transmediale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il cinema giapponese attraverso i monitor https://www.carmillaonline.com/2020/04/04/il-cinema-giapponese-attraverso-i-monitor/ Sat, 04 Apr 2020 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58326 di Gioacchino Toni

Giacomo Calorio, To the Digital Observer. Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 132, € 12,00

Sul finire degli anni Settanta è uscito To the Distant Observer (1979) di Noël Burch, un testo destinato a lasciare il segno tra gli appassionati di cinema giapponese, in cui lo studioso ha inteso individuare, non senza forzature, una specificità del cinema giapponese.

In un suo recente libro, Giacomo Calorio, riprende il titolo di Burch sostituendo il termine “Distant” con “Digital” per sottolineare la trasformazione avvenuta nei decenni che separano [...]]]> di Gioacchino Toni

Giacomo Calorio, To the Digital Observer. Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 132, € 12,00

Sul finire degli anni Settanta è uscito To the Distant Observer (1979) di Noël Burch, un testo destinato a lasciare il segno tra gli appassionati di cinema giapponese, in cui lo studioso ha inteso individuare, non senza forzature, una specificità del cinema giapponese.

In un suo recente libro, Giacomo Calorio, riprende il titolo di Burch sostituendo il termine “Distant” con “Digital” per sottolineare la trasformazione avvenuta nei decenni che separano le due pubblicazioni: quella distanza a cui faceva riferimento Burch si è infatti nel frattempo assottigliata. Il diffondersi di nuove tecnologie di produzione, fruizione e telecomunicazione ha ridotto la distanza tra spettatore occidentale e cinema giapponese in termini geografici (le opere visionabili in contesti extranipponici sono decisamente aumentate), cronologici (il tempo intercorso tra l’uscita in patria e la possibilità di visiona i film nel resto del mondo è notevolmente diminuito), linguistica (la disponibilità di sottotitoli consente di affrontare le opere anche a chi non ne conosce la lingua originale), culturali ed estetici (l’interconnessione globale ha contribuito a una maggior conoscenza reciproca).

Dopo aver dedicato al cinema nipponico volumi come Horror dal Giappone e dal resto dell’Asia (Mondo Ignoto, 2005), Mondi che cadono. Il cinema di Kurosawa Kiyoshi (Il Castoro, 2007) e Toshirō Mifune (L’Epos, 2011), Giacomo Calorio, nel suo ultimo lavoro, To the Digital Observer. Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor (Mimesis, 2020), osserva come la “lente digitale” contemporanea con cui si affronta la cinematografia giapponese sia decisamente diversa dalla “lente analogica” a cui era costretto Burch; si pensi anche solo all’incredibile differenza in termini di opere visionabili. In entrambi i casi si tratta, inevitabilmente, di lenti deformanti, ma tale differenza comporta alcuni interrogativi su cui ragiona Calorio. Si può parlare di una specificità del cinema giapponese in epoca digitale rispetto al periodo analogico? Esiste una specificità del cinema giapponese digitale rispetto ad altre cinematografia digitali?

Il cinema giapponese arriva in Occidente nei primi anni Cinquanta. Se i cinefili lo scoprono grazie ai successi ottenuti da Rashōmon (1950) di Akira Kurosawa in Europa (Leone d’Oro al Festival di Venezia del 1951) e negli Stati Uniti (Oscar per il miglior film straniero sempre nel 1951), il grande pubblico lo conosce invece attraverso una serie di film di mostri (kaijū eiga) con effetti speciali (tokusatsu) inaugurata da Gojira (Godzilla, 1954) di Honda Ishirō e diffusi nelle sale, soprattutto americane, a partire da metà anni Cinquanta.

Quest’ultimo genere di film offriva al pubblico occidentale un’immagine contemporanea vicina ai traumi della guerra, della catastrofe atomica e, successivamente, dell’ascesa economica nipponica. Si trattava, sostiene Calorio, di un’immagine che «per i suoi aspetti camp e al contempo infantili, si presentava davvero come un precursore preistorico di quell’immagine di Giappone folle, esagerato, trash, weird ma per certi versi anche kawaii che decenni dopo avrebbe visto crescere le schiere dei suoi appassionati.» (p. 97)

Nonostante le modalità con cui gli occidentali hanno guardato al cinema nipponico siano mutate nel corso dei decenni, in tutti i casi si è trattato di uno sguardo deformato da luoghi comuni e incomprensioni. Secondo Calorio è possibile individuare un paio di grandi momenti che hanno inciso profondamente sull’immaginario cono cui l’Occidente ha guardato a tale cinematografia (visionata in una sua estrema parzialità) e al paese che l’ha prodotta.

Il primo momento può essere ricondotto al successo festivaliero ottenuto negli anni Cinquanta e Sessanta da cineasti come Kinugasa Teinosuke, Inagaki Hiroshi, Ichikawa Kon, Kobayashi Masaki, Akira Kurosawa e Mizoguchi Kenji. In particolare gli ultimi due sono stati visti dagli occhi occidentali, a seconda dei casi, come esempi di “giapponesità” o di “occidentalità”. Ovviamente su tali letture ha influito, e non poco, la scelta delle pellicole operata dai festival e dalle stesse case produttrici. In generale si può però dire che da tali opere è derivata un’idea di cinema nipponico votato alla tradizione:

un immaginario costituito da samurai virili, geisha pudiche (o in alternativa, fatalmente sensuali), profonda spiritualità, lealtà feudale, suicidi rituali, sete, lacche, spade, kimono, ventagli, paraventi, bambù, fiori di ciliegio, viste del monte Fuji, maschere e recitazione in stile kabuki; un’immagine di Giappone avulsa dalla realtà del tempo (p. 93).

Nel corso degli anni Settanta l’interesse del pubblico internazionale si è lentamente allargato «ai cosiddetti gendai-geki (film d’ambientazione contemporanea), mantenendo tuttavia intatta l’alterità dell’oggetto di studio attraverso concetti distanzianti come quelli di “carattere nazionale” e “mentalità giapponese”.» (p. 93)

Il secondo momento, sviluppatosi a partire dagli anni Settanta – influenzato dagli studi di Donald Richie, Noël Burch e David Bordwell –, propone una nuova immagine di cinema giapponese incentrata sulla produzione autoriale derivata dalla riscoperta del cinema di Ozu Yasujirō, attorno alla cui figura si sono costruiti non pochi luoghi comuni sulla cinematografia nipponica, tanto che, nel corso del tempo, in lui si è voluto vedere a volte un esempio di tradizione giapponese applicata al cinema e altre un autore con aspetti di modernità e universalità.

Scemato nel corso degli anni Ottanta l’interesse per la cinematografia giapponese in Occidente – se si escludono i grandi nomi come Akira Kurosawa, Nagisa Ōshima e Shōhei Imamura – questa ha conosciuto nuova fortuna attorno alla metà del decennio successivo grazie soprattutto a Kitano Takeshi.

Anche nella produzione di Kitano a cavallo tra i due millenni si ritrova spesso, in versione aggiornata, il Giappone da cartolina […], e nei discorsi sui suoi film non mancano riferimenti al cinema di Ozu, più che giustificati dall’alto livello di stilizzazione formale che accomuna le opere dei due cineasti. Al contempo, tuttavia, si trova già in nuce qualcos’altro: nel suo guardare alla tradizione da una prospettiva a metà strada tra lo sfacciato ammiccamento al gusto per l’esotico, il distacco ironico e lo spirito dissacratorio, nel suo interrogarsi sull’identità giapponese nel quadro della contemporaneità e, infine, nel suo prestarsi ad accostamenti a una “giapponesità” diversa e rinnovata, come un codice estetico e iconografico che richiama, per esempio, il manga […], il cinema di Kitano ha fatto da ponte verso una generazione di cineasti e di appassionati i cui riferimenti spostano l’immaginario collettivo dal Giappone della cultura “alta” a quello della cultura “bassa”. Sarà spesso infatti attraverso nuove parole d’ordine riferite al contesto popolare e contemporaneo che verranno misurati i film di Kitano e il Giappone che essi ci mostrano. Al contempo, tuttavia, la persistenza dei consueti richiami ai luoghi comuni della tradizione si direbbe sintomatica di un certo grado di sedimentazione di immaginari sostanzialmente immutabili. (p. 98)

Se da un certo punto di vista il panorama cinematografico nipponico contemporaneo si presenta variegato come quello di molti altri paesi, dall’altro non manca però di una sua specificità temporalmente definita: la presenza di una particolare e massiccia produzione di animazione, di generi particolari – jidaigeki, pinku eiga, yakuza-cinema, J-Horror, manga-cinema, ecc. – e il ricorso a forme di narrazione transmediale e di traduzione intermediale oggettivamente differenti da quelle occidentali.

Secondo Calorio l’attuale programmazione di opere giapponesi nelle sale italiane tende a confermare una visione ancorata al passato:

un’immagine del Giappone come luogo custode di una “iper-tradizione” riscoperta dopo qualche decennio di selvaggia e alienante modernizzazione (intesa, con un certo grado di arbitrarietà, come distorsione dei valori “occidentali” mal trapiantati in “Oriente”). Questa versione contemporanea di un immaginario antico, lievemente saccarina e agnosticamente spirituale, […] si porta dietro tracce più trasparenti sia delle “icone familiari” del Giappone da immaginario ottocentesco (ri)scoperto negli anni Cinquanta, sia di quello armonioso, malinconico e minimalista associato al cinema di Ozu, andando a costituire un’etichetta di Giappone perfetta per il supermercato culturale del terzo millennio. (p. 99).

