testi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Trickster rant, ovvero il ritorno della Figliastra…. https://www.carmillaonline.com/2018/02/11/trickster-rant-ovvero-ritorno-della-figliastra/ Sat, 10 Feb 2018 23:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43434 di Pina Piccolo*

Di noi sono state dette molte cose… ogni cosa e il suo contrario;

troppe cose:

che siamo sradicati e senza radici, che obiettiamo a radicarci nel vostro territorio o non lo facciamo in maniera adeguata; oppure che cerchiamo in troppi di radicarci qui e stiamo sradicando voi…

se siamo sradicati, che per questa nostra ostinazione, per definizione facciamo parte del mondo del disagio (che come si sa fa girare l’economia e dà posti lavoro)

ormai, per gli operatori del disagio, con i nostri numeri abbiamo sostituito i pazzi, e così avendo chiuso i manicomi, avete approntato i CPT, [...]]]> di Pina Piccolo*

Di noi sono state dette molte cose… ogni cosa e il suo contrario;

troppe cose:

che siamo sradicati e senza radici, che obiettiamo a radicarci nel vostro territorio o non lo facciamo in maniera adeguata; oppure che cerchiamo in troppi di radicarci qui e stiamo sradicando voi…

se siamo sradicati, che per questa nostra ostinazione, per definizione facciamo parte del mondo del disagio (che come si sa fa girare l’economia e dà posti lavoro)

ormai, per gli operatori del disagio, con i nostri numeri abbiamo sostituito i pazzi, e così avendo chiuso i manicomi, avete approntato i CPT, i Cie, gli hub, riversandoci dentro noi questa nuova popolazione, vittima di disagio. 

A volte persino lo stesso personale addestrato al disagio precedente si è visto, con la perdita del primo grazie al contenimento chimico, aprirsi la prospettiva di occuparsi del disagio di questo altro Altro.  I vostri pargoli, a cui in passato per tenerli occupati, nella cronica situazione di disoccupazione giovanile italica, facevate fare  per qualche anno collaborazione allo sviluppo nei paesi che chiamate del “Terzo Mondo” (ignorando che prima, durante la Guerra Fredda, veniva utilizzata questa etichetta per i paesi non allineati e poi in seguito venne adoperata per i cosiddetti “paesi in via di sviluppo”).  Adesso non più nel “Terzo mondo” (e chiamiamolo così anche se è pieno di pozzi di petrolio, anche se ha storia più antica di quella di Roma),  gli fate fare una specie di servizio civile internazionale (oltre a quello ufficiale delle “missioni di pace”), adesso i vostri figli ve li tenete occupati vicini vicini, nelle vostre cooperative in cui, per 400 euro al mese, a tempo pieno, ci dovrebbero insegnare l’italiano per permetterci così di integrarci e alleviare il nostro disagio, E gira così, con fare postmoderno, la ruota della storia –AGIO e DISAGIO-  AGIO –DISAGIO celando e rivelando i logori rapporti umani di sempre.

Spostandoci poi dal disagio in cui versiamo noi a quelli che creiamo per voi, oltre a rubarvi il vostro potenziale lavoro, in genere siamo d’intralcio al vostro gusto estetico, cioè per voi non siamo proprio belli a vedersi, non rientriamo nei vostri canoni di bellezza:

portiamo in testa fazzoletti e foulard avvoltolati nelle fogge più bizzarre, strani copricapi, colori chiassosi che cozzano con i vostri colori del mese decisi dal Made in Italy, con il vostro capello spettinato ad arte e la gambetta mandata all’angolazione giusta dal tacco,

i nostri mocassini marocchini cozzano col vostro tacco 12 che indossate per “sentirvi a posto”, mentre noi i nostri veli li portiamo perché costrette,

ebbene sì, siamo ingombranti,

anche se talvolta, mossi da pietà volete fare sfilare il nostro slanciato, muscoloso corpo watussi a Pitti Uomo, così prendete due piccioni con una fava, oltre a far godere il vostro occhio ci fate del bene, cercando di integrarci nel sistema Moda italiano.

Dite che vi deturpiamo la purezza della razza.

Fate capire che è ora di far nascere degli angioletti biondi italiani.

Le ministre vi consigliano di evitare certe compagnie.

Dite che ci intrufoliamo perché facciamo parte di un piano internazionale per sostituirvi,

e dal sud degli Stati Uniti alla Polonia si leva il grido è “You will not replace us” cioè,  “Voi non ci rimpiazzerete”

Noi minaccia o amorfa epifania (pare che già 40 anni fa Pasolini, col suo terzo occhio un po’ orientalista, ci abbia visti arrivare, in tanti comandati da “Alì dagli occhi azzurri” e sbarcare sulle spiagge di Palmi), c’è chi ci chiama gli invisibili e col suo buon cuore si dà da fare per metterci in mostra in esotiche gigantografie—sì, le ho viste appese ai muri dei vostri castelli, non me lo sto inventando.

C’è chi si è vinta bandi di fondi europei facendo il casting di questi e queste invisibili nell’androne del palazzo del re Enzo, anche lui una specie di re da un ramo spurio dell’Impero (osservate come tornano i conti) mal accetto a cui il popolo bolognese costruì un palazzo per rinchiuderlo fino alla morte, negandogli riscatto ma in compenso lasciandogli scrivere libri.  Nell’androne del palazzo del re Enzo, alcuni di noi erano ben contenti a farsi ritrarre ed apparire…  E alcuni di noi pensavano che se avessimo fatto video con i nostri pargoletti inneggianti alla pizza e agli spaghetti, rassicurando l’autoctono che mai avrebbero essi pronunciato la parola cous cous, non potevate che accoglierci a braccia aperte alle vostra urne… come infatti non è stato….

E se non siamo invisibili allora pecchiamo di un eccesso di apparenza, cioè dopo aver adoperato le braccia di giorno facciamo fatica a sparire dalle vostre strade e piazze la sera. Ci sentite per i vostri medievali borghi (Italia ottava meraviglia dell’Universo, figuriamoci ora con quel ganzo di Alberto Angela e i suoi 25 milioni di telespettatori, nazione con il maggior numero di siti Patrimonio Unesco di qualsiasi altro paese al mondo), con i nostri linguaggi strani che non sussurriamo sottovoce ma che gracchiamo ad un certo volume. “Ormai sono tutti di loro. Amarcord quando la sera si facevano le vasche in tutta tranquillità, adocchiando le nostre belle ragazze, dotate di cuore grande. E adesso ci tocca sentire questi che urlano nel loro iPhone ultimo modello. Tra l’altro che buzzurri a manifestare in maniera così cutting edge il loro essere arrivati – si limitassero a un Nokia di 10 anni fa, che va benissimo per quello che gli serve”. “Se proprio dovete stare per strada o ve ne state nelle strade che vi diciamo noi, dove la sera c’è il via vai di chi trova esotica la vostra pelle nera. Che ormai siete diventate il rito di passaggio per i bravi ragazzotti di qua che prendono la patente. Pensate un po’, il quiz a crocette del guidatore- l’ultima domanda premio e chi la indovina viene accompagnato direttamente dall’ingegnere che gli ha somministrato l’esame. Altro ché una volta, quando c’era Lui, che tuo padre, con un certo piglio, quella solennità di uomo d’altri tempi, ti portava alla casa chiusa per il viril passaggio, ad aspettare il turno tra bellezze italiche en deshabillé.  Ora invece appena superato l’esame di patente, evvai, lì sulla collinetta appenninica a cercarle. Pare che ci vadano anche i giovani immigrati. Anche loro cercano d’integrarsi ai nostri costumi. Hanno anche i materassi dispersi per le campagne. Occhi dolci di gazzella. Nel vostro luogo deputato. Visto un altro primato nostro linguistico…. Da che cosa viene l’espressione “luogo deputato? “nel dramma liturgico medievale, costruzione in legno, tela e simili che veniva innalzata sul palco per rappresentare gli edifici e i luoghi della passione di Cristo o di altre vicende sacre.” Oggi anche voi, faccette nere, belle abissine, godete di un luogo deputato tutto vostro per rappresentare la vostra di Passione.

———————–Stacco——————————

Noi quelli e quelle dell’esilio, della malinconia,

privi di lingue madri, o con sovrabbondanza di lingue matrigne che secondo gli autoctoni parliamo con strani accenti, oppure noi parlatori di lingue imbastardite, che i vostri dotti ricercatori denominano contaminazioni, innesti, ibridi, meticci, insomma non superbi cavalli arabi ma Ronzinanti della lingua.

Noi orfani di identità, che siamo una vergogna per il nostro paese d’origine, oltre che segno di disagio per quello di arrivo (pur essendoci arrivate da varie generazioni).

Sì, ‘sti buzzurri, che osano rappresentare la madrepatria- urna di beltà passate- con la propria miseria, omini e femmine “sanza lettere”, con qualche sporadico letterato in fuga pronto ad abbracciare altre lingue. Che poi i letterati del luogo stentano a riconoscer loro la maestria.  Diventano, se gli va bene, sottoprodotto di nicchia, se no direttamente prodotto di scarto, semplice biografia, testimonianza, mai all’altezza della Letteratura Vera.

Noi, che quando torniamo non ce la facciamo a moderare la nostra dismisura, negli anni 60 ce ne tornavamo con Cadillac e tailleur rosa, vistoso pugno nell’occhio al bon ton italiano allora dedito allo scialbo beigiolino del tailleur imposto dalla classicità. Ora invece il nostro Progetto Migratorio Inverso prevede l’apertura di officine specializzate in Maserati, Lamborghini e Ferrari…. Macchine che sfoggiavamo dopo decenni di arduo lavoro nel paese d’arrivo per far vedere che eri arrivato… e che ora qui nel paese natio o in quello dei tuoi avi ti guardano con l’occhio storto, come volessi prenderli in giro. Ti guardano come se tu fossi il Convitato di pietra che ha bussato e vuole sedersi alla loro tavola. Ti guardano con quell’occhio protervo con cui il Figlio guardava la nuova famiglia della Madre, nei “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Oppure, a te malvoluto ritornato, ti salta in mente di aprire un bar letterario, dove sarai pur padrone di mettere in scena le tue scritture e quelle dei tuoi.  Mica sempre a mendicare uno spazio a questo o a quello? Scomodare assessori e Regione? Ma chi te l’ha fatta fare a tornare? Stavi tanto bene (forse poi non tanto) lì dov’eri…

E infatti, non l’hai voluta ascoltare la parabola del buon Steven King “A volte tornano”, ed eccoci zombie, peggio di Ulisse, riconosciuto solo dal fedele cane Argo, colpito subito da coccolone e muore lì sul posto.  Qui non ti riconosce proprio nessuno… potresti essere un turista qualunque….  Un migrante qualunque…  Un barista qualunque… Se non fosse che sai troppe cose e spesso gliele spiattelli così e li zittisci, e poi ti considerano anche superbo.  Non sai stare al gioco.  Non sai quando dopo un conflitto, la cosa deve rientrare, come sono stati addestrati loro da decenni, avvezzi ormai al ritiro in buon ordine, formati dalla quotidiana frequentazione della politica locale.  Dopotutto già dalla letteratura delle origini si evinceva il diktat: “Vuolsi così colà dove si puote/ e più non dimandare”. Forse vieni da un posto in cui il livello di conflitto è più alto e non ti sai adeguare.

No, tu nel tuo bar vuoi mettere in scena chi vuoi tu e chi chiami come prima attrice, se non La Figliastra….

———————————–STACCO——————————————————–

Questa appare come un lampo a ciel sereno, non come una fioca Madama Pace evocata nel retrobottega, irrompe con grande fragore sul palcoscenico del nuovo Bar Il Trickster, LA FIGLIASTRA, personaggia non tanto in cerca di autore, ma determinata a sfogare il suo rancore, da cui il titolo Trickster rant…  è abbigliata non più nell’abito nero del lutto ma in uno spettacolare abito della LF Design, della camerunese-Italiana Leatitia Feugaing, linea indubbiamente più fortunata di quella della ObOb Exotic Fashions di Castel Volturno estintasi con i 7 immigrati africani uccisi nel suo outlet nel 2008 dalla Camorra. Oggi, la Figliastra porta abiti che combinano tessuti africani e linee europee. La sua risata è sì stridula, e ce l’ha ancora con il Padre, la Madre, il Figlio mentre la Bambina continua ad annegare, stavolta non nella vasca ma è nel Mediterraneo, che annega la bambina in tutte le colorazioni possibili e immaginabili. E il Giovinetto è là con la sua pistola che inetto non sa fare altro che far partire il colpo verso se stesso. E lei la Figliastra è lì, che li vuole inchiodare tutti alle loro responsabilità

“Sé, sono tornata, mancano tre anni al centenario della nostra prima scandalosa rappresentazione, al grido di “Manicomio! Manicomio! “Cento anni, già che ero stanca di andare al braccio di questo e quello nella casa di appuntamenti di Madama Pace, mentre mia madre cuciva e cuciva nel suo retrobottega, come si fa oggi a Prato.  Solo che dopo aver cucito non scuciva come Penelope e il Salvatore non arrivava mai…  allora forse tocca anche a me Salvare- Non ne posso più. “Questo ponte che è la mia schiena” diceva Gloria Anzaldua, chicana, cioè figlia di messicani emigrati, per così dire, nelle terre che adesso risultavano appartenere agli USA, ma che fino a 150 anni fa risultavano essere Messico, e prima ancora erano il favoloso regno di Tenochtitlan. Dopo alcuni anni che cercavo di fare da ponte, derisa e rifiutata da entrambe le sponde, ho deciso invece che mi sarei documentata e gliele avrei cantate, le mie scomode verità …  Ma dove è finita la Figliastra, vi domandavate? Sono quasi cento anni che me ne sto a perdere la vista negli archivi di mezzo mondo, scartabellando nel passato e leggendo negli interstizi del presente, leggendo i segni del futuro disegnati dai writers sui muri delle vostre città … Me l’ha insegnato una zingara addestrata nel suo antro dalla Sibilla Cumana, là nella Terra dei Fuochi, dove oggi si accumulano i rifiuti tossici. Le esalazioni a volte uccidono, a volte rivelano verità occulte.

