contesto dell’esperienza estatica).

L’itinerario parte con l’esperienza personale di Barbara Alexander, diciassettenne nel 1958 quando vive un’esperienza estatica spontanea, “un incontro furioso con una sostanza viva che arrivava fino a me attraverso tutte le cose in un unico momento […] Niente avrebbe potuto contenerlo”, altro che beatifiche fusioni con il Tutto, che la condurrà poi come studiosa – con il nome di Barbara Ehrenreich – a occuparsi del fenomeno: peraltro non ignoto a mappature scientifiche, considerando gli oltre 6000 resoconti di esperienze analoghe raccolti al Religious Experience Research Centre (RERC) di Lampeter in Galles dall’eminente biologo Sir Alister Hardy. Certo, esiste il problema di trovare una tassonomia adeguata all’analisi di tali fenomeni, e Hardy ha dovuto affinare via via (tale per esempio la dicitura con parole chiave della diciottesima voce nel database: “Visioni ossido di azoto dentisti movimento tunnel luce karma barba Paul reincarnazione Cristo cervello”) a testimonianza di un’estrema varietà. Tuttavia queste esperienze spirituali – usando l’aggettivo nell’accezione più ampia – risultano sempre più diffuse, in particolare durante infanzia e adolescenza: a falsare l’indagine è la resistenza a raccontare gli episodi per appartenenze confessionistiche o rifiuto delle medesime, o in generale per il timore di passare per matti, ma lentamente a grandi numeri tali riserve stanno indebolendosi. Tre sarebbero le tipologie principali di questi fenomeni spontanei, cioè epifanie di connessione e unione con la realtà, esperienze di abbandono a Dio in coincidenza di momenti particolari di sconforto, esperienze di pre-morte, ed Evans ne affronta le connotazioni senza nascondere le interpretazioni più scettiche. Analizza poi benefici e rischi di tali esperienze, compresi i casi in cui

 

la presenza spirituale che si incontra potrebbe essere percepita come minacciosa, malevola, perfino demoniaca. Quasi il 10 per cento delle NDE [esperienze di pre-morte] include un’esperienza infernale – alcuni resoconti sono degni dell’immaginazione pittorica di Hieronymus Bosch.

 

Tiene ovviamente presente la teoria della psiche di James-Myers-Jung, e cerca di individuare “una terra di mezzo tra la ricezione acritica di simili esperienze quali perfette rivelazioni, e il completo rifiuto di esse quali patologie mentali”, con la sfida per chi le vive di scinderne gli aspetti positivi dai negativi anche attraverso il supporto di una comunità circostante (familiare, amicale, scientifica…).

È impossibile ripercorrere analiticamente il contenuto di tutto l’itinerario tra diversi padiglioni che Evans propone: ci limiteremo qui a cenni, rinviando però caldamente alla lettura. Il cap. II riguarda le esperienze estatiche dell’autore con comunità di cristiani carismatici dell’attivissimo Holy Trinity Brompton (HTB) in una Gran Bretagna ormai per altri versi post-cristiana: il nodo di partenza è l’esperienza del non sentirsi amati, del disperato bisogno di approvazione da parte del mondo, ma la comunità ti accoglie e invita lo Spirito Santo a manifestazioni come quelle presenti nella Chiesa primitiva (glossolalia eccetera). Un’occasione per affrontare in chiave di sintesi la storia del cristianesimo carismatico, emerso in Inghilterra tra le diffidenze della chiesa di stato e degli stessi riformati di maggioranza (luterani, per esempio) contro gli “entusiasti” che chiedono i doni dello Spirito, associati agli ordini sciolti per ordine regio e più avanti – ai tempi del Dio orologiaio – a casi di malattie mentali. L’estasi torma solo col Metodismo e una serie di moderni movimenti di revival, fino appunto all’HTB e ad altre realtà minori. Evans partecipa, resta convinto e commosso, a un certo punto si converte suscitando reazioni sdegnate tra gli iscritti alla sua newsletter – tanto più considerando il rigorismo conservatore dei carismatici in fatto sessuale – e si pone il problema se la propria esperienza non abbia avuto connotati ipnotici, confrontandosi con uno specialista: ne matura la convinzione che quello religioso carismatico rappresenti uno degli “spazi controllati in cui perdere il controllo” in interscambio collettivo. Poi, “In termini di ‘setting’ del Cristianesimo carismatico, esiste, ovviamente, il rischio che le chiese diventino un ambiente di trance collettiva”, già le lettere paoline mettevano in guardia contro un certo atteggiamento e la chiesa anglicana ha molto chiaro il pericolo. L’HTB rifugge da atteggiamenti settari, ma Evans mette a fuoco una serie di meccanismi discutibili lì riscontrati – sorta di buone tecniche di vendita – e dopo un po’ l’abbandono è inevitabile, pur non impedendogli di considerarsi ancora culturalmente anglicano.

