totalitarismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 15 Jun 2025 20:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Studiare le radici delle guerre (per tagliarle) https://www.carmillaonline.com/2022/12/21/studiare-le-radici-delle-guerre-per-tagliarle/ Wed, 21 Dec 2022 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75027 di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera [...]]]> di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera di gran lunga tante analisi precedentemente condotte sullo stesso argomento, anche se «raccolti tutti insieme, i libri dedicati alla Seconda guerra mondiale occuperebbero centinaia di metri sugli scaffali di una biblioteca».

L’autore evita infatti di dipingere il quadro in bianco e nero, semplice e rassicurante, ma allo stesso tempo reticente e falso, con cui quel conflitto è stato troppo spesso ridotto, a fini propagandistici, a una titanica lotta tra il “bene” e il “male” ovvero tra la democrazia e la barbarie e il totalitarismo nazifascista. Modello storiografico cui si è, invece, abituati fin dalle frequentazioni scolastiche, utile a rappresentare l’attuale come il solo e il “migliore” dei mondi possibili, da difender “ad ogni costo” contro qualsiasi minaccia o attacco proveniente dall’esterno (o dall’interno).

Ottica adattissima a fomentare nuove guerre in difesa delle “libertà occidentali”, tacciando di barbarie criminale qualsiasi potenziale avversario. In modo da tracciare a priori linee di differenziazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra chi è amico e chi nemico e costruire un comune immaginario su cui costruire un’identità adatta a supportare le esigenze del capitale occidentale e a giustificarne le conseguenze. In parole povere: la situazione di oggi a livello propagandistico e narrativo dei media mainstream e dei guru politici europei ed americani.

Ernest Mandel, nato in Germania nel 1923, da genitori appartenenti alla Lega di Spartaco di Karl Liebneckt e Rosa Luxemburg, e morto a Bruxelles nel 1995, ha dedicato la sua vita, fin dalla più giovane età, alla militanza politica rivoluzionaria. Svolta fin dal 1938 nelle file della IV Internazionale ispirata da Lev Trotsky, seguendone tutte le vicissitudini ideologiche ed organizzative successive, come mette ben in luce Pietro Acquilino nella sua introduzione al testo.

Mandel, per una parte del pubblico italiano meno giovane, è noto soprattutto per alcuni testi editi durante il ciclo di lotte operaie e studentesche a cavallo tra anni ’60 e ’70, che servirono ai più come primo avvicinamento al marxismo: Trattato di economia marxista (Samonà e Savelli 1967)1, La formazione del pensiero economico di Karl Marx (Laterza 1968) e Neocapitalismo e crisi del dollaro (Laterza 1973), solo per citarne alcuni.

L’opera qui presentata, però, si rivela, almeno in gran parte, come una delle sue più efficaci e interessanti, soprattutto, si scusi la ripetizione, se vista alla luce dell’attualità odierna. Poiché, come si afferma nell’introduzione al testo: «Porre il problema della guerra oggi non è un mero esercizio storiografico». E studiare i motivi reali e lo svolgimento del secondo macello imperialista planetario non significa soltanto, anche se sarebbe già importante di per sé, superare d’un balzo tutte le narrazioni banalizzanti e di comodo che su quel conflitto si sono accumulate sugli scaffali delle biblioteche e nell’immaginario collettivo, ma anche studiare, comprendere e affrontare il conflitto che, dopo decenni di guerre neo-coloniali mascherate da operazioni di polizia internazionale, più si avvicina, per condizioni generali di partenza, pericolosità e possibile estensione su scala planetaria, a quello attualmente in corso sulle frontiere orientali d’Europa. Come si afferma ancora nell’introduzione:

Occorre quindi studiare le guerre del passato, soprattutto prossimo, non perché convinti ingenuamente che gli avvenimenti di allora possano ripetersi negli stessi termini, ma perché le loro cause profonde, che possono condensarsi nelle lotte per i mercati insite nel modo di produzione capitalistico, sono tuttora operanti e potranno portare a nuovi conflitti. Perciò la guerra non sarà solo un problema che le prossime generazioni dovranno affrontare, sarà il problema che coinvolgerà tutti gli aspetti del vivere umano, da quello sociale e a quello ecologico, dissolvendo le ultime vestigia di quel confine tra militare e civile che i grandi conflitti mondiali del ‘900 hanno già fortemente intaccato2.

Soprattutto in un contesto in cui, come hanno rilevato due esperti di strategia del’esercito cinese, in un testo del 1999: «Con il nuovo secolo i soldati devono chiedersi: che cosa siamo? Se Bin Laden e Soros sono soldati, allora chi no lo è? Se Powell, Schwarzkopf, Dayan sono politici, allora chi è un politico? Questo è il quesito fondamentale del globalismo e dellaguerra nell’era della globalizzazione.»3. Affermazione che, tra le altre cose, non fa che confermare l’osservazione già fatta da Michel Foucault, nel 1976, che «il potere è la guerra continuata con altri mezzi. Così facendo si ha il rovesciamento della tesi di Clausewitz e si afferma che la politica è la guerra continuata con altri mezzi»4.
Il motivo di tali trasformazioni della politica e della guerra può essere facilmente individuato in ciò che scrive Mandel fin dall’inizio del suo studio:

Il capitalismo implica la concorrenza. Con la nascita delle grandi corporations e dei cartelli – cioè con l’avvento del capitalismo monopolistico – la concorrenza assunse una nuova portata. In termini quantitativi divenne più economico-politica e, dunque, economico-militare. […] In gioco c’erano colossi industriali e finanziari i cui interessi si misuravano in decine o centinaia di milioni (oggi miliardi, spesso migliaia – NdR). Gli Stati e i loro eserciti, perciò, si impegnarono sempre più direttamente in questa gara, presto diventata competizione imperialistica alla ricerca di nuovi sbocchi per gli investimenti e l’accesso a materie prime a basso prezzo o rare. Il carattere distruttivo di questo antagonismo si accentuò sempre più, in una crescente tendenza alla militarizzazione e al suo riflesso ideologico: la giustificazione e la glorificazione delle guerra. Al contempo la crescita della manifattura, l’aumento della capacità produttiva delle imprese tecnologicamente più avanzate, la produzione complessiva delle principali potenze industriali e, in particolare, l’espansione del capitale finanziario e della capacità di investimento, si riversarono ben oltre le frontiere degli Stati-nazione, persino dei più grandi5.

Questi però vanno considerati ancora come i prodromi ottocenteschi dei grandi macelli imperialistici del ‘900 e del loro prolungamento nel XXI secolo. Se, infatti, non sorprende che il primo tentativo di mettere in discussione lo status quo ottocentesco, favorevole al colonialismo e al controllo dei mercati di stampo inglese e francese, fosse intrapreso, all’alba del Primo conflitto mondiale, dalla Germania «che aveva raggiunto la supremazia industriale in Europa ed era nella condizione di sfidare con la forza delle armi la suddivisione delle colonie favorevole alla Francia e all’Inghilterra»6 oltre che quella del mercato mondiale, non c’è nemmeno da stupirsi che il motore del secondo conflitto mondiale, più che nel Trattato di Versailles e affini, fosse ancor auna volta determinato dalla «necessità dei principali Stati capitalisti di controllare l’economia di interi continenti attraverso gli investimenti di capitale, gli accordi commerciali privilegiati, le regole monetarie e l’egemonia politica. L’obiettivo della guerra fu sottomettere alle priorità dell’accumulazione di capitale di una singola potenza egemonica, non solo i paesi sottosviluppati, ma anche gli altri Stati industrializzati, sia nemici che alleati»7.

Ora cambiati, almeno in parte, gli interpreti del dramma destinato a andare nuovamente in scena, è possibile verificare non solo che tale prospettiva è ancora quella in atto, ma che le stesse motivazioni stanno da anni spingendo al conflitto in ogni area del mondo. Dall’Africa al Medio Oriente, dal Mar della Cina all’Ucraina passando per i processi mai riusciti completamente di centralizzazione del capitale europeo intorno a suo “cuore tedesco” e i vari tentativi di quello statunitense di sabotarne la realizzazione. Mentre nuovi soggetti politici e progetti imperiali scalpitano per sostituire il dominio occidentale e del dollaro sulle risorse, le ricchezze e i mercati globali del pianeta.

Non esiste la benché minima prova che il Giappone, la Germania e gli Stati Uniti, i veri sfidanti dello status quo nella Seconda guerra mondiale, ponessero limiti ai loro obiettivi bellici. […] si stabiliva fin dall’inizio che per l’esercito giapponese l’occupazione della Cina era soltanto il trampolino verso la conquista del dominio mondiale, che sarebbe stato raggiunto dopo aver soffocato la resistenza degli Stati Uniti. L’alleanza giapponese con la Germania in effetti non fu che momentanea e rimase fragile e inefficace durante tutta la guerra, perché era considerata come una tregua provvisoria con un futuro nemico. Per Hitler la comprensione della guerra in arrivo era altrettanto chiara: «La lotta per l’egemonia mondiale in Europa sarà decisa dal possesso dello spazio russo. Qualsiasi idea di politica mondiale sarà ridicola [per la Germania] fintanto che non dominerà il continente (…) Se saremo i padroni dell’Europa, allora occuperemo una posizione dominante nel mondo. Se l’Impero britannico dovesse crollare adesso grazie alle nostre armi, non ne saremmo noi gli eredi, perché la Russia si prenderebbe l’India, il Giappone l’Asia orientale e l’America il Canada8. Anche l’imperialismo americano era cosciente del suo “destino” di leader nel mondo. […] Per gli Stati Uniti la guerra dveva essere la leva con cui aprire allo sfruttamento americano l’intero mercato e le risorse mondiali9. […] Se dunque il significato della Seconda guerra mondiale, come di quelle precedenti, si può comprendere solo nel contesto della contesa mondiale per il domino imperialista, la sua importanza sta nel fatto che si trattò della decisiva verifica dei reciproci rapporti di forza per gli Stati imperialisti in competizione. Il suo esito ha determinato per un lungo periodo la forma specifica dell’accumulazione mondiale del capitale. Nel mondo organizzato dal capitale, fondato sugli Stati-nazione, la guerra è lo strumento per la risoluzione definitiva delle divergenze10.