Allora, riassumendo: vi ricordate quella storia in apparenza scunchiuduta , ovvero sconclusionata, senza né capo né coda, che i Personaggi insistevano il capocomico dovesse rappresentare invece di quell’insulsa commedia “Il Gioco delle parti”? Rammentate, si interrompevano a vicenda, cercavano di fare accettare le proprie ragioni, smentendo gli altri.

Un Padre, dopo aver sposato e avuto un figlio con la Madre la manda a vivere con il suo segretario, tenendosi e allevando il Figlio. La Madre ha dal segretario (la figura del segretario è la meno delineata di tutte) altri tre figli, la Figliastra, Il Giovinetto e la Bambina.  Lo so che mi chiamerete complottista, ma l’avete capita l’antifona? Cioè, il Padre (lo Stato nazionale, in questo caso l’Italia) dopo aver fatto figliare la Madre (popolo) la manda a vivere altrove, cioè la costringe alla migrazione (parliamo dei 14 milioni di italiani migrati fuori dall’Italia dal 1876 al 1915 (all’epoca su 33 milioni di abitanti) e gli altri 10-12 milioni, che sono sgocciolati e continuano a sgocciolare via dai patri lidi dal 1916 in poi). Si tiene un Figlio, il legittimo erede, quello che continuerà a guardare gli altri con sguardo protervo. Tornando alla commedia, questo nuovo e spurio nucleo famigliare conduce una vita modesta (come la maggior parte degli emigrati) in questa nuova casa, ma alla morte del Segretario si ritrova priva di mezzi per sopravvivere. Si devono arrangiare. La madre va a cucire (pallida memoria Penelopea) nell’atelier di Madama Pace per pochi centesimi (mi pare che la storia degli sweatshop sia stata magistralmente messa in scena già nel 1921) ma stentano a campare. L’avvenente Figliastra viene irretita da Madama Pace, che in verità sopra il retrobottega cucereccio gestisce una casa di appuntamenti (come si diceva all’epoca).  La Figliastra però non pare essere molto contenta di fare la sex worker, sarà che ha una mentalità ancora un po’ puritana e lungi dal diventare un’attivista per la legalizzazione della prostituzione accumula rancore fino a quando, nella scena madre (perché mai si dirà così) quella del denouement o dell’agnizione (anche se molesta, da non confondersi con la puntura) viene avvistata dalla Madre al braccio del cliente Padre. E allora, apriti cielo! Non pago di questo dramma già bello tosto di suo, su questo scombinato nucleo famigliare continuano ad abbattersi le sfighe: in un attimo di distrazione da parte dei grandi, la bambina inseguendo paperelle cade nella vasca e affoga, il fratello Giovinetto, sentendosi in colpa, esplode un colpo e si uccide. – badate bene chi è vittimizzato in questa parabola se non i più giovani? Vi ricorda forse qualcosa? Il Figlio, il coccolato legittimo, ce lo ricordiamo sempre con quello sguardo protervo di disprezzo verso il ramo indesiderato della famiglia- non vorrei mettervi parole in bocca, ma non vi ricorda forse qualcuno?

Comunque, riprendendo le fila, il Capocomico, poco convinto del potenziale di marketing della storia, li caccia tutti indiscriminatamente in malo modo, e il tutto si chiude con la risata sguaiata della Figliastra.

Ora, da figlia cacciata della Nazione, tornata per lanciare il mio Je accuse, dopo la farsa messa in scena sullo Ius Soli, sarei nuovamente tentata di lanciare un’altra stridula risata.  Ma la mia frequentazione di archivi vari in questi novantasette anni dalla prima rappresentazione mi fornisce strumenti metodologici ben più sofisticati quindi capovolgendo la situazione rivolgo a voi pubblico le seguenti domande e giuro che come una Erinni non vi darò pace fino a quando non avrete risposto o almeno cercato delle risposte:

  • Se una nazione nel corso di 150 anni perde 26 milioni di persone costrette a migrare, tra queste la maggioranza gente ambiziosa e coraggiosa, che non accetta di fare la fame, sottostare a governi iniqui, o vedersi tarpate le ali, c’è forse qualche impatto sul patrimonio genetico di chi rimane? Se il mero discorso biologico vi sconvolge, buttiamoci sul politico.  Allora, che cosa significa per lo Stato avere una valvola di sfogo da aprire  prima che si prospetti la minaccia che i nodi vengano al pettine dello Stato?
  • Che cosa accade se uno Stato disdegna i propri figli ed è disposto non solo a lasciarseli scappare, ma addirittura li caccia  e rifiuta di riconoscere quelli che arrivano da altri lidi, o che sono figli di quelli arrivati da altri lidi (anche lì in gran parte gente ambiziosa, che non vuole fare la fame, morire di guerra, sottostare a governi iniqui o vedersi tarpate le ali?)
  • Che impatto ha tutto questo sul versante artistico? Che cosa succede quando serri le palpebre per non vedere i film che questi nipotini tornati ti fanno, ambientati in Italia, sulla migrazione, sui Rom, sulla ndrangheta (Jonas Carpignano, il film “Mediterranea”, il film “A Ciambra”, la loro mancata distribuzione nelle sale italiane vi dice qualcosa?) E per quanto riguarda la prole di chi viene da altri lidi? Non è che come la Mussolini dobbiate sempre continuare a non capire chi vi fa il verso, chi vi spiattella in faccia il vostro immaginario bacato, come ha fatto in diretta Bello Figo?
  • Quando parliamo di traduzione dobbiamo per forza limitarci sempre a quel trito e ritrito  traduttore –traditore che le mummie accademiche sfoggiano con ricchezza di aneddoti sulle loro capacità di monolingue che  si lancia verso l’ignoto? O possiamo parlare dell’abominabile bilingue-trilingue, nata dall’incrocio dei mondi, che fin dalla nascita ha in testa e sulla lingua multipli idiomi, a otto anni accompagna i genitori ‘stranieri’ per uffici facendo da interprete. E’ forse una bambina disagiata che bisogna segnalare ai servizi sociali, o invece una precoce trickster che si barcamena nella Babele a volte producendo corto circuiti selvaggi a volte  creazioni epifaniche? L’arricchimento dei registri, la capacità di vivere con molteplici identità e lingue, di creare opere d’arte adatte al 2018 da queste Torri di Babele ricostituite, di non fossilizzarsi in univoche culture vi dice qualcosa?  Dobbiamo per forza rimanere attaccati a un canone unico nella complessità e le sfaccettature che caratterizzano il periodo storico in cui viviamo? A voi l’ardua sentenza

 

*Macchinista de La Macchina Sognante e The Dreaming Machine

]]>
Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati. Su Fatti vivo di Chandra Livia Candiani https://www.carmillaonline.com/2017/09/29/guerrieri-indifesi-bisogno-mondo-sacra-ira-occhi-spalancati-fatti-vivo-chandra-livia-candiani/ Fri, 29 Sep 2017 06:39:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40888 di Giorgio Morale

Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, 2017, pp. 176, € 13,50

Il dolore degli altri / non mi sta in mano

Già il titolo è una sveglia: Fatti vivo. L’incontro delle due parole determina quella che Jurij Lotman chiama “esplosione di senso”, “provocata dall’intersecarsi di immagini della realtà che non potrebbero intersecarsi altrimenti”. Il titolo esercita la duplice funzione di presa di contatto con il lettore e di esortazione. Occorre “farsi vivi” e “farsi vivi” richiede una pratica quotidiana che bandisca inerzie e narcisismi. Con Fatti vivo (Einaudi 2017) Chandra [...]]]> di Giorgio Morale

Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, 2017, pp. 176, € 13,50

Il dolore degli altri / non mi sta in mano

Già il titolo è una sveglia: Fatti vivo. L’incontro delle due parole determina quella che Jurij Lotman chiama “esplosione di senso”, “provocata dall’intersecarsi di immagini della realtà che non potrebbero intersecarsi altrimenti”. Il titolo esercita la duplice funzione di presa di contatto con il lettore e di esortazione. Occorre “farsi vivi” e “farsi vivi” richiede una pratica quotidiana che bandisca inerzie e narcisismi. Con Fatti vivo (Einaudi 2017) Chandra Livia Candiani manifesta piena consapevolezza della propria poetica (“Il nudo / lo spoglio / ha splendore”) e rende esplicite urgenze implicite ne La bambina pugile (Einaudi 2014). Se nel primo libro appassionava la capacità di accoglienza della realtà, in questo nuovo si è scossi e coinvolti dalle implicazioni sociali ed etiche dell’accoglienza. È una accoglienza che non ha nulla di quietistico e che non arretra di fronte al dolore e al male del mondo: “Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto”. Perciò la poesia di Livia Candiani esprime un desiderio di “aspirare / il cielo” ma anche di “farsi terra e polvere”. Senza opporre barriere e difese: “Lasciati bruciare”.

Il libro segue “la sotterranea trama / che fa di una cronaca / storia” attraverso cui si diventa ciò che si è. Questo processo si realizza con un doppio movimento: dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno. Dalle cose all’io, dalla casa al mondo.

Il portone è “un cuore a orologeria

Nella prima sezione, Il sonno della casa, la bambina è dentro la casa ma è vista dall’esterno. Non è lei a parlare in prima persona, ma gli oggetti della casa, il soffitto, il portone, la maniglia, il muro, i vetri, il sofà a parlare di lei. È la antigrammaticalità della poesia, cioè la non corrispondenza tra il livello grammaticale e il livello del significato. Se a parlare è un frigorifero, una frase come “Accolgo quello / di cui non mi nutro” è corretta sul piano grammaticale, ma sul piano del significato è un assurdo. Queste antigrammaticalità sono inciampi preziosi. Esse rendono l’arte qualcosa di imprevedibile che suscita la nostra meraviglia. Al contempo ci dicono che su di esse bisogna soffermarsi, perché sono la spia attraverso cui cogliere la significanza della poesia.

Questi inciampi sono anche un bellissimo esempio del procedimento dello straniamento. Abitualmente “l’oggetto si trova davanti a noi” scrive Sklovskij, “noi lo sappiamo, ma non lo vediamo”. Lo straniamento consiste nella sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione, nel non chiamare l’oggetto o l’evento col proprio nome, ma nel descriverlo come se lo si vedesse per la prima volta. Scopriamo così che il portone è “un cuore a orologeria”, il pavimento è “un bastimento carico”, il muro è “l’orizzonte verticale”, i libri sono “parole / che di notte sussurrano / da sole”, il sofà è una “astronave”. Così ciò che abitualmente passa inosservato, è reso percepibile con la sua trasformazione in qualcosa di insolito. È la maniglia a farci notare che “Dormono tutti ma lei (la bambina) / scavalca le ore come / camicie di forza e vaga / dritta e impetuosa”, mentre la lampada ha il compito di “Consolare di notte / il gelo della bambina”. E il sofà sa che la bambina ha “un dolore / pari a quello di un adulto / ma senza mondo”.

In queste immagini della bambina trasmesse dalla casa si concentrano meccanismi di metaforizzazione della realtà e personalizzazione dei suoi elementi, che diventano viventi e animati, e questo, oltre a essere un suggestivo espediente stilistico, corrisponde a un processo conoscitivo infantile che anziché allontanarci ci trasporta nell’intimità della bambina.

Dov’è mondo per elefante?

Il processo che si attua nel libro va dunque da una indifferenziazione tra interno ed esterno all’acquisizione della consapevolezza della propria identità. Ciò avviene tramite la rottura della soggezione al padre nella sezione Buio padre (“Io resto, padre, non ti seguo / non eseguo il tuo volere, io resto, padre”) e la conquista di una relazione con il mondo nella sezione Dov’è mondo?Sono buttata in tutto ferito / in questo solo questo mondo” dice la voce poetica. Da qui derivano la capacità e la volontà di cogliere i conflitti tra la propria interiorità e il mondo, e di cogliere i conflitti presenti nel mondo. Poiché “Dov’è mondo per elefante / per leone e rinoceronte / dov’è mondo / per tigre e orso bruno / per lince / per storione e delfino / dov’è mondo per aquila e farfalle / per anatre migratrici / dov’è cielo”. Ma, anche, dal mondo vengono tratte “istruzioni per farsi vivi”, poiché come dice Hölderlin “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”.

L’acquisizione di consapevolezza è contrassegnata sul piano linguistico dal progressivo cambiamento del pronome personale. Prima la bambina è una “lei”, per riferirsi a essa gli elementi della casa usano la terza persona. Con l’uscita dalla casa, con l’avventura nel fuori, a partire dalla sezione Dov’è mondo?, la bambina dice “io”: “ballo ballo nella luce tenue / naturale dove solo gli alberi / e ogni filo d’erba canta / che sono nata per diritto / sono nata per mondo”. In alcune poesie, soprattutto nelle due ultime sezioni Fatti vivo e Chi cade, e nella poesia che chiude la raccolta, la voce che ha la parola parla a se stessa dandosi del tu, come nell’emozione di una identità stabilita e di un dialogo tra sé e sé conquistato attraverso il mondo. E si fa maestra a se stessa: “Vai da sola. / Vai da sola nel mondo grande / abbi paura / portala con te / che ti tiene a terra / ti arma le spalle fa barriera”, “Chiedi l’arte di perdere”, “chiedi agli animali / come si azzarda un orientamento”, “Non smettere di guardare il cielo / ti assegna la precisa misura”, “Allora senti… / … lasciati bruciare…”.

