traduzione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 20:00:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Si può vivere solo nel modo più feroce possibile https://www.carmillaonline.com/2021/03/17/si-puo-vivere-solo-nel-modo-piu-feroce-possibile/ Wed, 17 Mar 2021 21:10:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65293 di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio Vittorini e Fernanda Pivano), sicuramente un ottimo punto di riferimento. Prova ne sia questo romanzo di Robert Coover, tradotto magistralmente da Riccardo Duranti.

Robert Coover (1932), autore di romanzi e racconti, è considerato uno dei padri della letteratura postmoderna statunitense e ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University.
Riccardo Duranti che ha avuto il compito, e la capacità, di trasporre in italiano le sue invenzioni linguistiche e letterarie, ha precedentemente tradotto l’opera omnia di Raymond Carver e autori come Cormac McCarthy, Richard Brautigan, Philipo K.Dick e Henry David Thoreau.

Per un romanzo che riprende le vicende del più noto, o dei più noti, tra i personaggi di Twain la traduzione si rivela come uno dei punti di forza, considerato che, per la prima volta, il linguaggio torna ad essere quello desiderato dallo scrittore che aveva preso il proprio nome d’arte dal gergo dei battellieri del Mississippi e che aveva tratto le proprie storie e le parole con cui raccontarle da quelle della Frontiera e della società americana a cavallo tra ‘800 e ‘900. Come afferma lo stesso Duranti:

A parte la narrazione fluida, in cui i piani temporali si sovrappongono e si fondono con continuità, i fantasmagorici effetti cooveriani di questo romanzo sono essenzialmente concentrati nel linguaggio. Coover riprende e porta alle estreme conseguenze l’intuizione di Twain di affidare a narratori improbabili e linguisticamente anomali la testimonianza degli eventi; e a mio parere raggiunge risultati ancor più efficaci dello stesso Twain, amplificando l’azione eversiva del linguaggio ruspante di Huck.
Questa centralità del linguaggio mi ha posto seri problemi di traduzione: nello sforzo di riprodurre, in un contesto linguistico diverso, scarti e deformazioni espressive irrinunciabili, le normali sfide traduttive sono amplificate ed esasperate.
[…] Come in tutti i tentativi di derivazione, non sempre le soluzioni sono all’altezza dell’originale, ma in alcuni casi, con mia grande sorpresa, l’equivalente italiano si è rivelato molto efficace, aggiungendo assonanze allusive più esplicite. Per esempio, il soprannome affibbiato al generale che perseguita Huck, Hard Ass, che diventa Culo Tosto e lo avvicina dal punto di vista fonico all’evidente modello storico del Generale Custer, con cui condivide almeno due nessi. Oppure le riunioni sulla “stragetia” da adottare con i pellirossa che Tom tiene con i suoi sodali e in cui la metatesi rivela più immediatamente in italiano che in inglese le inquietanti intenzioni che le sottendono1.

Coover si misura, in realtà, con un romanzo, Le avventure di Huckleberry Finn (1884), che T.S. Eliot aveva definito un “capolavoro”, in cui «il genio di Twain trova la sua piena realizzazione». A questo giudizio si sarebbe poi aggiunto quello di Ernest Hemingway: «Tutta la letteratura americana viene da un libro di Mark Twain che si intitola Huckleberry Finn… Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo»2.

Operazione certamente impegnativa quella di riprendere i personaggi di Mark Twain per seguirli nelle avventure successive a quelle originali, senza intaccarne le caratteristiche. Ancor di più se si coglie che Coover li immerge deliberatamente fino al collo nella storia del loro paese per circa un trentennio, sviluppandone le personalità con un realismo ed una credibilità sorprendenti.
Ma ciò ancora non basta: Coover riesce a demistificare e far implodere tutto il “mito americano”, soprattutto quello fondante della Frontiera.

Trent’anni di storia americana condensati nello sgangherato resoconto di Huck con tutte le relative tragedie e “contardizioni” (dalla guerra “sivile” alla corsa all’oro, passando per il genocidio delle tribù native ad opera dei coloni e dei “calvari-legieri”), da cui la retorica del mito patriottico esce decisamente a pezzi. Mentre sono impressionanti, e certamente non casuali, i collegamenti con l’attualità politica contemporanea.

«Gli Stati Uniti rivendicano questo territorio a se stessi per cacciare fuori a calci i pellerossa cannibali e blastemi – che non sono manco del tutto UMANI!» così ha detto. «E d’ora in poi, l’esercito americano proteggerà TUTTI i migranti legali e i minatori! OVUNQUE volete andare!». Tutti si sono messi ad acclamarlo come matti. «Vi assicuro, amici, che non ci saranno più massacri pellerossa né processi somari e manco più linciaggi! Tutto sarà LEGALE e PRO-PROGRESSO, aggiusta regola! La regola AMERICANA! Grassatori, osti-lì e leva-picchetti saranno PERSEGUITATI! Tutto dovrà essere come DOVREBBE essere! Stiamo costruendo la prima nazione perfetta al mondo quaggiù e non c’è nessun maledetto pellerossa che si metterà di traverso, e nemmanco nessun re e nessuna sciocchezza né senti né mentale né quacchera che sia, per non parlare manco dei banchieri forestieri! Costruiremo il paradiso in terra dove tutti saranno RICCHI e nessuno oserà togliervi quello che vi aspetta di diritto ed è VOSTRO! Questo è il nuovo ELDORADO!»3.