Si lascia naturalmente qui, ai lettori più attenti e interessati, la comprensione di quali siano oggi i propositi e i protagonisti principali del conflitto apertosi in Ucraina, sottolineando, però, come ancora una volta l’ideologia liberal-democratica costruirà, e stia già costruendo, un proprio modello di paesi e comportamenti “amici” per individuare il fronte dei “cattivi nemici”. Operazione che, ormai ben rodata da anni di sbandieramento democratico e discorsi politically correct, viene portata avanti quotidianamente sui media mainstream occidentali. Mentre sul fronte opposto, ancora una volta profondamente diviso nella sostanza, l’unico discorso unificante pare ancora esser quello “anticoloniale” arbitrariamente sventolato da nazioni altrettanto imperialiste negli intenti ultimi. Motivo per cui, forse, era più sincero Goebbels quando, con il suo solito stile diretto e cinico, descriveva così gi obiettivi dell’imperialismo: «Obiettivamente il senso di giustizia e il sentimentalismo sarebbero soltanto un ostacolo per i tedeschi nella loro missione mondiale. Questa missione non consiste nell’estendere la cultura e l’educazione nel mondo, ma nel sottrarre grano e petrolio»11.

Per ragioni di lunghezza occorre chiudere qui la recensione di un libro la cui lettura, in quasi tutti gli aspetti, esclusi forse quelli relativi al controverso ruolo dell’URSS nel conflitto 1939-1945 e ai movimenti di Resistenza antifascista e antinazista inquadrati dagli interessi delle borghesie nazionali e del capitale imperialista occidentale, può rivelarsi particolarmente utile ancora oggi. Specie per tutti quei militanti che dal loro campo di interessi e di azione hanno precedentemente escluso la storia militare ed economica dell’imperialismo mondiale.

Avvertenza

Poiché il testo non è di facile reperibilità, si indica qui di seguito l’indirizzo e-mail da contattare per richiederlo o ordinarlo: assopuntocritico@gmail.com


  1. Ora disponibile qui  

  2. P. Acquilino, Introduzione a E. Mandel, Il significato della Seconda guerra mondiale, Punto Critico, 2022, p.10  

  3. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  4. M. Foucault, Corso al Collège de Franc del 7 gennaio 1976 ora in M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2009 (prima edizione 1998), p. 22  

  5. E, Mandel, op. cit., p. 21  

  6. Ibidem, p.22  

  7. Ibid, pp. 25-26  

  8. Discorsi nel Quartier generale del Führer 1941-1944, Heine, Monaco 1986, p. 110 – NdA  

  9. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1941 in Life Magazine, Henry Luce ha scritto: «Roosvelt è riuscito dove Wilson aveva fallito (…) Per la prima volta nella storia il nostro mondo di due miliardi di abitanti formerà un’unità indissolubile. Perché questo mondo sia sano e forte il XX secolo deve diventare il più possibile il Secolo americano» – NdA  

  10. E. Mandel, op. cit., pp. 26-29  

  11. Cit. in Mandel, p. 28, n. 15  

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La via populista al totalitarismo https://www.carmillaonline.com/2020/11/23/la-via-populista-al-totalitarismo/ Mon, 23 Nov 2020 22:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63460 di Gioacchino Toni

«Solo oggi il totalitarismo è possibile. Fascismo e Nazismo sono esempi storici di totalitarismo imperfetto a causa di invalicabili limiti tecnici, non surrogabili dalle grandi adunate e dalle fiaccolate notturne. Solo oggi, con l’elettronica applicata e il controllo capillare dei singoli individui, il totalitarismo è praticabile». Così si esprime Franco Ferrarotti nell’intervista pubblicata in coda al volume di Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto (Mimesis, 2020). L’affermazione del sociologo tocca una delle questioni su cui [...]]]> di Gioacchino Toni

«Solo oggi il totalitarismo è possibile. Fascismo e Nazismo sono esempi storici di totalitarismo imperfetto a causa di invalicabili limiti tecnici, non surrogabili dalle grandi adunate e dalle fiaccolate notturne. Solo oggi, con l’elettronica applicata e il controllo capillare dei singoli individui, il totalitarismo è praticabile». Così si esprime Franco Ferrarotti nell’intervista pubblicata in coda al volume di Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto (Mimesis, 2020). L’affermazione del sociologo tocca una delle questioni su cui riflettono anche gli autori del testo che, attraverso il confronto tra Trump e Mussolini evidenziano elementi utili alla lettura delle nuove forme di potere che contraddistinguono una contemporaneità ormai espansa sul web e da questo ridefinita.

Sebbene il paragone tra le due figure proposto dagli autori appaia a volte un po’ azzardato ed altre estendibile anche a personalità politiche meno discusse, tale confronto ha il merito di evidenziare alcune analogie tra i primi decenni del Novecento e quelli del nuovo millennio. In entrambi i peridi storici, sostengono Camaiti Hostert e Cicchino, la crisi e il diffuso senso di disorientamento determinato dai cambiamenti si danno in un contesto di affermazione di nuovi poteri con l’annessa proliferazione di populismi e relativa individuazione di carpi espiatori contro cui indirizzare il malessere diffuso. Insieme all’angoscia suscitata dal crollo di vecchie certezze, come spesso accade, fanno capolino sulla scena “uomini forti” che promettono protezione da quegli stessi cambiamenti di cui in realtà sono essi stessi il prodotto.

Elementi di affinità tra il clima politico che apre il secolo scorso e quello che caratterizza l’inizio del nuovo millennio non mancano nemmeno restando all’interno del solo ambito americano. Se in apertura di Novecento gli Stati Uniti si prodigano in un inasprimento delle leggi sull’emigrazione, agitano un primo spauracchio del comunismo, e presentano fenomeni populisti, analogamente il periodo che precede il successo elettorale di Trump mostra una crescente ostilità nei confronti dell’immigrazione, sopratutto tra le classi lavoratrici bianche, e un ritorno sulla scena del populismo.

Jan-Werner Müller definisce il populismo come «una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico»1.

Il web sembra oggi poter offrire ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale. I leader carismatici contemporanei tendono a prescindere dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali. Scrive a tal proposito Alessandro Dal Lago che «questi leader neo-carismatici tenderanno a rafforzare i rapporti con il loro pubblico e quindi a perseguire politiche neo-nazionalistiche, protezionistiche in economia e ostili agli stranieri. Visto in questa prospettiva il populismo digitale è dilagante [e] capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»2.

Tra i motivi del consenso che Trump ha saputo conquistare tra l’elettorato bianco popolare vi è sicuramente la sua promessa di salvaguardare i posti di lavoro dall’invasione degli immigrati, proponendosi come argine di conservazione di certezze in via di dissoluzione. Il successo di Trump non è stato cancellato nemmeno dalla recente vittoria di Biden, a differenza di quello che avevano previsto tanti  spocchiosi “osservatori”, che guardano agli Stati Uniti dalle finestre degli hotel delle grandi città o dai talk show televisivi, incapaci di comprendere come, in questo ultimo caso, più che il triste spettacolo in sé occorra analizzare gli occhi di chi lo osserva.

La demonizzazione degli immigrati, il disprezzo per le istituzioni democratiche a cui ama ricorrere Trump, uniti al narcisismo, all’agire d’impulso, allo scaricare chiunque lo offuschi o lo contraddica, all’abilità nello sfruttare i mass media, al ricorso ad affermazioni infondate e al presentarsi come un messia in grado di “salvare” il suo paese tanto dai nemici esterni quanto dall’establishment di casa, richiamano fenomeni dittatoriali degli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Ripreso dagli autori del volume, Alan Badiou3, nello spiegare il successo trumpiano nel momento storico presente, ritiene debbano essere presi in considerazione soprattutto: l’assolutismo globalizzato del capitalismo, la crisi della politica delle élite borghesi, il generalizzato stato confusionale e di frustrazione e l’assenza di una strategia alternativa. Da ciò deriverebbe quel diffuso convincimento circa l’immodificabilità di uno status quo caratterizzato da un’estrema concertazione della ricchezza, dall’impossibilità di garantire la sopravvivenza a quanti la cercano migrando: in sostanza la persuasione della mancanza di un’alternativa alla distruzione generalizzata operata del capitalismo globalizzato.

Da ciò deriva che le élite politiche vengono irrimediabilmente compromesse e perdono il controllo. Così proliferano ovunque, nell’ambito delle democrazie occidentali, politici che costituiscono una “esteriorità interna”. Usano linguaggi violenti, demagogici e contraddittori con il fine di creare flussi di emotività che si coagulano in unità artificiali. La gente nei momenti di crisi viene infatti magnetizzata da promesse irrazionali e spesso irrealizzabili che a volte si basano su un passato mitico e impossibile da recuperare. Nasce così quello che Badiou definisce il “fascismo democratico” che contrabbanda per nuove, vecchie idee come il nazionalismo, il razzismo, il colonialismo, il sessismo e le coagula in un pastiche dove vecchio e nuovo coesistono senza criteri razionali. A differenza del fascismo vero però, quello nuovo non ha un antagonista fisico come il comunismo e non ha neanche specifiche organizzazioni che si costruiscono attorno al capo. È comunque un fenomeno interno al sistema dominante che per Badiou si concentra sulla sacralità della proprietà privata4.

