The Elephant Man – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. L’incontro con l’Altro. Il vampiro, il mostro, il folle https://www.carmillaonline.com/2019/05/16/nemico-e-immaginario-lincontro-con-laltro-il-vampiro-il-mostro-il-folle/ Thu, 16 May 2019 21:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52502 di Gioacchino Toni

Nel libro di Paolo Lago, Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij (Editrice Clinamen, 2019), vengono presi in esame tre film che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 affrontano “l’incontro con l’Altro”: Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog, The Elephant Man (Id., 1980) di David Lynch e Nostalghia (Id., 1983) di Andrej Tarkovskij. Si tratta di opere che ricorrono a strutture narrative abbastanza simili: un individuo si allontana dalla sua comunità compiendo [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel libro di Paolo Lago, Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij (Editrice Clinamen, 2019), vengono presi in esame tre film che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 affrontano “l’incontro con l’Altro”: Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog, The Elephant Man (Id., 1980) di David Lynch e Nostalghia (Id., 1983) di Andrej Tarkovskij. Si tratta di opere che ricorrono a strutture narrative abbastanza simili: un individuo si allontana dalla sua comunità compiendo un percorso che lo porta ad avvicinarsi a chi non ne fa parte: l’Altro, il Diverso, l’Emarginato.

Nel film di Herzog – con inevitabili riferimenti al precedente di Murnau del 1922 e, ovviamente, al romanzo del 1897 di Bram Stoker – si ha in Jonathan Harker il personaggio del viaggiatore e nel vampiro la figura dell’Altro. L’analisi di Lago procede mettendo in luce gli elementi che nel film tracciano il rigore geometrico della città di Wismar, in Germania, e l’etichetta borghese che vi regna, mostrando come ciò palesi una situazione di staticità e ripetitività da cui Harker dovrà allontanarsi per intraprendere quel viaggio in Transilvania che lo condurrà in un mondo lontano e selvaggio, dominato dal mistero e dalla magia, fino a giungere di fronte all’Altro.

Attraverso il viaggio, il personaggio (come del resto il lettore) viene dapprima proiettato in un nuovo mondo sconosciuto, ove lo sguardo razionale del viaggiatore  occidentale è costretto a confrontarsi con una comunità di zingari, prima incarnazione dell’alterità, e con una locanda, spazio “altro”, che si rivela luogo della diversità in cui il «freddo sentire» occidentale finisce con il sentirsi circondato da un linguaggio, una fisicità e una ventata di irrazionalità a lui del tutto incomprensibili. Nel moto di avvicinamento al castello la scoperta razionale di un nuovo mondo lascia pian piano il posto ad «un’immersione onirica in un territorio fantastico e immaginifico». Da questo momento, sottolinea Lago, il viaggiatore occidentale, con la sua pretesa superiorità razionale, si sente «schiacciato dallo spazio arcano e misterioso dei territori che sta attraversando» (p. 22). L’occidentale si trova pertanto costretto ad abbandonare lo sguardo distaccato ed irrisorio con cui sino a quel momento ha guardato al folclore e alle leggende locali; ora viene fagocitato da un ambiente naturale che si rivela ai suoi occhi terribile. Uno percorso «non mappizzato» in cui il viaggiatore vive una «vertigine dell’erranza» che lo conduce, attraverso la perdita del sé, al terribile incontro con l’Altro.

Nell’analizzare lo spazio in cui viene a trovarsi Harker, Lago ricorre ai concetti elaborati da Deleuze e Guattari di «spazio liscio» (proprio del «deserto» nomadico) che si contrappone allo «spazio striato» (caratteristico della città disciplinata da rigide griglie di controllo). «Il cammino è percorso adesso non più da uno scienziato razionalista ma da un esploratore che si muove verso il vuoto informe, verso territori inesplorati […] D’ora in poi l’incedere del viaggio assume un’altra tonalità: a quella dell’orrore si sovrappone quella romantica e titanica […] Lo spostamento del personaggio si tramuta in rapsodia romantica velata di titanica solitudine» (p. 23).

Al termine di questo percorso il viaggiatore fa il suo incontro con l’Altro che, in questo caso, ha le sembianze del vampiro che Herzog presenta come una figura di emarginato e solitario individuo che si «stacca dall’oscurità». «L’Altro è quindi ciò che appare quasi inconoscibile, ciò che fa parte della notte, dell’oscurità ed è difficilmente comprensibile dalla mente “illuminata” e raziocinatane del viaggiatore occidentale» (p. 25), mentre a tale alterità è invece consentito, proprio per il suo essere distaccato dal corpo sociale, di «vedere e sentire oltre».

Particolarmente importante, segnala Lago, è lo spazio del castello in cui dimora il conte. Si tratta infatti di uno spazio che, come suggerisce a più riprese lo sguardo della macchia da presa, sembra sottrarsi alla logica quotidiana del tempo. Harker si trova dunque costretto a fare i conti con uno spazio che, come chi lo abita, appare pietrificato. È attraverso l’abbandono del castello in direzione di Wismar che il vampiro sembra sottrarsi dal “non tempo” regnante nella dimora per entrare nella logica temporale del viaggio.

Dopo il percorso che ha condotto l’occidentale al cospetto dell’Altro è ora quest’ultimo a compiere l’itinerario inverso, viaggio che lo porta «a sferrare, dal silenzio della propria malattia e della propria solitudine, un attacco all’inconsapevole Occidente per contaminarlo con la sua stessa malattia: un attacco che assumerà le sembianze di un lugubre e macabro carnevale» (p. 30). E così la nave con cui il vampiro veleggia verso Wismar si presenta come «lento vettore della contaminazione» destinato ad investire l’Occidente. «Adesso, il vampiro, con la sua profonda sofferenza, col suo frustrato e inappagato desiderio d’amore […] diviene forte della propria emarginazione e solitudine e attacca, cercando di portarvi contagio e contaminazione, quell’ordinato spazio urbano che, perduto nella ripetitività dei suoi tic quotidiani, all’inizio ne ignora totalmente la presenza» (p. 35). Al processo di contagio, sottolinea Lago, contribuiscono i suoi ratti, veri e propri agenti di contaminazione rizomantica.

Giunto in città, lo straniero resta totalmente escluso da quella comunità degli esseri umani decisa a negargli quell’amore da lui inutilmente implorato. Lo studioso si sofferma anche sul processo di rovesciamento del conflitto tra Eros e pulsione di morte tratteggiato da Freud ne Il disagio della civiltà in cui la civiltà viene vista come portatrice di vita, di Eros. «Il vampiro, esponente di un’arcaica nobiltà decaduta ed estraneo a qualsiasi organizzazione sociale basata sul lavoro, porta un Eros che è anche la Morte per i meccanismi sociali di Wismar. Egli è colui che rovescia la realtà, che scambia il giorno con la notte, che vive di notte mentre è assente dal mondo durante i giorno» (p. 37). Se gli esseri umani civilizzati si sono via via allontanati della natura e dagli animali, il vampiro, forte del suo restare straniero alla comunità umana, si mantiene in sinergia con quel mondo arcaico in cui sopravvivono, inoltre, il mito e la leggenda banditi dalla civiltà razionalista borghese. Ed è proprio la «macchina da guerra nomadica» del vampiro a condurre l’attacco alla comunità dello «spazio striato».