La tappa successiva (III) richiama Il Cinema Estatico – ma è aperta a un contenuto molto più ricco. Attraverso la realtà del sogno (“la più comune delle esperienze estatiche”), le letture di Freud e Jung e il rapporto con l’Ombra, si arriva al macrotema delle arti: “secondo Jung, ci rendono capaci di comunicare con la nostra mente subliminale per mezzo del linguaggio onirico dei simboli, delle metafore e del mito” (il che è una sintesi un po’ concentrata, ma si può perdonare la semplificazione all’autore che un po’ in tutto il libro lavora di sintesi su posizioni di enorme latitudine o complessità). Dopo essersi interrogato se le arti possano essere un sostituto della religione, poi sul rapporto tra culto e cultura e sulla separazione consumata a seguito della Riforma, che prepara alla distinzione tra scienza e arti dell’Illuminismo – con una salutare liberazione, va detto, delle medesime dai vincoli religiosi – nota però che dopo la cancellazione delle visionarie, incantate processioni medioevali dei Misteri per opera dei puritani, un nuovo tipo di spettacolo, il teatro elisabettiano e in particolare di Shakespeare, prende il posto delle liturgie vietate. Con effetto tanto febbricitante che Huxley segnalerà: “L’aggettivo che più spesso vi si applica è transporting: ti trasporta, ti trascina fuori da questo mondo, e ti conduce in un Mondo Altro”. Evans continua:

 

Le commedie di Shakespeare sono sogni estatici in cui le tradizionali strutture dell’Io vengono violate. I personaggi si scambiano i partner, nonché il genere, lo status, la sessualità, perfino la specie. In tutti loro c’è un tocco della malizia di Puck – l’Io non è stabile come lo concepiamo, e il teatro ci permette di assumere delle identità alternative. Le tragedie, ovviamente, sono più vicine all’incubo nel loro indagare l’Ombra più oscura dell’identità umana – cosa significa essere traditi, abbandonati, uccisi, scacciati dalla propria casa e lasciati a vagare nel deserto? Le tragedie del Bardo ci aiutano quindi a guardare in faccia questi incubi, e a opporre, collettivamente, resistenza.

 

Per il grande studioso Sir Jonathan Bate, Shakespeare sta “consapevolmente sperimentando l’idea del teatro quale sostituto di quei rituali cattolici che la Riforma aveva spazzato via”. Anche se ovviamente i valori etici della “religione del teatro” sono diversi da un culto tradizionale, e spingendosi oltre i confini dell’Io il teatro permette di incontrare la più ampia e fertilmente molteplice varietà di entità (“‘Chi è là?’ recita la primissima battuta dell’Amleto”), preziosa per un’epoca di scetticismo. Un’estasi insomma nel segno dell’ambiguità, derubricata a “trucco” o illusione da Teseo nel Sogno di una notte di mezza estate. Al che però Ippolita gli ribatte:

 

Ma il racconto di tutto ciò che accadde questa notte, e il fatto che le menti di ognun furon stravolte, attesta qualcosa di più che fantastiche visioni, e la cosa assume grande consistenza – per quanto strana e prodigiosa.