Non c’è io / senza noi / non c’è me

Sentire i conflitti del mondo, e sentirli fortemente, è un passaggio fondamentale, poiché ogni conflitto nel mondo ci interpella, è anche un conflitto tra sé e il mondo. Il respiro, ciò che di più intimo abbiamo, “porta brandelli di mondo”. Viene in mente Rilke: “Non è permesso al creatore di estraniarsi da alcuna forma di esistenza”. L’opera d’arte è basata infatti su attenzione e rispetto per il mondo, per culminare nell’amore. Come dice Iris Murdoch, “Amore significa comprendere, ed è molto difficile, che qualcosa di altro da sé è reale. L’amore, e quindi l’arte e la morale, è la scoperta della realtà”. La grande arte spodesta l’io-monade della tradizione occidentale dal suo trono per fare posto al mondo e all’io stesso in quanto frammento di mondo. “Non c’è io / senza noi / non c’è me”. Non c’è io senza “chi cade”, non c’è io senza “Abu faccia sbriciolata”. Il libro si chiude con la capacità di vivere nello squilibrio tra sé e il mondo e interno al mondo, consapevoli che “Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati”.

Anche Fatti vivo, come La bambina pugile, è un libro da portare con sé, con l’auspicio che possa verificarsi per il lettore quello che nella prima sezione del libro dice Il portone: “quelli che entrano / non usciranno uguali”.

 

]]>
Cronaca dal terremoto a Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2017/09/20/cronaca-dal-terremoto-citta-del-messico/ Wed, 20 Sep 2017 19:59:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40787 di Perez Gallo 

[Cronaca da Città del Messico, pomeriggio del 19 settembre. Ancora si scava e si cercano persone vive tra le macerie, le vittime del terremoto del 19 settembre, di 7,1 gradi Richter, nel centro del Messico sono 225 secondo la protezione civile ma le cifre vengono aggiornate continuamente]

Scrivo a caldo. Perché non riesco a dormire. O forse perché solo così riesco a tenermi nella mente le cose più orribili che ho visto in vita mia. 19 settembre 1985: un terremoto devastante distrugge Città del Messico. 19 settembre 2017: 32 anni [...]]]> di Perez Gallo 

[Cronaca da Città del Messico, pomeriggio del 19 settembre. Ancora si scava e si cercano persone vive tra le macerie, le vittime del terremoto del 19 settembre, di 7,1 gradi Richter, nel centro del Messico sono 225 secondo la protezione civile ma le cifre vengono aggiornate continuamente]

Scrivo a caldo. Perché non riesco a dormire. O forse perché solo così riesco a tenermi nella mente le cose più orribili che ho visto in vita mia. 19 settembre 1985: un terremoto devastante distrugge Città del Messico. 19 settembre 2017: 32 anni esatti dopo, un altro terremoto devastante distrugge Città del Messico. La ricorrenza è stata la prima cosa notata e sottolineata da tutti dopo che per un minuto, o forse un minuto e mezzo, in ogni caso un tempo che ci è sembrato un’eternità, ci ritroviamo in strada, spaesati, confusi, spaventati. Proprio per la ricorrenza, in mattinata, c’è stata una prova antisismica: dei miei amici che studiavano in biblioteca, all’UNAM, sono stati fatti uscire. Nemmeno 3 ore dopo, alle 13.15, ci stavo per andare anch’io all’UNAM, mi stavo giusto preparando. Alle 14 avevo un’assemblea degli studenti di posgrado (master e dottorato) in preparazione per la manifestazione per Ayotzinapa del 26 settembre (sì, settembre è un mese funesto per questo paese disgraziato); alle 16.30 era previsto, a scienze politiche, un incontro con Raúl Zibechi… E invece, d’un tratto, le finestre di camera mia sbattono forte, fortissimo. “Cazzo, ma oggi tutto sto vento non c’è…”. D’improvviso mi precipito fuori, in cortile. Dall’altro lato della casa fanno la stessa cosa i miei coinquilini Hektor e David: “no mames, lo sentiste?”. Schizziamo in strada. Le case della via ondeggiano, si aprono e chiudono a fisarmonica. Tutto il vicinato è in strada. Mando immediatamente un messaggio vocale ai miei, per avvertirli che c’è stato un terremoto, che riceveranno presto la notizia dai giornali, e che sto bene. Un messaggio identico lo avevo mandato la sera del 7 settembre, ma stavolta non si invia, non c’è linea. I cellulari non vanno, non va internet, è saltata l’elettricità, in tutta la città. Una città da 20 milioni e passa di abitanti è totalmente al collasso.

In fondo alla strada, vediamo che dei vicini hanno acceso una radio, l’hanno messa sul cofano, e si sta raggruppando un po’ di gente lì intorno. Andiamo anche noi. Dicono che l’epicentro sia a Puebla, e che la scossa è di 7.1. Merda… Poi viene fuori che l’epicentro è nel Morelos, ma vicino alla frontiera con Puebla: ancora più vicino a noi…
Visto che si sta raggruppando tutto il vicinato, ansioso per i propri cari (un signore ci dice che nel terremoto di 12 giorni fa era morto un suo zio), decidiamo di tornare a casa e preparare un café de olla per tutti, nell’attesa di informazioni. Fino a quando non le avremo, infatti, si può fare ben poco. La linea internet si recupera per alcuni minuti, tempo di mandare qualche messaggio. Poi si perde di nuovo. Nelle varie chat non rispondono all’appello gli amici Bogart e Tonantzin, e qualcuno sta iniziando a pigliarsi male. Poi la connessione si perde di nuovo. Solo molte ore dopo sapremo che stanno bene pure loro. Iniziano ad arrivare informazioni: è crollato un supermercato a Tasqueña e una scuola in Divisiòn del Norte angolo con Calzada de las Brujas. Optiamo per la scuola: recuperiamo 5 litri d’acqua, dei caschi da bici, e delle mascherine, e poi con un compa del barrio ci avviamo tutti assieme in taxi. In strada si va a passo di lumaca, le vie principali sono completamente intasate, e il fatto che i semafori non funzionino per nulla non aiuta. A un certo punto decidiamo che è più comodo a piedi, e ci mettiamo a correre, alternandoci con la tanica d’acqua.

(nella foto: escuela colegio Enrique Rebsamen, Città del Messico, si riportano 21 bambini morti e 4 adulti, una trentina sono “non localizzati” per cui continuano le ricerche)

Avvicinandoci si vede come la situazione si fa tesa: los topos, brigate specializzate in questo tipo di aiuti, corrono a perdifiato nelle loro moto, la gente accorre, e corre, da tutte le parti. Una ragazza si mette in mezzo alla strada e urla a tutti di recuperare materiale, qualunque tipo di materiale. Di fianco a noi c’è un ferramenta, vuoto. Gli prendiamo in “prestito” una sega. Chiediamo ai vicini e ci danno una corda. Ricominciamo a correre. Poco a poco dei motociclisti ci danno dei passaggi, e da lì ci perdiamo definitivamente. Nel momento in cui scrivo non ci siamo ancora ribeccati.
All’arrivo sul posto il caos regna. Ci sono già migliaia di persone, e barricate che impediscono di entrare nella via della scuola perché è già congestionato. Non c’è polizia, qualunque istituzione è perfettamente assente. C’è solo il pueblo, tanta gente generosa e di buona volontà. A me e tanti altri che sono rimasti fuori ci tocca recuperare materiale in giro: corriamo un paio di vie di lato, che ci sono le transenne di un cantiere. Vanno giù di volata, manco si stesse facendo un riot. E magari si stesse facendo un riot…

Ad aiutare ci sono tutti, donne uomini vecchi bimbi. Ognuno fa quel che può. Tiro in mezzo due ragazzini un po’ spaesati e andiamo assieme a cercare altro materiale. I vicini in poco tempo ci danno pale, secchi, corde, e così fanno con tante e tanti altri. Lasciamo due spicci alla gente che recupera materiale medico in farmacia e ci catapultiamo sul posto. Ci fanno passare e arriviamo fino all’esterno della scuola, o meglio dell’ala della scuola che è completamene venuta giù. Di mezzo riconoscibile c’è solo l’ultimo piano, il quarto se non ricordo male, che poggia, dal lato in cui sono, su un’automobile distrutta, i piani sotto si sono completamente sgretolati. L’automobile, per di più, ha l’allarme spianato, cosa che ostruisce i tentativi di sentire se qualcuno da dentro sta gridando aiuto. Ci vogliono troppi minuti prima che qualcuno non riesca a spaccare il cofano a picconate tanto da far smettere l’allarme. Inorridisco. Però per un attimo, perché guardandosi intorno si vede che c’è ben poco tempo da perdere per inorridirsi. Mai come questa volta penso che ogni piccolo gesto, ogni secondo, è prezioso. Quello che è difficile, in quel delirio, è capire cosa è utile fare, considerando che tutto ciò che non è utile è d’impiccio. Mi affanno a trasportare cose, cose, cose di qui e di là: acqua, secchielli, picche, pale.
Finisco non so come su un altro lato della scuola, quello che da verso il cortile. C’è una totale congestione tra un paio di ambulanze e un trattore che sta provando a buttare giù il muro del cortile per permettere alle ambulanze di entrare. Mentre il trattore e una dozzina di persone pensa a buttare giù il muro, afferro una pala e con tanti altri spalo come non ci fosse un domani le pietre del muro che crolla, mentre altra gente porta secchi, e poi ne porta ancora ancora ancora. Vengo distratto appena un secondo da una donna che urla disperata, inconsolabile. Qualcuno mi dice che ha un bimbo sotto le macerie. Non ho mai visto tanto dolore atroce sul volto di una persona. Immagino mia madre quando ha visto la sua prima figlia morire nella culla a due mesi. Ma poi l’adrenalina ha il sopravvento e ricomincio a spalare. Carichiamo i pezzi di muro sul trattore e, dopo un tempo che sembra interminabile, mi ritrovo all’interno del cortile. Stavolta l’ala della scuola distrutta la vedo dall’interno.
Anche nel cortile centinaia, forse migliaia di persone. Finalmente il governo pare essersi svegliato, e cominciano ad arrivare in forze la polizia federale e la marina militare. Facendo più danni che altro, in realtà, perché in termini di aiuto concreto fanno ben poco, e le poche cose buone le fanno eseguendo gli ordini di chi si sta facendo il mazzo da ore. Ma il loro ruolo è, come sempre, controllo e ordine, per cui incominciano a incordonarsi per impedire ad altre persone di entrare. A un certo momento vedo un federale correre con un mitra puntato: io e il mio vicino ci guardiamo, e ci domandiamo quale razza di idiota può mettersi a correre con un’arma in quella situazione.
Vedo che quello che più si richiede è di tagliare dei pali di legno in varie misure, per fare delle specie di treppiedi che reggano quel che resta della scuola mentre protezione civile (o qualcosa del cenere) e cani si mettono a cercare nelle macerie. Creiamo una piccola equipe e ci mettiamo a misurare pali e tagliarli con una sega elettrica. Ogni tre per due parte il grido collettivo e un coro di braccia in alto: “silenzio!”. Sono i ripetuti tentativi di sentire le urla da dentro. In quei momenti la sega elettrica deve tacere e ci diamo il cambio con la sega normale. Noto subito come sia impedito in questo genere di cose e lascio l’incombenza ad altri. Ogni tanto si sente un urlo di gioia: vuol dire che è stato salvato un bimbo!
Io incomincio ad avere giramenti di testa: sono stanco, ho mangiato poco, sono teso. Vago qualche minuto nel nulla e poi capisco che in quelle condizioni non servo a nulla, quindi faccio per allontanarmi. Esco dal cortile in direzione delle ambulanze e vengo sommerso dalle grida: “serve insulina! Servono bombole d’ossigeno, bombole d’ossigeno!”. Mi dirigo fuori e incomincio a urlare alla gente di cercare un ospedale, perché solo lì si trovano le bombole d’ossigeno. Qualcuno dice che ce n’è uno a quattro isolati e ci mettiamo a correre. Per strada in tanti si uniscono fino a creare un gruppo di 20-25 persone. Correndo, passiamo davanti a un altro edificio completamente pericolante. Arriviamo finalmente all’ospedale, chiediamo ste benedette bombole e ci fanno fare una trafila estrema: un’infermiera dice a un’altra di portarci al primo soccorso, questa prova a contattare i superiori che non si capisce ma sembrano irreperibili. Nel frattempo altri 20 tra medici e infermieri se ne stanno con le mani in mano e con la faccia da ebete. Una dottoressa particolarmente arrogante ci intima di sederci. Sederci!? Non ci possiamo credere. Dopo dieci minuti buoni, e quando le nostre insistenze arrivano al colmo, spunta fuori un responsabile che ci dice che non ci possono dare bombole perché non ne hanno un numero infinito. Che vogliamo fare, l’ospedale è privato e ci manca solo che regala delle bombole d’ossigeno! Per loro il terremoto, alla fin fine, è profitto. Manca poco e scoppia una rissa. Io minaccio personalmente di denunciarlo se non ci da delle bombole in quel preciso momento. Poi rifletto su quanto ridicola sia la mia minaccia nella capitale mondiale dell’impunità. Per tutta risposta il dottore mi dice che devo essere io responsabile di riportargliele dopo vuote. Un tipo si inalbera e dice: “il responsabile, semmai, è Peña Nieto!”. Dopo un’incazzatura collettiva che la metà basta ci danno finalmente due (DUE!!!!) bombole d’ossigeno e un po’ d’insulina. Insistiamo perché vengano dei pediatri e dobbiamo quasi fare a botte perché lo accettino.
Corriamo come dei pazzi per dare le bombole, e le file di militari incordonati si polverizzano per farci passare. Dico a uno di loro che farebbe bene a mandare una pattuglia in quell’ospedale e a prendergli le bombole con la forza, e lui sembra pure ascoltarmi tutto serio. Quanto mi sento ridicolo…
Stremato, mi metto a cercare da mangiare con due tizi che erano con me all’ospedale, Fabricio e sue figlio Edwin. Non c’è un negozio aperto, niente cibo di strada. Finisce che mi invitano a casa loro, a due isolati dalla scuola, e mi offrono un panino e dell’acqua. Fabricio dice che ha sentito la scossa più forte che nell’85. Sono ormai le sette e mezza ed è da più di cinque ore che sono lì. Sta iniziando a fare buio, e il buio di una città senza elettricità è interrotto solo dalle luci di polizia e ambulanze e dalle centinaia di torce che vengono recuperate da ogni dove, e che diventano rapidamente la necessità più urgente. Ma col buio viene anche il freddo e io sono in canottiera, per cui gentilmente mi regalano una giacca. Mi riavvicino alla scuola: con la giacca in mezzo a tutta quella gente ho un caldo pazzesco, quindi torno fuori, mi metto in strada e comincio insieme ad altri a fermare tutte le macchine che passano, perché vadano a recuperare luci, torce, insulina, dolci calorici. O, se possono passare da un’ospedale migliore, bombole d’ossigeno. In tutte le vie intorno alla scuola siamo migliaia e migliaia: la gente si mette in fila e passa di mano in mano una moltitudine di oggetti di qualunque tipo. A un certo punto corre la notizia che è crollato uno, o forse due edifici, in un viale lì vicino. Con tre ragazzi automuniti decidiamo di muoverci verso di là, che alla scuola c’è un sacco di gente e pare che lì serva più aiuto. Ma nel secondo posto la situazione è ancora più inaccessibile: i federali hanno fatto un gran cordone, una vera e propria barricata, e nessuno si può avvicinare. Ci tocca di nuovo cercare cibo, acqua, luci e materiale medico. Ma è tutto chiuso. Nel frattempo in un rapido momento in cui mi prende internet, ricevo messaggi da decine di persone. Comincio a rispondere ma presto internet finisce di nuovo. E per giunta mi si scarica la batteria. Chiedo a degli sbirri se possono caricarmelo un po’ nella loro macchina e mi viene concesso. Mi raccontano che in città ci sono 38, o forse 41 edifici crollati, e che nella scuola sono morti 10 bimbi e 3 o 4 maestre, ma ci sono ancora parecchi bimbi intrappolati. Il numero, per quel che ho visto, mi sembra basso. Solo ora vedo che le vittime sono 26.
Vado, stremato, alla ricerca di una farmacia. L’unica della zona è completamente illuminata ma chiusa. Ci avviciniamo in 5 o 6 chiedendo di entrare. La farmacista, o la dipendente, o salcazzo cosa, fa spallucce e giochicchia col cellulare. Incominciamo a bussare e sbattere la porta: “non sapete che c’è stato un terremoto!?”, gridiamo tra il comico e il tragico. Si avvicina uno sbirro con il mitra, minaccioso. Ce ne andiamo disgustati: gli ospedali privati vedono il terremoto come un profitto, e lo Stato manda i federali a difendere in armi le farmacie in quella situazione, forse con la paranoia che le assaltino? Dicono che più avanti c’è un supermercato, un Sanborns, il più di lusso del Messico, che ha una farmacia poco munita e dei dolci mediocri carissimi, e ovviamente, per non deludere le attese, fa pagare tutto fino all’ultimo peso. Dopo aver ricaricato ancora un po’ il cellulare nella macchina di un tizio, trovo un’isola in cui va internet, e mi metto a rispondere ai vari messaggi di gente preoccupata per me. Poi porto il mio malloppo di spesa sul posto, prendo un taxi e un paio di passaggi in autostop e arrivo a casa. Noto con piacere che nel mio quartiere l’elettricità è tornata, ma la casa è vuota. David è andato a dormire dalla cugina, Hector e l’altro coinquilino, l’argentino Dardo, sono andati a dare una mano in un altro posto. Indeciso sul raggiungerli, inizio a riscaldarmi il risotto avanzato da ieri e di colpo la luce va via di nuovo. Con il cellulare nuovamente scarico, mangio, mi bevo una birra, e mi sdraio sull’amaca. Sto per addormentarmi che la luce mi riscuote d’improvviso. Apro il pc, rispondo a un po’ di gente e leggo le notizie. E comincio a scrivere queste righe, o meglio queste pagine chilometriche. Nel frattempo Dardo ed Hector tornano, e Hector mi racconta come è andata la sua giornata alla scuola: mi dice che ha tirato fuori una bimba dalle macerie, viva. E che però, quando poco dopo stavano tirando fuori un cadavere vicino a lui, non ha più retto ed è andato a dare una mano da un’altra parte.
Lo sgomento è tanto, e domani non sarà una giornata facile. Tra il 19 settembre 1985 e il 19 settembre 2017 in Messico è stato un susseguirsi, un’escalation, di riforme neoliberiste lacrime e sangue, di assassini di donne perché donne, di aumento della povertà, di furto e devastazione della terra, di sparizioni forzate. Nell’ultimo mese, tra Messico e Caraibi, ci sono stati 5 uragani e due terremoti. “Pobre México, tan lejos de Dios y tan cerca de Estados Unidos”, diceva qualcuno. Domani torniamo a rimboccarci le maniche; e speriamo davvero che da domani cominci un’altra musica.