Se si prendono come punti di osservazione i grandi festival, come Cannes o Venezia, quella giapponese oggi appare come una cinematografia stantia, priva di vere e proprie nuove proposte e con i suoi interpreti più noti in Occidente in difficoltà nell’eguagliare le prove che li hanno portati alla ribalta internazionale. Le cose cambiano un po’ se si esce dai festival mainstream e si fa riferimento a eventi più settoriali; in questo caso ci si può imbattere più facilmente in opere più innovative e in qualche nuovo autore. In tutti i modi resta decisamente scarso è il numero delle opere che ottengono distribuzione nelle sale italiane, ad eccezione di qualche uscita nell’ambito dell’animazione.

Prendendo invece come punto di osservazione il Web o le piattaforme digitali (Netflix, Amazon…), sottolinea Calorio, il panorama relativo al cinema giapponese contemporaneo si amplia decisamente. Se da tale prospettiva si vede come la cinematografia nipponica non possa essere ricondotta al solo manga-cinema, non di meno, puntualizza lo studioso, può essere negata la sua importanza.

To the Digital Observer affronta il cinema giapponese contemporaneo e le modalità con cui viene fruito, ricostruendo il percorso che lo ha portato a essere quel che è e ad essere fruito così come lo si fruisce qui ed ora. Anche se, sostiene Calorio, il cinema giapponese contemporaneo non sembra avvicinarsi ai livelli qualitativi di quello indagato da Burch, non di meno vale la pena indagarne le forme e i significati al fine di comprendere quanto e come la J-Culture abbia inciso sulla cinematografia nipponica e su quella di altri paesi.

Il fenomeno J-Horror, nato come genere locale low budget, nell’acquisire una rilevanza internazionale ha contribuito notevolmente a far conoscere globalmente il cinema giapponese contemporaneo. La diffusione di tale cinematografia fuori dal paese, sottolinea Calorio, è stata facilitata dalla sedimentazione in Europa e in America di una cultura pop giapponese costruitasi soprattutto attorno ai successi delle serie animate nipponiche, dei videogiochi, dei giocattoli, delle serie televisive. A monte di tutto ciò, non vanno sottostimati i successi della serie di film di mostri (kaijū eiga) diffusi nelle sale occidentali a partire da metà anni Cinquanta.

Il J-Horror prende il via nei primi anni Novanta con produzioni esplicatamene indirizzate all’home-video e alla televisione ad opera di registi come Nakata Hideo, Kurosawa Kiyoshi e soprattutto Tsuruta Norio per la sua opera d’esordiio Hontō ni attakowai hanashi (Scary True Stories, 1991) realizzata per Japan Home Video:

il fenomeno nacque quindi nell’ambito di un mercato e di un quadro industriale e commerciale nuovo, seppure ancora in prevalenza analogico, in cui ai modelli di produzione e distribuzione classici se ne stavano affiancando altri che vedevano, da un lato, l’ingresso in campo delle emittenti televisive; dall’altro, l’avventurarsi delle stesse case di produzione, prima tra tutte la Tōei, nel mercato rivolto al videonoleggio. Questo piccolo filone extra o paracinematografico era tuttavia destinato a essere intercettato dalla convergenza di due risorse tecnologiche altrettanto giovani ma diverse e imparentate tra loro dalla medesima natura “numerica”: nella seconda metà del decennio, infatti, si sarebbe consumato anche il connubio tra l’avvento dei supporti ottici adibiti ad accogliere file video digitali, e la diffusione capillare del World Wide Web. (p. 45)

L’ascesa del genere, che finisce velocemente per contaminare le altre cinematografie asiatiche e per raggiungere una diffusione globale, avviene nel momento in cui nascono il Video Compact Disc (VCD) e, poco dopo, il Digital Versatile Disc (DVD). È attraverso il VCD che si diffondono nell’area asiatica le serie televisive giapponesi rivolte ai giovani e le prime produzioni J-Horror

la cui stessa estetica, basata su un rapporto di stretta vicinanza con l’esperienza di visione dello spettatore, presto imparò ad attingere proprio dagli aspetti più disturbanti dei formati video su cui viaggiava: analogici prima (povertà delle immagini, segni dell’usura sui nastri, interruzioni), digitali poi (glitch visivi, distorsioni sonore, clonabilità, viralità). (p. 46)

Da parte sua il DVD, invece, oltre a migliorare la qualità dell’immagine, permette la possibilità di una fruizione dell’opera non necessariamente sequenziale e la presenza di tracce audio e sottotitoli in diverse lingue. Sono tali supporti digitali ad aprire la strada alla successiva smaterializzazione dell’oggetto-film che si dispiegherà in tutta la sua potenza espansiva grazie alle piattaforme di e-commerce.

Il successo planetario delle produzioni nipponiche, oltre che per la facilità d’acquisto online dei supporti materiali, con annessa feticizzazione collezionistica dell’oggetto di provenienza esotica, è raggiunto soprattutto grazie alle produzione incentrate sul sesso e sulla violenza, ambiti già fecondi negli ambienti underground giapponesi a cavallo tra anni Ottanta e Novanta da cui derivò il successivo, e meno estremo, psyco-horror.

È stato il successo in Occidente degli horror asiatici raggiunto attraverso il passaparola informatico “dal basso” a convincere Hollywood ad accaparrarsi i diritti d’autore, quando non gli stessi realizzatori (Hideo Nakata, Shimizu Takashi, Kitamura Ryūhei…) per realizzare una serie di rifacimenti tra cui spicca, per successo, The Ring (2002) dello statunitense Gore Verbinski, remake del film di Hideo Nakata del 1998, tratto dell’omonimo romanzo di Kōji Suzuki.

La fortuna di questo tipo di film in Occidente ha presto finito per estendersi ben oltre le schiere dei cultori dei prodotti nipponici. Il successo, oltre a determinare una sorta di nobilitazione dei prodotti in patria, ha indotto gli stessi produttori giapponesi a prodigarsi nella realizzazione di film pensati direttamente per il mercato internazionale. Emblematico, a tal proposito, il caso della serie “J-Horror Theater”, comprendente sei opere di altrettanti registi giapponesi, commissionate dal produttore Takashige Ichise: Infection (2004) di Masayuki Ochiai; Premonition (2004) di Norio Tsuruta; Reincarnation (Rinne, 2005) di Takashi Shimizu; Retribution (2006) di Kiyoshi Kurosawa; Kaidan (2007) di Hideo Nakata; The Sylvian Experiments (2010) di Hiroshi Takahashi.

Il cinema giapponese contemporaneo fa dunque i conti con nuove pratiche discorsive e di fruizione che ne hanno trasformato la sua ricezione rispetto al passato favorendo l’emergere di determinate sue espressioni a scapito di altre. Rilocato su una moltitudine di schermi, che sempre meno hanno a che fare con la sala cinematografica, il cinema giapponese vanta tra i nuovi osservatori digitali, oltre ai cinefili a caccia di cult movies, anche folte schiere di “cosmopoliti pop” attratti da un’immagine diversamente giapponese. Tutti questi fruitori digitali, con le loro pratiche virtuali, sottolinea lo studioso, contribuiscono a riplasmare l’immagine nipponica sia svelandone che occultandone specificità. Secondo Calorio in ambito occidentale oggi sembra essersi fatta strada

un’immagine del Giappone e del suo cinema che si discosta con una certa fatica dai luoghi comuni del passato. Certo, le tecnologie informatiche e i fenomeni di convergenza che hanno trovato terreno fertile in un pubblico già predisposto e preparato hanno offerto un’immagine più ampia della realtà giapponese e del suo cinema, affiancando ai cliché legati alla tradizione una nuova immagine cool, otaku, kawaii o estrema. Ma questa immagine bifronte di iper-tradizione e iper-modernità non esaurisce affatto l’ampiezza di sfumature dell’attuale panorama cinematografico giapponese, composto tra le altre cose da un’ampia produzione “media” che ricalca più pedissequamente gli standard classici hollywoodiani o quelli di una tradizione cinematografica locale ben rodata, oltre che da numerosi autori indipendenti la cui opera, sul piano stilistico scevra di qualsivoglia “odore” locale, è più facilmente accostabile a modelli europei, asiatici o a tendenze cinematografiche internazionali. (pp. 106-107)

In ogni caso, sottolinea Calorio, «l’immagine odierna del cinema giapponese che filtra fino a noi, così come, di riflesso, quella che esso restituisce del Giappone, parrebbe insomma ricalcare i vecchi luoghi comuni che dipingono questo paese e il suo cinema come il luogo del crisantemo e della spada, nazione paradossale, fuori da ogni logica, terra degli estremi opposti, “paese alla rovescia”. » (p. 107)

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Economie e narrazioni globali e transmediali. Il brand Gomorra https://www.carmillaonline.com/2018/04/10/economie-e-narrazioni-globali-e-transmediali-il-brand-gomorra/ Mon, 09 Apr 2018 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44762 di Gioacchino Toni

Stanno per iniziare le riprese della quarta stagione della serie televisiva Gomorra che, oltre alla classica ambientazione napoletana, in linea con quanto accaduto nelle serie precedenti, conterrà anche parti girate in contesti esteri, in questo caso, pare, quello londinese. L’intenzione di denunciare il carattere internazionale della criminalità organizzata si sposa con una strategia di marketing volta a raggiungere un pubblico altrettanto internazionale.