Nel film di Herzog l’incontro con l’Altro palesa anche il processo di identificazione ed ibridazione tra i due personaggi: dopo essersi gradualmente trasformato in vampiro, al termine del film, sarà proprio il viaggiatore, ormai identificatosi col conte, a portarne avanti i piani. «Dopo un primo viaggio, l’incontro con l’Altro e la contaminazione da esso portata nello spazio della città, il film si chiude con un nuovo viaggio e con una non-fine» (p. 49), quasi a suggerire l’inevitabilità della contaminazione con l’Altro.

Se in Nosferatu il personaggio di Harker incontra l’Altro dopo un lungo e difficoltoso viaggio ai confini dei territori conosciuti, compiendo «una vera e propria immersione in un vuoto informe, in uno spazio “liscio” lontano dalle griglie del controllo cittadino» (p. 53), in The Elephant Man di Lynch, il personaggio del dottor Treves giunge al cospetto del Diverso, l’uomo elefante, nel cuore stesso della civiltà occidentale, in quella Londra vittoriana in cui giunge il vampiro di Dracula di Bram Stoker.

Treves incontra l’Altro «negli interstizi infernali della città». Ed infatti, dopo una sorta di preambolo onirico-mitico, le vicende narrate dal film di Lynch prendono il via con il dottor Treves che, alla ricerca dell’uomo-elefante, è costretto ad attraversare una sorta di cunicolo infernale ed oscuro popolato di “esseri mostruosi” o “strani”, appartenenti a quella categoria di emarginati esposti alla curiosità della londinese “comunità dei normali”. L’itinerario compiuto dal medico nelle sequenze iniziali rappresenta certamente lo spazio «di un tempo “liberato”», nel cuore stesso della città, la fiera in cui il cittadino cerca evasione dalle «griglie del controllo quotidiano», ma, sottolinea Paolo Lago, anche lo spettacolo può essere una forma di controllo: «è l’altra faccia della razionalità illuministica di una città in cui impera ogni dove la meccanica geometrica di una tarda Rivoluzione Industriale. Lo spazio della fiera è l’altro aspetto della razionalità rigida e greve che regna […] nello scenario industriale che avvolge i tenebrosi vicoli londinesi. È la zona magica, irrazionale, mistica e popolata di esseri strani dove la stessa razionalità illuministica corre a rifugiarsi» (p. 53).

In questo caso il Diverso è già presente nello «spazio striato» della città, è un appartenente alla comunità – è un inglese, ribadirà Treves ai colleghi – «divenuto straniero» in virtù della sua deformità fisica. John Merrick, l’uomo-elefante, è un Diverso nato e cresciuto nel cuore dell’impero e per poterlo incontrare non occorre affrontare alcun lungo viaggio ai confini del mondo occidentale: basta cercarlo negli anfratti della civiltà vittoriana in cui imperversano inquietanti macchinari. È all’interno dello spazio urbano occidentale che Treves deve volgere il suo sguardo raziocinante per giungere all’incontro perturbante con l’Altro. Dopo il fallito tentativo di incontrare l’uomo elefante nel tunnel dei freaks alla fiera, per raggiungerlo, il medico è costretto ad attraversare, col suo incedere veloce e sicuro, carico di razionalità illuministica, i vicoli malfamati londinesi in cui si incontrano esseri umani costretti a vivere e lavorare in scenari infernali. Welcome to the dark side of the Industrial Revolution.

L’incontro con l’Altro avviene per Treves nelle viscere della civiltà delle macchine, nell’anfratto di un palazzone di un quartiere popolare. Il suo intento è quello di sottrarre l’uomo-elefante dall’esibizione fieristica per esibirlo a sua volta ai colleghi del London Hospital, trasformandolo così, sottolinea Lago, in un caso clinico sottoposto ad un dispositivo di controllo. Se però lo spettacolo fieristico tende a ricondurre Merrick nell’inferno dell’orrore, lo sguardo illuminista del medico sembra ricondurlo «ad una logica razionale all’interno di un un universo dominato dal logos e dalla scienza, l’altra faccia di quella lancinante Rivoluzione Industriale che trasforma in inferno la realtà e in dannati gli stessi uomini» (p. 60).

Nonostante la luce della scienza, la diversità dell’uomo-elefante viene nuovamente celata alla vista della comunità all’interno di una stanza d’isolamento: nel cuore del panoptismo ospedaliero, il mostro viene sottratto agli occhi della comunità. Se nel tunnel fieristico il corpo deforme dell’uomo viene esibito, all’interno del «cuore assistenziale della metropoli occidentale» esso viene nascosto alla vista, trasformato in fantasma. «L’ospedale, cuore “meccanico” e avanzato» della metropoli finisce per palesarsi, soprattutto nelle ore notturne, come «il regno oscuro di quel progresso» in cui ogni rumore, sovente meccanico, è percepito da Merrick come una minaccia. La dimensione del terrore, sottolinea Lago, si rovescia: non è più l’Altro a provocare orrore ma è la “normalità” della civiltà occidentale a spaventare il Diverso.

L’ingresso di Merrick nella scansione di un tempo “normale” e “civile” avviene attraverso l’emissione di parola, strumento con cui il Diverso, dopo aver vissuto nel silenzio, cerca disperatamente di entrare a far parte della comunità. La presa di parola avvia il processo di normalizzazione del mostro che così inizia ad essere accolto all’interno della società urbana e borghese. A differenza del vampiro, nell’uomo-elefante non è presente alcuna volontà destabilizzante nei confronti della società. Se Merrick viene dapprima accolto nella clinica come mostruosità, successivamente il salotto borghese illuminato vittoriano lo accoglie come “cittadino” demostrificato. A differenza del vampiro di Herzog che entra di nascosto nel cuore della civiltà occidentale minandone le fondamenta, l’uomo-elefante vi entra alla luce del sole.