]]>
A passo di tartaruga. In equilibrio tra poesia e militanza https://www.carmillaonline.com/2017/04/04/passo-tartaruga-equilibrio-poesia-militanza/ Mon, 03 Apr 2017 23:04:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37422 di Raùl Zecca Castel

A passo di tartarugaLoretta Emiri, A passo di tartaruga, Arcoiris, Salerno, 2016, pp. 148, 12 €

A passo di tartaruga è un libro che fin dal titolo evoca sensibilità e delicatezza; qualità che ne onorano indiscutibilmente le pagine e l’autrice. Loretta Emiri – latinoamericana per scelta – ci consegna un’autobiografia imbizzarrita, capace di coniugare impegno sociale e disincanto allo stesso tempo, scrivendo solo in parte di sé e della sua incredibile esistenza tra gli indigeni Yanomami del Brasile amazzonico, perché quel che emerge dalle pagine [...]]]> di Raùl Zecca Castel

A passo di tartarugaLoretta Emiri, A passo di tartaruga, Arcoiris, Salerno, 2016, pp. 148, 12 €

A passo di tartaruga è un libro che fin dal titolo evoca sensibilità e delicatezza; qualità che ne onorano indiscutibilmente le pagine e l’autrice. Loretta Emiri – latinoamericana per scelta – ci consegna un’autobiografia imbizzarrita, capace di coniugare impegno sociale e disincanto allo stesso tempo, scrivendo solo in parte di sé e della sua incredibile esistenza tra gli indigeni Yanomami del Brasile amazzonico, perché quel che emerge dalle pagine di questo volume, composto da venticinque racconti magistralmente scritti, in perfetta sospensione tra poesia e rigore etico, è piuttosto il racconto critico di un’intera società, la storia di quel mondo complesso cui inevitabilmente tutti noi apparteniamo.

Di qui il senso di disincanto che pervade l’opera e che scaturisce proprio dalla frattura tra questo mondo – l’Occidente cannibale – e l’interiorità dell’autrice che a sua volta trova una magica rispondenza solo nell’universo intimo della foresta pluviale. Il cuore di tenebra, come ben compreso e narrato da Conrad a suo tempo, lungi dal trovare riparo nell’impenetrabile fortezza naturale delle selve primordiali, batte e si agita spasmodicamente nel profondo della civiltà del (presunto) progresso, tra false strette di mano e ghigni sotto i baffi, verità insabbiate e loschi affari mascherati da buone intenzioni.

Aveva dunque ragione Caliban, con il suo disprezzo fiero, a male-dire coloro che gli avevano insegnato a parlare, ma la realtà è ben diversa dall’adattamento che ne restituì Aime Cesaire nella sua versione anti-coloniale sull’onda della liberazione algerina, poiché nessuna maledizione né magia di sorta potranno mai avere la meglio sull’avanzata implacabile dei dominatori e i dannati della terra resteranno sempre tali. È a partire da questa consapevolezza, acquisita tramite un’esperienza ventennale tra gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana, che un altro cuore, fragile ma coraggioso, determinato ma non immune alle emorragie, il cuore di Loretta, soffre e si addolora, patendo inesorabilmente di quella saudade per qualcosa che non è stato.

Sono tristi i tropici di questa donna che ha investito forze, impegno e passione nella lotta per la rivendicazione dei diritti del popolo indigeno, conquistandosi il loro rispetto e la loro fiducia, imparandone la lingua, gli usi, le tradizioni, i sogni e le paure, dedicandosi infaticabilmente a un complicato lavoro di alfabetizzazione e di crescita culturale, intesi non certo come strumento di dominio, ma al contrario come unica arma di difesa ed emancipazione possibile, affrontando e combattendo ostracismi istituzionali e burocratici, familiari ed emotivi che il destino e il potere le hanno opposto; infine, tornando in patria – ma quale patria, ormai? – come straniera di se stessa, con quel cuore a brandelli, trascinato a mala voglia come un peso morto. “Addio selvaggi! Addio viaggi”, scriveva Lévi-Strauss a conclusione delle sue memorie amazzoniche, dopo aver constatato con amarezza la responsabilità dell’Occidente civilizzato nel contaminare con la nostra sozzura l’umanità più genuina e pura.

Lo stesso sentimento, straziante, di impotenza e rabbia tormenta l’autrice di questo libro che è una veste strappata, il ricordo doloroso dei tempi vissuti nelle maloche, le case comunitarie degli indigeni yanomami, e il trauma del ritorno forzato. Esiliata nella sua terra, in quella società dell’opulenza, dello spreco e dell’apparenza, di relazioni umane fittizie e opportuniste, Loretta Emiri cerca un equilibrio e un riparo nel cuore di tenebra italiano, sotto il sole delle Marche e sopra le macerie del terremoto, perché la natura non ha pietà nel ricordarci che il destino non appartiene al nostro dominio.

A passo di tartaruga è un insieme di racconti che si fanno strada nel tempo e nello spazio: dall’infanzia dell’autrice al timore verso un futuro dominato dall’individualismo più esasperato, passando per l’esperienza solidale della convivenza con gli indigeni; dai territori vergini del Brasile amazzonico all’Italia centrale dell’Umbria e delle Marche, rispettivamente luoghi di nascita e di residenza della scrittrice, passando per infiniti luoghi di transito, da Modena a Verona, da Sao Paulo a Porto Alegre. Sono storie di incontri, speranze, attivismo, sogni, condivisione e lotta, ma anche di incomprensioni, fatiche, delusioni, sconforto e frustrazione; storie, in ogni caso, in cerca di lettori attenti e sensibili, capaci di immedesimarsi e trovare nelle parole di Loretta Emiri lo spirito di resistenza e militanza che anima gli esseri più autentici.

]]>
Cronache di una lavoratrice notturna di Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2017/03/22/cronache-lavoratrice-notturna-citta-del-messico/ Wed, 22 Mar 2017 04:33:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37219 1di Helena Scully Gargallo

[Questo testo è stato tradotto dallo spagnolo da Nino Buenaventura e vissuto dall’autrice nella città-mostro, come è nota ai più la capitale messicana. Le illustrazioni sono a cura di Helena S. G.]

Notti Marziane

1_ In una città di lavoratori notturni

15 gennaio

Si sdoppia la vista, credo sia il sonno. Chiudo gli occhi e ricordo che sto guidando, ma nel secondo in cui li chiudo, sogno di guidare nel mio materasso e sogno che le piante di [...]]]> 1di Helena Scully Gargallo

[Questo testo è stato tradotto dallo spagnolo da Nino Buenaventura e vissuto dall’autrice nella città-mostro, come è nota ai più la capitale messicana. Le illustrazioni sono a cura di Helena S. G.]

Notti Marziane

1_ In una città di lavoratori notturni

15 gennaio

Si sdoppia la vista, credo sia il sonno. Chiudo gli occhi e ricordo che sto guidando, ma nel secondo in cui li chiudo, sogno di guidare nel mio materasso e sogno che le piante di Reforma sono annaffiate da idranti fugaci che scendono dal cielo… ah no, le annaffia qualcuno, marziani?

Chiudo gli occhi e sono in un bagno buio, un bagno che dopo il tempo necessario spenge le luci perché anch’esso ha sonno.

Chiudo gli occhi e al aprirli vedo doppio, vedo due piccole mele in un’auto, che vola o corre, e non capisco se vuole andare a dormire o va a una festa, una festa di martedì? Sì, una festa, e ora la vita sta dall’altro lato, e mi rendo conto che una mancia non vale il tuo lavoro, le tue chiacchiere, il tuo tempo, e ti fa più male che pensare che le piante di Reforma si innaffino sole.