Ad indurre gli autori di Trump e moschetto a mettere a confronto il figlio di un ricchissimo immobiliarista americano con il figlio di un fabbro romagnolo, personaggi che hanno conquistato il potere politico a quasi un secolo di distanza e in due contesti inevitabilmente diversi, è il fatto che lo statunitense sembra avere visto nell’italiano il modello a cui ispirarsi.

Estremi lontani vicinissimi. Mussolini. Trump. Due vincoli nella storia. Letti come contemporanei, con lo stesso filo emotivo. Entrambi uomini di inizio. Primi del novecento Roma. Primi anni duemila Washington. Motori ambedue di violenza, diretta del sangue l’uno, e indiretta verbale di incitazione alla prevaricazione l’altro. Scalcinate file di marciatori nel film del ’22 per Benito, stadi assiepati di folla votante per Donald. Volti, sorrisi, occhi, mani, corpi urlanti, adoranti. Sono uomini o solo pedine di una gigantesca partita di scacchi? I primi marciano contro l’intera classe liberale e socialista italiana responsabile della “vittoria mutilata”. I secondi contro l’establishment democratico di uno stato in crisi che mina gli interessi del popolo statunitense. Di qua i sopravvissuti della Grande Guerra. Di là coloro passati per la tragedia dell’11 settembre 2001, un vulnus irreversibile che qualcuno ha detto essere ancora più profondo di quello della Seconda guerra mondiale5.

Gli anni Venti del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio sono accomunati da un’analoga incapacità da parte della politica tradizionale di rapportarsi con i bisogni sociali emergenti derivati dal senso di insicurezza determinato dalla disoccupazione, dalla precarietà lavorativa e dall’instabilità sociale. Secondo gli autori si possono trovare analogie tra la retorica della “vittoria mutilata” utilizzata nell’Italia degli anni Venti e l’abilità con cui il trumpismo ha saputo far breccia nell’immaginario sfruttando la crisi della “rust belt”, delle vecchie industrie con annessa dequalificazione della mano d’opera specializzata.

Clarence Page, editorialista del “Chicago Tribune”, ha messo in relazione la messa in onda della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story del 2016 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla casa bianca, sostenendo che in entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento6.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e la ricerca del consenso può essere ottenuta ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social network una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo. Tutto sommato è così che funziona un reality show, e con esso buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea, e questo può essere un meccanismo replicabile in una campagna votata alla ricerca del consenso.

L’affarista Trump si è mostrato indubbiamente abile nell’imbastire una narrativa capace di accaparrarsi consenso attraverso forme di intrattenimento.

Se i fascisti per innalzare il muro contro il pericolo bolscevico bruciano bandiere rosse e camere del lavoro, Trump ed i suoi trumpieri innalzano la dura retorica anti islamica ed anti ispanica al suono di: “Impediremo ai musulmani di entrare negli Stati Uniti” e “Costruiremo un muro con il Messico”, precisando che quest’ultimo lo dovrà pagare il governo messicano. Simile a Mussolini la diffidenza di Trump nei confronti dei politici di professione, dell’establishment: hanno ridotto il paese in condizioni disgraziate. I liberal, quelli che rispettano la political correctness, hanno interdetto un paese che non riconosce più se stesso, tanto ha paura di dire o fare cose sbagliate, secondo Trump. E non tratta meglio poi il partito repubblicano per cui dovrebbe candidarsi: i suoi membri, inetti! E proclama: “Finalmente, la maggioranza silenziosa è tornata ed avrà la sua voce: me!”7.

si fanno promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa, seppure in entrambi i casi i due leader politici facciano parte di un’élite che niente ha a che vedere con i derelitti e i poveri8

Agli slogan di successo di Barack Obama “Hope” e “Yes we can”, Trump ha risposto con il suo “Make America great again”, ottenendo le simpatie di tanti elettori americani che si sentono trascurati, se non addirittura abbandonati dall’establishment del Partito democratico. Trump ricorre a una violenza verbale insolita per un candidato alle presidenziali, parole che non mancano di incitare alla violenza fisica ed i media, anche quando intendono metterlo alla berlina o accusarlo, nei fatti finiscono per fare da grancassa a tutte le sue dichiarazioni.

Al di là della brutalità trumpiana descritta dal volume, occorrere chiedersi se esista una modalità sostanzialmente diversa di utilizzare i social all’interno di un sistema tecnologico-mediatico sempre più indirizzato a sorvegliare e indirizzare i comportamenti degli esseri umani come ha descritto Shoshana Zuboff9. I metodi “più gentili” di usare i media e i social degli Obama, dei Clinton e dei Biden sono forse nella sostanza meno falsi e demagogici?

A proposito del ricorso ai Big data da parte della politica contemporanea, gli autori riprendendo le analisi di Eitan D. Hersh10 ricordano come oggi si ricorra all’analisi dei dati tanto per indirizzare gli elettori quanto per costruire su di essi una retorica che strizza l’occhio alla pancia popolare. Indubbiamente, a differenza del passato, questa pancia può ora essere indagata in maniera molto più approfondita grazie a quell’ammontare dei dati raccolti dai colossi del web.

L’ambizione a quel “totalitarismo perfetto” a cui fa cenno il sociologo Ferrarotti nell’intervista – citata in apertura di questo scritto – sembra propria di un intero sistema capace, da sempre, di indossare tanto la maschera anti-establishment di personaggi sguaiati e sanguigni quanto quella presentabile di politici più posati e controllati. Quella esplicitamente populista, verrebbe da dire, sembrerebbe essere una delle vie che mirano al totalitarismo (più o meno perfetto).


  1. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  2. A. Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017, p. 22. Qua su “Carmilla”. 

  3. A. Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2019. 

  4. A. Camaiti Hostert, E. Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 14. 

  5. Ivi, pp. 16-17. 

  6. C. Page, What the O.J. Simpson trial and Donald Trump have in common, “Chicago Tribune”, 18 marzo 2016. 

  7. A. Camaiti Hostert, E. Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit., p. 47. 

  8. Ivi, pp. 56-57. 

  9. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Qua su “Carmilla”. 

  10. E. D. Hersh, Hacking the Electorate: How Campaigns Perceive Voters, Cambridge University Press, Cambridge,2015. 

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L’età del totalitarismo neoliberale e della guerra civile globale permanente https://www.carmillaonline.com/2020/06/11/leta-del-totalitarismo-neoliberale-e-della-guerra-civile-globale-permanente/ Thu, 11 Jun 2020 21:23:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58786 di Gioacchino Toni

Fabio Armao, L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan, Meltemi, Milano, 2020, pp. 180 € 16,00

«oggi la violenza si manifesta soprattutto nella forma di una guerra civile globale permanente» «La guerra diventa una condizione endemica: una forma di amministrazione “domestica” delle relazioni sociali» (Fabio Armao)

L’analisi proposta da Fabio Armao (L’età dell’oikocrazia) è incentrata sulla convinzione che al sistema politico novecentesco, ruotante attorno ai grandi partiti di massa, si sia ormai sostituito un sistema clanico in grado di coniugare locale e globale meglio delle vecchie istituzioni statali anche grazie ad una minor presenza di vincoli imposti [...]]]> di Gioacchino Toni

Fabio Armao, L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan, Meltemi, Milano, 2020, pp. 180 € 16,00

«oggi la violenza si manifesta soprattutto nella forma di una guerra civile globale permanente» «La guerra diventa una condizione endemica: una forma di amministrazione “domestica” delle relazioni sociali» (Fabio Armao)

L’analisi proposta da Fabio Armao (L’età dell’oikocrazia) è incentrata sulla convinzione che al sistema politico novecentesco, ruotante attorno ai grandi partiti di massa, si sia ormai sostituito un sistema clanico in grado di coniugare locale e globale meglio delle vecchie istituzioni statali anche grazie ad una minor presenza di vincoli imposti dal rispetto delle regole democratiche. La criminalità organizzata è un esempio clanico evidente ma non mancano casi eclatanti di gestione del potere politico ed economico da parte di cerchie assai ristrette.

«La politica dei partiti di massa, della lotta di classe e della difesa degli interessi collettivi ha lasciato il posto a una congerie molto più ricca e diversificata di attori, capaci di attingere, a seconda delle necessità, alle risorse tipiche delle diverse sfere sociali: politica, economica e civile, producendo di volta in volta delle proprie, originali, configurazioni di potere.» (p. 9)

Secondo l’autore si è di fronte al diffondersi di una nuova forma di governo contraddistinta da due principali elementi: il fondarsi sul clan come struttura di riferimento del sistema sociale e l’evidente anteposizione degli interessi economici (privati) rispetto a quelli politici (pubblici). Tale forma di governo può essere detta “oikocrazia”, dall’unione di kratos (potere) e oikos (casa, famiglia, clan, oltre che radice del termine economia, “amministrazione della casa”).

Il diffondersi di regimi oikocratici, sostiene Armao, conduce ad un nuovo tipo di totalitarismo combinante la distopia orwelliana e quella huxleiana. Se il primo modello pare prevalere nei regimi più esplicitamente autoritari, il secondo contraddistingue quei modelli che si presentano formalmente più democratici. In entrambi i casi, sostiene lo studioso, si è di fronte ad un’analoga matrice clanica.

Nel passaggio dall’assolutismo monarchico al parlamentarismo liberal-democratico, la politica si è trasformata di pari passo con l’affermarsi di un’economia di mercato nelle sue espressioni commerciali, industriali e finanziarie. È con i processi di globalizzazione e con il trionfo dell’ideologia neoliberale che si è rivelata l’entrata in crisi della tradizionale diarchia tra stato e capitalismo.