 

Una posizione pragmatica che prelude a letture moderne sull’estasi: sia o meno legata a “spiriti”, quella consistenza è rilevante sia nelle nostre singole vite, sia anche a livello di uno sconvolgimento comunitario (le “menti […] stravolte”).

A distanza di cinque secoli, il teatro offre ancora momenti di trasporto per cui il riferimento all’estasi non è inadeguato, ma all’avvio dell’età moderna anche la poesia inizia a emergere “quale canale di accesso quasi-laico all’esperienza estatica”. Se un’intera scuola di mistici cristiani aveva rivendicato ispirazioni estatiche (si pensi solo alla Commedia dantesca), inizia ad apparire qualcosa di nuovo: “In L’Estasi, il poema di John Donne, è l’amore sensuale, non lo Spirito Santo, a trasportare il poeta oltre i confini del proprio Io”, e lo smarcamento sarà via via sempre più accentuato: Wordsworth, Coleridge, Keats… fino ad autori molto più moderni come Rilke (“è nel potere dell’artista creativo gettare un ponte tra i due mondi”) e Seamus Heaney (la poesia come “una porta verso l’oscurità”).

E poi c’è il romanzo, per Evans “una tecnologia in grado di incidere profondamente sulla nostra coscienza. Nel mondo creato da un buon libro, noi ci perdiamo” o – come dice il neuroscienziato Norman Holland autore di Literature and the Brain: “Raggiungiamo stati mentali unici, simili alla trance nei quali diventiamo inconsapevoli del nostro corpo e dell’ambiente che ci circonda. Veniamo trasportati”. E di lì il discorso si apre all’arte come portale estatico, in tutta la latitudine del concetto, fino a concentrarsi su “Cinema e realtà virtuale come caverna dei sogni” che – così David Lynch – “concede la parola al subconscio”. Per allargarsi nuovamente a discorsi generali sull’estasi dell’ispirazione creativa, sull’ispirazione come dono dall’alto, sulle arti come sogno collettivo e sulla questione se possano sostituire la religione.

L’indagine prosegue con il rock and roll (IV), con impagabili incontri tra reverendi canterini, memorie delle leggende della musica, libertà estatica nella danza, commistioni di sacro e profano (“Puoi salvare delle anime!” urla il produttore Sam Phillips a Jerry Lee Lewis, dubitoso di incidere Great Balls of Fire in quanto presuntamente demoniaco), musica che cura, autorizzazioni a perdere il controllo e venerazione degli idoli rock. Come afferma Springsteen al “New Yorker”, “Sul palco sei un po’ uno sciamano che guida la congregazione […] Sei il canale di contatto”, magari attraverso alter ego funzionali all’uscita dall’Io e per sbloccare aspetti subliminale della psiche. Dove i festival diventano “zone temporanee autonome”, come li definisce il filosofo sufi Kakim Bey, “spazi per il sogno collettivo”.

Il capitolo V riguarda la psichedelia, su cui la ricerca dopo quarant’anni sta ripartendo, nell’eco di pratiche antichissime che hanno conosciuto un grande oblio nella cultura occidentale per millecinquecento anni – salvo il fatto che alle tradizionali piante psichedeliche si affiancano oggi i prodotti estatici sintetizzati in laboratorio. Qui un po’ più nota è la storia della diffusione e della successiva criminalizzazione degli psichedelici, mentre sul funzionamento, la presenza di tesori & mostri liberati abbassando la soglia della coscienza, il rapporto con la concezione di un cosmo animista, l’opportuno discernimento degli spiriti o l’adozione degli psichedelici in chiese locali sudamericane come quella del Santo Daime (cioè “Dammi”) alcune informazioni potranno giungere nuove al lettore non specialista.