Nell’opera di Roberto Saviano, tra le altre cose, si denuncia di come globali siano le strategie tanto della criminalità organizzata quanto delle politiche neoliberiste di cui la [...]]]> di Gioacchino Toni

Stanno per iniziare le riprese della quarta stagione della serie televisiva Gomorra che, oltre alla classica ambientazione napoletana, in linea con quanto accaduto nelle serie precedenti, conterrà anche parti girate in contesti esteri, in questo caso, pare, quello londinese. L’intenzione di denunciare il carattere internazionale della criminalità organizzata si sposa con una strategia di marketing volta a raggiungere un pubblico altrettanto internazionale.

Nell’opera di Roberto Saviano, tra le altre cose, si denuncia di come globali siano le strategie tanto della criminalità organizzata quanto delle politiche neoliberiste di cui la prima è parte. Altrettanto globale appare quello che può essere definito il brand Gomorra che alla volontà di rendere internazionale la denuncia affianca una pianificata strategia dell’industria culturale indirizzata alla ricerca di un pubblico planetario. La necessità di denunciare ciò che è globale in maniera globale si intreccia con un’esigenza economica votata alla distribuzione internazionale. Se dal punto di vista economico, sappiamo, si possono tranquillamente veicolare contenuti anche scomodi se questi producono profitto, resta da verificare se il nobile intento della denuncia possa reggere ai meccanismi di mercato di uno spettacolo alla spasmodica ricerca del successo di audience.

Nel saggio di Giuliana Benevenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV (Il Mulino, 2017), si indaga uno dei casi più importanti di narrazione transmediale italiana capace di espandersi su diversi media: al libro di Roberto Saviano, uscito nel 2006, sono poi seguite una trasposizione teatrale, andata in scena per la regia di Marco Gelardi la prima volta nel 2007, una cinematografica, uscita nelle sale nel 2008 e realizzata da Matteo Garrone, dunque la fortunata serie televisiva affidata a Stefano Sollima e mandata in onda a partire dal 2014.

Il caso Gomorra offre interessanti spunti di analisi sia a proposito di produzione di titoli globali che di formazione progressiva di un franchise a partire dalla pubblicazione di un libro. L’altro celebre esempio di successo transmediale italiano è Romanzo criminale che al libro del 2002 di Giancarlo De Cataldo ha visto succedersi il film del 2005 diretto da Michele Placido e la serie televisiva di Stefano Sollima trasmessa a partire dal 2008.

Nel saggio di Giovanna Benvenuti Gomorra, in tutte le sue varianti mediatiche, viene visto come un prodotto in linea con il generale rinnovamento del contesto culturale nazionale che prende il via con la trasformazione dell’industria culturale italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento quando, sull’onda di fenomeni analoghi già in atto in altri paesi, anche l’editoria nostrana intraprende un processo di concentrazione e di propensione all’internazionalizzazione. La ricerca di visibilità globale sembra divenire, dagli anni Novanta, un elemento centrale in un panorama italiano contraddistinto dalla sostanziale coincidenza tra produzione e commercializzazione.

Qualcosa di analogo accade anche nel settore audiovisuale che, all’inizio degli anni Duemila, adotta una strategia «orientata a produrre blockbuster in grado di alimentare un franchise, ovvero in grado di sostenere una product line di film simili e una gamma di prodotti di intrattenimento a esso collegati» (pp. 16-17). Tali strategie intraprese dall’industria culturale italiana, che così si allinea a quanto già da diversi decenni accade negli Stati Uniti, non mancano di determinare reazioni risentite nella critica e negli ambienti accademici sostanzialmente ostili al dominio della “cultura visuale” accusata di mettere in crisi lo “specifico letterario”. Tale timore ha finito spesso per prendere la forma della strenua difesa della distinzione tra letteratura alta e di massa.

Nel nuovo contesto narrativo italiano, figlio anche delle disillusioni, del ripiegamento sul privato e della grande trasformazione neocapitalista, diversi autori sembrano confidare più sulle caratteristiche empatiche e affettive proprie di una narrazione performativa, piuttosto che sulle capacità riflessive e costruttive. Tra questi autori la studiosa colloca Saviano che, individuando i limiti di un’operazione di mera esibizione di documentazione nella sua volontà di denuncia, preferisce sperimentare nuove forme di comunicazione in cui si intrecciano «prova documentaria, finzione e autofinzione romanzesche» (p. 25).

Da tali riflessioni nasce il libro Gomorra. Qui l’autore ricorre a «una strategia retorica intesa a eliminare, apparentemente, la stessa differenza tra lettore reale e lettere implicito, creando l’impressione che non esista mediazione nel dialogo tra autore e lettore» (p. 27). Lo scrittore adotta una strategia dell’enunciazione che fa coincidere il soggetto dell’enunciato con il soggetto dell’enunciazione tentando di rimuovere «ogni effetto di distanziamento o di controcanto: tra i due soggetti (quello dell’enunciato e quello dell’enunciazione), la coincidenza o la congiuntura sembrano funzionare senza che si formino residui di senso, senza che si aprano crepe o fessure. Si ha in questo modo una “presa di parola” che […] sembra, cioè, solamente implicata da una tensione etica che si riversa in dovere della “rivelazione”: lo scrittore (ossia il personaggio del racconto retroattivamente prodotto dal dispositivo di scrittura appena menzionato) ha così un unico scopo e un unico compito, quello di portare a evidenza gli addentellati del Sistema camorristico» (pp. 28-29).

Le gravi minacce ricevute da Saviano, che lo obbligano a vivere sotto scorta, tendono ad imporre al lettore una sorta di “fiducia acritica” nei suoi confronti e a tal proposito non sono mancate prese di posizione ostili nei confronti dell’autore accusato di utilizzare la fiducia che gli viene concessa per intervenire anche su questioni mal conosciute.

Benvenuti sottolinea come il patto su cui si fonda il rapporto con il lettore in Gomorra sia istituito dalle dichiarazioni del personaggio-scrittore che, tra le altre cose, insiste su come la situazione locale di cui narra non sia che un microcosmo di un meccanismo criminale di portata internazionale aprendo così il libro ad un interesse globale. Nel saggio viene ricostruita la genesi del libro Gomorra a partire dall’attività di Saviano come giornalista ripercorrendo le pubblicazioni degli articoli sul blog «Nazione Indiana» (2003-2005) e sulla rivista «Nuovi Argomenti» che fanno da traccia alla pubblicazione editoriale.

A proposito dell’accostamento della scrittura di denuncia di Saviano a quella di Pier Paolo Pasolini, Benvenuti sostiene che il primo «contamina la letteratura con qualcosa che probabilmente Pasolini avrebbe disdegnato, cioè appunto l’immaginario mediatico» (p. 64). Lo scrittore napoletano, però, continua la studiosa, si propone di introdurre uno scarto importante rispetto a tale immaginario «decostruendo il fascino che promana dagli eroi del male, ponendo al centro della narrazione la propria diretta testimonianza». Differente è anche lo “sguardo parziale” pur ricercato da entrambi gli scrittori e se Pasolini, rivendicando esplicitamente l’autonomia della cultura dalla politica, attribuisce al romanzo un valore differente rispetto a quello dell’articolo che riprende la cronaca, Saviano non intende fare distinzioni.

Se dal punto di vista letterario lo scrittore napoletano trae ispirazione da Pasolini, da quello cinematografico Scarface, nella versione di Brian De Palma del 1983, rappresenta un punto di riferimento importante come modello da rovesciare: si tratta pertanto di riscrivere il mito veicolato dal film al fine di depotenziarlo attribuendo valore a chi si oppone al nichilismo dell’eroe del male. «Nel libro la deepicizzazione delle storie di camorra è resa possibile dai continui inserti saggistici, riflessivi, che spezzano il filo della narrazione, già comunque organizzata a episodi. […] Se l’immaginario contribuisce a creare la realtà, occorre creare un mito positivo, quello di uno scrittore ribelle che sfida il Sistema» (pp. 75-76). Siamo di fronte a una costruzione che avviene sia dentro che fuori il libro e, sostiene la studiosa, Saviano ha dato luogo a un’automitobiografia volta a combattere una violenza intessuta di mitologia.