La vita del martedì notte nella città più grande del mondo, più grande del mio mondo, il mio mondo di orfana con madre, con molte madri, ma senza padre, quel padre che un giorno percorse queste strade che percorro io, chiudendo gli occhi mentre guido, immaginando un materasso da quale vedere gli idranti che irrigano Reforma alle due della mattina…

Marziani, marziani, marziani, che corriamo in carapaci di plastica che chiudiamo a chiave non essendo assicurato il nostro ritorno a quel materasso dal quale io mi vedo percorrendo lo stesso cammino che mi porterà al mio cane-elefante che dorme ai piedi del mio letto.

Merda, troppo lavoro e poco sonno, troppe chiacchiere, troppo spreco….

16 gennaio

Mercoledì: Cane-Elefante accanto a me dorme e non dorme, perché lui sa e io non so. Chiudo gli occhi e mi rendo conto che gli idranti che escono dal cielo per irrigare le piante di Reforma oggi non mi accompagnano, piante che bevono meno che quelli che mi accompagnano o accompagnano il mio lavoro senza lavorare… Città-Mostro è più marziana di mercoledì che di martedì.

Due della mattina e il carapace torna con il sonno e ancor più sonno, accumulato in giorni, notti, settimane, mesi… cosa c’è dopo?

Il bagno già è buio, ora lo illuminano solo due candele che, anche se nuove, sono quasi finite.

Cane-Elefante russa e mi sveglia dai sogni di questa notte quasi tanto marziana come lui, però mi include nei suoi pensieri e vedendo il conducente del carapace dal finestrino inizio ad abbaiare bauuuu bauuuu. Si spaventa? No, è marziano come lo sono io e mi strizza l’occhio che è in cima alla sua antenna per avvisarmi che ci sono alcuni esseri vestiti con uniformi che mi vogliono arrestare:

  • Ha bevuto?
  • No, però ho servito più di 20, 30, 40 o molti più bicchieri di bevute con nomi che mi fanno sentire assonnata e con voglia di abbaiare (stolichnaya, buchanan’s, jack daniel’s, bombay…) uff… se soltanto non fossero alcoliche me le berrei tutte per i loro nomi.
  • Continui… bau bau bau bau.

Grida di marziani che vorrebbero essere ascoltati, però non sanno che nella Città-Mostro sempre c’è qualcuno che scrive o che abbaia.

Speriamo che domani gli idranti tornino e che Reforma non si senta tanto sola e triste, tanto sola e assetata, tanto sola e tanto… Bombay, Gin&Tonics.

17 gennaio

Giovedì: dimentico che vivo in una città semidesertica e che le piante non possono essere annaffiate tutti i giorni, i miei occhi s’illuminano per le lacrime e al chiuderli mi immagino all’interno degli idranti che vengono dal cielo a irrigare le piante di Reforma.

La Diana mi osserva dall’alto amandomi e ridendo di me e il mio carapace notturno che torna tutte le notti, Diana che scocca una freccia all’infinito, in lei c’è scritto “io non ho bisogno di un carapace, io sono una donna nuda”, carapace di merda che annebbia la mente per creare felicità false, le mie lacrime che parlano e mi dicono – cazzo di metro, perché chiude così presto- con esso non ci sarebbe motivo per portare un carapace, o almeno sarebbe arancione e divertente.

Passeggiata notturna di marziani per la città. Si credono apposto perché se la vivono di giovedì, io servo zacapa zacapa zacapa zacapa, bombay, tutte le notti… e tutte le notti dal mio carapace vedo Città-Mostro nuda e chiusa dentro un carapace.

Le risate che provengono da dentro casa mia mi dicono di uscire e Cane-Elefante mi morde per dirmi che mi vuole bene.

Saltiamo come se fossimo ragni per lo spazio legnoso, amici, amori. Esco dal carapace e penso. […]

18 gennaio

Venerdì: ricordo una notte d’estate a Varanasi-Benares. Montagne di cacca fanno tremare i miei piedi, la mia anima è scossa appena penso che questa merda non fa arrossire la faccia dei milioni di passanti di quella città sacra. Merda!, in questa Città-Mostro un bambino che caga nelle strade della zona ricca causa grida e risate euforiche, (il mostruoso toglie il sacro alla cacca).

Il sonnellino nel bagno già non mi toglie la noia, per quanto che se ne vada la luce; canto e ballo per le strade e sembra che la marziana sia io, ogni volta sento più forte la mancanza di Cane-Elefante e i suoi cantici mistici alla luna e alla finestra, nella quale si riflette “Hotel Paraíso”, hotel paradiso a un isolato da “Piazza della Repubblica, Monumento a la Revolución, architettura fascista”; Città-Mostro tanto piena di contraddizioni in un solo quartiere… Frontón México? Revolución? Republica? Fascismo? Hotel paradiso? Tacco dorato? No per favore! Un’altra volta… le una de mattino… Carapace torna a me, tutte le congiunzioni marziane fanno si che il carapace si travesta da falcate che possano attraversare la città con due passi. Fugacemente mi accorgo che una parte di Reforma è stata già raggiunta dagli idranti che cadono dal cielo, e l’altra parte no… che vuol dire questo? Mi piange un occhio e l’altro no? È probabile.

Oggi nessuno mi strizza l’occhio ed i camuffati mi domandano ancora:

  • Ha bevuto?

(Oggi non posso rispondere che ho servito bombay, buchanan’s, zacapa, zacapa, zacapa)

  • no, marziano, solo ho servito due cappuccini di mucca sfruttata…
  • vada pure

I camuffati, si levino i travestimenti, è venerdì notte in una città di lavoratori marziani.

Chiudo gli occhi e il carapace vola nei cieli. (Lavorare di notte mi sta facendo male). Di notte le storie del giorno mi frullano in testa e non le posso fermare, fino a che non arrivo al più marziano di me, un cane-elefante e un marziano di antenne tranquille e ricciole mi abbracciano insieme con altri personaggi affascinanti della vita. Riflessione di una marziana con il salario minimo: “ho bisogno di tornare a viaggiare, senza carapace verso sud”.

219 gennaio

3:40 del mattino e la città sembra essere in vacanza.

“Mario Santiago vive”, rimbomba nella mia testa, e non posso immaginare altra cosa che i marziani ubriachi proclamando ululati da cigni.

Il carapace non torna terminato l’orario di lavoro, perché il lavoro di divertirsi ed essere felici e ancora più stancante ed entusiasmante.

Plutone è ogni volta più lontano e anche così mi sento come una marziana in un paese di tartarughe.

Cane-Elefante è così solo come me, però isolato dalla moltitudine che mi circonda. Cane-Elefante e io ci accompagniamo senza produrre suoni, mordendoci e raccontandoci storie di passanti poco umani che volano quando nessuno li vede, dai tuguri di Città-Mostro.

Scappo e dopo due ore torno, non è cambiato nulla. La lumaca che si trascina, senza perdere il ritmo, è sempre più vicina alla pianta; ogni giorno sprofonda di più nella noia quotidiana di sbavare […] (quasi mi divora, quasi mi divoro).

3:00, carapace torna, però non così forte come prima, perché sa che riposerà per molto tempo, carapace che mi fa perdere a Sullivan e mi fa conoscere un mondo di tacchi dorati e uomini con ali di angeli. 3:00 del mattino e sembra che la notte non finirà mai. 3:00 del mattino e chiudo gli occhi per ricordare il ritorno a quel materasso tanto lontano e tanto desiderato. 3:00 del mattino e non ci sono marziani dai travestimenti assurdi ai quali rispondere a domande senza senso, ma che oggi lo avrebbero; meglio così, i marziani che fanno la guardia alla guardiola non devono essere molto simpatici.

Città-Mostro, marziana, ammirabile, deplorabile, amata, odiata, geniale… -E VAI A DORMIRE, CAZZO.

24 gennaio

Carapace notturno torna però senza essere io a guidarlo, chiudo gli occhi, penso “oggi si possono chiudere gli occhi”, la mia immaginazione e la mente volano nei passati lontani e non tanto lontani: Camminata Notturna che sbocca in una discoteca marziana, persa nel mezzo di Ulan Bator, statua gigante di Stalin, musica mongola, imitazioni di Michael Jackson in russo (Chinguis, Chinguis Kan, ubriachi cantano). 13 anni e la statua di 10 metri mi schiaccia, mi schiacciava, bum, bum.

Sembri molto grande –Sono molto grande– Mi dicevano allora, oggi i ruoli cambiano, oggi mi rispondono a me –sono molto grande. La bambina non tanto bambina, penso. La bambina marziana, lavoratrice notturna, amica di Cane-Elefante, studenta

Cane-Elefante riderebbe con me vedendo che anche nella città-mostro ci sono statue giganti chiuse in cassette di cristallo, inamovibili in Reforma, non di Stalin, ma sì di cavalli.

[…]

Giovedì 14 febbraio

Le ombre ci spogliano, le ombre ci segnano il passo, le ombre mi dicono “quello è un marziano, quasi come te”.

Vedo gli idranti che piangono su Reforma da lontano, piangono come io ho pianto in un bagno e per la prima volta non si sono spente le luci.

Cane-Elefante è così tanto solo come lo sono io, però lui non piange tanto. L’unico che penso mentre vado a casa è che Cane-Elefante ha bisogno di me come io di lui.  Balza, salta, salta, quattro zampe per aria, che si fottano tutti, io festeggio il giorno e salto; e non quelle cagate.

Il carapace è tornato a me, e non vi preoccupate, è solo questione di dormire un po’ e tornare a pestare i pedali della vita. Domani me ne vado in bicicletta a lavoro, chiaramente con un cane-elefante.

1 marzo

Disoccupazione

327 marzo 2013

Domenica in cerca di un nuovo titolo: “lavoratori notturni”: si può chiamare così la propria condizione se quasi tutti i giorni il lavoro finisce alle 5 o alle 6 del mattino?

Nuova versione: Pata Negra per sfruttati…

[…]

25 aprile 2013, giovedì.

Un’alba da marziani nella città dei lavoratori notturni.

Se avessi la pelle di Cane-Elefante il vento della mattina non mi congelerebbe le gambe deboli al freddo. Ha piovuto finalmente?

Se Cane-Elefante corresse dietro la mia bicicletta non mi starei lamentando per il clima. Credo che sia impossibile, non vedrò più gli idranti di Reforma, né i film notturni, né i marziani che mi chiedono se ho bevuto o no.

Non mi mancherà, è bello vedere come l’acqua sa cadere senza bisogno di marziani, cade e pulisce tutto.

[…]

24 maggio 2013

Vedo la luna e mi sento viva.

Esco, quasi fuggitiva, con un permesso tanto effimero come i sussurri e le risate della gente che mi passa accanto. Mi sento in un libro di cattivo gusto, uno dei quali nulla ti sorprende, il finale è scritto sulla copertina.

Però la luna, la luna, rende il libro vita.

23 giugno

Marziani in uniforme escono da ogni angolo del quartiere, sono come piccole formiche azzurre, possono essere aggressive o molto tranquille, dipendendo dal loro stato d’animo, o dalle indicazioni della formica regina. Confesso che sento un po’ di timore nel vederli, tutti insieme, con i loro falli assassini puntati al cielo, sentendosi potenti per avere un arma.

I colori, la musica, le luci schizofreniche, i marziani formiche azzurre, le grida, i pianti, l’alcool… Mi fanno girare la testa, esce un respiro, vedo la pioggia e mi sento felice.

[…]

2_ Nelle notti del mondo

20 dicembre 2013 Siracusa

Notte da marziani. Piccolo viaggio nel tempo. Quattro anni fa camminavo questa città, la conoscevo così bene che mi metteva paura volerla vivere per tutta la mia vita, non fu così, la lasciai, la città non si arrabbiò con me, mi lasciò andare con aria da innamorata offesa, ma pronta per il mio ritorno.

Ritornai. Gli occhi non hanno mai smesso di piovere.

20 gennaio 2014, Città del Messico

Piccole barchette di carta colano nel cristallo, mi piacerebbe vedere la luce accesa che le accarezza…

Cane-Elefante mi ascolta da dentro la casa, si affaccia alla finestra e con lo sguardo mi dice che dobbiamo scappare da questo mondo in una di quelle piccole barchette.

Cane-Elefante e io ci capiamo, ci manchiamo e ci dimentichiamo per un istante che nessuno capisce la nostra lingua di extraterrestri che corrono alle due del mattino per il semplice piacere di sentirsi liberi, in queste strade sudice e transitate di Città-Mostro.

 

]]>
Shopping Center https://www.carmillaonline.com/2016/05/08/shopping-center/ Sat, 07 May 2016 22:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30355 di Reginaldo Cerolini

al-centro-commerciale-4

[Una prosa poetica proveniente da Arese, dove è stato appena aperto lo shopping center più grande d’Europa]

PellegrinoIl Pellegrino piuttosto volgare all’inclinazione morale della sozza società plurale muovevasi come un mendicante per fame, con mano aperta e dignità orientale. Sprezzato dal disprezzo della gente secca epperò onesta (per dindirindina!) che non avea desta bontade da spargere sul volto ottimale del forestiero che chiede senza piangere ed inscenare la pietà gustosa della fame. Perciò nulla cadeva –manco pietà- in sulla sua mano ferma e sguardo [...]]]> di Reginaldo Cerolini

al-centro-commerciale-4

[Una prosa poetica proveniente da Arese, dove è stato appena aperto lo shopping center più grande d’Europa]

PellegrinoIl Pellegrino piuttosto volgare all’inclinazione morale della sozza società plurale muovevasi come un mendicante per fame, con mano aperta e dignità orientale. Sprezzato dal disprezzo della gente secca epperò onesta (per dindirindina!) che non avea desta bontade da spargere sul volto ottimale del forestiero che chiede senza piangere ed inscenare la pietà gustosa della fame. Perciò nulla cadeva –manco pietà- in sulla sua mano ferma e sguardo orientale. Sicché io vidi passando che grande era la sua rozza disonestade di volersi tutto il mondo in sulla bocca portare, e di taglia imbola e acidi-a, di fuori dal culo sputare. Mondata. Ferace finalmente, al rito universale della seta.