Si passa poi alla contemplazione (VI), e Evans si è assoggettato qui a un difficile ritiro di meditazione Vipassanā: in questo contesto prende in esame il declino della contemplazione cristiana (ma qui, come altrove, l’occhio dell’autore è troppo concentrato sulla situazione britannica, nel continente la situazione è un po’ diversa), poi il dilagare delle pratiche orientali, della mindfulness, i rischi della meditazione – che può far affluire esperienze anche traumatiche per chi non sia preparato.

Il nuovo padiglione visitato, altro tema noto, concerne l’estasi delle pratiche sessuali (VII). Passiamo così attraverso il Tantrismo e le dottrine di Osho (ma anche le deviazioni di alcune sue comunità) con pratiche curiose di rimozione delle inibizioni; i pregressi storici dal mondo antico alla “polizia antivizio” della cristianità, ad “Amor cortese e scopate illuministe”, “contro-Illuminismo romantico e […] sesso mistico”, fino alla rivoluzione sessuale modernista, alla religione del sesso di D.H. Lawrence, agli orgasmici anni Sessanta e al “lato oscuro dello scambismo” nel decennio successivo. Inevitabile approdare al rapporto sadiano tra agonia ed estasi e alla via del dolore BDSM; e infine a quella tormentata eredità della rivoluzione sessuale che non impedisce all’attività sessuale ordinaria “occasionali momenti di estasi” (al di là dei tracolli del desiderio da lockdown successivi all’uscita di questo libro), ma vede oggi soprattutto acquisito il più modesto obiettivo di un minor imbarazzo rispetto al sesso e una maggiore accettazione di scelte sessuali diverse. Un po’ sull’onda degli scritti di Colin Wilson proposti dallo stesso editore Carbonio, è inevitabile realizzare che c’è qualcosa di profondamente asfittico nella sessualità vissuta in occidente, tra sesso virtuale e psicologicamente depresso, laddove una maggiore intelligenza e vivacità nell’attingere a una certa dimensione recherebbe un beneficio dalle ricadute collettive anche in termini di modelli sessuali. In coda al capitolo Evans affronta anche un diverso e particolarissimo tipo di estasi, quella che può instaurarsi tra genitore e figlio.

La tappa ulteriore è più spiacevole, l’estasi della violenza e della battaglia (VIII) tra hooligan, veterani del Vietnam, militari di servizio in Iraq e fondamentalisti islamici: dall’idea di guerra come mito sacro alla catarsi del sangue, dalle estasi nazionaliste alla “Venerazione del Leader Glorioso”, fino allo Stato laico come antidoto all’estasi e ai sostituti mimetici che fungono da sbocco per la medesima. Come lo sport, con la catarsi del sudore, le sue comunioni estatiche e i danni – ebbene sì – che possono derivarne.