Il primo adattamento di Gomorra è per il teatro e lo spettacolo viene messo in scena la prima volta nel 2007 da Marco Gelardi che, in collaborazione con lo stesso Saviano, decide di ridurre la mole delle vicende narrate dal libro concentrandosi su di un numero limitato di storie. Il linguaggio, come nel libro, risulta aggressivo e iperbolico con personaggi fortemente tipizzati. «A differenza di quanto accade nel libro, la pièce introduce il legame costituito dalla presenza del protagonista Roberto, interpretato da Castiglione […] In tal modo, come nel libro, il personaggio Roberto si confonde con la persona di Roberto Saviano e tale sovrapposizione è resa ancora più stringente dalla decisione di inserire quale prologo dello spettacolo l’intero discorso tenuto da Saviano a Casal di Principe, del tutto assente, ovviamente, nel libro» (p. 111). La certificazione di veridicità della narrazione che nel libro viene data dall’ubiquità del narratore-testimone, nello spettacolo teatrale verrebbe garantita dal prologo.

Nella trasposizione cinematografica operata da Garrone, anziché affidarsi ad una poetica del dire volta a dissezionare la realtà esponendone la brutalità attraverso un registro stilistico dell’eccesso, si assiste invece ad un’operazione di sottrazione rifuggendo dal modello del gangster movie tradizionale. Il film elimina la figura di Saviano narratore e personaggio che nel libro rappresenta l’opposizione al degrado. L’opera cinematografica mostra il modo di vivere e la cultura di chi ha a che fare con la camorra evitando eccessi stilistici e spettacolarizzazioni. Anche Garrone si pone il problema di come rappresentare il Sistema evitando di conferire fascino al potere dei boss e, a tal fine, decide di raccontare cinque storie di personaggi di secondo piano evidenziando il contrasto tra le loro vite e l’immaginario cinematografico di cui si nutrono. «Il regista, dunque, favorisce una lettura del film come reportage di guerra, legando il significato politico alla sua capacità di presentarsi come veicolo di informazione e proponendo il proprio come un cinema di impegno civile» (p. 95).

Sarebbe dunque la modalità con cui il film cerca una risposta emozionale, oltre che cognitiva, ad indurre lo spettatore a prendere posizione contro la cultura malavitosa. Anche Garrone, come Saviano, intende dar conto delle ramificazioni globali del Sistema evidenziando come il suo funzionamento sia del tutto in linea con quello del neoliberismo. «Lo spettatore è così colto dal legittimo dubbio di non essere davvero al di fuori della guerra di camorra, se è vero che essa è metafora di una guerra indotta dal sistema capitalistico, qui guardato nel suo volto più oscuro e cupo, nella sua disumanità» (p. 99).

Secondo Benvenuti il film non dovrebbe essere ricondotto all’interno del genere noir, quanto piuttosto al racconto distopico e, per certi versi, ciò appare ancora più evidente rispetto al libro grazie all’omissione della presenza dell’eroe-testimone che si ribella al Sistema. «La lettura distopica della realtà attuale situa il libro di Saviano in bilico tra un presente nel quale la catastrofe è in atto e un futuro ancora possibile, ma segnato da eventi che non sembrano avere fine, anche perché riproducono, in forme diverse, la catastrofe che è da sempre in atto. Se nel libro Saviano si prospetta come il sopravvissuto, che reca testimonianza della catastrofe, quasi assurgendo al ruolo di eroe tragico – mentre la prospettiva di Garrone rimane sempre quella di un outsider –, possiamo attenerci per lui – ma, in ultima analisi […] per la filiera mediatica che inaugura – alla definizione proposta da Giorgio Agamben di colui che, sempre inattuale e inadeguato rispetto al proprio tempo, può definirsi davvero “contemporaneo”» (p. 104).

Come Romanzo criminale, anche la serie Gomorra assume il punto di vista criminale sul mondo, permettendo così, come solitamente avviene nel genere noir, di mettere in scena lo sguardo sul lato oscuro del Paese, fatto di criminalità, certo, ma anche di relazioni intessute da quest’ultima con quei poteri che si presentano come la quintessenza della legalità. Come era accaduto con Romanzo criminale, dopo il successo del libro e del film arriva la serie televisiva, in questo caso particolarmente votata all’esportazione del brand a livello internazionale.

Secondo la studiosa la serie non può essere considerata come un adattamento del libro o del film: siamo piuttosto di fronte a una loro espansione narrativa forte anche di ricerche sugli sviluppi del Sistema svolte da Saviano successivamente. Lo showrunner della prima serie, andata in onda nel 2014, è Stefano Sollima, con diversi episodi affidati nel varie stagioni (2014, 2016, 2017) alla regia di Francesca Comencini, Caludio Cupellini e Claudio Giovannesi.

In linea con la pratica transmediale, la serie è pensata per essere fruibile autonomamente dal libro e dal film che l’hanno preceduta; è pertanto possibile approcciare il brand Gomorra a partire da una qualsiasi delle sue produzioni per poi decidere se e come affrontare le altre. La vera novità della serie, secondo Benvenuti, risiederebbe nella volontà di «rappresentare una storia criminale che molto deve alla tradizione del gangster movie, seguendo codici e ricercando effetti che gli spettatori sono abituati a incontrare nella serialità statunitense, ma non i quella nostrana» (p. 131).

Le esigenze della serialità televisiva comportano una modalità narrativa capace di fidelizzare l’audience tendenzialmente attraverso un’economia affettiva incentrata sui personaggi. Uno dei grandi problemi posti dalla serie è pertanto come riuscire a conciliare personaggi che permettano al pubblico di affezionarsi con il brand Gomorra costruito sulla negazione di eroi del male affascinanti. Come può, allora, distinguersi da altre serie, a cui narrativamente strizza l’occhio, magari non interessate all’impegno e alla denuncia? Sarebbe «in primo luogo Roberto Saviano a garantire il patto realistico sul quale è concepita la serie. Insieme a lui, il patto è garantito dagli espliciti pronunciamenti di registi, produttori e attori» (p. 133).

A differenza del film di Garrone basato sulla sottrazione, la serie intraprende la strada del tono epico della saga familiare di mafia. «Rinunciando all’eroe che si ribella al Sistema […] la serie, diversamente da quando aveva fatto il film, costruisce una mostruosa epica del male, che solamente contaminandosi con la distopia, mantiene una distanza critica verso ciò che rappresenta» (p. 135). Ciò dovrebbe essere rafforzato anche dall’assenza del lieto fine sebbene, vale la pena ricordare, l’happy end manchi spesso anche nelle produzioni che tendono a mitizzare agli occhi dell’osservatore le figure dei malvagi. Nel caso di Gomorra, sostiene Benvenuti, la mancanza del lieto fine vorrebbe però ricordare al pubblico che ciò a cui ha assistito si perpetua quotidianamente nei territori controllati dalla criminalità organizzata e su tale pretesa di realismo sembrerebbe fondarsi la strategia di marketing dell’intero brand.

Quanto Gomorra riesca nel suo intento di evitare che lo spettatore provi empatia per i personaggi, capaci di dar luogo a un piccolo star system, è difficile da dire. Inoltre, ricorda la studiosa, la crescente forza iconica di Saviano lo pone al centro di una responsabilità importante visto che è divenuto parte integrante del sistema mediatico che promuove il franchise. «Il caso Gomorra permette di mettere in luce la complessità del rapporto fra scrittore e mediatori culturali (proprietari dei mezzi di diffusione dei prodotti culturali, logiche di mercato, committenza, pubblicità, addetti stampa, editor, conduttori televisivi), mostrando quali negoziazioni e quali contraddizioni siano caratteristiche della contemporaneità» (p. 197).

Con le riprese della quarta stagione alle porte, resta da chiedersi se davvero la serie televisiva sia riuscita nell’intento di ribaltare Scarface e se davvero abbia saputo evitare di mettere in piedi una sorta di racconto epico autoconsolatorio, anch’esso nichilista in fin dei conti, agli occhi di chi si torva a vivere quello squallore e quello sfruttamento che la serie intende denunciare. Roberto Saviano ha più volte sottolineato come l’eventuale immedesimazione del pubblico si dia non con la realtà ma con la sua rappresentazione. Questo, però, poteva valere anche per il film di De Palma. Evitando di scivolare in semplicistiche letture di causa-effetto, viene da chiedersi se, molto più semplicemente, rispetto alle nobili premesse, la montagna (il brand Gomorra) non abbia finito col partorire un topolino (per quanto esteticamente ben riuscito ed economicamente redditizio).

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Nemico (e) immaginario. Armi e mura. Allegorie politiche post-apocalittiche ed etica della sopravvivenza in TWD https://www.carmillaonline.com/2017/11/14/41561/ Tue, 14 Nov 2017 22:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41561 di Gioacchino Toni

George Romero non ha mai fatto sconti a The Walking Dead, tanto da rifiutarsi di dirigere qualche episodio della serie giungendo a definirla come «una soap opera con qualche zombie qua e là». In effetti, avendo Romero sempre utilizzato lo zombie come strumento di satira o di critica politica, risulta difficile pensarlo alle prese con buona parte delle produzioni più recenti. Resta comunque innegabile che in TWD vi siano riferimenti all’universo romeriano tanto che alla scomparsa del regista che ha saputo regalare sia al “decennio turbolento” che a quello successivo del “ritorno all’ordine” le più appropriate figure di [...]]]> di Gioacchino Toni

George Romero non ha mai fatto sconti a The Walking Dead, tanto da rifiutarsi di dirigere qualche episodio della serie giungendo a definirla come «una soap opera con qualche zombie qua e là». In effetti, avendo Romero sempre utilizzato lo zombie come strumento di satira o di critica politica, risulta difficile pensarlo alle prese con buona parte delle produzioni più recenti. Resta comunque innegabile che in TWD vi siano riferimenti all’universo romeriano tanto che alla scomparsa del regista che ha saputo regalare sia al “decennio turbolento” che a quello successivo del “ritorno all’ordine” le più appropriate figure di zombie, lo stesso Robert Kirkman, il creatore dell’universo di comic alla base della fortunata serie televisiva, non si esime dal concedergli un tributo diretto inserendo su un numero del fumetto un esplicito riferimento all’incipit di Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985).