La grande promessa americana, sulle labbra dell’amico di sempre, Tom Sawyer, oppure su quelle di Trump o di Biden fa lo stesso, come Make America Great Again nasconde sempre la truffa, la menzogna e la violenza. Sarà l’evidenza dei fatti, e delle stragi di tribù e di animali (soprattutto cavalli) a spingere Huck, coerentemente al suo istintivo pessimismo anarchico, verso una crescente ammirazione per le storie del trickster Coyote, modello ideologico che Huck assorbe da Eeteh, il nuovo e definitivo (?) amico nativo americano, insieme ad un maggior apprezzamento di quello sociale, anche se decisamente imperfetto, dei Sioux Lakota con cui ha vissuto (non sempre felicemente) rispetto a quello “bianco” che si va affermando in tutta la sua crudezza.

In realtà, a trionfare è ancora una volta il desiderio di fuggire; lo stesso che già aveva animato le vicende di Huck nella sua scorribanda sul Grande Fiume (il Mississippi) nel romanzo originale e, successivamente, tutte le grandi fughe della letteratura americana. Da Jack London a Jack Kerouac compresi. Forse causate, anche inconsapevolmente, da ciò che avrebbe scritto in seguito William Burroughs, nel suo Pasto nudo (1959): «L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta».
Qualcosa che si coglie indirettamente nelle parole di un fotografo che dovrebbe documentare le gesta di un Tom Sawyer vestito e descritto come un Buffalo Bill circense

«Ho lo studio lì. Perlopiù facevo foto di morti. Sono famoso per la mia specialità: i ferrotipi di bambini morti. Se sono svelto a beccare i pupi, li sistemo in modo che sembrano ancora vivi. Nello studio ho un sacco di bambole di paglia per mettergliele nei pugnetti. I vecchi sono più facili se li becchi prima che s’irrigidiscono troppo, però non sono altrettanto carini. Ho fatto anche foto di gente viva, ma non vanno molto». Mi ha mostrato una foto che aveva fatto a Tom nel suo costume tutto bianco, con la mano infilata nella camicia, in sella a Tempesta come s’addice a un generale. Si è infilato un sigaro tra le sue ampie labbra, se lo è acceso e ha sorriso. «Lo Strabiliante Tom Sawyer è venuto lì a cercarmi e da allora l’ho seguito dappertutto. Gli faccio le foto dovunque va, mentre combatte i pellirosse, i rapinatori e l’ingiustizia, mentre cerca l’oro e appicca i crinimali, ma soprattutto quando si riposa in sella al suo cavallo col suo cappello bianco e il vestito di pelle di daino. Lui è il Sivilizzatore del West, me l’ha detto lui stesso. Sta facendo un libro famoso su se stesso»4.

Ma l’operazione di Coover è tutt’altro che forzata: l’ironia feroce nei confronti di un sistema violento e ingiusto era già nelle opere di Twain. Nei confronti di un sogno, quello americano della Frontiera, che si era trasformato da subito in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, alla fine dell’Ottocento stava già rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nella sua Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna del 18985.

E anche l’attenzione che Coover dedica all’autentica strage di cavalli, bisonti e altri animali che portò con sé la “conquista del West” deriva direttamente dalle pagine dell’autore a cui si è ispirato. Ad esempio, nell’Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, che è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani, che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni: «Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?»
«Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato»6.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche in quel caso con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

«Il toro viene sempre ucciso?»
«Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso».
«Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte»7.

Molto ci sarebbe ancora da dire su un libro, quello di Coover, che è tanto divertente quanto drammatico e, soprattutto, tanto ben scritto e tradotto, ma almeno un altro motivo di pregio va ancora qui segnalato: quello di aver integrato sapientemente il classico tall tale (racconto o narrazione che “le spara grosse”) della tradizione della letteratura della Frontiera con il recupero dell’oralità, da cui direttamente derivava la prima, della tradizione narrativa degli Indiani d’America. Soprattutto con le avventure del trickster Coyote8, celebrate qui magistralmente nella loro libertà espressiva, erotica e libertaria9.

In un bellissimo testo di Jaime De Angulo10 si afferma che «Le storie di Coyote formano un ciclo regolare, una saga […] Coyote ha una doppia personalità. E’ al tempo stesso il Creatore e il Buffone. L’uomo saggio e il buffone: ecco i due aspetti di Coyote, del Vecchio Uomo Coyote» (p. 89). Frutto di un immaginario altro, in cui la differenziazione tra il bene e il male non sembra avere una grande importanza, le storie di Coyote sembrano fornire l’unica spiegazione possibile per un mondo in cui la ferocia può essere combattuta e vinta soltanto dalla forza vitale e liberatrice della risata.


  1. Riccardo Duranti, Huck Finn pessimista e anarchico in Robert Coover, Huck Finn nel West, Enne Enne editore, Milano 2021, pp. 9-10  

  2. cit. in Norman Mailer, Huck Finn, vivo dopo 100 anni in M.Twain. Le avventure di Huckleberry Finn, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004, p.VI  

  3. R. Coover, op. cit., pp. 214-215  

  4. R. Coover, op. cit., pp. 249-250  

  5. Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli, Roma 2014  

  6. Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, p.88  

  7. M. Twain, op.cit., p.86  

  8. Sulla figura del trickster (briccone) nella tradizione dei popoli nativi dell’America settentrionale si veda: Carl Gustav Jung, Karl Kerény, Paul Radin, Il briccone divino, SE, Milano 2006  

  9. Ma raccolte anche, dalla voce dei nativi, nel magistrale Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi, Milano 1973, da troppi anni assente dal mercato editoriale italiano  

  10. Indiani in tuta, Adelphi 1978  

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Tre poesie di Abdallah Zriqa https://www.carmillaonline.com/2020/12/06/tre-poesie-di-abdallah-zriqa/ Sat, 05 Dec 2020 23:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63619 di Abdallah Zriqa* [traduzione di Sana Darghmouni]

Gocce di candele nere

 