Lago sottolinea come l’intera esistenza Merrick sia ripetutamente toccata dalla dimensione spettacolare: «prima esibito come fenomeno da baraccone, poi esposto allo sguardo della scienza e della medicina, successivamente presentato come un elegante dandy alla buona società londinese, fino al momento culminante […] della sua apparizione proprio all’interno di un teatro» (p. 69). Merrick resta pur sempre uno «straniero interno», non raggiunge mai una dimensione compiutamente “umana” e ben presto si trova nuovamente catapultato nell’inferno della fiera dei mostri fino a quando i freaks decidono di “far gruppo” e ribellarsi dando vita ad una “comunità altra”, diretta verso un “altrove” che poi si fa per l’uomo-elefante viaggio individuale che lo conduce sul palcoscenico. «Per essere accettato, egli deve ridurre a una dimensione teatrale la sua condizione di diverso, di emarginato e di “straniero interno”. Se così si può dire, la sua diversità deve essere, per certi aspetti, teatralizzata, riportata nei meccanismi della finzione» (pp. 75-76).

Nel film Nostalghia di Tarkovskij, invece, il viaggio che compie il poeta Gorčakov è un atto mentale verso la regressione nostalgica che prende il via da una condizione di malattia che gli impedisce di affrontate la bellezza in qualsia forma essa si manifesti, bellezza che all’inizio del film coincide con il celebre affresco della Madonna del Parto di Piero della Francesca.
La sua condizione di esiliato si traduce in una devastante sensazione di «perdita interiore» delle persone e dei luoghi della sua terra e della sua storia. Il rifiuto di visionare il capolavoro pierfrancescano non manca di alludere alla nostalgia per un “mondo altro” rispetto a quello incarnato dall’arte italiana rinascimentale votata ad un antropocentrismo “razionalista” destinato ad allontanare sempre la dimensione del sacro dall’essere umano.

Lago sottolinea come il viaggio di Gorčakov, che lo porta al cospetto dell’Atro, in questo caso il folle Domenico, si configuri come un movimento chiuso, privo di possibili sviluppi, «bloccato in una condizione di rifiuto e di stanchezza». È nell’antico borgo termale senese di Bagno Vignoni che «la dimensione occludente del viaggio si sfalda definitivamente».
Nello spazio dell’albergo – in cui il volto di Eugenia, l’accompagnatrice, a tratti appare agli occhi del poeta la «prosecuzione estetica» del dipinto pierfranescano – Gorčakov, nell’esprimere il suo convincimento circa l’intraducibilità della poesia, sottintende l’impossibilità della comprensione tra culture diverse, dunque l’impossibilità del viaggio stesso, «del movimento verso un altrove». Ed è a fronte di ciò che il protagonista si trova in balia di una lancinante nostalgia.

L’incontro con l’Altro avviene qua nello «spazio amniotico» della vasca termale della piazza della cittadina.
Nel film di Tarkovskij, l’Altro assume le sembianze del folle, di un ex internato in manicomio da poco liberato dalla “legge Basaglia” insieme a tanti altri segregati. L’incontro tra Gorčakov ed l’Altro avviene inizialmente grazie all’intermediazione di Eugenia, «spettro di quella prorompente arte che il poeta aveva rifiutato all’inizio: figura raziocinante e “antisacrale”, è probabilmente l’inconsapevole conduttrice dell’elemento inquietante e “diabolico” di una pittura e di una concezione artistica che nega la semplicità e il rigore essenziale […] Per avvicinarsi per la prima volta a Domenico, Gorčakov deve quindi passare attraverso la mediazione di una concezione artistica che gli provoca un lancinante dolore» (pp. 90-91).

Si tratta in questo caso dell’incontro tra due stranieri: il folle, uno «straniero interno» esiliato e costretto al silenzio dalla “comunità dei normali”, ed il poeta russo, uno straniero di un altro paese, con un’altra cultura ed un’altra lingua che egli ritiene intraducibile, dunque impossibilitato ad entrare a far parte della comunità in cui si trova ora a vivere. «Forse, l’unica comprensione fra stranieri è allora possibile quando essi siano posti nella stessa condizione, quando siano entrambi esiliati ed estranei allo stesso luogo» (p. 95). Come accade nel film di Lynch, ove i freaks diventano comunità solidale per potersi difendere dalla “comunità dei normali”, altrettanto il russo ed il folle possono farsi comunità, immedesimandosi luno nell’altro, per sostenere il peso dell’esclusione. «Se il poeta rappresenta per il folle l’introduzione del “nuovo”, un appartenente alla comunità dei cosiddetti “normali” che finalmente gli va incontro senza sorrisi di scherno» (p. 99), da parte sua Gorčakov inizia ad identificarsi con Domenico riuscendo, proprio grazie alla seduzione dell’Altro, a andare oltre il dolore e la nostalgia personale, abbracciando adesso col proprio sguardo olimpico la realtà circostante che pulsa e continua a pulsare in un nuovo spazio e in un nuovo tempo» (p. 116).

Paolo Lago mette i luce come nei tre film esaminati l’incontro con il Diverso determini una trasformazione all’interno dello spazio sociale in cui questo si trova ad agire: Nosferatu, attraverso la contaminazione e la malattia, porta distruzione nell’ordine razionale occidentale; Merrik, da essere emarginato, finisce per essere inglobato all’interno della buona società vittoriana, pur dovendo subire un processo di teatralizzazione; Domenico manifesta la sua protesta ed il suo desiderio di ricongiungimento con quella comunità che lo aveva recluso in manicomio prima e mantenuto ai margini poi. In tutti tre i casi le storie finiscono con la morte dell’Altro: il vampiro cessa di vivere alle prime luci dell’alba ma finisce con l’incarnarsi in Harker; l’uomo-elefante si spegne soffocando per poter dormire come tutti i “normali”; il folle muore dandosi fuoco per protesta contro una società che continua a non accettare la diversità.

L’analisi proposta da Lago mete in luce come il vampiro, il mostro ed il folle rappresentino «gli altri da noi e, contemporaneamente, un’altra faccia di noi stessi, quella più in ombra, quella più nascosta, quella che fa più paura», mentre Harker, Traves e Gorčakov incarnino quegli appartenenti alla «società dei “normali”, irregimentati nei loro mondi ordinati e regolati», seppure il russo in misura minore, «che compiono delle vere e proprie “derive” verso territori sconosciuti, al di là dei confini prestabiliti, per partecipare delle sofferenze degli esclusi, degli emarginati, dei lontani» (p. 15). Non è difficile cogliere, sottolinea lo stesso autore, l’attualità delle tematiche affrontate da queste tre opere e di come, al di là delle ritrosie iniziali con cui si tende a guardare a ciò che non si conosce, valga la pena affrontare un viaggio di avvicinamento nei confronti dell’Altro ricavandone «inaspettati momenti di fratellanza e condivisione».