Richiami, citazioni e tributi, più o meno di maniera, a parte, nel corso della serie Nemico (e) immaginario abbiamo avuto modo di vedere come l’immaginario offerto da The Walking Dead differisca da quello romeriano; Antonio Lucci nel suo “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), senza mezzi termini, giunge ad accusare la serie di aver ribaltato il valore culturale critico del genere in una normalizzazione conservatrice.

Sull’immaginario politico-ideologico riscontrabile in TWD si soffermano anche Dom Holdaway e Massimo Scaglioni nel libro The Walking Dead. Contagio culturale e politica post-apocalittica (Mimesis, 2017). Il primo capitolo del volume analizza TWD, secondo le modalità dei Film and television studies, come prodotto televisivo, indagando l’ideazione e la produzione della serie, il suo dialogare con il genere horror e la mitologia degli zombie. Nel secondo capitolo TWD viene invece analizzato con gli occhi dei Cultural studies al fine di cogliere tanto «le strategie di rappresentazione adottate dal prodotto in relazione alle dinamiche politico-sociali contemporanee», quanto «l’ideologia stessa che la serie incarna e veicola, fondata su una visione neoliberista, tesa a valorizzare l’utopia dell’eguaglianza di fronte alla minaccia dei non-morti e a “oscurare” differenze che riemergono, comunque, in maniera inconscia e imprevista» (p. 11). Nel terzo capitolo, attraverso i Media studies e le ricerche sui fandom, viene studiata la dimensione transmediale della serie e viene messa in luce la sua capacità di dialogare con i desideri del pubblico. Nel quarto capitolo, infine, attraverso i Production studies, ad essere presi in esame sono gli aspetti distributivi e di consumo di questa serie. Da parte nostra ci soffermeremo sull’analisi proposta da Holdaway e Scaglioni nel secondo capitolo del volume intitolato “Nuovo ordine post-apocalittico. Allegorie politiche ed etica della sopravvivenza”.

Indipendentemente dal fatto che The Walking Dead sia «politicamente innocuo “come una soap opera”, per dirla con Romero, o piuttosto in grado di mettere sul piatto, spesso senza risolvere, alcune delle questioni più urgentemente avvertite nelle società occidentali (l’ossessione nei confronti delle fortificazioni, delle mura, del diritto di rinchiudersi in “comunità sicure” e di difenderne i confini anche con l’uso della violenza preventiva; oppure il tema delle malattie epidemiche…)» (p. 7), resta il fatto che il successo ottenuto dalla serie ha sicuramente contribuito al rilancio della figura dello zombie.

Il libro di Holdaway e Scaglioni concede parecchio spazio all’analisi delle «allegorie politico-ideologiche contenute, intenzionalmente o meno, nel prodotto televisivo e nelle sue varie estensioni» (p. 8). I due studiosi colgono anche alcune curiose analogie tra le narrazioni di Game of Thrones (Il trono di spade, HBO, dal 2011) e The Walking Dead. «A conferma che sotto la coltre dei generi e degli immaginari della cultura popolare ritroviamo motivi più profondi e persistenti, che consentono di inquadrare e comprendere meglio l’identità di una Nazione e la complessità dei racconti che, da qui, riescono a viaggiare nel mondo, e a raggiungere le sue diverse periferie, diventando altrettanto e diversamente significativi» (p. 9).

I due studiosi pongono particolare attenzione anche sulla capacità del fumetto e della serie televisiva di estendersi su media e piattaforme differenti al fine di coinvolgere i fan nello strutturare una forma di complessità che sembra presentare peculiarità tali da differenziarla da quella di altre serie contemporanee.

Sul piano contenutistico, innanzitutto, TWD catalizza una varietà di fenomeni legati alla mitologia “zombesca” sviluppata, negli anni, dal cinema e più recentemente dalla televisione americana. Dal punto di vista televisivo, poi, il telefilm prende il testimone da Lost e da altre serie “complesse” degli anni 2000 nello sviluppare una forma di narrazione improntata alla “popolarizzazione del culto” e all’apertura potenzialmente infinita del racconto. Sul versante della rappresentazione e dell’ideologia, inoltre, il focus della serie si sposta progressivamente dalla centralità degli zombie (o del virus che “li produce”) come origine dell’apocalisse, all’idea di una rifondazione della civiltà umana che dà per scontati il pericolo continuo e la necessità di convivenza con i non-morti: in questo modo TWD presenta un’ampia e ricca casistica di dilemmi etico-esistenziali, problematiche politiche, interrogativi legati all’organizzazione sociale, alle questioni razziali e di gender. Infine [TWD] intercetta e mette in forma in modo originale alcune dinamiche tipiche dell’industria televisiva contemporanea, quali il dialogo intertestuale fra fumetto, cinema e TV, le esigenze “transmediali” di un sistema comunicativo sempre più “convergente”, la necessità di intercettare il gusto di un fandom sempre più globale, le opportunità di sfruttare pienamente il prodotto e le sue “estensioni” nei differenti mercati di distribuzione (pp. 10-11).

In TWD è ravvisabile un’esplicita allegoria della Rivoluzione Americana, tanto che nelle comunità dei fan sono numerose le analisi che insistono sui riferimenti allegorici al mito fondativo degli Stati Uniti. «Il riferimento alla storia americana funziona, in termini più generali e “macro”, come leitmotiv per l’intera serie, che ritorna di continuo sul tema della gestione politica tanto delle comunità quanto del conflitto, e segnala altresì la permanenza e la rilevanza del mito nella società americana contemporanea. A livello più “micro”, nelle pieghe del testo, il nesso con la storia si attiva attraverso piccoli dettagli, immagini e parole […] che adornano specifiche puntate e sfuggono facilmente allo spettatore meno attento» (p. 48).

Holdaway e Scaglioni individuano in TWD una serie di elementi che riguardano «la rappresentazione del sistema politico-sociale contemporaneo, le tensioni in atto nella politica americana e, in particolare, il conflitto fra “libertarianismo” (libertarianism), da un lato, e ideologia neo-liberista, dall’altro lato» (p. 49). La serie, le sue rappresentazioni e la sua retorica, devono per forza essere lette alla luce delle dinamiche socio-culturali che l’hanno prodotta e le allegorie che si possono rintracciare in TWD non sono che rappresentazioni delle paure comuni che toccano la società; il successo della serie deriva anche dalla sua capacità di individuare e insistere sulle ansie collettive del momento.

Numerosi studi nel corso dei decenni hanno proiettato sugli zombie paure comuni che vanno dalla perdita di controllo del corpo alla morte, declinandole in base al variare dei contesti. Kyle William Bishop (American Zombie Gothic: The Rise and Fall – and Rise – of the Walking Dead in Popular Culture, 2010) osserva, ad esempio, che il ricorso al genere zombie aumenta in concomitanza con i periodi di cambiamento e di disordine civile. Le produzioni incentrate sugli zombie sono infatti aumentate durante la guerra del Vietnam e quella in Iraq e non è difficile collegare, come propone Peppino Ortoleva (in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010), la storica pellicola White Zombie (L’isola degli zombies, 1932), in cui vengono messi inscena schiavi senza stipendio e identità, alla Grande Depressione e alla questione del razzismo.

La configurazione più riconoscibile dello zombie risale al primo film di George Romero, Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), in cui non solo lo zombie assume le sembianze del morto camminante e cannibalesco ma inaugura anche due temi ancora attuali: «l’uso simbolico dell’identità dei sopravvissuti, in particolare delle donne e delle persone di colore, che vengono rappresentati in modo positivo» e, a differenza dei film pre-romeriani, «una certa voluta vaghezza a proposito dell’origine dell’apocalisse zombie» (p. 54). Romero inaugura una tipologia di film sugli zombie che insiste sulla critica nei confronti delle autorità e in generale riesce ad incarnare problematiche e paure diffuse all’interno della società americana dell’epoca. Col tempo la figura dello zombie «diventa manifestazione o effetto di una malattia epidemica (per esempio in 28 giorni dopo o La città verrà distrutta all’alba), del fascismo (Le lac des morts vivants, 1981; Dead snow/Død snø, 2009), di subculture devianti o bande (I Was a Teenage Zombie, 1987; Survival of the Dead – L’isola dei sopravvissuti, 2009), del ritorno di un colonialismo rimosso (Zombi 2, 1979) o addirittura del terrorismo dopo l’11 settembre, come accade nelle scene post-apocalittiche del remake di Zombi, intitolata (come l’originale in inglese) L’alba dei morti viventi (2004)» (p. 56).