1

Così ho spento la candela

per accendere le tenebre

 

E ho visto il sole

Isolato dalla luce

 

ho visto porte

ma non ho visto

dimore

 

E le farfalle ho visto

uscire dai vermi dei morti

 

temevo che il mio volto

fosse un altro

incollato al mio

 

ed è cresciuto il mio timore quando ho visto

I miei piedi calpestare scorpioni

 

raggiunta l’acqua

Ho cercato la bocca della Terra

 

Ma non ho trovato altro che [...]]]> di Abdallah Zriqa* [traduzione di Sana Darghmouni]

Gocce di candele nere

 

1

Così ho spento la candela

per accendere le tenebre

 

E ho visto il sole

Isolato dalla luce

 

ho visto porte

ma non ho visto

dimore

 

E le farfalle ho visto

uscire dai vermi dei morti

 

temevo che il mio volto

fosse un altro

incollato al mio

 

ed è cresciuto il mio timore quando ho visto

I miei piedi calpestare scorpioni

 

raggiunta l’acqua

Ho cercato la bocca della Terra

 

Ma non ho trovato altro che terra

Simile a un dorso di tartaruga

 

E ho urlato:

L’inferno è tutto ciò che resta

del paradiso

 

Il paradiso perisce

ma il fuoco rimane

 

E quando mi sono assentato

È rimasta presente

Solo la mia mano

 

al ritorno

le mie dita erano diventate

Lingue di fuoco

 

Ho detto:

Oh, se solo sapessi

Che la notte mi è più clemente

del giorno

 

io me ne vado

ma la coppa non si esaurisce

 

E ho cantato:

piede mio o piede

O piede del piacere

 

quando è arrivata la donna

Ho spento la candela

 

E ho urlato:

Dimentica il tuo idioma

Lascia che solo la tua lingua

mastichi

Un altro idioma

 

ho pensato al sole

Che non mi ha mai visto nudo

 

E nel bosco

Ho visto il vento

ma non ho visto il flauto

 

Così ho scritto nell’aria:

Non cantare con il vento

 

(di notte

Ho visto uccelli

Beccare solo capezzoli)

 

E ho urlato ad una formica

Non tornare a casa

C’è un carceriere

Che gioca con le sue chiavi

In tua attesa

 

E nell’acqua

Ho visto un serpente uscire dalla mia bocca

 

nel sonno

Ho visto un silenzio

nero

nero

 

2

 

Dammi una coppa

Per sorseggiare questo vuoto

 

E un braccio

Per misurare questa separazione

 

Preparami un letto

Di vetro

e lasciaci scivolare i miei incubi

 

Non voglio leggere lettere

Che non stiano davanti ai miei occhi

Come chiodi

 

Darò la mano a questo cane

Che arriva per tagliarne qualche dito

 

Lascerò molto bianco nei miei scritti

Affinché questa prostituta ci cammini sopra a suo gradimento

 

(Questa non è una penna

Piuttosto, è un’ascia per distruggere questo poeta

Che mi domina)

 

Le formiche cammineranno al mio funerale

lascerò la mia tomba a chi non ha trovato un posto per dormire

Lascerò molto bianco nella mia scrittura per illuminare

l’oscurità a venire con la notte delle parole

 

Lascerò il candore per il giorno del vostro matrimonio.

Vuoti storti

1

Hey, cosa sono questi gioielli che brillano di lacrime in questo negozio?

E cos’è questo cane fedele che custodisce questo vuoto?

come ho messo la mano su un muro di denti

come di notte tutti i negozi sono scomparsi nelle tasche

E in autunno, le mie unghie cadute

2

E cos’è questo uccello che becca palline di sangue secco in una camicia

Bianca appesa ad un muro di calce sbucciato

E chi è quest’uomo che getta la sua dentiera

ingiallita su questa riunione che ha riempito questo giornale

non lasciando alcun luogo alle parole per vagare

3

E cos’è questo cielo pieno di lendini?

Farò un bagno prima di dire questa parola

Andrò al cimitero per leggere la mia data di nascita su una lapide

Ma non camminerò

mentre il mio piede è gomma

Ah, oh io vivo in un occhio

E dormo in un orecchio

4

poi come sono arrivato a quel buco e ho trovato

I miei occhi scrutandoli fino a diventare cieco

Come ho lasciato scorrere questa immagine

Come ho aperto la porta del mio volto

Prima di aprire la porta di questa casa

E come ho aspettato questa poesia

andare in bagno

E ritornare

Ma quando non troverò un foglio

Scriverò nel bianco di un occhio

5

Non lasciate l’uomo con le dita mozzate contare i giorni rimasti

E leggete queste parole prima che si trasformino in scarafaggi

Allontana da te questa sedia zoppa per evitare che ti prenda una gamba

Oh, non ho trovato nessun essere vivente nel cimitero della mia testa

Non lavatemi

Andrò dal gabinetto alla tomba

Non leggete nulla per me

I vermi hanno mangiato le mie orecchie

Non copritemi

La mia testa

Fa da lapide

al mio corpo

6

Quando mi sono seduto

Ho preso un ago

E ho rammendato

Questo candore

Ma mi sono spaventato quando ho visto un mendicante chiedermi l’ultima parola che ho scritto

L’indomani

Sono andato da un mediatore immobiliare alla ricerca di uno spazio vuoto

Wahah

Per ascendere questa parola

Ho bisogno di una scala

Poi non so

Come ho fatto a spegnere una parola fiammeggiante

In un portacenere

All’esterno

Mi sono voltato per trovare il mio nome inseguirmi

Come cane

Quindi ho piegato la testa

E ho svuotato quel che era negli occhi

e la sera

Ho pianto da una vecchia che tesseva i suoi ricordi

In un tappeto

Poi sono scappato

Scappato

Questa non è una mano

Ma un forcone

Per cospargere

La polvere

Del mio corpo

7

Niente

Niente

Il cielo è desolato

Tranne che di alcuni corvi

La peluria della terra

Assomiglia alla peluria delle orecchie

L’atmosfera è priva persino del vuoto

E le teste delle persone sono come chiavi storte

La paura è bianca sulle cime delle montagne

E le fronti come le tavolette dei morti

i libri come lapidi

i ponti come le schiene degli anziani

gli alberi come le gambe dei malati

la noia svolazza come polvere

e le ombre sono scavate nel terreno

E solo i cani che abbaiano lì

Hanno voluto

scacciare questo

nulla.