Secondo lo studioso è con il 1989 che si determina una «frattura epocale, il punto di arrivo di una sequenza di crisi che produce una grande trasformazione degli spazi sociali tradizionali, frattura destinata a generare una trama sempre più complessa di attori provenienti dalle società politiche, economiche e civili (secondo il paradigma adottato della società triadica) che interagiscono tra di loro, dal territorio al web, innescando un’accelerazione senza precedenti (un vortice) nei processi di globalizzazione; tale, oltretutto, da rendere sempre più permeabili i confini dei rispettivi ambiti.» (p. 13)

La rivincita del clan, mai totalmente sparito nel corso del processo di costruzione dello stato moderno, comporta la fine dell’età dei diritti individuali e l’ingresso in un’era in cui l’autonomia e la libertà dell’individuo vengono subordinate al volere ed all’interesse della “famiglia immaginata” di riferimento. «Il clan infatti è capace di alimentare l’attaccamento emotivo dei propri membri, e di rafforzare il proprio potere di controllo sociale su di essi, anche grazie all’ampia disponibilità di risorse: relazioni politiche e sociali di tipo clientelare e, naturalmente, denaro, acquisito in modo legale o meno.» (p. 13)

Tale sistema, oltre a riportare le città al centro dell’universo politico – «trasformandole con sempre maggior frequenza in luoghi di esercizio del potere coercitivo, oltre che di riproduzione continua e inesauribile dell’accumulazione originaria delle risorse.» (pp. 13-14) –, tende a fluidificare il confine tra legale ed illegale finendo per scardinare la certezza del diritto e configurare gruppi di sovranità in competizione tra loro, avvantaggiando chi è in grado di esercitare un livello maggiore di violenza.

Il diffondersi dell’oikocrazia andrebbe dunque a generare una nuova forma di totalitarismo, indicato dall’autore come neoliberale, capace di manifestarsi tanto in una dimensione locale che diffusa. Questo totalitarismo neoliberale sembra sgorgare «dal basso, dal territorio, generato da una logica di mercato, da una domanda ormai fuori controllo di denaro; per poi evolversi attraverso la costruzione di reti transnazionali di clan, capaci di conciliare i peculiari intrecci di interessi presenti a livello locale con le dinamiche imposte dalla globalizzazione. Diversamente dal passato, non ha più bisogno di complessi apparati istituzionali di propaganda e di sofisticate ideologie centrate sulla supremazia di una nazione, una razza o una particolare dottrina politica. D’altra parte, sa avvantaggiarsi del fatto che i moderni social media consentono a chiunque di raggiungere e mobilitare con facilità “porzioni di masse”, che si tratti di un leader populista o di un boss del narcotraffico». (pp. 14-15)

Le tradizionali guerre totali tra nazioni, sostiene Armao, tendono ad essere sostituite dal mantenimento di una condizione di guerra civile globale permanente: civile «perché si svolge in maniera sempre più frequente all’interno dei territori statali, coinvolgendo, dal lato delle vittime, un numero crescente di cittadini ignari, e, dal lato dei combattenti, un variegato e arlecchinesco patchwork di attori non statali della violenza» […]; globale, e non mondiale, «perché se, da un lato, non coinvolge tutte le grandi potenze nello stesso tempo e nello stesso evento, dall’altro qualunque conflitto civile riverbera a livello internazionale: sul piano politico (coinvolgendo governi o organizzazioni internazionali), economico (influendo sui valori delle materie prime o sulle speculazioni di borsa) e persino sociale (si pensi soltanto ai flussi di sfollati generati dai combattimenti)»; permanente, «nel senso che si trasforma in una condizione ordinaria e quotidiana per milioni di uomini, donne e bambini nelle tante periferie del mondo (e non solo).» (p. 137)

Ciascuno di questi attori non statali della violenza rivendica il diritto di gestire in maniera totalitaria il proprio specifico territorio generando un mercato di beni e servizi illeciti. «A livello locale, produce “redditi da lavoro” per le diverse comparse del conflitto […]. A livello globale, crea e alimenta vere e proprie catene commerciali sulla lunga distanza di risorse particolarmente richieste […] In termini generali, la guerra civile globale permanente riproduce a livello molecolare un processo intensivo e quotidiano di accumulazione originaria delle risorse, attraverso il saccheggio del territorio, le estorsioni, lo sfruttamento di manodopera schiava ecc.» (pp. 137-138) Tutto questo, sottolinea lo studioso, avviene in una fase della globalizzazione in cui il capitalismo industriale di stampo novecentesco sembra passare in subordine, nella produzione netta di profitti, rispetto alle sinergie in atto tra capitalismo commerciale e finanziario.

Questo stato di guerra civile globale permanente tende a dissolve il confine fra tempo della pace e tempo della guerra. Questa nuova forma di guerra, che di certo non esclude forme più tradizionali, diventa davvera una condizione endemica attraverso cui vengono amministrate le relazioni sociali “domestiche”.


Le immagini sono tratte da Days of Hate,  Testi di Aleš Kot – Disegni di Danijel Žeželj – Colorati da Jordie Bellaire – Design di Tom Muller – Produzione di Ryan Brewer – Eris Edizioni, Torino, Atto primo (2019) e Atto secondo (2019). Su Carmilla [1] e [2]

 

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Heda Margolius Kovály: autobiografia, memoria e storia del Novecento https://www.carmillaonline.com/2017/07/27/heda-margolius-kovaly-autobiografia-memoria-e-storia-del-novecento/ Wed, 26 Jul 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39591 di Armando Lancellotti

Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele. Una vita a Praga 1941-1968, Adelphi, Milano, 2017, pp. 214, € 20,00

«Incantata dalla bellezza della parola precisa che si fonde in maniera perfetta con un’idea nitida, entrai in un nuovo mondo in compagnia dei miei autori» (p. 186). Così Heda Margolius Kovály descrive la sensazione provata quando, quasi per caso, inizia la professione di traduttrice, nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in un momento particolarmente difficile – uno dei tanti – della sua tormentata e spesso tragica vita. E [...]]]> di Armando Lancellotti

Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele. Una vita a Praga 1941-1968, Adelphi, Milano, 2017, pp. 214, € 20,00

«Incantata dalla bellezza della parola precisa che si fonde in maniera perfetta con un’idea nitida, entrai in un nuovo mondo in compagnia dei miei autori» (p. 186). Così Heda Margolius Kovály descrive la sensazione provata quando, quasi per caso, inizia la professione di traduttrice, nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in un momento particolarmente difficile – uno dei tanti – della sua tormentata e spesso tragica vita. E con una prosa precisa ed uno stile asciutto che denotano rigore ed estrema lucidità di pensiero Heda Bloch – Margolius e Kovály sono i cognomi dei due mariti – narra le vicende autobiografiche vissute tra il 1941 e il 1968, nel cuore dell’Europa – a Praga – e a metà di quel “secolo di ferro” che è stato il Novecento. Si tratta di uno di quei casi in cui gli avvenimenti e gli episodi di una esistenza individuale e privata diventano un tutt’uno con i fatti e gli eventi universali e collettivi della Storia, che travolgono i primi come un tragico ed ineluttabile destino di ingiustizia, di dolore e di morte che è impossibile contrastare.

Heda Bloch nasce in una famiglia di praghesi ebrei nel 1919 ed è poco più che ventenne quando nel 1941 ha inizio la deportazione degli ebrei cecoslovacchi verso i ghetti prima e i centri di sterminio poi nella vicina Polonia. Ne ha invece poco più di trenta nel 1952, quando il marito – Rudolf Margolius, viceministro al Commercio estero del governo comunista della Repubblica cecoslovacca di Klement Gottwald – viene giustiziato poiché coinvolto nel caso Ślanský, quel processo farsa che con metodi pedissequamente stalinisti epurò il partito comunista cecoslovacco e ne eliminò importanti esponenti, quasi tutti ebrei. Infine di anni Heda ne avrà quarantanove quando nel 1968, dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia e il crollo delle speranze riposte nella Primavera praghese, abbandona il paese per recarsi in esilio negli Stati Uniti.

Sono queste le coordinate temporali che delimitano il periodo storico che Heda Margolius Kovály ricostruisce secondo la prospettiva della narrazione autobiografica, ed è a Praga, cioè in una città e in un paese per eccellenza mitteleuropei, che tutta la violenza di cui il XX secolo è stato capace si concentra e si scatena: ad un totalitarismo se ne sostituisce un altro, quasi senza soluzione di continuità e all’invasione, all’occupazione e ai crimini nazisti seguono il colpo di stato, l’occupazione, l’invasione e i crimini stalinisti e sovietici più in generale.

Quello che l’autrice offre al lettore con questo prezioso racconto autobiografico, pubblicato per la prima volta in Canada nel 1973 ed ora tradotto in italiano da Adelphi, è uno spaccato dell’Europa tra il secondo conflitto mondiale e la guerra fredda e al tempo stesso è un’acuta e profonda riflessione sul totalitarismo, sulle sue costanti strutturali e soprattutto sulle sue conseguenze, che si ripercuotono sulle esistenze individuali e collettive, private e sociali e che si manifestano nella soppressione della libertà, nello stravolgimento della verità e nella violazione della dignità e della vita umane.

Per un regime totalitario non è difficile mantenere la gente nell’ignoranza. Non appena rinunci alla libertà – per “implicita necessità”, per disciplina di partito, per conformità al regime, per la grandezza e la gloria della Patria, o per qualunque altro dei surrogati offerto in modo tanto convincente – ti privi del diritto alla verità. La tua vita comincia a scorrere via adagio, goccia dopo goccia, come si ti fossi tagliato le vene; ti sei volontariamente condannato all’impotenza (p. 16).