Serie completa di “Nemico (e) immaginario” 

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David Bowie https://www.carmillaonline.com/2017/01/11/david-bowie/ Wed, 11 Jan 2017 22:30:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35646 di Gioacchino Toni

cover_bowie_sono-l-uomo-delle-stelleDavid Bowie, Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 469, € 24.00

Sul finire del 2016 l’editore Il Saggiatore ha dato alle stampe il volume Sono l’uomo delle stelle, una raccolta di interviste rilasciate da David Bowie tra il 1969 ed il 2003 selezionate da Sean Egan e pubblicate in lingua inglese col titolo Bowie on Bowie l’anno precedente.

Da questa trentina di interviste emerge un Bowie mutevole ed a tratti contraddittorio, poco propenso a lasciarsi guidare dagli intervistatori e per [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_bowie_sono-l-uomo-delle-stelleDavid Bowie, Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 469, € 24.00

Sul finire del 2016 l’editore Il Saggiatore ha dato alle stampe il volume Sono l’uomo delle stelle, una raccolta di interviste rilasciate da David Bowie tra il 1969 ed il 2003 selezionate da Sean Egan e pubblicate in lingua inglese col titolo Bowie on Bowie l’anno precedente.

Da questa trentina di interviste emerge un Bowie mutevole ed a tratti contraddittorio, poco propenso a lasciarsi guidare dagli intervistatori e per certi versi abile nel giostrare gli incontri con i media a proprio favore per “costruirsi-personaggio”.

Il volume, oltre a regalare ai fan di Bowie, ed agli appassionati di musica in genere, parecchio materiale interessante, offre un’idea di come è cambiata l’intervista musicale anglosassone tra gli sgoccioli degli anni Sessanta del Novecento e l’apertura del nuovo Millennio.

bowie_dont_dig_tooLa prima intervista presentata dal volume, “Non scavate troppo a fondo, il bizzarro David Bowie vi implora” di Gordon Coxhill (1969) per “New Musical Express” (UK), viene realizzata quando sono giù usciti i primi due album di Bowie (1967 e 1969) ed il brano Space Oddity, presente nel secondo disco, lo ha fatto conoscere a livello internazionale. Così termina il pezzo Gordon Coxhill: «Con il suo carico di idee originali, la sua voglia di lavorare sodo, il suo odio per le droghe pesanti e per la tendenza a dividere la musica in generi, e con abbastanza buonsenso da impedirgli di montarsi la testa quando presto arriveranno fama e adulazione, David sembra essere proprio il genere di artista di cui il pop ha bisogno in questo momento. Sono certo che sarà in grado di resistere alle pressioni, e se non ci riuscirà, sarà abbastanza saggio da fuggire» (p. 6).

Di qualche anno successiva è un’intervista restata nella storia: “Oh You Pretty Thing” di Michael Watts (1972) per “Melody Maker” (UK). A tre anni dall’entrata i classifica di Space Oddity, sul finire del 1971 viene pubblicato Hunky Dory con Bowie però già totalmente proiettato verso The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. È in tale contesto che viene realizzata l’intervista presso gli uffici della Gem Music ed è qua che il musicista se ne esce con la celebre dichiarazione di omosessualità. Si tratta di un’affermazione all’epoca di certo non in linea con ciò che il pubblico vuol sentirsi dire ma al tempo stesso utile a far parlare di sé. «L’immagine con cui si presenta attualmente Bowie è quella di un ragazzo deliziosamente effeminato, una checca smancerosa. È smaccatamente camp, con la sua mano floscia e la sua parlata cantilenante. ‘Sono gay’ dice ‘e lo sono sempre stato, anche quando ero David Jones.’ Ma nel pronunciare queste parole sfodera un’espressione maliziosa e divertita, e accenna un sorriso agli angoli della bocca. Sa bene che al giorno d’oggi è concesso atteggiarsi da checca e che, essendo un cantante pop, è quasi tenuto a scioccare e a creare scandalo. Magari a creare scandalo non ci riesce, ma di certo riesce a divertire» (p. 11).
melodymaker_bowie_jan22Nel pezzo Watts afferma che nonostante la nomea di compositore intellettuale, i suoi brani gli sembrano più un prodotto dell’inconscio che non dell’intelletto e forse questo è il motivo per cui Bowie ammira Syd Barret da cui probabilmente deriva l’approccio anticonvenzionale ai testi e se è Barret ad aprirgli la strada, continua Watts, spetta a Lou Reed ed Iggy Pop il compito di incoraggiarlo a percorrerla.

Il mix di androginia, fantascienza, sperimentalismo ed intreccio di identità che accompagna la pubblicazione di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars nel giugno del 1972, fanno da sfondo all’intervista “David al Dorchester” di Charles Shaar Murray (1972) per “New Musical Express” (UK). All’incontro sono presenti anche Lou Reed, la sua band (gli Spiders) ed Iggy Pop. Quando Murray fa notare al cantante che funk, camp e punk sono i termini più ricorrenti tra i giornalisti rock che parlano di lui, Bowie risponde che ciò si deve alla diffusa incapacità di esprimersi dei giornalisti. Non ritiene di avere a che fare col funk pur apprezzandolo: «Mi piace il funk, è torbido. Camp… Capisco perché lo usino. Una volta, quando c’erano gli entertainer, questa parola non esisteva; ma da quando gli entertainer vecchio stampo non ci sono più, ogni volta che qualcuno cerca di fare intrattenimento gli viene purtroppo affibbiata l’etichetta di ‘camp’. Non penso di essere più camp di chiunque in scena si sia sentito a proprio agio, di chi lo era più lì che giù dal palco […] Non saprei definire la mia musica. Nei nostri pezzi rock’n’roll ci sono sicuramente echi dei Velvet; il loro rock’n’roll ha una grande influenza su di me, anche più di quello di Chuck Berry, colui che ha dato il via al genere» (pp. 17 e 19). Murray nell’affermare che a suo avviso Bowie sta a Lou Reed come gli Stones a Chuck Berry, trova il consenso da parte del musicista.
Una parte della conversazione riguarda poi quella che l’intervistatore ritiene una progressiva trasformazione del rock’n’roll in rituale spettacolare ed a tal proposito Bowie sostiene che «Se c’è un aspetto di teatralità nei nostri concerti è perché siamo noi ad avere una certa presenza scenica, senza bisogno di scenografie o di un palcoscenico […] Ci sarà da piangere e da ridere nei prossimi anni, quando un mucchio di band tenterà di fare teatro pur non avendo alle spalle alcuna esperienza […] Resteranno solo quelle poche band strambe che hanno una consapevolezza tale da poter padroneggiare la propria teatralità. Iggy ha una teatralità innata. È un fatto interessante, perché è lontano da qualsiasi canone teatrale. È un teatro tutto suo, che si è portato dietro da Detroit, direttamente dalla strada […] In quanto a me, voglio essere proprio io, nel caso, la diavoleria scenica al servizio delle mie canzoni; voglio esserne il veicolo. Vorrei riuscire a colorare ogni brano della giusta espressività visuale» (pp. 19-20).