(Un’altra poesia):

E così via

Blu puro

Come candore di zucchero

Bianco scintillante

Come trapunta di una nuvola

Rosso come una camicia penzolante

Dall’orlo di un crimine

Nero come sangue liquido

Da una bottiglia di cenere

E verde come un’analogia

Che non si addice a un giardino

____________

Nato a Casablanca nel 1953, Abdallah Zrika è considerato uno dei più importanti poeti contemporanei nello scenario letterario marocchino. Scrive in stile libero portando il linguaggio verso nuovi orizzonti di sperimentazione audace e infinita e basando la sua esperienza poetica sulla spontaneità che offre la lingua parlata; infatti la parola con Zrika non conosce confini, ma è espressione libera. A causa della censura, Zrika ha pagato il prezzo della libertà di espressione con due anni di carcere alla fine degli anni ‘70. Per un’intera generazione, Zrika ha incarnato l’ideale dell’uomo che difende la libertà, la vita e la parola. Molte sue opere sono state tradotte in francese come Ivresse de l’effacement, (Editions Méridianes, Montpellier, 2020), Tortue de l’effacement, (Editions Apic, Algiers, 2018) e alcune in inglese.

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Un fantasma dal passato in una guerra presente https://www.carmillaonline.com/2017/06/03/un-fantasma-dal-passato-in-una-guerra-presente/ Fri, 02 Jun 2017 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38628 di Paolo Lago

boileau_narcejac_coverBoileau-Narcejac, La donna che visse due volte, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2016, pp. 196, € 18,00

Il romanzo noir D’entre les morts (1954) di Pierre Boileau e Thomas Narcejac (definiti come «i Fruttero e Lucentini francesi»), dal quale Alfred Hitchcock nel 1958 trasse il suo film Vertigo, è stato recentemente riproposto da Adelphi in una nuova, bella traduzione realizzata da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Il titolo, come nelle precedenti edizioni, è stato tradotto con La donna che visse due volte, lo stesso della versione italiana del film [...]]]> di Paolo Lago

boileau_narcejac_coverBoileau-Narcejac, La donna che visse due volte, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2016, pp. 196, € 18,00

Il romanzo noir D’entre les morts (1954) di Pierre Boileau e Thomas Narcejac (definiti come «i Fruttero e Lucentini francesi»), dal quale Alfred Hitchcock nel 1958 trasse il suo film Vertigo, è stato recentemente riproposto da Adelphi in una nuova, bella traduzione realizzata da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. Il titolo, come nelle precedenti edizioni, è stato tradotto con La donna che visse due volte, lo stesso della versione italiana del film di Hitchcock. Se in un importante indizio paratestuale come il titolo è quindi evidente il rimando al noto film, bisogna comunque fare una precisazione: chi ha visto la pellicola hitchcockiana, per predisporsi alla lettura, deve sbarazzarsi del suo bagaglio visivo cinematografico. Infatti, i protagonisti, Flavières e Madeleine/Renée non sono davvero James Stewart e Kim Novak: il primo è descritto come invecchiato e ingobbito, un uomo insicuro di sé e dedito all’alcol, mentre la seconda è sì una bella donna ma non possiede certo il fascino prorompente dell’attrice americana. Inoltre, se la storia trasposta sullo schermo dal regista inglese si ambienta in una solare San Francisco della fine degli anni Cinquanta e nei suoi dintorni, quella letteraria, invece, in una cupa Parigi durante la seconda guerra mondiale e, successivamente, in una altrettanto cupa Marsiglia. La vicenda, nel romanzo e nel film, è più o meno la stessa: il protagonista è un ex poliziotto che viene ingaggiato da un suo vecchio compagno di università per indagare sullo strano comportamento della moglie, ossessionata dalla figura di un’antenata morta suicida. L’ingenuo personaggio si scoprirà quindi vittima di un raggiro, utilizzato dal finto amico per uccidere la vera moglie. A questo punto, è comunque meglio non rivelare nulla di più sulla trama anche se chi ha visto il film potrebbe obiettare di conoscerla di già. Ma qui si sbaglierebbe, in quanto la seconda parte del libro, ambientata a Marsiglia, non è stata trasposta sullo schermo in modo così fedele come la prima parte.