Natale

E veniva di me –credevasi- la forma migliore a portare alla mia aia mirra, pane e tanta gioia, profondendo sulla mia pelle il manto d’un vento fresco all’avvenire, che tutto aveva purgato delle corbellerie binarie (alias Mrs. Psyche) e di rastrellamenti di anche (anco, vez!). E il patto era franco o affrancato da tanto stanco infrangere di frangere fragilità di fragola (mmmh! Succose) di su la carne il piangere. Dunque con tanto inerbolare li occhi et ventre e l’psyche io mi vidi nascere, bello, paffuto e muto come un pesce nell’era nova di salsedine.

Il contratto sociale

Tu eri duro  e bello come il metallo come un imbecille come il corallo come la fede di chi crede con somma rettitudine  di dover sfibrare le curve per sua santa legge. Io ero scemo alle certezze, molle e molto viscido feroce e gentile come un cane sotto le carezze come la lingua in sulla mano, ma facevo schifo come un topo in fognature. Tu suggerivi l’avvenire come editto e corollario agli spruzzi malsani della mia bocca da pozzanghere io, il diritto di ciò che era, già, di ancora esistere.

Mandala

Si rasserenava nel respirare la forma del mondo. La società si concentrava in un ricamo. Tutto di me si concentrava sul gesto semplice della mano. E non era per prendere o per tirare ne era stringere e tal volta pungere la forma piena delle cose. Era gesto vivere lì dentro la forma: forma spurgata di ogni più umana  intenzione.

Teorema

Sicché vedevo me inerpicarmi in sulla pace (la più commerciale possibile), pace che sostenevo come la svendita del desiderio, il quale puntava alla fusione delle tempie, alla finzione delle anche al cedimento per basse vette in fine di trovarvi pace.

Dal macellaio : n.69

Tu carne che canti feroce un’estasi che non conosci che cazzo chiedi a me ? Io apostolo della virgola, ex-mugnaio della punizione infinita non chiedo più niente a te. … eh (vez!) che pascere brullo questo trastullo e fagottoso sopravvivere.

Spacchettare

E mi invocavi con diavolerie e pene, con la dipendenza dal desiderio, col rutto infinito del volere e potere ora-adesso chiedere. E che cazzo era allora il desiderio di desiderare, quando mi si infradiciava nel petto appena l’ansia di esistere e poi comprare ?!

]]>
#RazzaMigrante, un progetto di narrazione collettiva sulle migrazioni contemporanee https://www.carmillaonline.com/2016/02/27/razzamigrante-un-progetto-di-narrazione-collettiva-sulle-migrazioni-contemporanee/ Sat, 27 Feb 2016 22:58:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28808 di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, [...]]]> di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, rifacevo i conti insieme alla giornalista e mi lasciavo prendere dal fascino malsano della quantità, che serviva a misurare il dramma. E associavo involontariamente queste addizioni ad altre recenti, pure sparse per il mondo, e che parlavano di virus. E accortomi del volo mi domandavo se quella malattia sarebbe stata debellata come le altre, o se invece sarebbe stata amministrata per un tempo tutto da definire. I conti giusti non erano quelli, naturalmente. Perché da quel mucchio di “non più” venivano volutamente espunti molti altri. I trentamila sacrificati nel mar Mediterraneo nei dieci anni precedenti, per esempio. Loro erano, lo sapevamo tutti, quelli che veramente ci davano la misura del dramma storico in corso. Morti tutti sul confine, come accadeva cento anni prima, nella logorante guerra che chiamammo prima e mondiale, combattuta in realtà su un paio di fronti.
Morti, durante la fuga che era la loro unica alternativa alla guerra e al terrore.

Dicembre del 2015. Era una fase di rialfabetizzazione politica, quella. E ci rendemmo conto che non eravamo mai usciti dalla Storia, né eravamo mai stati in pace. Si può morire tutti allo stesso modo, dissero, ma solo per alcuni suonano gli inni. Ci accorgemmo anche di questo.E del fatto che gli inni suonati continuavano a essere nazionali. Non c’era niente che parlasse di noi altri, al di là dei paesi singoli. Che parlasse delle plebi offese, dei disperati, o di quelli sul limite, di quelli che venivano dopo, della manodopera a perdere transnazionale, plurinazionale, internazionale, delle menti in fuga verso l’altrove. Ed era un gran peccato.

Suonò la Marsigliese per giorni e giorni perché Parigi era stata offesa e con lei il mondo. O una fetta grande di. Ma non tutto. Era difficile capire quello che stava accadendo con un nemico pubblico capace di terrorizzare, ma non di produrre conflitto. Quando ci chiesero di “stringerci a coorte” un brivido mi attraversò il corpo e la schiena, era una paura vecchia di normalità e sentimenti mediocri. Ma noi avevamo per fortuna già cominciato l’esodo dalle retoriche e non ci fu difficile fare un passo indietro, o di lato, sottrarci cioè al gioco dei conquistatori e portatori di civiltà. Ma per non essere da meno del nemico redigemmo anche noi una costituzione alla quale non abbiamo ancora messo il punto e selezionammo alcuni testi, per tenere a portata di mano i principi che ci fondavano. Uno di questi testi portava il titolo Le vie dei Canti e faceva riferimento alle strofe che si scioglievano sulle labbra di molte e molte persone. Esse avevano segnato la terra di parole e sapevano dove andare, recitando versi risalenti al tempo del sogno. Lo si poteva leggere in molti modi Le vie dei canti, ma non c’era possibilità alcuna di integralismo. Eravamo noi a dirla tutta, totalmente privi di integralismo. Non avevamo nessuna interezza da costruire e diffondere, nessuna assurda organicità, se non un’appartenenza al mondo per rispettare la quale era necessario muoversi. Col corpo, con il pensiero, con le parole. Erano questi i tre elementi che fondavano i discorsi che facevamo, pilastri da cui costruire le pratiche necessarie a vivere la vita.

Tra i versi dei canti che segnavano le vie, ce n’era uno che ripeteva: vidi sopra di me il cielo infinito, vidi sotto di me la valle dorata, questa terra è fatta per te e per me. E via, a tracciare percorsi affinché ogni corpo avesse il diritto di essere. Per meglio affinare la nostra arte prendemmo a prestito alcune abitudini degli uomini e delle donne che abitavano nel deserto. Per camminare e vivere in quegli immensi banchi di sabbia, sapevamo, era necessario uno spirito vasto e accogliente, impossibile da irrigidirsi in presunzioni di superiorità e in aride certezze. Il deserto era al contempo la minaccia che dovevamo tenere a mente, ma anche lo spunto da cui partire, perché il nostro cammino fosse prodigo di creazioni.

Immaginare, nel deserto, è un atteggiamento naturale, diciamo pure un istinto. Niente di ascetico dunque: camminare, immaginare, desiderare, creare. Partimmo così, ognuno dai luoghi in cui era cresciuto e senza destinazione certa, se non l’obbligo di incontrarsi prima o poi, da qualche parte e raccontarsi com’era andato il viaggio, scambiarsi appunti e ipotesi di percorso. Decidemmo in breve anche di rivendicare il nostro diritto all’autodeterminazione, essendo noi un popolo. Senza patrie, è vero, ma non per questo meno popolo di quelli che si erano chiusi in confini incerti, rigati sulle mappe con l’astuzia dei geometri, o arginati da fiumi e monti che li inchiodavano al suolo come arbusti.

Popolo eravamo, di una mescolanza che non saprei da dove cominciare a raccontare e un’imperfezione che quasi metteva paura a noi stessi. Quale dio poteva proteggerci? Nessuno. A nome di quale dio potevamo parlare? Di nessuno. Eravamo una moltiplicazione di minoranze, l’unica certezza era questa: minoranze. E volevamo il diritto all’autodeterminazione. Il nostro inno era un canto che si intonava portando il tempo camminando, lungo una marcia, la nostra, che mai sarebbe stata marziale ma inesorabile, questo sì. Era, il nostro inno, un canto blues, che faceva così…


Cos’è e come si partecipa a #RazzaMigrante

Maz Project è alla ricerca di narrazioni, collettive o individuali, che raccontino una condizione contemporanea e condivisa: la migrazione, intesa sia nella sua accezione letterale sia in quella metaforica. Migrazione come spostamento perpetuo da un paese all’altro per studio, lavoro, e necessità di sopravvivenza, ma anche come odissea del quotidiano, spostamento territoriale alla ricerca di approdi emotivi e materiali. Lo scopo del progetto è quello di tracciare il profilo di un soggetto nomade e inquieto, intrecciando racconti di corpi, luoghi, lotte ed equilibri precari generati dalle esperienze migratorie intra ed extra europee. Un soggetto in movimento, che si riconosce in un comune sentire, orchestra relazioni e produce conflitto. #RazzaMigrante sono gli studenti in fuga nell’europa dell’austerity, sono i lavoratori precari che combattono per un reddito, i profughi dalle guerre in cerca di dignità, le minoranze insorte al tempo di un sistema in crisi. Una razza accomunata non da patriottismi o nazionalismi, ma da percorsi di lotte condivisi, attraversate dalle stesse storie.

Le forme di narrazione: così come abbiamo fatto in questi mesi su Maz, siamo aperti a contributi narrativi sotto forma di racconto, fumetto, produzione audiovisiva (cortometraggi, videoclip, reportage) e multimediale, e in generale a tutti gli “oggetti narrativi non identificati” inerenti al tema proposto. Sfruttando al massimo le potenzialità delle nuove tecnologie, ci lanciamo con la prospettiva di dare vita a contenuti stimolanti, che non hanno la pretesa di essere etichettati in base alla loro forma narrativa.

Le opere e i testi: sebbene siano ammessi contributi individuali, vorremmo dare la precedenza ad opere e testi collettivi, agli incontri di più persone che vogliano sciogliere in un unico oggetto narrativo le loro idee. #RazzaMigrante è un invito alla condivisione di esperienze, alla moltiplicazione, allo scontro dei punti vista, alla sperimentazione.

Le misure: Per racconti, fumetti e testi in generale il limite massimo è di 10 cartelle/pagine (circa 1800 battute a pagina, interlinea 1,5, Garamond 12).
Per le produzioni audiovisive il limite è di 10 minuti.
(Per eventuali eccezioni ne possiamo comunque discutere).

Le scadenze: con una certa costanza, vi stimoleremo, provocheremo, inviteremo a prendere la penna da oggi fino al 31 maggio 2016.

La pubblicazione: tutti i contributi verranno raccolti in un “contenitore multimediale” che verrà edito e distribuito da Maz Project, in collaborazione con i partecipanti e sarà liberamente consultabile e scaricabile su www.mazproject.org.

]]>
La scompigliatura del reale. Vento, fiato e poesia https://www.carmillaonline.com/2016/02/17/la-scompigliatura-del-reale-vento-fiato-e-poesia/ Tue, 16 Feb 2016 23:00:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28699 FRONTE-A-perdicuore_Bellanova-Bartolomeo-01-FILEminimizerdi Pina Piccolo

[Recensione e testi estratti del libro di Bartolomeo Bellanova, A perdicuore. Versi scomposti e liberati, Ed. David and Matthaus, 2015, € 12,90, pp. 86]

Da buon poeta consapevole della centralità del fare in poesia (parola che deriva appunto dal greco poiesis=  fare), nella sua ultima silloge Bartolomeo Bellanova parte esibendo al lettore i materiali di cui dispone per costruire. Nella poesia intitolata “Ho visto troppo” che apre la silloge “A perdicuore- versi scomposti e liberati” (ArteMuse, 2015) egli  ci lascia intravedere il materiale che sarà [...]]]> FRONTE-A-perdicuore_Bellanova-Bartolomeo-01-FILEminimizerdi Pina Piccolo

[Recensione e testi estratti del libro di Bartolomeo Bellanova, A perdicuore. Versi scomposti e liberati, Ed. David and Matthaus, 2015, € 12,90, pp. 86]

Da buon poeta consapevole della centralità del fare in poesia (parola che deriva appunto dal greco poiesis=  fare), nella sua ultima silloge Bartolomeo Bellanova parte esibendo al lettore i materiali di cui dispone per costruire. Nella poesia intitolata “Ho visto troppo” che apre la silloge “A perdicuore- versi scomposti e liberati” (ArteMuse, 2015) egli  ci lascia intravedere il materiale che sarà impiegato per impastare la sua arte: morte, denaro e amore, e rivela anche quale sarà il suo fare o non fare rispetto ad essi, cioè mette in campo da subito la propria soggettività ed azione. Non a caso, nella terzina d’apertura appare un Thanatos attualizzato nella sua  anonima molteplicità: Ho visto troppi morti con le facce tutte uguali/ raggrinzite e gialle / per preoccuparmi della morte/ ; en pendant nella quartina di chiusura, quasi per ad equilibrare il topos binario, compare e non compare  Eros, Ho visto troppo poco amore / seppellito da valanghe di melma inutile e invidiosa, / per non amare sempre con ogni cellula viva / e con ogni respiro strozzato/ strofa che con la sua reiterazione di un troppo mancante crea un gioco linguistico che indirizza chi legge  verso la determinazione/promessa dell’autore di non rinunciare alla ricerca, in prima persona, dell’amore (visto che manca), nonostante tutto. Infatti, è quasi con accanimento egli  promette di dedicare a tale missione  fin la parte più piccola di sé, la cellula.