Nel 1941 le autorità tedesche del Protettorato di Boemia e Moravia ordinano la deportazione in massa degli ebrei praghesi e la famiglia Bloch viene inviata in Polonia, nel ghetto di Łódź, di cui la scrittrice fornisce una descrizione scarna, fatta di immagini dure e ruvide, che al meglio rappresentano la violenza e la disperazione della non-vita in un ghetto, a cui fa seguito una tappa ancora peggiore verso l’annientamento dell’umano progettato dai nazisti, cioè la deportazione ad Auschwitz, dove l’intera famiglia Bloch trova la morte, eccezion fatta per Heda, che, dopo un periodo di lavoro in un altro campo e presso una fabbrica di mattoni, viene destinata al trasferimento a Bergen Belsen, quando ha inizio lo smantellamento dei grandi lager a Est, in seguito all’avvicinamento della linea del fronte e dell’Armata Rossa. È proprio in occasione di questa “marcia della morte” che Heda, insieme ad alcune compagne, tenta l’impensabile e l’impossibile: la fuga e il ritorno a Praga.

A spingere le fuggitive non è solo l’istinto di sopravvivenza, che nonostante tutte le brutalità subite non è stato ancora sopraffatto dalla rassegnazione alla morte, ma è anche e forse soprattutto il desiderio intenso di rivivere, fosse anche solo per un breve momento, la sensazione di essere libere, cioè esseri umani capaci di autodeterminarsi, di scegliere. È una fuga verso la libertà e per la riconquista di quella dignità umana che il ghetto prima e il campo poi avevano loro negato. Ed il ritorno a Praga, dopo pericoli e difficoltà inimmaginabili, in una città cioè ancora nelle mani delle forze di occupazione e della Gestapo che le dà la caccia, mette Heda Margolius Kovály da un lato nella condizione di sentirsi di nuovo un essere umano, «una donna con un passato e un futuro» (p. 31), ma dall’altro la indirizza verso una via crucis fatta di nascondigli improvvisati, della paura di essere catturata o denunciata e dello spaesamento causato dal ritorno alla vita libera e alla sua città dopo anni nei quali era stato come se avesse (non)vissuto in un (non)mondo a parte che difficilmente gli altri avrebbero potuto capire o anche solo immaginare.

Ma ciò che più sconvolge l’autrice e turba il lettore è l’esperienza della codardia e della fredda indifferenza dei conoscenti e anche degli amici di un tempo, che – chi per paura, chi per insensibilità, chi mostrando addirittura disappunto dinanzi alla ricomparsa di chi credeva morto – più o meno garbatamente chiudono la porta in faccia all’ebrea fuggita dal campo, all’appestata da evitare a tutti i costi. Sono proprio queste le pagine più incisive e più riuscite della prima parte del libro, pagine che vedono la protagonista errare per la città, col rischio di essere catturata, alla ricerca di qualche amico del passato che sia disposto ad aiutarla. Negli occhi di quasi tutti, e non solo di quelli che le chiudono la porta in faccia, Heda coglie un insieme di spavento, stupore, incredulità, come se costoro si trovassero di fronte ad un essere alieno, ad una donna tornata dal regno dei morti. Ed in effetti ella, come gli altri ebrei deportati, per quattro anni ha fatto parte di un altro mondo, di un non-mondo fisicamente vicino, ma ontologicamente lontanissimo, in quanto destinato al non-essere, all’annientamento non solo dell’esistenza dell’uomo, ma anche della sua essenza, in altri termini un mondo collocato in un altrove infernale dal quale nessuno avrebbe dovuto fare ritorno.

L’epifania di un volto noto, ma quasi reso irriconoscibile dalle brutalità sofferte nel lager, agisce come un potentissimo richiamo alla coscienza di ognuno, inchiodata a fare i conti con se stessa e con il proprio senso di colpa. Pertanto non solo la paura di essere accusati dalla Gestapo di complicità con una ebrea fuggiasca, ma forse ancor di più l’imbarazzo di fronte alla cruda verità che si presenta con i lineamenti di un volto femminile stravolto dalla deportazione ad Auschwitz, immobilizzano molti degli amici e dei conoscenti del passato, che non vogliono, non possono, non riescono ad aiutare una donna in fuga dalla disumanità e alla disperata ricerca di prove che attestino che nonostante tutto l’umanità sia ancora possibile.

Scrive l’autrice: «mi toccava fare i conti con un nemico peggiore: la paura e l’indifferenza degli uomini. […] cercavo un essere umano nel quale l’umanità si dimostrasse più grande della paura» (p. 34).

E proprio perché spaesata, disorientata e isolata in quella città tanto amata e altrettanto vagheggiata durante la prigionia, Heda prende la decisione, l’unica possibile, di cercare rifugio all’interno della Resistenza, di lottare per la propria sopravvivenza combattendo il nemico. Una scelta fatta e per necessità e per considerazioni quasi più etiche che propriamente politiche. Sono la ricerca dell’umano dopo aver sperimentato la disumanità e la volontà di agire come donna libera e cosciente della propria dignità che inducono Heda alla militanza partigiana, ben più della coscienza politica o dell’adesione convinta agli ideali del socialismo e del marxismo.

Finalmente la primavera del 1945 porta con sé anche la vittoria, la liberazione dal nazismo e il ritorno a Praga di Rudolf Margolius, marito di Heda dal 1939, anche lui deportato prima a Łódź, poi ad Auschwitz e a Dachau, da cui era riuscito a fuggire. La pace sembra riportare nella vita di Heda la possibilità della felicità dopo gli abissi del dolore, ma la realtà sin da subito si dimostra tutt’altro che facile.

Due mesi dopo la liberazione, gli applausi e gli abbracci erano finiti. La gente non regalava più cibo e vestiti, ma li vendeva sul mercato nero. Coloro che si erano compromessi durante l’occupazione cominciarono a calcolare e a tramare, a controllarsi e a spiarsi a vicenda, a coprire le proprie tracce, ansiosi di mettere al sicuro le proprietà acquisite grazie alla collaborazione con i tedeschi, alla viltà e alle denunce, oppure saccheggiando le case degli ebrei deportati. Ben presto il senso di colpa e la paura della punizione generarono odio e sospetti contro le vere vittime dell’occupazione: gli oppositori attivi e passivi, i partigiani, gli ebrei e i prigionieri politici, le persone oneste che avevano resistito alle persecuzioni senza tradire i propri principi. Gli innocenti diventarono un rimprovero vivente e una potenziale minaccia per i colpevoli (p. 62).

Sono mesi ed anni al contempo molto difficili ed entusiasmanti quelli immediatamente successivi al 1945: la Cecoslovacchia ritorna ad essere una repubblica indipendente e sovrana, un intero paese ed un’intera società sono da ricostruire, da reimpostare su nuove e migliori fondamenta. Il piccolo appartamento che viene assegnato ai Margolius si riempie quasi tutte le sere di amici e conoscenti che discutono di politica, di democrazia, di socialismo, di comunismo, della guerra, degli errori del passato, dei limiti del modello liberal-democratico e delle nuove speranze e prospettive proposte dal socialismo, dell’Unione Sovietica come paese amico ed alleato. La scelta comunista di Rudolf Margolius è anteriore e molto più convinta di quella della moglie, che alla fine, nonostante molte perplessità, si iscrive al Partito per amore del marito e fiducia assoluta nella bontà delle sue idee e per considerazioni – ancora una volta – di ordine morale più che politico. Il crollo del mondo del passato e dei suoi valori dimostratisi fallimentari, la volontà di non rassegnarsi alla malvagità e alla meschinità della natura umana e di credere che nonostante tutto sia possibile lavorare per una società libera, giusta, uguale portano anche Heda a seguire il marito all’interno del Partito comunista.

A quel tempo i comunisti continuavano a sottolineare le basi scientifiche della loro ideologia, ma io so che la strada che portò molti cecoslovacchi tra le loro file era lastricata di forti e buone emozioni (p. 68).

Emozioni, appunto, passioni, sentimenti o impressioni, come quelle suscitate dal comportamento dei comunisti all’interno dei lager e che la scrittrice così ricorda:

Il nostro condizionamento rivoluzionario era cominciato nei campi di concentramento. Forse eravamo rimasti particolarmente colpiti dall’esempio dei nostri compagni di prigionia, comunisti che spesso si comportavano come esseri superiori. L’idealismo e la disciplina di partito conferiva loro una forza e una resistenza che nessun altro poteva eguagliare; sembravano soldati ben addestrati in mezzo a una folla di bambini. […] Nei campi di concentramento si era creato un forte senso di solidarietà, l’idea che il destino di ciascun individuo fosse in ogni modo legato al destino del gruppo, sia che si trattasse del gruppo di prigionieri, dell’intera nazione o di tutta l’umanità (p. 70-71).

Ma l’esperienza del lager risulta fondamentale, secondo le acute analisi dell’autrice, anche per comprendere quella predisposizione psicologico-emotiva riguardo al diritto e al concetto di libertà che contribuì a far sì che molti, in quelle particolari circostanze, quasi inconsapevolmente compissero passi sempre più decisi vero una nuova, una seconda, dittatura.

Gli anni di prigionia ebbero un altro effetto paradossale. Per quanto desiderassimo essere liberi, il nostro concetto di libertà era cambiato. Rinchiusi dietro il filo spinato, privati di ogni diritto, compreso quello alla vita avevamo smesso di considerare la libertà come qualcosa di naturale e assiomatico […] Di solito il ragionamento era più o meno questo: se per costruire una nuova società è necessario rinunciare momentaneamente alla libertà, subordinare qualcosa che amo a una causa in cui credo con forza, sono disposto a fare questo sacrificio. […] Questa vocazione al martirio era più forte di quanto generalmente si pensasse (p. 71-72).