Tutto questo per sottolineare che il romanzo degli scrittori francesi è un’opera assolutamente godibile anche senza avere in testa il film di Hitchcock: perciò, anche se siamo degli incalliti cinefili, adesso dovremo lasciarlo un po’ da parte. Il personaggio di Flavières appare molto curato dal punto di vista psicologico: progressivamente, egli si innamora di Madeleine ma si tratta di un sentimento costantemente turbato dall’ombra del mistero e di un passato che incombe come un inquietante spettro. Il protagonista sembra precipitare lentamente in un gorgo psicologico dal quale non riuscirà più a riemergere. Insieme al sentimento del personaggio – prima lieto poi progressivamente più cupo fino al ‘suicidio’ della donna – muta anche il paesaggio: nei momenti iniziali del libro Parigi è ancora descritta come una città allegra e vitale mentre progressivamente, con l’avanzare della guerra, si incupisce fino a trasformarsi in un triste regno della solitudine. Carri armati e mezzi militari solcano le sue strade ormai deserte mentre i locali e i bistrot sono quasi esclusivamente frequentati da soldati e ufficiali. Flavières si ritroverà allora solo e incupito, dedito all’alcol e quasi preda della follia, in una città essa stessa solitaria e cupa, rapita dalla follia collettiva della guerra. Su consiglio di uno psichiatra, dovrà recarsi nel sud, al mare, abbandonando così le brume parigine. Ma durante il viaggio, a Marsiglia, incontrerà di nuovo la ‘morta’ Madeleine, sotto le (vere) spoglie di Renée. Il lettore viene sapientemente condotto per mano dagli autori fino, quasi, a identificarsi con la mente stravolta del protagonista e a guardarsi intorno attraverso il suo punto di vista. Quando rivede la donna e intreccia con lei una relazione, Flavières penserà davvero, in alcuni momenti, di avere a che fare con un fantasma, per cui la narrazione assume diverse tonalità horror fino a sfiorare la categoria del soprannaturale. È soltanto frutto della fantasia alterata del personaggio ma anche noi lettori, a un certo momento, arriviamo a dubitare insieme a lui della identità e della reale esistenza di Renée. Lo scenario è adesso quello di una affollata ma non meno spettrale Marsiglia. Emblematico, in questo senso, è il momento in cui Flavières segue la ragazza fino al porto e, nell’oscurità della sera che sta scendendo, entrambi si ritrovano immersi in un’atmosfera spettrale, fra cupe ombre che potrebbero essere quelle di malfattori e tagliagole in agguato, ma forse anche quelle degli sconosciuti fantasmi che vivono nella mente del protagonista obnubilata dall’alcol. All’ambientazione ‘esterna’ della città si alternano gli ‘interni’ prima della stanza d’albergo, poi della camera ammobiliata che i due affittano in una squallida pensione: entrambi spazi soffocanti e asfittici dove il delirio personale del protagonista si mescola a quello di una crisi di coppia in cui i personaggi, in una sorta di danse macabre, appaiono l’uno prigioniero dell’altra e viceversa.

boileau_narcejac_Tutti elementi che si perdono nel film di Hitchcock anche se, come afferma François Truffaut in una conversazione-intervista col regista inglese, molto probabilmente i due autori francesi hanno scritto il loro romanzo con l’intenzione di offrirgli uno spunto da portare sul grande schermo: «F.T. La donna che visse due volte (Vertigo) è tratto da un romanzo di Boileau-Narcejac che si intitola D’entre les morts, e che è stato scritto apposta per lei, perché ne facesse un film. A.H. Ma era già un libro prima che ne acquistassero i diritti per me. F.T. Sì, ma questo libro è stato scritto apposta per lei. A. H. Lei crede? E se non l’avessi comprato? F.T. Sarebbe stato acquistato in Francia a causa del successo dei Diaboliques. Boileau e Narcejac hanno scritto quattro o cinque romanzi costruiti sullo stesso principio e, quando hanno saputo che lei voleva comprare i diritti dei Diaboliques, si sono messi al lavoro e hanno scritto D’entre les morts che la Paramount ha subito acquistato per lei» (F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Net, Milano, 2002, p. 201).

Adesso, grazie a questa nuova traduzione, possiamo riassaporare con più gusto le innumerevoli finezze psicologiche messe in atto dai due scrittori, maestri indiscussi del noir, fino alla fine della storia, una fine che – molto più che nel film – ci prende alle spalle come uno spietato assassino, come un fantasma che riemerge dal passato fra le inquietanti brume di una guerra fin troppo presente.

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Cronaca di un titano incompreso https://www.carmillaonline.com/2013/07/05/cronaca-di-un-titano-incompreso/ Thu, 04 Jul 2013 22:01:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7267 di Cauê Madeira

o gigante 2

“O gigante acordou!” ovvero, il gigante si è svegliato: è il motto che in queste settimane percorre il Brasile da un capo all’altro. Ma, secondo Cauê Madeira, l’autore, di San Paolo, del racconto che vi presentiamo, il colosso si è svegliato con un po’ di amnesia. Nella sua descrizione, il suo paese è sì un gigante, ma un gigante un po’ maldestro e stupidotto. Ha un grande cuore, ma è ingenuo, e perciò facilmente plagiabile. Infatti, ad approfittare [...]]]> di Cauê Madeira

o gigante 2

“O gigante acordou!” ovvero, il gigante si è svegliato: è il motto che in queste settimane percorre il Brasile da un capo all’altro. Ma, secondo Cauê Madeira, l’autore, di San Paolo, del racconto che vi presentiamo, il colosso si è svegliato con un po’ di amnesia. Nella sua descrizione, il suo paese è sì un gigante, ma un gigante un po’ maldestro e stupidotto. Ha un grande cuore, ma è ingenuo, e perciò facilmente plagiabile. Infatti, ad approfittare di lui è il Media, un Cattivo che ai suoi occhi si finge Buono, e lo affabula per dirottare la sua grande forza. La narrazione è costruita su uno stile fantastico, ma ha un sapore squisitamente reale: un’opera-buffa che mette in guardia dai pericoli di una deriva populista irruenta e impulsiva, che sbatte qua e là senza una piena coscienza. Il rischio è concreto: il Potere vuole convogliare la grande voglia di diritti e di cambiamento, deviandola verso obiettivi politici funzionali al mantenimento del sistema. Chissà, forse questo racconto può aiutare anche noi italiani a riflettere sul nostro recentissimo passato. Per un aggiornamento e un’analisi della situazione in Brasile: QUI. [Traduzione all’italiano e intro di Giorgio Sammito].