Ma per scoprire la nostra connessione col pianeta e reintegrare il rapporto con la Natura, un ulteriore tipo di estasi è quello qui affrontato sotto il titolo “La Foresta delle Meraviglie” (IX): ecologia profonda, eco-centrismo, recupero di una connessione amorosa con la natura… È l’occasione per una breve storia dell’estasi relativa, del rapporto nel cristianesimo tra natura e trascendenza del divino, del passaggio dalla natura incantata a quella materialista. Sostituto naturale dell’estasi diviene allora la meraviglia; ma “Fin dagli inizi della rivoluzione scientifica, alcuni pensatori romantici hanno messo in discussione i principi del materialismo meccanicista nel tentativo di ritrovare una connessione estatica con la natura”, e tra i loro ideali predecessori c’è Thomas Traherne, oscuro sacerdote seicentesco anglicano – fermo oppositore del meccanicismo di Thomas Hobbes – la cui opera è stata riscoperta e valorizzata solo con il ritrovamento fortuito di un manoscritto nel 1896. Comprendeva un volume, Le meditazioni di un pastore, che C.S. Lewis definirà “probabilmente il più bel libro mai scritto in lingua inglese”. Dal rapimento cosmico di Traherne si passa qui alla riflessione su Sublime di Burke (1757), all’estasi neo-animista di Wordsworth, all’ambientalismo estatico di John Muir e di ambientalisti odierni come Jay Griffiths e George Monbiot. Evans esamina con simpatia le ragioni di queste posizioni, ma non ne nasconde i rischi, compreso un iperattaccamento New Age alle esperienze estatiche che può condurre a una scissione bipolare con lunghe cadute nella depressione, e un ripiegamento personale che può ostacolare cambiamenti politici. D’altronde “Il feticismo delle epifanie personali viene senza sforzo impacchettato nella forma del turismo di consumo”, si tratti dei pellegrini romantici nel Lake District di fine Settecento o del Yosemite Park invaso un secolo dopo da adoratori della natura; mentre il nesso “facile” di romanticismo & esotismo non permette di cogliere gli aspetti conservatori e patriarcali di culture native degnissime di attenzione ma al filtro dei dovuti strumenti critici.

Ultima tappa dell’itinerario è “Futureland” (X) sulla filosofia transumanista e le tecniche estatiche piratate qui e là, seguendo il misticismo evoluzionista del fratelli Huxley (Aldous e Julian) e le dottrine dello Human Potential Movement a colpi di LSD, nuove tecnologie e loro applicazioni (stimolazione magnetica transcraniale, dispositivi di bio-feedback delle onde cerebrali…) e – futuro assoluto per gli anni Sessanta – uso del personal computer come strumento di liberazione della coscienza. Con trovate – in cui ha un ruolo importante lo scrittore visionario e imprenditore del network Stewart Brand – che prefigurano Google: come scriveva Brand, “La vera eredità della generazione dei Sessanta è la rivoluzione del computer” e il World Wide Web prende ad apparire come una comunità spirituale con caratteristiche estatiche – il tutto nel preteso spirito di un’immensa comune hippie, contro tutte le avide corporation. Fino a vivere il cyberspazio come esperienza extracorporea, dal riconoscibile sapore gnostico nell’urgenza di trascendere la materia e divenire pura informazione, magari nella forma della realtà virtuale. La “beatitudine geek” indicata da William Gibson sarà a quel punto la creazione di un’intelligenza artificiale (AI) capace di superare i limiti dell’uomo. Evans narra l’esperienza della “dot.comune” nella San Francisco degli anni Settanta, in start-up come Apple o Intel dove alla dedizione totale si accompagna il flusso di cocaina, con guru come Steve Jobs che sceglie “di dipingere la Apple come un eroe ribelle in lotta contro il Grande Fratello delle società vecchio stile (ovvero la IBM)”, e di lì ai modelli di estasi aziendale degli anni seguenti; ma ne delinea anche il lato oscuro.

 

La venerazione che i transumanisti riservano alla tecnologia mi ricorda l’adorazione romantica per la natura, o quella dei neoliberisti verso la mano invisibile che governa il mercato. Si tratta di atteggiamenti fideistici riservati a forze non umane, cui viene attribuita una volontà benigna. La tecnologia ci renderà liberi, se ci abbandoneremo alla sua energia. Ma proprio come Werner Herzog che, guardando la natura, ha visto solo indifferenza, così un tecnoscettico come Nicholas Carr, osservando la tecnologia, ne coglie solo la natura amorale. “Se ne infischia se ci porta a una coscienza superiore o una inferiore” scrive. “Non gliene frega una mazza di noi”.