E proprio il dogmatismo, la richiesta da parte del Partito di un atteggiamento quasi fideistico e religioso, la riduzione del marxismo a facile formulario di risposte semplici a problemi complessi sono gli aspetti della militanza nel partito comunista, ancor prima del colpo di stato sovietico del 1948, che sconcertano maggiormente Heda Margolius, in quanto, come sperimenterà personalmente, «un sistema politico che non può funzionare senza martiri è un sistema guasto e distruttivo» (p. 73).

Prima di quello che sarebbe poi stato definito il “Febbraio vittorioso”, cioè il golpe sovietico, in Cecoslovacchia molti comunisti credono ancora che potranno liberamente scegliere la propria via nazionale verso il socialismo e si guarda con maggiore interesse alla Jugoslavia di Tito che all’Urss di Stalin, ma il 1948 pone una pesante pietra tombale su queste speranze ed ha inizio una seconda, lunga, dura dittatura totalitaria che trasforma la Repubblica cecoslovacca in un satellite, uno dei più fedeli, del sistema staliniano. L’intero paese, le sue istituzioni, la sua economia, la sua società vengono sovietizzati e tutto il potere è esercitato in modo assoluto dal monolitico e burocratico Partito comunista di Klement Gottwald: era così nata una nuova Cecoslovacchia in cui «contavano solo la coscienza di classe e le origini di classe, l’atteggiamento verso il Nuovo Ordine e, soprattutto, la devozione all’Unione Sovietica» (p. 103).

Rudolf Margolius di quel sistema e di quel governo diviene parte integrante, sale di posizioni nel partito e diventa viceministro al commercio estero, impegnandosi a fondo in un’attività politica in cui ancora crede convintamente, ma al tempo stesso trasformandosi in ingranaggio di un gigantesco e centralistico sistema burocratico statale-partitico che è sempre più chiuso su se stesso e lontano dalla società, dal mondo del lavoro, dal paese reale, sui quali però con le proprie decisioni e pianificazioni politiche incide pesantemente.

Molto più tardi sarei arrivata a chiedermi se non facessero apposta ad assegnargli un carico di lavoro così folle: chiunque occupasse un posto di responsabilità nel governo non aveva un momento libero per controllare l’effetto del suo lavoro sulla vita quotidiana delle persone. I funzionari del governo e del Partito socializzavano solo tra di loro; si vedevano solo tra loro a conferenze, incontri e assemblee; giudicavano lo stato del paese basandosi solo su relazioni e documenti ufficiali, spesso insensati o del tutto falsi (p. 101).

Col passare degli anni e il radicamento del sistema stalinista le cose continuano a peggiorare, iniziano la repressione poliziesca, le persecuzioni nei confronti dei presunti nemici e sabotatori del socialismo e delle spie al soldo dell’Occidente, gli arresti indiscriminati, anche di persone del tutto insospettabili, i processi dagli esiti già scritti e che irrimediabilmente si concludono con una confessione piena dell’imputato, di conseguenza condannato come nemico del popolo.

Alla fine non dicevamo più niente. La nostra unica reazione era un silenzio attonito, terrorizzato. Solo allora alcuni cominciarono a capire che eravamo sì vittime di un complotto, ma non organizzato dall’Occidente. […] Più il Partito si sforzava di dipingere un’immagine dignitosa e benevola dell’Uomo, meno gli uomini in carne e ossa contavano qualcosa nella società. Più la nostra vita appariva prospera e felice sulle pagine dei giornali, più era triste nella realtà. La crisi degli alloggi divenne disperata. […] Davanti ai negozi c’erano code infinite; mancavano quasi tutti i generi di prima necessità. […] Le imprese nazionalizzate andavano a rotoli. […] Nel 1951 persino l’ottimismo di Rudolf era ormai scomparso, sostituito da un’autopunitiva dedizione al lavoro (p. 109 -111).

Ma il momento peggiore per i Margolius è certamente rappresentato dall’anno 1952, quando in Cecoslovacchia va in scena un “processo farsa” staliniano da manuale: il “processo Ślanský” e cioè un caso di epurazione interna al partito e al governo che vede coinvolto, sulla base di accuse infondate e di prove di alto tradimento del tutto inesistenti l’allora segretario generale del Partito – Rudolf Ślanský appunto – e un’altra dozzina di alti dirigenti ed esponenti del governo, non a caso quasi tutti di origini ebraiche, tutti condannati a morte come nazionalisti borghesi, trotzkisti e sionisti; uno di questi è Rudolf Margolius.

Per Heda Margolius inizia un periodo tremendo, innanzi tutto per la perdita insensata del marito e del padre di suo figlio ed in secondo luogo perché sono l’intera città di Praga, tutta la società cecoslovacca, il paese nel suo insieme che le si rivoltano contro. Prima il sospetto, a cui seguono l’isolamento, poi l’espulsione dal lavoro – in un paese in cui la disoccupazione è considerata reato e atteggiamento antisociale – e da ogni altro luogo o ambito sociale, poi vengono l’ostracismo pubblico, il disprezzo e l’odio. Le stesse circostanze già vissute quando dopo la fuga dal lager era stata respinta quasi da tutti si ripetono tragicamente: Heda è un’appestata, in quanto moglie di un traditore del Partito, della patria, del proletariato e delle sue infallibili guide, Gottwald e soprattutto Stalin. Pertanto vive in condizioni disperate, nella più nera miseria, elemosinando lavori mal pagati per sfamare almeno suo figlio, ammalandosi gravemente più volte e più volte rischiando seriamente di morire nella quasi assoluta indifferenza di un’intera società ormai inebetita dal regime da cui è stata plasmata. La società cecoslovacca infatti si regge sul conformismo, sull’omologazione agli slogan propagandati, sulla religiosa fede nel Partito, ma ancor di più sulla paura, sul sospetto e sulla delazione. Tutti aspetti questi che non mutano, se non forse impercettibilmente, nel passaggio da un totalitarismo ad un altro.

Il soccorso di colui che diventerà poi il suo secondo marito – Pavel Kovály, docente di filosofia, già amico di Heda e di Rudolf Margolius – insieme alla straordinaria tenacia e al disperato coraggio le permettono di vivere e di sopravvivere alla morte di Stalin (1953) e di assistere così alla destalinizzazione del 1956. E da quel momento prende il via un nuovo eroico capitolo della vita di Heda, ora Kovály, la battaglia per la riabilitazione di Rudolf Margolius. Ma ancora una volta si tratta di uno scontro impari, che vede prevalere le logiche autoconservative del regime e del Partito che solo parzialmente riabilitano i condannati del processo Ślanský ed ammettono i propri errori, senza però rivedere il processo nel suo insieme e senza rendere pubbliche le proprie colpe, i crimini compiuti e l’innocenza dei condannati.

Il Partito comunista cecoslovacco riuscì a eludere la questione del processo per tutti gli anni Cinquanta e per i primi anni Sessanta. Ciò che pose fine a quell’epoca non fu il malcontento interno, che il Partito poteva permettersi di ignorare, bensì la pressione crescente dall’estero. In Ungheria, Bulgaria e Polonia le vittime dei vari “processi farsa”, come ora venivano chiamati, erano state riabilitate da tempo. Solo nel nostro Paese non c’era nulla che scalfisse la superficie di quello stagno fangoso (p. 187).

Solo nel 1963, ma con molte riserve e cautele, il

Comitato centrale preparò un documento intitolato “Una comunicazione”, a uso esclusivo degli iscritti, che venne letto a porte chiuse alle assemblee di tutte le organizzazioni di partito. […] Solo alcuni funzionari accuratamente selezionati ebbero il permesso di vedere il documento, mentre ai membri del Partito che ne ascoltarono il testo venne severamente proibito di parlarne. Tuttavia, malgrado il divieto, nel giro di un giorno il contenuto del documento mi era stato riferito praticamente per intero, parola per parola (pp. 187-188).

Solo cinque anni più tardi, nel 1968, la Corte suprema cecoslovacca avrebbe decretato pubblicamente la piena riabilitazione di molti condannati ingiustamente e tra questi anche le vittime del caso Ślanský. Ma il ’68 è anche l’anno della Primavera di Praga, che riaccende in Heda Margolius Kovály e in tanti altri suoi connazionali la speranza di poter mutare radicalmente il socialismo cecoslovacco, di renderlo più simile a come idealisticamente molti lo avevano pensato e immaginato subito dopo il 1945, di poter smuovere le acque stagnanti e marce di quella palude politica che nonostante la destalinizzazione permaneva immutata negli anni.

Heda ora è una donna matura di quarantanove anni, ha alle spalle un vissuto privato e politico durissimo e per lo più fatto di dolorosi drammi personali, di sconfitte e di cocenti delusioni, ma con entusiasmo partecipa e dà il proprio contributo a quella così cruciale pagina della storia del proprio paese dell’Europa intera; entusiasmo che traspare palesemente nelle pagine del libro – le ultime – che raccontano di queste vicende.