Militanti di lungo corso, comunisti mangiatori di bambini, politici corrotti e farabutti di ogni genere: sto tremando! Il gigante si è svegliato.

Si è svegliato, d’accordo, non si può metterlo in dubbio. Ma penso che si sia svegliato con l’amnesia. O il gigante si è dimenticato della storia recente del paese, o forse non l’ha vissuta. Stava dormendo, in effetti.

Il gigante vuole pur lottare contro ciò che è sbagliato, ma non capisce molto bene cosa sta succedendo. Penso che si sia svegliato un po’ così, all’improvviso, spaventato. Ha sentito delle urla, un certo baccano, e all’inizio l’ha trovato brutto – a chi piace il baccano? Ma dopo aver visto delle persone che le prendevano dalla polizia senza alcun motivo apparente, ha cambiato idea e si è deciso a partecipare.

E fu così che scoprì che la gente lottava per i propri diritti. Ma, nel calore del momento, lui non poteva fermarsi per capire che cosa, di fatto, stesse succedendo. Semplicemente è entrato nel ballo.

Correndo lì in mezzo alle persone, il gigante sentì dire che tutta quella baraonda era per abbassare il prezzo della tariffa del trasporto pubblico, che era salita di venti centesimi. Tutto ciò era un po’ strano per il gigante, d’altronde egli non ha mai preso l’autobus, e alcuni centesimini erano per lui una miseria.

Fu così che egli sentì qualcuno gridare: “È molto di più che venti centesimi!”, e tutto ebbe senso. I giganti, dovete sapere, hanno difficoltà a interpretare le cose, per questo egli ha capito che quella era l’ora di lottare per TUTTO in una volta sola: salute, educazione, salari giusti, ecc.

In mezzo a quel carnevale ideologico, il gigante si sentì a casa. Scrisse manifesti, si dipinse il viso e si vestì di bianco. Finché finalmente trovò una causa ancora più nobile da difendere: verrà l’ora di lottare contro il vero Male.

I giganti non comprendono le sfumature di pensiero. Essi sono manichei per natura, perciò c’era bisogno di un cattivo molto malvagio da combattere. Immagina come è stato felice quando gli hanno sussurrato all’orecchio: il governo attuale è il cattivo, si è preso il denaro del popolo. E, visto che stava dormendo da molto tempo, ha pensato che è stato il partito al governo a inventare la corruzione e che, prima di loro, niente di tutto ciò era mai avvenuto in Brasile.

E chi può incolpare il gigante? Cavolo, lui non sa come vanno le cose. In fondo lui è ben intenzionato, se ci pensate bene: vuole che la corruzione abbia fine, chi può essere contro?

Allora il gigante avvistò un sacco di bandiere rosse, ognuna con una sigla completamente diversa dall’altra, ma poiché lui non sapeva leggere bene, pensò che tutte erano a favore del governo, pensò che tutte rappresentavano il Male. E si infastidì, chiese di abbassare le bandiere.

– Amici compatrioti, Rosso è Male. Come potete voi difendere qualcosa di simile? Non si può! – gridava il gigante.

La massa non volle ascoltare quel bamboccione. Addirittura cercarono di spiegare al gigante il concetto di democrazia, ma il blablabla finì per irritare ancor di più il colosso, che iniziò a dare addosso ai manifestanti senza troppe cerimonie. I giganti sono così: molto forti, piuttosto maldestri, e hanno la pazienza molto corta.

Ma chi potrebbe incolpare il gigante? Egli dormiva durante le ore di Storia, per questo non sapeva che quelle persone erano sveglie molto prima di lui. Avevano già lottato molto, conquistato diritti, rovesciato governanti. Ma per lui, tutto ciò non voleva dir nulla.

Quel che pochi sanno, tuttavia, è che i giganti sono molto vanitosi. E tutta quella confusione che lui aveva già causato finì per richiamare l’attenzione del Media. Solo che, invece di contestarlo, il Media decise di adulare il gigante. Disse che quello che stava facendo era giusto, e il gigante si sentì tutto pieno di sé.

Ai giganti piace essere trattati così, con tanto affetto. Prova a dire “no” a un gigante. Non funziona. I giganti sono stati allevati a latte con pera e con l’Ovomaltina nel frigo[1]. Quando vanno al supermercato con i genitori, escono sempre con un giocattolo nuovo. Quando vanno in discoteca, credono che tutte le ragazze siano obbligate a dar loro attenzione. E se per caso vengono contraddetti, i giganti fanno i capricci. Litigano molto, battono i piedi, si buttano per terra, colpiscono, rompono tutto. Se la baruffa non funziona, chiamano i genitori. Lì la cosa diventa seria, d’altronde i genitori dei giganti sono giganti anch’essi, ma hanno molto più potere. Normalmente più soldi, più influenza, più faccia di bronzo.

Tutti pensavano che il gigante a un certo punto si calmasse, ma lì per lì la manifestazione per le tariffe funzionò: il prezzo da pagare per il trasporto pubblico venne ridotto. Fu la festa più grande. Solo che il gigante voleva di più, non poteva semplicemente fermarsi lì. Finalmente era sveglio, non voleva tornare a dormire.

Per favore, non giudicate il gigante incompreso. Gli è mancata l’educazione, ci volevano più attenzioni e meno smancerie. Provate a capire il punto di vista del gigante: un bel giorno si sveglia e vede che il popolo ha potere. E così, senza capire, si immischia nella lotta e riesce a raggiungere uno degli obiettivi principali. Ora, non c’è niente che piaccia di più a un gigante che quando cedono alle sue richieste. Per questo finì per perdere il controllo.