Sebbene rieditati per suggerire l’attualità, Eros e Thanatos rimangono pur sempre tropi della tradizione, ma l’elemento innovativo di cui li infarcisce il poeta sta proprio nei versi di mezzo, in cui fa capolino per la prima volta l’elemento scatenante del caos, cioè il denaro: /Ho visto troppi padri e figli e amici e puttane/ giocarsi la vita per una pioggia acida di banconote/ usate / per occuparmi di soldi/. Forse seguendo la scia di questo importante ingrediente dell’impasto, il denaro, si può arrivare alle molteplici forme di squilibrio che il poeta presenta nei suoi versi, a diversi livelli e in diversi registri.

Se il plasmare suggerisce ordine, dobbiamo anche ricordarci che il titolo della silloge addita ben altro: cioè la scompostezza, la liberazione e un certo parossismo insito nel neologismo “perdicuore”  coniato sul termine perdifiato che suggerisce intensità, cioè quell’accanimento, di cui sopra,  una modalità da cui i poeti odierni in Italia sono solitamente avulsi.

Partendo da questa osservazione credo che valga la pena soffermarsi su un altro elemento che appare spesso nella raccolta in funzione metaforica e che credo sia strettamente legato al concetto di caos: il vento. Per integrare le attente analisi di Michela Zanarella [1] e William Piana [2] che in interviste e nella prefazione al libro si sono soffermati sul carattere di istantanea della sua poesia, la sua ipotetica appartenenza al filone di “poesia civile”,  la funzione della luna, spesso evocata nella raccolta, in questo breve saggio proporrei un approfondimento della funzione del vento nell’economia dell’opera.

Nella cosmogonia sumera, il vento “Enlil” è l’elemento che separa il cielo dalla terra e il Prologo di Gilgamesh e gli inferi [3] tratta di questo primo atto violento, di separazione,  che, dallo stato iniziale di immutabilità,  implica anche la creazione di qualcosa di nuovo, il moto e il mutamento.  Da questa prima accezione del vento come elemento di dinamismo, seguendo i sentieri del mito e della religione, si può arrivare per analogia al soffio vitale, al fiato, e da lì  alla parola creatrice il passo è breve e si ricongiunge al concetto di Verbo della tradizione ebraica.

Nella raccolta, la scompostezza, il dubbio, quel lieve movimento che suggerisce che l’essenza della cosa potrebbe non corrispondere esattamente alla sua immagine sono spesso metaforicamente introdotti da una folata di vento. In alcuni casi il vento non è menzionato direttamente; ad esempio ne “I pipistrelli e la luna” (p.12)  /Le foglie secche rotolano mulinelli sul cemento/e graffiano il cuore,/sbriciolano le certezze del nulla/ l’elemento primordiale di caos è presente in maniera sottaciuta, attraverso l’immagine del mulinello di foglie  sul cemento, che ricorda certe atmosfere montaliane. Mentre nella poesia “Il vento” (p. 14) l’elemento aereo dà addirittura il titolo alla composizione /Nello sciabordio del vento tra il fogliame scarmigliato/voci di passato pungono le guance come foglie secche/ e offre l’occasione per una meditazione sul passato, presente e il futuro.  Nella poesia “Fai piano luce” (p.17) il poeta esorta la luce a /…percuoterci piano con il vento di ghiaccio,/ spazza via il velo dai nostri occhi/ . Questa funzione chiarificatrice, quasi di purificazione, la si può ricollegare  a quello che lo stesso Bellanova in un’intervista alla rivista Margutte [4], definisce come essenza della poesia, “Percepisco la parola poetica come evoluzione lievitata attraverso le precedenti esperienze, come strumento di lettura di noi stessi e della realtà umana liberata dai pregiudizi e dai preconcetti dai quali è più difficile staccarsi narrando storie.”

Nelle poesie “I fiori di oleandro (p. 22) prevale la funzione scompositiva del vento, mentre in “Coccarde” (p.27)il poeta evoca il vento nella sua capacità dinamica e creatrice: il mulinello non è più quello un po’ minaccioso di foglie secche  che graffiano il cuore ma elemento necessario per costruire /…coccarde di colori e di fiato /da donare alle tue pupille di luce/.

Dopo aver riconosciuto la dimensione dissacrante del vento nella poesia “Cenere (p.36) /Vento irriverente che spettini la primula/ e insidi le sottane nere /(come non pensare al vento che soffiava  e scompigliava i cardinali seduti a piazza san Pietro  nel giorno in cui venne proclamato papa Benedetto XVI?), il poeta lo convoca come alleato, esortandolo a portarlo via “cellula dopo cellula” nelle esperienze avventurose  della vita, come pure nell’apprezzamento delle meraviglie meno eclatanti della natura (il verme che rompe il fango), di quelle più belle (lo sbocciare misericordioso della rosa). Chiede poi al vento di condividere la sua forza /Di ringhiare all’intolleranza saccente/ e di spalancare la porta cigolante della vita/ per finire con il vento compagno “crepitio e cenere”.

Sempre in vena dissacratoria, Bellanova rivolge le sue attenzioni a una delle vacche sacre della poesia italiana “L’infinito” di Leopardi, soffermandosi sul luogo fisico “compreso nel complesso immobiliare di proprietà della famiglia Leopardi a Recanati” (p.37). Si sostituisce, quindi, al Leopardi, identificandosi prima come capello solitario separatosi accidentalmente dai compagni poi come /… uomo solo, esile, /opaco grumo di bassezze e fegato/ slanci e salti/ ghiacciai eterni e cristalli/,  grugniti e porcili/ poi come /… rondine mai sola/ baffo portentoso di Monet /  Nella poesia di Leopardi il vento compare evocato esplicitamente a metà della composizione  /e come il vento/ odo stormir tra queste piante/ inducendo il poeta a una comparazione tra il suono provocato

 dall’azione del vento e l’assenza di suono del silenzio.  Anche nel componimento di Bellanova il vento appare a metà poesia, ma in maniera sinestetica, diventa lo spiffero di cielo sul collo che si trasforma in io narrante e, a differenza del dolce naufragare di Leopardi  nelle immensità spazio-temporali , lo trasporta verso le  considerazioni più amare della conclusione infarcite di termini presi in prestito da diverse liriche leopardiane e “scompigliate” a seconda necessità /all’uomo assorbito dal mio vagito/ rallento il cammino /nel labirinto sconosciuto della morte/.

La presenza del vento affiora con costanza nei componimenti, fino al termine della raccolta, talvolta perfino con nome specifico come il maestrale, ad esempio in “Olio blu” (39), e altre in accezioni più indistinte , ma sempre in funzione di scomposizione, come in “Sbuffi di galassia” (p.40) /Gli aghi di pini rattoppano i brandelli di azzurro/ scuciti dal vento/. Nella stessa poesia , il vento terrestre e il vento del fiato del corridore a un tratto, in un momento di grazia,  quasi come in varco montaliano incontrano il fiato della galassia, /L’orizzonte avaro apre i cancelli agli sbuffi di fiato/ della galassia, che avanzano sospirando verso di me./   / Spalanco le braccia / S’apre la vita./.  Nell’ultimo componimento della silloge, il vento si è trasformato ne “L’alito dell’Ade” (p. 64) e l’universo prova pietà  per /… i nostri cuori screpolati,/ marciti, vuoti, smarriti, intirizziti, sfregiati/,  interrati ancora pulsanti/ sotto le maschere del vivere nostro/, il sole accorre per alleviare la sofferenza con un suo raggio, ma incontra la resistenza  del fiotto della città morta e finisce per arrendersi, sdegnato.  Sebbene la raccolta poetica si chiuda su questa immagine disperata, nel discorso complessivo del poeta mi pare che esistano ancora dei margini di speranza, da ricercare, naturalmente nell’amore E’ sempre il vento, l’elemento dinamico che preannuncia il mutamento. Ciò accade ad esempio, con il ritorno del mattino dopo una notte insonne, nella poesia “Stelle”  (p. 60), in cui il poeta si attacca “ alle mascelle ossute del vento” e dopo una vana lotta  cercando di cadere nelle braccia di Morfeo, si ritrova nelle braccia del mattino /Amore i tuoi brillanti annunciano alfine il mattino/ mi accendono con la luce di quelle stelle cadute!/. Un promettente uscire a rivedere le stelle, al termine del purgatorio, guidato da Amore che move il sole e l’altre stelle.

Ho visto troppo

Ho visto troppi morti con le facce tutte uguali

raggrinzite e gialle

per preoccuparmi della morte.

 

Ho visto troppi padri e figli e amici e puttane

giocarsi la vita per una pioggia acida di banconote usate

per occuparmi di soldi.

 

Ho visto troppo poco amore,

seppellito da valanghe di melma inutile e invidiosa,

per non amare sempre con ogni cellula viva

e con ogni respiro strozzato.

 

I pipistrelli e la luna

Oh luna alta a tappo del nero inchiostro,

un boscaiolo gigante ti ha tranciato uno spicchio

e ora sanguini polvere di nebulose.

 

In faccia a te pipistrelli danzano,

hanno lasciato le caverne umide

dove guardano il mondo a testa in giù.

 

E’ più chiaro a loro il nostro destino

che a noi a testa alta e vana,

ricolmi di sguardi inutili e vuoti.

 

Le foglie secche rotolano mulinelli sul cemento

e graffiano il cuore,

sbriciolano le certezze del nulla.

 

Scrostano via l’estate

divorata quanto attesa;

bramata stagione di lieta inquietudine.

 

Fai piano

Fai piano luce,

fai piano a percuoterci col vento di ghiaccio,

spazza via il velo dai nostri occhi.

 

Ci ritroviamo nudi,

davanti alle lampade di una vetrina.

 

Manichini pietrificati dalla loro vanità senza fondo

ci mettono in guardia: non li possiamo sentire.

 

Le parole rimbalzano sorde sul vetro.

 

Il cuore è un campanaccio scosso dal freddo.

 

La vita e la morte s’accapigliano tra le pieghe del cappotto.

 

Cenere

Vento irriverente che spettini la primula

e insidi le sottane nere,

verginali turbamenti di monache,

portami via cellula dopo cellula.

 

Che possa abbracciare i poli e l’equatore,

che possa sorridere al verme che rompe il fango,

all’elefante che perdona ma non dimentica,

alla gazzella, cuore che salta nella polvere.

E sopra ad ogni cosa allo sbocciare misericordioso della rosa.

 

Dammi la forza di ringhiare all’intolleranza saccente

e di spalancare la porta cigolante della vita:

spazio finito, tempo di uno starnuto dell’universo.

 

Mentre dormo vegetando i giorni si allunga la mia collana

dei sogni inanellati l’uno nell’altro e poi nel prossimo,

senza risveglio apparente.

 

L’ultimo si spegnerà nella cenere, crepitio e cenere.

Solo la mia e la tua cenere confuse

terranno viva la fiamma ancora.

 

La siepe dell’Infinito [5]

Sono un capello solo, un capello antico,

esile,  luce nel tuorlo d’uovo del sole.

Eterno ondeggiare, ho smarrito il padrone

e i fratelli miei in corsa,

tra gli schiamazzi usati.

Dormo sul gelsomino in amore,

mi solletico sulla siepe dell’Infinito,

verde decomposizione.

 

Sono un uomo solo, esile,

opaco grumo di bassezze e fegato,

slanci e salti,

ghiacciai eterni e cristalli,

grugniti e porcili.

Eterno sopravvivere a un padrone invisibile,

dai mille nomi e dai mille travestimenti.

Mi lascio cullare dal nulla che va

e dal nulla che viene

attraverso la siepe dell’Infinito.

 

Sono una rondine mai sola,

baffo portentoso di Monet [6],

spiffero di cielo nel collo.

Pennello col cuore pazzo

le promesse d’amore eterno,

indifferente all’ingratitudine umana.

Vivo senza attendere la vita,

sospesa in alto sul muro

di pietre e lucertole dell’Infinito.

Non mi giovo del mio volare,

ma all’uomo assorbito dal mio vagito

rallento il cammino

nel labirinto sconosciuto della morte.

 

Sbuffi di galassia 

Se ne va la terra a galleggiare nell’infinito.

Se ne va l’uomo a fischiettare fuori di sé l’anima lieve.

 

La strada per il sole è lastricata

da cento orgasmi taciuti e intimi.

 

Gli aghi dei pini rattoppano i brandelli di azzurro

scuciti dal vento.

Ne fanno pigiami per le nubi sognatrici.

 

Incessanti, forsennati cadono gli aghi sfiniti

ai miei piedi veloci.

 

Le chiome delle felci aspergono l’ossigeno nel sangue

e spumeggia il passo lento.

 

L’orizzonte avaro apre i cancelli agli sbuffi di fiato

della galassia, che avanzano sospirando verso di me.

 

Spalanco le braccia

S’apre la vita.

 

L’alito dell’Ade

Si chiudono le porte della città dei morti.

 

Milioni di aliti insonni vagano per i campi,

inciampano nei fili d’erba,

si appigliano ai rami nudi

di un inverno latitante.

 

Fluiscono i sospiri dal regno dell’Ade tutt’attorno,

senza sosta e cancellano il tempo;

quanti abitanti mormorano laggiù.

 

Ammantano ipnotici le forme delle colline,

ne tagliano ogni curva

e riempiono le fosse

solo strati piani di verde

uniforme e infreddolito.

 

Le parole e le lacrime liberate da sotto terra

si condensano in gocce di latte.

Sono i dolori per i nostri cuori screpolati,

marciti, vuoti, smarriti, intirizziti, sfregiati,

interrati ancora pulsanti

sotto le maschere del vivere nostro.