Lo studioso Peppino Ortoleva sottolinea come gli zombie abbiano portato nella mitologia dei non morti un aspetto prima non trattato: «la morte proletaria, la morte di massa […]. Lo zombie è un morto massificato e anonimo in morte come, si suppone, lo era stato anche in vita. Un morto operaio, anzi una catena di defunti seriali» (Ortoleva in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010, p. 70). Dunque, sottolineano Holdaway e Scaglioni, lo svuotamento che subisce l’individuo divenuto zombie e la paura evocata dal contagio originano il timore nello spettatore che tutto questo possa accadere a chiunque.

Secondo i due studiosi, nonostante TWD sia, rispetto all’opera romeriana, oggettivamente meno critico nei confronti della società, non di meno la sua funzione allegorica risulta evidente e non può che dirsi politica.

Nella serie troviamo innanzitutto scene ambientate in alcuni luoghi ricorrenti, come negozi […], case e uffici di periferie e piccoli paesi […], chiese […], caserme con soldati e polizia antisommossa zombificati […], cui si aggiunge la prigione della terza e quarta stagione. La presenza di zombie in questi luoghi si presta evidentemente a una critica implicita di alcuni degli istituti fondamentali della società americana, suggerendo che i loro abitanti, seguaci, impiegati, clienti… non sono che un gregge di corpi automatizzati e acritici. La paura condivisa di malattie epidemiche è simboleggiata invece, in particolar modo, attraverso la rappresentazione del CDC (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie) alla fine della prima stagione […] Non si possono poi non ricordare le mura delle comunità di Alexandria e Woodbury, destinate nelle intenzioni a tener fuori gli zombie. Le loro immagini assumono una curiosa rilevanza storico-metaforica, poiché finiscono per dar corpo a quelle ansie xenofobe che hanno fornito carburante all’elezione di Donald Trump nel 2016. Negli stessi mesi della messa in onda di TWD, il candidato repubblicano faceva campagna elettorale puntando sulla promessa di costruire un muro lungo la frontiera che divide gli Stati Uniti e il Messico (pp. 57-58).

Rispetto al genere romeriano, TWD sposta lo zombie sullo sfondo al fine di concentrare l’attenzione sui sopravvissuti e ciò risulta funzionale alle lunghe narrazioni delle serie televisive, come ha spiegato Antonio Lucci (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), [su Carmilla]. Nel caso di TWD, sostengono Holdaway e Scaglioni, focalizzare il racconto «sui sopravvissuti permette, allo stesso tempo, di elaborare un’immagine molto più sfumata e complessa non solo di come si può reagire all’apocalisse zombie, ma anche di come ricostruire una società umana diversa da quella precedente. L’allegoria sviluppata dalla serie fa inoltre ampio ricorso all’idea della massa proletaria che Ortoleva riconduce al genere» (p. 59).

Serializzando e dilatando enormemente la narrazione, si è sviluppata una storia collettiva che mette in scena numerosi personaggi, comunità e luoghi, permettendo al fumetto, alla serie e alle varie estensioni da queste derivate, di divenire una sorta di laboratorio di reazioni all’apocalisse estremamente articolato e complesso. «Di conseguenza, è certamente possibile ricostruire le allegorie politiche presenti nella serie, sia che facciano parte dell’esplicita intenzione di Kirkman e degli altri autori, sia che esse siano, invece, implicite, attivate dal testo nel suo incontro con gli spettatori e nella sua circolazione culturale: è necessario però partire non soltanto dalle figure degli zombie, ma anche, e soprattutto, dalle vicende dei sopravvissuti» (p. 60).

In estrema sintesi, la prima stagione della serie segue l’itinerario di Rick Grimes che, risvegliatosi da un coma, parte alla ricerca della moglie e del figlio fino a giungere, al termine di un viaggio decisamente turbolento, ad Atlanta, ove il gruppo famigliare si riunisce in un campo di rifugiati presto distrutto da un attacco di zombie. A questo punto i superstiti tentano, invano, di rifugiarsi presso il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie. La seconda stagione è invece in buona parte ambientata nella fattoria di Hershel Greene ove trova riparo un gruppo di sopravvissuti alla ricerca di una bambina scomparsa. Un nuovo attacco di zombie costringe i protagonisti a fuggire e ad errare tra le abitazioni abbandonate della campagna circostante. La terza stagione e una parte della successiva sono ambientate in un riformatorio-prigione della West Georgia. Qua assistiamo allo scontro tra il gruppo di Rick e la comunità del Governatore della cittadina murata Woodbury. Nuovamente i protagonisti si trovano costretti a vagabondare per le campagne e sul finire della quinta stagione il gruppo di Rick troverà riparo nella fortificata Alexandria Safe Zone, nei pressi di Washington, che diviene una delle colonie che si aggregano per fronteggiare i Salvatori. Nel frattempo la serie (con alcune differenze tra comics e tv) presenta altre località-rifugio: Terminus, la chiesa di Padre Gabriel, l’ospedale Grady Memorial di Atlanta.

Sebbene TWD dimostri chiaramente che il crollo delle regole della nostra società può avvenire molto rapidamente, la rappresentazione della “radicalizzazione” degli esseri umani è mostrata come un processo più graduale e non sempre progressivo. Lo spostamento continuo del gruppo dei sopravvissuti tra i luoghi-rifugio or ora elencati ha una chiara funzione simbolica: marca l’inesorabile fallimento di un certo tipo di gestione sociale in seguito al progressivo, altrettanto inesorabile peggioramento etico dell’essere umano (p. 61).

Dalle prime stagioni, sottolineano gli studiosi, emerge chiaramente la difficoltà dei sopravvissuti di comprendere l’apocalisse.

L’enfasi è posta sui luoghi che simboleggiano e ricordano la vita quotidiana che precede il disastro […], oppure che, in qualche modo, sono legati alle istituzioni, alle autorità o alle forze dell’ordine […] E se il primo accampamento alla periferia di Atlanta è autogestito, è comunque il risultato di un gruppo di sopravvissuti uniti dalla ricerca condivisa di un campo profughi “ufficiale”, gestito dal Governo o dall’esercito. Il fatto che tutti quanti i rifugi si dimostrino alla fine fragili e poco sicuri segnala dunque con chiarezza, ai protagonisti come a noi spettatori, l’inefficacia delle istituzioni tradizionali dopo il crollo della società (p. 61).

Le tradizionali regole gerarchiche e comportamentali si rivelano presto inefficaci, come risulta evidente anche nella rappresentazione della prigione che, da luogo di rieducazione per chi aveva rifiutato le regole della società, diviene luogo di rifugio. Trasformatasi in una sorta di laboratorio sociale, la prigione diviene per il gruppo di Rick un luogo in cui sperimentare modalità di vita comunitaria. Dopo una fase di breve durata in cui viene tentata una sorta di democrazia sociale gestita da un consiglio di cinque individui, «la prigione crolla sotto il peso di un particolare tipo di corruzione e di un modello alternativo e minaccioso di governo, rappresentato dal Governatore e dal suo regime politico» (p. 63).

La comunità di Woodbury si presenta invece governata da una dittatura tirannica con un unico individuo al comando supportato da mercenari.

Oltre alla conferma della celebre osservazione di Walter Benjamin che “l’estetizzazione della politica converge sempre sulla guerra”, la comunità fascista del Governatore serve, sul piano simbolico, a dimostrare il cambiamento profondo dell’etica sociale. Infatti, la distruzione della democrazia quasi-utopica della prigione non a causa di forze contingenti – come la malattia – ma per via di una nemesi umana, rappresenta un evento capitale. I fatti insegnano ai protagonisti che nel nuovo ordine del mondo post-apocalittico la violenza deve necessariamente essere quotidiana (p. 63).

La comunità di Alexandria raffigura, per certi versi, nuovamente la situazione della prigione: «la sua leader, Deanna, era un membro del Congresso statunitense prima dell’apocalisse, e dunque rappresenta un capo democraticamente eletto. Pur di ripetere l’importanza della nuova etica sociale, la serie mette in contrasto il gruppo di Rick e quello di Alexandria, dimostrando che il secondo – protetto fortunosamente dalla realtà fuori le mura grazie a una grande cava che temporaneamente blocca migliaia di zombie – non ha ancora imparato la lezione: “uccidere o farsi uccidere”» (p. 64). Dunque, sostengono Holdaway e Scaglioni, la quinta e la sesta stagione hanno la funzione di far comprendere la nuova morale necessaria.

Ne caso della “trappola” Terminus, la serie insiste «sul fatto che un tempo il sogno di Terminus era autentico» ma poi coloro che reggevano la comunità sono stati corrotti e contaminati dalla violenza di stranieri giunti da fuori. Altre forme di governo riguardano la chiesa di Santa Sara e l’ospedale. In quest’ultimo caso viene prospettata una forma di autocrazia. «Qui si finge un ordine che rispecchia protocolli di comportamento pre-apocalittici, e a governare c’è una milizia armata: eppure, anche in questo caso, il risultato è la restrizione della libertà […] oppure la morte» (p. 65).

Se la critica della serie alle forme di autocrazia e dispotismo è chiara, non da meno mette in evidenza come siano fallimentari anche le forme utopiche di governo, destinate a corrompersi velocemente. «Se il modello della democrazia può ancora valere, deve necessariamente conservare un lato latente di sfiducia verso l’altro e l’estraneo, nonché di violenza pronta a essere esercitata: sembra questo il solo modo per garantire la sopravvivenza della comunità» (p. 65).