Iniziò a sollevare cartelli di tutti i tipi. Parlarono di una certa PEC, e dissero che era cattiva. E lui passò a essere contro. Dissero che la Coppa del Mondo era un male, e lui urlò contro. Dissero che i medici di Cuba volevano rubare il lavoro ai medici brasiliani, e il gigante urlò contro. Dissero che la cosa migliore fosse cacciar via i rossi dal potere, e allora si mise a gridare per l’impeachment della presidenta – nonostante non avesse alcuna proposta sul cosa fare dopo che lei si fosse dimessa. Ma lui gridò lo stesso.

E fu così che finirono per fare del gigante lo stupidotto di turno. D’altronde i giganti sono, come ho detto prima, molto forti e manichei, si preoccupano sempre di fare il Bene e lottare contro il Male. Ma sono ingenui, poverini. Basta una carezza qui, due paroline lì, e subito si aprono. E il media – amichetto del gigante – aveva un piano. Sapendo che il gigante era tutto pieno di “cause”, presentò al bamboccione un amico di lunga data, il Nuovo Candidato. Era un tale qualunque, senza alcuna bandiera di partito. Vestiva di bianco e diceva che il Brasile non doveva andare né a sinistra, né a destra: doveva andare avanti[2]. Per il gigante fu il delirio.

Dicevano che questo tale era del Bene. Con la “B” maiuscola proprio. Di quelli che credono nella famiglia tradizionale, nell’avanzamento del paese. È totalmente contro la corruzione, contro i rossi, contro tutti quelli che vogliono destabilizzare il modo dabbene di vivere che il gigante portava con sé. Con un amico grande, forte e mezzo stupido come lui, fu molto facile per il Nuovo Candidato arrivare al potere.

Egli disse al gigante che avere partiti fosse disdicevole, e il gigante gli credette. Il giorno dopo non c’erano più partiti politici in Brasile.

Egli disse al gigante che chi fa casino deve proprio prendersi le pallottole, e il gigante fu d’accordo. Il giorno dopo ogni tipo di manifestazione era proibita.

Egli disse al gigante che tutta questa burocrazia era un male per il paese, e il gigante capì. Il giorno dopo il Congresso Nazionale, le assemblee legislative e le camere dei consiglieri si svegliarono chiuse.

Il Nuovo Candidato fece pulizia. Fece fuori tutti quelli che la pensavano diversamente, gettò i poveri in un canale qualunque e chiamò il gigante per un cocktail. Per festeggiare il Nuovo Brasile.

Il gigante si sentiva soddisfatto. Nella notte di cocktail egli mangiò e bevve molto. Sentiva che aveva fatto qualcosa di molto importante per il paese, e ne era orgoglioso. Allo stesso tempo si sentiva stanco, con dolori in tutto il corpo. Si rese conto che da molto tempo non si fermava, da molto tempo non si riposava.

Adesso il paese era in buone mani, finalmente.

E allora il gigante tornò a dormire.


[1]    Nel linguaggio corrente, con l’espressione “Criado a leite com pera e com Ovomaltine na geladeira” (che da’ il titolo originale al racconto) ci si riferisce agli adolescenti benestanti e un po’ viziati. In italiano si potrebbe tradurre con “cresciuto nella bambagia”.

[2]    Nel testo originale: “o Brasil não tinha que ir pra esquerda nem pra direita: tinha que ir pra frente”. Bisogna sottolineare che l’espressione “Pra frente, Brasil!” era il motto con cui gli esponenti della giunta militare chiudevano i discorsi ufficiali durante l’epoca della dittatura.

[Traduzione dal portoghese e note di Giorgio Sammito]

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Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (sbarca in Messico) https://www.carmillaonline.com/2013/05/26/scontro-di-civilta-per-un-ascensore-a-piazza-vittorio-sbarca-in-messico/ Sat, 25 May 2013 22:00:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5968 di Fabrizio Lorusso

choque amara

Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (Choque de civilizaciones por un ascensor en Piazza Vittorio), edizioni e/o, 2006, pp. 192, € 10,20 [Versione in spagnolo: Editorial Elephas, Mexico City, 2012, pp. 160, pesos MXN 199]

L’anno scorso ho curato la traduzione dall’italiano allo spagnolo di questo romanzo dello scrittore algerino Amara Lakhous  per Elephas, piccola editrice indipendente messicana, e questa è la recensione per il quotidiano messicano La Jornada che ho tradotto per Carmilla. Le civiltà [...]]]> di Fabrizio Lorusso

choque amara

Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (Choque de civilizaciones por un ascensor en Piazza Vittorio), edizioni e/o, 2006, pp. 192, € 10,20 [Versione in spagnolo: Editorial Elephas, Mexico City, 2012, pp. 160, pesos MXN 199]

L’anno scorso ho curato la traduzione dall’italiano allo spagnolo di questo romanzo dello scrittore algerino Amara Lakhous  per Elephas, piccola editrice indipendente messicana, e questa è la recensione per il quotidiano messicano La Jornada che ho tradotto per Carmilla. Le civiltà possono scontrarsi in molti modi diversi. E se al posto di farlo in politica o nella storia, lo fanno in un semplice condominio popolare o addirittura nell’angusto spazio di un ascensore, la situazione può complicarsi. Lo scrittore algerino Amara Lakhous, che vive a Roma da molti anni ed è autore di Le cimici e il pirata (1999) e Divorzio all’islamica a Viale Marconi (2010) ci immerge nell’Italia dei migranti con un romanzo poliziesco corale.