goodbye-ziggyL’intervista “Addio Ziggy, benvenuto Aladdin Sane” di Charles Shaar Murray (1973) per “New Musical Express” (UK) esce quando l’artista sta terminando Aladdin Sane, insomma è il momento della saetta sul viso. L’incontro si tiene presso i South Bank Studios della London Weekend Television. Circa i debiti nei confronti di altri artisti afferma Bowie: «Ascolto molti gruppi, ed è naturale che mi faccia influenzare da quelli che più mi piacciono. Se non fossi prima di tutto un fan, magari il mio lavoro sarebbe molto più personale, rispecchierebbe maggiormente la mia identità. Dal momento che sono profondamente immerso nella società in cui vivo, non posso fare a meno di usare gli strumenti con cui essa è stata creata dal punto di vista musicale. Ecco tutto, rubo – e poi uso – elementi di altri musicisti che ammiro e della loro musica» (p. 37).

In “Bowie riscopre il piacere di cantare” di Robert Hilburn (1974) per “Melody Maker” (UK) ci si sofferma sul disco di cover Pin Ups (1973), su Diamond Dogs (1974), sul doppio album dal vivo David Live (1974) e sulla registrazione di Young Americans. E proprio al soggiorno del musicista a Philadelphia per la registrazinoe di Young Americans risale “Bowie incontra Springsteen” di Mike McGrath (1974) per “The Drummer” (USA). A queste date l’inglese è più famoso del rocker americano che ancora non ha ottenuto il successo che arriverà con Born to Run: «Bruce era un po’ a disagio (come sempre quando non è sul palco), Bowie aveva l’aria di un marziano che cerca, senza riuscirci, di farsi passare per uno di noi» (p. 52).

Nel corso dell’intervista “Bowie: sono un uomo d’affari ora” di Robert Hilburn (1976) per “Melody Maker” (UK), il musicista inglese liquida Young Americans come inascoltabile e risulta restio a parlare del suo ultimo album, Station to Station. La conversazione si sofferma sul debutto di Bowie come attore in L’uomo che cadde sulla Terra (1976) e non manca qualche curiosa battuta sull’ipotesi di buttarsi in politica.

In “Addio a Ziggy e a tutto il resto…” di Allan Jones (1977) per “Melody Maker” (UK) Bowie dichiara di essersi deciso a rilasciare interviste «soltanto per dimostrare quanto io creda in quest’album. Sia Heroes che Low sono stati accolti con perplessità. C’era da aspettarselo, naturalmente. Ma Low non l’ho promosso affatto, e molte persone hanno pensato che non l’avessi fatto con il cuore. Voglio mettercela tutta per spingere le vendite del nuovo album. Vedi, credo più negli ultimi due album che in qualsiasi cosa abbia fatto in passato. Voglio dire, dei miei precedenti lavori sono molte le cose che apprezzo, ma poche quelle che davvero mi piacciono» (p. 70).
L’intervistatore ritiene che gli ultimi due album di Bowie, registrati a Berlino in collaborazione con Brian Eno, siano «tra i più audaci e stimolanti dischi che siano stati finora dati in pasto al pubblico rock. Questi due album, che non potevano che suscitare reazioni controverse, combinano le teorie e le tecniche della moderna musica elettronica con testi che vedono Bowie fare a meno delle forme narrative tradizionali in favore di un nuovo vocabolario adatto alla disperazione e al pessimismo che secondo lui dilagano nella società contemporanea» (p. 71). Di rientro dalla parentesi americana, afferma Bowie: «mi sono reso conto che dovevo sperimentare. Scoprire nuovi modi di scrivere. Di più, sviluppare un nuovo linguaggio musicale. Ecco ciò che mi sono prefissato di fare. Ecco perché sono tornato in Europa» (71).

bowie_zigzagL’intervista “Dodici minuti con David Bowie” di John Tobler (1978) per “ZigZag” (UK) è curiosa soprattutto per lo stile adottato dalla testata che all’epoca è una sorta di fanzine e riporta il colloquio quasi letteralmente, parola per parola, evitando il più possibile di strutturare il pezzo. L’incontro è organizzato nell’ambito della promozione di Heroes ed in alcuni passaggi Bowie si sofferma sulla collaborazione con Brian Eno: «ero stanco di scrivere nella maniera tradizionale come stavo facendo in America, e quando sono tornato in Europa ho preso in esame ciò che scrivevo e i contesti di cui stavo scrivendo e ho deciso che dovevo cercare un nuovo linguaggio musicale. Avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano perché mi sentivo un po’ perso e chiuso in me stesso, così ho chiesto a Brian Eno se voleva aiutarmi ed è così in realtà che tutto è cominciato» (p. 80).

Le collaborazioni con i registi David Hemmings e Nicolas Roeg ed il ricorso alla tecnica del cut-up nei suoi testi sono al centro della lunga intervista “Confessioni di un elitista” di Michael Watts (1978) per “Melody Maker” (UK). Incalzato dall’intervistatore circa il suo essere spesso associato alla fantascienza, Bowie risponde di non aver mai considerato i propri lavori fantascientifici: «non ho mai pensato di essere futuristico, anzi, ho sempre pensato di essere una figura molto contemporanea, legata al presente. Il rock è sempre indietro di dieci anni rispetto alle altre arti, ne raccoglie le briciole. Voglio dire, non ho fatto altro che servirmi di una tecnica che Burroughs aveva introdotto in letteratura diverso tempo prima. Ma ho utilizzato uno stile che nella letteratura è morto e sepolto, non si usa più da tempo» (p. 94).
Nel corso della conversazione si torna anche sul rapporto del musicista con Eno: «Grazie a lui ho iniziato a concepire la musica in un modo completamente nuovo, e mi è tornata la voglia di scrivere. Mi ha aiutato ad abbandonare la forma narrativa, di cui ero proprio stanco […] Poi Brian mi ha aperto gli occhi sull’idea del processo creativo, inteso come forma astratta di comunicazione» (p. 98).