Non dimenticherò mai la prima grande manifestazione giovanile, nel marzo di quell’anno. Circa ventimila fra studenti e giovani operai si stiparono nel grande salone della Fiera, altre migliaia si ammassarono nelle sale attigue, a altri ancora si radunarono all’esterno, dove poliziotti confusi e arcigni tentarono invano di provocare un incidente come pretesto per interrompere il raduno.
Tutti quei giovani erano nati e cresciuti in una società attanagliata dalla censura, dove l’espressione di qualunque opinione indipendente era trattata come un crimine. Cosa potevano sapere della democrazia? Come potevano sapere anche solo cosa volevano? Eppure, man mano che procedeva la serata, noi che eravamo più vecchi li ascoltavamo sempre più stupiti e ammirati, colpiti non solo dalla precisione e dalla chiarezza delle idee espresse, manche dall’alto livello della discussione e della disciplina di quella massa di giovani. Sapevano benissimo cosa volevano e cosa non volevano, su cosa erano aperti al compromesso e a cosa non volevano rinunciare.
La primavera del 1968 ebbe l’intensità, l’ansia e l’irrealtà di un sogno avverato. […]
Quello era il socialismo che Rudolf aveva perseguito. Vent’anni prima era un’illusione; ora stava diventando realtà (pp. 201-204).

Ma nella notte tra il 20 agosto e il 21 agosto, truppe di Unione Sovietica, DDR, Polonia, Ungheria e Bulgaria varcano il confine cecoslovacco, puntando sulla capitale; i vertici del Comitato centrale e del Partito comunista cecoslovacco che avevano introdotto il “nuovo corso” vengono rapidamente deposti; la resistenza e l’opposizione popolari bruscamente e violentemente represse e la “normalizzazione” sovietica fa, ineluttabile, il suo corso. È l’ennesima, cocente delusione che Heda è costretta a conoscere, ma questa volta la conduce a prendere la decisione di abbandonare la propria città – teatro di molte delle brutture subite nei trent’anni precedenti, ma ugualmente amata – il proprio paese, il proprio passato per iniziare un futuro diverso altrove, in esilio.

Il treno non si fermò a lungo al confine, e quando cominciò a muoversi mi sporsi dal finestrino più che potevo per guardare indietro. L’ultima cosa che vidi fu un soldato russo, che montava la guardia con la baionetta in canna (p. 214).

A Praga Heda Margolius Kovály ritornerà molto più tardi, dopo la caduta del Muro, dopo la fine dell’Unione sovietica, dopo la divisione tra Repubblica ceca e Repubblica slovacca e solo qualche anno prima della sua morte, avvenuta il 5 dicembre 2010.

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Risorse (in)umane: la rigenerazione della forza lavoro tedesca nei lager nazisti https://www.carmillaonline.com/2016/04/20/risorse-inumane-la-rigenerazione-della-forza-lavoro-tedesca-nei-lager-nazisti/ Wed, 20 Apr 2016 21:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29889 di Armando Lancellotti

apertura guardianiFabrice d’Almeida, Il tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le loro attività ricreative (1939-1945), Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00

«Giuro che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente i miei doveri di servizio». (p. 40) Pronunciando queste parole uomini e donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei KL nazisti, i Konzentrationslager. [...]]]> di Armando Lancellotti

apertura guardianiFabrice d’Almeida, Il tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le loro attività ricreative (1939-1945), Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00

«Giuro che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente i miei doveri di servizio». (p. 40)
Pronunciando queste parole uomini e donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei KL nazisti, i Konzentrationslager.
E proprio dei guardiani dei lager ci parla l’interessante ed originale studio di Fabrice d’Almeida, storico dell’università Paris II Panthéon-Assas, uscito nel 2011 con il titolo Ressources inhumaines. Les gardiens de camp de concentration et leurs loisirs e tradotto e pubblicato in italiano da Ombre Corte nel 2015.

Un libro che si colloca all’interno di quell’ambito di analisi e studi storiografici, sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni (si vedano a questo proposito i saggi di Ch. Browning, D. J. Goldhagen usciti a metà degli anni ‘90 e di altri), che affronta il tema dei lager e della Shoah concentrandosi sui carnefici e non sulle vittime, sugli esecutori dello sterminio o comunque, come in questo caso, sui guardiani dei campi e non sui detenuti.
Una scelta di argomento e di prospettiva che comporta – precisa l’autore – la violazione di almeno due resistenze psicologico-morali e se la prima, soffermarsi sugli assassini o sui loro collaboratori e non sulla tragedia dei deportati, può più facilmente essere superata perché rispondente all’intento di una lettura completa ed esaustiva del fenomeno che tenga conto di tutte le parti coinvolte, la seconda, tralasciare le violenze e la ferocia praticate dai sorveglianti dei campi per studiare l’organizzazione del loro “lavoro” e soprattutto del tempo libero e la predisposizione di spazi e azioni di svago per questa risorsa (in)umana dell’industria concentrazionaria del Terzo Reich, potrebbe sembrare provocatoria, irrispettosa della memoria delle vittime e straniante.

Ma proprio lo studio degli aspetti inizialmente e comprensibilmente considerati meno urgenti dalla storiografia del Terzo Reich e della Shoah in particolare può contribuire oggi ad una comprensione del fenomeno sempre più ampia, ora che la letteratura sull’argomento, sui meccanismi del sistema concentrazionario e del processo di sterminio nazisti può dirsi già copiosa ed approfondita.
Pertanto la scelta di Fabrice d’Almeida di considerare le attività ricreative dei guardiani dei lager, il loro tempo libero e più in generale la politica tedesca di gestione del personale delle unità speciali delle SS impiegate nei campi di concentramento e sterminio – le Totenkopfverbände – ci sembra non solo di grande interesse, ma oltremodo fertile sia per quantità sia per qualità dei contributi euristici forniti, in quanto se da un lato chiarisce aspetti certamente meno noti di altri del funzionamento dei campi di internamento nazisti, dall’altro conferma e rafforza alcune delle principali tesi interpretative di questo capitolo della storia novecentesca. E ci riferiamo non solo alla arendtiana “banalità di un male” che risulta sempre più tale, cioè banale, quando osserviamo ad esempio gli scatti dell’album fotografico Höcker, custodito all’Holocaust Memorial Museum di Washington dal 2007, che documentano momenti di svago e divertimento di ufficiali e ausiliarie SS del campo di Auschwitz (e proprio dal ritrovamento di questo peculiare materiale fotografico ha tratto spunto lo studio di d’Almeida), ma ci riferiamo anche alle tesi di Raul Hilberg riguardo al coinvolgimento “sistemico” dell’intera Germania nazista nel processo di sterminio e alle riflessioni di Zygmunt Bauman sulla “modernità” e razionalità industriale della macchina concentrazionaria e di annientamento predisposta dal Terzo Reich.

ALBUM HOCKER 1_2_3Ma proseguiamo con ordine: se consideriamo le tre fotografie dell’album Höcker qui riportate nella loro probabile successione esecutiva, vediamo un gruppo di una dozzina di persone, di cui tre uomini, che evidentemente distesi e spensierati si divertono, scherzano e si fanno fotografare, mentre ridono, suonano e presumibilmente cantano. Insomma una normale, ordinaria, in questo senso “banale”, scena di svago di gruppo.
Le risate sembrano fragorose e prolungate; il divertimento è accompagnato dalle note di una fisarmonica suonata dall’uomo sulla destra; la donna che gli sta vicino assume ludiche pose svenevoli in tutti e tre gli scatti, mentre, nell’ultimo dei tre, due amiche sulla sinistra si slanciano di corsa e allegre verso il fotografo, che forse – proviamo ad immaginare – le provoca e le motteggia. Ma se osservate ripetutamente, queste immagini, nonostante la loro apparente ordinarietà, provocano in noi un crescente disturbo; c’è qualcosa di stonato, di sghembo che produce un effetto di spaesamento. E l’effetto straniante è determinato non solo e non tanto dai lucidi e neri stivali militari sotto le impeccabili uniformi da SS indossate dai tre uomini e da quelle di ausiliarie SS delle donne, quanto piuttosto dalla consapevolezza che il prato attorno e la macchia scura di betulle sullo sfondo che incorniciano questa altrimenti insignificante scena di svago si trovano ad Auschwitz, dove i tre ufficiali e le ausiliarie SS, una volta terminato quel momento di riposante distrazione, torneranno ad infierire brutalmente sui detenuti, seminando terrore e morte.

Una delle tesi più importanti espresse da d’Almeida è quella secondo cui «i guardiani non sono lo scarto delle formazioni militari, come hanno voluto far credere i dirigenti perseguiti all’indomani della seconda guerra mondiale per crimini contro l’umanità», ma sono parte di «un’istituzione che si considera l’élite della società tedesca» (p. 12), soprattutto quando, dopo la “notte dei lunghi coltelli” e il depotenziamento delle SA, organizzazione, gestione, controllo e sfruttamento dei lager vengono assegnati alle SS, a quell’”ordine nero” che del nazionalsocialismo pretende di incarnare l’essenza politica e razziale ed in particolare alle SS – Totenkopfverbände, le “unità testa di morto”. «Per il nazismo, i prigionieri sono secondari. Essi sono il nulla. Ciò che interessa sono i guardiani, coloro che sorvegliano l’interno e l’esterno dei campi. Il loro lavoro appare semplice: consiste nel sorvegliare ed eliminare i nemici della società e della razza tedesche» (p. 11).