C’è stato un omicidio in un palazzo di Piazza Vittorio, a Roma, e i vicini, uno dopo l’altro, narrano la propria versione dei fatti anche se, allo stesso tempo, ricostruiscono il loro passato, le loro storie e le loro vite quotidiane di migranti, tra gli estremi dell’integrazione e del rifiuto che la capitale gli fa provare alternativamente. Parviz Manssor Samadi è iraniano e Benedetta Esposito è di Napoli. Iqbal Amir Allah è bengalese, mentre Maria Cristina González viene dal Perù. Antonio Marini è nato a Milano, nel profondo Nord nebbioso, e Johan Van Marten viene dall’Olanda e sogna di diventare il “nuovo Fellini” girando un film sui personaggi, così veri e crudi, di Piazza Vittorio.

Sandro Dandini, invece, è di Roma e Abdallah Ben Kadour è algerino. Del Signor Amedeo non sappiamo molto, nemmeno la nazionalità, ma la sua fidanzata è italiana e si chiama Stefania. Elisabetta Fabiani vive col suo cagnolino, ululante e viziato, che si chiama Valentino e infine il tamarro Lorenzo, alias il Gladiatore, è il più odiato del condominio. Tutti loro sono inconsapevolmente i protagonisti a Piazza Vittorio, tutti sanno qualcosa, almeno un tassello.

Nei loro racconti c’è la realtà dura del razzismo e del pregiudizio, degli stereotipi e delle incomprensioni in una società cambiante e contraddittoria, complicata e poco avvezza al dinamismo, alla diversità e al concetto del melting pot, il punto di fusione di popoli diversi, l’integrazione. Ma ci sono anche esempi di solidarietà e avvicinamenti inattesi, casi di tolleranza e di successo nella costruzione del crogiuolo multiculturale dell’Italia nel nuovo millennio.

scontrodicivilta

Il Signor Amedeo, personaggio chiave del libro, rispettato straniero che sembra un italiano, di cui nessuno riesce a indovinare la provenienza, conosce tutti i condomini e ogni giorno appunta nel suo diario i pensieri e le sensazioni della vita migrante, la quotidianità della vita migrante in brevi testi che lui chiama “ululati”, e così ricorda anche il vissuto di tutti i vicini.

Stranieri e italiani, uomini e donne sono sempre sul piede di guerra per quell’ascensore che, secondo il professor Antonio Marini, rappresenta “la barriera tra la civiltà e la barbarie”. Secondo la custode Benedetta è un sacro tempio inviolabile che lei protegge da invitati e forestieri, da ospiti indesiderati e da condomini che giudica maleducati. Al contrario per Amedeo l’ascensore è una scatola claustrofobica insopportabile e, per il cuoco Parviz, si tratta di un luogo di meditazione inuguagliabile. Infine il Gladiatore lo vede come uno spazio ideale per orinare e per morire, visto che qualcuno proprio lì mette fine alla sua esistenza. E saranno pochi quelli che piangeranno la scomparsa del giovane. Cominciano le ricerche. A poco a poco l’incastro dei pezzi del puzzle prende forma grazie alle indagini del commissario di polizia Bettarini che prova a ricomporre le storie del condominio di Piazza Vittorio.

Questo Scontro di civiltà è la storia di una comunità variopinta i cui appartenenti, tuttavia, non hanno niente in comune, tranne il fatto di vivere in un quartiere ormai multietnico in uno dei cuori della città eterna e di essere chiamati a testimoniare in qualità di potenziali testimoni di un crimine. Come farti allattare dalla lupa senza farti mordere? Questo era il titolo della prima versione del libro scritta in arabo. Roma, la lupa, forse non morde, ma fa pensare. Lakhous ci invita a vedere con gli occhi degli altri, a percepire l’alterità con ironia e amaramente allo stesso tempo, in altre parole l’autore ci sfida a comprendere, o almeno captare, le integrazioni e le resistenze delle culture migranti in quest’angolo romano della vecchia Europa, sorniona e troppo spesso chiusa in se stessa.

[N.f.d.t. Nota finale del traduttore]

Nella traduzione allo spagnolo di quest’opera, previo accordo tra il sottoscritto, gli editori e i correttori di bozze, s’è deciso di utilizzare a seconda del contesto i due termini spagnoli “migrante” e “inmigrado” per tradurre la parola italiana “immigrato” e modularne alcune sfumature semantiche. Infatti, distinguere in spagnolo tra un “migrante” e un “inmigrado”, un termine che nella variante messicana risulta piuttosto pesante e burocratico ed è associato automaticamente all’odiato ufficio stranieri, l’INM o la “migración” del Ministero dell’interno, aiuta a rendere più flessibile il concetto. Questo vola così in due possibili direzioni semantiche dalle diverse valenze culturali, politiche e sociali. Una, quella legata al “migrante”, che è un participio presente (vedi articolo “Ser migrante” di Matteo Dean), ricorda viaggi, dignità, sofferenze e avventure, ci parla di una persona in movimento, costantemente, col suo bagaglio culturale e, forse, le sue speranze di tornare un giorno a spostarsi, ma non necessariamente per tornare al suo paese d’origine. Diciamo che incorpora una visione più romantica e dinamica della migrazione. Quella dell’immigrato o “inmigrado”, che è un participio passato, è un’idea che rimanda, invece, a una presenza fissa, più stabile in certi casi o addirittura clandestina e precaria in molti altri, ma che, ad ogni modo, riguarda etichette e stereotipi, si divincola tra leggi e autorità, ricorda codicilli e permessi più che viaggi e costruzioni, incomprensioni più che integrazioni. Dunque abbiamo differenziato in spagnolo il loro uso perché un migrante è diverso da un immigrato.

[Per chi (?) si trovasse dalle parti di Città del Messico, il romanzo verrà presentato alla IV edizione della Feria del Libro Independiente mercoledì 29 maggio alle 17]

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