Poco prima che Bowie inizi a recitare a Broadway nei panni del protagonista di The Elephant Man, viene realizzata la corposa intervista “Il futuro non è più quello di una volta” di Angus MacKinnon (1980) per “New Musical Express” (UK). Inevitabilmente una parte dell’intervista si sofferma sulle sue prove di attore che lo hanno visto recitare in film come Furyo, Basquiat, L’ultima tentazione di Cristo, Absolute Beginners, Miriam si sveglia a mezzanotte, Labyrinth – Dove tutto è possibile. Terminata la trilogia berlinese, il musicista si appresta a pubblicare Scary Monsters (and Super Creeps) ed in un passaggio in cui l’intervistatore lo incalza a proposito sulla sua ripetuta insoddisfazione circa quel che ha fatto fino a quel momento e lo invita ad individuare anche qualcosa di positivo, così si esprime Bowie: «L’idea che non si debba vivere esclusivamente sulla base di un unico e definito sistema di valori e di morale, che si possano indagare altre aree e altre dimensioni percettive provando ad applicarle alla vita di tutti i giorni. Credo che sia quello che ho cercato di fare, e penso di averlo fatto piuttosto bene. Talvolta, anche se soltanto a livello teorico, ci sono riuscito. Per quanto concerne la vita quotidiana, invece, non penso… Le mie origini piccolo-borghesi rappresentano per me un impaccio di cui cerco continuamente di liberarmi […] È semplicemente come se avessi un paraocchi e la mia visione fosse sempre più limitata. Cerco di continuo di strapparlo via e ridurlo in pezzi, ed è proprio allora che le cose si fanno pericolose, immagino» (p. 141).

Il 1983 è l’anno in cui esce Let’s Dance e ciò coincide con il successo internazionale nelle classifiche di vendita ma anche con il diffondersi tra i vecchi fan di una certa delusione per la strada intrapresa. È in tale contesto che si tiene “L’intervista su The Face” di David Thomas (1983) per “The Face” (UK) conclusasi con un’affermazione che, come afferma Sean Egan nell’introdurre il pezzo, sembra uscita più dalla bocca dei Clash che da quella di Bowie. Alla domanda di David Thomas circa quale consideri il crimine che più di ogni altro gli procuri indignazione, così risponde il musicista: «Vedere un uomo che umilia le sue capacità lavorando per qualcun altro, e doverlo accettare come un dato di fatto […] Sì, penso che sia davvero un crimine, un crimine continuo, che probabilmente causa più problemi sociali di qualsiasi altra cosa» (p. 170).

bowie-on-bowieDopo Let’s Dance (1983) è la volta di Tonight (1984) e dopo un periodo di silenzio con la stampa, che in molti imputano al timore di dover rendere conto della qualità delle ultime produzioni, Bowie si concede ad un giornalista notoriamente benevolo nei suoi confronti: “Sermone dal Savoy” di Charles Shaar Murray (1984) per “New Musical Express” (UK). Nel corso della conversazione Bowie si sofferma sul ruolo politico che possono rivestire gli artisti e sulle questioni sociali che attraversano il suo paese: «ha senso che le persone che svolgono le cosiddette professioni artistiche facciano incursioni in territori dove possono far valere le proprie competenze. Di contro, senza una profonda conoscenza dei problemi sociali dei nostri tempi è molto pericoloso fare incursioni in territori dove possiamo essere influenzati da forze esterne. È essenziale non farsi trascinare, e penso che per gli artisti che come me hanno una conoscenza solo superficiale del sistema politico e sociale sia un rischio schierarsi sotto qualsiasi bandiera politica» (p. 182).
Murray chiede anche a Bowie se si vede protagonista di qualche rivoluzione musicale ottenendo come risposta: «Nel rock penso sia molto difficile… Dopo aver espresso il tuo punto di vista iniziale, a meno che non se ne possa adottare più di uno, è difficile concepirne un altro che abbia la stessa potenza del primo. Per quanto mi riguarda, i primi anni settanta sono stati la mia occasione. Non credo che potrò impormi di nuovo come allora» (p. 188).

Dopo l’uscita di Never Let Me Down (1987) Bowie entra a far parte dei Tin Machine ed insieme al gruppo rilascia l’intervista “Boys Keep Swinging” di Adrian Deevoy (1989) per “Q” (UK). Nel corso del colloquio Bowie non manca di criticare le sue ultime produzioni da Let’s Dance a Tonight e Never Let Me Down ed ha modo di dichiarare la sua ammirazione per alcune band hardcore, trash metal e speed metal che ha avuto modo di ascoltare in America.
Durante il tour promozionale del secondo album dei Tim Machine, a Dublino viene rilasciata l’intervista mai pubblicata “Tin Machine II” di Robin Eggar (1991). Il tono della conversazione a cui partecipa la band è divertito.

L’uscita quasi in contemporanea dei dischi degli Suede e di Bowie è invece al centro di “Un giorno, figliolo, tutto questo potrebbe essere tuo…” di Steve Sutherland (1993) per “New Musical Express” (UK). Quella che doveva essere un’intervista al solo Bowie in uno studio di Camden, finisce per trasformarsi in un curioso scambio di impressioni tra Brett Anderson degli Suede e David Bowie sulla musica in senso stretto e sul mondo che gira attorno ad essa.

“Station to Station” di David Sinclair (1993) per “Rolling Stone” (USA) è invece una sorta di resoconto del “tour della memoria” che Bowie organizza a Londra alla ricerca dei suoi anni Settanta proprio in un periodo in cui quel decennio sembra essere tornato di moda. Si passa dalla visita al palazzo di Soho in cui si trovavano i Trident Studios ad un occhiata a quel che resta dei pub allora in auge nel South London, come il Thomas à Becket ove provavano Bowie ed i primi Spiders from Mars, poi è la volta di un salto nel cuore della città ad Heddon Street, dietro a Regent Street, ove è stata scattata la foto per la copertina di Ziggy Stardust, dunque un passaggio dal negozio in Charing Cross Road ove comprò il suo primo sassofono, poi la visita ai resti del Marquee Club ed all’Hammersmith Odeon (rinominato Hammersmith Apollo)… La conversazione si chiude su Mick Ronson, ormai malato terminale.

“Boys Keep Swinging” di Dominic Wells (1995) per “Time Out” (UK) è una doppia intervista che coinvolge, oltre a Bowie, anche Brian Eno e tocca soprattutto gli interessi artistici extra-musicali dei due. Anche in “Action painting” di Chris Roberts (1995) per “Ikon” (UK) la musica ha uno spazio per certi versi secondario; la conversazione tra Roberts e Bowie verte soprattutto sul postmodernismo, la recitazione e la letteratura.

In “Un geniale vecchiaccio” di Steven Wells (1995) per “New Musical Express” (UK) si salta repentinamente da un argomento ad un altro con una certa disinvoltura; si passa dalla fascinazione provata da Bowie per il misticismo nazista a metà anni Settanta, proprio quando l’estrema destra inglese sta facendo proseliti in Inghilterra, alla ricerca di spiritualità ed alla cupezza della gioventù americana… il tutto inframmezzato da qualche riferimento musicale in cui l’intervistatore ama insistere sui dischi di Bowie ritenuti peggiori.