 

Fino al panorama di una grande truffa che stordisce la massa arricchendo un’esclusiva casta di sacerdoti della tecnologia; e a un’estasi della fuga da un pianeta alla fine. Concludendo – no, preparandosi a proseguire personalmente – l’itinerario, la risposta resta aperta: l’estasi ha una dimensione utilissima, va riscoperta e non può essere bandita come pensava di fare Penteo, ma va integrata in modo da garantire un equilibrio tra Socrate e Dioniso. Evans ammette di non avere le risposte, ma invita a riconsiderare una lunga storia di tradizioni accantonate, per imparare poco a poco, ciascuno a proprio modo, a perdere il controllo. Ammette di aver trascurato nell’esame tante piste – tra le quali la relazione tra estasi e mondo femminile – ma si tratta dell’avvio di un discorso. Condotto oltretutto sulla base di una ricchissima bibliografia e con uno stile narrativo di grande eleganza.

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Nemico (e) immaginario. La morte, l’oblio e lo spettro digitale https://www.carmillaonline.com/2019/06/18/nemico-e-immaginario-la-morte-loblio-e-lo-spettro-digitale/ Tue, 18 Jun 2019 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53162 di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare [...]]]> di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare nell’oblio velocemente pare essere percepito dall’essere umano con crescente inquietudine. Risulta pertanto particolarmente interessante, in una società iperconnessa come l’attuale, interrogarsi circa il significato che assume il concetto di “immortalità” sul web.

Spunti di riflessione su tali questioni, ed in particolare sulla Digital Death, sono offerti da alcuni episodi di Black Mirror (dal 2011), produzione audiovisiva seriale ideata da Charlie Brooker che, scrive Alessandra Santoro nel libro collettivo dedicato alla serie curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana,2 con acume e lucidità disarmante sembra «portare iperbolicamente all’esterno le paure, le dissonanze, le ferite aperte e le crepe di un mondo dominato da una crescente deriva tecnologica. Deriva che riflette non tanto una società governata dai media, quanto un futuro distopico e pessimista dominato dagli uomini attraverso i media» (p. 157).

Affrontando nel volume il lemma “Morte”, scrive Santoro: «la cultura digitale, oggi, sembra […] impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’interruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei tratti accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali, sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnando la nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato» (pp. 159-160).

La difficoltà di accettare la morte è al centro, ad esempio, di Be Right Back (Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione). Viene qua mostrata la possibilità per chi resta di mantenrsi in contatto con il defunto attraverso un software in grado di rielaborare il materiale condiviso online durante la vita dallo scomparso. Si viene a creare così un “simulacro” dell’individuo vissuto in grado di comunicare con i vivi.

Facendo riferimento alla realtà extra-schermo, Santoro racconta dell’esistenza di servizi web che si occupano di garantire l’immortalità digitale. È prevista un’iscrizione “preventiva” finalizzata alla memorizzazione continuativa di dati dei principali social media al fine di creare un individuo artificiale potenzialmente eterno. Dopo la morte dell’iscritto, costui viene “tenuto in vita” virtualmente attraverso la rielaborazione dei dati da lui stesso registrati per poi essere collegato con tutte le persone precedentemente indicate. È previsto persino una avatar 3D affinché tale entità appaia ed interagisca con gli altri utenti; una sorta di “spettro digitale”.

Scrive Santoro che «tali sistemi sottovalutano però l’importanza simbolica dell’interruzione del divenire temporale: la sopravvivenza dei nostri avatar virtuali non coincide con le regole evolutive della crescita e dell’invecchiamento, ma si limita alla ripetizione meccanica di ciò che ha fatto parte di una storia vissuta ne passato di chi non c’è più e che è impossibilitata a determinarsi in modo innovativo nel futuro. Un’identità che allo stesso modo di quella “reale” rimane incompiuta, statica, ferma all’istante in cui la morte ha interrotto il corso della sua possibile evoluzione» (p. 163).