Una élite di custodi e sentinelle dell’ordine nazionalsocialista che è parte costitutiva e consustanziale – è questa un’altra delle idee portanti del ragionamento di d’Almeida – del progetto di ingegneria sociale del Terzo Reich, che intende riorganizzare la società sulla base di un darwinismo sociale, politico e razziale che richiede un’eugenetica azione di isolamento ed eliminazione del nemico, dell’inadatto. Ne consegue che il ruolo dei sorveglianti dei campi è una tessera fondamentale dell’intero mosaico sociale nazista ed è in relazione integrante con altri apparati ed istituzioni del regime, in primo luogo «la polizia, che finirà per essere inclusa nello stesso ministero […]. Il partito nazista, naturalmente, che invia loro i mezzi e li colloca al centro della sua dottrina. Le SS, di cui costituiscono una delle forze d’élite. Anche altri “corpi” hanno con loro contatti a intervalli regolari, come quello degli impiegati postali, dei ferrovieri, dei pompieri e soprattutto dei militari, che proteggono da lontano le istallazioni. Si aggiungono a queste amministrazioni dei partner economici, dal momento che le imprese approfittano dello sfruttamento della mano d’opera raggruppata nei campi» (p.11)

Alla realizzazione del progetto nazista di ingegneria sociale, di cui la deportazione, la detenzione e l’eliminazione dei nemici nei lager è la chiave di volta, l’intera società tedesca, articolata in apparati ed istituzioni, partecipa attivamente. Si tratta di un coinvolgimento sistemico che – come già aveva sostenuto Raul Hilberg a partire dagli anni ’60 – non diminuisce, parcellizzandola e distribuendola, la responsabilità delle singole istituzioni, ma, al contrario, ne aumenta la somma totale.
E se il darwinismo razziale fa da orizzonte di comprensione del progetto sociale del nazismo, la metodologia e la logica della sua messa in atto sono quelle burocratiche moderne – come dalla fine degli anni ’80 va dicendo Zygmunt Bauman – e nella fattispecie dei lager quelle industriali fordiste. Osserva infatti d’Almeida che negli «anni precedenti e seguenti la prima guerra mondiale, il taylorismo e il fordismo avevano portato a considerare in maniera scientifica i rapporti fra il lavoro e le conseguenze che esso produce sugli individui. Lo sviluppo delle teorie sul tempo libero e la riduzione dell’orario lavorativo con l’introduzione dei giorni festivi avevano incentivato la riflessione sulle attività al di fuori degli uffici e delle fabbriche. L’esercito stesso se n’era fatto portavoce, grazie al sistema delle licenze intensamente presente anche durante la Grande Guerra». (p. 16)

d'almeida COPERTINA-1Di questa ristrutturazione fordista della società novecentesca, che nella massificata e massificante Grande Guerra conosce un passaggio fondamentale, l’industrializzazione operata dal nazismo della detenzione e, come suo sviluppo ed esito, dello sterminio costituisce un ingranaggio essenziale. «Le SS contribuiscono alla modernizzazione della gestione delle organizzazioni propria della produzione industriale e della disciplina dei comportamenti». (p. 17) Pertanto, l’amara conseguenza tratta dall’autore da questa premessa è che dal «punto di vista della storia dell’ingegneria sociale e della gestione delle risorse umane, la svolta rappresentata dal genocidio degli ebrei e degli zingari è comunque eccezionale e pone una quantità di domande, che spesso sono state affrontate in prospettiva psicologica». (p. 18) Approccio quest’ultimo che d’Almeida non intende praticare, preferendo un’osservazione e culturale e materiale del fenomeno dei sorveglianti dei campi di concentramento. Analisi che nell’ottavo ed ultimo capitolo del libro (Il secolo dei guardiani) si allarga ad altri esempi novecenteschi del fenomeno concentrazionario, in particolare a quello dei Gulag sovietici, muovendo dalla convinzione che quella del guardiano del lager sia una figura essenzialmente novecentesca, che trova poi nel totalitarismo il contesto ideale della propria definizione.

Nell’organizzazione industriale e fordista della repressione sociale per via concentrazionaria rientra pertanto il “tempo libero”, quello che contribuisce alla rigenerazione e alla maggior efficienza della forza lavoro. «La vita delle guardiane e dei guardiani doveva essere sufficientemente piacevole nel quotidiano, affinché potessero attivare tutta la loro violenza in seno all’istituzione concentrazionaria. Non dovevano soffrire a causa dell’inattività o dell’ozio, quando lasciavano il loro luogo di lavoro per il riposo, per quanto fosse breve. In questo senso il nazismo è il primo esempio di gestione di risorse umane». (p.19)
Ovviamente anche il salario gioca un ruolo importante in un “rapporto di lavoro”, come dimostra – osserva d’Almeida – il caso delle ausiliarie SS, delle guardiane, che vengono arruolate a partire dal 1938 per garantire la sorveglianza soprattutto, ma non solo, delle prigioniere. Il personale femminile viene formato, inquadrato ideologicamente, in particolare nella scuola creata apposta nel campo femminile di Ravensbrück dal 1940, ma – sostiene l’autore – a differenza di quanto accade per i «loro omologhi maschi, la scelta di mettersi a servizio della politica concentrazionaria non dipende, nel loro caso, da forti motivazioni ideologiche» (p. 40), quanto piuttosto dal salario. «La remunerazione di base di una giovane guardiana è di 185 Reichsmark, superiore di un terzo a quella di un’operaia non qualificata impiegata nell’industria tessile, e con le indennità di servizio può arrivare quasi a raddoppiarsi». (p. 40) Questo da un lato aiuta a capire perché – come scrive lo storico – solo il 4% delle guardiane si sia iscritto al partito e dall’altro ci sembra dimostri una volta di più quanto sia complessa e problematica, sfaccettata e spesso indecifrabile la questione del consenso ideologico all’interno di un regime totalitario.
In questo caso, comunque, sono le logiche del mercato della mano d’opera che contribuiscono a fare la differenza, ad attrarre personale verso l’impiego nei campi di concentramento e a integrare ed includere socialmente, come parte della struttura economico-produttiva, l’inumanità della segregazione concentrazionaria.

Nei capitoli dal terzo al sesto d’Almeida prende poi in esame nel dettaglio le attività dell’ultimo dei sei dipartimenti (Abteilung VI) in cui venne articolata l’organizzazione di tutti i campi, secondo il modello introdotto a Dachau da Theodor Eicke, stretto collaboratore di Himmler; a loro volta tutti i lager tedeschi rispondevano alla IKL – Inspektion der Konzentrationslager, con sede a Berlino dal 1934. È «l’Abteilung VI a mettere a disposizione del personale gli strumenti per il suo intrattenimento, al fine di mantenere la condizione di spirito necessaria per l’adempimento dei servizi richiesti […]. Ottiene le sue risorse dai ministeri della Propaganda e dell’Educazione popolare, diretti da Joseph Goebbels, e, dal 1940 al 1945, diventerà lo strumento indispensabile nell’attuazione dei principi di gestione delle risorse umane, nel periodo in cui l’esplosione della violenza nei campi va verso il suo apogeo». (p. 32)

E così apprendiamo, per fare alcuni esempi, che per quanto riguarda la vita sessuale, secondo d’Almeida è doveroso abbandonare lo stereotipo, perché non supportato da dati ed elementi probanti sufficienti, di una sfrenata attività sessuale attribuita al personale SS di sorveglianza nei campi, così come quello di una sessualità disturbata, spesso attribuita agli ufficiali di più alto grado. Secondo lo studioso francese si tratta di un cliché sorto dopo la guerra «allo scopo di stigmatizzare la mostruosità dei carnefici – come se fosse stato necessario aggiungere ai loro crimini comportamenti che oltrepassavano il senso comune». (p. 67)
Piuttosto la sessualità del personale tedesco dei campi era regolamentata dai divieti conseguenti alle leggi razziali e di difesa del sangue tedesco: «nessuna relazione omosessuale, nessun rapporto interrazziale, nessun contatto intimo tra detenuti e sorveglianti. Nei fatti, i comportamenti sono più variegati». (p. 66)

Di certo fu incoraggiato il ricorso al bordello e ne furono aperti alcuni appositamente per il personale dei campi. «Contrariamente alle case chiuse destinate ai lavoratori forzati, situate nell’area dei rispettivi campi e poste sotto la sorveglianza dei guardiani, come nel caso di Buchenwald, pare che quelle destinate al personale fossero poste al di fuori dei reticolati. Ad Auschwitz, per esempio, le SS potevano recarsi in centro città due giorni a settimana, tra le 17 e le 23, quando era loro riservato un bordello che, altrimenti, era frequentato da cittadini tedeschi e, in particolare, dai militari della Wehrmacht». (p. 71)

ALBUM HOCKER ALTRE 1Proseguendo, ci viene detto che uno dei modi di trascorrere il tempo libero preferiti consisteva nel mangiare e bere insieme, attività ricreativa che veniva incentivata dalle autorità, dal momento che poteva cementare lo spirito di gruppo ed il cameratismo. Ma anche l’ascolto di musica attraverso l’invio ai diversi campi di un ricco materiale discografico fu utilizzato come mezzo di divertimento e distrazione. Molto apprezzate e richieste erano le radio, in linea con i costumi e le abitudini dei tedeschi, essendo dagli anni ’30 la distribuzione di apparecchi radio particolarmente capillare in Germania. Ma non mancavano naturalmente le carte da gioco, i giochi di società, i giornali e le riviste e le librerie, i cui cataloghi, in larga parte uguali in tutti i lager, da d’Almeida vengono attentamente spulciati, dal momento che in questo caso alla funzione di svago si aggiungeva quella di formazione ed inquadramento politico ideologico. A tutto ciò, si aggiungevano, infine, spettacoli, attività e gare sportive, insomma un interno inventario di pratiche ludiche e ricreative del tutto ordinarie e comuni, se non fosse che per nulla ordinario e comune era il contesto in cui tutto ciò accadeva. Pertanto, scrive d’Almeida proprio nelle ultime righe del suo lavoro, «la conclusione che si impone è racchiusa in una frase. Nei campi di concentramento e di sterminio, gli esecutori non hanno solo massacrato donne e bambini: essi hanno anche ammazzato il tempo». (p. 162)

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