La base dell’etica post-apocalittica si sovrappone chiaramente all’ideologia del liberal-conservatorismo della destra americana, anche se nella serie essa viene portata alle estreme conseguenze. Se [è possibile identificare] nello storytelling progressista degli zombie movies di Romero una battaglia ideologica tra la fede nel governo e nelle istituzioni, da un lato, e il libertarianismo individualista, dall’altro lato, in TWD l’esito del conflitto sembra già deciso: il governo e le istituzioni politiche e sociali sono del tutto assenti. A trionfare è un certo tipo di libertarianismo: la protezione a ogni costo dei propri interessi (il rifugio, la famiglia), lo scetticismo e la diffidenza nei confronti dello straniero, dell’altro, dello sconosciuto (p. 65).

Dunque, secondo Holdaway e Scaglioni, la società dei sopravvissuti messa in scena da TWD può essere letta come un’allegoria della visione del liberal-conservatorismo americano e gli zombie come metafore delle paure nei confronti dell’immigrazione e del terrorismo propagandate da quell’immaginario di destra. «È senz’altro rilevante in questo senso l’ossessione della serie per le armi (oltre che per i muri), che rappresenta il fondamento di quell’esigenza, tutta americana, di doversi e potersi proteggere con una pistola» (p. 66).

Nello scenario post-apocalittico della serie la differenza tra i protagonisti e gli antagonisti pare essere di natura morale anche se decisamente fluida. «Da un lato, tra i personaggi che più precisamente aderiscono all’ideologia libertaria, infatti, ci sono degli esempi umani che la spingono verso le sue conseguenze estreme». In tali casi l’omicidio viene giustificato dalla necessità. «Dall’altro lato, troviamo tutti quei personaggi che fanno decisamente fatica a conformarsi al nuovo ordine, […] costretti a subire le conseguenze negative del proprio rifiuto di adattarsi» (p. 66).

Nella serie viene esplicitamente segnalato come chi incarna posizioni di pacifismo e umanesimo finisca per divenire vittima della violenza gratuita, «mentre il libertarianismo protettivo e la violenza ragionata non costituiscono degli argini nei confronti dell’aggressione arbitraria» (pp. 67-68). I limiti del pacifismo vengono esplicitamente manifestati nella figura di Carol che diviene nel corso del tempo sempre più contraddittoria.

Il punto più drammatico di esplicitazione del conflitto fra opzioni esistenziali diverse arriva nel confronto con un personaggio, Morgan, un altro pacifista, sebbene molto più combattuto. Alla fine della sesta stagione ritroviamo Morgan abbandonare Alexandria per paura di perdere la propria umanità a causa delle violenze necessarie alla sopravvivenza della comunità. Come Morgan – il cui irenismo per certi versi insostenibile esplode, infine, nella violenza gratuita e incontrollata ai danni di Richard, guardia del Regno – Carol non riesce allo stesso modo a sedare il suo lato intimamente violento, specie quando alla fine della settima stagione è chiamata a tornare, ancora una volta, a difendere Alexandria contro i Salvatori (pp. 71-72).

Insomma, secondo i due studiosi, dalla serie emerge chiaramente come il pacifismo risulti importante per la psicologia degli individui che si trovano a vivere situazioni estreme ma che la necessità di ricorrere alla violenza per difendere se stessi, la propria comunità e i propri beni, appartenga «a un “libertarianismo” che rimane ineluttabile» (p. 72).

Seguendo per certi versi modalità tipiche dei disaster movie, in cui ci si chiede continuamente chi sopravviverà alla fine, anche TWD presenta numerose morti di personaggi rilevanti. Nel caso della serie presa in esame occorre anche tener presente che i meccanismi di suspense e imprevedibilità si relazionano con meccanismi di coinvolgimento e con le aspettative dei fan.

Si può cogliere il portato simbolico della morte nell’esempio […] di Tyreese, il cui decesso […] indebolisce inevitabilmente la convinzione che “le persone come me possono sopravvivere”. Il fatto che questa affermazione si riveli, alla prova dei fatti, falsa finisce per legare indissolubilmente l’atto di sopravvivenza con l’ideologia politica del libertarianismo. La morte, dunque, riflette in un certo senso l’incapacità di un personaggio di sopravvivere in una società dove le regole sono ormai cambiate radicalmente; la sopravvivenza, viceversa, segnala l’adattamento e l’“incorporazione” del “nuovo ordine del mondo” e le sue conseguenze etico-politiche (p. 73).

Certo, non sempre tutto è così meccanico e la morte di un personaggio può dipendere anche dall’intreccio che si viene a creare con altri comprimari o da esigenze più generali legate allo sviluppo della serie. Secondo i due studiosi è possibile identificare tanto un gruppo di uscite di scena eroiche (Beth, T-Dog, Lori, Oscar, Sasha…) quanto una serie di morti anti-eroiche (Dawn, il Governatore, i cacciatori-cannibali, i claimers di Joe…).

«In ognuno di questi casi, la morte del personaggio avviene perché esso rappresenta una minaccia per Rick e il suo gruppo, un ostacolo che va rimosso per far avanzare la storia nel suo complesso» (p. 74). Vi sono poi personaggi collocabili a metà fra gli eroi e gli antagonisti e personaggi perfidi che si redimono morendo o figure di eroi che nel corso del tempo si lasciano corrompere.

Sul fronte, invece, delle morti simbolico-politiche si possono individuare due tendenze generali, che servono al racconto per illustrare il nuovo ordine della società. In TWD troviamo moltissimi esempi di personaggi (soprattutto minori) scomparsi sostanzialmente per illustrare la gravità della situazione in cui i sopravvissuti si ritrovano. È, questo, un aspetto caratterizzante della serie [che indica] l’altissimo pericolo che si corre nella nuova società […] È chiaro come i bambini rappresentino l’innocenza e la naiveté: la distruzione di questo simbolo serve a sottolineare ripetutamente la totale mancanza di speranza in un mondo dominato da walking dead e assassini totalitari (p. 75).

Una seconda tendenza simbolica nella morte dei personaggi ha a che fare con gli omicidi che mettono in risalto il livello di corruzione morale di qualche individuo.

Insomma, le tante morti di TWD servono chiaramente a delineare il nuovo ordine del mondo e a definire le conseguenze etiche del suo avvento; sono senza dubbio, sul piano narrativo, l’esito delle azioni dei personaggi, ma rappresentano anche i tasselli che fissano lo schema morale del libertarianismo che la serie vuole rappresentare e, in un certo senso, problematizzare. La disponibilità a uccidere caratterizza la dinamica del potere, e funziona quasi come una forma di valuta di nuovo conio; al contrario, chi muore rappresenta sia i difetti di chi non è in grado di reggere i colpi della nuova società, sia un efficace strumento narrativo per illustrare tanto la difficoltà di sopravvivenza quanto la necessità di rivedere le proprie convinzioni, di adattarsi meglio alla dura realtà […] Gli omicidi e, in generale, la morte servono per evidenziare la corruzione morale di coloro che li perpetrano o ne sono la causa [inoltre] servono anche ad accentuare la sofferenza di personaggi buoni […] e un loro specifico percorso di cambiamento (pp. 76-77).

Secondo Holdaway e Scaglioni, se risulta abbastanza semplice individuare allegorie politico-sociali, per quanto mutevoli, nelle figure degli zombie, occorre dare la giusta importanza anche ai sopravvissuti intesi come «autentiche metafore viventi». Se i sopravvissuti di Romero possono essere letti come allegorie progressiste capaci di far riferimento a tematiche e timori propri dei momenti storici in cui i film sono stati girati, di certo non mancano critiche nei confronti della società americana contemporanea nemmeno in TWD. Se sulla questione razziale sia il fumetto che la serie televisiva sono stati accusati «di razzismo inconscio per la rappresentazione da “buon selvaggio” del personaggio di Michonne, e soprattutto per il tasso incredibile di decessi di uomini di colore, specie nelle prime stagioni» (p. 81), non mancano riflessioni sulle dinamiche di potere coinvolgenti uomini, donne, individui di colore e omosessuali. Secondo i due studiosi «in questo senso TWD riprende e aggiorna l’eredità dei film di Romero, rappresentando esplicitamente una supposta ideologia “post-razziale” e “post-gender”» (p. 81).