In San Junipero (Episodio 4, Terza stagione), «il carattere distopico e l’ineludibilità della morte apparentemente sembrano perdersi con la costruzione di un upload in grado di racchiudere la coscienza delle persone in un corpo metallico da proiettare in una paradisiaca eternità virtuale che sembra vincere la morte e la malattia. Una sorta di cookie (estratti delle persone che riproducono, impressi in una memoria artificiale, ricordi, gusti e abitudini del possessore), come lo rappresenta Brooker in White Christmas (Bianco Natale, speciale 2014), o più comunemente inteso come un mind uploading, ossia un procedimento che consente di creare una copia perfetta del cervello [dell’essere umano] per poi trasferirla su un supporto non biologico di modo che, da un lato, esso possa sfuggire al deperimento naturale e, dall’altro, possa crescere, alimentarsi di nuova coscienza e interagire con il mondo reale» (pp. 163-164).

Santoro si sofferma sul finale di San Junipero, quando le immagini mostrano un braccio meccanico che, nella sede della TCKR System, impianta un chip in una distesa di capsule rimandante ad una sorta di cimitero riproducente il mondo virtuale di San Junipero. Il messaggio lanciato, sostiene la studiosa, diretto e inquietante, sembra chiedere se «è realmente la coscienza delle persone a essere racchiusa in quel corpo metallico» o se non sia piuttosto «un riflesso computerizzato di quella coscienza, una sua copia sbiadita» (p. 165).

Il cervello, però, non può che essere pensato come “esteso”, “incarnato”; ogni attività neurobiologica del cervello umano dipende dai segnali provenienti dal corpo e dall’ambiente. «Il corpo, inoltre, è sempre «immerso e situato in un ambiente che lo influenza e da ca cui è influenzato» (p. 166). Il cervello ha una storia sia biologica che sociale; pertanto non è possibile pensare di poter prolungare la sopravvivenza attraverso il suo isolamento dal resto del corpo trapiantandolo in un supporto vitale artificiale.

Sulle medesime questioni che la serie audiovisiva ha il merito di trattare, ragionano anche Fausto Lammoglia e Selena Pastorino3 a partire da due concetti chiave: “post-umano” e “transumanesimo”.

Con il primo termine, sostengono i due studiosi, «si intende una visione dell’essere umano come una macchina di carne che può essere integrata, riparata e finanche migliorata con parti meccaniche o digitali, che caratterizzerebbe la nostra epoca contemporanea». (p. 29). Con post-umano ci si riferisce non solo le protesi di miglioramento/potenziamento sensoriale o psicomotorio, ma anche alla relazione di dipendenza degli esseri umani con la tecnologia.

Con termine transumanesimo, invece, sempre secondo Lammoglia e Pastorino, si fa riferimento ad «un movimento filosofico, sociale ed economico, figlio del tecnocapitalismo, che ha un unico obiettivo: superare il limite fisico della morte (in particolare della vecchiaia)» (p. 30). Che si tratti di sospensione crionica, di upload delle coscienze o di integrazione cibernetica del corpo umano, il transumanesimo pare ossessionato dal superamento dei limiti della mortalità umana, e tale possibilità, sostengono i due autori, «è, prima di tutto, ricerca religiosa di un senso che possa superare i limiti della nostra mortalità che, per i transumanisti, sono fisici e strettamente dipendenti dalla struttura corporale dell’essere umano. In quanto tale essa ha bisogno di profeti, i ricercatori della Silicon Valley, strenui difensori di tale possibilità che, però, è quasi completamente infondata poiché, ad oggi, non si ha ancora nemmeno una briciola di indizio su come funzioni la nostra mente (sappiamo qualcosa in più dell’hardware cervello, ma pochissimo del software mente)» (p. 48).

Il confronto con il fine vita e la speranza di procrastinare il sopraggiungere della morte, compare anche in alcuni episodi di Black Mirror ma, a differenza dei transumanisti, la serie invita a riflettere circa la disponibilità ad affrontare i “costi” che le “soluzioni tecnologiche” pongono all’individuo ed alla società.