«David Bowie è tra quei pochi che hanno direttamente influenzato il corso della musica popolare. Forse si può persino dire che Bowie è l’unico musicista che è riuscito a cambiare il volto del rock più di una volta nel corso della sua carriera» (p. 307). Da tali premesse prende il via l’intervista “Non è più A Lad Insane” di HP Newquist (1996) per “Guitar” (USA) che intende parlare soprattutto dei chitarristi con cui ha avuto a che fare Bowie: Mick Ronson, Robert Fripp, Reeves Gabrels, Adrian Belew, Carlos Alomar, Trent Reznor, Stevie Ray Vaughan…

bowie_mcqueenNel caso di “Fashion: turn to the left / Fashion: turn to the right” di David Bowie e Alexander McQueen (1996) per “Dazed & Confused” (UK), assistiamo ad una conversazione telefonica tra Bowie e lo stilista Alexander McQueen, British Designer of the Year del 1996. I due, un paio di anni prima, avevano concepito la redingote con la Union Jack indossata dal musicista anche per la foto della copertina di Earthling (1997) ed in questa chiacchierata discutono di moda evitando di prendersi troppo sul serio.

“Una stella ritorna sulla terra” di Mick Brown (1996) per “Telegraph Magazine” (UK) passa in rassegna i momenti salienti della carriera di Bowie fino alle soglie del suo cinquantesimo compleanno. In chiusura il pezzo iriporta un’affermazione di Brian Eno riferita esplicitamente all’amico: «Essere un camaleonte come lo era David è quantomeno poco convenzionale […] La cosa peggiore che possa capitare a una persona è non avere una chiara percezione di sé ed esserne terribilmente preoccupati. Ma io credo che sia arrivato alla conclusione che o si ha una percezione molto chiara di se stessi oppure non ci si preoccupa di non averla. Ora pensa solo: “Chi se ne importa!”» (p. 339).

“Changes Fifty Bowie” di David Cavanagh (1997) realizzata per “Q” (UK) è un’intervista raccolta in buona parte durante un tour americano. «All’inizio del 1996 Bowie è stato inserito da David Byrne nella Rock and Roll Hall of Fame di New York. Poi ha ricevuto il premio Outstanding Contribution to British Music al Brits di Londra. A novembre ha completato il suo ventunesimo album in studio, Earthling. Quest’anno David Bowie diventerà la prima rockstar quotata in borsa con titoli azionari a suo nome per un valore tra i trenta e i cinquanta milioni di sterline. Il giorno dopo il suo compleanno Bowie terrà un concerto di beneficenza al Madison Square Garden, dove la sua band di quattro elementi si arricchirà di ospiti speciali come Lou Reed, Foo Fighters, Sonic Youth e Robert Smith dei Cure. Nelle settimane che seguiranno a quell’evento Bowie vorrebbe dedicarsi alla lettura di un paio di sue biografie pubblicate di recente, Loving the Alien di Christopher Sandford e Living on the Brink di George Tremlett» (p. 341). Questo inizio di intervista sintetizza bene lo stato del successo di Bowie alla fine degli anni Novanta. Il pezzo di Cavanagh ha un po’ il tono di chi intende tracciare il bilancio della carriera di una popstar cinquantenne ancora ostinatamente sulla breccia.

Al bilancio della carriera sembra mirare, sin dal titolo, anche “Bowie. Una retrospettiva” di Linda Laban (1997) per “Mr. Showbiz” (USA). L’incipit dell’intervista conferma l’impressione: «David Jones nasce tra le macerie di una Gran Bretagna postbellica e cresce in una tetra periferia del sud di Londra. All’inizio degli anni settanta, David Bowie scuote la scena della musica hippie con una straordinaria visione apocalittica che, da allora, ha influenzato gruppi che vanno dai Cure ai Nine Inch Nails. Incapace di fermarsi un attimo, Bowie ha portato avanti un processo di reinvenzione artistica, se non addirittura personale, che può essere vista sia come una trasformazione calcolata che come un’ambiziosa ridefinizione della propria vita e della propria arte» (p. 354). Al di là della retrospettiva non mancano però alcune domande in cui l’intervistatore chiede a Bowie del suo rapporto con l’allora giovane mondo di internet.

Nel corso della promozione newyorchese di ‘hours….’ Bowie rilascia l’intervista “E ora dove avrò messo quei dischi?” di David Quantick (1999) per “Q” (UK) ed a proposito del nuovo album afferma: «ho cercato di catturare l’idea di canzone della mia generazione, perciò mi sono dovuto calare psicologicamente in una situazione di insoddisfazione nei confronti della vita, che nel mio caso non era reale. Dovevo crearmele le situazioni. Molto gira attorno a questo tizio che si innamora e si disinnamora ed è deluso e via dicendo. Non l’ho vissuto davvero, ma è stato un buon esercizio cercare di catturare ciò che vedevo, persino tra i miei amici, quel genere di vite vissute a metà, ed è proprio triste ma non ci si può fare niente, e loro si sentono incompleti, delusi e via dicendo» (p. 369).

“Bowie: l’uomo più elegante” di Dylan Jones (2000) per “GQ” (UK) è una conversazione con il musicista che nasce dal suo essere stato eletto “uomo più elegante dell’anno” dalla rivista. Degna di nota l’affermazione in chiusura di pezzo in cui Bowie dichiara: «Ho iniziato a introdurre le vecchie canzoni nei concerti attorno al ’97, quando ci esibivamo nel circuito dei festival estivi. In un contesto del genere c’è da presumere che non tutti siano venuti per te. Devi pensare: ‘Che cazzo, meglio che gli faccia ascoltare qualcosa che conoscono!’» (p. 382).

“Vale più di un mucchio di album di successo, questo. Grazie mille” di John Robinson (2000) per “New Musical Express” (UK) è un’intervista a Bowie fresco della coraggiosa, quanto (decisamente) opinabile, nomina da parte della rivista di “artista rock più influente di tutti i tempi”. Il tono proposto dall’intervistatore è dunque all’insegna della celebrazione e, per stemperare un po’ il clima, Sean Egan, introducendo il pezzo pubblicato da “New Musical Express”, afferma: «quest’intervista confermerà la principale obiezione dei detrattori di Bowie, ovvero che l’artista è spesso sembrato motivato non dall’amore verso il rock o il pop ma verso il proprio ego. O per dirlo con parole sue: ‘Ero sempre più interessato a cambiare ciò che io percepivo come musica pop…’» (p. 384).