 

Due raggi di sole inteneriti

provano a sciabolare luce,

luce sciancata, accieca per un istante

l’occhio ingrigito.

 

Presto si riaddensa imperturbabile

il fiotto dalla città morta.

Il sole indietreggia

si alza sdegnato per l’esilio forzato

e rinuncia alla lotta.

 

 

Stelle

Mi attacco alle mascelle ossute del vento.

 

La notte è un guscio di buio e ululati lontani,

polvere di foglie,  chele di ragno

e cristalli d’ali di mosca.

 

Letto sospeso tra le ondate degli spifferi

tremano i piedi di legno marciti.

 

Forte è il soffio che schioda dalla volta celeste

le stelle una a una

e precipita giù il diadema

Apocalisse,  Vergine, Regina.

 

Baritono, fiamma,

colonna d’aria ritorta,

mantice dalle viscere,

soffi e ti cali,

riprendi e ti gonfi.

 

Arresa è l’insonnia che trema.

 

Amore i tuoi  brillanti annunciano alfine il mattino;

mi accendono con la luce di quelle stelle cadute.

 

NOTE

[1] Zanarella, Michela,  Prefazione, A perdicuore –Versi scomposti e liberati, ArteMusa 2015, pp. 7-9; “Intervista di Michela Zanarella a Bartolomeo Bellanova”, oubliettemagazine, 24 novembre 2015 http://oubliettemagazine.com/2015/11/24/intervista-di-michela-zanarella-a-bartolomeo-bellanova-autore-di-a-perdicuore-versi-scomposti-e-liberati/.

[2] Piana, William, “Immersi nel mondo “A perdicuore”, Radio Città Fujiko, 8 ottobre 2015 http://www.radiocittafujiko.it/eventi/immersi-nel-mondo-a-perdicuore.

[3] Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Mitologia_sumera

[4] Margutte, “Il mondo del possibile, 30 dicembre 2014, http://www.margutte.com/?p=8763

[5] La siepe e il muro fanno riferimento al luogo fisico compreso nel complesso immobiliare di proprietà della famiglia Leopardi a Recanati.

[6] Claude Monet noto pittore francese (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 6 dicembre 1926), padre dell’impressionismo.

]]>
Gli eBook di Carmilla: Fuga, di Mauro Baldrati https://www.carmillaonline.com/2015/09/29/cambiami-post-presentazione-ebook-carmilla/ Mon, 28 Sep 2015 22:01:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25210 di Redazione

cover.ridCarmilla apre nuove strade, propone nuove letture, mentre offre nuove scritture. Contestualmente al sito infatti, accanto agli articoli, ai saggi, alle inchieste e ai testi letterari, abbiamo deciso di esplorare altri percorsi dell’editoria web. Raccoglieremo testi che, per la loro natura e il loro stile, hanno una carattere di consequenzialità, o di serialità, già pubblicati su Carmilla oppure parzialmente o totalmente inediti. Li “editeremo”, cioè li sottoporremo a un lavoro di revisione e adattamento, per farne dei testi che sviluppino alcune caratteristiche che qualificano Carmilla: [...]]]> di Redazione

cover.ridCarmilla apre nuove strade, propone nuove letture, mentre offre nuove scritture. Contestualmente al sito infatti, accanto agli articoli, ai saggi, alle inchieste e ai testi letterari, abbiamo deciso di esplorare altri percorsi dell’editoria web. Raccoglieremo testi che, per la loro natura e il loro stile, hanno una carattere di consequenzialità, o di serialità, già pubblicati su Carmilla oppure parzialmente o totalmente inediti. Li “editeremo”, cioè li sottoporremo a un lavoro di revisione e adattamento, per farne dei testi che sviluppino alcune caratteristiche che qualificano Carmilla: creatività, analisi politica, reportage, recensioni, e opposizione. Opposizione, attraverso diversi linguaggi, a un Pensiero Unico che, con la disinformazione, e la “coltura” di sentimenti bassi sta devastando l’immaginario di questo paese.

Saranno eBook da scaricare direttamente dal sito, gratuitamente secondo la licenza creative commons. Alcuni ritroveranno articoli o testi di narrativa già letti, talvolta in fretta, o parzialmente, in nuove versioni e con inserimenti inediti, che si potranno leggere sul pc o scaricare sul reader, oppure stampare, per chi preferisce questa modalità. Sarà quindi una integrazione del flusso di lettura che ogni giorno scorre sul sito, ma con sviluppi inediti e una ritrovata “lentezza”, oggi quanto mai utile per invertire il meccanismo perverso di consumo-spreco che, attraverso il continuo susseguirsi di annunci confusi e bugiardi, contribuisce a distruggere la riflessione e la volontà di cambiare il mondo.

Inauguriamo la serie con Fuga, del nostro redattore Mauro Baldrati, un thriller avventuroso di fantapolitica che, se corrisponde al vero la teoria di William Gibson secondo cui la fantascienza parla del presente, getta una luce nerissima e paradossale sul nostro tempo attuale. E’ un testo che nasce da cinque racconti pubblicati su Carmilla (e ripubblicati sul sito Una montagna di libri contro il TAV), che l’autore ha revisionato e collegato a una seconda parte inedita che ne fa un romanzo compiuto. Due militanti NO TAV, in fuga da una condanna a trent’anni per avere bruciato un compressore d’aria, attraversano un paese devastato dalla speculazione e dalla dittatura, braccati dagli sgherri del Partito Unico, il Partito Democratico, verso l’ultima forma possibile di resistenza, quella della battaglia e dell’amore.

Scarica l’ebook: Mauro Baldrati, Fuga, 2015 Carmilla Ebook epub , mobi , pdf.

]]>
Poveri cuori umani https://www.carmillaonline.com/2015/08/23/poveri-cuori-umani/ Sun, 23 Aug 2015 00:41:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24721 di Luca Baiada

Fucecchio«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano [...]]]> di Luca Baiada

Fucecchio«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano la Toscana coperti da una piramide di fiaschi. Ma forse non era lui, forse la ballata è nata da sé, fra i contadini e i cacciatori del Padule di Fucecchio.

Davvero, eran tutti innocenti, il 23 agosto 1944, quando i tedeschi, accompagnati da fascisti italiani, massacrarono 174 persone, compresi bambini piccolissimi. E innocenti non vuol dire ignavi. La questione dell’innocenza tornerà, si ripresenterà ogni volta che il tema sarà affrontato, dura e aguzza come una pietra. In realtà, fra i caduti c’erano un paio di partigiani, c’era una persona in contatto con gli Alleati, ce n’erano altre che aiutavano la Resistenza. Insieme morirono anche fascisti, di quelli senza importanza nell’apparato repubblichino, presi a caso. E poi c’erano tutti quelli che avevano disertato: militari, un poliziotto, un carabiniere, persone che la guerra aveva sospinto nelle sacche del conflitto, dove le ombre rendevano oscura la differenza fra militanza non armata e attendismo, ma dove per i tedeschi che occupavano l’Italia anche la non collaborazione coi burattini di Salò significava ostacolo e sabotaggio.

Su queste categorie, col loro portato di ambiguità e con le loro conseguenze storiche, giuridiche, morali, si giocheranno distinguo che non hanno mai smesso di produrre perplessità e frizioni. Se i morti sono combattenti, si rischia di giustificare la strage, di confonderla nel ribollire del sangue e della guerra. Se invece sono spettatori di un conflitto in cui non hanno preso posizione, il loro rifiuto di impegnarsi per Hitler e Mussolini, un rifiuto che per molti fu privo di connotazione partitica, e ricco invece di senno, di onestà, di bisogno di pace e lavoro dopo anni di dittatura, viene dimenticato: così, l’arma invisibile che impugnarono in un passaggio cruciale della storia del Novecento viene strappata dalle loro mani, condannandoli a sembrare imbelli, contro la loro volontà.

Qual è dunque la lettura giusta dei fatti? Le parole di una vecchia ballata aggirano il dilemma vittimacaduto, mettono da parte la scelta angusta fra innocenti e militanti, e rovesciano l’accusa di brigantaggio sui tedeschi: i malviventi, i Banditen sono loro. I morti, dice il barrocciaio, erano innocenti, eppure quell’accusa insistente – alle Partisanen, parole che echeggiarono sin da quel terribile 23 agosto a Fucecchio, come in altre zone di rastrellamenti e massacri nell’Italia occupata – non viene né smentita né ammessa. Ci sarebbe da congratularsi, con l’anonimo compositore, per il modo intelligente in cui affronta il tema, ma appunto non sappiamo neppure il suo nome. Conosciamo quello di Liduino Tofanelli, padulino tenace e appassionato – passionista, si dice in Valdinievole – che tanti anni fa mandò a memoria la gagliarda ballata, e quello dello storico Marco Folin, che la raccolse per iscritto negli anni Novanta. Ma l’autore, vai a cercarlo: vaga è la vita di un barrocciaio, oggi qui, domani là.

Il percorso tortuoso con cui la memoria – su questa e su altre stragi – si è avvitata e imbrigliata nelle suddivisioni e nelle regole vere o immaginarie, costituisce in fondo una deviazione, torva e rassegnata, verso la pretesa di mettere ordine, e verso una caduta di autostima, quindi verso una resa morale e un’accettazione della violenza. Si comincia a perdere quando si vuole essere impeccabili, e questo è un tranello con cui ogni vittima deve fare i conti. Ed ecco le leggende sugli avvisi di sfollamento e sulle delimitazioni delle aree vicine al fronte, ecco i miti sugli antefatti, sulle cause del massacro: la disinvoltura di una donna, l’uccisione di un tedesco, il furto di armi. Ecco la regola immaginaria dieci italiani per un tedesco, ecco il fantasma della rappresaglia. Insomma, tutti gli arnesi dell’autocolpevolizzazione e del giustificazionismo, che insidiosamente, tenacemente, nel corso dei decenni hanno finito per far accettare il sangue e l’impunità degli assassini.

Eppure era tutto così chiaro. La Valdinievole occupata, Pisa ancora sotto il fronte, a Firenze il centro liberato ma la periferia ancora in mano tedesca, la Linea gotica fortificata ma gli Alleati sempre più vicini. In quel tratto del Valdarno, il lato sinistro del fiume era già liberato, mentre sul lato destro c’era la 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, col generale Peter Eduard Crasemann. Dall’alba al pomeriggio del 23 agosto 1944, i tedeschi e alcuni fascisti girarono intorno al Padule di Fucecchio, la palude interna più vasta d’Italia, uccidendo soprattutto lungo i margini settentrionali e orientali. Non entrarono negli acquitrini, per non incontrare la formazione Silvano Fedi, e in questo modo dimostrarono come la distinzione fra partigiani e italiani fosse un imbroglio morale, una carta truccata: quando si trattava di uccidere, ogni italiano era un partigiano, anche se aveva quattro mesi come Maria Malucchi, però quando si trattava di combattere la differenza era chiara.

La limpidezza dei fatti è stata intorbidata da cattiva memoria, ancor più dall’incompleta realizzazione della democrazia in Italia, e in fondo da quella crisi dell’autostima che pesa sulle conquiste italiane dal Risorgimento a tutto il Novecento. Così, mentre la strage di Fucecchio supera anche il settantesimo anniversario, la mancata giustizia si continua a sentire. Pochi processi a ufficiali tedeschi, celebrati negli anni Quaranta, ma già all’inizio degli anni Cinquanta non ce n’è più neanche uno in carcere. Poi tutto a Roma, nell’armadio della vergogna, e infine un processo nel 2010-2012, con altri due militari condannati e mai estradati dalla Germania. I danni, mai risarciti. Lo Stato tedesco in un primo momento condannato a pagare, con acconti per quasi quindici milioni di euro, poi anche quel capo della condanna è stato revocato, dopo una pronuncia della Corte internazionale dell’Aia. La Germania si era rivolta all’Aia sin dal 2008 per non risarcire, e per offrire invece parole, parole, tante parole di riconciliazione, di perdono, e limitarsi a finanziare con poca spesa qualche iniziativa memoriale.

Sul piano penale, di recente c’è stata una novità, di quelle prevedibili: ad aprile 2015 un’autorità giudiziaria, in Baviera, ha negato l’esecuzione nei confronti del condannato ancora in vita, Johann Robert Riss. Su quello civile, però, c’è una bella pagina aperta: il Tribunale di Firenze, in processi civili contro la Germania, per altri casi di uccisione e deportazione, si è rivolto alla Corte costituzionale, che a ottobre 2014 ha fatto piazza pulita della decisione della Corte dell’Aia, e ha riaperto la strada alla possibilità di condannare lo Stato tedesco: «[Si deve] escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini». Forte di questa pronuncia, a luglio 2015 lo stesso Tribunale di Firenze ha nuovamente condannato la Germania per due casi di deportazione; c’è chi si domanda se sulla base di questi principi anche i superstiti, o i familiari delle vittime di Fucecchio, potrebbero tentare nuove strade. Che la Germania faccia di tutto per non pagare è ovvio, ma perché gli italiani dovrebbero rassegnarsi?

Chissà cosa direbbe il barrocciaio, quello della ballata, di fronte a tutto questo, lui che aveva attraversato la guerra, i bombardamenti e le stragi. Possiamo immaginarlo con uno di quei visi arguti, alla Yves Montand, attore originario della Valdinievole e costretto a crescere in Francia per sfuggire alla persecuzione fascista contro la sua famiglia. Eccolo, guarda un po’! Si avvia col suo carro, rinsaccato in una giacchetta di fustagno, un berretto calcato sugli occhi e un cane smilzo, è proprio Ivo Livi cresciuto a Marsiglia, ma canta in italiano: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia. / A raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò…».

]]>