Partendo da presupposti che vogliono per certe tanto l’esistenza della coscienza, quanto la possibilità che questa possa essere “caricata” su un supporto diverso da quello del corpo dell’individuo, Black Mirror si preoccupa di contraddire l’entusiasmo dei ricercatori ponendo questioni inerenti il campo delle relazioni, della psicologia e dell’identità che toccano problemi esistenziali, etici e legislativi.

«Ammesso che sia possibile caricare le coscienze su un cloud, esse hanno sempre bisogno di un supporto fisico (sia questo un pc, un robot, un altro essere umano o un peluche). […] Se accettiamo una definizione che indichi l’essere come tutto ciò che possa agire o subire un’azione, comprendiamo immediatamente come una coscienza senza supporto non possa effettivamente “essere”. È necessario che sia in qualche modo incarnata, che abbia delle propaggini che le permettano di relazionarsi con il reale. […] Possiamo dunque sintetizzare che, a livello pratico, serve un corpo che possa rendere le coscienze esistenti (capaci di interagire con il mondo); che tale corpo dovrebbe essere il più possibile autonomo (non dipendente da altri individui, pena il rischio di perdere la propria esistenza […]); e che, cognitivamente, potremmo avere difficoltà ad accettare l’esistenza di un altro Io virtuale se prima non abbiamo fatto esperienza della sua realtà corporale. La nostalgia, però, sembra un problema identitario ancor più radicale, scalfito in parte dal problema cognitivo appena accennato. Tutti, ma proprio tutti i casi citati negli episodi di Black Mirror, hanno bisogno di vedersi come corpi, poiché il corpo è legato alla concezione di esistenza […] Il corpo non è solo il mezzo per agire, ma è componente essenziale (alla nostra mente) per pensarsi esistenti. Risulta difficile, se non impossibile, ad ognuno provare ad immaginarsi senza corpo. Non riusciamo in alcun modo a pensarci come semplici voci nel nulla. Sembra impossibile quindi giungere alla completa trascendenza dal corpo senza perdere con essa l’identità (se non anche l’esistenza): non c’è una liberazione dal corpo prigione (come sosteneva Platone) che possa configurarsi come esistenza migliore. Non per ciò che abbiamo esperito. Esiste però una differenza tra il bisogno di un corpo e la dinamica identitaria ad esso connessa» (pp. 49-52) .

Continuare a parlare di mente e corpo, come di due entità separate, è quantomeno fuorviante, se non scorretto, sostengono Lammoglia e Pastorino, «meglio sarebbe parlare di persona, la cui identità, radicata nella sua essenza, è costruita (e dipendente) sia dall’aspetto razionale che da quello fisico e materiale. Mente e corpo non sono quindi due parti scisse ma due dimensioni correlate, assolutamente reciproche, e continuamente influenzate l’una dall’altra di ogni persona. Sembra che Black Mirror voglia essere sì profeta, ma di tipo apocalittico, del transumanesimo. Nella notte di questa fede cieca del terzo millennio, la profezia mette le macchine davanti allo specchio chiedendo che si riconoscano, mette i progettisti a sedere chiedendo loro quale bioetica per il futuro e, non ottenendo risposta, prova a mostrare conseguenze non preventivate» (p. 53).

Insomma, a questa partita che l’essere umano si ostina a giocare, la morte vince sempre. Forget about it!


Fausto Lammoglia – Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, Milano-Udine, 2019, € pp. 170, € 18,00

Mario Tirino – Antonio Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, Roma, 2018, pp. 280, € 19,70

Serie completa di “Nemico (e) immaginario


  1. A. C. Scalamonti, La camera verde. Il cinema e la morte, Ipermedium 2003 

  2. M. Tirino – A. Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, 2018 

  3. F. Lammoglia – S. Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, 2019, p. 29 

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