All’insegna della ricostruzione della carriera è anche “Contatto” di Paul Du Noyer (2002) per “Mojo” (UK). Nonostante la recente uscita di Heathen (2002), l’intervistatore concede al nuovo album poco spazio preferendo passare in rassegna le tappe principali della carriera di Bowie dagli esordi sino alla “trilogia berlinese”. Così Bowie sintetizza la sua decisione di intraprendere, in giovane età, la strada musicale: «Amavo l’arte, il teatro e i tutti modi in cui ci si può esprimere con la cultura, e pensavo davvero che il rock fosse un ottimo modo per non dovervi rinunciare. Si possono infilare i mattoncini quadrati nei fori rotondi: incastrandoceli a forza finché non entrano. È un po’ quello che cerco di fare: un po’ di fantascienza di qui, un po’ di kabuki di qua, un filo di Espressionismo tedesco di là. È come se fossi circondato da amici […] Non sapevo scrivere una canzone, non ero particolarmente portato. Mi sono sforzato di essere un bravo cantautore, e sono diventato un bravo cantautore. Ma non avevo predisposizioni naturali. Ho lavorato tantissimo per diventare bravo. E l’unico modo che avevo per imparare era osservare gli altri» (pp. 396-397).

bowie_somaNichilismo, esistenzialismo e fine del mondo sono al centro di “David Bowie: una vita sulla terra” di Ken Scrudato (2003) per “Soma” (USA). «Ma non ero andato lì per parlare delle sonorità della chitarra o di produttori e sprecare un’opportunità. Che siano le riviste musicali a occuparsi di certi argomenti […] Volevo sapere questo: David, in questo nuovo mondo postmoderno, così sconcertante e deludente, perché e come diavolo fai a farlo ancora?» (p. 407). Così inizia il pezzo di Scrudato per “Soma”, rivista che si autodefinisce “voce e visione influente di arti avanguardistiche, moda, cultura e design”. Questa è, in definitiva, la risposta di Bowie circa cosa diavolo lo spinge a continuare per la sua strada: «Non so quante altre cose ancora mi restano da fare, sai? Ma fare musica è senz’altro in cima alla lista. Mi diverte moltissimo; adoro scriverla, adoro crearla. E penso che ognuno di noi abbia una passione che lo assorbe, della quale possiamo nutrirci: una storia d’amore con la vita. Penso che sia una sensazione che sta diventando sempre più difficile da accendere, ma cos’altro potrei fare se non questo?» (p. 413).

Sulle note di The Loneliest Guy, una ballata al piano piena di tristezza e nostalgia, si apre l’intervista “Un giorno perfetto” di Mikel Jollett (2003) per “Filter” (USA) e le prime tre considerazioni che il giornalista annota sul taccuino sono: «Pensiero 1: Questa canzone la sentiremo spesso alla radio. Pensiero 2: La sua sarà una rentrée niente male. Pensiero 3: Amo il mio lavoro» (p. 416).
Quando la conversazione si sofferma su Andy Warhol, artista a cui spesso, forse troppo ed a sproposito, è stato associato Bowie, così liquida bruscamente la questione il musicista inglese: «Non l’ho mai conosciuto. Voglio dire, cosa c’era da conoscere? Andy era difficile da inquadrare. Ancora oggi mi chiedo se nella sua mente passasse qualcosa. A parte le cose superficiali che diceva. Non so se facesse dei pensieri profondi, davvero non lo so. O se invece era solo un’astuta checca che aveva centrato lo Zeitgeist, ma non con l’intelletto. Diceva solo cose come (imitando perfettamente la parlata effeminata e strascicata di Andy Warhol): ‘Wow, hai visto chi c’è lì?’. Non andava mai, dico mai, più a fondo di così. (Adottando nuovamente la parlata strascicata.) ‘Accidenti, ma ha un aspetto fantastico. Quanti anni avrà ora?’. Di certo Lou [Reed] conosceva Andy molto, molto meglio di me. E lui dice sempre che nella sua testa ne passavano di cose. Ma io non ho mai avuto questa impressione» (p. 418).

Nell’ultima intervista proposta da Sean Egan, “Te la ricordi la tua prima volta?” di Paul Du Noyer (2003) per “The Word” (UK), il giornalista «ci fa capire come il rapporto tra un fan e un artista possa cambiare quando il primo diventa un giornalista professionista che si ritrova spesso vicino il suo vecchio idolo» (p. 425). Così scrive Paul Du Noyer: «La mia fedeltà verso Bowie non è mai vacillata nel corso degli anni settanta. Se mi rifiutai di vedere il magnifico tour di Ziggy Stardust è perché, da adolescente snob quale ero, non sopportavo i nuovi fan, quelli che lo avevano appena scoperto. E benché amassi Aladdin Sane e Diamond Dogs non riuscivo a tollerare le zazzere cremisi, le calzamaglie e la generale sgradevolezza dello stile glam rock. Quando si trasformò nel soul boy di Young Americans iniziai finalmente a considerare il look di Bowie accettabile, e nel 1976 decisi di seguire il suo nuovo grande tour, quello in cui nelle vesti del Sottile Duca Bianco promuoveva Station to Station […] In seguito andai a vederlo tutte le volte che si esibì a Londra: prima accanto a Iggy Pop nel 1977, poi all’Earls Court e infine nel 1983, quando fece tappa in città con il Serious Moonlight Tour, quello che promuoveva l’album della svolta commerciale (Let’s Dance) […] Negli anni ottanta un David più solare si mise a passeggiare lungo i boulevard del pop. Ma io non vidi in ciò un miglioramento. Mentre gli eccessi fisici e i disordini mentali degli anni settanta furono almeno accompagnati da album meravigliosi (Ziggy Stardust, Low e così via), il decennio successivo lo vide andare avanti per forza d’inerzia e pubblicare dischi mediocri come Never Let Me Down. Ero in preda alla disillusione […] Oggi Bowie considera quello un periodo di crisi creativa» (p. 439).

L’ultima intervista pubblicata dal volume si tiene nel novembre del 2003, successivamente escono The Next Day (2013) e l’antologia Nothing Has Changed (2014). L’ultimo album di David Bowie viene pubblicato l’8 gennaio 2016, un paio di giorni prima della morte, inevitabilmente accolto come una sorta di testamento recante come titolo una semplice blackstar.

Su Carmilla, il nostro Dziga Cacace, in un pezzo intitolato David Bowie, ecco, steso di getto a ridosso della scomparsa del musicista, nel gennaio del 2016, scrive «giusto due righe sulla parentesi musicale che tutti stanno dimenticando e che invece è paradigmatica di come Bowie sia stato un artista geniale, capace di reinventarsi ogni volta. Mi riferisco a quando ha deciso di far parte di una band, con identici diritti e doveri dei compagni di squadra: i Tin Machine, esperienza non solo sottovalutata ma anche apertamente osteggiata da tantissima critica dell’epoca e mai pienamente rivalutata dopo». A conferma di quanto scritto dal nostro, in diverse interviste tra quelle selezionate e pubblicate da Sean Egan, l’ostilità della critica musicale anglosassone nei confronti dell’esperienza di David Bowie con i Tin Machine è esplicita e ripetuta.

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