La questione viene affrontata sin dalle prime puntate della stagione iniziale, in particolare quando Merle, maschio e bianco, reagisce nei confronti di chi tenta di fermarlo dal suo sparare ai vaganti con frasi misogine e razziste contro ispanici, asiatici e neri. «È questo un momento fondamentale della serie, che introduce una serie di tematiche che saranno ricorrenti: Merle si proclama leader del gruppo, annunciando ironicamente l’inizio dell’“ora della democrazia”. Costringe tutti gli altri a votarlo come leader, minacciandoli con la pistola» (p. 81). La violenza di questo viene arginata dalla violenza di Rick in abito da sceriffo

anche se, a ben vedere, rappresentano più il “nuovo ordine” di quello vecchio. Quando infatti l’eroe minaccia di sparare, Merle lo prende in giro: “non lo faresti, sei uno sbirro”. Ma Rick è pronto a rispondere: “ormai non sono altro che un uomo che cerca sua moglie e suo figlio. Chiunque si metta in mezzo non potrà che perdere”. Come si nota da questo scambio, la famiglia rappresenta la base fondamentale della sua spinta alla sopravvivenza. Il discorso di Rick è particolarmente curioso, soprattutto per come declina l’idea di differenza: “allora Merle, le cose sono diverse ora. Non ci sono più negri, e non ci sono più nemmeno gli stupidi pezzi di merda bianchi dediti all’incesto. Rimane solo carne scura e carne chiara. Ci siamo noi e i morti. Sopravviviamo solo stando uniti, non separati!”. Nel discorso di Rick si definisce il codice morale che caratterizza l’intera serie. Le premesse le abbiamo già viste: l’idea del nuovo ordine, la necessità della violenza finalizzata alla protezione di sé e della propria famiglia, in linea con l’ideologia del libertarianism. Si aggiunge, qui, però, un surplus di politica identitaria: l’idea che non contino più le categorie o le vecchie etichette; la sola differenza che conta e che è fondamentale è quella tra morti e vivi. Poco dopo, il punto è reso ancora più esplicito: Rick e Glenn si coprono letteralmente delle viscere di uno zombie, nascondendo le differenze fisiche, per fuggire dalla massa di morti. L’ideologia alla base delle affermazioni e delle azioni di Rick in questa scena, e in particolare la nozione di uguaglianza, diventa qui concretamente utopica e ci riporta, oltre l’allegoria, alla società contemporanea: è la realizzazione della nozione neoliberista del soggetto, secondo cui le differenze sociali hanno perso di rilevanza (o dovrebbero farlo) (p. 82).

Nell’ambito del neoliberismo ad essere portato avanti è un vero e proprio processo di mercatizzazione della società che trasforma l’attività di governo da gestione politica a conduzione amministrativa con tanto di privatizzazione di tutti gli enti pubblici. In sostanza le regole del mercato finiscono con l’eclissare ogni altra possibile struttura sociale comportando l’assimilazione delle diverse identità alla categoria del capitale umano. Le diverse identità vengono così sostituite dalla “cittadinanza”, che, come scrive Wendy Brown (Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, 2015), viene ad essere considerata «solo in termini di appartenenza a una comunità in quanto “cittadini”, e nulla di più» (p. 83). È chiaro allora che «i soggetti che esistono “oltre la cittadinanza” (come i migranti) non rientrano nella definizione [e] tutti coloro che rientrano nel concetto di cittadinanza vengono assimilati» (p. 83).

La trasformazione che porta verso l’universalità dell’homo oeconomicus viene riprodotta in TWD attraverso la messa in scena dell’apocalisse.

Il confronto fra “mercatizzazione della società” e apocalisse non è, però, letterale, poiché le modalità di gestione della società neoliberista e di quella post-apocalittica sono molto diverse, e poi perché il capitalismo come forza propulsiva è un tema poco esplicitato nella serie. Il capitale in TWD è costituito dalla capacità di sopravvivere. Per questo vediamo emergere alcune ruoli-chiave nella nuova società: il cacciatore, il poliziotto, il costruttore/architetto, il leader, il medico. […] L’importanza dell’ultimo ruolo – quello del dottore – nell’economia della sopravvivenza è evidenziata almeno due volte nella serie. In primo luogo negli atti compiuti all’ospedale Grady Memorial da Steven Edwards, che uccide un altro medico per preservare la propria posizione. C’è poi Carson, ucciso brutalmente e ingiustamente da Negan, ma solamente perché sostituibile con il medico di Hilltop. È infatti chiaro che TWD insiste sia sulla presenza di rapporti intersoggettivi molto significativi e del tutto colour-blind, sia nel contrapporre continuamente agli eroi antagonisti razzisti, misogini o omofobi. Fra questi ultimi possiamo di nuovo citare il razzista Merle Dixon, nonché il marito di Carol, altro maschio apertamente misogino, che picchia sua moglie e minaccia le altre donne del gruppo. Si potrebbe citare anche il Governatore, specie per le tensioni di natura misogina e razzista che caratterizzano il suo rapporto con Michonne, e senz’altro Negan, per via della struttura gerarchica che impone alla comunità dei Salvatori, dove le donne sono re-inquadrate in ruoli e contesti tradizionali. È utile leggere queste diverse rappresentazioni attraverso la chiave interpretativa dell’ideologia neoliberista: la rappresentazione di un codice morale “sbagliato” si sovrappone all’emergere di differenze sociali (e della violenza che ne è l’esito) entro un quadro generale che avrebbe, al contrario, dovuto rendere insignificanti quelle stesse differenze, come asserito da Rick nel discorso sulla “carne bianca e la carne nera (p. 84).

I due studiosi evidenziano come in TWD i personaggi positivi capaci però anche di sopravvivere siano soprattutto donne, uomini di colore (o comunque non wasp) e omosessuali.

Tutti sono rappresentati come abili a sopravvivere, mentre le loro “differenze” vengono esplicitate solamente per indicare la liberalità delle varie comunità (come nel caso di Alexandria), oppure per marcarne l’utilità al gruppo […] Le diverse stratificazioni della metafora neoliberista si evidenziano in modo particolarmente interessante nel personaggio di Victor Strand, […] un tipo particolarmente furbo, capace di controllare gli altri, allo scopo di perseguire i propri obiettivi. Quando nel campo profughi conosce Nick, subito riconosce nel giovane tossicodipendente – altro soggetto scomodo nella società neoliberale, le cui capacità individuali lo rendono però “efficiente” dopo l’apocalisse – uno strumento utile per fuggire. In seguito, attraverso alcuni flashback narrativi, veniamo a sapere che l’amico e socio di Strand è anche il suo compagno. La sessualità di Strand, come la sua appartenenza etnica, non vengono mai esplicitamente dichiarate, ma soltanto inserite in una storia che “giustifica” il suo sfruttamento di altri esseri umani con l’obiettivo della propria sopravvivenza […] La sovrapposizione, tramite flashback, degli atti “amorali” di Strand nella società neoliberista (è, in fondo, un soggetto economico di successo!) e in quella post-apocalittica (qui è in grado di sfuggire agli zombie) è resa esplicita e giustificata dalla narrazione stessa. Nella scena in cui scappa di prigione, Nick si interroga sull’opportunità di liberare altre persone bloccate nella quarantena, ma Strand risponde: “non li aiuteremo, perché aiutarli potrebbe ferirci. Non c’è alcun valore aggiunto”. È inoltre molto interessante, allo stesso tempo, che gli uomini di colore di TWD sono quasi tutti molto diversi da Strand, e si collocano nella categoria dei personaggi più filantropici e pacifisti, ovvero quelli che sono meno disposti alla violenza […] In ossequio al dogma della serie, che detta l’incapacità dei personaggi più pacifisti e filantropi di sopravvivere, tutti quanti, tranne Morgan e Gabriel (che, comunque, devono dolorosamente “imparare la lezione”) fanno una brutta fine. La presenza e le morti dei personaggi di colore in TWD perciò rivela, alla fine, le tensioni che permangono sotto l’etichetta neoliberista del “post-razziale”. Da un lato, la serie presenta tutti quanti i personaggi come uguali di fronte agli zombie. Dall’altro, però, questa nozione convive con una caratteristica comune alle persone di colore, che è stata giustamente interpretata come una forma di razzismo implicito. Inoltre, in questa etica e politica della sopravvivenza è difficile non scorgere un’allegoria della società americana attuale, dove il movimento Black Lives Matter è nato proprio a partire dai numerosi casi di omicidi di persone di colore inermi. (p. 86).

Infine, la famiglia costituisce uno dei fondamenti principali dell’allegoria politica della serie e questo lo si evince, ad esempio, dall’insistenza con cui Rick evidenzia l’importanza della famiglia come elemento motivante il “libertarianismo” di una condotta che raggiunge vette di estrema violenza. Analogamente la perdita dei figli spinge Morgan e Carol ad alternare condotte decisamente violente a momenti di ripudio delle stesse, fino a ricorrervi nuovamente nella battaglia contro i Salvatori.

Tuttavia, come nel caso del razzismo inconscio della serie, anche l’enfasi sulla famiglia all’interno della politica di TWD può essere variamente sfumata. In fondo la definizione di famiglia che la serie propone è piuttosto flessibile: bambini di genitori morti diventano figli adottati da altre persone […] e spesso una comunità di persone necessariamente diverse si unisce per il sostegno e la difesa di tutti. Se l’ombra di un libertarianismo violento e quella di un’ideologia neoliberista che pretende di cancellare le differenze in nome di un’utopia livellatrice sono onnipresenti nella serie, l’idea di una comunità aperta non viene del tutto meno (p. 87).

La complessità politica del mondo di TWD suggerisce in controluce la complessità della società che fruisce della serie. «Nella finzione, così come nella realtà, ideologie contrapposte e tensioni insanabili ci interrogano su tematiche cruciali e sulle possibili soluzioni dei problemi che ci circondano e ci affliggono» (p. 87).


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